IL VANGELO DI MATTEO,
UN RACCONTO PER GLI UOMINI
Premessa
Fin dal loro nascere i vangeli, nuovo genere letterario apparso nel corso del I secolo d.C. e inaugurato da Marco tra il 65 e il 70, sono sempre stati considerati solamente come testi sacri e come tali trattati e venerati.
Soltanto a partire dal XVIII e, in particolare, dal XIX sec., in epoca quindi immediatamente postilluministica e positivistica, essi furono analizzati come un testo letterario tout-court. L'intento era chiaramente aggressivo nei confronti della Chiesa e finalizzato a demitizzare la fede[1]. Ma l'aggressione spinse gli studiosi di parte cristiana ad affrontare sullo stesso piano gli aggressori[2].
Questo portò a scoprire un nuovo aspetto dei Vangeli e delle Scritture in genere: essi non erano soltanto testi sacri finalizzati ad alimentare la fede dei credenti e fondamento della vita stessa della Chiesa, ma incominciarono anche ad essere studiati da un punto di vista squisitamente letterario e storico-critico.
Ciò portò alla scoperta del mondo biblico e dello Sitz im Leben[3] in cui furono concepite le Scritture, profondamente caratterizzate dai tratti di quel mondo.
Si incominciò a capire che le Scritture non potevano essere lette e meditate a prescindere dal loro ambiente di formazione, ma che dovevano essere comprese proprio a partire dalla prospettiva di quest’ultimo[4].
Fu tra il 1919 e il 1921 che tre grandi teologi e studiosi, K.L. Schmidt, M. Dibelius e R. Bultmann, padri fondatori della Formegeschichte[5], si cimentarono con lo studio dei vangeli alla ricerca della figura del Gesù storico, arrivando tuttavia alla conclusione che essa è andata irrimediabilmente perduta. Ciò che si aveva tra le mani era soltanto il Gesù creduto: il Gesù della storia era stato trasformato dalla fede delle prime comunità credenti. I vangeli dunque non sono libri di storia o biografie, bensì testimonianze ed elaborazioni di fede nei confronti di un uomo che è stato percepito e creduto come Figlio di Dio e rivelazione del Padre.
Se da un lato la delusione fu grande - al punto tale che Albert Schweitzer, abbandonati gli studi della ricerca teologica, si dedicò ad opere umanitarie, ritrovando in tal modo nell'uomo sofferente il vero volto storico di quel Gesù che la storia gli aveva negato e che egli con grande e ammirevole dedizione ha servito - dall'altro lato tale studio non fu inutile, ma ci aprì alla conoscenza della vita delle prime comunità credenti e della formazione dei vangeli, mettendo in luce lo Sitz im Leben in cui essi nacquero e si formarono.
Intorno all'anno 1954 e in contrapposizione allo strapotere del metodo dello “studio delle forme” - il cui grosso limite fu quello di considerare gli evangelisti come degli oscuri e anonimi raccoglitori di unità letterarie variamente sparse presso le comunità, e di ritenere invece queste ultime le vere autrici - altri tre studiosi, H. Conzelman, W. Marxen[6] e G. Bornkamm, ebbero il grande merito di aver scoperto l'importanza degli evangelisti. Secondo le teorie di questi studiosi, note con il nome di Redaktionsgeschichte o Storia delle Redazioni, gli evangelisti non furono soltanto semplici raccoglitori, ma veri e propri redattori e autori dell'opera letteraria chiamata “vangelo”. Alla base di tale opera si trovano ardite e complesse architetture letterarie, che supportavano ed esprimevano il pensiero teologico degli evangelisti, elaborato a favore delle comunità credenti di cui erano probabilmente i responsabili. La finalità, dunque, era di tipo catechistico e pastorale.
I due metodi di ricerca teologica, storica e letteraria, ben lungi dal contrapporsi, sono tra loro complementari. In tale prospettiva, infatti, le varie unità letterari scoperte e messe in evidenza dalla Formegeschichte, diventarono la materia prima di una più ampia e complessa costruzione di architettura letteraria, scoperta dalla Redaktionsgeschichte.
Se i due metodi di ricerca sono ancor oggi validi e indispensabili per affrontare una seria esegesi, punto di partenza per l’elaborazione di una buona teologia, tuttavia essi non sono unici e tantomeno esclusivi.
Il mondo dell'esegesi infatti è ampio e prolifico di metodi e ben lungi dall'essere esaurito. Per farsene una rapida idea è sufficiente scorrere le pagine del documento redatto dalla Pontificia Commissione Biblica su "L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa"[7].
Di fatto ogni metodo esegetico può essere pensato come uno specifico punto di vista da cui osservare e considerare le Scritture, apportando di continuo nuovi arricchimenti alla comprensione di un mistero inesauribile e indefinibile i cui confini sono quelli dello stesso mondo divino.
Tra questi numerosi metodi di approccio ai Testi sacri si annovera anche quello narrativo, mutuato dalla narratologia, che affronta il racconto da un punto di vista scientifico e con tecniche proprie.
In tale prospettiva, anche i vangeli e gli Atti degli Apostoli, considerati da un punto di vista letterario, si presentano sotto la forma di racconto e pertanto si prestano ad essere letti e analizzati secondo le tecniche proprie della narratologia.
La narratologia considera il racconto come un modo di esprimersi dell'uomo e, in quanto tale, esso diventa ad essere un efficace ed avvincente strumento di comunicazione.
Tre sono gli elementi che agiscono in questa particolare dinamica comunicativa:
a) l'autore, che trasmette il proprio pensiero per mezzo del racconto;
b) il racconto che, attraverso un linguaggio letterario proprio, diventa singolare elemento di comunicazione;
c) il lettore, che è il destinatario e il punto terminale di ricezione del messaggio.
Affronteremo in questo breve scritto, a mo' di esercitazione e di sperimentazione di una tecnica abbastanza nuova, il vangelo di Matteo nei suoi tratti essenziali, senza volerne fare un’analisi esaustiva.
Di questo vangelo prenderemo in considerazione i personaggi, l'analisi narrativa nel suo svolgersi dinamico e infine la struttura della trama narrativa che percorre l'intero vangelo facendone un grande racconto di fede.
Va tenuto presente che questa nostra analisi non ha finalità puramente letterarie o di mero esercizio accademico, ma prevalentemente teologiche. In altri termini, attraverso uno studio dei personaggi, della trama e della dinamica del racconto, cercheremo di cogliere, seguendo i ritmi dell'intreccio, il messaggio che l'evangelista ha affidato ai suoi lettori.
IL MONDO DELL'UOMO NEL VANGELO DI MATTEO
Il vangelo di Matteo narra la storia di una singolare avventura che gli uomini del suo tempo sono stati chiamati a vivere. Una storia che si colloca all'interno di una precisa geografia, che spesso assume significati simbolici e che mira a mettere in luce la figura di un uomo, il quale, con il suo operare, ha scosso le coscienze di altri uomini, provocando reazioni contrastanti di ammirazione e di scandalo, di sequela e di rifiuto, di amore e di odio e diventando un elemento di divisione e di contrasto.
Un uomo che parlava con un'autorevolezza inusitata e sconosciuta; un uomo che rivaleggiava con Mosé, di cui si presentava, con tono quasi di sfida e, oserei dire, non senza una punta di arroganza e sfrontatezza, come l'autentico interprete; un uomo che ha osato sfidare il potere, rinfacciandogli le sue angherie verso il popolo e verso Dio, nonché la sua immoralità.
E’ un racconto avvincente, che vuole stimolare e spingere i lettori a prendere posizione di fronte a quest’uomo provocante e a compiere la loro scelta di vita: o con lui o contro di lui, senza mezze misure, poiché il tempo dei compromessi è ormai finito.
È una narrazione che insinua e fa comprendere che è giunto in mezzo agli uomini un tempo nuovo, che chiede loro di rapportarsi in modo nuovo con i propri simili e con Dio, poiché per loro è il tempo del giudizio, il tempo in cui saranno misurati in base alla loro scelta di fondo.
Il mondo di Matteo
Il mondo dipinto dal vangelo di Matteo è un luogo popolato da uomini, animali, piante, oggetti propri di ogni tempo e forse proprio per questo tale racconto assume una connotazione simbolica e universale atta a interpellare gli uomini di ogni epoca, di ogni latitudine, di ogni strato sociale e culturale, poiché quel mondo è anche il loro.
Non va infatti dimenticato che ogni racconto possiede in sé una carica simbolica e archetipica, poiché ogni racconto narra l'uomo e il suo mondo con cui ogni lettore è chiamato a confrontarsi e a misurarsi.
Queste realtà, inoltre, sono collocate in un ambiente che richiama un'antica società contadina, ma anche benestante e ricca, la cui dinamica ed economia si muovevano all'interno dei rapporti padrone-servo.
Quella di Matteo è inoltre una società tentata dalla ricchezza, che può intralciare, se non compromettere irrimediabilmente, l'accesso al nuovo mondo; una società in cui si tende a rivaleggiare e a tramare per ottenere i primi posti.
E' un mondo in cui si evidenziano le comuni immoralità degli uomini fatte di impudicizie, adulteri, tradimenti, imbrogli, turpiloqui, assasinii. Una società in cui la religione era prevalentemente sentita come uno strumento di prestigio personale e di orgoglio, in cui ogni addetto al culto si ritagliava la propria nicchia cercando un’affermazione personale e accumulando per sé privilegi sociali. Una religione in cui ormai ogni culto sincero a Dio era spento e si era trasformata in uno strumento di potere che schiacciava i più deboli e le persone religiosamente sensibili, a cui veniva imposto il giogo di osservanze che le classi del potere religioso ben si guardavano dallo sfiorare anche con un dito.
È in un tale scenario che, in un certo momento, un uomo alzò la sua voce contro questo mondo retto da un potere religioso corrotto e immorale e politicamente connivente con i pagani e gli iniqui, e, dopo averlo pubblicamente smascherato, propose un'alternativa: un nuovo mondo così come Dio, di cui egli rivendicava la sua figliolanza diretta, lo aveva da sempre pensato per l’uomo.
Proprio perché il mondo raccontatoci da Matteo è un mondo squisitamente umano voglio qui presentare degli elenchi di oggetti che lo caratterizzano e formano la materia prima di questa grande narrazione. Già la sola lettura di tali elenchi dà un’idea precisa dello scenario in cui si svolge la narrazione e di quali siano i personaggi che animano il racconto.
Per facilitare la lettura abbiamo raggruppato persone, oggetti, animali e vegetali in varie tipologie. Una pacata, attenta e riflessiva lettura di questi elenchi ci aiutano ad entrare nel mondo proprio del vangelo e del racconto matteano e scopriremo come questo mondo è sostanzialmente identico al nostro. Ciò ci spinge a pensare che i numerosi racconti che si muovono all’interno di un’unica grande trama non parlano di fatti o avvenimenti accaduti duemila anni or sono e molto lontani da noi, ma parlano del dramma dell’uomo di ogni tempo e luogo e creano quell’ambiente universale in cui ognuno si riconosce ed è invitato ad entrare, a farne parte, quasi come in un gioco di ruolo.
Lupi, Pecora, Serpenti, Colombe, Passeri, Vipere, Pesci, Uccelli, Cani, Asina, Puledro, Capri, Gallo, Gallina, Pulcini, Cammello, Moscerini, Locuste, Buoi, Porci, Spugna, Animali.
Canna, Spighe, Albero, Frutto, Seme, Radici, Spine, Zizzania, Grano, Messe, Senape, Legumi,Spine, Erba, Rami,
Fico, Foglie, Vigna, Siepe, Gigli, Rovi, Uva, Incenso, Mirra, Pagliuzza, Pula, Menta, Aneto, Cumino.
Testa, Capello, Volto, Occhio, Collo, Bocca, Denti, Cuore, Ventre, Mano, Ginocchio, Piede, Sangue, Carne.
Bastone, Ago-Cruna, Otri, Tromba, Bisaccia, Bastone, Amo, Vassoio, Sgabello, Ceste, Canestri, Tavola/o/i.
Cintura, Stoffa, Vesti, Tunica, Mantello, Manto, Sandali, Bisaccia.
Barca, Reti, Scure, Ventilabro, Frantoio, Giogo, Macina,
Strada, Via, Strada, Palazzo, Casa, Sala, Cortile, Villaggi,Sinagoghe,Tempio, Città, Fogna, Regno, Paese.
Terra-Terreno, Campo, Aia, Torre, Vigna
Pietra, Polvere, Spada, Bastone, Corona, Lucerna, Lucerniere.
Acqua, Vino, Pane, Aceto, Olio, Sale, Lievito, Miele, Farina.
Tempesta, Sole, Luna, Stelle, Nubi, Cielo/i, Pioggia, Venti, Fiumi, Mare, Onde, Acqua, Abissi, Fuoco, Deserto,
Monti.
Rame, Oro, Argento, Monete d’oro, d’argento e di Rame, Tesoro, Perla, Talenti, Ricchezza, Interessi, Bancari,
Denaro, Moggio.
I personaggi del vangelo di Matteo
Il vangelo di Matteo è percorso nei suoi ventotto capitoli da numerosi personaggi che ho raccolto in un lungo elenco e ho classificato in sei categorie. Alcuni di questi, come si potrà osservare dal numero posto a lato, sono ripetuti numerose volte e sono disseminati in tutto il vangelo. Tutti i personaggi, se osserviamo attentamente, hanno un'apparente vita propria, ma in realtà la loro presenza, il loro esserci non trova ragione in se stessi, ma sono in funzione di qualcun altro, che ne giustifica l'esistenza.
Infatti, ogni personaggio è posto in relazione, direttamente o indirettamente con una figura centrale che li sovrasta e funge da filo rosso conduttore che li lega tutti, catalizzandoli attorno a sé, e tutti li giustifica. Essa funziona da asse portante dell'intero racconto.
Man mano che essi prendono vita nello svolgersi del racconto, sono chiamati a confrontarsi e a misurarsi, in qualche modo, con Gesù. Avremo modo di vedere come questi sono figure emblematiche, direi quasi archetipiche, dell'umanità. Non è difficile, infatti, riconoscersi in talune di esse e vedere nel loro relazionarsi a Gesù e nella conduzione della loro vita, il palpitare dei ritmi della nostra.
Sta proprio qui la forza del racconto: nelle varie scene che si snocciolano in numerose sequenze davanti a noi, come in un avvincente film d'avventura, noi ne siamo sentimentalmente ed emotivamente coinvolti e inconsciamente, nei personaggi che le popolano con le loro vicende quotidiane, ritroviamo noi stessi e finiamo con il vivere i loro drammi e condividere o respingere le loro scelte di fronte all'uomo Gesù ... e il gioco è fatto perché, alla fine, ci rendiamo conto che quei personaggi non sono dissimili da noi, anzi, siamo noi e con le loro scelte ci interpellano e ci spingono a prendere posizione di fronte a quel Gesù, che in un determinato momento della loro esistenza hanno avuto l'avventura d'incontrare. Sono personaggi, quindi, che fungono da stimolo su di noi, scatenando in noi un inconscio processo di identificazione, così che noi incominciamo a vivere la loro stessa avventura, che non sentiamo più come estranea, ma incomincia a far parte di noi.
La funzione principale di questi personaggi è duplice: da un lato, dare consistenza alla dinamica del racconto; dall'altro mettere in luce, nelle sue varie sfaccettature e significati, la figura centrale del nostro personaggio fondamentale il cui nome, Gesù, ricorre espressamente all'interno del racconto ben 170 volte e a cui vengono attribuiti 16 titoli[8], che variamente lo qualificano di volta in volta, evidenziandone e significandone la complessa figura, lasciando trasparire dalla sua concretezza umana una inquietante luce divina.
Qui di seguito presento l'elenco dei personaggi rilevati nel racconto di Matteo, nella speranza di non averne tralasciato qualcuno.
I PERSONAGGI NEL VANGELO DI MATTEO
Maria, Giuseppe, Erode, Magi, Sacerdoti/e, Scribi, Farisei, Sadducei, Archelao, Giovanni Battista, Simone, Pietro,
Andrea, Giacomo, Zebedeo, Discepoli, Lebbroso, Centurione, Malati – Infermi, Indemoniati, Tormentati, Epilettici,
Paralitici, Suocera, Mandriani, Matteo, Pubblicani, Peccatori, Donna, Fanciulla, Fanciulli/o, Ciechi/o, Muto,
Apostoli (12), Piccoli, Servo/i, Madre, Padre, Fratelli, Sorelle, Giuda, Erodiade, Filippo, Cananea, Storpi-Zoppi,
Esattori, Bambini, Cambiavalute, Venditori, Ladroni, Anziani, Traditore, Caifa, Testimoni, Giudei, Governatore,
Barabba, Pilato, Soldati.
Gente, Folla, Popolo, Uomini, Chi, Tale, Uno, Tutti, Molti, Nazioni.
Spirito Santo, Angelo/i, Voce dal cielo, Maligno, Spiriti immondi, Diavolo, Satana, Demoni, Dio, Beelzebul, Padre.
(Dall'elenco sono esclusi quelli nominati nella genealogia)
Abramo, Davide, Isacco, Giacobbe, Mosé, Isaia, Geremia, Giona, Elia, Profeta/i, Rachele, Regina di Saba,
Salomone, Antichi, Messia, Daniele, Abele, Zaccaria, Barachia, Noè.
Flautisti, Samaritani, Operai, Padre, Figli, Fratello, Giusto, Niniviti, Eunuchi, Prossimo, Capi, Lattanti, Prostitute,
Cesare, Erodiani, Moglie, Marito, Poveri.
Governatore/i, Re, Messaggero, Giudice/i, Seminatore, Nemico, Padrone, Donna, Pescatori, Moglie, Aguzzini,
Lavoratori, Operai/o, Schiavi/o, Ladri/o, Vignaioli, Truppe, Assassini, Vedova, Vergini, Sposo, Pastore, Vasaio,
Banchieri, Ricco.
Complessivamente i personaggi sopra citati, che in vario modo abitano il racconto matteano, sono 142, di cui:
· 60 li potremmo definire come "personaggi attori nominati" con cui Gesù ebbe a che fare direttamente o indirettamente;
· 9 "attori anonimi";
· 11 personaggi "attori appartenenti al mondo sovraumano";
· 20 direttamente citati e "appartenenti al mondo veterotestamentario";
· 18 "citati solo occasionalmente";
· 24 "fittizi", appartenenti al mondo delle parabole.
All'interno di questi sei gruppi, si individuano altri sottogruppi:
Personaggi-attori nominati:
· Le parentele di Gesù
· I discepoli
· il potere politico-religioso
· Malati-indemoniati
· Figure del popolo
Personaggi attori anonimi
· Nomi collettivi
· Pronomi riferentisi a singole persone anonime
· Personaggi individuati con aggettivi sostantivati
Personaggi attori sovraumani
· Appartenenti al mondo divino
· Appartenenti al mondo avverso
Personaggi veterotestamentari
· Appartenenti al mondo dei patriarchi e della promessa
· Appartenenti al mondo dei profeti
· Altri diversi
Personaggi solo occasionalmente citati
· Appartenenti a varie categorie e strati sociali che riproducono il mondo dell'epoca
Personaggi fittizi
· Animano il mondo delle parabole e fotografano quello dell'epoca.
Cercheremo ora di incontrare alcuni di questi personaggi, cogliendoli così come Matteo ce li propone, senza porli sistematicamente a confronto con quelli degli altri evangelisti (anche se questa nostra limitazione non sarà sempre rigorosamente rispettata), poiché il nostro intento è quello di comprendere la dimensione che l'autore ha voluto dar loro, rilevandone la teologia e il messaggio sottostanti.
Questo è il gruppo più numeroso ed è composto da personaggi che in qualche modo hanno avuto a che fare direttamente o indirettamente con la persona di Gesù. Sono pertanto persone "vive", attori chiamati ad animare le sequenze del racconto del vangelo, mettendo in luce il grande protagonista della nostra storia, che qui non prenderemo in esame direttamente, poiché la sua figura verrà formandosi e modellandosi man mano che questi personaggi compariranno sulla scena. Saranno, quindi, loro a parlarci di Gesù, a delinearne la personalità e a sviluppare attorno a lui una loro particolare comprensione e teologia.
Lasciamoci allora condurre da loro in questa avventura.
la parentela di gesú
La parentela di Gesù, così come presentataci da Matteo, è composta dal padre Giuseppe, dalla madre Maria, dai fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Mt 13,55), da alcune sorelle (Mt 13,56), non nominate, e da Giovanni il battezzatore, parente di Gesù per mezzo di madre, nonché sua madre Elisabetta, parente a sua volta di Maria (Lc 1,36).
Tali legami parentali hanno come primo intento di radicare saldamente Gesù nella storia esaltandone l'umanità. Egli, ancor prima di essere Dio, è un uomo come tutti noi e l'impatto che ha con gli altri è quello di un uomo in mezzo agli uomini.
Infatti non a caso il racconto di Matteo inizia con una lunga genealogia scandita da quarantadue generazioni e annuncia "... Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abramo ..." (1,1). Gesù, quindi, viene presentato da un lato nella sua duplice veste di uomo (Gesù) e di inviato divino (Cristo, cioè colui che attua in sé le attese dell'umanità); dall'altro come il frutto maturo di una discendenza che si radica umanamente in Abramo e in Davide, che sono, però, anche i capisaldi della Promessa. Gesù, dunque, è colui che realizza in sé, storicamente, quella promessa che Dio ha legato ad Abramo e a Davide. Il vangelo di Matteo infatti è ampiamente cosparso da circa una quarantina di citazioni veterotestamentarie dirette, che puntualizzano, in modo quasi ossessivo, come Gesù sia il compimento di ogni promessa. Un concetto che Gesù stesso riprenderà e applicherà a sé in Mt 5,17 "Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge e i profeti; non sono venuto per abolire, ma per darne compimento"
Se confrontiamo, inoltre, le due genealogie, matteana e lucana, vediamo subito le diverse prospettive: Luca inizia la sua genealogia presentandoci Gesù come figlio di Giuseppe e, poi, via via, sempre più in su fino ad Adamo, "figlio di Dio". In tal modo, congiungendo gli estremi di questa genealogia, si avrà che "Gesù ... era figlio, come si credeva di Giuseppe", ma, alla fine di questo lungo percorso storico, compiuto a ritroso rispetto a quello di Matteo, si arriva a capire come egli, in realtà, è "figlio di Dio" (Lc 3,23.38b).
La prospettiva matteana è esattamente all'opposto: Matteo parte dalla storia della promessa, codificata nei due nomi chiave dell'intera storia della salvezza: Abramo e Davide[9]. Gesù è il loro discendente storico e, quindi, l'erede ultimo di quella promessa che, attraverso quarantadue generazioni, percorre ininterrottamente la storia dell'uomo e si attua storicamente e concretamente nella persona di Gesù, colto nella sua più radicata espressione e cornice storica: la famiglia. Non a caso la genealogia di Matteo termina con: "... Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato il Cristo" (Mt 1,16). Già in questo breve versetto vengono definite tre generazioni "Giacobbe", il nonno paterno di Gesù; "Giuseppe", che sottilmente non viene definito padre di Gesù, ma soltanto sposo di "Maria, dalla quale è nato Gesù". L'espressione greca dice: " ™x Âj ™genn»qh" (ex es egghenetze: dalla quale nacque). La particella "™x" sottolinea l'origine, la provenienza di Gesù. L'origine storica, quindi, è squisitamente umana e lo radica inscindibilmente e per sempre alla storia umana, condividendone tutti gli aspetti.
Paolo, con espressione cruda ma alquanto efficace, riporta nella sua lettera ai Galati una formula di fede, che deve aver appreso nel lungo periodo in cui visse presso le comunità di Antiochia, Damasco e Gerusalemme, tra il 36 e il 46 d.C. : "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge ..." (Gal 4,4). Anche qui, come in Matteo, si ripete la particella "ek", che dice la sorgente carnale e storica di Gesù.
Significativo poi è come gli altri leggono Gesù: "Non è forse lui il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?"(Mt 13,55-56a). Anche qui Gesù è colto nella sua cornice squisitamente storico-umana e viene definito dalle coordinate della parentela.
Certo, qui, abbiamo una visione meramente storica ed umana di Gesù, che Matteo fa subito capire essere del tutto insufficiente per raggiungerne la vera natura; mentre fa irritare Gesù per la pochezza di fede della sua gente, tant'è che "... non fece molti miracoli a causa della loro incredulità" (Mt 13,58).
La parentela di Gesù, dunque, funge da cornice storica in cui è incastonato l'uomo Gesù e lo tiene saldamente radicato all'umanità e alla sua storia; mentre la coordinata storica "Giuseppe", definito dall'angelo come "... figlio di Davide ..." (Mt 1,20), ci dà la conferma che Gesù è veramente di linea davidica e, quindi, tramite Giuseppe diviene l'erede e l'incarnazione delle promesse che Natan fece a Davide (1Cr 10b-15). Si tenga presente, infatti, che fino al 70 d.C. vigeva la patrilinearità; si era ebrei, quindi, per discendenza paterna. Solo dopo tale data, fino ai nostri giorni, l'ebraismo rabbinico puntò sulla matrilinearità.
La parentela di Gesù, tuttavia, non funge solo da ancoraggio storico, ma si pone incredibilmente in rotta di collisione con il suo stesso consanguineo, che il lettore sa essere quello più insigne. E Gesù, rinnegando il suo stesso sangue, la respinge: "Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse:<<Ecco, di fuori, tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti>>. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse:<<Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?>>. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse:<<Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre>>." (Mt 12,46-50). Quindi i parenti carnali di Gesù, compresa sua madre, sono quelli che "stanno di fuori in disparte". La parentela secondo la carne, dunque, è del tutto insufficiente per cogliere la vera dimensione di Gesù, che senza esitazione la disconosce e l'allontana da sé.
Con questa dura presa di posizione contro la parentela da parte di Gesù, Matteo sembra volerci dire che se la storia umana di Gesù è una componente fondamentale ed essenziale del suo essere, tuttavia essa è del tutto insufficiente e inadeguata per cogliere le realtà spirituali che la animano. Pertanto, si concluderà che vera madre e veri fratelli di Gesù sono soltanto coloro che si decidono esistenzialmente per lui.
Non a caso questo episodio si colloca a conclusione del capitolo 12, che è caratterizzato da una lunga diatriba che contrappone Gesù ai farisei. Oggetto del contendere è il sabato e la guarigione di un indemoniato. Lo scontro ha come leit motiv l'incredulità, da cui sono guariti soltanto coloro che seguono Gesù, cioè si rendono disponibili a lui.
E' necessario, qui, soffermarci un istante ed estendere il nostro sguardo ai capp. 11 e 12. I due capitoli sono tra loro paralleli e presentano una struttura convergente, e sono inclusi da due episodi che ne fanno un blocco unico, al cui centro si colloca la figura di Gesù, la cui sequela guarisce dall'incredulità e apre all'azione salvifica del Padre che opera in lui: 11,1-7 (Giovanni manda una delegazione di suoi discepoli per sapere se sia veramente lui "che deve venire"- Ð ™rcÒmenoj[10]- cioè il messia); e 12,46-50 (I parenti di Gesù "stando di fuori in disparte" gli vogliono parlare).
Lo schema dei due capitoli potrebbe essere così svolto:
A) Il Battista dubita che Gesù sia il messia (11,1-6)
- Intermezzo: elogio del Battista (11,7-15)
B) La generazione di Gesù non gli crede (11,16-19)
Rimprovero di Gesù all'incredulità delle città in cui egli ha operato (11,20-24)
C) La rivelazione è per i piccoli, che Gesù invita alla sequela (11,25-30)
- Intermezzo: diatriba sul sabato tra Gesù e i farisei (12,1-14) -
C') Gesù guarisce dall'incredulità coloro che lo seguono e senso del suo operare
(12,15-23)
B') Opposizione dei farisei all'operare di Gesù e loro incredulità (12,24-45)
A') I parenti di Gesù non gli credono e ne prendono le distanze (12,46-50)
Dallo schema sopra riportato vediamo come alle due estremità stanno i parenti di Gesù: Giovanni Battista (A), la madre di Gesù e i suoi fratelli (A’).
In A) vediamo il Battista dubitare che Gesù sia il messia atteso, poiché esso non corrisponde all'idea che di lui si era fatta. Infatti, dalla predicazione di Giovanni (Mt 3,7-12) appare la figura di un inviato di Dio terribile, terrificante e giustiziere: la sua scure è posta alle radici, chi non porta frutto verrà tagliato e gettato nel fuoco, egli avrà in mano il ventilabro e colpirà ogni impurità bruciandola nel fuoco, si compirà così il giudizio di Dio sugli uomini.
Completamente diverso da quanto invece ci viene detto di Gesù in C e C'.
In A') ci vengono presentati la madre di Gesù e i suoi fratelli dei quali, per ben due volte, Matteo dice che "stanno di fuori in disparte"; in altre parole, i familiari di Gesù hanno preso le distanze da lui, ritenendolo fuori di testa, precisazione questa che viene riportata sia da Marco in 3,21.31 che da Giovanni 7,5. La posizione di Gesù in Matteo, come in Marco (Mc 3,33), è di una durezza incredibile: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?" (Mt 12,48). Con questa domanda, solo apparentemente retorica, Gesù disconosce e respinge questo tipo di parentela carnale, che ha gli occhi ostruiti dall'incredulità e gli opera contro, ponendola al di fuori della sua sequela, e si apre, invece, ad un nuovo tipo di parentela, generata dalla fede e caratterizzata dalla sequela: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre" (Mt 12,49b-50).
Coloro che lo rifiutano pervicacemente pertanto si pongono fuori dalla linea della salvezza, perché "Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde" (Mt 12,30). Questa incredulità persistente e impenetrabile è definita da Gesù una bestemmia contro lo Spirito Santo e non sarà perdonata (Mt 12,31), non perché Dio sia vendicativo, ma perché l'uomo non si rende disponibile all'azione salvifica in atto.
Anche la parentela secondo la carne, in cui (e ciò è impressionante) è compresa anche sua madre, è esclusa dal progetto di salvezza. E che questa sia la linea di Gesù ce lo ricordano concordemente Matteo in 16,23 e Marco in 8,33 nell’episodio in cui Pietro si oppone ad una visione del messia sofferente. Gesù lo redarguisce duramente: "Lungi da me satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini" (Mt 16,23). Pietro, dunque, è respinto da Gesù perché si muove su di una linea umana e per questo è definito "satana". E a nulla sono valse le parole di elogio e di elezione che Gesù aveva rivolto poco prima a Pietro (Mt 16,17-19).
Nessuna elezione e nessun privilegio, per quanto grande, può salvare l'uomo se questi si pone in rotta di collisione con Gesù.
Vediamo, ora, da vicino i personaggi che costituiscono la parentela umana di Gesù.
Nel vangelo di Matteo la figura di Giuseppe è citata complessivamente, sotto vari titoli (Giuseppe, padre, carpentiere), dieci volte, contro le nove di Luca e le due di Giovanni. Marco non ne fa alcun accenno.
In nessuno degli evangelisti Giuseppe parla, ma si limita ad agire. E' comunque Matteo che ne offre una figura più completa. Di lui sappiamo che è figlio di Giacobbe, mentre Luca ne assegna la paternità ad Eli; è sposo di Maria; è un uomo giusto; di discendenza davidica; non ribatte mai alle ingiunzioni divine, né chiede spiegazioni; esegue pedissequamente, fedelmente e in silenzio gli ordini ricevuti dal cielo; di professione è carpentiere. Il suo nome appare quasi sempre in associazione a quello di Maria, sua sposa.
In Luca la figura di Giuseppe è del tutto marginale e funzionale, o forse è meglio dire strumentale, e non ha vita propria. Essa è utilizzata dall'evangelista solo per mettere in evidenza quella di Gesù e definirne alcuni tratti fondamentali.
Di Giuseppe Luca dice che è della casa di Davide (Lc 1,27), assicurando, pertanto, per patrilinearità, la discendenza davidica anche a Gesù, indicandolo, in tal modo, come colui che realizza e dà concretezza storica alle profezie-promesse che Natan fece a Davide. Dal casato di Davide, infatti, ci si aspettava la venuta del messia.
Lo fa poi salire "in Giudea alla città di Davide, Betlemme" (Lc 2,4), sbagliando direzione geografica, perché dalla Galilea non si può che scendere verso la Giudea. Qui, infatti, nascerà Gesù, colto come un novello Davide, il nuovo re d'Israele, che attua in sé le promesse. Riparte ex novo, quindi, la storia della salvezza, rilanciata da Gesù.
Giuseppe, poi, viene colto con Maria e Gesù nella grotta di Betlemme dai pastori (Lc 2,16). L'immagine che qui Luca ci offre è di un commovente quadretto familiare, che funge da cornice storica a Gesù.
La sua figura, posta accanto a quella di Gesù, garantisce davanti agli uomini la normalità della dimensione umana di Gesù e la qualifica, come abbiamo appena visto, teologicamente, anche se Luca ci tiene a dire, a scanso di equivoci, che Gesù "era figlio, come si credeva, di Giuseppe" (Lc 3,23).
Ma ecco che Luca, forse accortosi della scarsa consistenza umana di questo suo personaggio, che potremmo definire "di carta", lo colora con qualche sbiadito sentimento di stupore di fronte alle "cose che si dicevano di lui" (Lc 2,33) e di angosciosa ricerca di un Gesù smarrito: "Ecco, tuo padre ed io angosciati, ti cercavamo" (Lc 2,48); ma anche di incomprensione di fronte alle stranezze-mistero del figlio: "Ma essi non compresero le sue parole" (Lc 2,50).
Quanto al Giuseppe dell'evangelista Giovanni esso è percepito e proposto, tout-court, solo come l'ancoramento storico di Gesù: "Filippo incontrò Natanaele e gli disse:<<Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosé nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe>>" (Gv 1,45). E ancora: "E dicevano:<<Costui non è forse Gesù, figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può, dunque, dire: Sono disceso dal cielo?>>" (Gv 6,42)
Più interessante, umana e teologicamente carica è la figura di Giuseppe offertaci da Matteo. Esso ci viene presentato come figlio di Giacobbe (Mt 1,16), mentre Luca ne affida la paternità, come sopra ricordato, ad Eli (Lc 3,23).
La diversa ascendenza assegnata a Gesù dai due evangelisti può essere semplicemente dovuta ai diversi svarioni di tipo storico-geografici che caratterizzano il vangelo di Luca; o, più semplicemente, dovuta al fatto che le due genealogie sono inventate e pertanto i due diversi nomi del nonno paterno di Gesù potrebbero assumere, come di fatto assumono a mio avviso, un profondo significato biblico-teologico.
Assegnando la paternità di Giuseppe ad Eli, Luca ci richiama alla memoria quell'unico Eli di cui ci parla l'Antico Testamento e che viene legato all'evento prodigioso della nascita di Samuele.
Le vicende di Anna, madre di Samuele, e del sacerdote Eli sono presentate e intrecciate assieme in 1Sam 1,1-28.
Anna soffre di sterilità, va al tempio, prega il Signore assistita e accompagnata nel suo incontro spirituale con Dio da Eli e un anno dopo nasce un bambino, che Anna aveva già consacrato in cuor suo al Signore prima ancora di concepirlo. Una consacrazione che si attua affidando il fanciullo alle cure di Eli, che ne diventa una sorta di padre spirituale.
E' questo un racconto che obbedisce allo schema delle nascite prodigiose: una donna, impossibilitata fisicamente ad avere un figlio, lo ottiene grazie all'intervento di Dio, che viene a lui consacrato e di cui Dio, poi, si serve per portare avanti il suo progetto di salvezza.
Lo schema si ripete anche in Luca: con l'agganciare la figura di Giuseppe ad Eli, viene in qualche modo richiamata la nascita prodigiosa di Samuele e la sua consacrazione esistenziale al Signore. Anche Giuseppe come Eli è soltanto un padre spirituale, che ha il compito di accompagnare il suo figlio putativo lungo il cammino del disegno divino.
Anche Giuseppe avrà prodigiosamente da Maria un figlio che "... Sarà grande e chiamato figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà mai fine ... colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato figlio di Dio" (Lc 1,32-33.35b). Un figlio consacrato al Signore ancor prima del suo concepimento e il suo destino è già segnato e incluso interamente nel suo nome: "Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù" (Lc 1,31), cioè "Dio salva".
Luca pertanto si serve dello schema dei racconti di nascite prodigiose: una donna che non può avere figli perché "non conosce uomo", ma ciononostante essa concepirà e partorirà grazie all'intervento divino e chi nascerà è consacrato al Signore fin dal suo concepimento, anzi ancor prima, e sarà lo strumento di salvezza di Dio in mezzo agli uomini.
Non si possono non notare i parallelismi tra le due nascite prodigiose di Samuele e Gesù, proprio perché lo schema narrativo è unico. Ciò, dunque, ci induce a pensare che il legame tra Giuseppe ed Eli non sia casuale.
Matteo, invece, lega la paternità di Giuseppe a Giacobbe.
Anche in questo caso non può dirsi storicamente certa la discendenza di Gesù. Le due genealogie, infatti, sono troppo cariche teologicamente e simbolicamente per affidare loro una funzione meramente storica e documentaristica.
Ciò che attrae la nostra attenzione sono i due nomi posti l'uno accanto all'altro: "Giacobbe generò Giuseppe" (Mt 1,16).
Nel suo racconto della storia dei patriarchi la Genesi ci presenta Giacobbe come padre di Giuseppe, suo figlio prediletto: "Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli ..." (Gen 37,3). Fu proprio questo suo figlio, dopo un cammino avventuroso e incredibile, a divenire vicerè dell'Egitto (Gen 41,41). Grazie alla sua autorità e alla grande benevolenza acquisita presso il faraone, Giuseppe ottiene che suo padre e i suoi fratelli dimorino stabilmente in Egitto (Gen 47,11).
In apertura, il libro dell'Esodo, riprendendo il racconto di Genesi, ci dà l'elenco dei fratelli di Giuseppe che, insieme al padre Giacobbe, entrarono in Egitto e vi si stabilirono (Es 1,1-4). Qui prolificarono grandemente e divennero potenti: un popolo in seno ad un altro popolo (Es 1,7) al punto tale che il nuovo faraone ne ebbe paura e ne ordinò lo sterminio (Es 1,8-11).
Ma Dio vegliava sul suo popolo e mandò Mosé a liberarlo dalla sua schiavitù e lo costituì ai piedi del Sinai sua proprietà, regno di sacerdoti e nazione santa; un popolo al servizio di Dio (Es 19,5-6).
Fatta questa breve premessa storica e con riferimento ad essa, vediamo, ora, come la citazione dei due nomi di Giacobbe e Giuseppe quali parenti diretti di Gesù non sia casuale, ma sembra volersi rifare proprio alla travagliata storia di Israele, legando Gesù alle sfortunate vicende del suo popolo, facendone un principio innovatore e liberatore. Infatti, non a caso Matteo riporta l'episodio della fuga in Egitto di Gesù, leggendola, poi, in chiave veterotestamentaria: "Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (Mt 2,14-15).
Come lo storico Israele fu portato in Egitto da Giuseppe, figlio di Giacobbe, da dove poi Dio lo chiamò al suo servizio, così anche in Matteo Gesù, quale nuovo Israele, viene portato in Egitto da Giuseppe, per poi esserne richiamato. La citazione di Osea fatta da Matteo su questo episodio è alquanto significativa: "Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto io ho chiamato mio figlio" (Os 11,1). Tutto ciò significa che Matteo ha voluto dare a Gesù anche questo significato: in Gesù viene ripresa la storia d'Israele e lui, Gesù, la rivive secondo le logiche di Dio; lui è il vero Israele così come pensato da Dio; è lui che Dio ha chiamato per farne sua proprietà, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6).
Pertanto, lette accanto a questo episodio carico di significato, dato dallo stesso Matteo, le due figure di Giacobbe e Giuseppe acquistano, più che una valenza di discendenza genealogica, un peso teologico: la storia di quell'Israele viene ripresa e continua ora nel nuovo Israele-Gesù, in cui l'evangelista vede attuarsi la profezia di Osea.
Come si vede nell'ambito del racconto e del suo svolgersi ogni figura assume significati specifici e funzionali alla figura principale, la cui dimensione emerge lentamente, man mano che i personaggi di contorno compaiono sulla scena.
Non ha senso, quindi, in tale prospettiva, interrogarsi sul valore storico di quanto ci viene presentato, poiché siamo nell'ambito di un racconto, la cui narrazione diventa strumento di comunicazione del pensiero teologico che l'autore ci propone, mentre i personaggi, abilmente strutturati e manipolati, diventano latori del messaggio del loro creatore.
Posta in questa cornice, quindi, non crea più problema la duplice paternità di Giuseppe, propostaci da Luca e da Matteo, poiché essa va letta in funzione di quello che pensano gli autori.
Matteo poi presenta Giuseppe come sposo di Maria. L'appellativo di sposo, riferito a Giuseppe ricorre in Matteo due volte; mentre Maria, di contro, è chiamata sposa di Giuseppe per altre due volte e "promessa sposa" una volta.
Ma è proprio quest’ultima definizione che ci illumina sul reale stato giuridico di Giuseppe nei confronti di Maria, da cui poi derivano e si comprendono le sue perplessità.
Giuseppe, dunque, non è vero sposo come noi oggi lo intendiamo, ma soltanto "fidanzato" di Maria, benché il valore giuridico nell'ambito del diritto ebraico dell'epoca fosse equivalente. L'unica distinzione tra fidanzamento e matrimonio era lo stato di convivenza o meno. I figli che nascevano in questo periodo di "fidanzamento" erano considerati legittimi e non davano nessun problema da un punto di vista sociale o morale. Pertanto, rompere un fidanzamento equivaleva a divorziare e, quindi, comportava l'obbligo del "promesso sposo" di dare il libello, o atto di ripudio alla moglie. Una questione, questa, che verrà, poi, ripresa nel corso del vangelo dallo stesso Gesù, che ne contesta la liceità[11] (Mt 19,3-9).
La sottolineatura che Giuseppe è "sposo" di Maria assolve ad una triplice funzione: definire il tipo di rapporto che intercorreva tra i due; dare un cornice di legalità al concepimento e nascita di Gesù; infine giustificare lo sdegno di Giuseppe che, seppur in modo elegante, vuole disfarsi di Maria. E chi non lo farebbe? La Legge è dalla sua. Ma il lettore è stato messo al corrente dei fatti e spera in cuor suo che Giuseppe non faccia colpi di testa; anzi dovrebbe sentirsi privilegiato per quanto gli sta accadendo.
Ed ecco che il deus ex machina, l'angelo, risolve il comprensibile imbarazzo di quest'uomo e ne fa, suo malgrado, un silenzioso e fedele esecutore di ordini divini. Giuseppe non s'interroga, non protesta, non chiede spiegazioni né istruzioni sul da farsi, non si pone problemi sul cosa dirà la gente. Insomma, tutto ciò non è umano né normale. Ma a Matteo non interessa raccontarci un romanzo rosa con note di scabrosità. Questo persistente silenzio di Giuseppe che "a comando, esegue con fedele precisione" assomiglia più che altro ad un suo sottomettersi alla mano divina della Providenza che guida l'uomo secondo i suoi piani.
In questo contesto, carico di suspence, Giuseppe viene definito come "uomo giusto" (Mt 1,19). Non è chiaro cosa intenda Matteo con questa espressione. Non va certo intesa in senso giuridico, poiché le intenzioni di Giuseppe di non voler ripudiare ufficialmente Maria, ma rispedirla a casa in segreto non era certo conforme alla Legge, che prevedeva l'atto pubblico del ripudio. Se Giuseppe avesse attuato i suoi piani avrebbe di certo commesso un grave atto di ingiustizia nei confronti di Maria, che vincolata a Giuseppe non avrebbe più potuto ricostruirsi una propria vita e beneficiare della tutela della legge. E così pure Giuseppe sarebbe rimasto vincolato a Maria. Da un punto di vista sociale, poi, come avrebbe giustificato Giuseppe il suo ripudio di fatto della sua promessa? Sarebbe apparso veramente giusto? Come avrebbe, poi, spiegato il figlio che Maria avrebbe partorito? Giuseppe si sarebbe coperto di ridicolo e non si sarebbero capiti i rapporti tra i due. Gesù, poi, sarebbe stato colto come il frutto del peccato e Maria condannata dalla Legge alla lapidazione. Insomma, un bel guazzabuglio.
Il termine "giusto", pertanto, deve essere riferito non ai propositi di Giuseppe, ma alla sua piena disponibilità e puntuale collaborazione al piano divino, di cui diventa un fedele e silenzioso esecutore. Giusto, dunque, perché si è conformato alla volontà di Dio, ponendo la sua vita a disposizione e a servizio dei progetti divini.
Personaggio molto umano, è la figura di Maria, di cui tutti quattro gli evangelisti parlano.
Di essa ci occuperemo solo per quanto ci offrono Matteo e gli altri evangelisti, prescindendo necessariamente dalla restante letteratura neotestamentaria canonica e dalla ricca riflessione teologica, dottrinale e artistico-letteraria sviluppatasi, in particolar modo, dal quarto secolo in poi.
Con tale nome, Maria, appare cinque volte in Matteo, una volta in Marco, ben dodici volte in Luca, nessuna in Giovanni e una volta negli Atti degli Apostoli (At 1,14).
Essa, inoltre, è variamente definita come promessa sposa (due volte: una in Matteo e una in Luca) e sposa (tre volte: due volte in Matteo e una in Luca), come vergine (due volte, solo in Luca. In Matteo il termine viene riportato una sola volta in citazione di una profezia di Isaia 7,14), madre (trenta volte: dieci volte in Matteo, tre volte in Marco, sette volte in Luca, nove volte in Giovanni, una volta negli Atti), donna (tre volte, solo in Gv e in Galati) serva (due volte, solo in Luca) e piena di grazia (una volta, solo in Luca).
Una simile varietà di titoli costituisce una ricchezza unica, che la comunità credente primitiva ci ha consegnato e che meriterebbe un attento approfondimento, ma che ci svierebbe dal nostro intento. Ci limiteremo, pertanto, a riportare la figura di Maria così come presentataci da Matteo, cercando di cogliere il suo punto di vista su questo personaggio singolare.
Il nome Maria compare per la prima volta in Matteo in 1,16: "Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato il Cristo". Il quadretto, che l'evangelista qui ci presenta, costituisce la cornice storica di Gesù e con una pennellata essenziale definisce i rapporti familiari che si intrecciano attorno a lui.
Tra i quattro personaggi citati vediamo emergere centralmente la figura di Maria: da un lato essa è qualificata nel suo rapporto con Giuseppe come sua sposa, dall'altro è presentata come genitrice di Gesù. L'espressione greca "™x Âj ™genn»qh'Ihsoàj"[12] denota l'origine originante, la fonte primaria da cui (™x Âj) sgorga (™genn»qh) e si incardina storicamente Gesù.
Ancor prima di definire Gesù come Dio e, quindi, proveniente da Dio e appartenente al suo mondo, Matteo si preoccupa di fornire a Gesù una sua cornice e origine storiche, radicandolo saldamente all'umanità e alla sua storia. La genealogia matteana (Mt 1,1-17) svolge anche questa funzione. Infatti, considerata la labilità e la secondarietà della figura di Giuseppe, che compare sempre come personaggio esterno e di supporto al rapporto Maria-Gesù (Mt 2,11.13.14.20.21), che invece formano tra loro un binomio inscindibile, Matteo, e con lui l'intera letteratura neotestamentaria canonica, vedono Maria prevalentemente come "madre" e insistono su questo concetto, poiché essa è l'unico ancoraggio storico e umano di Gesù, che lo toglie dal mondo fantastico della mitologia, in cui potrebbe essere relegato in virtù della sua nascita straordinaria, proveniente dal mondo divino. Non va dimenticato, infatti, che la cultura ellenistica dell'epoca era popolata di divinità e di nascite divine e ciò poteva facilmente indurre a comprensioni distorte della figura di Gesù, come avverrà, in seguito, con il docetismo.
L'insistenza sul binomio Maria-Gesù è immediatamente comprensibile se prendiamo in esame il v.1,18: "Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: “sua madre Maria, essendo promessa sposa a Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo".
Il versetto ha un ritmo squisitamente narrativo e informativo. Matteo, dopo aver fatto la premessa sull'origine storica di Gesù (v.16), ora ne presenta l'origine divina. Le due origini sono tra loro parallele ed evidenziate dalla stessa struttura grammaticale: "™x Âj ™genn»qh'Ihsoàj" (ex es eghenezze Iesus) e "™k pneÚmatoj ¡g…ou". (ek pneumatos aghiu: dallo Spirito Santo). Inoltre, i termini tra loro accostati "Gesù Cristo" preannunciano la doppia discendenza di Gesù e l'intrecciarsi tra loro delle due nature in un'unica persona, così che Gesù diventa il punto di convergenza di un duplice intervento: umano e divino.
Gesù pertanto non può essere collocato nel mondo della mitologia, poiché le sue radici sono umane e storiche; né ci si può accostare a lui come un semplice uomo, poiché in lui è incarnata la dimensione divina. Gesù, dunque, è il frutto di un connubio storico-umano e divino. E' il punto d'incontro di due realtà e di due dimensioni fino ad allora tra loro inconiugabili e irriducibili, anzi, nemiche. Anzi nell’incarnazione di Gesù si ha la prima riconciliazione tra Dio e l’umanità.
Il v.1,18 si apre presentando il tema del racconto, che occuperà lo spazio di circa due capitoli 1,18-2,23: "Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo". Si parlerà, dunque, della nascita di un uomo che ha anche addentellati profondi con il mondo di Dio. Fin dall'inizio Matteo costruisce lentamente e solidamente la carta d'identità di quest'uomo che diverrà, poi, l'attore principale del suo racconto, ponendo qui le basi per una sua corretta lettura e comprensione.
Il racconto inizia subito con una precisazione che denuncia tutta la preoccupazione dell'evangelista: "sua madre Maria". Matteo torna, quindi, sul concetto di Gesù vero uomo, agganciato inscindibilmente alla storia per mezzo di Maria. Pone questa premessa perché fra poche righe dovrà presentare la provenienza divina del suo personaggio principale. Non vuole, quindi che ci siano dubbi o incertezze su di lui. Per cui ecco ricordare nuovamente Maria, una figura che si colloca concretamente nella storia ed è presentata qui subito come "madre", cioè come sorgente storica primaria di Gesù: "™x Âj ™genn»qh'Ihsoàj ".
La preoccupazione nasce dal fatto che Giuseppe sembra essere tagliato fuori dal ciclo riproduttivo proprio degli uomini ("prima che andassero a vivere assieme") e, quindi, potrebbe nascere il sospetto che Gesù non sia un vero e proprio uomo, ma un semidio, una specie di demiurgo o un uomo apparente. Il mondo della mitologia greco-romana, come abbiamo sopra accennato, era riccamente popolato da questi personaggi.
Ed ecco, finalmente, dopo una corposa e preoccupata premessa sulla consistenza umana e storica di Gesù, in cui viene visto il realizzarsi delle Scritture, l'evangelista ci svela l'altra fonte da cui sgorga Gesù: "™k pneÚmatoj ¡g…ou" (ek pneumatos aghiu: dallo Spirito Santo)[13].
Mi pare evidente che Matteo nel suo racconto abbia una duplice preoccupazione: affermare la consistenza storica e umana di Gesù, in cui Maria assolve un ruolo primario ed esclusivo, da un lato; dall'altro evidenziare come quest'uomo, storicamente ben inquadrato, non è semplicemente tale, ma in lui vive e palpita anche un'altra natura: quella divina, che non solo lo fa pari a Dio, ma ne indica anche la provenienza e l'appartenenza.
Insomma, Gesù, in quanto uomo, ha come origine storico-umana Maria-madre; e come Dio ha una paternità squisitamente divina. In tal modo Maria può anche essere definita e compresa come vera madre di Dio, nel senso che essa Lo generò nella storia.
A questo punto si può ben capire perché Matteo nel suo racconto esclude dal ciclo riproduttivo Giuseppe: per evitare una doppia paternità, che nella mente concreta del semita difficilmente sarebbe stata compresa e avrebbe di certo creato confusione. In tal senso è significativo l'imbarazzo e la perplessità che la risposta di Gesù ha provocato in Maria e Giuseppe quando questi, nel vangelo di Luca, rimproverarono Gesù per essersi allontanato dal gruppo dei pellegrini: "Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del padre mio?" (Lc 2,49). E commenta l'evangelista: "Ma essi non compresero le sue parole" (Lc 2,50). Infatti, di quale padre parlava Gesù, considerato che il suo, Giuseppe, era lì presente? Di quali affari paterni, poi, doveva occuparsi un ragazzino di appena dodici/tredici anni? Come si vede una doppia paternità crea confusione agli stessi protagonisti del racconto. Una è più che sufficiente.
Ma Matteo doveva anche dire che quell'uomo non era semplicemente un uomo, che la sua provenienza è divina e che il suo nascere, il suo esserci non è frutto di una decisione umana, ma rientra in un progetto divino, da cui egli scaturisce. Ecco, quindi, la necessità per Matteo di togliere dal suo racconto la paternità umana di Gesù, per agganciarla a quella divina, ma, nel contempo, radicando strettamente Gesù a Maria, che formano un binomio inseparabile, per assicurargli anche la dimensione storico-umana.
Non c'è da stupirsi per questo rimestamento della storia; per questa imbastitura tra umano e divino, poiché l'ebreo era abituato a leggere in senso teologico la storia; era abituato a vedere nell'accadere degli avvenimenti e della storia il costante intervento divino. Una storia, quindi, che era campo d'azione sia dell'uomo che di Dio, in cui l'uomo era chiamato a collaborare con Dio alla realizzazione del suo progetto creativo e di salvezza.
Questo escamotage, inoltre, consentiva all'evangelista di vedere in questo strano concepimento l'avverarsi della profezia di Isaia 7,14, che egli stesso riporta in 1,23: "Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato l'Emmanuele". Qui il termine "vergine" non ha valore di donna "fisicamente integra", ma di giovane ragazza da marito. Vergine, quindi, esprimeva uno stato sociale e una condizione di vita e, nel caso della citazione, diveniva un titolo distintivo e nobiliare che indicava la moglie del re.
Ma forse a Matteo, più che sottolineare la verginità interessava definire Gesù come l'Emmanuele, cioè il Dio con noi. L'evangelista, infatti, vede Gesù inserito nell'ambito della storia della salvezza che ha, secondo la genealogia matteana, due capisaldi: Abramo e Davide dai quali Matteo fa discendere Gesù quale realizzazione storica delle promesse divine ad essi fatte. Gesù, dunque, è il Dio che cammina in mezzo all'umanità e ne ha condiviso le sorti.
E che Matteo non avesse intenzione di testimoniare o proclamare la verginità di Maria lo si può evincere anche dal v. 1,25: "kaˆ oÙk ™g…nwsken aÙt¾n ›wj oá œteken uƒÒn" (kai uk eghinosken auten eos u eteken uion) che viene tradotto dalla "CEI" : "la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio", piegando in tal modo la traduzione alla dottrina sulla verginità di Maria. Il testo, invece, letteralmente così dice: "e non la conobbe finché non partorì il figlio", lasciando intendere che dopo il parto Giuseppe la conobbe o, comunque, avrebbe potuto farlo.
Se l'evangelista avesse avuto come intento la difesa dell'integrità fisica di Maria non si sarebbe di certo esposto ad un'espressione così equivoca. Ma evidentemente i suoi intenti erano di ben diversa natura.
A Matteo, inoltre, sembra interessare in particolar modo l'origine divina di Gesù e ciò lo ottiene escludendo dal ciclo naturale il concepimento umano di Gesù, che invece ci viene presentato come il frutto di un progetto divino.
Sia ben chiaro che tutto ciò non intende andare contro il dogma della verginità di Maria, che qui rispettiamo e accettiamo integralmente come dato di fede, ma non si può fondare la verginità di Maria sulle informazioni forniteci dagli evangelisti (Matteo e Luca) i cui intenti erano di tutt'altra natura, anche perché la verginità nel mondo giudaico (e Matteo è un giudeo che scrive a dei giudei) non era per niente ben vista e la si riteneva, alla pari della sterilità, come una sorta di maledizione divina, un andare contro natura e certamente una violazione al comando divino: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra" (Gen 1,28). Nel linguaggio metaforico e simbolico dei vangeli, quando si parla della verginità di Maria questa va letta nel senso primario dell’origine divina di Gesù, che sta a cuore agli evangelisti. Dal contesto dei racconti matteano e lucano infatti si evince la fondamentale preoccupazione degli evangelisti di sottolineare come Gesù abbia origine divina e come lui sia il frutto di un progetto divino e non umano.
Gli evangelisti non sono degli storici che vogliono dimostrare e documentare, ma dei teologi che narrano la storia dalla prospettiva di Dio e ci dicono cosa essi hanno colto degli eventi di cui direttamente o indirettamente sono stati testimoni. E', dunque, una storia interpretata e letta in senso squisitamente teologico.
Maria, donna di fede?
Un altro aspetto interessante e, per certi aspetti, scandaloso, che ci viene riportato da tutti gli evangelisti, è la profonda diffidenza che Maria nutriva nei confronti di suo figlio Gesù, al punto tale che Gesù stesso disconoscerà sua madre, per il suo ottuso comportamento nei suoi confronti.
Partiamo dal dato biblico:
Matteo
· "Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando di fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: <<Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che voglio parlarti>>. Ed egli rispondendo a chi lo informava, disse: <<Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?>>. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: <<Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre>>" (Mt 12,46-50).
Marco
· "Entrò in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: <<E' fuori di sé>>. ... Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: <<Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano>>. Ma egli rispose: <<Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?. Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: <<Ecco mia madre e i miei fratelli. Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre>>" (Mc 3,20-21.31-35).
Luca
· "Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui" (Lc 2,33)
· "<<Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del padre mio?>>. Ma essi non compresero". ... Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore." (Lc 2,49-50.51b).
· "Ora giunsero presso di lui la madre e i suoi fratelli e non si potevano avvicinare a lui a causa della folla. Gli fu annunciato:<<Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori, volendo vederti>>. Egli rispondendo disse a loro:<<Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano e e compiono la parola di Dio>>" (Lc 8,19-21) (Traduzione letterale).
Giovanni
· "Tre giorni dopo vi fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: <<Non hanno più vino>>. E Gesù le rispose:<<Che ho da fare con te, donna? Non è ancora giunta la mia ora>>. La madre dice ai servi: <<Fate quello che vi dirà>> (Gv 2,1-5).
· "Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli" (Gv 2,12).
Sia in Marco che in Matteo l'episodio della madre di Gesù e dei suoi fratelli acquista una valenza decisamente negativa nei confronti dei parenti stretti di Gesù. Infatti il contesto in cui esso viene collocato è profondamente segnato dal tema dell'incredulità (Mc 2,1-3,6; 3,20-35; Mt 11,2-6.16-24; 12,1-50).
In Marco (Matteo si muove sulla stessa linea) "i suoi di Gesù" lo ritengono fuori di testa (œlegon g¦r Óti ™xšsth; élegon gar oti exéste)[14] e vogliono andare a riprenderselo per portarlo a casa (Mc 3,21). E una volta giunti da Gesù, Marco per due volte sottolinea che essi se ne stavano di fuori dalla casa, cioè dal gruppo che seguiva invece Gesù ("kaˆ œxw st»kontej” (Mc 3,31b) -"IdoÝ ¹ m»thr sou kaˆ oƒ ¢delfo… sou kaˆ aƒ ¢delfa… sou. œxw zhtoàs…n se"(Mc 3,32b); “kai exo stekontes” – “Idu e meter su kai oi adelfoi su, kai adelfai su exo zetusin se” )[15].
La risposta di Gesù è secca: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Con questa espressione Gesù disconosce i suoi parenti carnali più stretti e diretti e, volgendo invece il suo sguardo attorno a sé su quelli che gli stavano attorno, quasi ad operare una sorta di selezione e di elezione, li indica come i suoi veri parenti, tagliando così fuori dal ciclo vitale della salvezza anche sua madre lì presente (Mc 3,33-35), ma non appartenente alla cerchia di quelli su cui Gesù ha posato il suo sguardo e, quindi, scelto.
In Luca le cose non cambiano di molto, anche se il racconto è più attenuato e lascia trasparire in Maria e nei fratelli di Gesù un desiderio di fede, ma non ancora sufficiente per fare la scelta definitiva e radicale della sequela. Per questo dobbiamo attendere Giovanni.
Il cap. 8 si apre presentandoci un Gesù che "se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio" (Lc 8,1). Il tema, dunque, è l'annuncio della Parola inquadrato, subito dopo, dalla parabola del seminatore (Lc 8,4-15), che denuncia tutta la difficoltà che la parola trova nell'essere accolta e che nasconde, forse, una velata preoccupazione di Gesù che la sua missione, proprio per l'incredulità e la durezza di cuore, possa anche fallire.
Assieme a Gesù non si trova sua madre, ma "i Dodici e alcune donne" (Lc 8,2) ai quali soltanto, a differenza degli altri e, quindi anche di sua madre e dei suoi fratelli, che sono fuori (Lc 8,20) "... è dato di conoscerei misteri del regno di Dio; agli altri invece solo in parabole perché vedendo non vedano e udendo non odano" (Lc 8,10). Solo chi entra, infatti, può vedere la luce (Lc 8,16) ed avere così abbondanza di vita, proprio grazie all'ascolto della sua parola (Lc 8,18).
La madre e i fratelli desiderano vedere Gesù ("„de‹n qšlontšj se"[16] – idein tzelontes se). Il verbo "oraw" (orao), qui espresso, indica il vedere di una fede matura, mentre quel " qšlontej” dice il desiderio di credere in lui, ma non ancora sufficiente per farlo, infatti l'evangelista sottolinea che "sono qui fuori" ("˜st»kasin œxw" – estékasin exo -, se ne stanno fuori). C'è, dunque, la voglia di fare una scelta definitiva e radicale, ma non il coraggio necessario. Ciò che impedisce loro di "avvicinare Gesù" è la folla. Forse questo grande rumore attorno al proprio figlio, forse le troppe chiacchiere non sempre benevoli, forse i discorsi minacciosi delle autorità religiose formano una sorta di cortina fumogena e impediscono a sua madre e ai suoi fratelli di "avvicinarlo", togliendo loro il coraggio di fare il passo decisivo. Tuttavia, rileva Luca, in essi c'era il desiderio di credere ("„de‹n qšlontšj se"). E', dunque, una fede ancora debole, incipiente, frastornata da troppi dubbi e interrogativi, che li trattiene al di fuori della stretta cerchia di chi, invece, cammina con lui.
Giovanni, invece, nel suo vangelo e, in particolare nel passo sopra riportato, sottolinea l'evoluzione spirituale di Maria, che viene attratta nella missione di Gesù, diventandone una stretta collaboratrice, anzi (mi sia concesso) la co-fondatrice della nuova comunità messianica, assumendo in essa un ruolo primario.
Siamo nell'ambito di un sposalizio e qui si trova la madre di Gesù (Gv 2,1); ad esso è invitato anche Gesù con i suoi primi discepoli (Gv 2,2).
Nell'Antico Testamento le nozze simboleggiavano il rapporto tra Dio e il suo popolo, in cui Dio figurava lo sposo e Israele la sposa.
Ora, Giovanni ci propone delle nuove nozze in cui gli attori principali sono essenzialmente quattro: Maria, Gesù, i servi e il maestro di tavola. Di questi prenderemo in esame solo i primi due.
Sono nozze che avvengono "tre giorni dopo" (Gv 2,1) e in cui Gesù "manifestò la sua gloria" (Gv 2,11). Una gloria che si manifesta tre giorni dopo. L'allusione alla risurrezione di Gesù, in cui, unitamente alla sua morte, si compie l'ora per cui egli è venuto, è evidente.
Le nozze, dunque, sono collocate da Giovanni nell'ambito della risurrezione, che costituisce un nuovo rapporto tra Dio e il suo popolo, mediato non più dalla Legge mosaica, bensì dal Cristo risorto, con cui sono inaugurati i tempi dello Spirito.
In questo nuovo "rapporto nuziale" si collocano i nostri personaggi. Qui Maria viene definita per due volte come "madre di Gesù" e una volta con il termine di "madre". I due appellativi solo apparentemente sono identici, ma in realtà denunciano una evoluzione che si è compiuta in Maria dopo l'intervento di Gesù, che l'ha definita "donna"; un termine questo che riqualifica la figura di Maria, collocandola come "madre messianica" della nuova comunità credente.
Ed ecco che "Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse:<<Non hanno più vino>>" (Gv 2,3). Durante queste nozze, dunque, viene a mancare il vino e Maria si preoccupa subito, segnalando la cosa a suo figlio. E' una preoccupazione materiale e l'interessamento di Maria vola basso: non vuole che gli sposi facciano brutta figura. Si tratta di tappare un buco organizzativo, nato probabilmente da una cattiva valutazione.
Il rapporto che Maria instaura qui con Gesù è ancora di tipo terreno. Essa non ha ancora capito appieno il senso della missione di suo figlio. Infatti l'evangelista la definisce come "madre di Gesù", evidenziando con questo il tipo di rapporto che Maria ancora teneva con suo figlio: essa era la madre carnale di un uomo chiamato Gesù e tutto si riduceva lì. Una netta stonatura, se pensiamo che l'episodio avviene nelle nuove nozze messianiche, che dipingono un nuovo rapporto tra il Padre e la nuova umanità credente, rigenerata e rinnovata nella risurrezione, per mezzo dello Spirito. Non si può più, dunque, rapportarsi a Gesù con logiche puramente umane, perché i tempi sono cambiati.
E questa è, probabilmente, la condizione di Maria, richiamata unanimemente anche dai sinottici: Maria ha difficoltà a rapportarsi a suo figlio in termini nuovi e si relaziona a lui ancora con logiche squisitamente umane. E questo per Gesù è inaccettabile al punto tale da delineare una sua nuova parentela, che taglia fuori, superandola, quella carnale, a cui appartiene, invece, ancora Maria.
"E Gesù rispose:<<Che ho a che fare con te, o donna?>>" (Ti emoi kai soi, ghinai - T… ™moˆ kaˆ so…, gÚnai; che cosa importa a me e a te donna? Gv 2,4). La risposta di Gesù a sua madre sembra essere di una villania e di un egoismo unici, quasi offensivi. In questa breve espressione l'accento cade su due punti essenziali: a) una questione di interessi: "che cosa importa a me e a te". Richiamando in tal modo sua madre, Gesù la invita ad aprirsi ad una nuova visione della vita, che trascende la semplice logica umana: lui non è venuto a fare da tappabuchi alle deficienze organizzative umane, ma a compiere la volontà del Padre suo. Sono altri dunque i suoi interessi. Già in tal senso Maria era stata duramente redarguita da Gesù: "Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?" (Lc 2,49). E in questi interessi di Gesù è coinvolta anche Maria. Gesù infatti non si limita a dire "che cosa importa a me", ma aggiunge anche "e a te". Con questo richiamo Gesù aggancia sua madre alla propria missione, facendone quasi una sorta di suo braccio destro.
b) Una nuova denominazione: Maria non è più chiamata "madre", bensì "donna". Definiti, pertanto, i nuovi campi di interessi in cui anche Maria, ora, è coinvolta, Gesù le assegna un nome nuovo: donna.
Il nome per l'ebreo evidenzia ed indica l'essenza stessa della persona. Imporre il nome ad una persona significa avere autorità su di essa, mentre assegnarne uno nuovo indica che quella persona non è più quella di prima, ma è entrata a far parte di una nuova dimensione ed è chiamata a svolgere quella missione che il suo nuovo nome le assegna.
Pertanto con il termine "donna" Gesù sembra voler assegnare alla sua "ex madre" un nuovo ruolo: essa non è più una figlia di Israele, che gli ha carnalmente dato la vita, ma la Sion ideale, che nell'A.T. viene presentata con i tratti di una donna e più precisamente di una sposa (Is 54,5-6) e madre di nuovi figli, discepoli del Signore (Is 54,13). Essa non è più come la casa d'Israele, infedele al suo Signore (Ger 3,20), ma una nuova creatura rigenerata dal suo Signore da cui uscirà un nuovo germoglio di giustizia (Ger 34,14-16).
Maria, quindi, qui viene "destituita" dal suo vecchio ruolo di madre carnale di Gesù e le viene assegnato, invece, un ruolo pubblico. Il nuovo nome con cui Maria è stata insignita ne fa di lei una nuova creatura, una nuova creazione. Maria, dunque, deve smetterla di pensare il suo rapporto con Gesù come tra madre e figlio, poiché ora lei è "donna".
E Maria sembra cogliere il suo nuovo ruolo e dà disposizione ai servi: "Fate quello che vi dirà". Si noti come, qui, Maria non nomina Gesù ma si limita al pronome "egli", riconoscendo in tal modo la distanza che la separa da Gesù e, quindi, la sua autorità. Questo ci dice che in Maria è avvenuta una nuova comprensione della natura e della missione di suo figlio. Ella finalmente rientra qui in quel ciclo di salvezza da cui era stata esclusa inizialmente dal suo stesso figlio, per la durezza del suo cuore, chiuso alla novità da lui portata. Significativo in tal senso è come si conclude questo episodio delle nozze di Cana: "Dopo questo fatto, (Gesù) discese a Cafarnao insieme con sua madre ..." (Gv 2,12). Maria viene qui presentata come una che si accompagna assieme a Gesù e rientra, pertanto, nel suo gruppo di seguaci. Non è più colei che se ne sta al di fuori.
Il rinnovamento esistenziale e spirituale di Maria, nonché il suo nuovo ruolo all'interno della comunità messianica, che si andava lentamente formando attorno a Gesù, viene subito evidenziato da Giovanni: "La madre dice ai servi:<<Fate quello che vi dirà>>" (Gv 2,5). Dopo che Maria è stata battezzata con il nome di "donna" non è più chiamata "madre di Gesù", ma semplicemente "madre", cioè colei che è chiamata all'interno della comunità credente a generare i nuovi figli di Dio. Un ruolo che le viene ufficialmente insignito da Gesù morente sulla croce: "Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre:<<Donna, ecco tuo figlio!>>. Poi disse al discepolo:<<Ecco la tua madre>>. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa." (Gv 19,26-27).
Si noti come anche qui Gesù non chiama Maria "sua madre", ma semplicemente "la madre". Essa non gli appartiene più, ma è la nuova madre della comunità credente a cui essa è assegnata con autorità divina e al cui interno ricopre il ruolo di colei che indica ai servi, i nuovi credenti, la giusta via: "Fate quello che vi dirà".
Significativo il commento dell'evangelista: "E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa". Maria è qui accorpata alla nuova comunità credente, divenendone, mi si passi l'espressione, la con-generatrice assieme al suo figlio, quasi a realizzare in sé la profezia di Isaia: "Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli; sarai fondata sulla giustizia" (Is 54,13-14a).
Ed ecco che "la Madre", nel suo nuovo ruolo, ci viene presentata, per l'ultima volta nel Nuovo Testamento, all'interno della nuova comunità credente: "Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui" (At 1,14).
Il nome di Giovanni Battista compare in tutto il Nuovo Testamento 89 volte e in tre dei quattro vangeli (Marco, Luca e Giovanni) è posto all'inizio del loro racconto. Matteo, invece, fa seguire la comparsa di Giovanni sulla scena della storia della salvezza soltanto dopo la genealogia di Gesù (Mt 1,1-17) e la sua nascita (Mt 1,18-2,23), quasi come conseguenza di questo evento, a cui è strettamente legato. In tal modo, fin da subito, Giovanni appare da un lato ridimensionato e in funzione di Gesù; dall'altro Matteo dà una logica sequenza storica agli avvenimenti del suo racconto, soddisfando ad una sua primaria esigenza: presentare fin da subito il suo personaggio e protagonista principale, che viene colto non solo come la realizzazione delle antiche profezie (1,23; 2,6; 2,15; 2,18; 2,23), ma anche come l'erede legittimo ed ultimo delle promesse fatte da Dio ad Abramo e a Davide (1,1), dando, inoltre, a Gesù una doppia origine, storica-umana (1,16.18) e divina (1,20), indicandone inoltre la missione: "egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati" (1,21). In tal modo Matteo presenta la carta d'identità di Gesù.
A differenza di Luca, che si sofferma a lungo sulla figura di Giovanni, partendo dal racconto della sua nascita prodigiosa, posta in parallelo a quella di Gesù, Matteo fa entrare in scena il Battista quasi inaspettatamente: "In quei giorni comparve Giovanni Battista" (3,1). Sembra quasi l'irrompere improvviso di Dio nella storia; l'apparire di un uomo, di cui non si conosce nulla; un uomo che sembra essere senza storia e senza tempo, come lo è Dio.
La figura del Battista, dunque, compare all'improvviso nel deserto dove si nutre di cavallette e di miele selvatico; veste di un abito fatto di peli di cammello, stretto ai fianchi da una cintura. L'impatto che il lettore matteano ha con questo personaggio è duro e ne ricava subito l'impressione di una vita ruvida votata all'essenzialità e che non si perde nella frivolezza delle cose. Questo tratto caratterizzante lo stile di Giovanni sarà ricordato anche da Gesù: "Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? ... Un uomo avvolto in morbidi vesti? ..." (11,7-9). Questa rudezza nel vivere faceva parte della personalità stessa di Giovanni, una rudezza a cui era stato educato fin dalla sua infanzia, come ci ricorda Luca: "Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni desertiche fino al giorno della sua manifestazione in Israele" (Lc 1,80).
Egli inoltre doveva essere in qualche modo un parente di non ben precisato grado di Gesù, in quanto figlio di Zaccaria e di Elisabetta, definita genericamente da Luca "suggen…j" (singhenìs), cioè parente di Maria, madre di Gesù (Lc 1,36).
L'attività di Giovanni è duplice: proclamare l'avvento del regno (Mt 3,1-2) e battezzare (Mt 3,7.11.13).
al presentarsi di Gesù, tuttavia, egli gli rifiuta il battesimo avendolo riconosciuto come l'inviato di Dio (Gv 1,29-30), rilevando lo scarto di santità che lo separava da lui: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu viene da me?" (Mt 3,14). Ma forse in questo rifiuto si nascondeva il fatto di non accettare un Dio che si mescola ai peccatori, concependolo, invece, secondo gli schemi veterotestamentari e la sua predicazione, come un loro giustiziere (Mt 3,7-10.12). Non capisce ancora, dunque, il senso della missione di Gesù, tant'è che invierà dei suoi discepoli per chiedergli se è proprio lui "colui che deve venire" (Mt 11,2-3).
I contenuti della predicazione di Giovanni sono essenzialmente due: a) l'annuncio dell'approssimarsi del Regno e la conseguente necessità di convertirsi per accoglierlo degnamente (3,2), sfuggendo in tal modo all'ira divina che si stava abbattendo sui peccatori; b) lo stigmatizzare le sicurezze che circolavano negli ambienti dei farisei e dei sadducei, che si ritenevano salvi per il solo fatto di avere "Abramo per padre" (3,9).
Il tono della sua predicazione è di tipo apocalittico ed escatologico in cui si colloca il giudizio divino (3,10b.12). Si parla, infatti, di "ira imminente" (3,7), di "scure posta alle radici" (3,10), di "ventilabro" per ripulire l'umanità dai peccatori (3,12), di separazione (giudizio) del grano dalla pula (giusti dai peccatori) e della diversa destinazione dei due (granaio e fuoco, cioè salvezza e dannazione).
Complementare alla predicazione di Giovanni era l'attività del battezzare, da cui prese anche il soprannome di "Battista", il Battezzatore.
Il suo battesimo viene colto quale atto pubblico di conversione ed è posto a conclusione della sua predicazione. Matteo, tuttavia, si premura subito di distinguere la valenza dei due battesimi, legati ai personaggi di Giovanni e di Gesù: l'uno è un mero segno esteriore di conversione; l'altro di rinnovamento e di trasformazione interiore, che si pone a livello ontologico e segna radicalmente la persona, con il quale Dio la attrae nel suo mondo e la assimila a sé. Questo diverso valore dei due battesimi evidenzia la profonda diversità e il diverso senso dei due Testamenti: l'uno è preparatore all'altro, il primo in funzione del secondo. Nel primo è l'uomo fonte della propria salvezza, che dipende dalla scrupolosa osservanza della Torah; nel secondo è Dio l'attore primo della salvezza dell'uomo, il quale deve solo rendersi disponibile, per mezzo della fede, alla sua azione salvifica (Mc 1,15).
La dura predicazione di Giovanni si scaglia anche contro il potere politico e amministrativo e stigmatizza il comportamento immorale di Erode, che aveva preso con sé la moglie di suo fratello Filippo. Questo gli costerà il carcere e, in seguito, la morte.
Con questo escamotage Matteo libera il campo dalla gigantesca e troppo invadente figura di Giovanni, per lasciare libero il palcoscenico della storia al suo personaggio principale: Gesù.
a fronte della predicazione e dell'attività di quest'ultimo il Battista doveva essere rimasto sconcertato, poiché queste si discostavano nettamente dal suo modo di pensare Dio e dalle sue attese: un giudice vendicatore e giustiziere, che doveva venire per fare piazza pulita dei peccatori (v. sopra i contenuti della predicazione del Battista). Un modo veterotestamentario, questo, di concepire Dio. Gesù, invece, ha fatto capire come Dio sia molto più vicino agli uomini e molto più favorevole a loro di quanto essi possano pensare ed egli ne era la prova vivente, che Giovanni, l’evangelista, ci ha testimoniato nel suo vangelo: "Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo figlio" (Gv 3,16). Gesù, dunque, è il volto storico dell'amore del Padre, il punto d'incontro tra Dio e gli uomini, perché "chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16).
Il Battista, quindi, dubita che egli sia veramente "colui che doveva venire", cioè l'atteso messia, e gli invia dei suoi discepoli per accertarne l'identità. Anche Giovanni, dunque, come Maria, la madre di Gesù, e i suoi fratelli dubita di lui.
il vero significato della figura di Giovanni, però, ci verrà proposto da Gesù stesso nel corso della sua missione. E' Gesù infatti colui che dà compimento alla Legge e ai Profeti (Mt 5,17) e ne spiega il senso. Chi è, dunque, veramente Giovanni? Innanzitutto è un uomo integro e tutto d'un pezzo. Non è una canna che si muove qua e là al soffio delle ideologie, delle politiche o degli intrallazzi di corte (Mt 11,7). Non è neppure uno che va alla ricerca delle comodità e dei piaceri della vita (Mt 11,8), stipulando compromessi esistenziali pur di ottenerli, poiché i suoi interessi sono altrove: nel Dio che sta per venire e il come accoglierlo nel migliore dei modi.
Egli, inoltre, è ben più di un profeta[17] (Mt 11,9), che per sua natura è soltanto la voce di Dio in mezzo agli uomini, la voce della loro coscienza. Egli è colui che realizza in sé la figura di Malachia[18] (Mt 11,10): il messaggero che precede e annunzia la venuta del Regno di Dio in mezzo agli uomini, ne è il suo banditore (Ml 3,1). Non a caso, infatti, Matteo usa il verbo "khrÚssw" (kerisso, significa annunciare, proclamare) per indicare l'attività predicatoria del Battista, un verbo che esprime in senso tecnico il compito del banditore del re. Quindi Giovanni è un personaggio di prim’ordine (Mt 11,11), che fa da trait-d'union tra le attese dell'AT e le speranze realizzate del NT. Tuttavia, avverte Gesù, "il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui" (Mt 11,11b), indicando in tal modo la netta rottura di valore e di senso tra i due Testamenti, poiché se Dio si serviva di mezzi mediatici, di cui Giovanni fa parte, per comunicare con l'uomo (Torah e Profeti), nel NT Dio parla direttamente e in prima persona agli uomini e si muove in mezzo a loro, condividendo la loro triste sorte di peccato[19].
Giovanni, dunque, è per Gesù la linea di demarcazione tra AT e NT, il punto di arrivo e di conclusione di un lungo cammino pedagogico: "La Legge e i Profeti hanno profetato fino a Giovanni" (Mt 11,13), quasi a dire che tutto ciò che è stato fatto nell'AT perde di significato e di senso, poiché ora ogni profezia e ogni attesa ha trovato il suo compimento in Gesù (Mt 5,17). Non a caso, infatti, Matteo dissemina il suo vangelo di circa una quarantina di citazioni veterotestamentarie, proprio per dimostrare come l'AT ha trovato la sua piena attuazione in Gesù.
Ma Giovanni è anche, secondo Gesù, figura di Gesù stesso (Mt 17,10-13). Infatti, come Giovanni si scontra con il potere politico e ne paga le conseguenze con la vita, così lo è anche Gesù (Mt 14,3-10).
Gesù, inoltre, definisce Giovanni come l'Elia che doveva venire negli ultimi tempi, assegnando in tal modo al Battista una dimensione escatologica in cui Gesù stesso si riconosce e a cui si associa (Mt 17,10-13). Giovanni e Gesù dunque sembrano essere accomunati da uno stesso destino, così che il Battista diviene il preludio di Gesù, prefigurandone in qualche modo la missione e i destini. Egli, infatti, è definito come l'inviato dal cielo e tale era considerato dalla gente: un profeta che diventa motivo di imbarazzo e di contraddizione per il potere politico e religioso (Mt 21,25-27), come lo sarà Gesù (Lc 2,34-35a). Ma Giovanni diventa per Gesù l'elemento di discriminazione in mezzo alla gente, creando una netta demarcazione tra chi crede e non crede (Mt 21,32), proprio come accadrà a Gesù (Mt 12,30; Gv 3,18).
Spesse volte, dunque, Gesù parla di Giovanni, ma è chiaro che sta parlando di sé, riferendolo in qualche modo alla sua missione e alla sua persona. Non a caso, infatti, la figura del Battista percorre numerose volte l'intero NT, diventando un fondamentale punto di riferimento non solo per la gente, ma sopratutto per Gesù, che vede in lui non solo colui che lo precede, ma anche lo prefigura.
Un'altra categoria piuttosto consistente di personaggi, che si muovono all'interno del vangelo di Matteo, sono i discepoli (maqht»j - mazetés). Il termine ha una duplice derivazione: "manq£nw" (manzano), che significa imparo, intendo, conosco, osservo, studio, m'informo, interrogo, domando; e "m¢qhti£w" (mazetiao), una forma desiderativa di "manq£nw" che si traduce con ho desiderio di imparare, sono discepolo.
Basta questo breve accenno per inquadrare questo gruppo di persone che, forse sospinte dal desiderio di conoscere e imparare, forse affascinate dal nuovo messaggio di questo anonimo maestro, che in quei tempi appariva per la prima volta sullo scenario politico-religioso e redarguiva duramente il sistema cultuale del tempio (21,12-13.18-19), sfidando le autorità religiose, se ne fanno seguaci, interpellandolo sovente per ottenere luce e sapere, ma venendo anche plasmati spiritualmente e culturalmente da Gesù al punto di condividerne la vita e la sorte, diventando, successivamente, eredi del suo sapere e della sua missione.
Il termine "maqht»j" compare in tutto il NT 249 volte di cui 71 in Mt, 42 in Mc, 35 in Lc, 73 in Gv e 28 in Atti. Zero volte nei restanti Scritti neotestamentari. il termine ricorre complessivamente 221 volte solo nei vangeli, che raccontando le vicende e il pensiero di Rabbi Jeshouah, diventano l'alveo naturale entro cui nasce e si muove il discepolato. Vedremo, poi, in un confronto con il termine apostolo (¢pÒstoloj - apòstolos) come la situazione venga completamente capovolta.
Analizziamo, ora, quali sono i tratti caratteristici di questi personaggi. Ne uscirà una figura complessa e ricca, che l'evangelista propone alla sua comunità, perché quest’ultima costruisca e acquisisca la propria nuova identità.
Chi è il discepolo?
Innanzitutto per Matteo è colui che va verso Gesù, gli si avvicina per ascoltarne la parola (5,1) e si fa suo seguace (8,23). Questa sequela diventa ben presto condivisione, che viene espressa con il sedersi al banchetto con Gesù (9,10); una condivisione e un banchetto che preludono ad un altro banchetto e ad un’altra condivisione al termine del cammino compiuto con il Maestro e in cui Egli si consegnerà nelle loro mani in una perfetta comunione di vita e di intenti (26,18.26) e che spingerà il discepolo, pur nella sua conclamata fragilità esistenziale (26,56), a schierarsi con lealtà e fermezza dalla parte del Maestro (26,35).
Spesso il termine "discepolo" è associato a degli aggettivi possessivi (suoi, vostro, tuoi, mio) che lo relazionano strettamente a Gesù, per indicarne l'appartenenza, facendone una sorta di sua proprietà (5,1; 8,23; 9,11.19; 11,1; ecc.). Tale appartenenza qualifica il discepolo, lo assimila al Maestro e lo contrappone ad altri, sottoponendolo anche a dure critiche per questa sua assimilazione, che lo pone anche contro alle tradizioni dei padri e sconfinando, pertanto, in uno stato di illegalità e di perseguibilità (9,14; 12,2; 15,2).
Al discepolo è, inoltre, consegnato l'insegnamento del suo Maestro (11,1; 13,36-37a).
Questa profonda intimità che lo lega a Gesù e fa si che questi si consegni totalmente a lui, porta Gesù stesso a conferire al suo discepolo, dopo averlo personalmente chiamato, il suo stesso potere, perché possa proseguire nel suo nome e per suo conto la sua stessa missione (10,1), diventando, in tal modo, non più un suo semplice seguace, ma un altro se stesso. Nessuno, dunque, si può fare discepolo da sé, poiché qui non si tratta di acquisire una semplice dottrina da un maestro, ma di essere ontologicamente rinnovati e trasformati in una nuova realtà, che non ci appartiene se non per chiamata. All'origine del discepolato, quindi, c'è una chiamata ed una elezione (Gv 6,70a; 13,18a) finalizzata alla costituzione del discepolo (15,16), cioè all'affidamento della missione stessa di Gesù. Ed è proprio a questo punto che al discepolo è assegnato un nuovo titolo, quello di "apostolo", e viene nominato personalmente con il suo nome (10,2), per indicare che in lui, a seguito di questa chiamata, si è prodotta una mutazione, che lo segnerà per sempre.
Di conseguenza il discepolo diventa lo stretto collaboratore di Gesù e suo intermediario tra lui e la gente (14,19; 15,32-33.36). Non solo, ma si fa anche mediatore e intercessore presso il suo maestro a favore della gente (15,23).
Questa, anche se non perfettamente completa, è la figura del discepolo che Matteo fa emergere dal suo racconto e consegna alla sua comunità.
Discepolo o Apostolo?
Talvolta nei vangeli, accanto alla figura del discepolo, compare quella dell'apostolo. Qual è lo scarto che differenzia le due figure? Sono dei sinonimi? Oppure i due diversi titoli indicano due realtà e due situazioni diverse?
A differenza del termine discepolo, che nei vangeli compare ben 221 volte, il nome apostolo fa capolino soltanto 10 volte: 1 in Mt; 2 in Mc; 6 in Lc; 1 in Gv. Nei rimanenti libri del NT esso viene rilevato altre 72 volte di cui 29 negli Atti, 36 nelle lettere paoline e 7 nelle restanti lettere.
questa netta sproporzione quantitativa, che separa nei vangeli la parola "discepolo" da quella di "apostolo", fa nascere il sospetto che quest'ultima sia un termine importato dall'esterno in tempi successivi a Gesù, riflettendo una situazione venutasi a creare dopo la risurrezione e che viene a lui ricollegata in qualche modo per darne giustificazione giuridica e teologica. Infatti, se la parola è uno strumento attraverso cui viene comunicata un'idea o un concetto, esprimendo quindi un certo livello culturale, un certo modo di cogliere, di elaborare ed esprimere la realtà, allora si deve dire che il termine "apostolo" si pone in netto contrasto con quello di "discepolo". Infatti in esse si rispecchiano due realtà e due situazioni storiche nettamente diverse, che non potevano coesistere mentre Gesù era ancora in vita. Infatti, come abbiamo visto sopra, se il discepolo è colui che compie un cammino di evoluzione culturale e spirituale, rapportandosi al suo maestro e riconoscendolo come sua guida esistenziale, condividendone le esperienze e la vita, per diventarne infine il suo naturale erede, non così è per l'apostolo.
Il termine apostolo, dal greco "¢postšllw", significa "inviato, mandato" e, quindi, rivestito di una sorta di rappresentanza legale[20]. Questo comporta che il discepolo venga investito ufficialmente di autorità da parte del suo maestro e possa operare in suo nome e per suo conto in mezzo agli altri. Comporta, inoltre, che vi sia già una comunità ufficialmente costituita, operante in seno alla società civile e religiosa e da questa sia in qualche modo riconosciuta e accettata o respinta. Comporta, infine, che il discepolo possa operare autonomamente e separatamente dal suo maestro, avendone ricevuto mandato ufficiale, diventando lui stesso una sorta di "capo costituito", di "alter ego" del suo maestro in mezzo agli altri.
Da un punto di vista giuridico quindi vediamo come il discepolo sia un semplice seguace, che ha abbracciato un certo indirizzo culturale, religioso o politico, mentre l'apostolo è una sorta di legale rappresentante, rivestito di autorità che opera autonomamente in nome e per conto del suo mandante, con cui egli si identifica.
Non è allora un caso che il termine apostolo trovi scarsa ospitalità nei vangeli, dal momento che questi raccontano semplicemente il formarsi e il manifestarsi di un evento storico-salvifico, in cui ha una parte preponderante se non assoluta la figura di Gesù. Sono dunque ben lontani dal dettare delle regole comunitarie, dal fondare dottrine o fornire statuti societari, stabilendone i ruoli istituzionali; anzi, a dire il vero, vi si legge l'esatto contrario: un gruppo fondato sul reciproco servizio, dove nessuno è maestro, ma tutti sono fratelli[21]; nessun settarismo o gruppi chiusi, ma aperti a tutti dove tutti coloro che onorano il nome di Dio e operano nel suo nome sono riconosciuti discepoli (Mc 9,38-40).
Quanto, poi, viene detto dai Sinottici circa la costituzione di un gruppo di dodici discepoli, denominati da Gesù stesso "apostoli", a cui ha dato il suo potere e, quindi, un'investitura ufficiale e da lui inviati a predicare in mezzo alle genti, operando in suo nome e per suo conto, svolgendo di fatto un ministero[22], va considerato, a mio avviso, una semplice trasposizione di una situazione che si era verificata successivamente alla risurrezione di Gesù. Quasi certamente la finalità di questa trasposizione era quella di collegare l’autorità dell’apostolo al diretto mandato di Gesù. Infatti i discepoli e i primi credenti fin da subito si costituirono in piccole comunità attorno alla parola di chi aveva seguito fedelmente Gesù. Ecco quindi che i racconti della costituzione di questo gruppo dei Dodici e la delega di potere a loro assegnata da Gesù non solo li ricollegava intimamente e saldamente al Maestro, facendone dei naturali prosecutori della sua opera e del suo pensiero, ma li giustificava anche da un punto di vista giuridico e dottrinale dando a loro forza e autorevolezza in mezzo alla gente e alla comunità, fornendo nel contempo una corretta chiave di lettura di questi testimoni, che fondarono e si misero a capo delle prime comunità credenti. Non erano, in buona sostanza dei fanatici o degli approfittatori, ma portavano in sé un mandato, ricevuto direttamente dal Maestro, che li rivestiva di un ministero che stavano espletando con autorevolezza, di diritto e di fatto, in mezzo ai fratelli.
Un segnale significativo, che, a mio avviso, va in questa direzione, è l'inserzione che Matteo ha fatto nel suo vangelo al cap. 10,1-2.5: "Chiamò a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: .... Questi dodici Gesù li inviò dopo averli dopo averli istruiti: ...".
In questo passo l'evangelista sembra inserire una tradizione orale che ha raccolto tra le comunità e ha riportato qui tale quale. Infatti, il cap. 10 si apre parlando, all'improvviso e inaspettatamente, de' "I dodici discepoli", cioè di un gruppo che Matteo, con quell'articolo determinativo "toÝj dèdeka maqht¦j aÙtoà – tus dòdeka mazetàs autù", dà già per ben definito, conosciuto e scontato, mentre, in realtà, fino a quel momento ha sempre e soltanto parlato di cinque discepoli, casualmente incontrati qua e là: Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni (Mt 4,18-22) e Matteo (Mt 9,9), che non sembra essere però l'evangelista[23]. Il versetto seguente (v.10,2), poi, ce li presenta come un dato già ampiamente acquisito: "Il nome dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro ...". Si notino due particolarità: Matteo li chiama "apostoli", un termine che è a lui totalmente sconosciuto ed estraneo, visto che è la prima e l'unica volta che lo usa; mentre rientra nel suo linguaggio l'espressione discepolo, da lui utilizzato ben 71 volte. Inoltre, quel "primo, Simone, detto Pietro", sta ad indicare che l'elenco dei nomi fornitici sono una lista ormai consolidata e diffusa tra le comunità e che egli ci riporta tout-court.
Non è credibile, poi, che Gesù ne abbia "costituito Dodici che stessero con lui" (Mc 3,14). Costituire vuol dire fondare una comunità gerarchicamente stabilita e, quindi, stando a ciò che ci dicono i Sinottici, Gesù avrebbe avuto tutta l'intenzione di fondare una chiesa e una nuova religione istituzionalizzate fin da subito, in contrapposizione al giudaismo, contro i cui capi usa parole molto dure, quasi offensive (v. cap. 23), e ciò contrasta con l'intero messaggio e comportamento di Gesù stesso (v. sopra), il quale non è venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento (Mt 5,17).
Quanti fossero, poi, i discepoli che seguivano con una certa fedeltà e costanza Gesù non ci è dato di sapere, ma si può ipotizzare realisticamente che fossero almeno tra i mille-millecinquecento[24], se dobbiamo prendere per vero quanto Paolo ci dice nella sua prima lettera ai Corinti al cap. 15,6: " In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti". Questi, proprio perché hanno beneficiato dell'apparizione del Signore, dovevano essere considerati dei fedeli e intimi seguaci di Gesù e, in qualche modo, avevano deciso la loro vita per il loro maestro. Infatti, il criterio con cui sono avvenute le apparizioni del Risorto ci viene indicato dagli Atti: "... ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che apparisse non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dai morti" (At 10,40-41). E che questi intimi di Gesù, che lo seguirono fin da principio e fino alla fine, non fossero soltanto dodici, ma ben di più, ci viene testimoniato sempre dagli Atti in occasione della scelta del dodicesimo componente del gruppo in sostituzione di Giuda, che aveva tradito: "Bisogna che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo che il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi ... uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione" (At 1,21). Inoltre, lo stesso Giovanni ci ricorda che "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66).
I discepoli, dunque, non erano dodici, ma molti di più.
Un elemento interessante poi emerge dall'elenco delle persone che hanno beneficiato delle apparizioni del Risorto e che Paolo ci riporta nella sua prima lettera ai Corinti: "... e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta ... Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli" (1Cor 15,5-7).
Se osserviamo attentamente noteremo che Paolo presenta l'ampio gruppo in modo piramidale, risentendo, probabilmente, di una ormai diffusa istituzionalizzazione delle prime comunità credenti (la prima Corinti è stata scritta intorno al 56), ma certamente riportando anche una tradizione ormai consolidata (poco prima Paolo, al v. 15,3 ricorda che "Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto". Paolo, dunque, segue la tradizione). Appare, quindi, in testa Pietro, che è definito nell'elenco presentatoci da Matteo (10,2) come "il primo" ed è disgiunto, si noti bene, dal gruppo dei Dodici; poi il gruppo dei "Dodici", che Paolo non definisce apostoli, segno che il numero dodici era più che un gruppo scelto da Gesù, un punto di riferimento ideale, che richiamava la nascita di un nuovo Israele in contrapposizione all'altro Israele, che subirà il giudizio proprio dal nuovo (Mt19,28; Lc 22,47). Non va dimenticato, infatti, che quando i vangeli vengono scritti si era ormai in aperta e dura polemica con il Giudaismo, della quale Matteo e Giovanni ci danno ampia testimonianza (In proposito si legga il cap. 23 di Matteo e si veda il senso negativo che Giovanni attribuisce al nome "Giudei"). Infine, l'enorme gruppo dei "cinquecento", che forma la base solida e fedele della prima diffusione del vangelo e da cui uscirono, quasi certamente, i primi apostoli. Questo grosso gruppo di discepoli sono definiti da Paolo come "fratelli", termine questo con cui si designavano i primi credenti (v. in proposito "i fratelli di Gesù") e, in tal caso, potremmo intendere, in senso lato, quei discepoli che hanno seguito fedelmente e costantemente Gesù fino alla fine, mantenendo con lui un rapporto molto stretto, al punto tale da essere gratificati dalle apparizioni del Signore.
Paolo termina il suo elenco citando Giacomo, l'allora capo della comunità di Gerusalemme e fratello di Gesù, anche lui definito da Paolo "apostolo" benché non rientrasse nell'elenco dei Dodici (Gal 2,19), segno che il titolo non era riservato a loro, ma esprimeva soltanto una posizione ministeriale all'interno della comunità credente; e "tutti gli apostoli". Quest'ultima espressione si discosta nettamente dai "Dodici", facendo riferimento probabilmente ad una nuova categoria di discepoli che non si erano limitati a seguire Gesù, ma, dopo la sua risurrezione si dedicarono alla sua testimonianza e al suo annuncio, diventando i diffusori della sua parola e, probabilmente, anche fondatori di comunità. L'apostolo, quindi, era diventato un ministro autorevole all'interno delle prime comunità credenti e fondante, perché depositario fedele della parola e testimone diretto della verità del Risorto. Ed è proprio questa categoria di persone, nata dopo la risurrezione di Gesù, a cui il vangelo fa riferimento, associandola intimamente a Gesù, facendoli risaltare come un suo proseguimento autorevole, in quanto da lui hanno ricevuto il suo potere e il suo mandato. In tal modo essi trovano piena giustificazione nel loro ministero così fondamentale per la costituzione e la vita delle prime comunità
quindi il racconto evangelico della costituzione dei Dodici, definiti apostoli, legandoli in tal modo saldamente a Gesù e da lui defluenti e forniti di ogni autorità, sembra essere l'espressione di un modo di comprendere e di giustificare, autorevolmente, una determinata categoria di discepoli che si dedicarono alla predicazione e alla fondazione di comunità dopo la risurrezione di Gesù.
Il "dodici", poi, è da leggersi come un numero simbolico legato e contrapposto alle dodici tribù d'Israele: come Israele, infatti, ha il suo nucleo fondante nei dodici figli di Giacobbe, così il nuovo Israele ha il suo nucleo fondante nei "Dodici". Ormai è evidente che il numero dodici era entrato nella tradizione per esprimere la costituzione di una nuova realtà ed era diventato un modo comune di esprimersi.
Come Matteo, anche Giovanni usa una sola volta, in modo del tutto occasionale e marginale, il termine "apostolo" (Gv 13,16) e così pure, come Matteo, cita "i Dodici" senza nominarli, riferendosi soltanto al numero. Ciò fa capire come ormai il numero era diventato un modo consueto di esprimersi per indicare l'autorità ecclesiastica, solidamente acquisito dalla tradizione, al punto tale che non c'era più bisogno di spiegazioni per sapere a chi ci si riferiva.
Il "dodici" era diventato simbolico tant'è che, venuto meno per il tradimento di Giuda, si è sentita la necessità di ricostituirlo con l'elezione di Mattia (At 1,15-26), per restituire integro alla tradizione tutta la carica simbolica di cui tale numero era pregno.
Il fatto che il termine "apostoli" compaia soltanto dieci volte nei i vangeli sta a denotare lo scarso interesse che i vangeli avevano per questa figura, inesistente ai tempi di Gesù[25], ma venne successivamente inserita dagli stessi evangelisti proprio per giustificare in modo autorevole l'attività ministeriale di numerosi annunciatori della Parola e testimoni della risurrezione in mezzo alle loro comunità e, probabilmente, anche per dare legale riconoscimento a molte comunità sorte a seguito della predicazione di questi discepoli, che le fondarono e di cui essi erano a capo.
E' molto probabile infine, considerato l'insieme dei testi evangelici, che Gesù non abbia mai costituito gruppi a cui demandare il suo potere, definendoli apostoli, un termine questo, che nella sua accezione etimologica e propriamente tecnica, era estraneo al linguaggio di Gesù. Egli non ha mai fondato comunità religiose o chiese. Ciò era completamente fuori dalle sue logiche. Inoltre il termine "apostolo" è un'espressione tecnica per designare un nuovo ministero sorto dopo la risurrezione di Gesù e non prima.
Il vero mandato, questo si veramente autorevole e fondante, Gesù lo darà ai suoi seguaci soltanto dopo la sua risurrezione (Mt 28,18-20; At 10,42) unitamente al dono dello Spirito (Gv 20,21-22), sempre che siano autentiche le parole dette da Gesù nelle sue apparizioni e non a lui attribuite dai primi gruppi credenti in base a loro elaborazioni teologiche e dottrinali. Soltanto a questo punto l'autorità del Risorto verrà trasfusa nei discepoli (Gv 20,23); soltanto a questo punto il Risorto riprenderà la sua missione nei suoi discepoli, certo ora non più in modo diretto, ma mediato e sacramentale, non per questo, però, meno vero e meno efficace.
Erode, Pilato, Farisei, Scribi, Sacerdoti, Sadducei, Anziani del popolo sono i personaggi storici che formano il gruppo compatto del potere politico e religioso entro cui Gesù si muove ed è chiamato a misurarsi in un crescendo continuo e drammatico che lo porterà alla morte.
Incomprensioni (Mt 2,3), polemiche, scontri continui[26], persecuzioni[27], minacce[28], insulti, diffamazioni[29], insidie[30], tranelli[31] e, infine, arresto (Gv 18,3) e uccisione sono i tratti salienti che caratterizzano il rapporto di Gesù con il potere politico, civile e religioso del suo tempo. Una sorta di cortina impenetrabile e impermeabile separa i vari rappresentanti e capi del popolo da Gesù e li contrappone a lui.
La dura contrapposizione nasce dall'attacco che Gesù muove da un lato alle modalità di culto, molto sfarzoso, ma non supportato adeguatamente da una vita morale e religiosa corretta[32]; all'uso che si faceva del tempio[33] e della religione (Lc 12,1), ormai diventata uno mero strumento per realizzare i propri interessi economici (Lc 16,14; 20,47), di potere (Mt 23,4; Lc 11,45-52) e di prestigio personale[34], stigmatizzando gli abusi che in essa si commettevano[35]; dall'altro, le pretese che egli avanzava di essere il messia[36] e addirittura il figlio di Dio[37], misurandosi con Mosé[38] e contrapponendosi all'interpretazione della Torah[39], dichiarandosi, in buona sostanza l'autentico interprete della Legge e dei Profeti (Mt 5,17). Un netto attacco al potere a tutto tondo (Mt 5,20; 23) , che scalzava quest’ultimo dalle radici, screditandolo davanti alla gente, che, invece, lo ammirava[40].
Queste in buona sostanza le posizioni del potere politico e religioso nei confronti di Gesù.
Vediamo, ora, più da vicino, singolarmente, queste figure a partire da quella che Matteo ci presenta per prima.
Il nome Erode compare in tutto il NT 41 volte di cui 13 in Mt, 8 in Mc, 12 in Lc e 8 negli Atti.
Nel suo vangelo Matteo ci parla di tre Erode: il Grande (37-4 a.C.), figlio di Antipatro, che esercitò il suo potere con spregiudicatezza, crudeltà e spietatezza, mosso da stati di paranoia e di mania di persecuzione, che lo spinsero a decimare la sua stessa famiglia, creando il vuoto attorno a sé. Nel 40 a.C. venne proclamato dal Senato romano rex amicus et socius populi romani, ma il potere effettivo lo ottenne solo nel 37 a.C., dopo aver sconfitto Antigono a Gerusalemme.
Considerato l'alto livello di crudeltà che affliggeva Erode[42] e che lo spinse, in previsione della sua morte imminente, a far imprigionare nell'ippodromo di Gerico i notabili giudei, dando ordine a Salome di ucciderli alla sua morte, perché fossero in molti a far lutto e a piangere (ordine che poi fortunatamente non venne eseguito), è da pensare che la strage degli innocenti (Mt 2,16-18) sia effettivamente avvenuta o quanto meno sia verosimile, poiché corrisponde perfettamente alle logiche di Erode, che ha adottato l'omicidio e la strage come normale mezzo di gestione politica del suo potere.
Al di là comunque della sua crudeltà va detto che Erode fu il più prestigioso re d’Israele dopo Davide (1010-970 a.C.). Il suo desiderio di grandezza e per ben figurare nei confronti dell’amica Roma lo spinse a grandi opere pubbliche civili. Eresse monumenti, fondò città, costruì porti, strade, templi in onore di Cesare e non solo nei suoi territori, ma anche fuori dal suo regno[43]. Per ingraziarsi il favore dei giudei iniziò nel 19 a.C. grandi opere di restaurazione del Tempio[44].
Egli riceve dai Magi la notizia di una nuova stella nascente nel suo regno (Mt 2,2) e la reazione è di turbamento e con lui tutta la Gerusalemme che contava (Mt 2,3). Immediatamente scatta in lui il meccanismo di difesa che lo porta, inizialmente, a prendere informazioni il più dettagliate possibile (Mt 2,4.7); poi a dichiararsi, con subdola e viscida astuzia, pronto ad associarsi ai Magi nel rendere omaggio al bambino (Mt 2,8); ed infine, vistosi scoperto e raggirato, esplode in tutta la sua ira paranoica e con spietata crudeltà fa massacrare dei bambini innocenti (Mt 2,16-18).
Con poche pennellate Matteo riesce a mettere in luce le logiche del potere politico che perseguita Gesù fin dal suo nascere e che formerà una costante della sua vita stessa e di cui rimarrà vittima. Infatti, fin da subito, Matteo ci presenta, quasi in una foto di famiglia, il gruppo di potere che, successivamente, perseguiterà Gesù: "Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo dove doveva nascere il messia" (Mt 2,4). Erode, sommi sacerdoti e scribi sono il nerbo portante dell'opposizione a Gesù.
Vediamo come la nascita di Gesù sia un elemento perturbatore e sovvertitore del potere e fin d'ora Matteo sembra volerci anticipare i giochi futuri.
Vi è, poi, Archelao (4 a.C.-6 d.C.), degno figlio di suo padre, da cui ereditò il potere sulla Giudea, Samaria e Idumea, con il solo titolo di etnarca e non di re, negatogli da Augusto, che lo depose nel 6 d.C. per crudeltà e spietatezza e venne esiliato a Vienne, in Gallia e il suo territorio venne annesso alla provincia della Siria, ma retto da un governatore romano, che risiedeva a Cesarea con il titolo di "praefectus Iudeae". Carica che ricoprirà per lo stesso territorio dal 26 al 36 Ponzio Pilato.
Vera, dunque, o quanto meno verosimile la motivazione che spinse Giuseppe, di ritorno dall'Egitto, a stabilirsi a Nazaret in Galilea, dove regnava il più saggio e moderato Antipa, anziché in Giudea (Mt 2,22-23).
Antipa (4 a.C.-39 d.C.) regnò con saggezza e tolleranza sulla Galilea e la Perea con il titolo di tetrarca. non gli mancò tuttavia una sufficiente dose di immoralità, poiché sposò la cognata Erodiade, sottraendola al proprio fratello Filippo; un atto questo illegale poiché violava le disposizioni di Lv 20,21. Divenne per questo oggetto di dure accuse pubbliche del Battista (Mt 14,4), che per questo fu imprigionato (Mt 14,3) e successivamente assassinato dal tetrarca, per mantenere fede ad un giuramento immorale e per non perdere la faccia davanti ai notabili di corte (Mt 14,6-12). Ma ciò ad Antipa spiacque molto (Mt 14,9), perché aveva in considerazione Giovanni (Mc 6,20) e, nel contempo, temeva il popolo che lo considerava un profeta (Mt 14,5). Tuttavia la venerazione e il rispetto che Erode nutriva per la figura di Giovanni non gli impedì di cercare Gesù per ucciderlo (Lc 13,31). Infatti la fama di Gesù ormai si stava diffondendo (Mt 14,1; Mc 6,14; Lc 9,7-9) e lo rendeva per questo pericoloso. Gesù tuttavia non sente Erode come un pericolo per sè e, quasi amichevolmente e con un forte senso dell'ironia, lo definisce "volpe" (Lc 13,32).
Il timore del popolo da parte dei capi sarà una nota costantemente presente anche nei rapporti tra Gesù e il potere politico e religioso e costituirà un freno temporaneo al suo arresto, ma non riuscirà a salvarlo (Mt 21,26.46; 26,5; Lc 22,1-2).
Ed è proprio Antipa che comincia a temere, come suo padre, la fama crescente di Gesù (Mt 14,1), poiché attorno a lui si muovevano molto numerose le folle (Mt 4,23-25; 8,1; Lc 12,1), che, stando ai racconti stessi dei Vangeli (Mt 14,21; 15,38), potevano raggiungere anche ben più di quattromila o cinquemila persone. In buona sostanza Gesù riusciva a far muovere attorno a sé un piccolo esercito di persone che lo ammiravano (Mt 7,28; 9,8; 9,33; 12,23; 15,31) e lo osannavano (Mt 21,8-11). Esse costituivano una pericolosa base di potere, se pensiamo che proprio queste folle cercarono Gesù per farlo re (Gv 6,15). E doveva essere proprio questo ciò che temevano le autorità se arriveranno a dire: "Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione" (Gv 11,47-48).
Questo senso di timore e di paura da parte delle autorità per la figura di Gesù, che si muoveva ai loro occhi in modo pericoloso in mezzo alla gente, percorre tutti i vangeli. Il vangelo di Matteo si apre proprio con un profondo turbamento che coinvolge Erode e con lui l'intera Gerusalemme di fronte all'annuncio del sorgere di una nuova stella sconosciuta (Mt 2,3); un turbamento che si ripresenterà nuovamente, scuotendo l'intera Gerusalemme, nel momento dell'entrata festosa di Gesù nella città: "Entrato Gesù in Gerusalemme, tutta la città fu in agitazione e la gente si chiedeva: <<Chi è costui?>>" (Mt 21,10). Tra i due passi citati si viene a creare una sorta di inclusione, che pone sotto l'egida del turbamento, dell'inquietudine e dello sconcerto l'intera attività di Gesù. Anche Luca, per mezzo di Simeone, annuncia che quel bambino "... è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima " (Lc 2,34-35). Gesù, dunque, fu una figura inquietante fin dal suo primo apparire in mezzo agli uomini, destinata a creare attorno a sé dissensi, dispute, divisioni, imbarazzo e sconcerto all'interno del potere politico e religioso (Mc 11,31-33; Lc 5,2; 6,11; Gv 6,52; 7,43;9,16; 10,19; At 23,7) mentre, man mano che la sua missione prendeva consistenza, i fantasmi della rivolta dovevano turbare profondamente il sonno del potere costituito (Gv 11,47-48) fino a tradursi in disegni omicidi liberatori (Gv 11,49-50).
Pilato
Ponzio Pilato fu nominato prefetto della Giudea nel 26 d.C., in sostituzione di Valerio Grato, governatore dal 15 al 26 d.C., e vi rimase fino al 36. Assieme al suo predecessore, Pilato fu l’unico ad avere l'amministrazione della Giudea per un periodo così lungo. Normalmente infatti la durata della carica era di due o di quattro anni al massimo[45]. Il suo governatorato si estendeva limitatamente alla Giudea, Samaria e Idumea, che coprivano complessivamente un territorio di circa 160 Km per 75 Km.[46] .
La sua fama è legata esclusivamente all'occasionale incontro che egli ebbe con un certo Gesù di Nazaret, presentatogli come un pericoloso sovversivo (Lc 23,5.13-15), ma su cui non riscontrò, di fatto, nessuna colpa (Gv 19,6b), ma "pro bono pacis" non esitò a darlo in pasto ai suoi avversari (Mc 15,15), per evitare l'ennesima rivolta, che l'avrebbe costretto ad intervenire duramente, come era sua consuetudine[47].
La sua amministrazione fu segnata da diversi episodi, che lo videro protagonista di imprudenze, provocazioni, crudeli e spesso cruenti repressioni, che Flavio Giuseppe ci ha testimoniato nelle sue opere "Antichità Giudaiche" e "Guerra Giudaica".
Egli ricorda l'episodio dei "ritratti raffiguranti l'imperatore", introdotti nottetempo in Gerusalemme. Il fatto provocò una forte contestazione da parte dei giudei, durata cinque giorni e che poco mancò si concludesse in un bagno di sangue, evitato per la fierezza degli stessi giudei, mostratisi pronti a morire pur di ottenere il proprio riscatto. Pilato, alla fine, cedette e ritirò le immagini profanatrici[48].
L'episodio successivo[49] narra di Pilato che per finanziare la costruzione di un acquedotto prelevò denaro dal tesoro del tempio, provocando una rivolta dei giudei. Pilato diede ordine ai suoi soldati di mimetizzarsi tra la folla tumultuante e, ad un segnale convenuto, cominciarono a bastonare i rivoltosi, provocando un parapiglia generale con molti morti al seguito. Ad onor del vero, però, va detto che quell'acquedotto serviva prevalentemente a portare l'acqua al Tempio, particolare, questo, che viene taciuto da Flavio Giuseppe.
Altro episodio, riportatoci da Filone, fu l'affissione di scudi nel palazzo di Erode, in Gerusalemme. Su questi Pilato aveva fatto incidere il suo nome e quello dell'imperatore, con riferimento alla sua divinità, provocando uno scandalo tra i giudei[50]
Lo stesso Luca nel suo vangelo ci riporta, molto sinteticamente, un episodio sulla crudeltà di Pilato, sconosciuto alle fonti profane: "In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici"[51]. Un tale comportamento denota da parte di Pilato non solo crudeltà nei confronti di persone civili inermi, ma anche uno spregio nei confronti del culto ebraico e una profanazione del Tempio stesso.
Un ultimo episodio, avvenuto nel 35, riportatoci sempre da Giuseppe Flavio e che costò, questa volta, il posto a Pilato, fu il massacro dei Samaritani sul monte Garizim. I Samaritani denunciarono i fatti al legato di Siria Vitellio, da cui Pilato dipendeva. Vitellio, per non inimicarsi i Samaritani, ritenuti fedeli amici dei romani, destituì Pilato e lo inviò a Roma per rendere conto direttamente a Tiberio del suo operato. Al suo posto venne messo Marcello, amico fidato di Vitellio[52].
Definita storicamente la figura di Pilato, che ha intrecciato occasionalmente la propria vita con quella di Gesù, fungendo in tal modo da precisa cornice storica agli eventi, che videro come protagonista Gesù, passiamo, ora, a considerarla dal punto di vista evangelico.
Luca, unico tra gli evangelisti, colloca la figura di Pilato sia all'inizio del suo racconto (Lc 3,1), facendone un punto di riferimento storico per datare l'inizio della missione di Giovanni (e, quindi, conseguentemente, quella di Gesù), sia nel corso della missione di Gesù (Lc 13,1), riportando un episodio cruento in cui furono coinvolti dei Galilei saliti al tempio per compiere dei sacrifici[53]. Mentre il Pilato di Matteo (Mt 27,11-26) e di Marco (Mc 15,1-15) è essenziale e i suoi interventi segnano il passaggio da una scena ad un'altra, caratterizzandola per quello che dice, in Luca Pilato ha una sua vita propria: dialoga con Gesù, con le autorità, manda Gesù da Erode, si riconcilia con lui, riunisce le autorità del popolo e comunica loro la sua decisione, tenta un dialogo con loro, ma senza riuscirvi, alla fine cede (Lc 23,1-25).
Il Pilato di Giovanni è una figura ricca di movimenti e con personalità propria, caratterizzata da lunghi dialoghi con Gesù e scontri con le autorità del popolo. E' una figura che occupa ben due capitoli da 18,29 a 19,16.38. Tale ampiezza di spazio dedicata alla figura di Pilato è funzionale alla teologia che Giovanni si era proposto di sviluppare nel presentarci la figura del suo Gesù. Pilato, dunque, viene strumentalizzato a fini teologici.
In tutti i vangeli la figura di Pilato scandisce il suo rapporto con Gesù e le autorità in tre momenti:
· Pilato è il punto di arrivo di un lungo processo di persecuzioni, che le autorità giudaiche e i concittadini di Gesù hanno diretto contro di lui;
· E' il perno attorno a cui si svolge un serrato dialogo tra Gesù e autorità giudaiche. Si forma, una sorta di triangolo entro cui si consuma il dramma e matura la decisione di crocifiggere Gesù, che Pilato restituisce, controvoglia, ai suoi concittadini.
· Consumato il dramma, Pilato torna per l'ultima volta sulla scena, concedendo il corpo di Gesù per la sepoltura.
Pilato, nell’ambito del racconto della passione, ci viene presentato come succube, quasi vittima, di una folla urlante e minacciosa. Egli è visto benevolmente da tutti gli evangelisti, come colui che, resosi conto dell’innocenza di Gesù[54] e capito che i motivi del suo arresto sono dettati da invidie e risentimenti[55], cerca in tutti i modi di liberarlo[56]. È probabile che il fatto sia vero; certo è, comunque, che la magnanimità di Pilato, in questo contesto, serve agli evangelisti per aggravare la responsabilità dei Giudei per la morte di Gesù.
Il Pilato che si lava le mani (Mt 27,24) è un chiaro gesto simbolico per far ricadere la colpa totalmente sui Giudei, che, senza remore, se la assumono (Mt 27,25), pur di levarsi dai piedi un ingombro politico e religioso qual era Gesù. il fatto poi che Pilato ceda alle insistenze sempre più crescenti da parte delle autorità del popolo e dai loro accoliti[57], non fa che accentuarne la responsabilità.
Farisei, Scribi, Sadducei, Sacerdoti, Anziani formano il grosso gruppo politico-religioso presente in Palestina ai tempi di Gesù e con cui Gesù dovrà misurarsi.
Il culto, lo studio, la difesa della Torah e soprattutto la sua corretta pratica costituiscono gli obiettivi primari di questo potere che grava sul popolo.
Farisei e Scribi sono nati intorno alla Legge e vivono in sua funzione. Il loro obiettivo primario è la corretta interpretazione ed esecuzione della stessa. La religione ebraica non conosce teologia o morale, ma tutto si riduce ad una mera e, direi, fisica attuazione della Torah, poiché essa è la concreta manifestazione della volontà di Dio e in essa Dio è presente.
Il rigoroso rispetto della Torah e la sua pratica è l'anima più profonda e più vera dell'ebraismo ed è l'autentica religione; mentre la conoscenza e lo studio della Legge e dei Profeti sostituisce ogni teologia e compensa ogni morale. Infatti lo studio della Torah non è finalizzato a sviluppare delle teologie, bensì a dare una corretta comprensione ed esecuzione della Legge.
Compito primario del buon ebreo non è capire la Torah, ma praticarla indipendentemente dalla sua comprensione, perché essa è l'esplicita volontà di Dio, che chiede, proprio perché volontà, di essere eseguita[58]. Di fronte al comando di Dio che gli ordina di sacrificare suo figlio, Abramo non cerca di capire e non interroga Dio, ma semplicemente esegue (Gen 22,1-19) Esempi di questa esecuzione quasi maniacale della Legge vengono riportati nei vangeli[59], che aprono delle piccole finestre sul modo di comprendere e vivere la Torah presso il giudaismo del primo secolo.
E' importante capire questa logica, che regola il rapporto dell'ebreo con la Legge, per poter capire il profondo dissidio che contrappone questi gruppi di potere a Gesù.
Questo ci consente di comprendere, da un lato, le giuste rimostranze di Scribi e Farisei nei confronti dei comportamenti troppo libertari ed offensivi del sentire religioso dei suoi correligionari da parte di Gesù; dall'altro, di valutare lo sforzo rinnovatore che Gesù ha fatto per far comprendere al suo popolo che la vera religiosità (e quindi l'autentico rapporto con Dio) deve coinvolgere l'uomo nella sua interezza e parte tutto dalla sincerità del cuore, che sa leggere e cogliere, al di là della forma, la sostanza della volontà di Dio contenuta nella Torah. Gesù, infatti, definisce chiaramente il suo intento: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento " (Mt 5,17). Il racconto, poi, della purificazione del Tempio con la cacciata dei venditori (Mt 21,12-13), che a mio avviso non ha consistenza storica perché urta contro le logiche della storia di quel tempo[60], rimarca una volta di più lo sforzo rinnovatore di Gesù circa il culto. Quel rovesciamento dei banchi nel Tempio vuole significare il rovesciamento del vecchio culto per fare spazio ad uno nuovo, più autentico, che vada al di là di una mera esecuzione formale di quanto previsto dalla Legge. Ciò che qui Gesù compie è un gesto profetico, che va colto sulla linea degli antichi profeti. Per Gesù, infatti, il vero culto nasce dal cuore e si esprime attraverso la preghiera e il sacrificio. Preghiera e sacrifico, quindi, per Gesù non sono la sostanza della religione, ma strumenti attraverso cui si esprime la vera religiosità dell'uomo, che si radica nel profondo della sua vita (Mt 6,1-8.16-18), diversamente culto e preghiera si traducono in una ipocrisia. Nell'ambito di questa cornice si comprende il lamento di Gesù, che riprende liberamente Isaia 29,13: "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini" (Mt 15,8-9).
Le figure, che compongono il gruppo del potere politico, che si oppone e contrappone a Gesù, sono dipinte, in particolare da Matteo e Giovanni, con tinte fosche e decisamente negative; mentre Luca guarda ai Farisei con maggior benevolenza e li presenta anche disponibili al nuovo messaggio di Gesù, con cui intrattengono talvolta rapporti amichevoli[61]. Luca è probabilmente il più vicino alla realtà forse perché meno coinvolto nelle diatribe, tutte giudaiche, di Matteo e Giovanni con i loro contemporanei. Luca, infatti, è un etnocristiano che si rivolge a degli ellenisti provenienti dal paganesimo e, quindi, completamente estranei alle beghe che coinvolgevano, invece, gli altri evangelisti, benché anche lui usi la mano piuttosto pesante nei confronti di queste categorie di potere[62].
Va tenuto presente poi che i Farisei, a cui appartenevano varie categorie sociali e di potere, in particolar modo quella degli Scribi (Mc 2,16; At 23,9), erano persone pie e devote, tutte dedite alla comprensione e alla corretta esecuzione della Torah ed erano stimati e venerati dal popolo. Onoravano con la loro vita e a modo loro Dio, secondo la loro capacità di comprensione delle cose e delle realtà divine. Erano persone molto attente alla tradizione[63] e conducevano sostanzialmente una vita santa. Ciò però non impediva loro, proprio per una imperfetta comprensione della Legge e dei Profeti, legata alla fragilità propria dell'uomo, di commettere delle storture nel vivere gli insegnamenti della Torah.
Matteo e Giovanni, in quanto maggiormente coinvolti nel confronto-scontro con loro, ci trasmettono delle immagini deformate e eccessivamente caricate, ma non falsificate. Va tenuto presente, infatti, che Gesù non morì di vecchiaia, ma venne assassinato proprio per le sue idee rivoluzionarie e per il suo comportamento offensivo nei confronti della Torah e della tradizione degli antichi[64]. Questa predicazione radicalmente innovativa metteva in pericolo l’intero sistema di potere civile e religioso, che sosteneva la comunità giudaica, indigena e della diaspora.
Ci si trovava, inoltre, in un'epoca in cui il Tempio, con il suo culto e il suo apparato cultuale, era scomparso improvvisamente e definitivamente con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. A seguito di ciò un'intera classe di potere, sacerdoti e sadducei legati al tempio, scomparve con esso.
Il tempo in cui sorsero poi i vangeli di Matteo e Giovanni, verso la fine del I sec. (80-100 d.C.), era il periodo in cui si stava formando un nuovo tipo di giudaismo, quello rabbinico, nato a Jamnia (in ebr. Yavne) immediatamente dopo il 70. In questo periodo Scribi e Farisei, diventati naturalmente rabbini, si fecero guida del popolo e del giudaismo intero, allo sbando, sostituendo il culto del Tempio, ormai finito, con quello della Torah. Essi si scontrarono con il nascente cristianesimo, che pretendeva di dare una visione completamente diversa della religione ebraica. Un tono di lotta e di sfida su chi fossero i veri interpreti della Torah e, quindi, i veri eredi del giudaismo, si sente aleggiare nelle dure e polemiche parole dell'intero cap. 23 di Matteo, che inizia con una nota accusatoria e di contestazione contro i Farisei: "Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gli Scribi e i Farisei" (Mt 23,2), come dire che questi si sono arrogati un potere che non hanno mai avuto e si sono costituiti legittimi interpreti della Legge e dei Profeti, nonché guide del popolo. A questi Matteo contrapporrà il nuovo messaggio del suo Rabbi Jeshouah, che definisce come il vero e autentico compimento della Legge e dei Profeti (Mt 5,17), nonché il vero e autentico e, quindi, unico interprete della Torah (Mt 5,21-48).
Come si vede sullo sfondo dei vangeli si muove una grande lotta di poteri: da un lato un giudaismo riformato, che espelle dalle proprie comunità, decretandone la morte civile, i seguaci di Rabbi Jeshouah come eretici (Gv 9,22b); dall'altro un cristianesimo nascente proprio dalle ceneri del vecchio giudaismo, reinterpretato e rilanciato secondo nuove prospettive del tutto rivoluzionarie e innovative, così che gli stessi discepoli di Gesù, fondatori della nuova "setta" del cristianesimo ebbero notevoli difficoltà a comprendere, a interpretare e a vivere. In proposito, basti pensare alle forti tensioni che intercorrevano tra Paolo e i capi della comunità di Gerusalemme[65], in particolare, con Pietro (Gal 2,11-16).
Tenendo presente le considerazioni fin qui accennate, vediamo come i vangeli ci presentano i vari componenti del gruppo di potere politico-religioso nel loro difficile rapporto con Gesù e come questi nei racconti evangelici si intrecciano tra loro.
Farisei sono nominati complessivamente 93 volte in tutto il NT e sono presentati:
- da soli 53 volte
- in coppia con gli Scribi 20 volte
- in coppia con i Sadducei 9 volte
- in coppia con i Sacerdoti 7 volte
- in coppia con gli Anziani 0 volte
- in coppia con i discepoli
di Giovanni 4 volte
Scribi sono nominati complessivamente 61 volte in tutto il NT e sono presentati:
- da soli 7 volte
- in coppia con i Farisei 20 volte
- in coppia con i Sadducei 0 volte
- in coppia con i Sacerdoti 22 volte
- in coppia con gli Anziani 13 volte
- in coppia con i discepoli
di Giovanni 0 volte
Sacerdoti sono nominati complessivamente 116 volte in tutto il NT e sono presentati:
- da soli 59 volte
- in coppia con i Farisei 8 volte
- in coppia con gli Scribi 22 volte
- in coppia con i Sadducei 2 volte
- in coppia con gli Anziani 26 volte
- in coppia con i discepoli
di Giovanni 0 volte
Sadducei sono nominati complessivamente 14 volte in tutto il NT e sono presentati:
- da soli 3 volte
- in coppia con i Farisei 9 volte
- in coppia con gli Scribi 0 volte
- in coppia con i Sacerdoti 2 volte
- in coppia con gli Anziani 0 volte
- in coppia con i discepoli
di Giovanni 0 volte
Anziani sono nominati complessivamente 30 volte in tutto il NT e sono presentati:
(il termine "Anziani" compare in tutto il NT 44 volte, ma nel senso di "capi del popolo d'Israele" solo 30 volte)
- da soli 1 volta
- in coppia con i Farisei 0 volte
- in coppia con gli Scribi 13 volte
- in coppia con i Sacerdoti 26 volte
- in coppia con i Sadducei 0 volte
- in coppia con i capi delle
guardie 1 volta
- in coppia con i capi del
popolo 2 volte
- in coppia con i discepoli
di Giovanni 0 volte
I gruppi più citati in ordine decrescente sono:
· i Sacerdoti 116 volte
· i Farisei 93 volte
· gli Scribi 61 volte
· gli Anziani 30 volte
· i Sadducei 14 volte
Già da questa breve statistica possiamo rilevare come questi gruppi siano tra loro intrecciati, formando in tal modo un apparato unico e compatto di potere che si esprime secondo le funzioni e prerogative proprie di ogni gruppo. Numerose volte compaiono tra loro variamente associati nel loro muoversi nei confronti di Gesù e tutti sono sensibilmente preoccupati nei suoi confronti.
Notiamo, inoltre, quanto sia preponderante su tutti il gruppo dei Sacerdoti. Sono questi, infatti, i veri capi del mondo religioso ebraico fino all'anno 70 d.C. e detengono, quindi, il potere anche politico in seno al Sinedrio, organo politico-religioso di governo del popolo, composto da 71 membri, provenienti dalle varie sette dei Sadducei, Farisei, Anziani a capo dei quali vi era il Sommo Sacerdote in carica.
I Sacerdoti saranno gli unici, insieme agli Anziani, a decidere sul destino di Gesù. Sono loro che lo accuseranno pubblicamente, loro lo sottoporranno a giudizio e aizzeranno la folla contro di lui e ne determineranno la morte. Farisei, Scribi e Sadducei si possono definire soltanto responsabili morali della morte di Gesù, cioè coloro che hanno creato intorno a lui un clima di persecuzione, di diffamazione, di scontro e di linciaggio morale, arroventando la situazione fino a farla precipitare. Essi, infatti, avranno un ruolo del tutto marginale nel racconto della passione ruolo che per altro varia da evangelista a evangelista.
Di seguito possiamo vedere schematicamente, in base al numero di volte che vengono citate da ogni singolo evangelista, l'incidenza attiva che le varie figure di potere hanno avuto nell'ambito della passione e morte di Gesù:
MT MC LC GV
Scribi 2 volte 5 volte 3 volte 0 volte
nessun ruolo attivo ruolo attivo ruolo attivo
Farisei 1volta 0 volte 0 volte 1 volta
nessun ruolo attivo ruolo attivo
Sadducei 0 volte 0 volte 0 volte 0 volte
Anziani 9 volte 3 volte 2 volte 0 volte
ruolo attivo ruolo attivo ruolo attivo
Sacerdoti 19 volte 10 volte 10 volte 14 volte
ruolo attivo ruolo attivo ruolo attivo ruolo attivo
Giudei = = = 22 volte
ruolo attivo
Da questo schema sintetico vediamo come, a seconda degli evangelisti, Scribi, Farisei e Sadducei non sempre sono citati e, là dove compaiono, non sempre ricoprono ruoli attivi nel determinare la condanna di Gesù. Per quanto riguarda, invece, Anziani e Sacerdoti, con particolare riferimento a questi ultimi, tutti gli evangelisti sono concordi nel citarli come attivamente implicati nella morte di Gesù e, quindi, direttamente responsabili. Giovanni, per la peculiarità del suo linguaggio, non cita mai in tutto il suo vangelo gli anziani, eccetto che nel v. 8,9 con significato diverso da quello di "capo del popolo". Tuttavia egli ricorre abbondantemente al termine "Giudei" in senso lato per indicare coloro che erano affetti da incredulità cronica e totalmente impermeabili al messaggio di Gesù. Essi diventano nel vangelo di Giovanni il simbolo del rifiuto di Gesù. Il sostantivo "Giudei", pertanto, in Giovanni viene ad assumere un significato decisamente negativo: furono proprio loro, a motivo della loro pervicace incredulità, i fautori primi della morte di Gesù e a loro si riferisce nel suo prologo l'evangelista: "Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto" (Gv 1,11).
I Farisei
Matteo ce li presenta come coloro che, assieme ai Sadducei, accorrono alla predicazione e al battesimo di Giovanni (Mt 3,7), ma forse solo per curiosità verso un fenomeno che smuoveva masse intere di persone e, per ciò stesso, potenzialmente pericoloso per il potere costituito. Essi infatti si ritenevano giusti e giustificati per la loro stretta osservanza delle prescrizioni della Legge[66] e attendevano di diritto la salvezza in quanto figli di Abramo (Mt 3,9); per questo il Battista li redarguirà duramente (Mt 3,10) secondo lo stile degli antichi profeti[67].
Sono in netta contrapposizione con Gesù circa le questioni riguardanti il digiuno[68], il sabato[69], e la purità[70].
Stretti osservanti della Legge, conducono una vita santa e irreprensibile, intesa come rigorosa e formale esecuzione della Legge, e considerano, pertanto, impuri i peccatori, i pubblicani e le prostitute, che guardano con disprezzo, praticando una netta separazione da loro (Lc 18,11-12) e rimproverando a Gesù la sua promiscuità con questa gente[71].
Essi si scandalizzano di fronte all'insegnamento di Gesù[72], che accusano di violare le tradizioni dei padri[73] e di essere al soldo di Beelzebul, principe dei demoni[74]. Gli chiedono, pertanto, dei segni e delle prove per credere in lui[75].
Il loro avvicinarsi a Gesù, però, non è per la conversione, ma solo per metterlo alla prova e coglierlo in fallo[76]. Tramano, pertanto, contro di lui e cercano pretesti per accusarlo e ucciderlo[77]; e di fatto lo accuseranno, tra le altre cose, di bestemmia, perché ha osato rimettere i peccati, funzione questa che aspettava solo a Dio, arrogandosi, quindi, lo stesso potere di Dio (Mt 5,21).
La loro scrupolosa osservanza della Legge li porta a sempre più complicate interpretazioni della Torah, che vanno ad aggravare la già difficile vita del popolo (Mt 23,4; Lc 11,46).
La loro posizione di privilegio, in quanto maestri e dottori della Legge in mezzo al popolo, li porta a perseguire dei vantaggi personali e a ricercare posizioni eminenti in società[78]. Di conseguenza hanno fatto della religione un affare economicamente vantaggioso anche a danno della povera gente[79].
Gesù nei loro confronti non si mostrerà particolarmente tenero e in una violenta requisitoria contro di loro (Mt 23), pronunciata alla soglia della sua passione, li accuserà di aver usurpato il posto di Mosé, arrogandosi diritti che non avevano (Mt 23,2) e facendosi interpreti di una Legge che loro, per primi, non rispettavano (Mt 23,4; Lc 11,46), comportandosi, pertanto, in netta dissonanza con la stessa, di cui loro si proclamavano maestri in Israele (Mt 23,3).
Sono accusati, inoltre, da Gesù di praticare una scrupolosa, ma formale osservanza della Legge, trascurandone la sostanza. Conducono una vita formalmente santa, ma la loro vera vita intima, che li dovrebbe unire profondamente a Dio, è in realtà corrotta e morta[80]. In tal modo culto e religione sono svuotati del loro senso e significato più profondi, traducendosi in mere formalità da espletare (Mt 23,25-28; Lc 11,42).
Per questo loro formale espletamento di pratiche religiose, sulle quali fondano la santità della loro vita e le loro pretese di salvezza (Lc 18,9-14), Gesù li accuserà di praticare una giustizia del tutto insufficiente per la loro salvezza (Mt 5,20; Lc 18,10-14).
Di conseguenza diffondono un falso culto di Jhwh, spingendo gli uomini da loro convertiti ad un superficiale, formalistico e ipocrita rapporto con Dio (Mt 23,15).
La loro già grave e pregiudicata posizione nei confronti di Dio e della propria salvezza è ulteriormente aggravata dal loro comportamento ostile nei suoi confronti che impedisce anche agli altri di accedere al suo messaggio (Mt 23,13; Lc 11,52).
Gesù, infine, denuncia nei loro confronti una contraddizione di fondo: essi accusano gli antichi di aver ucciso i profeti e gli uomini inviati da Dio; in riparazione di ciò elevano a loro favore monumenti onorifici e ne vanno fieri perché in tal modo riparano la violenza e la cecità dei loro padri; ma non si rendono conto che così facendo si dichiarano figli di uccisori di profeti, portando in se stessi il gene dell'incredulità e dell'assassinio. E di fatto essi si comportano parimenti ai loro padri nei confronti di altri profeti (Giovanni, Gesù e i suoi seguaci) che Dio ha mandato loro, perpetuando in tal modo i delitti contro Dio[81].
Ma non tutti i Farisei erano così ostili a Gesù, anzi vi erano anche di quelli che familiarizzavano con lui e tenevano con il Maestro rapporti di stretta amicizia e simpatia e verso i quali Gesù esprimeva benevolo il suo consenso. Sono Luca e Giovanni a darcene testimonianza[82].
Gli Scribi
Gli Scribi compaiono per la prima volta sulla scena della letteratura neotestamentaria nel vangelo di Marco e da subito sono messi in contrapposizione perdente a Gesù: "Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli Scribi" (Mc 1,22). Fin da principio, quindi, si capisce chi è il più bravo e come si svolgeranno in seguito i fatti: Gesù beneficerà della stima e dell'entusiasmo delle folle e tutto a spese degli Scribi e, con loro, dell'intero apparato del potere religioso. Un confronto, dunque, umiliante e un attacco al potere insopportabili, considerato che proprio gli Scribi sono stimati e venerati in mezzo al popolo come gli esperti interpreti delle Scritture[83].
Non a caso, infatti, li vediamo convocati d'urgenza, assieme ai Sacerdoti, da Erode per un consulto circa una profezia veterotestamentaria sulla nascita del messia (Mt 2,4), che tanto turbò, e con lui la Gerusalemme bene dei notabili e del potere (Mt 2,3), la sospettosa e fragile mente di Erode fino a spingerlo ad un massacro di bambini innocenti (Mt 2,16).
Appare qui, fin dall'inizio del racconto, il primo nucleo di opposizione a Gesù che, unitamente agli Anziani del popolo, costituiranno una costante e sempre più crescente persecuzione nei suoi confronti fino alla morte[84].
Gli Scribi sono citati spesso insieme ai Sacerdoti (22 volte) e ai Farisei (20 volte), della cui setta molti di loro fanno parte (Mc 2,16; At 23,9), condividendone dottrina e comportamenti. Proprio per questo Matteo, nel suo cap. 23, li accomunerà nell'invettiva di Gesù contro di loro[85]. Infatti, sono da lui accusati, insieme ai Farisei, di avere una giustizia del tutto inadeguata per cogliere la salvezza (Mt 5,20), poiché hanno fatto della religione e del loro servizio alla Torah un motivo di ricerca di prestigio sociale ed economico, abusando della loro posizione[86].
Insieme con i Sacerdoti si scandalizzano per l'insegnamento e comportamento di Gesù (Mt 21,15), e indagano, con i Farisei, i Sacerdoti e gli Anziani, sulla sua identità, chiedendogli di qualificarsi con dei segni e prove, giustificando, pertanto, la sua pretesa autorità[87].
Ma, sempre in combutta con i Farisei, gli Scribi costituiscono il polo accusatorio e persecutorio nei confronti di Gesù[88], cercando il modo di coglierlo in fallo (Lc 6,7; Gv 8,6). Per questo, anche insieme ai Sacerdoti, tramano e congiurano contro Gesù[89] e costituiranno, infine, con il gruppo di potere dei Sacerdoti e degli Anziani del popolo, il tribunale di accusa contro Gesù e lo scherniranno sul patibolo, rinfacciandogli il suo insegnamento e la sua presunta autorità, messa a tacere, una volta per tutte, sulla croce[90].
Tuttavia, come i Farisei, anche gli Scribi non sono tutti sfavorevoli a Gesù.
I Sadducei
I Sadducei sono il gruppo di potere meno citato nel NT: soltanto 14 volte, di cui ben 9 compaiono insieme ai Farisei e soltanto 2 con i Sacerdoti, alla cui classe appartenevano, anzi ne erano la parte nobile e più conservatrice. Per conservare il loro potere e i propri privilegi assunsero atteggiamenti concilianti con il potere romano di occupazione ed erano contrari ad ogni innovazione in campo sociale e religioso.
Essi si rifacevano, come discendenza, al sommo sacerdote Zadok[91], scelto da Salomone (970-933 a.C.) in sostituzione di Ebiatar (1Re 2,35). A differenza dei Farisei e degli Scribi, che vivevano in mezzo alla gente ed erano rispettati e onorati, i Sadducei vivevano ritirati e isolati, perché odiati dal popolo per la loro posizione favorevole agli invasori romani. Forse proprio per questo sono scarsamente menzionati nel NT[92].
In Matteo compaiono soltanto una volta da soli, in occasione della diatriba tra loro e Gesù sulla risurrezione dei morti, alla quale, però, non credevano (Mt 22,23), come non credevano negli angeli e negli spiriti in genere e, quindi, neppure nell'immortalità dell'anima e nella ricompensa dopo la morte (At 23,8). Cose queste in cui, invece, credevano i Farisei. Sadducei e Farisei, quindi, erano dottrinalmente contrapposti e talvolta la loro contrapposizione sfociava in liti violente (At 23,7.9-10).
Erano discordi, inoltre, anche nell'accettazione delle Scritture e della Tradizione: i Sadducei accettavano soltanto la Torah scritta, mentre rifiutavano quella orale (la Tradizione), in cui credevano, invece, i Farisei. Nonostante questa radicale e irriducibile contrapposizione ideologica, essi compaiono in Matteo per ben 6 volte associati ai Farisei, accomunati dallo stesso risentimento contro Gesù. Un fenomeno questo che si verificherà anche per il potere politico civile, tra Pilato ed Erode Antipa (Lc 23,12): discordi su tutto, ma tutti si ritrovano contro il comune nemico del loro potere: Gesù.
Li troviamo con i Farisei al battesimo di Giovanni (Mt 3,7); nel mettere alla prova Gesù (Mt 16,1; 22,34) e nella comune incredulità, a motivo del loro attaccamento alla Legge e al potere, che da essa proveniva loro, ma che nel contempo li rendeva incapaci di accogliere la novità contenuta nel messaggio di Gesù (Mt 16,6.11-12). Sono, invece, in stretto rapporto con i Sacerdoti e, in particolare, con i loro capi (At 5,17.21), anche se sono citati soltanto 2 volte con loro. Assieme ai Farisei, agli Anziani e ai Sacerdoti costituivano il Sinedrio e, strano a dirsi, i Sadducei sono le uniche figure di potere che non compaiono, in senso assoluto, nei quattro vangeli come figure attive durante la passione e morte di Gesù. Tuttavia, è da pensare che, in quanto facenti parte del Sinedrio e della classe dirigente dei Sacerdoti, in stretta collaborazione con i Sommi Sacerdoti, abbiano comunque partecipato responsabilmente agli eventi che costituiscono il racconto della passione e morte di Gesù.
I Sacerdoti
Formano la classe di potere più volte citata nel NT (116 volte) e appaiono associati numerose volte sia con gli Scribi (22 volte) che con gli Anziani (26 volte). Erano in numero assai consistente, circa 20.000[93], suddivisi in 24 classi (1Cr 24,7-19) e in turni di servizio al Tempio di una settimana ciascuno[94], quindi ogni classe era impegnata per almeno due settimane all'anno. Un numero particolarmente elevato, se pensiamo che i soli Farisei erano in circa 6.000 (v. Guerra Giudaica) e gli Esseni si contavano in numero di 4.000, mentre l'intera città di Gerusalemme, ai tempi di Gesù, conteneva all'incirca 60.000 abitanti[95].
Sono coloro che, con gli Scribi e gli Anziani, sorvegliano il culto, le dottrine e i vari predicatori di quel tempo[96] per evitare sommosse e interventi da parte dei Romani (Gv 11,47-50).
Hanno, inoltre, anche un ampio potere civile: arrestano, giudicano, condannano a morte, intrallazzano e usano l'omicidio come logica di gestione del loro potere[97].
Compaiono per la prima volta nel vangelo di Marco, con riferimento alle vicende di Gesù, in 8,31, dove sono presentati come i fautori, assieme agli Anziani e agli Scribi, della passione e morte di Gesù. Assumono, pertanto, fin da subito una connotazione negativa, così come in Matteo, dove sono presentati per la prima volta in 2,4 insieme agli Scribi e ad Erode, la triade del potere politico e religioso che trama fin dall'inizio per sopprimere Gesù. In Giovanni i Sacerdoti sono presentati per la prima volta, insieme ai Farisei, come coloro che prendono informazioni, interrogano, vigilano e vogliono arrestare Gesù (Gv 1,19; 7,32).
Sono, quindi, assieme agli Scribi e agli Anziani, i fautori della persecuzione contro Gesù, che terminerà con la sua morte.
Luca, invece, in quanto definitosi storico accurato (1,3) e volendo dare un'impronta storica alla sua opera (1,1-4), è l'unico evangelista a presentarci i Sacerdoti con funzione di cornice storica (1,5.9; 3,2) entro cui collocare il suo racconto della nascita di Gesù. Soltanto a narrazione inoltrata, dal cap. 9,22, i Sacerdoti incominceranno ad assumere quella nota negativa che li caratterizza in tutto il NT.
Sono presentati, assieme agli Scribi, in collaborazione con il potere politico e civile (Mt 2,4) e sono la causa, con Scribi e Anziani, delle sofferenze e della morte di Gesù[98]. A motivo dell'insegnamento di Gesù rimangono scandalizzati e si sdegnano[99] e, pertanto, in combutta con Scribi e Anziani, contestano la sua autorità[100]. Ma la contestazione si fa ben presto trama contro Gesù e confabulano tra loro per catturarlo e ucciderlo[101]. Dalle numerose citazioni vediamo come il tema della congiura contro Gesù costituisce il leit motiv dominante che caratterizza i rapporti del potere sia politico che religioso con Gesù. Ed ecco che il loro continuo macchinare trova uno sbocco concreto in una breccia che si è aperta all'interno dei fedelissimi di Gesù: Giuda, il traditore, che costituisce il cavallo di Troia che li condurrà diritti all'obiettivo da molto tempo perseguito: impossessarsi di Gesù e farlo tacere per sempre[102]. Diventano, pertanto, insieme agli Scribi ed Anziani, i mandatari della cattura di Gesù, perpetrata con l'inganno, il tradimento e la corruzione[103].
Insieme agli Anziani e agli Scribi, si costituiscono suoi giudici[104], accusandolo di bestemmia[105] e interrogandolo sulla sua identità e sulla sua pretesa autorità per aver motivo concreto e giuridicamente inoppugnabile di accusa contro di lui e dare, pertanto, formale correttezza ad una decisione di soppressione, che avevano in realtà già da tempo maturato e ben definito[106]. Si aspettava solo il momento opportuno, che venne con Giuda[107].
Istigano la folla a favorire Barabba e a consegnare Gesù alla morte[108] ed infine, come atto liberatorio ed espressione di una loro indiscutibile vittoria, finalmente raggiunta, lo deridono rinfacciandogli il suo insegnamento e la sua pretesa autorità divina (Mt 27,41; Mc 15,31).
Ma, come d'improvviso, qualcuno si è ricordato che Gesù aveva parlato di una sua risurrezione[109]; ed ecco che compare il fantasma di un suo possibile ritorno. Ne hanno paura e denunciano la cosa presso Pilato, che li respinge (Mt 27,62-63). Abbandonati dal potere civile, cercano di porvi rimedio diffondendo menzogne e calunnie, usando, come per Giuda (Mt 26,16), la corruzione (Mt 28,11-15).
Il motivo di questo accanimento contro Gesù sembra doversi ritrovare nell'invidia (Mt 27,18; Mc 15,10) per l'enorme successo di Rabbi Jeshuah (Mt 4,23-25; Mc 1,28), che minava la loro credibilità e, quindi, il loro potere presso il popolo[110].
Ma come per gli Scribi e i Farisei (v. voci Scribi, Farisei), anche tra i Sacerdoti si verificano numerose adesioni al nuovo insegnamento di Rabbi Jeshuah (At 6,7)
Gli Anziani
Il termine, nel significato di "capo del popolo", ricorre trenta volte in tutto il NT e, in ordine di citazione[111], si situano in penultima posizione, immediatamente prima a quello di "Sadducei" (14 volte).
Esso compare spesso unito a quello di "Sacerdoti" (26 volte) e di "Scribi" (13 volte). Gli Anziani sono posti quasi sempre in stretta relazione alla passione e morte di Gesù e costituiscono il gruppo più attivo nel favorirne la fine[112]. Infatti, sono, assieme ai Sacerdoti e Scribi, coloro che fanno soffrire maggiormente Gesù, lo arrestano, lo sottopongono a giudizio e tramano per la sua condanna a morte presso Pilato[113].
Insieme ai Sommi Sacerdoti conducono trattative e stabiliscono contatti con le autorità civili[114], pilotando il processo contro Gesù[115]. Ciò sta a significare che il vero centro di potere religioso-politico sono loro. Loro si riuniscono in consiglio e deliberano, dando ufficialità alle loro decisioni[116] anche se, per renderle eseguibili, devono avere il consenso di Roma (Gv 18,30-31), in particolare per le condanne a morte, essendo privi, in quanto nazione occupata, dello jus gladii, cioè del potere di vita e di morte sui propri cittadini.
Loro sono quelli che hanno un reale potere di gestione e di influenza sulla folla, che manovrano a seconda dei propri disegni e deliberazioni[117].
Insieme a Scribi e Sacerdoti, indagano sull'identità di Gesù, accertandosi sulla provenienza della sua presunta autorità[118], che, presso la gente, è posta in concorrenza con la loro (Mt 7,29; Mc 1,22).
Ma a differenza di Sacerdoti, Scribi e Farisei nessuno degli Anziani si mostra, in qualche modo, favorevole o benevolo con Gesù, a cui invece sembrano totalmente impermeabili e refrattari.
Scorrendo le pagine del racconto matteano, tra i vari personaggi che lo popolano, scopriamo un numero alquanto consistente di persone affette da qualche malanno che le perseguita e che rende loro la vita difficile, incerta e piena di sofferenza.
Ne troviamo elenchi formulati dallo stesso Matteo:
· "Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni" (Mt 10,8)
· "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano ..." (Mt 11,4-5)
· "La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici e li guariva" (Mt 4,24)
· "Attorno a lui si radunò molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi ed egli li guarì" (Mt 15,30)
Volendo farne una specifica dettagliata, abbiamo:
· ammalati o infermi in senso generico, che Matteo in 4,24 definisce come coloro che sono
"tormentati da varie malattie e dolori". Il termine ricorre 12 volte.
· Cieco, ricorre 14 volte
· Sordo, ricorre 2 volte
· Muto, ricorre 4 volte
· Storpio ricorre 6 volte
· Zoppo, ricorre 5 volte
· Lebbroso, ricorre 4 volte
· Paralitico, ricorre 3 volte
· Epilettico, ricorre 2 volte
· Emorragico, ricorre 1 volta
· Indemoniato, ricorre 6 volte
Come si può rilevare sono menomazioni fisiche che colpiscono in vario modo l'uomo, rendendolo parzialmente o totalmente inabile a vivere la propria vita. Vediamo come Gesù interverrà su questi vari tormenti che affliggono l'uomo. Su diciannove miracoli riportati da Matteo[119], ben quattordici sono riservati alla rigenerazione dell'uomo, restituendolo alla sua pienezza di vita. Di questi: due sono riservati a dei paralitici; due a dei ciechi; quattro a degli indemoniati; una volta soltanto ad un lebbroso, uno storpio, un epilettico, un'affetta da forte stato febbrile, un'emoroissa, una morta.
Ma perché Matteo inserisce un numero così consistente di ammalati, dettagliandoli nella loro infermità? Perché Gesù compie un numero così elevato di guarigioni? Qual è il significato di queste malattie?
La risposta a questi interrogativi possiamo trovarla nei vv. 9,1-13, in cui sono riportati tre episodi apparentemente slegati tra loro, ma, in realtà, strettamente concatenati da un unico filo logico, che li accomuna:
· La guarigione del paralitico (9,1-8);
· La chiamata alla sequela di Matteo (9,9);
· Il banchettare di Gesù con i pubblicani e peccatori (9,10-13).
1) A Gesù viene presentato un paralitico, cioè un uomo prigioniero del suo stesso corpo inerte e, per ciò stesso, un uomo socialmente e religiosamente morto. Il primo atto che Gesù compie su di lui è il perdono dei peccati, non la guarigione fisica, motivo per cui gli era stato presentato. Appare pertanto significativo questo episodio perché, se da un lato pone una stretta connessione tra il male fisico e lo stato di peccato[120], dall'altro rivela i veri intenti della missione di Gesù e il significato più vero e profondo del suo operare. Il paralitico è la metafora di un uomo colpito dal peccato, che lo rende prigioniero e incapace di porsi in un giusto e corretto rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio. Il primo gesto, quindi, di Gesù è quello di riabilitare l'uomo, così gravemente menomato, riconciliandolo con Dio, da cui discende poi una riconciliazione con se stesso e con gli altri; ecco, quindi, la guarigione fisica, che testimonia anche a livello sociale, storico quanto è già avvenuto a livello spirituale. In altri termini, l'uomo riconciliato con Dio è anche capace di riconciliazione con se stesso e con gli altri. Gesù, dunque, è venuto a riconciliare e a riabilitare l'uomo su ogni livello del suo essere, rendendolo pienamente uomo, così come Dio lo aveva pensato da sempre (Ef 1,4-5).
2) Gesù non si accontenta di restituire all'uomo la sua dignità, ma lo chiama anche alla sua sequela (Mt 9,9), cioè a riprodurre in sé quell'immagine e somiglianza di Dio, che gli era propria fin da principio per decreto divino (Gen. 2,26). Per arrivare a questo è necessario rinnegare se stessi (Mt 16,24), cioè la propria vecchia immagine umana, deturpata dalla colpa, per poter riprodurre l'antica e nuova immagine divina in noi. Chi vuol seguire Gesù non può più ragionare secondo i vecchi schemi umani, ma deve porsi nella rinnovata prospettiva divina. Per questo Pietro, quando consiglia a Gesù di rinunciare al suo progetto di sofferenza e di morte, viene definito da Gesù "satana", perché il suo modo di pensare è conforme al vecchio uomo decaduto (Mt 16,22-23) e non a quello nuovo, pensato da Dio e rigenerato nel Gesù risorto.
3) Ed ecco il terzo episodio, che è la parte conclusiva del breve ed intenso discorso matteano sul significato della missione di Gesù e sul senso del suo operare: mentre Gesù è seduto a mensa, viene raggiunto da pubblicani e peccatori, che siedono a tavola con lui (Mt 9,10). Quindi, Gesù, dopo aver riconciliato l'uomo con Dio ed avergli proposto la sua sequela, lo chiama a condividere il banchetto con lui, cioè a condividere la sua stessa vita posta nel Padre. E' quel banchetto dai marcati toni messianici, di cui parla anche Isaia (Is 25,6).
A fronte dello scandaloso comportamento di questo rabbi sovversivo, che crea dubbi e incertezze, Matteo mette in bocca al suo Gesù la motivazione vera del suo operare: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mt 9,12-13).
Ecco, quindi, che la malattia assume nel racconto matteano un valore simbolico-metaforico: sani = giusti; malati = peccatori; dunque, malattia = peccato; mentre il senso della venuta di Gesù è una chiamata generale alla conversione (Mt 3,2; 4,17; 9,13), che si attua attraverso un'azione divina di misericordia e di compassione (Mt 14,14; 15,32), che l'uomo è chiamato in prima persona ad operare, a sua volta, con i suoi simili, in quanto lui per primo è stato perdonato (Mt 6,12; 19,23-24).
Se la malattia in genere acquisisce una funzione simbolica del peccato, che intacca l'uomo alla radice del suo vivere, rendendolo incapace di rapporti pieni e veri, l'enumerazione di alcune di queste infermità, quali la cecità, la sordità, la paralisi, l'essere muto, l'emorragia, ecc., diventano veri atti di accusa contro particolari comportamenti peccaminosi dell'uomo, che lo precludono a qualsiasi intervento divino, assegnandolo tragicamente ad un destino di perdizione (Mt 12,30-32). La cecità denuncia l'incapacità di "vedere", cioè l'assenza di fede, unica in grado di far cogliere le realtà divine nascoste e proclamate nell'uomo Gesù. Non a caso infatti Gesù, nel corso del racconto, definirà ciechi i farisei per la loro pervicace e invincibile incredulità[121]. E così, similmente, la sordità denuncia l'incapacità di ascoltare e accogliere il nuovo annuncio[122]; mentre l'essere muto indica l'incapacità di dare una vera lode a Dio. Infatti, soltanto dopo la guarigione dei due indemoniati muti, di cui uno è anche cieco (Mt 12,22) nasce spontanea la lode a Dio da parte della gente, che riconosce nell'operare di Gesù l'intervento divino (Mt 9,34b; 12,23). La paralisi, che rende inerte il corpo dell'uomo, richiama, in qualche modo, lo stato vegetativo di uno spirito avvolto dal peccato, che lo rende incapace di aprirsi al persistente richiamo di Dio (Mt 23,37), destinandolo al fallimento completo nel suo triplice e inscindibile rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio (Mt 9,1-8).
Sono tutte malattie che simbolicamente richiamano l'incredulità e le sue disastrose conseguenze. Essa, infatti, è l'unico grave handicap spirituale, che rende impermeabile l'uomo all'azione salvifica di Dio, vanificandola inesorabilmente[123]. Non a caso Matteo dedica al tema dell'incredulità e ai suoi effetti ben tre capitoli (11,16-13,58) e presenta un Gesù che teme, in qualche modo, che la sua missione possa anche fallire[124].
A fronte della misera condizione dell'uomo, profondamente segnato dall'infermità del peccato che lo chiude all'azione divina, Gesù non rimane insensibile. Abbiamo visto sopra come Matteo riporta ben 14 miracoli, che Gesù spende a favore di un uomo variamente deturpato dalla malattia, che lo riduce ad uno stato larvale, incapace di vera vita. Ma l'azione di Gesù sull'infermità è efficace solo ad una condizione: che l'uomo sia disponibile a riceverla e quindi si apra a Gesù. Non a caso tutti i miracoli di guarigione, indistintamente, incominciano con il presentarci i vari ammalati che si avvicinano a Gesù, vanno verso di lui o sono, comunque, presentati o condotti a lui. Tutti questi movimenti di avvicinamento a Gesù, talvolta accompagnati da invocazioni[125] descrivono simbolicamente l'apertura dell'uomo alla fede, disponibile ad accogliere la salvezza che promana da Gesù; fede che, talvolta, Gesù stesso sottolinea ed ammira[126]. Ed ecco allora che l'incontro di Gesù con questa umanità decaduta produce il miracolo: l'uomo è liberato dall'infermità del peccato e rigenerato ad una nuova vita e spesso questi miracoli si concludono o con una lode a Dio o con una sequela o con l'annuncio del portentoso intervento divino sull'uomo[127].
Al di là della questione della veridicità o meno di questi miracoli, va comunque colto il messaggio che è in essi contenuto: evidenziare, da un lato, la compassione e la vicinanza di un Dio che si commuove di fronte all'umanità decaduta (Mt 14,14; 15,32; 20,34) e la guarisce, manifestando, quindi, il suo intervento risanatore; dall'altro questi miracoli anticipano e rivelano, in qualche modo, il senso e gli effetti della risurrezione[128]: l'uomo, perduta la sua originaria dignità[129] viene riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio ed è nuovamente rigenerato alla vita divina, nuovamente ricostituito, nel Gesù risorto, ad immagine e somiglianza di Dio.
Un ultimo protagonista, da noi preso in considerazione prima di inoltrarci nell'analisi narrativa e strutturale del racconto matteano, è costituito dalle folle, che si muovono su di uno sfondo anonimo e, per questo, spesso trascurate. In realtà, pur conservandole nel loro anonimato[130], l'autore le caratterizza in modo particolare, quasi a farne un unico soggetto con personalità e sentimenti propri, in grado di agire autonomamente, di provare comuni sentimenti, di reagire emotivamente, di prendere iniziative. Per certi aspetti esse assomigliano al coro delle tragedie greche, chiamato a commentare, dall'esterno quanto avviene sulla scena. In esse si sente, talvolta, risuonare anche la voce dell'autore, che suggerisce, orienta, tesse la sua teologia, insinua, commenta.
Matteo nel suo racconto distingue due tipi di folla: quella caratterizzata dalla sequela e che intesse con Gesù un rapporto profondo e con la quale Gesù interloquisce[131]; e quella ostile, relegata nei due capitoli, 26-27, della passione e morte di Gesù. Questa si presenta manovrabile e si spende per la soppressione di sangue innocente.
Senza soffermarci oltre, deliniamo sinteticamente i tratti salienti che caratterizzano i due tipi di folle e i rapporti che Gesù intrattiene con queste.
1) Come si rapportano a Gesù le folle caratterizzate dalla sequela:
· seguono Gesù; (4,25; 8,1; 14,13; 15,32; 19,2; 20,29; 21,9)
· si radunano attorno a lui; (8,18; 13,2; 15,10; 15,30)
· rendono testimonianza a Gesù; (9,33; 12,23b; 21,11b)
· esprimono i loro sentimenti di fronte all'operare di Gesù, per cui: a) sono prese da timore;(9,8) b) rendono gloria a Dio; (9,8; 15,31b) c) sono prese da stupore; (7,28; 9,33; 12,23b; 15,31a) d) rimangono sbalordite; (12,23a; 22,33)
· sono soggetto di azioni proprie e di iniziativa autonoma; (20,31; 21,8; 21,11a)
· Incutono paura agli oppositori di Gesù. (21,26; 21,45)
2) Come Gesù si rapporta a loro:
· Gesù le guarda; (5,1; 9,36; 14,13)
· Si commuove e prova compassione per loro; (9,36; 14,14; 15,32)
· Le sfama e guarisce i loro infermi; (14,14; 14,19-20;15,30; 15,36-37; 19,2)
· Le ammaestra e insegna a loro; (5,2; 11,7; 12,46; 13,3; 13,34; 15,10b; 22,33; 23,1)
· Gesù lascia le folle o le congeda; (8,18; 13,36; 14,22-23; 15,39)
· Le riunisce attorno a sé e torna in mezzo a loro; (15,10a; 17,14)
3) Come si comportano con Gesù le folle caratterizzate dall'ostilità,:
· è una folla armata, venuta ad arrestare Gesù; (26,47.50b)
· si lascia manipolare dai sommi sacerdoti e anziani, divenendo un potente strumento di pressione politica e di morte; (27,20-23.24a)
· diventa spettatrice, testimone e responsabile della morte di un innocente; (27,24b)
4) Come Gesù si comporta con la folla ostile:
· Gesù rinfaccia alla folla la propria vigliaccheria; (26,55)
· Gesù non vuole resistenze, ma si lascia arrestare; (26,50b-54)
Si chiude così la nostra analisi su alcuni personaggi, che si muovono all'interno del racconto matteano. Abbiamo voluto sottolineare, in particolar modo, il loro contenuto teologico, poiché l'intento dell'autore non è quello di fare storia e tantomeno cronaca, ma servendosi di questi elementi, intessere una sua teologia, comunicandoci la comprensione del divino, che lui e la sua comunità credente hanno ritenuto, in piena convinzione, di cogliere in quei fatti, in quegli eventi. Si tratta, dunque, di un racconto attraverso cui ci viene comunicata l'esperienza del divino e la fede in questo e, in particolar modo, la convinzione che ci fu un tempo, il loro, in cui il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei Padri si è degnato di far visita ad un uomo profondamente segnato dal peccato, annunciandogli il tempo del perdono e della riconciliazione; il tempo del ritorno, per tutti, a quella dimensione divina, da cui quest'uomo decaduto proviene.
All'origine di tutto, dunque, ci sta un'esperienza storica del divino, che questi evangelisti e le loro comunità hanno fatto, così forte e invincibile da tradursi in una profonda convinzione. Un'esperienza e una convinzione che si sono fatte testimonianza:
Ciò che era fin da principio,
ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi,
ciò che noi abbiamo contemplato
e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita,
- poiché la vita si è fatta visibile,
noi l'abbiamo veduta
e di ciò rendiamo testimonianza
e vi annunziamo la vita eterna
che era presso il Padre
e si è resa visibile a noi -,
quello che abbiamo veduto e udito,
noi lo abbiamo annunziato anche a voi,
perché anche voi siate in comunione con noi.
La nostra comunione è con il Padre
e con il Figlio suo Gesù Cristo.
Queste cose noi vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
(1Gv 1,1-4)
ab
LETTURA ANALITICO-SINTETICA
DEL
RACCONTO DI MATTEO
1) 1,1 – 2,23: PROLOGO
1, 1-17: Genealogia di Gesù: le sue origini umane, in cui si compiono le promesse fatte ad Abramo e a Davide.
1,18-23: Nascita prodigiosa di Gesù quale completamento e sviluppo della genealogia e delle promesse.
2) 3,1 – 4,22: INTRODUZIONE
3, 1- 12: Presentazione della figura del Battista e la sua posizione nei confronti di Gesù
3,13-17: Il senso dell’operare di Gesù: adempiere ogni giustizia. Investitura di Gesù per mezzo dello Spirito.
4, 1- 11: Le tentazioni: Gesù deve scegliere come svolgere la sua missione.
4,12-17: Inizio della missione: annuncio del Regno.
4,18-22: La scelta dei primi quattro discepoli: la sequela come risposta all’annuncio
3) 4,23 – 25: Versetti di transizione e introduttivi ai capitoli seguenti. Si tratta di una vera e propria “ouverture” che sintetizza l’intera missione di Gesù in parole ed opere.
L’INIZIO DELL’ATTIVITà DI GESù
4) 5,1 – 8,17: I contenuti dell’attività missionaria di Gesù: le parole (5,1-8,1) e le opere (8,2-17)
5,1 – 8,1: La presentazione dei contenuti della predicazione di Gesù, colto come l’autentico e autorevole interprete della Torah.
8,2 – 17: L’annuncio della parola è seguita da tre guarigioni: la parola annunciata opera la salvezza. Significato dell’attività guaritrice di Gesù: un servizio alla salvezza dell’uomo.
5) 8,18: Versetto di transizione. Cambio di scena: dai piedi del monte (8,1) si passa all’altra riva.
6) 8, 19 – 34: Le condizioni per seguire Gesù e l’identità di Gesù
8,19 – 26: Molta folla segue Gesù (4,25 e 8,1.18); Gesù, quindi, detta le condizione per la sequela.
8,27 - 34: Primi interrogativi sull’identità di Gesù da parte della gente, ma saputo chi è, molta gente lo rifiuta. Questa pericope costituisce un preambolo preparatorio a 9,1-34: Gesù si occupa dei peccatori e li risana, ma non è capito nel suo operare.
7) 9,1: versetto di transizione: cambio di scena; si chiude il movimento pendolare di Gesù: 1) in 8,23 Gesù sale sulla barca; 2) In 8,28 Gesù sbarca; 3) in 9,1 risale in barca e torna a Cafarnao
8) 9,2 – 34: L’azione rinnovatrice di Gesù rigenera l’umanità e non è più compatibile con le vecchie logiche del Giudaismo, che non la comprende e la contesta.
9,2 – 8: Gesù, nel rimettere le colpe al paralitico e guarendolo, rivela il senso della sua missione e si dichiara a favore degli uomini, che riconcilia con Dio e con se stessi, aprendoli alla lode di Dio. La sua azione è, quindi, rinnovatrice dell’umanità. Solo chi non l’accetta si scandalizza.
9,9-13: Appare ora chiara l’azione di Gesù a favore dei peccatori che non solo chiama alla sequela (Matteo), ma accoglie anche al suo banchetto che condivide con loro, tra lo scandalo dei presenti.
9,14-17: L’uomo perdonato e riconciliato con Dio è il segno evidente del rinnovamento che Gesù è venuto a portare. Tale rinnovamento si manifesta anche sulle regole del digiuno. Non c’è più compatibilità tra le esigenze e le logiche del giudaismo e quelle del Regno. A. e N.T. sono due realtà irriducibili l’una all’altra, per questo non si può mettere la pezza nuova su di un vestito vecchio e il vino nuovo in otri vecchi.
9,18-34: il rinnovamento che Gesù è venuto a portare è spiegato e simboleggiato da quattro guarigioni: 1) un morto risorge, si passa, quindi da morte a vita; 2) un’ammalata grave guarisce, cioè la vita riprende vi- gore; 3) due ciechi vedono,cioè la fede apre l’uomo alla rivelazione che Dio opera in Gesù; 4) un indemoniato liberato proclama le lodi di Dio, cioè l’uomo liberato dalla verità di Dio che opera in Gesù si a- pre alla lode di Dio. Solo chi gli resiste non comprende e si scandalizza.
9) 9, 35: Sommario conclusivo dell’attività di Gesù: annuncia e guarisce. È la parola che si fa azione rigeneratrice. Inclusione con 4,23
10) 9,36-11,15: L’apostolato, quale prosecuzione e supporto all’azione rinnovatrice e salvifica di Gesù. Sua costituzione, statuto e tratti essenziali.
9,36 – 38: Gesù compie una riflessione su tante afflizioni che colpiscono un’umanità abbandonata a se stessa chiede aiuto agli uomini. Questi versetti sono la premessa e costituiscono la motivazione dell’invio dei discepoli e della loro costituzione come apostoli di cui in 10,1-11,1.
10,1-11,1: Gesù, dopo aver sottolineato la necessità di “operai per la messe” (9,37), chiama a sé i dodici, li costituisce come gruppo; dà a loro una sorta di statuto del buon apostolato e le regole per la missione e li invia, cioè ne fa degli apostoli, prosecutori della sua missione.
11, 2 - 15: Intermezzo sulla figura di Giovanni Battista, che riassume in sé i tratti essenziali del vero apostolo: uomo integro, tutto d’un pezzo, che non corre dietro a mode e ideologie; non fa amicizia con i potenti, ma è rivestito di sobrietà; messaggero divino inviato per preparare la venuta di Dio in mezzo agli uomini; vero Elia, cioè uomo escatologico. Questi sono i tratti fondamentali del nuovo apostolo inviato da Gesù. Il senso di questo apostolato, che si radica nell’azione stessa di Gesù, consiste
nell’azione rigeneratrice di Dio in mezzo ad una umanità decaduta (11,2-6).
11) 11,16-30: Pericope di transizione che chiude il discorso sull’apostolato e prospetta le difficoltà in cui esso si muove: la riuscita della missione non è un fatto scontato e si muove tra fede e incredulità, tema dei capp. 12-13.
11,16 - 30: Gesù, dopo aver predicato ed operato, fa una sintesi deludente della sua missione fin qui compiuta e sottolinea il comportamento contraddittorio e di chiusura dei suoi ascoltatori. Capisce, però, che la sua accoglienza è solo frutto di un dono, che richiede disponibilità e rientra in un disegno divino, che privilegia gli umili e i poveri. Questa pericope di transizione completa il discorso sull’apostolato e discepolato e prelude alle difficoltà denunciate nei capp. 12-13.
12) 12,1-13,58: La missione di Gesù e dei discepoli si dibatte tra fede e resistenza alla novità.
12, 1-21: Il sabato è interpretato alla luce della novità di Gesù (9,14-17) e della sua autorevolezza (5,21-29). Tale modo di operare e di ragionare non si riesce a collocarlo nei vecchi schemi della Torah, per cui si trova più comodo eliminarlo, anziché lasciarsi interrogare da esso e iniziare un cammino di conversione.
12,22-45: La guarigione del cieco-muto, cioè di un uomo che non sa vedere la novità portata da Gesù e non sa quindi dare la giusta lode a Dio, dice l’azione rivelatrice di Gesù che lo apre a Dio, rinnovandolo interiormente. La fede, che guarisce l’uomo dalla sua cecità, si contrappone alla persistente incredulità dei farisei. Questa incredulità e pervicace chiusura all’azione rivelatrice e rinnovatrice dello Spirito è grave atto contro lo Spirito stesso e li perderà.
12,46-50: Dopo questo lungo discorso che contrappone la fede, cioè l’aprirsi a Dio, alla durezza di cuore, Gesù riconosce come suoi familiari chi lo ascolta, cioè chi si apre a lui gli appartiene e condivide con lui la propria vita. Pericope preparatoria a 13,1-43.
13,1 – 43: Di fronte a tanta durezza di cuore, che resiste all’azione dello Spirito, Gesù teme che la sua missione possa anche fallire. Opera, quindi, una scelta: alle folle parlerà in parabole, ai discepoli, cioè a coloro che sono disponibili, le spiegherà. “Il seminatore” e “la zizzania e il buon grano” dicono tutta la fatica di Gesù nel compiere la sua missione. Il buono e il cattivo terreno sono la metafora dei due atteggiamenti che Gesù trova di fronte a sè: chi lo accoglie e chi lo respinge e la tiepidezza e indecisione nell’accoglierlo.
13,44-53: Espresso il suo cruccio per il possibile fallimento, Gesù fa capire che aderire al Regno comporta una scelta radicale (tesoro nel campo), che avrà come epilogo il giudizio finale (la cernita dei pesci dopo la pesca). In altri termini, aderire o meno a Gesù non è indifferente.
13,54-58: Anche presso la sua gente Gesù non trova accoglienza e comprensione.
14) 14,1-12: Con questa pericope si chiude il lungo discorso di 12,1-13,58: la morte di Giovanni
allude a quella di Gesù.
14,1-12: il lungo discorso sulla lotta tra fede e incredulità (12,1-13,58) è fatto seguire significativamente dalla morte di Giovanni Battista, che prelude in qualche modo a quella di Gesù. due voci soffocate dalla incredulità che si fa violenza. Un altro parallelo tra il Gesù sofferente e il Battista si trova in 17,12.
15) 14,13-36: Gesù è il volto storico della compassione di Dio a favore di un’umanità decaduta.
14,13-14: Con la morte del Battista si chiude l’AT e si apre l’era in cui Dio prova compassione per l’uomo e lo soccorre per mezzo di suo Figlio. Trattasi di versetti introduttivi a 14,15-36.
14,15-23: la compassione di Dio, manifestatasi in Gesù, è testimoniata nello sfamare la folla, che avviene, su mandato di Gesù, per mezzo dei discepoli.
14,24-36: la sua compassione si manifesta anche nel soccorrere gli uomini travagliati e di poca fede: Gesù li sostiene (ripesca Pietro che stava affogando) e li alimenta (precedente moltiplicazione di pani). La piccola serie di miracoli contenuti in questa pericope (Gesù e Pietro camminano sulle acque, cessa il vento, guarisce ammalati) danno una risposta precisa a Erode che, come molti, riteneva Gesù una prosecuzione del Battista, non cogliendo in lui la novità del suo messaggio e della sua persona. Gesù è colto qui come Figlio di Dio nel suo operare e non per rivelazione soprannaturale come in 8,29 da parte dei demoni. (il v. 14,14 fa inclusione con 15,32).
16) 15,1-39: Gesù ricomprende la sua missione dandole un respiro universalistico: egli non è destinato solo a Israele, ma a tutti quelli che credono in lui. La fede, dunque, diviene il nuo vo parametro con cui relazionarsi a Gesù.
15, 1 - 20: La novità di Gesù e la sua autorevolezza nell’interpretare correttamente la Torah non è, per l’ennesima volta, compresa e accolta dagli Scribi e Farisei, per cui Gesù abbandona “la sua patria” (si trova a Gennesaret sulla riva del lago) e va a Tiro e Sidone, territori pagani.
15,21-28: Qui Gesù guarisce la figlia della Cananea. Grazie a questo incontro Gesù comprende che la sua missione non è riferita al solo Israele, ma a tutti coloro che hanno fede in lui e lo accolgono indipendentemente dalla loro nazionalità o religione. Pertanto, Gesù, da questo momento, dà una svolta universalistica alla sua missione.
15,29-31: Gesù di ritorno da Tiro e Sidone si ferma nei pressi del lago di Galilea, in territorio della Decapoli. Qui Gesù prova compassione per le folle pagane che lo seguono come è avvenuto per Israele. E qui come là Gesù compie una seconda moltiplicazione dei pani: egli si fa nutrimento anche per i pagani. Gesù, dunque, è il volto storico della compassione di Dio per tutti gli uomini indistintamente. L’espressione: “Sento compassione di questa folla” di 15,32 fa inclusione con 14,14.
17) 16,1-12: Questi sono versetti di transizione e preparatori alla rivelazione che Gesù farà di se stesso. Gesù, dunque, sta per uscire ufficialmente allo scoperto e sollecita la fede, unica in grado di comprenderlo. Infatti, da 16,13 solo la fede renderà capaci di dare una corretta lettura di Gesù e della sua missione.
16, 1 – 4: Ennesimo scontro con Scribi e Farisei che chiedono un segno dal cielo. Gesù è il vero segno dal cielo, che non sanno però comprendere e interpretare per la durezza del loro cuore.
16, 5 –12: Gesù rimprovera i discepoli per la loro difficoltà a comprendere e li mette in guardia dal lievito dei Farisei: l’incredulità.
18) 16,13-17,9: Svolta sull’identità di Gesù e la sua missione, che Gesù lega alla sua morte e risurrezione. Incomprensione dei discepoli.
16,13-28: Gesù interroga i suoi discepoli sulla sua identità. La sferzata che Gesù ha dato ai discepoli in 16,5-12, apre finalmente gli occhi e ne comprendono l’identità: Gesù è il Cristo Figlio di Dio. A tal punto Gesù dà una sterzata radicale alla sua missione e al suo rapporto con i suoi discepoli e detta le nuove regole per la sequela, alla luce della nuova comprensione di lui.
17, 1 – 9: La rivelazione dell’identità di Gesù si completa con la trasfigurazione, in cui compare chiaramente come Gesù e la sua missione siano legati alla morte e risurrezione.
19) 17, 10-21: Prima del secondo annuncio della passione Gesù dà una nuova sferzata per la fede. Serve fede per poter capire il disegno di Dio su Gesù.
17, 10-13: I discepoli incominciano a capire: da dopo la rivelazione e comprensione dell’identità di Gesù, tutto si fa più chiaro. Solo se la si accetta e si guardano le cose da questa prospettiva si comprendono: Giovanni è l’Elia che doveva venire negli ultimi tempi. I discepoli comprendono che quelli di Gesù sono gli ultimi tempi.
17, 14-21: Solo la fede apre alla novità di vita e alla vera libertà e liberazione interiori, di cui l’epilettico guarito è segno e simbolo.
20) 17,22–27: Ora Gesù parla liberamente e apertamente della sua morte e risurrezione, nonché della sua figliolanza divina, grazie alla illuminazione della fede.
17,22-23: Secondo annuncio della passione a fronte del quale i discepoli si rattristano, ma non lo rifiutano. Ciò lascia intendere che essi, dopo la nuova sferzata (17,10-21) di Gesù circa la fede, cominciano a capire u il senso del patire e morire di Gesù.
17,24-27: Gesù si dichiara velatamente Figlio di Dio e, quindi, esonerato dalla tassa del tempio. Come si vede Gesù non cela più la sua identità, perché ora può essere correttamente compreso grazie alla luce della fede e alla liberazione interiore, annunciata in 17,14-21 (epilettico guarito).
21) 18,1-20,16: Intermezzo delle regole cristiane e di alcune questione della comunità matteana.
18,1-34: L’intero cap.18 è dedicato ai tratti salienti del buon vivere cristiano: 1) Chi è veramente grande; 2) Come regolarsi con chi sbaglia, tenendo presente che Gesù vuole la salvezza di tutti; 3) il valore della preghiera comune; 4) Il perdono va sempre e comunque dato a tutti.
19,1 - 2: Versetti di transizione e sommario: a) cambio di scenario; b) sommario di guarigioni.
19,3–20,16: Alcune questioni dibattute nella comunità matteana: 1) il divorzio; 2) la verginità; 3) a chi appartiene il regno; 4) la ricchezza rende difficile la sequela e la salvezza; 5) L’uomo può allora salvarsi?; 6) Quale ricompensa per chi ha deciso la sua vita per la sequela?; 7) Nel regno di Dio c’è posto per tutti e non ci sono né grandi né piccoli, né primi né ultimi (questione che si ricollega a 19,13-15), poiché tutto è dono di Dio.
22) 20,17-28: Tra le regole del buon vivere il cristianesimo (18,1-20,16) e la scottante questione di chi è primo all’interno della comunità (20,20-28) si pone l’intermezzo del terzo annuncio della passione e morte: il Gesù che dona la propria vita deve diventare il parametro su cui la comunità al proprio interno e i capi che la governano devono misurarsi.
23) 20,29-34: Con la guarigione dei due ciechi si chiudono gli interrogativi su Gesù e ci si prepara alla comprensione del senso della sua passione e morte., quale servizio all’umanità.
20,29-34: Viene riportata la guarigione dei due ciechi che, grazie all’incontro sincero e determinato con Gesù, ora vedono e lo seguono. L’aprirsi degli occhi significa aver finalmente colto che Gesù con la sua passione e morte si è fatto servo del Padre per la realizzazione del suo progetto di salvezza e servo degli uomini per la loro salvezza. Questo servizio non si compie nel primeggiare, ma per mezzo della morte e risurrezione di Gesù. la guarigione dei due ciechi (i due figli di Zebedeo?) sta ad indicare che ai discepoli è ormai chiara l’identità di Gesù e il senso della sua missione. Da questo momento in poi Gesù sarà apertamente riconosciuto e invocato con chiari titoli messianici e divini. Solo al termine del cammino si ha, dunque, la piena rivelazione e comprensione della figura di Gesù in cui Matteo vede il realizzarsi delle Scritture.
24) 21, 1-11: Pericope di intermezzo e di transizione: una chiave di lettura.
21,1-11: questa pericope segue immediatamente la guarigione dei due ciechi (20,29-34), che simboleggia la guarigione dei discepoli dalla difficoltà di comprendere e dall’incredulità, un male questo duro da far morire se, al termine del cammino storico di Gesù, Matteo sottolinea che ”essi però dubitavano” (Mt 28,17b). A tal punto, comunque, l’identità di Gesù e il senso della sua missione e del suo morire è chiaramente manifesto. Siamo, infatti, giunti al termine del viaggio verso Gerusalemme, metafora, da un lato, del cammino di fede, che fa vedere chi è Gesù e il senso del suo operare; dall’altro, è la metafora del compiersi del disegno del Padre qui nella storia. Chi è Gesù appare ora chiaro a tutto il popolo e non solo ai discepoli (20,29-34). Quanto viene qui detto fornisce una chiave di lettura all’operare di Gesù nei capitoli seguenti, nonché della sua passione, morte e risurrezione.
25) 21,12-22: Il senso della missione di Gesù: sostituire il vecchio con il nuovo culto, mettendo l’uomo nel giusto rapporto con Dio.
21,12-17: Gesù scaccia dal tempio il vecchio culto che non salva e mette l’uomo in un rapporto sbagliato con Dio; e al tempio sostituisce se stesso, diventando fonte di salvezza per tutto il popolo e motivo di Vera lode a Dio.
21,18-22: il fico privo di frutti è l’antico culto dissecato dalla venuta del nuovo culto, che si compie nella fede, l’unica in grado di mettere l’uomo nel giusto rapporto con Dio. Il vero culto è la propria vita conformata alla fede.
26) 21,23-23,39: A partire da questa ampia pericope, Gesù prende una dura e veemente posizione nei confronti della durezza di cuore e la condanna. Sarà proprio questa che decreterà la sua morte.
21,23-27: I Farisei interrogano Gesù sulla sua identità e sull’origine della sua autorità. Ma Gesù non risponde loro, perché senza fede non lo si può cogliere.
21,28-32: Gesù stigmatizza la durezza di cuore degli Scribi e Farisei, che con la loro pervicace incredulità si sono resi impenetrabili all’azione di Dio al contrario dei peccatori e pagani.
21,33-41: A conclusione dei vv. 21,23-32 segue la parabola dei vignaioli perfidi. È la storia dell’antico Israele, simboleggiato dai dottori della Legge, che non ha saputo cogliere in Gesù la novità di Dio preparata per lui.
21,42-45: Gesù, quindi, si pone come fondamento del vero culto a Dio e del nuovo modo di rapportarsi a Lui. Chi gli si oppone, pertanto, si sfracellerà.
22,1 -14: A conclusione di 21,42-45 segue la parabola del banchetto di nozze e degli invitati. La durezza di cuore ha reso sordi gli Scribi e i Farisei agli inviti di Gesù, così che egli si è rivolto ai pagani e peccatori, sottoponendo a giudizio di condanna gli stessi Scribi e Farisei, così come coloro che, abbracciato Gesù, non si decidono ancora per lui e non gli si sono esistenzialmente conformati.
22,15-46: La durezza di cuore traspare nelle quattro dispute: 1) Tributo a Cesare; 2) la risurrezione; 3) il più grande dei comandamenti; 4) Gesù definisce polemicamente la sua natura: il messia atteso da David è in realtà lo stesso Figlio di Dio.
23, 1-39: L’intero capitolo contiene una dura e violenta requisitoria contro la classe dirigente d’Israele, che lascia trasparire il forte contrasto tra la comunità di Matteo e il Giudaismo, che sostiene un culto puramente formale, esteriore e appariscente, finalizzato a raccogliere lodi dagli uomini, ma lontano da Dio. Vi è implicito il forte contrasto tra i due culti del vecchio e nuovo culto.
27) 24,1-25,46: Con i capp. 24-25 la polemica si sposta dal Giudaismo al Mondo e vengono, quindi, delineati i tratti essenziali del cristianesimo dopo Gesù.
24,1 - 51: Se con il cap. 23 Gesù prende le distanze dalla durezza di cuore del Giudaismo, emettendo su di lui un definitivo giudizio di condanna (6 “Guai”), con l’intero cap. 24 Gesù, uscito definitivamente dal tempio, cuore del Giudaismo, mette in guardia i suoi discepoli dagli inganni e li prepara ai tempi difficili che verranno dopo di lui. Con questo capitolo la contrapposizione si sposta dal Giudaismo al Mondo. Vigilanza, perseveranza e attenzione devono caratterizzare il comportamento del credente dopo di lui.
25,1 –46: L’intero cap. 25 è composto da tre parabole che spiegano e completano il precedente cap. 24: 1) La vigilanza delle vergini sagge; 2) l’assidua operosità nel bene, nei talenti; 3) l’amore concretamente manifestato verso il prossimo, su cui verterà il giudizio finale.
FINE DELL’ATTIVITà DI GESù
INIZIO DEL RACCONTO DELLA PASSIONE
28) 26,1-46: Prologo preparatorio e introduttivo alla passione: una scala con sette gradini.
26,1-46: Questa ampia pericope è costituita da sette gradini che formano da “ouverture” alla passione e morte di Gesù e preparano ad essa. Sono, quindi, una sorta di prologo preparatore: 1) verso la passione; 2) la decisione di uccidere Gesù; 3) la morte e sepoltura di Gesù preannunciate simbolicamente dall’unzione; 4) il tradimento; 5) la preparazione della cena pasquale; 6) la cena pasquale 7) Gesù preannuncia l’abbandono e il tradimento dei discepoli e di Pietro e lamenta l’incapacità dei suoi discepoli di vegliare con lui: Gesù è solo.
29) 26,47-27,66: La passione
26,27-27,66: La preannunciata passione dai sette gradini, che ne tratteggiano gli elementi essenziali, ha inizio con la notte dei tradimenti e degli inganni.
30) 28,1-20: L’epilogo
28,1-20: L’annuncio della risurrezione, le dicerie, l’apparizione, il mandato finale e l’assicurazione che Gesù sarà sempre in mezzo ai suoi.
Dopo un'attenta e continuativa lettura analitico-sintetica dell'intero vangelo di Matteo, raggruppando l'intero racconto attorno a capitoli, sezioni e pericopi, abbiamo potuto vedere lo snodarsi del pensiero teologico matteano e il dramma di un Gesù, inviato dal Padre ad un uomo affetto da una colpa, che lo corrode esistenzialmente e lo offende nella sua dignità, rinchiudendolo in un degrado esistenziale a cui solo la morte pone fine. Una colpa che lo ha reso inabile e incapace di un qualsiasi rapporto autentico con Dio e, di conseguenza, con se stesso e con l'altro. Una colpa che lo ha reso insensibile al richiamo del Padre, divenendone suo avversario, al punto tale che Gesù finirà miseramente la sua esistenza sulla croce, segno della maledizione divina (Dt 21,23), deriso dai suoi avversari, abbandonato dai suoi discepoli e dallo stesso Padre. Un evidente fallimento, che solo la risurrezione riuscirà a riscattare.
In mezzo ad una simile decadenza e degrado esistenziali, metaforicamente simboleggiati da sordi, zoppi, ciechi, storpi, indemoniati, lebbrosi, paralitici e quant'altri, è passata la benefica presenza di Gesù, incarnazione della compassione divina verso la misera condizione dell'uomo, un tempo immagine e somiglianza di Dio, guarendo tutti, per significare con ciò il riscatto dell'uomo e la sua rigenerazione al mondo divino, da cui proviene; in tal modo Gesù ha anticipato e significato, in qualche modo, gli effetti spirituali della sua risurrezione sull'uomo.
A fronte di tutto questo, all'uomo è chiesta solo la fede, cioè il rendersi disponibile esistenzialmente all'azione di Dio su di lui, adeguando, per quanto gli è possibile, il suo vivere alle nuove esigenze del Regno e alle nuove realtà spirituali, che sono state collocate in lui dalla stessa risurrezione e in cui già vive, anche se non ancora pienamente.
ab
ANALISI NARRATIVA DELLA STRUTTURA
DEL
RACCONTO DI MATTEO
Dopo aver analizzato dettagliatamente lo sviluppo della trama narrativa nel suo dinamico evolversi in capitoli e versetti, vediamo ora di cogliere la narrazione del racconto matteano nelle sue linee principali che formano l’ossatura, l’impianto attorno a cui si sviluppa ed è sostenuto l’intero racconto.
Tenendo pertanto presente il percorso analitico-sintetico precedentemente esposto, passiamo ad evidenziare la macrostruttura del racconto matteano, suddividendolo in tre parti, ma che in ultima analisi, poi, si possono condensare attorno a due grandi poli:
Capp. 1- 4: nei primi due capitoli ci vengono presentati i contenuti teologici della figura storico-umana di Gesù, vero figlio di Abramo e di Davide (1,1) e, pertanto, di stirpe regale. In lui si attuano le promesse che Dio ha fatto agli antichi Padri[132], promesse di cui, in virtù della sua discendenza, testimoniata dalla lunga genealogia (1,1-17), è stato fatto anche erede. Questi primi due capitoli costituiscono inoltre una sorta di prologo e di introduzione agli avvenimenti raccontati successivamente (capp.5-25). Infatti, già fin d'ora, si mettono le premesse e si prospettano i drammi di una futura conflittualità, che spaccherà in due la stessa società: da una parte coloro che cercano Gesù per adorarlo, riconoscendolo uomo, Dio e re (qui identificati con i magi); dall'altra, chi lo cerca per perseguitarlo e sopprimerlo (Erode). Una lotta che si svolge attorno alla figura di Gesù fin dalla sua comparsa nella storia e che miete da subito vittime innocenti[133] (Mt 2,16), in cui viene prefigurato il sacrificio di un’altra Vittima innocente.
Il cap. 3 si apre con la presentazione della figura escatologica di Giovanni Battista, ultimo lembo dell'A.T., che confluisce nel Nuovo (3,11-15) [134], e della sua attività, posta a lato a quella di Gesù, in cui si compie ogni giustizia (3,15). Quasi come in una corsa a staffetta, Giovanni passerà a Gesù il testimone delle attese e delle promesse messianiche, maturate nel corso di circa duemila anni di storia.
Con il cap. 4 Gesù, sospinto dallo Spirito, entra nel deserto dove, ripercorrendo l’avventura del giovane Israele, la rivivrà nella fedeltà a Dio, ma, nel contempo, vivrà anche il dramma della tentazione, cioè il dramma di un Dio che si ritrova a dover operare nei limiti della sua umanità[135], condizione entro cui si muove e che ha scelto. Un'esperienza del tutto nuova e imbarazzante anche per Dio, ma che alla fine ha accettato, sottomettendosi. Gesù inizia così la sua attività di annuncio (4,17a) che riscuote un consistente successo, visto il gran seguito di folle (4,25). La sua predicazione è essenzialmente un appello (4,17b) che viene lanciato all'uomo perché, cambiato orientamento esistenziale, ritorni a Dio, e che fa da eco a quello con cui anche Giovanni apre la sua predicazione (3,2). In entrambi i casi il verbo utilizzato è identico khrÚssein[136]. L'annuncio è accompagnato da opere di guarigione (4,23-24), che testimoniano come l'intervento di Dio in mezzo agli uomini è liberatorio e rigenerante, in quanto che li ricolloca nella dimensione divina. Annuncio ed opere dunque formano la struttura portante dell'intera missione di Gesù; in essi si evidenzia come la parola proclamata non fosse un semplice flatus vocis, ma trovava concretezza nell'azione rigenerante; è, quindi, un vero Dabar [137], cioè una parola che si fa azione, peculiarità esclusiva di Dio[138]. Da questo annuncio nasce la risposta dell'uomo, risposta che si fa sequela (4,18-22.25): ecco, dunque, la prima comunità credente, generata dalla Parola e che si costituisce attorno ad essa. Annuncio ed opere formeranno anche lo schema strutturale dei capp. 5-25
Capp. 5-25: questi ventuno capitoli costituiscono il consistente corpo centrale dell'intero vangelo matteano. In essi si ritrova lo schema annuncio-opera che caratterizza la missione di Gesù e che già, in qualche modo, era stato preannunciato in 4,23-24. Esso è strutturato su cinque grandi discorsi, che sono una enorme raccolta di detti e parabole attribuiti da Matteo a Gesù e assemblati assieme redazionalmente. Ad ogni grande discorso viene fatto seguire, quasi a suo commento e supporto, l'operare di Gesù e altri suoi brevi discorsi.
Capp. 26-28: presentano la conclusione fallimentare della missione di Gesù: infatti, da un lato gli uomini si mostrano sordi al richiamo divino e preferiscono seguire le loro dottrine e il loro modo di pensare (15,6); dall'altro la prima comunità credente, raggruppatasi intorno al suo maestro, viene dispersa (26,56b); anzi proprio al suo interno nascerà il tradimento (26,14-16), che porrà fine ad una pazza avventura. La durezza di cuore al richiamo di Dio (13,15) e il tradimento (26,49) si traducono quindi in assassinio. Ma la morte, ben lungi dall'essere una sconfitta, diventa una necessaria[139] premessa di vittoria, che splenderà nella risurrezione. Veri sconfitti quindi alla fine risulteranno essere proprio quelli che si sono opposti all'appello divino (27,62-64; 28,11-14) e che hanno tradito (27,3-5). Morte e risurrezione pertanto diventeranno elemento di giudizio e di condanna per chi non ha creduto nel fallimento vittorioso di Dio.
A ben guardare, i primi quattro capitoli costituiscono sia un'introduzione che un sintetico sommario strutturale dell’intero racconto evangelico, così che i capitoli centrali (5-25) risultano essere un loro dettagliato sviluppo tematico.
Questi primi quattro capitoli poi sono completati con il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, narrato in 26-28, anche se il tema di questo racconto è già simbolicamente racchiuso in qualche modo nel triplice dono dei magi (2,11): oro, incenso e mirra, con i quali si riconosce la regalità e la divinità dell'uomo Gesù, che appariranno evidenti solo nella sua risurrezione, passata attraverso la passione e morte (mirra).
il cap. 3 è interamente dedicato alla figura di Giovanni Battista[140] e costituisce una sorta di prologo introduttivo a quanto verrà detto poi nel corso del racconto su questa figura profetica, a cui Matteo dedica una particolare attenzione perché vede in lui non solo il precursore di Gesù, preannunciato da Isaia (3,3), ma anche colui che convoglia l’intero A.T. verso Gesù, consegnandolo nelle sue mani; è una figura che ritornerà più volte nel corso del vangelo e a cui Gesù molto spesso si riferisce[141].
I vv. 4,17-25 costituiscono la struttura essenziale su cui poggeranno e si svilupperanno i capp. 5-25. Considerata la loro importanza, dedicheremo a loro in seguito un’attenzione a parte.
L'intero racconto matteano, come vangelo, pertanto si può ritenere completo con i soli capp. 1-4.26-28. In essi infatti è condensato e sufficientemente chiaro il pensiero teologico di Matteo nonché la figura stessa di Gesù.
Sono dunque soltanto sette i capitoli veramente strutturali e indispensabili perché tale opera possa essere definita letterariamente e teologicamente vangelo. Essi risuonano come una sorta di schematico kerigma primitivo. Gli altri ventuno capitoli (5-25) dipendono essenzialmente da questi e ne costituiscono una loro amplificazione e sviluppo, una sorta di cassa di risonanza.
Infatti in questi sette capitoli possiamo riscontrare i tratti essenziali che costituiscono lo schema letterario "vangelo", su cui si basava, probabilmente, la predicazione dei primi discepoli e dei vari anonimi predicatori itineranti. Si tratta di uno schema contenutistico che si ritrova in tutti quattro i vangeli e che ci viene anche riportato, significativamente, negli Atti degli Apostoli[142]: "Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea (3,1.5), incominciando dalla Galilea (3,13; 4,23), dopo il Battesimo predicato da Giovanni (3,1-2.7-12); cioè come Dio consacrò in Spirito santo e potenza Gesù di Nazaret (3,16-17), il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui (4,23-24). E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo ad una croce (26,47-60), ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno (28,1-7) e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi (28,16-17), che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dei morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio (28,18-20). Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome." (At 10, 37-43)
17- “Da allora Gesù incominciò ad annunciare e a dire:<<Cambiate modo di pensare, poiché si avvicina il regno dei cieli>>.
18- Camminando nei pressi del mare di Galilea, vide due fratelli: Simone, detto Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano, infatti, pescatori.
19- E dice loro:<<Orsù, dietro di me, e vi farò pescatori di uomini>>.
20- E quelli, lasciate andare le reti, lo seguirono.
21- E andato avanti di là, vide altri due fratelli: Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, nella barca con il loro padre Zebedeo, che rimettevano in ordine le loro reti; e li chiamò.
22- E questi, subito, lasciata andare la barca e il loro padre, lo seguirono.
23- E girava in tutta quanta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e annunciando il vangelo del regno, guarendo ogni malattia e ogni infermità nel popolo.
24- E si diffuse la sua fama in tutta quanta la Siria; e gli portarono tutti quelli che stavano male e quelli che erano affetti da malattie di ogni specie e da tormenti: indemoniati, lunatici e paralitici e li guarì.
25- Molte folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano.”[143]
1) 4,17: l’annuncio del Regno;
2) 4,18-22: la chiamata-sequela dei primi discepoli;
3) 4,23: Gesù annuncia, insegna e guarisce in Israele;
4) 4,24: la fama di Gesù si diffonde in territorio pagano, dove compie gli stessi interventi che in Israele;
5) 4,25: L’annuncio e le guarigioni operate sia in Israele che nei territori pagani provocano in entrambi i territori la comune sequela, colta come risposta alla missione di Gesù.
Pertanto si avrà:
La Parola che opera
Che si traduce in chiamata,
che si fa sequela (4,11-22)
che in Galilea si fa azione guaritrice (4,23) che in Siria, terra pagana, si fa parimenti, azione guaritrice (4,24)
Sia per gli Israeliti che per i pagani
l’annuncio produce la sequela (4,25)
Fin da subito possiamo rilevare due distinti tipi di sequela, entrambi dipendenti dal medesimo annunzio:
a) la prima sequela (4,11-22) è una risposta esistenziale all’annuncio, che passa attraverso una specifica chiamata personale e ben circostanziata. La sequela poi si tradurrà in un invio (10,1-5a) dei discepoli, per i quali verrà stilato un apposito statuto comportamentale di riferimento (10,5b-11,1). Sarà una sequela maggiormente impegnativa, che confluirà poi nella costituzione del gruppo apostolico (10,2-4).
b) La seconda sequela (4,25) è anch’essa una risposta esistenziale all’annuncio, ma è più generica, comune a tutti coloro che si aprono al messaggio. Essa porterà alla formazione della grande massa anonima del discepolato (le folle), a cui non viene richiesto uno specifico impegno di sequela. Per loro non sarà stilato un apposito statuto, ma, più semplicemente, vengono date delle regole generali, benché, comunque, molto impegnative (8,18-21; 16,24-27).
dallo schema si evince poi come l’annuncio, prima di produrre la sequela, passi attraverso l’azione rigenerante della Parola proclamata, di cui le guarigioni (4,23 e 4,24) sono una metafora. Torna quindi l’antico schema della Parola che si fa Azione. Essa interpella l’uomo e lo spinge ad aprirsi alla nuova proposta di Dio, operante in Gesù. Se c’è accoglienza, la Parola-Azione trasforma l’uomo rigenerandolo alla dimensione divina. Segno concreto dell’avvenuta rigenerazione è, appunto, la sequela che coinvolge l’uomo nella sua interezza esistenziale.
In termini molto sintetici, a titolo di spunto per una riflessione, vediamo ora come lo schema e i contenuti di 4,17-25 vengono ripresi e amplificati nei capp. 5-25:
1) 4,17: l’annuncio del Regno si snoderà nei capp. 5-25 in cinque grandi discorsi[144], così distribuiti e in cui si vede come tale annuncio occupi il posto centrale:
a) 5,1 - 8,1;
b) 10,5 - 11,1;
c) 13,3 - 53; Le parabole del Regno
d) 18,2 - 19,1;
e) 24,1 - 26,1.
2) 4,18-22: viene presentato il racconto della chiamata-sequela dei primi quattro discepoli, che si completerà poi, con la chiamata di Matteo (9,9) e la costituzione-presentazione del primo gruppo apostolico (10,1-5).
3) 4,23: l’annuncio si fa azione risanatrice e rigenerante in Israele; all’israelita è rivolta inizialmente e in modo esclusivo (10,56; 15,24) tutta l’attenzione di Gesù; la maggior parte della sua missione, infatti, si svolgerà nei territori della Galilea e della Giudea ed è prevalentemente rivolta al popolo d’Israele, ma non disdegna i pagani, che qui si trovano e a lui si rivolgono con fede. Anzi saranno proprio questi a far comprendere a Gesù il nuovo senso della sua missione; e infatti l’azione di Gesù, dopo il suo incontro con la Cananea (15,22-28), di cui esalterà la fede, assumerà un respiro universalistico. Il vecchio Israele verrà gradualmente abbandonato da Gesù, dapprima lamentandosi per la sua durezza di cuore (21,28-32; 23,27), che ha fatto fallire la sua missione nei suoi confronti; e poi, minacciandolo di esclusione dal piano salvifico (21,33-41.43; 22,2-10).
4) 4,24: diversamente che nel v. 23, in cui si parla in modo esplicito di “annuncio” e “insegnamento” rivolti al territorio della Galilea, qui Matteo si limita a dire che la fama di Gesù “si diffuse in tutta la Siria”. Non si parla di un esplicito annuncio e di un insegnamento direttamente rivolto ai pagani, poiché il Gesù matteano è convinto di essere stato inviato per il solo Israele (10,56; 15,24), ma soltanto di una non ben precisata “fama diffusa”. La fama tuttavia si può intendere come un annuncio riportato o, meglio, un annuncio che dalla Galilea risuona, quasi come un’eco, e si estende anche al di là dei confini d’Israele, in territorio pagano. Infatti, anche qui Gesù compie guarigioni (8,28-32; 15,22-28.30) e prodigi, provando compassione anche per i non israeliti (15,32-38), segno evidente che anche presso i gentili si è diffusa la parola risanatrice e rigenerante di Gesù, poiché essa non si presenta mai da sola, ma si sacramentalizza sempre in segni concreti di guarigione e di liberazione[145]. Non va dimenticato infatti che quella di Gesù è una parola-azione. Un segno della predicazione e dell’insegnamento di Gesù, nella terra pagana di Tiro e Sidone, sia pur espresso da Matteo in modo velato, può essere rintracciato in 15,29b, dove Gesù “salito sul monte si sedette là”. Infatti, il “sedersi di Gesù”, in Matteo, è una sorta di sinonimo di ammaestramento e insegnamento[146] o, comunque, è ad esso associato. Gli effetti di questa predicazione si manifestano non soltanto nella guarigione della Cananea (15,21-28) e in una moltiplicazione di “sette pani e pochi pesciolini” (15, 32-38), ma anche in un gran seguito di “molte folle”, di cui guarisce “zoppi, ciechi, storpi, muti e molti altri, lasciati ai suoi piedi” (15,30). La missione di Gesù in terra straniera, pertanto, si conclude positivamente con la glorificazione del “Dio d’Israele” da parte dei pagani (15,31), contrariamente a quanto era avvenuto a Gadara, dove la gente lo invita ad andarsene dalla loro città (8,34).
5) 4,25: Quest’ultimo versetto chiude il cap.4 e l’intera azione di Gesù, mostrandone gli effetti benefici sulla gente (4,23-24). A quel “'ApÕ tÒte ½rxato Ð'Ihsoàj khrÚssein”[147] di 4,17, che dà il “la” all’intera azione di Gesù, risponde l’ “ºkoloÚqhsan aÙtù Ôcloi polloˆ ¢pÕ tÁj Galila…aj kaˆ DekapÒlewj kaˆ `IerosolÚmwn kaˆ 'Iouda…aj kaˆ pšran toà 'Iord£nou”[148] di 4,25, mostrandone gli esiti universalistici. L’annuncio, dunque, è destinato a produrre sequela sia in territorio d’Israele (4,23) che in quello pagano (4,24), in modo ugualmente efficace. Infatti, non a caso, nell’elenco di provenienza delle folle, si citano, in modo alterno, un territorio israelitico e uno pagano: Galilea, da dove ha inizio la missione di Gesù; Decapoli, territorio pagano di cultura ellenistica; Gerusalemme, meta finale dove è orientata l’intera missione di Gesù; “oltre il Giordano”, per indicare tutti i territori non compresi in Israele. Questo intrecciarsi di territori israelitici e pagani, le cui folle confluiscono in un’unica sequela, formano un unico grande popolo di credenti, che Matteo, unico tra gli evangelisti, per tre volte definirà con il termine “™kklhs…a”[149], chiesa, assemblea.
Il vangelo di Matteo, quindi, si polarizza su due grandi centri narrativi: un sommario tematico, presentato nei capp. 1-4.26-28, letterariamente e teologicamente completo, ma certamente bisognoso di un suo dispiegamento; e uno svolgimento tematico (capp. 5-25) che, riprendendo variamente i temi e le strutture dei primi quattro capitoli, li sviluppa modulandoli in varie tonalità, orientandoli ai capp. 26-28, collocandoli e drammatizzandoli all'interno di un mondo squisitamente umano, popolato da numerosi personaggi (se ne contano circa 143), e animato da varie specie di animali, piante ed erbe, oggetti da lavoro e di uso comune, nonché oggetti e metalli di valore, luoghi di lavoro e di abitazione, cibi e vestiti; vengono poi citati vari fenomeni naturali di comune esperienza. Un mondo quindi che se da un lato per la sua peculiarità ci trasporta in una realtà ormai da noi relativamente lontana, dall'altro è pregno di valori e di drammi che parlano un linguaggio universalmente conosciuto e resistente nel tempo, poiché esso si radica nel profondo esistenziale dell'umanità intera, immutato e immutabile finché l'uomo rimarrà tale nella sua natura e nel suo esistere. Possono cambiare le forme e i modi di esprimere la propria umanità e i suoi contenuti, ma l'identità umana rimane sempre la stessa nel tempo, poiché essa, pur svolgendosi nel tempo e abitandolo, tuttavia lo trascende. L'uomo è e rimane sempre e comunque uomo. Ecco dunque perché il linguaggio del vangelo conserva in sé la freschezza dell'oggi, perché sa parlare all'uomo di ogni cultura, latitudine e tempo. Per questo ogni uomo si ritrova in esso, perché in esso è contenuto il linguaggio atemporale e universale di Dio, che ricorda all'uomo la sua origine divina e gli propone di ritornare alla casa del Padre in cui è nato e da cui proviene.
Tutto ciò Matteo ce lo propone sotto forma di racconto, perché il raccontare è il linguaggio primitivo e proprio dell'uomo. E la forza del racconto sta proprio qui: nelle varie scene che si snocciolano in numerose sequenze davanti a noi, come in un’avvincente rappresentazione, noi ne siamo sentimentalmente ed emotivamente coinvolti e inconsciamente, nei personaggi che le popolano con le loro vicende quotidiane, ritroviamo noi stessi e finiamo con il vivere i loro drammi e condividere o respingere le loro scelte di fronte all'uomo Gesù ... e il gioco è fatto perché alla fine ci rendiamo conto che quei personaggi non sono dissimili da noi, anzi, siamo noi stessi e con le loro scelte ci interpellano e ci spingono a prendere posizione di fronte a quel Gesù, che, in un determinato momento della loro esistenza, hanno avuto l'avventura d'incontrare, così come noi lo incontriamo nello svolgersi interpellante e inquietante della narrazione. Sono personaggi ed è un mondo, quindi, che fungono da stimolo su di noi, scatenando in noi un inconscio processo di identificazione, così che noi incominciamo a vivere la loro stessa avventura, che non sentiamo più come estranea, ma è già parte di noi. In tal modo la nostra vita diventa lo spazio in cui viene ripreso e giocato quel racconto e noi ne diventiamo parte. Diventa una sorta di gioco di ruolo, in cui la finzione del racconto si trasforma in realtà, coinvolgente e travolgente, che si fa terribilmente e drammaticamente vera. Pertanto l'uomo, credente o ateo che sia, è chiamato a confrontarsi con il dramma di questo racconto, da cui emergono quei valori umani, di cui l'uomo era rivestito nella sua perduta dignità di essere somigliante a Dio. Un racconto, dunque, che lo interpella innanzitutto nella sua umanità decaduta, aprendola a nuove ed antiche dimensioni, di fronte alle quali egli è chiamato a prendere posizione, nella coscienza che in ogni sua scelta, di accoglienza, di indifferenza o di rifiuto, è sempre e comunque racchiuso un giudizio, il cui esito, ora, dipende soltanto da lui.
I cap. 5-25 costituiscono il corpo centrale del racconto evangelico e sono lo sviluppo dettagliato e arricchito delle tematiche condensate nei sette capitoli sopra riportati. Essi sono finalizzati a interpellare l'uomo nel suo vivere quotidiano, chiamandolo a confrontarsi con la nuova realtà, proclamata sotto forma di "lieto annuncio".
I due capitoli 5 e 25 inoltre formano una sorta di grande parentesi che racchiude gli elementi essenziali per poter rispondere all'appello alla conversione con una scelta esistenziale radicale. Il cap. 5, infatti, riprende e attua in sé il v. 4,17: "Da allora Gesù incominciò ad annunciare e a dire:<<Cambiate modo di pensare, poiché si avvicina il regno dei cieli>>". Si tratta di un annuncio che spinge a riflettere sulla necessità di rivedere il proprio modo di vivere per riorientarlo a Dio. Su tale annuncio, che si conclude con un appello alla conversione, si svilupperà, poi, un giudizio divino, che Matteo lascia intendere essere già presente in quel "avvicinarsi del regno dei cieli". Esso chiede una pronta risposta per sfuggire all'ira imminente (3,7), cioè al giudizio di un Dio che viene (3,2; 4,17).
Ecco, dunque, che il cap. 5 si apre con un grande annuncio, il più consistente dei cinque grandi discorsi che compongono il vangelo di Matteo, occupando da solo ben tre capitoli: 5, 6, 7. Essi raccolgono un corposo insieme di detti di Gesù di tipo sentenziale e profetico, su cui gli uomini sono chiamati a misurarsi e a conformarsi esistenzialmente, in vista di un giudizio finale, che già è incominciato con la proclamazione del regno.
Non a caso, infatti, il cap. 25, che si pone al termine del corpo centrale del vangelo, si conclude proprio con la grandiosa rappresentazione del giudizio universale. Esso diventa la logica conclusione che verifica se quell'annuncio iniziale ha portato veramente "un frutto degno del pentimento" (3,8). Tutto ciò che sta in mezzo a questi due capitoli (5 e 25) sarà una lunga diatriba di annunci accolti e rifiutati, di incomprensioni e di persecuzioni, un continuo alternarsi di solleciti ad aprirsi a Dio nella fede ed ottuse chiusure ad un Dio che tende insistentemente la mano all'uomo, sul quale pesa la gravità della sua scelta.
Già in 4,17 viene detto che "Gesù incominciò ad annunciare e a dire". Ecco allora che la sua attività comincia con un lungo discorso che occupa ben tre capitoli: 5,1-8,1 in cui Gesù è presentato, insieme al suo messaggio totalmente innovativo e rivoluzionario, come il vero interprete della Torah (5,21-48). Ma le sue non sono chiacchiere, ma una parola che è spesa a favore dell'uomo ed opera la sua salvezza; pertanto, ecco che all'annuncio seguono tre guarigioni: quella del lebbroso (8,2-4), del servo del centurione (8,5-13) e quella della suocera di Pietro (8,14-15) e assieme a questi anche degli anonimi indemoniati, che vengono guariti proprio per mezzo della parola (8,16). Matteo evidenzia come in questo operare di Gesù si realizzi un'antica profezia di Isaia. Del resto, già nella presentazione della lunga genealogia (1,1-17), l'autore si era preoccupato, quasi in una sorta di anteprima, di avvertirci che Gesù è la realizzazione di tutte le promesse e di tutte le attese veterotestamentarie: in lui si compie ogni profezia[150].
Ecco dunque l'intrecciarsi obbligatorio delle parole con le opere (di cui già siamo stati avvertiti, in qualche modo, in 4,23-24) o, per meglio dire, l'esplicitarsi dell'annuncio di una parola che si fa azione, da cui sgorga la salvezza di un uomo rigenerato.
Grandi folle seguono Gesù (4,25; 8,1.18). E' tempo quindi di mettere un po' d'ordine e dettare le prime condizioni (8,19-26), perché la sequela non si trasformi in una bagarre o in movimenti sediziosi, che alimentano false speranze. Gesù non è un capopopolo venuto per sollevare la gente contro l'invasore romano, ma l'unto di Dio (16,16) che chiama a raccolta attorno a sé, in un grande movimento escatologico, un popolo dalla dura cervice (23,37) per riorientarlo a Dio; per questo lancia un pressante appello alla conversione (4,17).
Sorgono quindi inevitabili, i primi interrogativi sulle sue credenziali (8,27); e la risposta viene immediatamente, non dalla gente, che ancora non si rende conto con quale fenomeno ha a che fare, ma dallo stesso mondo soprannaturale, anche se avverso: lui è nientemeno che il figlio di Dio (8,29), un personaggio del tutto sconosciuto e con cui è meglio non aver a che fare (8,34).
Ma per che cosa è venuto questo strano e inquietante personaggio? La risposta viene, tra lo scandalo dei benpensanti (9,3), direttamente dalla guarigione del paralitico (9,2-7): "I tuoi peccati ti sono rimessi" (9,2). Ecco dunque l'obiettivo: riconciliare i peccatori con Dio, mentre la guarigione fisica diventa il segno sacramentale, per così dire, dell'avvenuta riconciliazione (9,6). Torna, ancora, lo schema della parola che si fa azione.
Ma Gesù non si accontenta di rigenerare a Dio i peccatori, ma li chiama alla sua sequela in modo privilegiato (9,9), li accoglie presso di lui, si lascia raggiungere e toccare da loro, anzi, banchetta pure con loro (9,10), creando non poco imbarazzo tra i Farisei (9,11).
Le regole del gioco, dunque, sono sovvertite in modo scandaloso e inaudito, neppure il sacro digiuno è più rispettato[151] (9,14). Come mai uno sconquasso simile? E' evidente: l'azione di rinnovamento che questo oscuro rabbi di Nazaret[152] è venuto a portare non è più compatibile con le vecchie logiche del giudaismo. Si crea pertanto una forte e inevitabile tensione tra i due, poiché le rispettive esigenze sono tra loro irriducibili, per questo non si può mettere una pezza nuova su di un vestito vecchio, né del vino nuovo in otri vecchi (9,16-17). In altre parole, non si può adattare l’A.T. al N.T.
Ancora una volta tuttavia l'annuncio della novità non si ferma alle sole parole; infatti Matteo fa subito seguire il racconto di quattro miracoli (9,18-33), che vanno a completare il primo gruppo di tre miracoli (8,2-17). Il risultato è di complessivi sette miracoli, che dicono la pienezza dell’operare di Dio nell’uomo Gesù e indicano anche visibilmente e concretamente in che cosa consiste questo rinnovamento. Non si tratta di cambiare qualche regola del gioco, ma è l'uomo nella sua interezza che viene messo in discussione ed è totalmente riabilitato. Un morto, quindi, risorge (9,18-19.23-25) per dire che l'azione di Gesù fa passare l'uomo dalla morte del peccato alla vita divina; mentre una donna, gravemente ammalata, viene guarita (9,20-22), per indicare che con Gesù la vita riprende a scorrere; anche due ciechi finalmente si aprono alla luce (9,27-31), per significare, in tal modo, che la fede apre alla luce della rivelazione divina e l'uomo ricomprende se stesso e il senso del suo esistere alla luce di Dio. Tutto ora si fa più chiaro, come per l'indemoniato risanato (9,32-33a), il quale, liberato dallo spirito della menzogna per mezzo della verità della rivelazione, si apre alla lode di Dio. Solo chi gli resiste non comprende e si scandalizza (9,34); ma la gente, ammirata da tanta autorità e potenza, stupisce (9,33b). E' sempre il gioco del contrasto, che Matteo aveva già preannunciato con il racconto della nascita di Gesù: egli divide l'umanità in credenti (i magi) e increduli (Erode). Uno schema che si ripeterà fino all'ultimo versetto di questo grande racconto, quando, proprio i suoi, di fronte alla sua risurrezione, dubiteranno ancora (28,17).
Gesù quindi ha iniziato un processo di rinnovamento dell'umanità intera e la gente, numerosa, lo segue (4,25). Ma non è sufficiente seguire Gesù, serve anche chi sappia, con abnegazione, portare avanti la sua missione. Sono proprio queste grandi masse di persone, assetate di novità e sfinite da un'esistenza priva di senso e allo sbando, che commuovono Gesù (9,36). Egli si rende conto che la sua missione terrena avrà termine ben presto e che c'è bisogno di chi sappia continuare la sua opera nel tempo (9,37).
Ecco, quindi, che il primo gruppetto di quattro pescatori (4,18-22), rimpolpatosi cammin facendo (9,9), viene costituito, assieme agli altri chiamati, quale solido fondamento a cui lasciare la propria pesante eredità (10,1-4). E subito li invia, dando loro una sorta di statuto del buon apostolato e del modus operandi (10,1-42) e ponendo di fronte a loro la figura del Battista, in cui si incarnano i tratti essenziali del vero apostolo, così come pensati da Gesù: uomo integro, tutto d'un pezzo, che non corre dietro a mode e ideologie del momento; non fa amicizia con i potenti, ma è rivestito di sobrietà ed essenzialità; messaggero divino inviato per preparare la venuta di Dio in mezzo agli uomini; vero Elia, cioè uomo escatologico, degli ultimi tempi, che Gesù è venuto ad inaugurare (11,2-15).
Ma che cosa devono aspettarsi i nuovi inviati? Quale la sorte della loro azione apostolica? E' questa l'occasione per Gesù di fare una sorta di sintesi, alquanto deludente, della sua missione[153] e sottolineare, con tono minaccioso, il comportamento contraddittorio e persistentemente incredulo dei suoi ascoltatori (11,16-24); ma capisce anche che l'essere accolto non è frutto della buona volontà umana, ma di una chiamata divina, riservata agli umili e ai poveri (11,16-30).
La pervicace incredulità e la chiusura ad oltranza rendono impossibile anche ricomprendere, secondo nuovi schemi, la questione del riposo sabbatico, per cui risulta più semplice pensare di eliminare l'inciampo della novità, che lasciarsi interpellare e cambiare da essa (12,1-21).
Soltanto l'incontro sincero e disponibile dell'uomo con Gesù genera in lui la fede, aprendolo alla luce della rivelazione, da cui sgorga la giusta lode a Dio. E' questo il senso del racconto della guarigione dell'indemoniato cieco e muto, che, dopo l'incontro, torna vedere e a parlare (12,22).
L'incredulità, invece, rende l'uomo chiuso ad ogni intervento divino, così che di fronte alla guarigione dell'indemoniato cieco e muto c'è chi riconosce in Gesù il figlio di Davide (12,23), cioè colui che realizza in sé le promesse divine[154]; ma c'è anche chi vede in Gesù un emissario di Beelzebul (12,24). E' l'eterna contrapposizione tra credenti e increduli, che si viene a creare attorno alla figura enigmatica di Gesù; un tema questo che ripercorre l'intero vangelo matteano a partire da 11,16 fino alla fine, in cui vedremo come questa incredulità si fa sempre più audace e tracotante, fino a diventare traditrice (26,47-50) e assassina (27,22-23), rendendo anche gli amici più intimi dei vigliacchi (26,56b) e pronti al disconoscimento (26,69-74). Ma questa persistente incredulità rende anche impenetrabile l'uomo all'azione dello Spirito, l'unico in grado di rigenerarlo a Dio; per questo l'incredulità sarà fonte di perdizione (12,31-32).
Di fronte a tanta durezza di cuore, che resiste all'azione dello Spirito, Gesù teme che la sua missione possa anche fallire. Opera pertanto una selezione: alle folle parlerà in parabole, mentre ai discepoli, cioè a coloro che si sono resi disponibili e che hanno fatto della sequela una scelta di vita, le spiegherà a parte (13,10-18). Da questo momento in poi, loro saranno la vera famiglia di Gesù (12,49), che rinnegherà quella sua carnale (12,48), perché, anch’essa affetta da incredulità. Infatti, vogliono raggiungere Gesù, ma standosene di fuori, cioè non vogliono essere coinvolti nel suo movimento (12,46).
Gesù, pertanto, cerca di far capire che aderire a lui comporta una scelta radicale (tesoro nel campo, la perla di grande valore), che avrà come epilogo il giudizio finale (la cernita dei pesci) (13,43-52). In altri termini, aderire o meno a Gesù non è indifferente.
La missione di Gesù si fa sempre più dura, poiché anche presso i suoi compaesani trova incomprensione e chiusura (13,54-58).
Ma dove porterà questa incredulità? Il lungo discorso sull'incredulità (11,16-13,58) si conclude, significativamente, con la morte del Battista, che in qualche modo prelude a quella di Gesù (14,1-12). Una combinata quella di Giovanni-Gesù, che verrà ripresa da Matteo anche in 17,12, in cui la persecuzione e la morte del Battista saranno viste da Gesù come il parametro della sua passione e morte.
Con la morte del Battista si chiude definitivamente l'A.T. e si apre un'era nuova in cui il Padre, abbandonata la durezza della Legge mosaica, mostra nel volto storico di Gesù tutto il suo amore, la sua misericordia, la sua compassione e la sua attenzione e cura per l'uomo decaduto dalla sua dimensione di somiglianza divina[155]. Nell'ambito di questa cornice vanno letti gli interventi miracolosi di Gesù, che seguono (14,14-36) e che si aprono con una dichiarazione, che fornisce loro la chiave di lettura: "... vide molta folla e fu mosso da compassione ..." (14,14). In tal modo viene data anche una risposta alla convinzione di Erode, che vedeva in Gesù soltanto una prosecuzione di un Giovanni Battista redivivo (14,2), non cogliendo in lui la diversità del suo messaggio e della sua persona, a motivo della sua incredulità. Soltanto coloro che approcciano Gesù in un'ottica di fede riescono a cogliere in lui la sua vera identità di Figlio di Dio (14,33); e sarà proprio questo incontro con Gesù nella fede che provocherà la loro guarigione-salvezza (14,35-36).
Dopo un'ampia sezione dedicata all'incredulità e alla durezza di cuore, che impediscono la comprensione della reale dimensione umano-divina di Gesù e del significato profondo della sua missione e della sua identità (11,16-13,58), pregiudicando la salvezza dell'uomo (12,30-32), la presente pericope (14,13-36) costituisce il passaggio dal tema dell'incredulità a quello della fede.
dopo un'ennesima diatriba sulla questione della purità (15,1-20), molto cara ai Farisei, Gesù da un lato invita i suoi a lasciarli perdere per la loro pervicace e inguaribile cecità (15,14), dall'altro egli abbandona definitivamente la sua patria per portarsi ad annunciare la conversione nei territori pagani di Tiro e Sidone (15,21). Qui Gesù incontrerà una cananea, alla quale guarisce la figlia. Sarà proprio questo incontro che farà capire a Gesù come la sua missione non è rivolta, come egli credeva fino a quel momento (10,5-6; 15,24), al solo Israele, ma anche ai pagani. Capirà come è proprio l'elemento della fede in lui e non l'appartenenza al popolo della promessa (3,8-9), che costituisce la chiave di accesso alla salvezza e il senso della sua missione (15,28). Pertanto Gesù da questo momento in poi darà una svolta universalistica alla sua missione, aprendosi decisamente e senza riserve al mondo pagano. Tale indirizzo verrà confermato anche da una serie di parabole che rendono inequivocabile la scelta di Gesù: "i due figli mandati a lavorare nella vigna" (21,22-31); "i vignaioli malvagi" (21,33-41); "la pietra scartata dai costruttori" (21,42-44); "il banchetto di nozze del figlio del re" (22,2-13).
L'apertura di Gesù al mondo pagano, che a sua volta si apre a lui nella fede, viene testimoniata sia dalla guarigione di zoppi, ciechi, storpi, muti e di molti altri ammalati, che provocano la lode dei gentili al Dio d'Israele (15,30-31), sia dalla seconda moltiplicazione dei pani (15,32-38), riservata questa ai pagani dei territori di Tiro e Sidone (15,22). Anche questo secondo miracolo del pane, come già per il primo (14,14), è preceduto da una dichiarazione di compassione di Gesù (15,32). Gesù dunque manifesta in sé il volto storico dell'amore misericordioso e compassionevole di un Dio che si avvicina non soltanto ai figli d'Israele, ma indistintamente ad ogni uomo. Solo la fede diventa la discriminante tra gli uomini, che sono divisi non più tra ebrei e non ebrei, bensì tra credenti e non credenti.
Ormai è chiaro che la fede è l'unica via di accesso a Gesù e tutti, indistintamente, sono posti sotto la tutela della fede: nessun altro titolo di merito è riconosciuto all'uomo per accedere alla salvezza, veicolata in Gesù.
Ora Gesù sta per rivelare la sua vera identità che può essere raggiunta solo attraverso la fede; diversamente, la sua apparenza è quella di un uomo inquietante, dalle spiccate tendenze sovversive e, pertanto, un pericoloso intralcio politico-sociale-religioso da eliminare, come, del resto, è accaduto.
La questione fondamentale sulla vera identità di Gesù è preceduta da uno scontro frontale tra Scribi, Farisei e Gesù. Questi pretendono un segno che identifichi l'origine della sua pretesa autorità e faccia finalmente capire chi è veramente lui (16,1). Il Gesù risorto sarà il vero e unico segno dal cielo, che loro però non sanno interpretare per la durezza e l'invincibile cecità del loro cuore (16,4).
Questa pervicace incredulità sembra in qualche modo intaccare anche i suoi discepoli, se Gesù si sente di dover metterli in guardia dal lievito dei Farisei (16,6).
Preceduta da una condanna dell'incredulità (16,1-5) e da una messa in guardia contro di essa (16,6-12), ecco, ora, la questione di fondo: chi è veramente Gesù?
Il problema si era già posto altre volte e in vari modi[156], mentre altrove la gente stupisce incredula di fronte all'operare di Gesù (9,33b; 15,31) e viene presa da timore (9,8) e stupore (12,23) o riconosce in lui un'incredibile autorità finora mai vista (7,29).
Furono date in proposito anche delle risposte. Già in 3,17 sappiamo direttamente dalla voce del Padre che Gesù è il suo figlio prediletto, riconfermato tale in 17,5b al momento della trasfigurazione; i demoni, poi, lo definiscono in 8,29 come "figlio di Dio", mentre i discepoli in 14,33, dopo lo scampato pericolo della tempesta, lo riconoscono essi stessi come tale, con l'identica espressione che Matteo porrà, poi, sulla bocca del centurione ai piedi della croce: "Veramente costui era figlio di Dio" (27,54). Ma Gesù è in vario modo riconosciuto e chiamato anche Cristo[157].
Come si nota, si accentrano su Gesù numerosi interrogativi diretti o sotto forma di stupore e timore a cui già vengono date delle risposte nel corso della narrazione. Ormai il lettore del Vangelo è stato lungamente edotto dall'autore su chi è quell'inquietante personaggio. Eppure Matteo, nello svolgere il suo racconto, sente il bisogno di porre la questione in modo diretto e specifico. Perché?
Innanzitutto è importante per l'autore far capire bene chi è il suo personaggio principale sul quale l'intera narrazione si impernia, poiché dalla definizione della sua identità dipendono il senso del suo operare e il peso della sua parola e, quindi, il livello di credibilità che gli si può assegnare.
Se osserviamo attentamente infatti tutte le questioni poste sull'identità di Gesù e sulla sua origine sono occasionali, saltuarie, sparse qua e là, poste quasi per interpellare il lettore e smuovere la sua curiosità su questa strana quanto ambigua figura di uomo-contro; spesso rimangono senza risposta e quando questa c'è, il suo valore non sembra capito fino in fondo, sia perché parte di queste risposte provengono direttamente dal mondo trascendente[158] e quindi difficilmente comprensibili nella loro interezza da parte dell'uomo; sia perché pronunciate da uomini sotto una forte spinta emotiva,[159] la cui profondità e dimensione reali sfuggono totalmente. Gesù infatti non reagirà mai di fronte a chi lo definisce Figlio di Dio o Cristo, né cambierà, per questo, il suo modo di operare e di condurre la propria missione, né imporrà in alcun modo di tacere su tali definizioni, come avviene invece qui nel nostro caso (16,20).
Esse sembrano prevalentemente dei suggerimenti, degli stimoli che l'autore butta là, quasi di soppiatto, per il suo lettore perché si interroghi sul loro reale valore, tracciando in tal modo un cammino che lo porti ad aprirsi e a comprendere veramente l'identità dell'eroe del suo racconto e gli cada in ginocchio in una sincera professione di fede. Un cammino che lo porta ad imbattersi, all'improvviso, ma non impreparato, alla questione fatidica di fondo: "Ma voi, che cosa dite che io sia?" (16,15).
E' una domanda di vitale importanza che il lettore si sente rivolgere direttamente e a cui deve dare la sua risposta personale. E' una domanda che gli si rivolge a lui come uomo che ha avuto l'avventura di imbattersi in uno strano personaggio. Su questa domanda il lettore dovrà decidere la propria posizione: o di qua o di là. Non esistono vie di mezzo: o credi o non credi. Qualunque sia la decisione, questa si ripercuoterà profondamente sulla sua vita. Infatti se decide di credere, sarà la sua intera esistenza, in ogni sua espressione, a dover radicalmente cambiare fino a rinascere nuovamente in una nuova dimensione, che lo porrà decisamente in contrasto con se stesso e con l'ambiente in cui è vissuto fino a questo momento e gli chiederà una testimonianza radicale fino all'effusione del sangue (16,24-27); se invece decide per il non credere, è già condannato e per lui non c'è più alcuna speranza, comunque è finito (12,30-32) [160].
Come si può ben notare, le implicanze di questa domanda sono molto gravi e pesanti e interpellano l'uomo, raggiungendolo nel cuore della sua vita e nell'intimità della sua coscienza, spingendolo ad una scelta radicale. Ma per compiere questa scelta serve solo la fede, poiché la vera natura di Gesù è decisamente irraggiungibile dalla sola ragione umana. Ecco perché Gesù ha insistito pesantemente sulla questione della fede.
La gravità della domanda posta, la risposta di professione solenne data da Pietro e la replica altrettanto solenne da parte di Gesù (16,15-19) stanno a significare che qui siamo giunti nel cuore stesso del racconto matteano. Nessun altro momento della narrazione matteana trasuda tanta gravità e solennità come questa breve pericope.
E, infatti, essa costituisce un netto spartiacque all'interno del racconto, poiché da questo momento in poi Gesù cambierà decisamente, imprimendo alla sua missione una svolta radicale, scoprendo, senza più remore le carte del suo gioco e chiedendo ai suoi discepoli una svolta altrettanto radicale delle loro vite e una fede decisa, poiché quello che sta per succedere richiede una visione superiore degli eventi che qui si compiono (16,22-25).
Con questa pericope (16,15-19), quindi, si chiude la prima parte del racconto di Matteo, segnato prevalentemente dall'annuncio[161], supportato dal compiersi di prodigi e guarigioni, dalla costituzione della prima comunità messianica, dalla costituzione del gruppo apostolico, dall'ampia trattazione sulla questione del credere. Una prima parte, dunque, preparatoria alla seconda, per cui la narrazione matteana risulta divisa in due grandi poli, i cui confini sono segnati da due identiche espressioni:" 'ApÕ tÒte ½rxato Ð'Ihsoàj – Apò tote érxato o Iesùs ..."[162] poste in 4,17 e 16,21.
Finalmente compresa e acquisita la sua vera identità di messia e figlio di Dio (16,16) da parte dei suoi discepoli, Gesù dà una netta sterzata sia alla sua missione, rivelando il suo triste e doloroso destino, insistendo su di esso per ben tre volte[163]; sia al rapporto con i suoi discepoli, dettando le nuove regole della sequela (16,24) alla luce della nuova comprensione che essi hanno avuto di lui. Tali regole non richiedono più un semplice distacco dalle cose materiali e dagli affetti familiari (8,19-22), ma una conformazione del discepolo al maestro, un rinnegare se stesso, quindi, rinunciando alle proprie esigenze, al proprio modo di pensare e di vedere le cose. Si tratta di un morire a se stessi e alle proprie logiche umane per accogliere quelle di Dio, ponendosi dalla sua prospettiva e non più da quella umana, che Gesù definisce satanica (16,23). Per questo è necessario associarsi alla croce del proprio maestro, sulla quale è stata crocifissa la vecchia umanità adamitica, profondamente corrotta dal peccato[164].
Il cammino verso una maggiore comprensione dell'identità del maestro viene completato con il racconto della trasfigurazione dove appare chiaramente come Gesù (riconfermato ancora una volta figlio di Dio) e la sua missione sono strettamente legati alla morte e risurrezione, anzi ne fanno parte (17,1-9).
Il cammino verso la croce è duro, ma il sapere che il proprio maestro, messia e figlio di Dio, è destinato al fallimento rende la cosa ancor più dura e inaccettabile (16,22). Per questo serve una nuova sferzata per spingere il discepolo verso una fede piena e completa. Solo così si comprende che Giovanni era l'Elia che doveva venire e come Gesù, a lui associato, è l'atteso uomo degli ultimi tempi (17,10-13); mentre la guarigione dell'epilettico racconta la liberazione e la libertà operate dalla fede in Gesù (17,14-21).
Ecco, quindi, il secondo annuncio della passione (17,22-23a), a fronte del quale, i discepoli si rattristano (17,23b), ma non lo rifiutano, come è avvenuto in 16,22, segno che la fede li sta aprendo ad una nuova comprensione delle cose, così che Gesù, sia pur velatamente, ora parla di sé come figlio di Dio (17,24-27).
L'incalzare veloce degli avvenimenti dopo la proclamazione solenne di fede da parte dei discepoli, ha bisogno, ora, di una pausa di riflessione. Alla luce di una ricomprensione della figura di Gesù e di conseguenza della sua missione e del suo annuncio, come il credente si deve posizionare all'interno della comunità, nei suoi rapporti con se stesso e con gli altri?
Ecco, dunque, alcune questioni probabilmente dibattute all'interno della stessa comunità di Matteo: chi è veramente grande?; come regolarsi con chi sbaglia, tenendo conto che Gesù vuole la salvezza di tutti?; qual è il valore della preghiera comune?; il perdono va sempre e comunque dato a tutti? (18,1-34). E ancora, cosa pensare del divorzio e della verginità? A chi appartiene il regno? La ricchezza è incompatibile con la nuova dimensione prospettata da Gesù? Quale ricompensa spetta a chi ha seguito Gesù? Nel regno di Dio c'è posto per tutti? C'è distinzione tra grandi e piccoli? Vi sono primi ed ultimi? (19,1-20.16).
Questo lungo intermezzo, che occupa quasi due capitoli (18,1-20,28), si chiude significativamente con il terzo annuncio della passione (20,17-19), che si protrae in quel disdicevole episodio dei due figli di Zebedeo, che tentano di scavalcare gli altri, facendosi raccomandare dalla loro madre (20,20-28). La passione e morte di Gesù, colta come un servizio di salvezza per l'umanità, diventa il parametro di raffronto su cui la comunità e ogni credente si devono misurare.
Il cap. 20 si chiude emblematicamente con la guarigione di due ciechi (20,30-34) per significare che finalmente la comunità credente, illuminata dalla fede e dal suo incontro con Gesù, ha compreso il vero significato della passione e morte di un Gesù, fattosi servo del Padre per realizzare il suo progetto di salvezza, fino al gesto estremo della totale donazione di sé. Un servizio che non si compie con il primeggiare o con il tentare di scavalcare gli altri per prendersi i primi posto, ma per mezzo della croce, che contiene in sé una promessa di risurrezione.
Da questo momento in poi Gesù sarà apertamente riconosciuto e invocato con chiari titoli messianici e divini[165]. Solo al termine di un lungo cammino di fede si può avere la piena comprensione della figura di Gesù e della sua missione. Solo ora Gesù è compreso e accettato nella sua più vera dimensione di Messia sofferente, di Figlio di Dio crocifisso e di re beffeggiato.
Tutto ciò è possibile perché siamo ormai giunti al termine del lungo viaggio verso Gerusalemme, metafora da un lato di un difficile e sofferto cammino di fede, che getta una nuova luce sulla figura di Gesù e sul senso della sua missione; dall'altro esso rappresenta il compiersi del disegno del Padre qui nella storia (21,1-11).
La fede, ora, consente di comprendere non solo la persona di Gesù, ma anche ogni sua parola e gesto, che acquisiscono in questo momento una valenza squisitamente profetica. Infatti, l'episodio della purificazione del tempio (21,12-17) simboleggia la cacciata da questo del vecchio culto, non più in grado di salvare l'uomo, mettendolo in un rapporto sbagliato nei confronti di Dio. Tempio e culto sono ora sostituiti da Gesù. Cosa effettivamente sia il culto religioso in Israele è simboleggiato dall'episodio del fico, così ricco e lussureggiante di foglie, ma privo di qualsiasi frutto (21,18-22).
Siamo ormai giunti alla resa dei conti, e la polemica sull’incredulità si traduce in una violenta requisitoria contro di essa. A partire da questo momento (21,23), Gesù si scaglia contro la classe dirigente di Israele, chiusa ermeticamente all'azione di Dio: si rifiuta di rivelare loro la sua identità, per la loro inintelligenza sulle cose di Dio (21,23-27) e per la loro pervicace e impenetrabile incredulità, che rende vana ogni azione divina (21,28-32), mentre li rende sordi ad ogni appello alla conversione (22,2-14). Tale atteggiamento provocherà un giudizio di condanna, mentre la salvezza, inizialmente pensata per loro (10,5-6; 15,24), sarà, invece, loro tolta e data al mondo pagano, che ha saputo ben accogliere Gesù (21,41).
Significative in tal senso sono le ultime quattro dispute sul tributo a Cesare (22,16-21), sulla risurrezione (22,23-32), sul più grande dei comandamenti (22,35-40), sulla sua vera natura divina, riconosciuta dallo stesso David (22,41-46).
Con il cap. 23 Gesù esaurisce la sua polemica-accusa con il giudaismo, che, chiuso nelle sue sicurezze, non ha saputo aprirsi alla novità dell'annuncio, ricevendo in contraccambio un giudizio di condanna, sinteticamente espresso nei sette "Guai"[166]
Con i capp. 24 e 25 Gesù sposta l'attenzione dal Giudaismo al mondo. Con la sua uscita dal Tempio (24,1) Gesù esce definitivamente dal Giudaismo e l'abbandona al suo destino. Ora guarda in avanti, al tempo in cui egli non ci sarà più, per cui si preoccupa di dare le ultime istruzioni ai suoi (24,1-51), delineando uno stile di vita adeguato per far fronte a tempi difficili e agli inganni che caratterizzeranno l'epoca dopo di lui. Vigilanza, perseveranza e attenzione sono le peculiarità che dovranno qualificare il credente nel mondo, nei tempi a lui successivi.
Con tre parabole, che costituiscono l'intero contenuto del cap. 25, Gesù indica i tre assi portanti della vita dei suoi discepoli: a) la vigilanza, significata con la parabola delle vergini prudenti e stolte (25,1-12), che si conclude con un sollecito a vegliare (25,13); b) l'assidua operosità nel bene, raccomandataci con la parabola dei talenti (25,14-30); c) l'amore, concretamente manifestato nei confronti del prossimo, in cui Gesù si dichiara in esso sacramentato (25,40.45). Questo amore sarà oggetto del giudizio finale (25,31-46).
Con questo ultimo ed ampio discorso, il quinto, che abbraccia i capp. 24,1-25,46, si chiude definitivamente l'attività pubblica di insegnamento ed opere di Gesù. Iniziano, ora, gli ultimi tre capitoli, di cui due (26 e 27) dedicati alla passione e morte, e il terzo (28) è riservato alla risurrezione, alle apparizioni e alle consegne finali.
Il cap. 26 si apre con un ampio prologo, preparatorio al racconto della passione, una sorta di ouverture, formata da sette sequenze, poste l'una accanto all'altra in rapida successione, dandoci, in tal modo, l'idea del precipitare delle cose:
1) verso la passione (26,2);
2) la decisione di uccidere Gesù (26,3-5);
3) la morte e la sepoltura di Gesù sono preannunciate simbolicamente dall'unzione (26,6-13);
4) il tradimento (26,14-16);
5) la preparazione della cena pasquale (26,17-19);
6) la cena pasquale (26,20-30);
7) Gesù preannuncia l'abbandono e il tradimento dei discepoli e di Pietro e lamenta l'incapacità dei suoi discepoli di vegliare con lui: Gesù è solo (26,31-46).
Con la consegna di Gesù ai suoi nemici da parte di Giuda (26,47) ha inizio la vera e propria passione, che terminerà con la sepoltura di Gesù (27,60). La grande pietra, rotolata davanti alla tomba, pone fine alla triste e dolorosa avventura dell'eroe matteano e lascia dietro di sé una scia di sconforto e di amare delusioni, sintetizzate in modo molto espressivo da quel "se ne andò" (27,60) di Giuseppe d'Arimatea, anche lui fattosi suo discepolo (27,57). E' il segno dell'abbandono definitivo, che si lascia dietro le spalle le molte speranze deluse, ormai rinchiuse per sempre dietro l'enorme macigno, che le sigilla nel freddo buio della morte.
Ma la missione di Gesù non è ancora compiuta. Per tre volte egli annunciò la sua morte (16,21; 17,22-23; 20,17-19) ed ogni annuncio immancabilmente si concludeva con l'espressione "al terzo giorno sarà risuscitato". Soltanto con la risurrezione, dunque, può dirsi pienamente completata la missione di Gesù. Tale missione, pertanto, non termina con la passione e morte, ma continua fino a sfociare nella risurrezione. Questa costituisce un tassello di vitale importanza al punto tale da costituire il fondamentale elemento di riscatto non solo della figura di Gesù, ma anche della sua intera missione terrena. La sua parola e il suo operare acquisiscono una valenza di verità oggettiva ed eterna proprio perché con la risurrezione essi sono stati sottratti alla relatività della storia. Il “tutto è compiuto” (Gv 19,30) pertanto non si ferma all'esalazione dell'ultimo respiro, ma trova il suo naturale compimento nella risurrezione (28,6-7).
La grande e paradossale avventura del Dio con noi e in mezzo a noi non poteva perdersi nell'oblio dei secoli, né i beneficiari di quell'incontro potevano essere soltanto gli uomini di quel tempo. Molto c'è ancora da pensare e approfondire, molto ancora da capire. Soltanto lo Spirito infatti è in grado di condurre l’uomo alla verità tutta intera (Gv 16,13). C’è bisogno quindi di tempo per capire e perché l’annuncio possa raggiungere tutti, poiché sarà solo dall'incontro personale con Lui che sgorgherà la salvezza. Ecco quindi la necessità che quella missione prosegua in mezzo a noi (28,18-20) e possa raggiungere ogni uomo lungo il cammino della storia e della sua storia. Ecco la necessità che quella Parola risuoni ancora nel tempo; ecco la necessità che quegli eventi diventino memoria, perché ogni uomo possa incontrare e sperimentare nel suo oggi quella salvezza che fu preparata fin dall'eternità (Ef 1,4) e che nella pienezza dei tempi si manifestò a noi (Gal 4,4; Ef 1,10; Eb 9,26).
UNA PROPOSTA DI LETTURA
DELLA
TRAMA NARRATIVA DEL VANGELO DI MATTEO
1,1 – 4,25: Prologo e premessa
GESù LA NUOVA COMUNITà
5,1 – 8,17: Identità e missione di Gesù e i contenuti 8,19 – 34: Regole per la sequela che la qualificano di un nuovo stile di vita
9,2-34: La parola di Gesù si fa azione rinnovatrice e 9,36-11,15: Natura dell’apostolato, tratti essenziali rigeneratrice dell’umanità statuto e costituzione
11,16 – 13,58: La missione di Gesù si dibatte tra fede
e durezza di cuore
14,1 – 12: La morte di Giovanni Battista prelude a quella di Gesù,
due voci vittime dell’incredulità che si fa violenza
14,13 – 36: Gesù è il volto storico della compassione di Dio per
un’umanità decaduta e sofferente e la sostiene
15,1 – 39: Gesù ricomprende la sua missione e le dà un respiro
universalistico: la fede è il nuovo parametro selezionatore,
l’unico in grado di dare una corretta visione e comprensione
delle cose.
16,1 – 17,27: La fede, unico strumento in grado di dare una corretta lettura e
comprensione dell’identità di Gesù e della sua missione, legate
alla passione, morte e risurrezione.
18,1 – 20,28: Intermezzo: le regole cristiane e alcune
questioni interne alla comunità. Il Gesù
sofferente e servo è il parametro di confronto
della comunità di Matteo e dei suoi capi.
20,29– 34: La sezione della fede si chiude con la guarigione dei due ciechi,
segno evidente che ormai i discepoli hanno capito chi è Gesù e il
senso della sua missione. Da questo momento in poi Gesù sarà
apertamente riconosciuto e invocato con chiari titoli messianici e
divini .
21,1 –11: Al termine del viaggio verso Gerusalemme l’identità di Gesù e il senso
della sua missione appaiono ormai chiare, inequivocabili e di dominio
pubblico. In lui si compiono le Scritture.
21,12 – 22: con gesto profetico Gesù svela il senso della sua missione:
sostituire il vecchio con il nuovo culto, mettendo l’uomo nel
giusto rapporto con Dio. Il vecchio culto, ormai, non produce
più frutto.
21,23 –23,39: Gesù prende una veemente posizione contro la durezza
di cuore e la condanna senza appello. Sarà proprio questa
questa presa di posizione che decreterà la sua morte.
24,1 – 25,46: Il contrasto con il Giudaismo
si sposta al Mondo e vengono delineati i tratti
essenziali del cristianesimo dopo Gesù.
26,1 – 28,20: La morte e risurrezione di Gesù:
1) 26,1 – 46: prologo preparatorio e introduttivo alla
passione scandito in sette momenti:
2) 26,47 – 27,66: la passione e morte di Gesù
3) 28,1 – 20: L’epilogo: la risurrezione, le dicerie;
28,16-20: l’apparizione, i dubbi, le consegne e
l’assicurazione che Gesù sarà sempre in mezzo
ai suoi.
Come si è potuto rilevare, la trama narrativa del racconto matteano si svolge su due linee parallele, ma che nello snodarsi della narrazione si intrecciano continuamente tra loro.
La prima linea, la più consistente, parla dell’attività predicatoria e guaritrice di Gesù, della sua identità, delle difficoltà che la sua missione incontra per la durezza di cuore e l’incredulità dei suoi interlocutori. Egli comprende che è soltanto la fede l’unico parametro che consente all’uomo di cogliere la sua vera identità e il senso della sua missione. E temendo di fallire, opererà una separazione tra i suoi ascoltatori: credenti e increduli. Ai primi parlerà in parabole, ma le spiegherà a parte. Ai secondi, invece, si limita ad esporle, lasciandone criptato il contenuto. Da questo momento in poi, la vera famiglia di Gesù saranno coloro che gli si accosteranno con fede e fiducia, dimostrandosi aperti alla sua opera e accoglienti. Pertanto la divisione per Gesù non sarà più tra ebrei e non ebrei, ma tra credenti e increduli. In tal modo la sua missione acquisirà un respiro universalistico, abbracciando l’intera umanità. Il vero popolo della promessa non è colui che ha ricevuto la Torah, ma soltanto chi crede nell’opera del Padre suo, che si manifesta in lui. Questa decisione di Gesù scatenerà una dura e violenta polemica contro il mondo dell’incredulità, chiuso all’azione dello Spirito e, per ciò stesso, condannato.
La seconda linea, che si muove in parallelo intrecciandosi qua e là, è la linea propria della comunità credente, in cui si raccolgono coloro che hanno deciso la propria vita per Gesù, lo hanno accolto nella propria vita, dandone una testimonianza viva. I punti salienti che la costituiscono e la qualificano e su cui si fonda, sono sostanzialmente cinque:
1) Le regole, che definiscono la sequela del credente, e l’identità del suo fondatore;
2) La natura dell’apostolato, con la delineazione dei suoi tratti essenziali, il suo statuto e la sua costituzione;
3) La trattazione delle regole del vivere cristiano e di alcune questioni, che probabilmente si dibattevano all’epoca, all’interno della comunità stessa. Il Gesù sofferente e servo diventerà il parametro con cui l’intera comunità credente deve confrontarsi.
4)Vengono delineati i tratti essenziali del cristianesimo dopo Gesù. Come deve comportarsi il credente? Quali le linee da seguire? Quale stile di vita adottare?
5) Ma questa comunità credente, una volta che il suo maestro se ne sarà andato, quale identità assumerà? Come portare avanti la missione del proprio fondatore? A chi rivolgersi e come farlo? Che cosa dire e annunciare? Ecco, dunque, che la parte finale viene dedicata all’apparizione del Risorto ai suoi discepoli, per confermarli nella fede e far capire loro che non è finito tutto, ma che, anzi, ora incomincia tutto e che questo tutto è affidato a loro con pienezza di potere, perché sappiano portarlo avanti nel suo nome e per suo conto. Loro, dunque, sono i responsabili di tale mandato. Ogni timore, comunque, deve essere fugato: il credente non sarà lasciato mai solo, poiché il suo Maestro è sempre e comunque con lui fino alla fine del tempo.
Questo parallelismo intrecciato, che a mio avviso delinea l’intera struttura narrativa del racconto matteano, possiede in sé un profondo significato teologico: la vita della comunità si pone in parallelo e si intreccia con quella di Gesù. Parallelismo significa che i due non si pongono mai in dissonanza o in contrasto così da divergere o da scontrarsi; ma nel loro snodarsi le due vite si riflettono l’una nell’altra in modo armonico. L’intrecciarsi poi significa che queste vite non sono soltanto parallele e, pertanto, destinate a proiettarsi in avanti, all’infinito, senza mai incontrarsi, ma convergono tra loro, anzi si intrecciano tra loro. E questo esprime non soltanto la profonda unità e comunione tra i due, ma forma la loro stessa identità. In altre parole, l’una scaturisce e, nel contempo, si radica nell’altra, riflettendosi l’una nell’altra. In tal modo la nuova comunità credente diventa la sacramentalizzazione di Gesù, cioè la continuazione storica della sua missione. In altri termini Gesù continua ad operare e ad annunciare in mezzo agli uomini ancor oggi, ma non più in forma diretta, bensì mediata, sacramentale, ma non per questo meno efficace e meno reale.
Giovanni Lonardi
[1] Il primo ad affrontare la questione sulla figura storica di Gesù fu Hermann Samuel Reimarus, nato ad Amburgo il 1694 e qui morto nel 1768. Fu un teologo e filosofo tedesco, insegnante di lingue orientali nella sua città natale.
[2] A.Schweitzer, parlando di H.S.Reimarus e di D.F.Strauss e della loro critica denigratoria nei confronti della figura di Gesù, afferma: “Non si tratta tanto di un odio contro la persona quanto contro il nembo soprannaturale con cui si fece avvolgere e che veramente l’avvolse. Questi autori vollero rappresentarlo come un uomo semplice, strappargli gli abiti sfarzosi di cui era vestito e gettargli di nuovo sulle spalle gli stracci con i quali aveva camminato per la Galilea. ... Senza il loro scandalo la scienza non si troverebbe oggi dove effettivamente è.” Cfr. Albert Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia Editrice, Brescia 1986 – pag.75.
[3] Letteralmente “posto nella vita”, espressione tecnica usata per indicare il contesto storico in cui si sono formati i singoli racconti e le varie unità letterarie che compongono i Vangeli.
[4] Cfr. il §12 della Dei Verbum, costituzione dogmatica su “La divina rivelazione” – del 18.11.1965
[5] Il termine, che nella sua dizione completa è “Formegeschichte Methode”, letteralmente significa “Storia delle forme” o per meglio dire “Metodo della storia delle forme”. Questi teologi si proposero di raggiungere il Gesù storico risalendo lungo la formazione letteraria dei Vangeli. Essi arrivarono alla conclusione che i vangeli erano ben lontani dall’essere una biografia storica su Gesù; erano invece una raccolta di detti e racconti su Gesù, nati all’interno delle comunità primitive per soddisfare i loro bisogni non solo cultuali, ma anche catechistici, liturgici, apologetici e polemici. Non vi era nessun concreto interesse storico nei confronti della persona di Gesù. Si arrivò pertanto a concludere che il Gesù storico era andato irrimediabilmente perduto a tutto favore del Gesù della fede. In altri termini ciò che noi abbiamo in mano sono soltanto attestazioni di fede, che gli evangelisti si sono limitati a raccogliere nei loro vangeli, giustapponendole l’una accanto all’altra in un ordine fittizio. Vedremo come quest’ultima posizione sarà duramente contestata dall’altra corrente di studio, la Redaktionsgheschichte.
[6] La denominazione di Redaktionsgheschichte a questa nuova corrente di studio fu dovuta a Willy Marxen
[7] Il documento datato 15 aprile 1993 è una sorta di sintesi analitica dei metodi esegetici maggiormente utilizzati (Storico-critico, Analisi retorica, Analisi narrativa, Analisi semiotica), nonché una presa in considerazione dei diversi approcci con cui si affronta la lettura delle Scritture. Tra questi, a titolo esemplificativo, se ne ricordano alcuni presi in esame dal documento: approccio sociologico, antropologico culturale, psicologico-psicanalitico, liberazionista, femminista.
[8] I titoli riferiti da Matteo a Gesù e da me evidenziati sono i seguenti: 1) Figlio dell’uomo: 29 volte; 2) Signore: 20 volte; 3) Cristo: 12 volte; 4) Figlio di Dio: 11 volte; 5) Maestro: 11 volte; 6) Figlio di David: 8 volte; 7) Re: 6 volte; 8) Nazareno: 2 volte; 9) Battista: 2 volte; 10) Figlio di Abramo: 1 volta; 11) Figlio del carpentiere: 1 volta; 12) Emanuela: 1 volta; 13) Profeta: 1 volta; 14) Galileo: 1 volta; 15) Giusto: 1 volta; 16) Crocifisso.
[9] Abramo fu il primo depositario della promessa (Gen 12,1-3; 15,1-5), che troverà in Davide (2Sam 7,8-17), secondo caposaldo della promessa, un suo orientamento storico più preciso. Da questo momento avrà origine il messianismo davidico, cioè l’attesa di un discendente del casato di David che darà concretezza storica alla promessa.
[10] Con tale espressione greca, o ercomenos, participio presente del verbo “ercomai”, letteralmente “colui che viene”, si designa la figura del Messia, cioè dell’inviato di Dio, l’atteso dalle genti.
[11] La liceità del divorzio si fonda su Dt 24,1: "Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via". L’espressione “qualcosa di vergognoso” è piuttosto oscura e ha lasciato adito ad ampie discussioni tra i rabbini. Nel I sec. d.C. su tale argomento si confrontarono le due scuole più eminenti dell’epoca, quella di Shammai e quella di Hillel. La prima aveva assunto una posizione molto restrittiva: “L’uomo non ripudi sua moglie se non l’ha scoperta infedele”; una posizione questa che ritroviamo anche in Matteo (19,9). La posizione di Hillel era molto più permissiva: “L’uomo può ripudiarla anche se lascia bruciare il cucinato”. Rabbi Akiba, invece, interpretava l’espressione “che essa non trovi grazia ai suoi occhi” come la possibilità di divorziare qualora l’uomo avesse trovato un’altra donna più avvenente della propria moglie. Tuttavia nel tempo prevalse la posizione più permissiva di Hillel con cui si confronterà Gesù, tra lo scandalo e le perplessità dei suoi discepoli (Mt 19,10). Cfr Abraham Cohen, Il Talmud, Editori Laterza – Bari 1999 – pagg. 207-208.
[12] “Ex es eghenezze Iesus”, “dalla quale nacque Gesù”.
[13] La particella greca “ek” oltre che indicare l’origine e la provenienza, indica anche il mezzo, lo strumento per mezzo del quale si attua una determinata opera. La CEI traduce significativamente “si trovò incinta per opera dello Spirito Santo” (1,18), mentre poi in 1,20, a parità di espressione (ek pneumatos aghiu) traduce “perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. In tal modo la CEI dà un duplice significato alla medesima espressione. Non so se questo fosse nelle intenzioni del traduttore ecclesiastico, ma di certo questa duplice traduzione presenta il concepimento di Gesù sotto un duplice aspetto. Con “ek” nel significato di provenienza, si sottolinea come Gesù proviene dal mondo di Dio, ne sgorga come l’acqua dalla sua sorgente. Egli pertanto non solo è Figlio di Dio, ma Dio lui stesso, possedendone per natura il DNA.
Con “ek” intesa come mezzo, strumento di concepimento Matteo in qualche modo si aggancia alla genesiaca creazione dell’uomo, quando: “il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). Lo Spirito Santo pertanto, qui nel concepimento di Gesù, come là nella primordiale creazione dell’uomo è strumento creatore nelle uniche e identiche mani del Padre. Ciò significa che il Padre ha voluto creare in Gesù il suo secondo Adamo (1Cor 15,45), un uomo nuovo così come pensato dal Padre (Ef 4,24).
[14] Traduzione: “Dicevano infatti che era fuori di sé”
[15] Traduzione: “e, stando fuori” - “<<Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano>>.”
[16] Traduzione: “che desiderano vederti”
[17] La parola profeta deriva dal verbo greco profemì che significa “parlare in nome di” , “a favore di” o “al posto di”.
[18] Il nome Malachia deriva dal termine ebraico male’akì che significa il messaggero
[19] Gesù condivide con l’uomo le conseguenze del peccato originale (Rm 8,3) come la sofferenza, il dolore, la paura, la caducità della vita e la morte, non di certo il peccato (Eb 4,15).
[20] Il significato di apostolo è probabilmente quello di plenipotenziario. Secondo K.H. Rengstorf dietro la figura dell’apostolo ci sta quella giudaica dello saliah, che era un rappresentante ufficialmente accreditato dalle autorità religiose in Gerusalemme, al quale si affidavano messaggi e denari ed era autorizzato a trattare. Cfr. la voce Apostolo in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme – Casale Monferrato (AL) – II Edizione 2005 e in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) - 1988
[21] Cfr. Mt 20,20-28; 23,8-12; Mc 9,33-37;10,35-45; Lc 17,10; 22,24-27; Gv 13,13-17
[22] Cfr. Mt 10,1-2; Mc 3,13-19; Lc 6,13-15
[23] L’autore del primo vangelo è chiaramente un giudeo-ellenista. È un giudeo in quanto conosce bene le usanze e i costumi ebraici; fa uso frequente di citazioni dirette e indirette veterotestamentarie; usa procedimenti letterari tipicamente semitizzanti e da a vedere di conoscere le tecniche letterarie rabbiniche. Tutto ciò si addice meglio ad uno scriba piuttosto che ad un pubblicano. E che sia uno scriba sembra confermato da un passo dello stesso vangelo: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli, è simile ad un padrone di casa, che estrae dal suo tesoro cose nuove e antiche” (Mt 13,52). Ed è ellenista sia per la sua accentuata polemica antifarisaica (cfr ad es. il cap. 23) sia per una visione universalistica della salvezza (cfr ad es. 28,16-20) difficilmente pensabile per un ebreo di Gerusalemme o della Palestina. Va detto, infine, che Matteo sia stato discepolo di Gesù, anche perché il suo vangelo dipende per quasi l’ 80% da quello di Marco, che, invece, non era discepolo di Gesù. è difficile, quindi, che un apostolo, che ha vissuto per circa tre anni in intimità con Gesù, dipenda per la sua opera da uno che, invece non lo fu mai stato. – “Introduzione ed esegesi dei vangeli sinottici”, dispense del Prof. Augusto Barbi dell’ISSR S.Pietro Martire e Studio Teologico S.Zeno Verona. – Cfr. inoltre Ortensio Spinetoli, “Matteo” – Ed. Cittadella Editrice – Assisi 1998
[24] Sono probabilmente quelle folle che in modo anonimo seguivano Gesù e che i vangeli citano come una costante presenza che si muove attorno al Maestro e che in Matteo sono citate circa una cinquantina di volte.
[25] In tutta la LXX il termine non compare mai una volta. Ciò sta a denotare come il termine apostolo definisca una funzione del tutto sconosciuta fino a Gesù, nel suo contenuto giuridico di inviato plenipotenziario, cioè di alter ego. Questo termine si diffonderà solo con la costituzione di strutture gerarchicamente composte o come riferimento a persona che svolge all’interno della comunità una funzione che non è di semplice seguace, ma di annunciatore o testimone privilegiato, dotato di una particolare autorità, che gli deriva dalla sua funzione e che lo distingue dal semplice discepolo.
[26] Cfr. Mc 2,6-7.2,16.18.24; 7,5-8; Lc 5,30.33; 15,2
[27] Cfr. Mt 2,13; 21,45; Gv 7,32.44; 11,57
[28] Cfr. Mc 3,6; Lc 13,31; Gv 8,58; 10,31.39
[29] Cfr. Mt 9,3.34;12,24; Mc 3,22; Gv 8,48; 9,16
[30] Cfr. Mt 12,14; Mc 8,11; 10,2; Lc 6,7; 11,53
[31] Cfr. Mt 12,38; 16,1; 19,3; 22,15.34-35; Mc 12,13; Lc 20,20; Gv 8,6
[32] Cfr. Mt 5,20; 16,6.12; Lc 7,30; 11,39-44; Gv 9,41
[33] Cfr. Mt 21,12-13; Mc 11,15-19; Lc 19,45-48; Gv 2,13-16
[34] Cfr. Mt 6,2.5.16; 23,5-7; Lc 20,46.47b
[35] Cfr. Mt 15,1-9; 23,16-19; Mc 7,9-13
[36] Cfr. Mt 16,20; 23,10; 26,63-64; 27,43; Mc 14,61-62; Lc 23,2; Gv 10,24-25
[37] Cfr. Lc 22,70; Gv 8,58; 10,33.36
[38] Cfr. Mt 5,17; Gv 6,32; 8,5-11
[39] Cfr. Mt 5,21-22.27-28.31-48
[40] Cfr. Mt 5,33; 7,28-29; 9,33; 22,33 Mc 1,22; Lc 4,32
[41] Cfr Angelico Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, Edizioni Messaggero, Padova 1997; Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, Edizioni Arnoldo Mondadori, Cles (TN) 1991
[42] Flavio Giuseppe in Guerra Giudaica, Libro I, §30,4, dipinge in modo significativo un tratto rilevante della personalità di Erode: “... era agitato dalla paura e s’infiammava ad ogni sospetto, e metteva alla tortura molti innocenti per tema che gli sfuggisse qualche colpevole”.
[43] Cfr Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, Libro I, § 21,1-13
[44] Il primo tempio fu costruito da Salomone (970-933 a.C.) e fu distrutto dal re Nabucodonosor nel 587 a.C. Venne ricostruito tra il 520-515 a.C. dopo il rientro dall’esilio di Babilonia (597-538 a.C.) e rimodernato, arricchito e ingrandito da Erode il Grande a partire dal 19 d.C. I lavori furono ultimati dal procuratore romano Albino nel 63 d.C. Sette anni dopo, nel 70, il Tempio venne nuovamente distrutto con la conquista di Gerusalemme da parte delle truppe di Tito, che pose fine alla guerra giudaica (66-70 d.C.).
[45] Le testimonianze letterarie sono state recentemente confortate dal ritrovamento di un'epigrafe nel 1961 a Cesarea Marittima, il più importante porto della Giudea dell'epoca. La scoperta fu fatta grazie ad una missione archeologica ad opera dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di Milano. L'iscrizione è su pietra calcarea, 82x65, e fu trovata nel teatro romano di Cesarea, databile tra il III-IV d.C., ed era stata utilizzata come gradino. Il testo dell'iscrizione, tratto dall'AE 1963,0104, è così leggibile: "[Munu]s Tiberieum [-c.3 Po]ntius Pilatus [Praef]ectus Iuda[ea]e [f]e[cit]"
[46] La Giudea con la Samaria e l'Idumea divennero nel 6 d.C. una provincia procuratoria, dipendente direttamente dall'imperatore, governata da un procuratore di dignità equestre e subordinato al legato di Augusto, che governava la provincia imperiale della Siria. Da un'epigrafe ritrovata a Cesare Marittima nel 1961, sappiamo che questi procuratori avevano il titolo di praefectus. Di seguito diamo i nomi dei procuratori della Giudea: 6-9 d.C.: Coponio; 12-15: Marco Ambivio e Annio Rufo; 15-26: Valerio Grato; 26-36: Ponzio Pilato; 36-41: Mrcello. - Fonte: Atlante storico della Bibbia e dell'Antico Oriente - E.R. Galbiati e A. Aletti. Editrice Massimo - Milano 1983 - pag.186
[47]Tra le fonti extrabibliche, l'episodio della condanna a morte di Gesù ad opera di Pilato viene citato dallo stesso Tacito: "Il loro nome (quello di cristiani) veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio, era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato" - Libro XV - Anni 62-65 - cap. XLIV, 3
[48] Cfr. Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, Libro II, § 169-174
[49] Cfr. Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, Libro II, § 175-177
[50] Cfr. Filone d'Alessandria, Legatio ad Gaium 299-305
[51] Cfr. Lc 13,1. La semplice citazione dell'episodio, senza altre spiegazioni, fa pensare che il fatto fosse ben noto ai suoi ascoltatori.
[52] Cfr. Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, Libro XVIII, § 85-89.
[53] Episodio citato: cfr. sopra nota 52, sotto voce Pilato. Per tutti gli evangelisti, poi, Pilato viene concordemente citato nel racconto della passione e morte di Gesù: Mt. 27; Mc 15; Lc 23; Gv 18-19.
[54] Cfr. Mt 27,19.23; Mc 15,14; Lc 23,4.14-15.22.
[55] Cfr. Mt 27,18; Mc 15,10.
[56] Cfr. Lc 23,20; Gv19,12.
[57] Cfr. Mt 27,20.24°.26; Mc 15,11.14-15; Lc 23,17.23-25; Gv 19,12-16.
[58] Cfr. Paolo De Benedetti, “Introduzione al Giudaismo”: pagg. 76-78. Editrice Morcellania – Brescia 2001
[59] Cfr. Mt 23,5b.23.25; Mc 7,3-4; Lc 11,42; 18,12
[60] L’episodio della purificazione del Tempio viene collocato durante le festività di Pasqua. Questo comportava un grande afflusso di persone in tutta la Palestina e in particolare a Gerusalemme. Decine di migliaia erano gli ebrei che confluivano a Gerusalemme da tutto l’Impero, per celebrare la Pasqua. Le festività erano sempre momenti a rischio di rivolte o sommosse contro l’invasore romano. Per questo motivo reparti della X Legio Fretensis, di stanza in Siria, da cui la provincia romana della Giudea dipendeva, venivano distaccati a Gerusalemme in rinforzo al normale servizio d’ordine. La presenza militare, quindi, era notevole. Confinante con le mura del Tempio e prospiciente sul cortile, poi, vi era la Torre Antonia, che ospitava una guarnigione militare romana. All’interno del cortile del Tempio, poi, vi era l’apposita guardia giudaica, che vigilava sul buon ordine e a disposizione dei Sommi Sacerdoti. Se Gesù avesse effettivamente rovesciato tutti i banchi dei cambiavalute e dei venditori di colombe e animali da sacrificio, avrebbe causato un gran parapiglia generale, provocando l’immediato intervento sia della guardia del Tempio che di reparti romani. Gesù sarebbe stato fatto passare per un sovversivo o, quanto meno, un pericoloso turbatore del regolare funzionamento del culto. Sarebbe stata l’occasione buona per arrestarlo con piena legittimità e nessuno avrebbe avuto a che dire. Si consideri, infine, che i cambiavalute come i venditori svolgevano un ruolo importante per il buon funzionamento del culto, per la fornitura del denaro idoneo per l’offerta al Tempio e di animali da sacrificio. Inoltre, questi venditori si collocavano sotto il porticato del Tempio, che aggirava l’intero cortile dei “Gentili”. Questo cortile, pur facendo parte del territorio del Tempio, non era considerato terra sacra, tant’è che vi potevano accedere anche i non ebrei. Non si capisce, quindi, perché Gesù si sarebbe dovuto scagliare contro questi venditori che, posti fuori dall’area sacra del Tempio, svolgevano, di fatto, un considerevole servizio al culto e fornivano anche delle cospicue entrate per il sostentamento dei sacerdoti e del Tempio stesso. Per questo insieme di motivazioni, riteniamo che l’episodio non abbia alcun fondamento storico, ma soltanto teologico.
[61] Cfr. Lc 7,36; 11,37; 13,31; 14,1; 20,39
[62] Cfr. Lc 11,39-52; 20,49
[63] Cfr. Mc 7,1-4; Lc 11,42; 18,11-12
[64] In proposito vedasi il comportamento libertario di Gesù nei confronti di questioni, che particolarmente stavano a cuore al pio ebreo, quali quella sul sabato, sul digiuno e sulla purità. Quanto al sabato cfr. Mt 12,22; Mc 2,24; Lc 6,2; Gv 9,16. Per la questione del digiuno cfr Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33. Per ciò che riguarda la purità cfr Mt 15,1-2.10-11; Mc 7,1-7; Lc 11,39-4.
[65] Cfr. Gal 2,2.4-5; At 15,1-2.5-6; Rm 15,31; At 21,17-24
[66] Cfr. Mc 7,1-4; Lc 18,11-12
[67] Cfr. Am 5,18.21-27; Is 10,11-20; Sof 1,14-2,3
[68] Cfr. Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33
[69] Cfr. Mt 12,22; Mc 2,24; Lc 6,2; Gv 9,16
[70] Cfr. Mt 15,1-2.10-11; Mc 7,1-7
[71] Cfr. Mt 9,11; Mc 2,16; Lc 5,30; 7,39; 15,2
[72] Cfr. Mt 13,57; 15,12; Mc 6,3
[73] Cfr. Mt 15,1-2; Mc 7,5; Lc 11,38
[74] Cfr. Mt 9,34; 12,24; Mc 3,22; Lc 11,15
[75] Cfr: Mt 12,38; Mc 8,11; Lc 11,16
[76] Cfr. Mt 16,1; 19,3; 22,15.34-35
[77] Mt 12,14; 21,45; Mc 3,6; Gv 7,32; 8,6
[78] Cfr. Mt 23,5-8; Lc 11,43
[79] Cfr. Mt 23,16-22; Lc 16,14; 20,47
[80] Anche Paolo nella sua Lettera ai Romani ricorda il comportamento contraddittorio degli ebrei, che andavano orgogliosi della Legge e si sentivano superiori agli altri popoli, ma il loro modo di vivere era in netta dissonanza con la Torah (Rm 2,17ss).
[81] Cfr. Mt 21,33-40; 23,29-36; Mc 12,1-12; Lc 20,9-19; 11, 47-51
[82] Cfr. Lc 7,36; 13,31; 14,1; 11,37; Gv 3,1-2
[83] Cfr. Mt 17,10; Mc 9,11; 12,35
[84] Cfr. Mt 16,21; 20,18; Mc 8,31; 10,33; 11,18; 14,1.43; Lc 9,22; 19,47; 20,19
[85] In proposito vedi la voce “Farisei”
[86] Cfr. Mc 12,38-40; Lc 20,45-47
[87] Cfr. Mt 12,38; Mc 11,27; Lc 20,1-2
[88] Cfr. Mt 9,3; 15,1; Mc 2,6-7.16; 3,22; 7,1-5; Lc 5,21.30; 15,2)
[89] Cfr. Lc 6,11; 11,53-54; 22,2
[90] Cfr. Mt 26,57; 27,41; Mc 14,53; 15,1.31; Lc 22,66; 23,10
[91] Da qui la loro qualificazione di Sadducei, cioè discendenti di Zadok.
[92] Il termine Sadducei è citato7 volte in Mt; 1 volta in Mc; 1 volta in Lc; 5 volte negli Atti
[93] Cfr. Henri Daniel-Rops, “La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù”, Ed. Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano 1986.
[94] Un accenno alla turnazione nel servizio sacerdotale al culto presso il Tempio lo abbiamo in Lc 1,8-9.
[95] Cfr. Henri Daniel-Rops, “La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù”, Ed. Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano 1986.
[96] Cfr. Gv 1,19; 18,19; At 4,1-7
[97] Cfr. Mt 26,3-4; 27,1; Mc 14,1; Lc 22,1-2; At 7,17-18.21.27; 9,1-2.14
[98] Cfr. Mt 16,21; 20,18; Mc 8,31; 10,33; 11,18; Lc 9,22
[99] Cfr. Mt 15,12; 21,15-16; 26,65; Mc 14,63
[100] Cfr. Mt 21,23; Mc 11,27-28; Lc 20,1-2
[101] Cfr. Mt 21,45-46; 26,3-4.47.59; 27,1; Mc 14,1; Lc 20,19; 22,2; Gv 11,49-50
[102] Cfr. Mt 26,14-16; Mc 14,10-11; Lc 22,4
[103] Cfr. Mt 26,47; Mc 14,43; Lc 19,20
[104] Cfr. Mt 26,57; Mc 14,53.55; Lc 22,66
[105] Cfr. Mt 26,65; 27,12; Mc 14,63-64; 15,3
[106] Cfr. Mt 26,62-63; Mc 14,60-61; Lc 22,67
[107] Cfr. Mt 26,3-5; Mc 14,10; Lc 22,1-6
[108] Cfr. Mt 27,20; Mc 15,11; Gv 19,6.15
[109] Cfr. Mt 12,40; 16,21; 17,23; 20,18-19
[110] Cfr. Mt 7,29; Mc 1,22; Lc 4,32; Gv 12,11
[111] V. sopra alla voce "I gruppi del potere politico-religioso"
[112] V. sopra alla voce "I gruppi del potere politico-religioso"
[113] Cfr. Mt 16,21; 26,3; 26,47.57; 27,1.12.20-26; Mc 8,31; 14,43.53; 15,1; Lc 9,22; 22,53.66
[114] Cfr. Mt 27,2.62-66; Mc 15,1; Lc 23,1; Gv 18,28-31; At 24,1
[115] Cfr. Mt 27,20-23; Mc 15,1; Lc 23,1-5.13-18; Gv 18,38b-40; 19,5-7.12-13
[116] Cfr. Mt 26,3-5.57; 27,1-2; Mc 14,53; 15,1; Lc 22,1-6.66; Gv 11,45-50.53.57; 12,10; At 22,5
[117] Cfr. Mt 27,20; Mc 15,11; At 6,12
[118] Cfr. Mt 21,23; Mc 11,27-28; Lc 20,1-2
[119] Di seguito riporto i miracoli che si riscontrano nel racconto matteano: guarigione di un lebbroso: 8,2-4; il servo del centurione: 8,5-13; la suocera di Pietro: 8,14-15; la tempesta sedata: 8,24-26; guarigione dei due indemoniati: 8,28-34; guarigione del paralitico: 9,2-8; risuscitazione della figlia di un capo e guarigione dell'emoroissa: 9,18-26; guarigione di due ciechi: 9,27-31; guarigione di un indemoniato: 9,32-34; l'uomo dalla mano inaridita: 12,9-14; l'indemoniato cieco e muto: 12,22-28; moltiplicazione dei pani e dei pesci: 14,15-21; Gesù cammina sulle acque: 14,24-33; la figlia indemoniata della Cananea: 15,22-28; Seconda moltiplicazione dei pani e pesci: 15,32-28; la trasfigurazione: 17,1-8; il figlio epilettico: 17,14-18; guarigione dei due ciechi: 20,29-34.
[120] Cfr la voce "Male/dolore", § VII in Nuovo dizionario di teologia biblica - Ed. Paoline ,- Cinisello Balsamo - 1988
[121] Cfr. Mt 15,14; 23,16-17.19.24.26
[122] Circa la simbologia della cecità e del mutismo A. Poppi afferma che "la cecità e la mutolezza degli infermi sono un simbolo dell'accecamento e dell'indurimento dei capi dei giudei, che si oppongono alla missione di Gesù, escludendosi dal popolo messianico" – Cfr. “I quattro vangeli, commento sinottico”, pag. 136 - Edizioni Messaggero Padova 1997)
[123] Cfr. in proposito Mt 13,15 in cui Gesù riprendendo liberamente Is 6,9-10, fa sue le parole del profeta.
[124] Cfr. in proposito la parabola del seminatore in Mt 13,3-8, con la quale Gesù denuncia come la sua azione salvifica, operata dalla sua parola, è spesso vanificata dalle varie situazioni e condizioni esistenziali in cui il suo ascoltatore viene a trovarsi. Ma anche nella parabola della zizzania (13,24-30) Gesù lamenta come il buon grano da lui seminato sia sistematicamente contrastato dal suo nemico, su cui, alla fine dei giochi, peserà un giudizio di condanna, che metterà tutte le cose a posto
[125] Cfr. Mt 8,2; 9,27; 15,22; 17,15; 20,30
[126] Cfr. Mt 8,10; 9,2; 9,22; 9,29; 15,28
[127] Cfr. Mt 9,8; 9,26; 9,31; 9,33; 12,23; 20,34
[128] Cfr la voce "Miracolo", punto 3 "I miracoli e la risurrezione" in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica - Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1988
[129] Circa dell'originaria dignità dell'uomo cfr Sal 8, che, riprendendo e parafrasando i primi tre capitoli della Genesi, afferma al v.6 :"Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e onore l'hai coronato". L'uomo, dunque, di poco inferiore agli angeli, in quanto non puro spirito (Gen 2,7) e appartenente, pertanto, ad una diversa dimensione, è stato incoronato di gloria e di onore, cioè è stato rivestito della stessa dignità di Dio e reso partecipe della sua stessa vita divina (Gen 1,26). Per questo, prosegue il salmista al v.7: "gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi". Tutto ciò è stato perduto con la colpa originaria, ma tutto è stato ricostituito, ex novo, con la risurrezione.
[130] Proprio perché l'anonimato non presenta alcun volto definito, esso costituisce l'emblema dei credenti di ogni tempo, di quelli, cioè, che pur seguendo Gesù, non impegnano la loro vita in modo esclusivo e radicale nella missione del loro maestro, ma ne seguono, comunque, gli insegnamenti. Esse sono la figura del buon discepolato.
[131] È questa la folla che incontriamo dal cap. 4 al 23
[132] Cfr. Gen 12,1-3.7a; 15,1-6; 17,1-8; 2Sam 7,8-17
[133] Luca esprimerà tale conflittualità con le parole profetiche di Simeone: "egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E a te una spada trafiggerà l'anima" Lc 2,34-35
[134] Questo concetto di confluenza dell’A.T. nel N.T. viene meglio espresso in Gv 1,29 in cui il Battista indicherà Gesù come l’agnello venuto a togliere il peccato del mondo, invitando i suoi discepoli a seguire Gesù (Gv 1,36-37). Un’immagine questa che evoca il servo sofferente di Jhwh in Is 52,13 –53,12, nonché l’agnello pasquale di Es 12,1-28. Tale confluenza dell’A.T. nel N.T. appare evidente, poi, in tutto il vangelo di Matteo, disseminato di numerose citazioni veterotestamentarie, poste a commento dell’operare di Gesù e della sua figura, in cui Matteo vede il compiersi di ogni profezia. Gesù, quindi, è il punto di convergenza dell’intero A.T. di cui è il compimento (Mt 5,17).
[135] Tutte tre le tentazione pongono l’accento sulla divinità di Gesù (“Se sei Figlio di Dio...”), che viene spinto a farla prevalere sulla sua misera condizione umana, di cui è rivestito. In proposito si legga lo stupendo e illuminante inno cristologico di Fil 2,6-11.
[136] Il verbo khrÚssein (annunciare, proclamare) è un verbo tecnico per designare l’azione propria del banditore, chiamato a proclamare pubblicamente un messaggio che non gli appartiene e che rende presente in mezzo al popolo la volontà del re. Esso, dunque, invita sempre a superare la contingenza storica dell’annuncio, per cogliere la novità che si incarna in esso.
[137] Termine ebraico per indicare una cosa o un qualcosa di concreto, un’azione che si compie. Esso era usato per indicare la Parola di Dio, ne era una sua principale peculiarità.
[138] Si legga in proposito la solenne apertura della creazione, offertaci da Gen 1,3: “Disse Dio:<<Sia luce!>>. E luce fu”. Il “disse” di Dio è la sua stessa Parola, che qui ci viene presentata nella sua duplice funzione di Parola rivelatrice, che mentre rivela anche attua ciò che ha rivelato. questo concetto di rivelazione-attuazione viene espresso anche nella stessa struttura letteraria. È significativo, infatti, che tra il “Sia luce!” e “luce fu” non vi sia l’interposizione di altre parole, ma il fatto segue immediatamente la parola, quasi a significare che per Dio tra il dire e il fare non c’è mai di mezzo il mare, poiché il dire di Dio è il suo stesso fare. Si pone, quindi, una identificazione tra le due azioni divine. Anche Giovanni, in apertura del suo vangelo, contempla e riconosce la Parola come la stessa forza creatrice di Dio (Gv 1,1-3). Da qui si evince come anche in Gesù l’annuncio si intrecci con l’azione, poiché Gesù è il Dabar stesso del Padre, cioè la sua Parola-Azione inviata nel mondo e in mezzo agli uomini per compiere, come in principio, una nuova creazione.
[139] Si veda in proposito il verbo “doveva” usato da Mt in 16,21 per significare che il patire e il soffrire di Gesù non era opzionale, ma rispondeva ad un preciso piano divino di salvezza. Inoltre, per ben tre volte l’annuncio della risurrezione è sempre preceduto da quello della passione e morte (16,21; 17,22-23; 20,18-19).
[140] Per una maggiore comprensione della figura del Battista, vedasi il capitolo “Gli attori nominati” alla voce “Giovanni Battista”
[141] Oltre al cap.3, il personaggio del Battista è ripreso da Matteo in 4,12; 9,14; 11,2-14; 14,2-12; 17,10-13; 21,23-26;
[142] Tutte le citazioni, poste all'interno del testo degli Atti 10,37-43, fanno riferimento ai corrispondenti contenuti dei capp. 1-4 e 26-28 del vangelo di Matteo.
[143] Il testo di 4,17-25 è stato da me tradotto direttamente dal testo originale greco, tratto dalla XXVII edizione Nestle-Aland, Nuovo Testamento Greco-Italiano, Società Britanni e Foresteria – Roma 1996
[144] Su 1070 versetti, di cui il vangelo di Matteo è composto, i discorsi costituiscono la parte quantitativamente più consistente: ben 332 vv. pari al 31,03% dell’intero racconto matteano.
[145] Un’eccezione al binomio annuncio-opere o parola-azione si trova in Mt 8,28-34, in cui Gesù guarisce due indemoniati a Gadara, città situata nel territorio ellenizzato della Decapoli. In questa occasione non sembra che Gesù abbia fatto nessun annuncio, ma solo una liberazione di uomini dal potere demoniaco. Mancando, però, l’annuncio, il solo miracolo non può produrre sequela, ma solo timore verso una forza oscura, per cui Gesù è rifiutato da quei pagani.
[146] In proposito cfr 5,1-2; 13,1-2; 23,2-3; 24,3-4; 26,55b, in cui il verbo “sedere” è strettamente legato all’insegnamento o, come in 19,28; 20,23; 26.64; 27,19; 28,2 è associato al giudizio o al potere.
[147] Traduzione: “Da allora Gesù incominciò ad annunciare”
[148] Traduzione: “Lo seguirono molte folle dalla Giudea e dalla Decapoli, da Gerusalemme e dalla Giudea e dalla regione del Giordano”
[149] Cfr Mt 16,18 e 18,17
[150] Matteo nel suo vangelo riporta 43 citazioni veterotestamentarie dirette.
[151] Circa il digiuno la Legge lo prescriveva una volta all’anno (Lv 16,29ss; 23,27ss; Nm 29,7) nel giorno dell’Espiazione o dello Yom ha Kippurim, che cade il 10 di Tishri (tra settembre e ottobre). Col tempo la pratica del digiuno, in modo particolare quello collettivo, andò ampliandosi in occasione delle commemorazioni di sventure nazionali. Privatamente il pio ebreo praticava il digiuno due volte la settimana. In tal modo il digiuno divenne una pratica meritoria di cui ci si vantava volentieri (Mt 6,16-18; Lc 18,12), poiché qualificava chi si sottoponeva ad essa liberamente. Gesù cercherà di imprimere un nuovo significato al digiuno riportandolo ad un più sincero rapporto tra credente e Dio. Cfr la voce “Digiuno” in Nuovo Dizionario Enciclopedico ... op. cit.
[152] Cfr Gv 1,46
[153] Anche Giovanni nel suo vangelo conclude l’attività pubblica di Gesù con una amara e triste considerazione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37); mentre Matteo, presentandoci il gruppo dei discepoli raccolti attorno a Gesù che stava per ascendere al cielo, constata che “ ... alcuni però dubitavano” (Mt 28,17b).
[154] Cfr. 2Sam 7,8-17
[155] In tal senso cfr la parabola del Buon Samaritano, metafora dell’azione di Dio in Gesù a favore dell’uomo (Lc 10,30-35). In merito confronta il mio commento a questa parabola sul mio sito www.webalice.it/lonardi48
[156] Cfr. Mt 8,27; 11,23; 13,54-56 e 26,63
[157] Cfr. Mt 1,1.16-18; 11,2; 23,10; 26,68; 27,17.22.
[158] Cfr Mt 3,17 , 8,29 o 17,5b
[159] Cfr Mt 14,33 e 27,54
[160] Per una migliore comprensione del credere o non credere, si veda Gv 3,16-21.
[161] Non a caso tre dei cinque grandi discorsi, di cui è composto il vangelo di Matteo, si trovano in questa prima parte, dedicata all’annuncio.
[162] Traduzione: “Da allora Gesù incominciò ...”
[163] Cfr Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19
[164] Cfr Rm 6,6; Ef 4,22.
[165] Gesù è riconosciuto come re (Mt 21,5); figlio di Davide (Mt 21,9.15); profeta (Mt 21,11); Cristo e Figlio di Dio (Mt 26,63); Cristo (Mt 27,22); re dei Giudei (Mt 27,29.37); Figlio di Dio (Mt 27,43.54).
[166] Il sette nella cultura ebraica indica la pienezza e la perfezione. Pertanto i sette “Guai” pronunciati da Gesù nel cap. 23 acquisiscono il significato di una radicale e totale condanna del giudaismo nel suo esprimersi religioso, ridotto sostanzialmente ad una legalistica ortoprassi.