IL VANGELO SECONDO LUCA
Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi
IL VANGELO SECONDO LUCA
Questioni Introduttive
Marco, l'inventore del genere letterario vangelo, redige
il suo racconto come una sorta di cammino catecumenale alla scoperta
della natura di Gesù. Un vangelo che ha il suo doppio vertice in
8,29b e 15,39, dove Gesù è compreso da Pietro come il Cristo e dal
centurione come vero Figlio di Dio. Viene in tal modo dichiarata
l'universalità del messaggio di salvezza, rivolto sia ad ebrei che
pagani. Ma fin dall'inizio del suo racconto l'autore precisa come
Gesù sia il Cristo e il Figlio di Dio (1,1), anticipando, fin da
subito, gli obiettivi della sua opera. Un vangelo, da un punto
letterario, grezzo, in cui le unità narrative, benché esposte con
vivacità, sono giustapposte e legate assieme in modo grossolano,
così che, anche per la sua brevità e lo scarso ordine espositivo
interno, venne frainteso dallo stesso Agostino, che definì Marco un
valletto di Matteo e il suo racconto una sorta di compendio di quello
matteano: “Marco imitò Matteo quasi da sembrare un valletto
e un suo sunteggiatore”1.
Ben diversa sorte toccò, invece, a quello di Matteo,
che godette, fin dai primi tempi della chiesa, di grande favore e
diffusione sia per l'organicità e la complessità espositiva che per
il suo approfondimento teologico e dottrinale, esposto quasi in modo
sistematico. Esso si presenta come una sorta di ricca sintesi, molto
elaborata ed elegante, di due grandi blocchi letterari: una raccolta
di numerosi detti di Gesù in cinque grandi discorsi, tardivamente
integrati e inframezzati da un'ampia parte narrativa2.
Quanto
a Giovanni, che potremmo definire come il cantore della gloria del
Verbo Incarnato, egli stesso ci fornisce le coordinate per la
comprensione della sua opera in 1,1-2.14: “In principio era la
Parola e la Parola era presso Dio, e Dio era la Parola. Questa era in
principio presso Dio […] E la Parola divenne carne e si attendò
tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito da
Padre, piena di grazia e di verità”. Il vangelo giovanneo,
pertanto, è una contemplazione della gloria del Verbo, dapprima nel
suo splendore metastorico e nel suo intimo rapporto con il Padre
(1,1-2), poi nel suo dispiegarsi storico (1,14). Si tratta, dunque,
di una contemplazione, di una meditazione, la quale cosa spiega i
ritmi lenti, riflessivi e apparentemente ripetitivi in quel graduale
evolversi del suo pensiero a spirale, che caratterizza il suo modo di
narrare e che raggiunge delle profondità di comprensione del mondo
divino e
delle sue dinamiche più intime ineguagliabili in tutta la storia
della spiritualità. Quanto agli aspetti letterari, e soltanto al
loro riguardo, il vangelo giovanneo, a motivo della lunga gestazione
prima della redazione finale e delle numerose mani che l'hanno
elaborato, presenta numerose falle e non poche incongruenze3.
In questo contesto storico-letterario4 in cui si va formando la prima e fondamentale letteratura neotestamentaria, si colloca anche il vangelo di Luca, conosciuto nella chiesa antica per il suo stile elegante, per la fluidità narrativa mai increspata da pesanti interventi redazionali. È difficile in Luca distinguere le diverse unità narrative, che vengono concatenate l'una all'altra in modo abile e tale da inserirsi con naturalezza nelle logiche e nelle dinamiche della narrazione, così che sembrano uno spontaneo susseguirsi di un unico racconto, che si sviluppa gradualmente, come un fiume, le cui acque scorrono calme nel suo alveo, togliendo dalla loro morbida superficie ogni increspatura e infondendo nel viandante un senso di tranquillità e di pace profonda. In Luca non troveremo mai immagini cruente ed offensive della sensibilità del lettore ellenista, ma tutto nel suo racconto diventa naturalmente piacevole e accattivante e tale da coinvolgere il lettore nel suo raccontare, aprendolo ad una visione irenica delle cose. C'è in Luca il gusto del bello, della perfezione; tutto è misurato e tutte le proporzioni sono rispettate. Si potrebbe dire che c'è una visione ottimistica della vita e dello svolgersi delle cose. Ma in realtà non si tratta di ottimismo, ma di arte del narrare, che rispecchia i canoni dell'arte greca, che risuonano e si riproducono in quella ellenistica: rispetto delle proporzioni, armonia della composizione, essenzialità e scioltezza nel narrare, che aprono alla bellezza del fare e del dire. Un'arte che potremmo definire classica, ispirata ai valori universali, non più legati alla contingenza. Ciò che ne esce non è un'opera realistica, marcata dai duri e talvolta brutali tratti della concretezza quotidiana, ma è idealizzata, di una idealità quasi plastica e diafana, che lascia trasparire e gustare il suo contenuto senza traumi per il fine palato del lettore greco ed ellenista, a cui le opere lucane sono rivolte.
Benché il suo vangelo si muova sulla falsariga di quello di Marco, tuttavia non si tratta di una semplice e passiva trasposizione del testo marciano, ma sotto la penna di Luca il testo viene trasformato, addolcito, integrato, abbellito e armonizzato con materiale che gli è proprio. Una sorta di necessario lifting perché potesse essere proposto all'attenzione dei suoi lettori greci ed ellenisti, sensibili al bello, all'armonia, al piacere dell'ascoltare una narrazione priva di spigoli.
Un vangelo privilegiato anche dalla stessa vita liturgica della Chiesa, dal quale mutua per la liturgia delle ore i tre inni: Benedictus (1,68-79), Magnificat (1,46-55) e Nunc dimittis (2,29-32); mentre l'anno liturgico è disseminato da episodi tratti da Luca come la natività del Battista, l'annunciazione, la presentazione di Gesù al tempio, il ciclo del Natale, l'Ascensione, la Pentecoste; nondimeno, la pietà cristiana attinge per intero da Luca i misteri gaudiosi del S.Rosario.
Un'opera quella di Luca unica nel suo genere, perché ha saputo esprimere al meglio lo sviluppo della storia della salvezza, che, iniziata con l'entrata di Dio nella storia, nella persona di Gesù (racconti della nascita), Parola ed Azione del Padre (racconto evangelico), prosegue ora nell'opera della Chiesa (Atti degli Apostoli). Vangelo ed Atti degli Apostoli, infatti, costituiscono un corpus unicum, in cui le opere e le parole di Gesù proseguono naturalmente e saldamente in quelle della Chiesa, colta non soltanto come la naturale erede della missione di Gesù (Lc 24,46-49; At 1,8), ma anche come la sua nuova incarnazione, avvenuta in lei per opera dello Spirito Santo (Pentecoste), così come per opera dello Spirito santo la Vergine Maria ha concepito e generato nella storia la Parola e l'Azione stessa di Dio. Non è un caso, infatti, se nel momento della Pentecoste, i discepoli siano tutti radunati nel cenacolo e tra questi c'è anche Maria (At 1,13-14; 2,1), quasi a ricordare che qui, come là, sta avvenendo lo stesso concepimento per opera dello stesso Spirito Santo. Un'immagine questa che anche Giovanni nella sua Apocalisse non dimenticherà di rilevare: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. […] Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono” (Ap 12,1-2.5). Benché la chiesa nella sua liturgia ami applicare a Maria questa immagine, tuttavia, nelle intenzioni dell'autore questa Donna, rivestita della luce di Dio e della potenza del suo Spirito, che si muove all'interno dello scorrere del tempo (luna sotto i piedi), coronata da dodici stelle (i 12 apostoli), gravida della Parola, chiamata a generare agli uomini il Cristo, sia pur nella sofferenza e nel dolore della persecuzione, tale Donna è il simbolo della Chiesa stessa. Del resto, mentre Giovanni scrive la sua Apocalisse, intorno all'anno 96 d.C., il culto a Maria non era ancora nato e, quindi, l'autore non poteva dedicarle l'intero cap.12.
In questa nostra introduzione ci soffermeremo su alcune
questioni circa il vangelo lucano e in particolare:
il contesto storico in cui si è formato il vangelo di Luca;
i riflessi dell'ellenismo in Luca;
l'autore;
la data e il luogo della composizione;
la comunità lucana;
la struttura del vangelo;
la visione lucana della storia della salvezza;
le particolarità del vangelo lucano
Il contesto storico in cui si è formato il vangelo di Luca
Ogni opera artistica, nel senso più ampio del termine, risente del contesto storico in cui viene prodotta, anzi essa ne diviene l'espressione caratterizzante, che consente agli storici e ai critici di riconoscerla e di classificarla. Non fa eccezione l'intera letteratura sia vetero che neotestamentaria e, in quest'ultima, l'opera lucana, Vangelo ed Atti degli Apostoli. Si rende pertanto necessario, per una sua più approfondita comprensione, tratteggiare il contesto storico-culturale, al cui interno tale opera si colloca.
Numerose furono le guerre che videro per quasi un secolo protagonista Atene, dapprima contro la Persia (499-479 a.C.), poi contro la Lega del Peloponneso, guidata da Sparta (431-404 a.C.), successivamente con la guerra corinzia, in funzione antispartana (395-387 a.C.). Altri conflitti ancora seguirono, poi, tra Sparta e Tebe fino alla sconfitta definitiva di Sparta nel 371 a.C. e la conseguente egemonia di Tebe, unica vera potenza in Grecia. L'intera area della Grecia fu per oltre un secolo continuamente devastata da interminabili guerre che vedevano le varie città stato opporsi l'una all'altra per una propria egemonia nell'area. Questa insostenibile situazione, che dissanguava l'intera regione e ne distruggeva ogni risorsa economica, portò alla rivolta dei cittadini che invocarono l'intervento di un uomo forte, estraneo alle rivalità delle città stato e che sapesse imporsi su tutti. Fu questa la figura di Filippo II il macedone, che regnò tra il 359-336 a.C., lasciando poi l'eredità a suo figlio Alessandro Magno (336-323 a.C.), che si dedicò ad un espansionismo che non ebbe pari nella storia (333-323 a.C.) e il cui progetto era quello di creare un regno universale, coeso dalla cultura greca. Esso si spinse fino al fiume Indo, con l'intento di conquistare l'India, ma una febbre malarica lo costrinse a ripiegare a Babilonia e qui, nel giugno del 323 a.C., morì mettendo fine al suo sogno.
L'eredità di questo grande impero generò una lotta tra i suoi generali, i Diadochi, cioè i successori, che durò quasi un cinquantennio (322-275 a.C.). Dopo numerosi scontri la situazione si stabilizzò: ai Tolomei toccò l'Egitto, con capitale Alessandria; ai Seleucidi la Siria, la Mesopotamia e le province orientali nonché parte dell'Asia minore, con capitale Antiochia; agli Antigoni la Macedonia, comprensiva della Grecia continentale; mentre agli Attalidi toccò la parte interna dell'Asia minore, con capitale Pergamo. Questi gli eventi storici che portarono a quel fenomeno che J.G. Droysen (1808-1884) definì come ellenismo, stabilendone i limiti storici: dal 334 (a.C.), inizio delle grandi conquiste di Alessandro Magno, fino alla caduta dell'ultimo regno ellenistico, quello tolemaico in Egitto (30 a.C.) ad opera di Roma. Tuttavia se si considerano gli effetti culturali, il fenomeno dell'ellenismo si estese fino al 527 d.C., anno in cui l'ultima scuola neoplatonica in Atene venne chiusa per decreto dall'imperatore Giustiniano.
Le grandi conquiste di Alessandro Magno, consolidate successivamente dai suoi successori, comportò la diffusione della lingua, della cultura e dei costumi greci presso tutti i popoli conquistati. Una testimonianza in tal senso ci viene dai due Libri dei Maccabei, che narrano la rivolta ebraica contro il tentativo di grecizzazione dei costumi ebraici. La lingua parlata fu la koiné, cioè la lingua comune, imposta da Alessandro Magno, che scelse quale lingua ufficiale l'attico, parlato in particolar modo ad Atene, capitale culturale della Grecia. La koiné fu dunque la lingua universalmente parlata dal 300 a.C. al 550 d.C. Una lingua che non solo unificò i popoli, ma favorì tra loro il commercio e gli scambi culturali, creando in un certo qual modo un unico grande contenitore umano sostanzialmente uniformato sia nel pensiero che nel modo di vivere, favorito anche dalle grandi correnti filosofiche del tempo: lo stoicismo, l'epicureismo, il cinismo e lo scetticismo. La koiné fu giocoforza anche la lingua della nascente letteratura neotestamentaria e, successivamente, della chiesa fino all'anno 380 d.C., anno in cui papa Damaso I (366-384 d.C.) incominciò, a partire dalla liturgia, ad introdurre il latino quale lingua ufficiale della chiesa occidentale, affidando la traduzione della Bibbia, quella dei LXX, al suo segretario, S. Girolamo (347-420 d.C.). Da qui nacque la Vulgata latina. Ma già, intorno al 250 a.C., si senti la necessità di tradurre la Torah, scritta in una lingua che ormai più nessuno comprendeva, l'ebraico, nel greco della koiné. Nacque così la LXX5.
È questo il periodo conosciuto come ellenismo, caratterizzato da due elementi apparentemente contrastanti: il cosmopolitismo e l'individualismo. Quanto al primo, lo spirito cosmopolita fu impresso dall'unificazione di un immenso impero e dei suoi popoli sotto l'egida della stessa lingua e della stessa cultura. L'ellenismo pertanto fece cadere le barriere linguistiche e culturali che dividevano la Grecia dagli altri popoli, definiti barbari6. Quanto all'individualismo, questo segnava una svolta culturale e politica, in cui il cittadino, un tempo pubblico protagonista politico nella polis, esempio di democrazia ideale, in cui stato e cittadino erano in stretta collaborazione finalizzata al bene comune, divenne, sotto Filippo II, successivamente sotto il figlio Alessandro e le diverse monarchie locali, soltanto un suddito, relegato alla sua vita privata.
Al centro dell'ellenismo è posto l'uomo, colto non più come cittadino o entità politica e sociale, ma come individuo, ormai divenuto suddito, appartenente ad un coacervo di popoli. In altri termini, un individuo cosmopolita. Cessano, infatti, le poleis, le città-stato, quali entità di perfetta democrazia, in cui il cittadino era un soggetto politico e sociale attivo e determinante; esse vengono sostituite dalle grandi monarchie, dove predominante e centrale è la figura del sovrano divinizzato, della sua corte e dell'intero apparato burocratico e amministrativo. Certo, le poleis continueranno ad esserci e altre ne verranno fondate, ma non più come autonomi centri di democrazia, ma come luoghi di abitazione, di amministrazione e di controllo, di inculturazione e diffusione della grecità. Non sono più città-stato, ma grandi spazi aperti, espressione della potenza del sovrano. Fu quello dell'ellenismo un periodo di crescita economica, dell'artigianato, del commercio e dell'agricoltura, accompagnata da una crescita demografica e di un diffuso benessere sociale, benché all'interno della società andasse sempre più allargandosi il solco tra ricchi, borghesia benestante e poveri.
Contrariamente a quanto si può pensare l'ellenismo, ossia la grecizzazione dei popoli sia del mondo occidentale che orientale, non fu un periodo di decadimento, ma di crescita e di arricchimento culturale e spirituale, favorito dall'incontro della cultura greca con quelle dei diversi popoli conquistati. Non fu, quindi, un passivo assorbimento della grecità, ma una inculturazione di questa nei singoli popoli, che l'adottarono rielaborandola a modo proprio.
La filosofia, che trova in questo periodo una grande espansione e si esprime nelle grandi correnti di pensiero come lo stoicismo, l'epicureismo, lo scetticismo e il cinismo, non era soltanto uno strumento speculativo, ma formativo, pedagogico. Alla filosofia, in questa epoca di grandi trasformazioni sociali e culturali, in cui il cittadino è ridotto al rango di suddito ed assume la nuova configurazione di individuo cosmopolita, si chiedono risposte concrete sul modo di vivere, di vedere e di comprendere le cose e la vita. Si impone la ricerca della felicità, come modo di vivere e come trarla dalla propria condizione sociale.
L'attenzione verso l'uomo in tutte le sue espressioni apre a nuove prospettive di vita, ad un nuovo modo di percepirsi e di relazionarsi con gli altri, inaugurando una nuova sensibilità di tipo umanistico, intesa come un sistema di valori che lo pone al centro della riflessione e come individuo capace di autorealizzarsi ed essere il protagonista di se stesso. Protagora, esprimerà questo nuovo antropocentrismo affermando che l'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono. Stranamente, da tutto ciò non nasce un senso di onnipotenza, ma di una nuova presa di coscienza della propria fragilità: la sofferenza dei propri limiti, il dolore, il decadimento della vita, la morte quale comune destino, fa toccare all'uomo tutta la sua debolezza e la sua inconsistenza. L'uomo dovrà incominciare a convivere e ad interagire con questa sua nuova autocoscienza, che lo porta a relazionarsi con i suoi simili come compagni di un comune viaggio verso un comune triste destino: la morte, di cui la sofferenza, il dolore e il senso profondo del proprio limite sono espressione. Questa comune condizione esistenziale, di cui ogni uomo suo malgrado fa parte, spinge a superare gli stessi limiti sociali: ricchi e poveri, potenti e schiavi sono tutti posti alla stessa stregua. Tutti devono fare i conti con la loro triste condizione umana, che ha come epilogo la morte. Da qui si origina un senso di pietà e di compassione verso il prossimo. Un senso di fragilità e limitatezza che è rafforzato anche dal raffronto dell'uomo con la divinità, verso cui sente di doverle rispetto, per l'enorme scarto che lo separa da essa. Il peccato più grave, quindi, è quello della hybris, cioè la tracotanza verso gli dei, che si traduce nel voler sfidare i limiti stessi imposti dalla natura. Vivere secondo natura, pertanto, esprime il massimo della saggezza e della pietà, perché conformandosi alle leggi della natura ci si conforma alla stessa volontà divina, che queste leggi ha inscritto in tutte le cose e nell'uomo stesso.
Questo nuovo modo di sentire l'uomo viene illustrato e raccontato dal commediografo greco Menandro (circa 342-291 a.C.), i cui protagonisti non sono degli eroi, sconvolti dalle passioni, ma gente comune che ama il passare la propria vita nel nascondimento, nella serenità e nella tranquillità, coltivando la filantropia, cioè l'amicizia e l'amore verso il proprio prossimo e l'umanità in genere. Menandro porta sulla scena l'uomo del quotidiano, l'uomo comune, mettendone in rilievo, attraverso un fine studio psicologico, l'individualità, dandogli in tal modo una dimensione di universalità. La sua comicità non è mai sguaiata o aggressiva, ma molto moderata e mai offensiva. Le situazioni non finiscono mai in tragedia, ma hanno sempre un lieto fine e sono sempre avvolte da un contesto di serenità. Per quanto ingarbugliate possano queste presentarsi, tutto alla fine, quasi per un gioco sottile ed inaspettato del Destino, si aggiusta. La Tyche, gioca nelle commedie di Menandro un ruolo importante, fondamentale, poiché il Caso, altro nome della Tyche, altro non è che una importante componente del vivere umano, che talvolta si prende gioco dell'uomo, che cerca di imbrigliare la propria vita, per poi scoprire come eventi inattesi e impensabili sconvolgono tutti i suoi piani. La vita, quindi, non è nelle mani dell'uomo, per quanto questi si impegni a possederla. Le sue commedie evidenziano lo spirito di fratellanza e di amicizia fra gli uomini e sollecita il senso della compassione verso di loro. Un mondo umano quello di Menandro in cui a tutti è assegnata una pari dignità e uguali diritti. Il pensiero di Menandro, che visse il passaggio tra la polis e l'individualismo cosmopolita dell'ellenismo, sapendolo bene interpretare nelle sue commedie, influenzò non solo il teatro successivo, ma anche la stessa riflessione morale.
I riflessi dell'ellenismo in Luca
Si è visto sopra come i tratti salienti dell'ellenismo sono l'individualismo, che pone al centro dell'attenzione e della riflessione l'uomo, colto nel suo esprimersi quotidiano; un uomo, quindi, non dalle grandi passioni, l'eroe contro tutti e che su tutti s'impone, ma l'uomo della quotidianità nascosta, umile, che cerca la sua serenità, la sua tranquillità e la sua gioia nel vivere di tutti i giorni. Un uomo che conduce la sua vita senza agitazioni e scontri, sia pur nella sofferenza e nella difficoltà, che non sono mai drammatiche e tali da sconvolgergli la vita; un uomo che nonostante tutto sa guardare avanti con pacatezza e che trova nell'oggi il motivo di speranza per il suo domani. Tuttavia non si tratta di un uomo chiuso in se stesso o ripiegato su se stesso, ma aperto agli altri. Gli altri, per l'ellenismo, sono tutti quelli che si pongono al di là di se stessi e con cui l'individuo è chiamato a relazionarsi indistintamente, trovando negli altri riflessi di se stesso. Tutti, infatti, alla pari dell'individuo, sono accomunati da un unico destino di sofferenza, di gioia, di dolore, di speranza e, infine, di morte. Pur nel suo individualismo, quindi, l'uomo ellenista è caratterizzato anche da un universalismo cosmopolita, che lo apre a 360 gradi verso all'altro da sé, facendogli superare le barriere linguistiche, culturali e religiose, perché negli altri egli in qualche modo ritrova se stesso ed è mosso verso di loro, per il comune destino che li associa, da un sentimento di pietà, di compassione, che lo spinge a guardare con interesse l'altro. L'ellenismo presenta, pertanto, il suo uomo come un individuo cosmopolita in cui le differenze sociali sono pressoché annullate proprio dalla coscienza che tutti, ricchi e poveri, padroni e schiavi, sono tutti uomini e tutti chiamati a vivere la comune sorte imposta dalla stessa natura umana.
È questo il mondo dell'ellenismo, così ben espresso e significato dal commediografo Menandro; ed è questo il mondo di Luca. Un mondo che si muove su due grandi dimensioni: quella universale, in cui egli inserisce l'inizio della sua storia, dando in tal modo al suo racconto e ai suoi due personaggi principali, il Battista e Gesù, un respiro universale (1,5; 2,1-2; 3,-12); e quella individuale, fatta da persone umili e anonime, che vivono nascostamente, ma tutte avvolte da serenità e gioia anche nei turbamenti e nella sofferenza del loro quotidiano esistere come la figura della fanciulla di nome Maria, la quale viveva in uno sperduto e anonimo paesino di montagna, Nazareth, che non doveva godere di buona fama (Gv 1,46a), e dove per il suo particolare stato interessante, poteva far nascere pettegolezzi o chiacchiere di paese, che avrebbero potuto distruggere il suo buon nome, mettendola in seri guai, e quello del suo promesso sposo Giuseppe; personaggi anonimi, che la storia non la fanno, ma la subiscono, come i pastori o come quella grande folla anonima di discepoli (6,17b) a cui il Gesù lucano si rivolge dichiarandoli beati per le sofferenze che essi devono sopportare quotidianamente per la loro scelta di vita (6,21-23). Ma è soprattutto l'uomo come individuo, al di là dei suoi connotati storici, culturali, sociali, linguistici o religiosi, che interessa a Luca e a cui l'autore si rivolge. Un uomo che, proprio per il suo anonimato, assume una dimensione universale, in cui ognuno può riconoscersi ed è per questo interpellato. Un uomo, quindi, non circoscritto nella sua individualità, ma cosmopolita, accomunato da un insolito destino: il dover prendere posizione di fronte ad un evento straordinario, quello di un Dio fattosi uomo per gli uomini (2,10-11) e che proprio per questa sua singolarità li interpella non solo nel loro oggi, ma anche nel domani, l'uomo di ogni tempo: “E disse loro l'angelo: <<Non temete, poiché, ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà per tutto il popolo, – poiché oggi vi è stato partorito un salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide” (2,10-11). La salvezza, dunque, per Luca ha una duplice dimensione: individuale: “vi è stato partorito”, rivolto ai pastori e a tutti quelli che come loro si mettono in ascolto dell'annuncio; e universale: “per tutto il popolo”. E il popolo che qui l'autore ha in testa, come vedremo, non è soltanto quello d'Israele, ristretto nei confini della Giudea e contrapposto al resto dell'umanità, ma quello universale: “Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: "Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At 2,5-11).
Forse è proprio per questa sua attenzione all'uomo che molte delle parabole lucane iniziano o hanno come protagonista un uomo, colto nella sua dinamica quotidiana e assurto a parametro di raffronto per tutti gli uomini7. Mentre i protagonisti dei racconti di Luca sono spesso persone qualunque, alle quali viene annunciata o donata la salvezza come per l'uomo posseduto (4,33-35), la guarigione della suocera di Pietro (4,38-39), la guarigione del lebbroso (5,12-14), l'uomo con la mano rattrappita (6,6-10), la pubblica peccatrice (7,36-48), la liberazione dell'uomo posseduto da molti demoni (8,27-34), la risuscitazione della figlia di Giairo (8,41-42.49-56), la donna con perdite di sangue (8,43-48), il risanamento del figlio di un uomo (9,38-42), Marta e Maria (10,38-42), la donna ricurva (13,11-13), Zaccheo (19,2-10), il buon ladrone (23,40-43). Ma nondimeno il Battista annuncia con duri toni escatologici la venuta della redenzione (3,4-9) e si rivolge non solo alle folle, ma anche ai pubblicani e ai soldati (3,10-14), alla gente di tutti i giorni, che popolano le città, i villaggi e le strade degli uomini, sulle quali e in mezzo alle quali il Gesù lucano “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38). In ultima analisi è un annuncio di salvezza che è rivolto ad ogni uomo (3,6). Anche i farisei o i dottori della Legge sono coinvolti in questo messaggio e alcuni di questi lo accolgono favorevolmente8.
Un altro aspetto caratteristico dell'ellenismo rispecchiato in Luca è la visione serena della vita e delle cose. Un irenismo che permea tutti i suoi racconti e le sue parabole. Ogni duro contrasto, ogni possibile spigolo che possa urtare la sensibilità del lettore vengono accuratamente smussati. L'annunciazione dell'angelo a Maria è un capolavoro di grande serenità, da cui traspira una indicibile gioia (1,26-37). L'incontro tra Maria ed Elisabetta è una poesia, un inno ad una gioia luminosa dai toni messianici (1,39-58). La nascita di Gesù viene dipinta all'interno di una cornice idilliaca di pace e serenità (2,8-20), che ha per tema di fondo la gioia (2,10). La parabola dell'uomo incappato nei ladroni (10,30-36) è raccontata senza pathos, in modo scarno, essenziale, ma viene messo in rilievo il comportamento buono e amorevole del Samaritano, che passa, vede e, mosso a compassione, si avvicina e se ne prende cura finché lo sventurato non si ristabilisce. È una parabola che in modo commovente racconta l'atteggiamento longanime, misericordioso, buono, compassionevole di un uomo verso il suo simile, in cui si rispecchia quello stesso di Gesù, che passò beneficando e risanando (At 10,38). Non è da meno quella del figlio perduto e ritrovato (15,11-32). Un racconto che lascia l'amaro in bocca e tanta tristezza per il comportamento di entrambi i figli, ma tutto ciò è permeato da una grande gioia, indicibile, per il figlio ritrovato. Anche il racconto di Zaccheo è a lieto fine, narrato con una punta di comicità, per quest'uomo piccolo, costretto ad arrampicarsi su di un albero per farsi spazio in mezzo alla gente e vedere Gesù. Quale gioia sentire Gesù che vuole conoscerlo, fermarsi da lui e, soprattutto, quest'uomo, così tanto odiato, convertirsi e donare i suoi beni sia a chi ha rubato che in beneficenza (19,2-10). Similmente dal racconto del buon ladrone traspare compostezza, equilibrio narrativo in cui scompare la cruenta e drammatica situazione dei crocifissi, per lasciare spazio al pentimento, all'invocazione, alla fiducia del buon ladrone, passato dalla parte di Gesù, che lo consola e gli promette la felicità eterna insieme assieme a lui. Tutto è profuso di misericordia, di pace, di compassione, di perdono e di gioia. Tutti racconti sono a lieto fine, e le situazioni più dure, più difficili e drammatiche vengono smorzate nei toni per lasciare spazio ad altri sentimenti di pace serena e rassicurante, il tutto permeato da una soffusa gioia, che, incontenibile, traspare qua e là.
Lo stesso stile appare negli atti degli Apostoli dove la visione irenica della situazione della chiesa incipiente pervade il racconto, nel mentre che la parola di Dio si diffondeva ovunque, con un ritmo incalzante, che sembra essere una sorta di inarrestabile marcia trionfale9: “Allora quelli che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone. Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (At 2,41-48). Non da meno, il racconto del martirio di Stefano è attutito nella sua drammaticità, dando invece ampio spazio alla sua figura di uomo pieno di fede e di perdono per i suoi persecutori, mentre i cieli benedicenti si aprono su di lui in visioni ultraterrene, che preannunciano la sua glorificazione (At 7,54-60). Un racconto commovente che trasforma il martirio per Cristo in una sorta di apoteosi, che annichilisce i persecutori, lasciati a macerare nella loro rabbia impotente.
Luca, dunque, trasfonde nella sua opera il suo ellenismo, di cui egli fa parte per nascita e cultura. Egli non è un ingenuo ottimista, che vede il bello ovunque, sottostimando i problemi e i duri scontri tra il giudaismo e il nascente cristianesimo, che Matteo (23,1-39) e Giovanni (9,22; 12,42; 16,2) denunciano nei loro vangeli. Luca è l'evangelista della gioia e della pace messianica, della serenità che evita gli spigoli o il linguaggio duro nei suoi racconti non perché sia un ingenuo pacifista e un buonista o un ottimista incurabile, ma perché questa è la cultura ellenista di cui è permeato. Egli è un ellenista che sta scrivendo a degli ellenisti e ne rispetta la sensibilità e il loro gusto del bello, delle proporzioni e dell'armonia. Un'opera come quella lucana sarebbe stata del tutto incomprensibile presso le comunità matteane o marciane o presso anche quella giovannea, inserite in un contesto culturale completamente diverso.
L'autore
I vangeli sono nati anonimi. Il tema dell'anonimato rileva in particolar modo poiché significa che essi non sono il frutto di un qualche autore, ma di un'intera comunità al cui interno essi sono nati e si sono formati e in essi si manifesta la riflessione e la vita di fede della stessa comunità, la sua maturità spirituale, i suoi problemi e talvolta la sua stessa organizzazione interna, il suo rapporto con i suoi membri e con il mondo esterno. Quindi, benché i vangeli siano anonimi, nel senso che non sono firmati da un autore, tuttavia essi possiedono in loro l'impronta profonda della vita stessa della comunità, a cui essi erano rivolti per dare ad essa la certezza della fede (Lc 1,4; Gv 20,31) e risposta ai problemi che in essa si agitavano. L'esigenza di dare un'identità ai vangeli sorse nel II sec. allorché, per l'abbondanza della produzione letteraria neotestamentaria, la nascente chiesa sentì l'esigenza di dare un fondamento certo alla propria fede, accogliendo al proprio interno soltanto quelle opere che inconfondibilmente la riflettevano in modo certo e sicuro10. Queste opere vennero dette canoniche, cioè conformi al canone11, a delle regole che imprimessero in loro il sigillo della veridicità e tali da trovare in esse la fede certa. Tra queste regole vi era il criterio dell'Apostolicità, cioè la necessità di dare un'identità certa all'opera, facendola risalire direttamente o indirettamente agli apostoli o alla loro predicazione12, così che il vangelo di Marco viene tradizionalmente legato alla predicazione di Pietro13; quello di Matteo lo si riferisce direttamente a quel Levi, esattore delle tasse, che Gesù chiamò alla sua sequela (Mc 2,14; Mt 9,9) e che compare nell'elenco dei Dodici (Mt 10,3); quello di Giovanni a quel Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo (Mt 4,21; 10,2)14.
Quanto al vangelo di Luca i critici, ad oggi, hanno consolidato le loro posizioni su due contrapposti schieramenti: c'è chi segue e difende la Tradizione e chi la contesta, adducendo numerose critiche nel merito, talvolta anche un po' troppo forzate, ma senza fornire alcuna alternativa. Qui ci limiteremo all'esame di tre testimonianze tra loro coeve: il Frammento Muratoriano (170 ca), Ireneo (130-202) e il Prologo antimarcionita relativo Luca (165-180 ca). Tutte le altre testimonianze successive non aggiungono sostanzialmente nulla di nuovo ai tre Testimoni, con l'aggravante che si discostano notevolmente, in linea temporale, dagli eventi, essendo tutte databili III-IV sec. e quindi necessariamente dipendenti da Testimonianze precedenti. Tuttavia esse sono utili in quanto vanno a consolidare la Tradizione cristiana su Luca. Va da sé che qui non si prenderanno in considerazione le leggende, che vedono in Luca uno dei settantadue discepoli inviati da Gesù in missione (Lc 10,1.17), benché lo spirito che anima le opere lucane sia quello missionario; o identificato nell'anonimo discepolo di Emmaus (Lc 24,15-31) o vedano in lui l'abile pittore della Madonna, forse per i suoi delicati quanto incisivi tratti narrativi con cui ha dipinto la Vergine nei suoi racconti dell'infanzia, veri capolavori narrativi, tutti da contemplare nel silenzio del proprio cuore (Lc 1-2). Tutte leggende, queste, sorte successivamente al IV secolo, che di certo hanno animato la pietà popolare, ma non supportate o supportabili in qualche modo da un punto di vista scientifico e, quindi, non utilizzabili a sostegno della nostra tesi.
Il nome di Luca, assegnato al terzo vangelo, è apparso intorno alla metà del II secolo. Il primo documento che lo attribuisce a Luca è il frammento muratoriano, che brevemente ci informa come “[2] Il terzo libro del vangelo (è) secondo Luca. [3] Questo Luca (è) medico. [4] Dopo l'ascesa di Cristo, [5] avendolo Paolo preso (con sé) come abile studioso di diritto, [6] secondo l'opinione (generale), compose (il vangelo) secondo la sua volontà. [7] Tuttavia neppure egli di persona vide il Signore nella carne, [8] e inoltre, in quanto fu capace di ottenere (informazioni), [9] incominciò così a raccontare dalla nascita di Giovanni”15.
Presumendo l'attendibilità storica delle informazioni di queste poche righe, che in qualche modo trovano riscontro documentale, se ne deduce che Luca, oltre che ad essere di professione medico, la quale cosa è confermata anche da Col 4,14, fu anche un abile cultore di diritto e compagno di viaggi di Paolo, che lo prese con sé proprio per questa sua ultima caratteristica (“avendolo Paolo preso (con sé) come abile studioso di diritto”). La predicazione di Paolo, infatti, provocava talvolta delle reazioni violente da parte non solo di cittadini influenti o di giudei, ma anche da parte delle autorità16. Paolo stesso lamenta di aver subito più volte il carcere e punizioni corporali a motivo della parola17 e forse non è un caso che egli, imprigionato e abbandonato da tutti, si ritrovi con il solo Luca (2Tm 4,11), che probabilmente doveva fornirgli assistenza o consulenza legale, come nel caso in cui Paolo si proclama davanti al tribuno cittadino romano, reclamando i propri diritti e benefici che il titolo gli consentiva (At 22,23-29). Ma è proprio in questo racconto, riportato dal solo Luca nei suoi Atti, ma non da Paolo, che egli mostra di conoscere bene la legislazione civile e penale riguardante la cittadinanza romana18. Quanto alla sua attività di medico, Luca doveva essere anche un valido aiuto alla malferma salute di Paolo, soggetta probabilmente a qualche malattia cronica e a pesanti stress psico-fisici che la sua missione gli procurava19. Forse non è un caso che in Col 4,14 Paolo definisca Luca come il “caro medico”, quasi a dire che Luca, come medico, gli era molto vicino e di aiuto. Due altri particolari indiziano Luca come medico: in Lc 4,23a dove l'autore, unico tra gli evangelisti, mette sulle labbra di Gesù il proverbio, che doveva circolare in ambiente medico: “Medico cura te stesso”; il secondo particolare è il rispetto che Luca dimostra nei confronti della categoria dei medici in 8,43, dove, raccontando della donna che soffriva da molti anni di perdite di sangue, si limita a dire che essa aveva speso tutti i suoi beni per i medici, cioè per farsi curare, ma senza ottenerne benefici, diversamente da Mc 5,26, che esprime, nel medesimo racconto, un parere del tutto negativo nei confronti dei medici: “aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando”. Ora se si pensa che Luca prende a base del suo vangelo quello di Marco, questa correzione in melius nei confronti dei medici rispetto a Marco, è chiaramente intenzionale e sembra una sorta di lancia spezzata a favore della categoria medica20. Certo, il linguaggio, che Luca usa nel descrivere le infermità, non è propriamente quello tecnico-scientifico specifico della medicina, ma è da chiedersi se, all'epoca, la medicina avesse già elaborato un proprio linguaggio per descrivere le malattie ed effettuare le diagnosi.
Il frammento muratoriano attesta anche che “Paolo prese con sé Luca”. In altri termini sottolinea come Luca fosse, oltre che medico e supporto legale all'Apostolo, anche un suo compagno di viaggi, la quale cosa verrebbe confermata da Col 4,14; 2Tm 4,11 e Fm 1,24. Ma sono in particolar modo le “sezioni noi” degli Atti degli Apostoli (At 16,10-18; 20,5-16; 21,1-18; 27,1-28,16) che attestano come l'autore del libro e Paolo siano stati compagni di viaggi, condividendo le avventure e gli affanni della missione. Il brusco e improvviso cambiamento di soggetto, dalla terza persona plurale alla prima plurale, più che un artificio letterario, come alcuni critici ritengono, va inteso, a nostro avviso, come un segnale che l'autore lancia al suo lettore, avvertendolo come, da quel momento in poi, lo storico stia riportando una sua diretta testimonianza, che attesta la sua attività missionaria assieme a Paolo, avvalorando in tal modo la sua testimonianza storica, che qui si fa diretta, e circoscrivendola all'intera sezione caratterizzata dai verbi in prima persona plurale. Non si vede quindi la necessità di comprendere queste variazioni di soggetto come una sorta di artificio letterario.
Questa particolare attestazione da parte del frammento muratoriano (v.5) obbedisce alle logiche interne del canone, che vuole che ogni opera debba essere legata all'autorità di un apostolo, per essere attendibile e confermata ufficialmente nella sua veridicità. Luca, infatti, attesta il frammento muratoriano (v.7), non ha visto il Gesù storico, quello in carne ed ossa e, quindi, la sua opera non è riconducibile ai suoi diretti discepoli e testimoni. Del resto è lo stesso Luca che dichiara apertamente questa sua posizione di discepolo di seconda o terza generazione nel suo prologo storico (1,1-4). La sua attendibilità, pertanto, gli viene sia dal suo essere stato strettamente legato a Paolo, il quale, benché anche lui non abbia mai visto il Gesù storico né sia mai stato suo diretto discepolo, tuttavia attesta di averne ricevuto diretto mandato per visione21 e il cui riconoscimento ufficiale venne dagli stessi capi della chiesa madre di Gerusalemme22; sia dalla sua stessa dichiarazione che fa dipendere la sua opera dalla tradizione apostolica (Lc 1,2). Un'opera che non sembra essere stata composta per soddisfare le esigenze di una qualche comunità credente, ma soltanto per testimoniare al mondo ellenistico e pagano in genere la figura e il pensiero di Gesù di Nazareth e l'evoluzione che questo ebbe dopo di lui (Atti degli Apostoli)23; nonché per confermare nella fede gli etnocristiani (1,3-4), di cui Teofilo è figura. Probabilmente è questo il significato del v.6 del frammento muratoriano, secondo il quale Luca compose, a detta di tutti (“ex opinione”), la sua opera “secondo la sua volontà” (“numine suo”), che potremmo leggere anche come “secondo la sua ispirazione divina”, dando in tal modo particolare rilevanza al termine “numine”. L'opera lucana, pertanto, assume un respiro universale e porta in se stessa un afflato spiccatamente missionario, il cui contenuto, nel suo schema originale ed essenziale, è testimoniato in At 10,37-43. L'intera opera di Luca, infatti, è caratterizzata dal movimento, che contraddistingue l'azione missionaria e che in qualche modo la sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che occupa buona parte del vangelo lucano (Lc 9.51-19,28), testimonia. Gli stessi Atti degli Apostoli hanno come leit-motiv l'azione missionaria sia di Pietro che, in particolar modo, di Paolo, le cui gesta occupano i capp. 9-28.
L'ultimo tratto che ci passa il frammento muratoriano su Luca è il v.8: “in quanto fu capace di ottenere (informazioni)”, attestandoci l'attività di ricerca delle fonti operata da Luca nel redigere la sua opera. Attestazione di cui lo stesso Luca, del resto, ci dà notizia nel suo prologo storico (1,1-4).
Possiamo pertanto affermare, con una certa tranquillità, che il frammento muratoriano, per quanto riguarda Luca, ci fornisce delle notizie attendibili, in quanto riscontrabili anche documentalmente, quanto meno verosimili e certamente non in contraddizione tra loro e con altre fonti.
Sulla stessa linea del frammento muratoriano e coetaneo ad esso è Ireneo, vescovo di Lione (130-202 d.C.), il quale, nella sua opera Adversus Haereses, attesta che “Luca, compagno di Paolo, annotò in un libro il vangelo che questi predicava” (Adv. Haer. 111, 1,1); e ancora “Questo Luca era inseparabile da Paolo e suo collaboratore nel Vangelo” (Adv. Haer. 111, 14,1). Va detto, tuttavia, che benché le due annotazioni coincidano nella sostanza con il frammento muratoriano, esse sono tendenziose là dove fanno di Luca un pedissequo discepolo di Paolo, del quale riporta il vangelo da lui predicato e definendolo “inseparabile da Paolo”. L'intento di queste due affermazioni è quello di legare strettamente Luca alla figura di Paolo così da rendere credibile non solo l'autore del terzo vangelo, ma anche l'intera sua opera, obbedendo in tal modo al primo dei criteri canonici: l'apostolicità. Ireneo, infatti, annota su Luca che questi scrisse nel suo libro il vangelo predicato da Paolo. Tale affermazione è poco credibile sia perché è impossibile che Paolo abbia detto ciò che è scritto nel racconto lucano, poiché egli non conobbe mai il Gesù storico né mai fu suo discepolo. Paolo, invece, su sua stessa testimonianza, attesta di aver conosciuto soltanto il Gesù risorto e dalle sue lettere non traspare mai, se non molto vagamente, come in Gal 4,4-5, episodi della vita terrena di Gesù. Sia, poi, perché i temi della giustificazione, del peccato e della grazia; l'opposizione grazia e peccato, Spirito e Legge sono totalmente estranei a Luca, anche se bisogna riconoscere che Luca, il quale si rivolge al mondo dei pagani, alla pari di Paolo e come lui fervente missionario, annuncia la salvezza universale per fede offerta anche ai gentili. Un tema questo caro a Paolo. Ma il vangelo di Luca è ben lontano dalla predicazione paolina, anche se certamente non è in contrasto con essa. Tutto ciò, tuttavia, non prova che i due non si siano mai conosciuti, poiché il pensiero paolino, che traspare dalle sue lettere, nasce da contesti storici completamente diversi da quelli di Luca e diversi sono anche i loro intenti. Le lettere di Paolo o quelle di scuola paolina sono scritti del tutto occasionali e sono legati ad alcuni problemi contingenti di alcune comunità fondate da Paolo e sono finalizzati a dare loro una risposta immediata. Il linguaggio dei suoi scritti, infatti, è caratterizzato dall’immediatezza, dalla spontaneità, dalla vivacità di espressione, che talvolta si carica di sentimenti forti e di emozioni violente fino a sfociare nell’insulto verso i suoi detrattori. La sua teologia, pertanto, non è una teologia studiata a tavolino, ma nasce da situazioni casuali, benché, talvolta, le sue lettere contengono delle vere e proprie sezioni dottrinali, che vanno oltre le questioni contingenti, per le quali la lettera era stata scritta. Completamente diversa è, invece, la finalità di Luca: far conoscere l'evento Gesù al mondo dei pagani e dare certezza di tale evento alle comunità etnocristiane (Lc 1,3-4). Egli, dunque, non era chiamato a tappare dei buchi creatisi improvvisamente all'interno di alcune comunità credenti, fornendo loro argomentazioni cristologiche e teologiche su cui ricompattarsi e superare le loro crisi interne, ma narrare degli eventi, finalizzati sia a far conoscere che a consolidare la fede in tali eventi. Finalità, contenuti e stile letterario sono, quindi, necessariamente diversi da quelli paolini. Il fatto, poi, che Luca non citi o ignori completamente le lettere di Paolo non costituisce né prova né indizio che i due non si fossero mai frequentati. La raccolta del materiale operata da Luca per le sue opere è sempre finalizzata ai propri intenti, che costituiscono una discriminante nella scelta del materiale stesso. Va, poi, considerata anche l'occasionalità e l'immediatezza con cui queste lettere venivano scritte e spedite alle diverse comunità di turno, rendendole in tal modo di difficile reperimento. Sarà, infatti, soltanto nel II secolo, sempre in occasione della canonizzazione delle diverse opere neotestamentarie, che si andrà a costituirsi il corpus paolinum. Similmente si può dire per quegli episodi, anche rilevanti, che Luca non menziona o riporta in modo non corretto nel suo racconto degli Atti degli Apostoli. Questi sono stati scritti all'incirca intorno agli anni 80, mentre le vicende di Paolo vanno dal 36, epoca della sua conversione, al 62, anno in cui termina la sua attività apostolica in prigionia. Vi possono, quindi, essere due cause che hanno reso deficitario Luca su Paolo: i ricordi di eventi che si pongono lontani nel tempo, i cui contorni, pertanto, si sono sbiaditi; oppure, tali eventi non erano utili per gli intenti e la finalità dell'opera lucana, per cui Luca li ha semplicemente tralasciati. L'intento di Luca, infatti, non è quello di scrivere una biografia su Paolo, ma semplicemente illustrare il cammino della chiesa, quale naturale proseguimento dell'evento Gesù, colta nel suo iniziale affermarsi ed espandersi, dandone prevalentemente una lettura teologica più che storica.
Quanto all'affermazione, sempre di Ireneo, che “Luca era inseparabile da Paolo e suo collaboratore nel Vangelo”, essa, a nostro avviso, è credibile, ma forse va ridimensionata nei termini per i motivi sopra addotti. Certamente Luca fu un missionario, e l'eco di questa sua missionarietà si sente nel suo vangelo, che ha come comune denominatore il dinamismo proprio del missionario. Il Gesù lucano è, infatti, un missionario che si muove dapprima in Galilea (3,1-9,50); poi compie un lungo viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28) e infine ultima la sua missione in Gerusalemme (19,29-21,38). Un'eco che si estende anche nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, dove l'attività missionaria viene particolarmente rilevata nelle due principali figure di Pietro e di Paolo, al quale gli Atti sono dedicati per la maggiore. E forse non è un caso che proprio negli Atti si trovi uno schema di predicazione missionaria (At 10, 37-43), che riproduce le linee principali del vangelo su cui i predicatori itineranti si riferivano nella loro predicazione; uno schema che Luca stesso conosceva e probabilmente, alla pari dei predicatori itineranti, ha usato nella sua predicazione. Tuttavia la missionarietà di Luca, quale compagno di Paolo, va probabilmente limitata alle “sezioni noi”, dove l'autore degli Atti si associa spontaneamente all'attività missionaria di Paolo24. La sottolineatura che “Luca era inseparabile da Paolo”, è un rilievo eccessivo in quel “inseparabile”, finalizzato ad imprimere il sigillo della veridicità all'opera di Luca, facendola dipendere in qualche modo da Paolo.
Un altro testo di interesse è il prologo antimarcionita25, riguardante Luca, pervenutoci oltre che in latino anche nella versione greca. Il documento è databile tra il 160 e il 180, probabilmente molto vicino all'anno 170, circa una decina di anni dopo la morte di Marcione. Il prologo, pertanto, è coevo al Frammento muratoriano e a Ireneo, benché oggi gli esegeti tendano a collocarlo nel IV sec. Non è comprensibile un simile orientamento, considerando due elementi fondamentali: a) Marcione è morto intorno al 160, dopo aver fondato una sua prolifica chiesa, strutturata sulla falsariga di quella di Roma e dopo aver adottato le Scritture, ampiamente manipolate e adattate al suo pensiero. Una chiesa che faceva molti adepti e proprio per questo pericolosa26; b) un imminente pericolo, dunque, e in un periodo in cui la Chiesa stava istituendo il canone per selezionare l'attendibilità dottrinale e di fede dei numerosi scritti neotestamentari. Ora i prologhi definiti antimarcioniti, non perché fossero apologie contro Marcione, ma perché accompagnavano i testi dei vangeli, fornivano loro una sorta di carta d'identità e quindi di attendibilità, riagganciando quei testi alla Tradizione della Chiesa, che si stava formando e consolidando, creando in tal modo un muro invalicabile nei confronti delle scritture e delle pretese marcionite. I prologhi, pertanto, costituiscono delle risposte immediate ad un pericolo che era in atto. Non ha senso, quindi, produrli dopo due secoli, cioè nel IV sec., quando i danni potevano essere irreparabili. Si tenga presente che le chiese marcionite prosperarono in Siria e in tutto l'Oriente fino al V sec. compreso (cfr. nota 25).
Il testo, qui riportato e che ora commenteremo, è una traduzione da me fatta dal latino, il cui testo originale è posto qui sotto alla nota 27.
Traduzione prologo antimarcionita, riguardante Luca
“Luca è per certo un siroantiocheno, medico di professione. Come i suoi scritti rivelano, non fu inesperto della lingua greca. Discepolo degli apostoli, in seguito, invece, seguì Paolo fino al suo martirio, servendo il Signore senza peccato, non ebbe, infatti, né moglie, né generò figli. A ottantanove anni morì in Beozia, pieno di Spirito Santo. Orbene, quando già erano stati scritti i vangeli, secondo Matteo in Giudea, secondo Marco, invece, in Italia, sospinto dallo Spirito, scrisse dalle parti dell'Acaia questo vangelo, che aveva appreso non solo dall'Apostolo, che non fu con il Signore nella carne, ma di più dagli altri apostoli, che furono con il Signore, dichiarando persino lui stesso nel prologo che gli altri (vangeli) sono stati scritti prima del suo, ma che incombeva su di lui anche una grandissimo obbligo di raccontare nella sua narrazione con la massima diligenza l'intero ordinamento (degli eventi) per i fedeli Greci, affinché, rivolti verso le favole giudaiche, non fossero avvinti nel solo desiderio della Legge, né, sedotti dalle favole eretiche dalle stolte istigazioni, si allontanassero dalla verità. E così, subito, assunse la massima (diligenza) necessaria (e incominciò) dalla nascita di Giovanni, che è l'inizio del vangelo, precursore del Signore nostro Gesù Cristo, e (ne) fu associato per il perfezionamento del popolo (e) parimenti nell'introdurre il battesimo e associato alla (sua) passione, della cui disposizione ed esempio, in verità, fa menzione il profeta Zaccaria, uno dei dodici (profeti minori). E tuttavia, da ultimo, Luca scrisse anche gli Atti degli Apostoli. Poi, Giovanni l'evangelista scrisse per prima l'Apocalisse nell'isola di Patmos, quindi, il vangelo in Asia”27
Il prologo antimarcionita riguardante Luca concorda in alcune parti con il Frammento muratoriano, là dove indica Luca medico e compagno di Paolo, definito, in entrambi, come l'apostolo che non ha conosciuto il Gesù storico, e dove si attesta che egli scrisse un suo vangelo. La stringatezza del Frammento muratoriano è tuttavia ampiamente compensata da questo Prologo, il quale ci fornisce una serie di notizie interessanti riguardanti il terzo evangelista, intorno alle quali non vi è motivo, a mio avviso, di dubitare, poiché compatibili con la figura di Luca e il contesto storico-culturale in cui è vissuto e che nel contempo concordano con altre testimonianze esterne. Egli è originario di Antiochia di Siria, la più rinomata e la più grande delle sedici Antiochie fondate da Seleuco I Nicatore in onore di suo padre Antioco nel 300 a.C. Divenne una metropoli e un grande centro culturale dell'ellenismo, ricca di monumenti e di marmi pregiati. Fu la terza città per grandezza e splendore dell'impero romano, dopo Roma e Alessandria d'Egitto28. È credibile che Paolo vi si sia stabilito sia per la sua importanza, la sua popolosità, sia perché terra proficua di conversioni, soprattutto tra i pagani e, inoltre, molto vicina a Tarso, città di origine di Paolo. Essa può essere considerata la roccaforte dell'etnocristianesimo, che si contrappone, in qualche modo, al giudeocristianesimo di Gerusalemme, la chiesa madre, con la quale ha sempre avuto un rapporto difficile (Gal 2,1-14; At 15), proprio per la provenienza dei convertiti: pagani gli uni, giudei gli altri. Due realtà difficili da combinare insieme, così che Gerusalemme ed Antiochia si vedono nella necessità di doversi spartire le aree della loro azione missionaria (Gal 2,7-9).
Luca si trova in questo contesto storico-culturale. Probabilmente egli fu un pagano29, poiché, dopo la sua conversione, operata in lui dagli apostoli, non ha alcuna difficoltà a seguire Paolo nell'evangelizzazione dei pagani e gli fu fedele compagno fino alla fine. Non a caso la sua visione della salvezza si apre ad un orizzonte universale e coinvolge sopratutto il mondo dei gentili. Difficile una simile visione per un giudeo, sia pur ellenista. Matteo, infatti, un giudeo, quasi certamente uno scriba30, presenta il suo Gesù come venuto a portare la salvezza soltanto al mondo giudaico, escludendo espressamente quello pagano (Mt 10,5-6; 15,24.26), anche se mostrerà una certa simpatia per qualche pagano, che lo invoca, ma senza grande ostentazione (Mt 8,8-12; 15,22-28). Sarà soltanto alla fine che il Gesù matteano aprirà i suoi orizzonti all'universalità delle genti (Mt 28,19-20). Quanto alla lingua, Luca doveva conoscere bene il greco se si sottolinea come egli “non era inesperto della lingua greca”. E con la lingua si accompagna anche un'ampia e profonda cultura ellenistica che si riflette nel suo vangelo e negli Atti degli Apostoli31. La sua formazione culturale era multiforme, caratteristica dell'ellenismo: medico di professione, esperto di diritto, come ci suggerisce il v.5 del Frammento muratoriano, e storico, come egli stesso si presenta nel suo prologo (Lc 1,1-4). Un ingegno versatile, dunque, forse anche per questo insieme di cose molto caro a Paolo (Col 4,14). Un personaggio tutto dedito alla missionarietà e all'annuncio della Parola. Si evidenzia come egli “non ebbe, infatti, né moglie, né generò figli”. Anche questo aspetto lo sposta più verso la sua provenienza dal paganesimo che dal giudaismo. Difficilmente un giudeo si sarebbe sottratto al matrimonio, in ottemperanza al comando genesiaco del “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”, quale effetto della benedizione divina, che per sua natura è potenza generante (Gen 1,28). I figli, poi, sono considerati benedizione divina (Dt 7,14; Sal 126,3-5; 127,3-4) e una maledizione sia il non averne che la sterilità (1Sam 1,6; Gb 15,34; 24,21). Tuttavia, la sua consacrazione alla causa del Vangelo e dell'annuncio è compatibile con quel ascetismo che già animava le prime comunità credenti (1Cor 7,1-11; Mt 19,12c) e che porterà alla nascita del monachesimo già intorno al 250 circa. Viene in qualche modo stabilita anche una data molto approssimativa dell'edizione del vangelo lucano, collocandolo in tempo di successione dopo quello di Matteo e Marco, benché notoriamente Marco sia venuto prima di quello di Matteo, che occupa qui il primo posto, come nel frammento muratoriano, solo per l'importanza di cui godeva questo vangelo presso la Chiesa. Marco, infatti, venne sempre considerato di secondaria importanza rispetto a quello di Matteo. Lo stesso s.Agostino, raffrontando Marco a Matteo, attesta: “Marco lo (Matteo ndr) seguì da vicino quasi come un valletto e sembra essere un suo sunteggiatore”32. Si attesta, ancora, come il vangelo lucano fosse radicato non soltanto nella predicazione paolina, frutto di una visione cristologica particolare, generata dall'incontro dell'Apostolo con il Risorto, ma come il suo racconto si fosse per lo più formato alla solida scuola degli Apostoli, che hanno avuto la difficile esperienza del Gesù della storia e grazie ai quali egli fu generato alla fede: “Discepolo degli apostoli, in seguito, invece, seguì Paolo fino al suo martirio”. Questa sottolineatura tende a collegare il racconto lucano alla diretta dipendenza degli Apostoli, quelli che, secondo la Tradizione, hanno seguito l'insegnamento diretto del Gesù della storia, assegnando in tal modo piena veridicità al vangelo lucano, elemento questo necessario perché potesse essere accolto nel Canone. L'opera lucana, pertanto, qui, nel prologo antimarcionita, non è soltanto associata alla figura di Paolo, come avviene nel Frammento muratoriano, ma anche a quelle degli Apostoli, per rafforzarne la credibilità. Ci viene comunicato, inoltre, il motivo che spinse Luca a scrivere il suo vangelo; motivo che, in qualche modo, ma molto vagamente, traspare anche dal suo stesso prologo, là dove attesta, rivolto a Teofilo: “affinché (tu) conosca la certezza delle parole sulle quali sei stato istruito” (Lc 1,4). Si tratta, dunque, di rendere solida e salda la fede di questo Teofilo e con lui tutti i credenti di quel tempo, insidiati, da un lato dal giudaismo o dai giudeocristiani giudaizzanti; e dall'altro dal mondo pagano o dalle nuove elaborazioni cristologiche e teologiche che si profilavano all'orizzonte, ma sostanzialmente difformi. Un vangelo che, secondo il Prologo antimarcionita, Luca scrisse dalle parti dell'Acaia. Originariamente l'Acaia era la regione posta a settentrione del Peloponneso, ma dopo la conquista di Roma, dal 146 a.C. con tale nome si incominciò a designare l'intera Grecia. Quindi, l'ignoto autore del Prologo antimarcionita, indicando vagamente “dalle parti dell'Acaia”, doveva designare come probabile luogo della formazione del vangelo di Luca la Grecia, divenuta, sotto Ottaviano Augusto nel 27 a.C., provincia romana. Dopo una vita ascetica e dedita all'annuncio del vangelo e alla composizione delle sue opere “A ottantanove anni morì in Beozia, pieno di Spirito Santo”. La sottolineatura dell'ascetismo lucano, del suo afflato missionario, condotto con rettitudine di vita e sempre secondo verità (“senza peccato”) forniscono a Luca l'identità di una piena affidabilità come persona e di conseguenza della sua opera. La conclusione, che vede Luca morire nella pienezza dello Spirito Santo dice, da un lato, come egli si fosse sempre mosso sotto il suo impulso (“sospinto dallo Spirito”); dall'altro la sua morte viene presentata come una sorta di apoteosi.
La data e il luogo della composizione
Discriminante per la datazione dei vangeli è l'anno della caduta di Gerusalemme (70 d.C.), a cui fanno riferimento gli evangelisti. Marco si limita a denunciare la profanazione del Tempio, quale conseguenza della caduta di Gerusalemme in mano ai pagani, ricorrendo non a dei fatti avvenuti, di cui ancora non conosce le dimensioni, ma alla profezia di Dn 9,27. In 13,18, infatti, esorta a pregare affinché “ciò non accada in inverno”, segno quest'ultimo che, allorché Marco sta scrivendo il suo vangelo, ancora non è avvenuta la caduta di Gerusalemme, poiché non ne conosce il tempo, che ormai dovrebbe essere imminente. Egli, infatti, auspica che ciò non avvenga in inverno, poiché le pene sarebbero aumentate dal freddo pungente e dal gelo. Marco, quindi, scrive il suo vangelo prima del 70, a ridosso della caduta di Gerusalemme, che ancora non sa se avverrà e in quale modo, né conosce il tempo di tale caduta, né le conseguenze che essa avrà per la gente. Il suo vangelo, pertanto, viene composto o, meglio, ultimato tra la fine dell'estate e l'autunno del 69 d.C., probabilmente mentre si trovava a Roma, dove sente arrivare le notizie della guerra giudaica. Matteo riprenderà pedissequamente Marco, precisando che la citazione proviene dal libro di Daniele: “Quando dunque vedrete l'abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo - chi legge comprenda” (Mt 24,15). Il suo vangelo, quindi, è stato scritto successivamente a quello di Marco, da cui trae spunto, ma senza precisare storicamente l'evento drammatico. Egli, infatti, sta scrivendo alla sua comunità composta prevalentemente di giudeocristiani, che si trovano in Palestina e che certamente hanno vissuto sulla loro pelle il dramma della caduta. Non c'era dunque bisogno di precisazioni storiche; sarebbe stato un rimestare il coltello nella piaga; è sufficiente un sommesso richiamo alla profezia di Daniele.
Diversa è la posizione di Luca che, invece, sta scrivendo al mondo etnocristiano ed ellenistico in genere, estraneo alle vicende della guerra giudaica, per cui in 21,20.24 allude al momento della caduta di Gerusalemme per opera dell'esercito romano e alle sue gravi conseguenze: “Allorché vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione si è avvicinata […] e cadranno per punta di spada e saranno fatti prigionieri presso tutti i popoli, e Gerusalemme sarà calpestata dalle genti, finché non si compiano i tempi (dei) popoli”. Qui Luca, che pur prendendo a base del suo vangelo quello marciano, modifica radicalmente Marco, sostituendo la profezia di Daniele con un più preciso dato storico. La visione lucana di una Gerusalemme circondata dagli eserciti, devastata e calpestata dai pagani, che passano a fil di spada gli abitanti, viene integrata anche con 19,43-44: “Poiché verranno giorni su di te e i tuoi nemici ti pianteranno palizzate e ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte, e colpiranno te e i tuoi figli in te, e non lasceranno pietra su pietra in te, poiché non hai riconosciuto il tempo della tua visita”. Si tratta di una descrizione precisa di quanto era avvenuto tra il 69 e il 70 durante la guerra giudaica (66-73 d.C.), epoca ed eventi a cui fanno riferimento questi passi lucani. In ultima analisi si tratta di una perfetta sintesi del Libro VI di Guerra Giudaica di Flavio Giuseppe (circa 37-100), dove si parla sia delle operazioni di assedio, della caduta di Gerusalemme e dei massacri compiuti al momento della conquista, nonché della distruzione del Tempio. Quelli lucani sono dati storici di una precisione impressionante, che attestano l'accuratezza con cui l'autore ha svolto le sue indagini. Questa corrispondenza tra quanto viene detto da Luca in 19,43-44 e in 21,20.24 e il Libro VI di Guerra Giudaica apre all'ipotesi che Luca, nel suo peregrinare missionario di predicatore itinerante, si sia imbattuto nell'allora nuovo libro di Guerra Giudaica, pubblicato intorno al 79 d.C., da dove Luca deve aver certamente attinto per i versetti sopracitati. Un'opera questa che costituiva un'ottima fonte informativa sul mondo giudaico per lo storico Luca, che tale mondo non conosceva. Ora, considerato che la diffusione di un testo all'epoca non doveva essere molto rapida, mancando di tutti quei mezzi di stampa, di informazione e di distribuzione di cui oggi beneficiamo; considerata la lentezza con cui le opere, tutte scritte a mano, si producevano e i notevoli costi di produzione letteraria e, quindi, l'esiguità delle copie circolanti, non si è molto lontani dalla verità se si pensa che una simile opera voluminosa, come Guerra Giudaica, sia giunta nelle mani di Luca non prima di sei, sette anni dalla sua pubblicazione ufficiale e quindi tra gli anni 85 e 86 d.C. Un'opera trovata, probabilmente, nella ricca biblioteca di Antiochia di Siria, da dove Luca proveniva, la terza biblioteca ellenistica in ordine di grandezza, dopo Alessandria d'Egitto e Pergamo. Una metropoli quella di Antiochia, che lo stesso Cicerone nella sua orazione “Pro Archia”, poeta greco, vissuto tra il 118-45 a.C. ed accusato di aver acquisito illegittimamente la cittadinanza romana, loda per la sua cultura e la sua liberalità negli studi33. Tutto ciò premesso, è da pensare che il racconto lucano abbia avuto inizio intorno all'anno 87 e si sia protratto per almeno una decina di anni, considerata l'accuratezza posta non solo nella ricerca, ma anche in una stesura ordinata (Lc 1,3), tenendo presente tutte le sue fonti e l'elaborazione delle stesse, adattandole alla sua teologia in prospettiva al mondo etnocristiano ed ellenistico in genere, ai quali era destinata. Potremmo pertanto concludere che la datazione orientativa del vangelo lucano va posta, a nostro avviso, per le motivazioni fin qui addotte, tra gli anni 87 e 97 d.C. Il suo vangelo si concluderà, probabilmente, alcuni anni prima della sua morte, avvenuta all'età di 89 anni, intorno all'anno 102 d.C.34 in Beozia, come suggerisce il prologo antimarcionita nella sua versione latina, mentre la versione greca, con più precisione, attesta che morì a Tebe, metropoli della Beozia35.
Quanto al luogo della composizione dell'opera lucana il prologo antimarcionita indica vagamente “dalle parti dell'Acaia”, cioè in Grecia. Si è detto qui sopra che Luca morì in Beozia, regione dell'Acaia, alcuni anni dopo aver scritto la sua opera. È probabile, quindi, che Luca abbia composto il suo vangelo in Beozia, luogo che deve averlo accolto al termine del suo lungo peregrinare sia come compagno di viaggi di Paolo che come predicatore itinerante. È proprio questa sua attività missionaria di annuncio e l'esperienza presso il mondo dei pagani, a cui aveva dedicato con passione tutto se stesso, fino a rinunciare a formarsi una famiglia, come attesta il prologo antimarcionita, che deve aver spinto Luca, giunto ormai verso la fine della sua vita, quasi come in una sorta di memoriale personale, a scrivere sia il suo vangelo che gli Atti degli Apostoli, per fissare e riordinare la sua predicazione con il primo; e le sue esperienze missionarie con il secondo, dando così solidità e continuità storica sia a quel annuncio, a cui aveva dedicato tutta la sua vita, che alle avventure missionarie, la cui protagonista indiscussa è la diffusione della Parola di Dio. È probabile che sia andata proprio così, se si pensa che durante l'attività missionaria, che lo vedeva impegnato in continui viaggi e peregrinazioni per portare l'annuncio, non poteva avere quella tranquillità di vita tale da potergli consentire la composizione di due opere così impegnative. È verosimile se non certo che il suo peregrinare missionario e la sua continua predicazione, probabilmente di continuo aggiornata ed arricchita da sue riflessioni e da nuovo materiale trovato presso le diverse comunità credenti incontrate lungo il suo cammino missionario, gli abbiano fornito informazioni e materiale per la sua opera, che ora, nel riposo presso una qualche comunità credente della Beozia, sta riordinando e con accuratezza stende, quale sua ultima testimonianza per gli etnocristiani e il mondo ellenistico.
In questo contesto storico fin qui descritto, poiché nessun manoscritto, ad oggi, ci trasmette gli Atti degli Apostoli immediatamente dopo il Vangelo, vien da chiedersi se sia stato scritto per primo il vangelo e poi gli Atti oppure viceversa. Seguendo la dinamica narrativa delle due opere e l'introduzione degli Atti, che alludono al primo libro, cioè al vangelo (At 1,1), è da pensare che prima sia stato scritto il vangelo e di seguito gli Atti. Tuttavia, considerate le due introduzioni, che costituiscono un “a se stante” delle due opere, e che, quindi, possono essere state agevolmente inserite successivamente per dare loro sequenzialità logica, teologica ed ecclesiologica, ritengo personalmente che dapprima siano stati scritti gli Atti e solo successivamente il vangelo. Alcune considerazioni nel merito possono far pensare a questa inversione. Luca, dopo i suoi impegni e le sue avventure missionarie, si ritira in Beozia dove scrive le sue memorie. Ciò che viene più spontaneo e immediato per un missionario che si ritira dalla sua attività missionaria, non è scrivere un vangelo, di per sé molto impegnativo per la ricerca, la selezione e il coordinamento delle fonti, lo sviluppo di una teologia e di una cristologia che l'autore deve elaborare prima dentro di sé, finalizzandole al pubblico dei suoi lettori; facendo inoltre sicuramente ricorso alla sua predicazione missionaria, tutta da adattare ed armonizzare con il resto del materiale in suo possesso, ma raccontare le avventure missionarie che ha vissuto in prima persona. Insomma, scrivere un vangelo è alquanto complesso e problematico e certamente non è la prima cosa che può venire in mente ad un missionario che si ritira dalla sua avventurosa attività di itinerante. Quei fatti, quelle gesta che lo hanno coinvolto in prima persona, lo devono aver segnato profondamente. Qui non serve fare molte ricerche, è sufficiente ricordare e riordinare i ricordi, dare loro un senso ed una logica, facendoli muovere su di uno sfondo teologico, che in fondo è il senso stesso della suo peregrinare missionario, che lo ha spinto a viaggiare in modo avventuroso per mari e per terre difficili, non prive di insidie e pericoli. È questo ciò che resta vivo all'interno di una persona al termine della sua avventura e da qui nasce la voglia di ricordarla e di registrarla a testimonianza propria e delle comunità credenti. Soltanto al termine di questa sua opera, in cui ha fatto risuonare abbondantemente il kerigma e messo in rilievo i successi della Parola, deve essere sorta in Luca anche l'idea di dare maggior sviluppo al kerigma degli Atti, raccontando questa Parola, contenuta inizialmente in un annuncio essenziale e primitivo, anche nel suo nascere storico, cioè il vangelo, certamente molto più impegnativo e, quindi, soltanto al termine della sua seconda opera, il vangelo, ha cercato di dare una sequenza logica alla sua intera opera: vangelo, che si espande e si sostanzia negli Atti. Vangelo ed Atti, quindi devono essere stati pubblicati se non assieme almeno molto vicini tra loro come un'opera unica, intorno all'anno 96 circa, alcuni anni prima della morte di Luca, avvenuta, come sopra proposto, intorno all'anno 102. In tale caso si giustificano le due introduzioni. Ciò che qui gioca tra il prima degli Atti e il dopo del Vangelo è di gran lunga il fattore umano e psicologico. È più facile scrivere le proprie avventure e peripezie missionarie, da poco dismesse, che costruire un vangelo. Del resto, Luca, in quanto missionario, ora a riposo, predicatore kerigmatico lui stesso, non doveva sentire, almeno agli inizi della sua prima opera, l'esigenza di raccontare le vicende storiche di Gesù e la sua predicazione, che già con significanza stava stendendo nel suo racconto degli Atti. Sarà soltanto successivamente o in contemporanea alla stesura degli Atti, che deve essere sorta anche l'idea “di esporre ordinatamente una narrazione circa i fatti compiutisi in mezzo a noi, come ci tramandarono coloro che furono testimoni oculari e ministri della parola fin dall'inizio” (Lc 1,1-2) e questo per dare certezza e fondamento concreto alla fede (Lc 1,4). A sostegno di questa tesi ci sta anche la datazione sopra ipotizzata, ma non inventata. Se Luca pubblica il suo vangelo nel 96, cioè circa 6 anni prima di morire nel 102 e all'età di 89 anni, significa che Luca ha pubblicato la sua opera all'età di 83 anni. Posto che vangelo ed Atti abbiano impegnato Luca per almeno una quindicina d'anni, è da pensare che l'autore abbia iniziato la sua opera dapprima con gli Atti all'età di 68 anni circa e il vangelo all'età di circa 73 anni, impiegando per la sua ricerca e composizione, come si è detto sopra, almeno una decina d'anni. Mi rendo conto che tutti questi calcoli sono basati su ipotesi, ma non su fantasie e comunque non credo di essermi allontanato di molto dalla verità dei fatti.
La comunità lucana
È difficile pensare che Luca componga la sua opera per una particolare comunità credente, di cui egli sia in qualche modo responsabile. Alla pari di Paolo, Luca è essenzialmente un missionario, suo compagno di viaggi, nonché predicatore itinerante. Ha certamente, come Paolo e Barnaba, e insieme a questi, un punto di riferimento, dove ritrovarsi, riflettere e organizzare altre missioni. Base operativa dei tre era Antiochia di Siria. Quanto a Paolo e Barnaba, entrambi già vi operavano. Sarà Barnaba, infatti, che si recherà a Tarso, dopo un lungo periodo di circa dieci anni36, per riprendersi Paolo e condurlo ad Antiochia dove lavorerà sia per l'annuncio che per organizzare dei viaggi missionari. Quanto a Luca, egli vi era nato, ci viveva ed era sicuramente, come medico e cultore di diritto, molto conosciuto e stimato. Ma il suo spirito non è pastorale, ma missionario. La sua vera comunità è il mondo. È significativo, infatti, come il suo vangelo si apra con l'annuncio del Battista: “ogni carne vedrà la salvezza di Dio” (Lc 3,6); mentre gli Atti degli Apostoli si chiudano con l'attestazione di Paolo: “Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse ascolteranno” (At 28,28). L'intera opera lucana, quindi, vangelo e Atti degli Apostoli, è inclusa dall'annuncio che la salvezza è rivolta indistintamente a tutti gli uomini. Il senso di questa inclusione viene rafforzata dall'attestazione che Pietro rivolge a Cornelio e che sottolinea una volta di più l'universalità della salvezza: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga” (At 10,34-35). La tensione dell'intera opera lucana, sottesa da un profondo dinamismo che è caratteristico del missionario, si apre ad un abbraccio universale, che supera i ristretti limiti della Palestina e i problemi del giudeocristianesimo a cui, invece, sono radicati gli altri tre evangelisti, in particolare Matteo e Giovanni. La visione che Luca ha della Chiesa non è concreta, né legata ad una particolare situazione storica, ma è ideale ed è magistralmente dipinta in At 2,42-48, 4,32-35 e 5,11-16. I destinatari dell'annuncio non sono mai alcune comunità, come si percepisce negli altri tre evangelisti, ma sono le folle, la gente, il popolo che in massa accorrono e si convertono (At 2,41; 3,11-12; 4,10.32; 5,12-13.20; 13,44). La cornice storica e politica entro cui egli cala il suo racconto è quella universale (Lc 2,1-2), mentre il contesto in cui viene calato l'annuncio è quello profano, cioè quello proprio degli uomini, colti nella loro dimensione storica del momento, senza addentellati religiosi (Lc 3,1-2). L'annuncio dell'opera lucana, pertanto, s'innesta nella storia degli uomini, s'intreccia con essa e con essa cammina, rivolgendosi e proponendosi a chiunque lo voglia ascoltare, poiché “[...] Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). Difficile, dunque, pensare che il racconto lucano sia rivolto ad una o più comunità credenti, di cui egli sia in qualche modo il responsabile. Il vangelo di Luca è un annuncio aperto al mondo e all'universalità. Del resto l'intera sua opera, Vangelo ed Atti, sono dedicati a Teofilo, un greco, probabilmente assunto qui a simbolo di quel mondo ellenistico a cui Luca intende rivolgersi. Se l'autore avesse inteso ad indirizzare la sua opera ad una qualche comunità l'avrebbe certamente fatto qui nel suo prologo introduttivo, come Paolo usava fare nel prescritto delle sue lettere, precisando a chi queste erano indirizzate.
La macrostruttura e la struttura narrativa del vangelo lucano
Luca è un greco, la sua cultura ellenistica lo colloca fuori dalla sfera giudaica. Diverso pertanto è il suo modo di narrare e di strutturare il suo pensiero, che si presenta lineare e scorrevole, dove il passaggio da un racconto ad un altro è reso impercettibile, creando una continuità narrativa avvincente. Ben diverso, dunque, da Matteo e Marco, che ricorrono sovente, in particolar modo Matteo, ai giochi della retorica ebraica, come l'inclusione o l'esposizione del pensiero a parallelismi concentrici o a sentenze inquadrate e dove la continuità narrativa è affidata a giochi redazionali molto evidenti e primitivi, quasi da sfiorare la giustapposizione delle diverse unità narrative, la quale cosa dà l'idea più di una raccolta di detti ed episodi messi lì in qualche modo, più che ad una vera e propria narrazione sottesa da una logica narrativa, quasi una sorta di trama che dà unitarietà alla narrazione stessa. È pertanto inutile cercare in Luca simili giochi. Luca è un greco che scrive ai greci e ad un mondo pagano ellenizzato, che hanno una cultura e una struttura di pensiero completamente diversa dal mondo giudaico. Tuttavia, non si deve pensare che Luca nell'esporre il suo racconto non sia ricorso ad una esposizione narrativa ordinata, per rendere logica ed efficace la sua narrazione. Il suo riferimento narrativo, infatti, è il vangelo di Marco, che segue liberamente, togliendo o aggiungendo del materiale o adattandolo alle sue esigenze teologiche e di pubblico, a cui è destinato, inserendovi sia consistente materiale proprio (sondergut) che quello mutuato dalla fonte Q, l'ipotetica fonte che raccoglie i logia e le parabole di Gesù, e che ha in comune con Matteo. Non esita tuttavia a tagliare drasticamente consistenti parti del vangelo marciano, come la grande omissione Mc 6,45-8,26, ed altre pericopi o intere sezioni, che contengono prevalentemente materiale di scarso interesse per il suo pubblico pagano, come le diatribe riguardanti la purificazione giudaica (Mc 7,1-23), il ritorno di Elia (Mc 9,11-13) o la questione sul divorzio (10,1-12). Omette anche racconti che hanno del meraviglioso come la maledizione del fico (Mc 11,12-14), le guarigioni di un sordomuto e di un cieco con la saliva (Mc 7,31-37; 8,22-26) o che possono creare delle difficoltà teologiche, gettando delle ombre sulla figura di Gesù, come l'episodio dei suoi familiari, che giungono a Cafarnao per riportarselo a casa perché lo ritenevano fuori testa (Mc 3,20-21), mentre la conseguente dura reazione di Gesù, che li esclude dalla cerchia dei suoi discepoli, ivi compresa sua madre, (Mc 3,31-35), viene da Luca notevolmente ammorbidita e resa impercettibile nella sua durezza originale (Lc 8,19-21). Ma non sono le uniche manipolazioni che il vangelo marciano ha subito da Luca: molti episodi vengo invertiti o spostati rispetto al procedere del vangelo marciano per motivi prevalentemente teologici e/o narrativi.
Il vangelo di Marco, pertanto, è servito a Luca sia come fonte che come schema narrativo, su cui ha autonomamente elaborato il proprio vangelo. In buona sostanza, Luca raccoglie il vangelo di Marco, quello sopravvissuto ai suoi tagli, in quattro grandi blocchi intervallati da materiale proprio e dalla fonte Q, come meglio si può comprendere dallo schema proposto e qui di seguito riportato37.
Sezioni marciane di Luca e sezioni lucane
Sezioni marciane di Lc con integrazioni lucane |
Sezioni lucane (materiale proprio + Q) |
Lc 3,1-6,19
Lc 8,4-9,50 Lc 18,15-19,27 Lc 19,28-24,53 |
Corrisponde a Mc 1,2-3,10 con inserzione di materiale lucano in 3,7-14; 3,23-28; 5,1-11 con materiale Q in 3,18-17; 4,1-13 Corrisponde a Mc 4,1-9,41. Lc tuttavia omette Mc 6,45-8,26; è la grande omissione. Corrisponde a Mc 10,13-52. Qui Lc inserisce l'episodio di Zaccheo (19,1-10) Corrisponde a Mc 11-16. Tuttavia qui Lc aggiunge di proprio 19,41-44; 22,28-38; 23,6-16 |
Capp. 1-2: racconti dell'infanzia; Lc 6,20-8,3: le beatitudini, guarigione del servo del centurione, risurrezione del figlio della vedova di Nain, discorso sul Battista, racconto della peccatrice perdonata, la sequela delle donne. Questa sezione è definita come il “piccolo inserto”. Lc 9,51-18,14: il viaggio verso Gerusalemme. Questa ampia sezione è definita il “grande inserto”. |
Qui di seguito, proponiamo la suddivisione del vangelo lucano in sei grandi aree narrative, in cui il pensiero dell'autore è stato distribuito (macrostruttura) e le modalità dinamiche con cui questo si è svolto al loro interno (struttura).
La macrostruttura del vangelo lucano
1) I prologhi (1-2)
2) La missione in Galilea (3,1-9,50)
3) Il viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28)
4) L'attività missionaria a Gerusalemme (19,29-21,38)
5) La passione e la morte (22-23)
6) La risurrezione (24)
La struttura narrativa del vangelo lucano
All'interno delle sei grandi aree narrative, l'autore sviluppa dinamicamente il suo racconto, che è portatore di un messaggio di salvezza rivolto a tutti gli uomini, in particolare al mondo pagano. Prenderemo pertanto in esame il titolo di ogni sezione e ne esporremo il contenuto e la sua dinamica.
1) I prologhi (1-2)
- Prologo introduttivo (1,1-4)
- Prologo al Vangelo (1,5-2-80)
2) La missione in Galilea (3,1-9,50)
Preambolo introduttivo (3,1-4,13)
- La missione del Battista (3,1-20)
- Prologo introduttivo alla missione di Gesù (3,21-4,13)
La missione di Gesù in Galilea (4,14-9,50)
vv. 4,14-15: versetti di transizione: dal preambolo introduttivo (3,1-4,13) all'attività missionaria in Galilea;
vv. 4,16-30: esordio fallimentare dell'attività missionaria nella sinagoga di Nazareth;
vv. 4,31-44: da Nazareth (4,16) a Cafarnao (4,31) dove predica e libera nella sinagoga un indemoniato.
vv. 5,1-6,49: attività nei pressi del lago di Genesaret (5,1): pesca miracolosa e sequela (5,1-11); guarigione di un lebbroso (5,12-16); guarigione di un paralitico e diatriba sulla remissione dei peccati (5,17-26); chiamata e sequela di Levi e banchetto con i pubblicani contestato dai farisei (5,27-32); da qui la diatriba sul digiuno e l'affermazione di principio dell'inapplicabilità dei criteri veterotestamentari alle logiche neotestamentarie per la loro inadeguatezza. Necessita quindi un radicale cambiamento di mentalità (5,33-39). Necessità di cambiamento che viene sottolineata in 6,1-11 sul modo di intendere il sabato.
vv.6,12-49: costituzione del gruppo dei Dodici denominati apostoli (6,12-16) e raccolta di detti sapienziali: le beatitudini e le contro beatitudini (6,17-26) ed altri detti sapienziali (6,27-49), che delineano il nuovo credente e la nuova umanità, predicata da Gesù.
vv.7,1-16: Gesù rientra a Cafarnao (7,1) dopo la sua attività sulle rive del lago di Genesaret (5,1). A Cafarnao: guarigione del servo del centurione (7,2-10) e da qui va Nain dove risuscita il figlio di una vedova (7,11-16).
vv. 7,17-50: Gesù rivela la sua identità ai messaggeri del Battista (7,18-23) e ne dà testimonianza alle folle (7,24-28). La risposta positiva dei pubblicani e quella negativa dei farisei e dottori della legge (7,29-30) diviene occasione per Gesù per strigliare l'ipocrisia di questi ultimi (7,31-35). Da qui il racconto del fariseo che invita Gesù a pranzo a casa sua dove gli si avvicina una peccatrice, finalizzato a mettere in rilievo sia l'ipocrisia dei farisei che i diversi parametri di valutazione di Gesù, fondati sull'amore, la misericordia e il perdono, anziché sulla condanna (7,36-50).
vv. 8,1-3: Intermezzo: al costituito gruppo dei Dodici in 6,13-16 si affianca ora il gruppo di donne che servono Gesù e lo accompagnano nel suo itinerare.
vv.8,4-21: la parabola del buon seminatore, raccontata alle folle e spiegata ai suoi e chi sono i veri parenti di Gesù.
vv. 8,22-39: la burrascosa traversata del lago verso la regione dei Geraseni, dove gli viene incontro un indemoniato che guarisce a danno di una mandria di porci e la reazione negativa dei Geraseni che rifiutano Gesù.
vv. 8,40-56: dalla regione dei Geraseni Gesù torna indietro dove lo attende e lo accoglie una folla. Qui compie la guarigione dell'emorroissa e risuscita della figlia di Giairo, entrambe restituite alla vita.
vv. 9,1-50: Questa sezione è preparatoria al viaggio verso Gerusalemme e il tema della passione, morte e risurrezione torna continuamente in ogni pericope. In 6,13-16 Gesù aveva costituito il gruppo dei Dodici e qui dà loro potere e autorità sulle forze del male e la capacità di guarire, nonché li invita ad annunciare il regno di Dio, dettando le regole della loro missione (9,1-6), che parte da Gesù e a Gesù deve ritornare (9,10). Gesù, dunque, in previsione della sua dipartita, lascia ai Dodici la sua eredità, invitandoli a proseguire la sua missione con la sua stessa autorità. Sarà questa la logica su cui fonda l'intero impianto teologico ed ecclesiologico degli Atti degli Apostoli.
In 9,7-9 compare la figura di Erode, altro protagonista della passione e morte di Gesù e in quel “cercava di vederlo” (9,9b) viene messa la premessa al v. 23,8, che si richiamerà a questa pericope (9,7-9).
In 9,11-17 con il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci Luca anticipa in qualche modo l'ultima cena, espressamente richiamata dal v.9,16, ma saranno i discepoli e non Gesù a distribuire il pane benedetto e spezzato, ricevuto direttamente da Gesù. Un gesto, quest'ultimo, che richiama la formula “fate questo in memoria di me” (22,19). La prospettiva qui, con i vv. 9,1-6.11-17, è quella post-pasquale, il tempo della chiesa.
9,18-36: l'identità di Gesù, quale “Cristo di Dio” (vv.18-20), è strettamente legata alla sua passione, morte e risurrezione (vv.21-22), così come la sequela e il discepolato (v.23); diversamente il discepolo verrà disconosciuto (vv.24-28). Mentre la trasfigurazione (vv.28-36) precisa il senso del patire, morire e risorgere di Gesù, che ritorna al Padre; un ritorno definito “esodo in Gerusalemme”, un esodo che viene prefigurato nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme, luogo dove questo esodo, iniziato al v.51, trova il suo compimento nella risurrezione-ascensione, che dicono il definitivo ritorno di Gesù al Padre, da cui era uscito per compiere la sua volontà (22,42).
9,37-45: il significato della passione, morte e risurrezione viene drammatizzato nella liberazione di un ragazzo posseduto dal demonio: una lotta tra satana e Dio, che si compie nel dramma della passione, morte e risurrezione, finalizzate alla liberazione dell'uomo dal potere di Satana, che in e con Gesù viene riconsegnato al Padre. Una lotta che richiama da vicino Gv 12,31; 14,30; 16,11.
9,45-50: si definisce il giusto atteggiamento che deve qualificare il discepolo: no a rivalità e ricerca di potere (vv.46-48), né a settarismi (vv. 49-50). È il giusto atteggiamento di servizio che qualifica il patire, morire e risorgere di Gesù, quale servizio di redenzione per l'uomo.
3) Il viaggio verso Gerusalemme (9,51- 19,28)
Questa sezione è caratterizzata dalla presenza di raccolte di detti di Gesù, sotto forma di discorsi, e il cui contenuto sapienziale e meditativo si incentra sul senso del patire e del morire di Gesù e sulla sequela; e da racconti che drammatizzano il senso della compassione e della misericordia di Dio, che trovano la loro massima espressione nella passione, morte e risurrezione di Gesù e che nel loro insieme richiamano Gv 3,16, nonché della giusta risposta esistenziale che deve essere data al sacrificio di Gesù.
9,51-62: La missione di Gesù è incentrata sulla misericordia e non sulla giustizia vendicativa (vv.51-56); quali devono essere i tratti della sequela: distacco dalle cose e dagli affetti; determinata e decisa, senza ripensamenti (vv.57-62). Vengono qui preannunciate le due tematiche di fondo che sottendono il viaggio verso Gerusalemme.
10, 1-20: l'invio in missione dei 72 e le regole che l'accompagnano e le sue caratteristiche qualificanti;
10,21-24: Gesù rivelazione del Padre riservata agli umili;
10,25-37: la regola di vita: amare Dio e il prossimo. Con la parabola dell'uomo incappato nei briganti viene ridefinito il concetto di prossimo: non è l'altro, ma tu che ti fai prossimo all'altro;
10,38-42: Marta e Maria: la cosa più importante non è il fare, ma l'ascolto accogliente della Parola di Dio;
11,1-13: l'oggetto della preghiera definito nella preghiera del “Padre nostro”; e come essa deve essere: insistente e perseverante;
11,14-26: la liberazione di un indemoniato con la potenza di Dio diviene il segno della presenza del regno di Dio in mezzo agli uomini: diatriba circa il potere di Gesù sul demonio;
11,27-28: la vera beatitudine: ascoltare la parola di Dio e custodirla;
11,29-54: Gesù è ben più di Giona e di Salomone: l'incredulità di Israele sarà oggetto di condanna da parte dei pagani, che invece hanno creduto (vv.29-32). L'incapacità di vedere da parte di Israele la luce che Dio aveva acceso con le Scritture e di coglierne il vero significato a motivo della sua perversità (vv.33-36), che viene di seguito denunciata ed esemplificata (vv.37-54).
12,1-3: Prosegue idealmente la requisitoria contro la perversità religiosa dei Farisei e dottori della Legge, sollecitando le folle a guardarsi dall'ipocrisia delle autorità religiose, adottando, invece, un comportamento autentico, poiché tutti i sotterfugi verranno smascherati.
12,4-12: il rifuggire dall'ipocrisia e dalla doppiezza del vivere, che verrà comunque smascherata, porta Luca a sollecitare i discepoli di Gesù ad essere coerenti con la loro propria vita di discepoli fino alla testimonianza estrema, senza timori, poiché beneficeranno dell'assistenza dello Spirito.
12,13-59: questa ampia pericope affronta in termini crescenti e da diverse angolature un unico tema: l'atteggiamento del discepolo nei confronti dei beni della terra: si parte con la condanna della cupidigia, che spinge alla ricerca e alla preoccupazione dei beni terreni, sia pur legittimi, come il mangiare, il bere, il vestire, dimenticando il bene essenziale: il regno di Dio (vv.13-31). Ne segue il sollecito paradossale a liberarsi dei beni terreni dandoli in beneficenza, per lasciare libera la ricerca dei beni spirituali, che albergano nel proprio cuore e nella propria vita e che non sono soggetti al deperimento (vv.32-34). Di conseguenza, al fine di evitare ogni deviazione, si rende necessaria una vita fondata sulla vigilanza, che si traduce in una vita orientata a Dio, quale bene supremo, nell'attesa del suo ritorno (vv.35-40). Sullo stile di vita adottato, pro o contro Dio e a favore dei beni materiali, si instaurerà il giudizio divino (vv.41-48). Questo è il nuovo messaggio che Gesù è venuto a portare a tutti gli uomini, per nulla facile, anzi creerà divisioni e contrasti all'interno delle stesse famiglie e nelle relazioni parentali (vv.49-53). Da qui il sollecito a saper interpretare i segni dei tempi e a valutare attentamente ciò che è giusto fare (vv.54-57), mentre c'è ancora tempo, poiché, dopo, c'è solo il giudizio e la condanna (vv.58-59).
13,1-17: Sull'onda di due episodi che dovevano aver impressionato molto il popolo (l'uccisione di alcuni Galilei da parte di Pilato e il crollo di una torre che uccise 18 persone), Gesù ne dà la corretta interpretazione: queste persone non sono morte perché più peccatrici di altre, ma tuttavia chi non si pente e non si converte farà la stessa fine (vv.1-5). Affermato il principio, ora Gesù lo drammatizza con la parabola del fico infruttifero (vv.6-9). Segue l'ennesima diatriba sul sabato, a testimonianza di questa incapacità di ripensare, in termini nuovi e spiritualmente più evoluti, la propria fede veterotestamentaria, che non va oltre la lettera, non cogliendone il senso più autentico (vv.10-17).
13,18-22: Luca propone ora due parabole del regno: quella del chicco di senape e del lievito che fa fermentare tutta la pasta, definendone sia l'ampiezza, con la prima; sia l'efficacia, con la seconda.
13,23-30: Il salvarsi non è un fatto scontato, ma un impegno esistenziale costante ed autentico, poiché non serve a nulla l'aver praticato o l'essersi fregiati del titolo di discepoli o l'aver conosciuto e frequentato Gesù.
13,31-35: Dei Farisei mettono in guardia Gesù su Erode, che ha propositi omicidi nei suoi confronti. Ma Gesù non lo teme, poiché finché la sua missione non sarà compiuta nulla potrà succedergli. Non è possibile, infatti, che un profeta muoia fuori da Gerusalemme. Da qui il lamento su Gerusalemme, che ha rifiutato l'invito di Gesù, che desiderava creare un grande movimento escatologico per ricondurre il popolo della promessa al Padre. Il rifiuto di Israele gli costerà la salvezza.
14,1-24: All'interno della cornice di un pranzo, avvenuto di sabato, a cui Gesù è invitato da uno dei capi dei Farisei, Luca assembla assieme quattro episodi dal sapore sapienziale: nell'andare, Gesù guarisce un idropico (vv.1-6); all'inizio del banchetto, vedendo gli invitati accaparrarsi i primi posti, espone una breve riflessione, che si conclude con un detto sapienziale (vv.7-11); rivolgendosi, poi, al padrone di casa, lo invita ad essere generoso con chi non lo può contraccambiare, ricevendo in tal modo una ricompensa nella risurrezione (vv.12-14); ed infine, rispondendo ad uno dei commensali, che dichiarava beato chi mangerà il pane del regno, racconta la parabola di quel signore che, vistosi rifiutare l'invito a pranzo da parte dei suoi amici, lo apre a tutti gli altri sfortunati. Una netta condanna al rifiuto di Gesù da parte di Israele (vv.15-24).
14,25-35: Il contesto in questa pericope cambia completamente: molte folle si accompagnano a Gesù e lo seguono. È questa l'occasione in cui Luca sviluppa una riflessione di tipo sapienziale sulla determinazione che deve accompagnare la sequela a Gesù: chi segue Gesù deve considerarlo superiore a tutto, sia agli affetti più cari, alla sua stessa vita che ai suoi beni, dai quali deve distaccarsi completamente.
15,1-32: l'intero capitolo 15 è dedicato alla misericordia di Dio che va alla ricerca di chi è perduto. Il capitolo si apre con i pubblicani e i peccatori che accorrono a Gesù, tra lo scandalo dei Farisei e degli scribi (vv.1-2). Seguono quattro parabole monotematiche: il ritrovamento della pecora perduta (vv.4-7); la gioia della donna che ritrova la dracma perduta (vv.8-10); il figlio perduto e ritrovato, accolto gioiosamente e festosamente dal padre tra i rimbrotti del figlio maggiore (vv.11-32).
16,1-15: il cap.16 si apre con la parabola dell'amministratore infedele, che sollecita i credenti ad essere accorti in mezzo agli uomini e ad agire con accortezza e determinazione in questo mondo in prospettiva di quello futuro, di cui essi sono figli, usando dei beni di questo mondo saggiamente e in modo compatibile con le esigenze del mondo futuro, poiché non è possibile servire il denaro e Dio nello stesso tempo, essendo realtà diametralmente opposte. La prospettiva è non quella di servire il denaro o i beni terreni, ma di servirsi di questi per raggiungere Dio. Fedeltà a Dio, dunque, pur servendosi dei beni materiali. La parabola e la conseguente riflessione, pur essendo rivolte ai discepoli (v.1a), diviene anche occasione di condanna per la classe farisaica, dedita invece al denaro.
16,16-18: Il principio enunciato nei vv.1-15, viene giustificato dal fatto che si prospetta per l'uomo una nuova era: non più quella della lettera della Legge, ma della Parola di Dio, autenticamente interpretata dalla Parola stessa. Il Battista, infatti, costituisce lo spartiacque tra il Primo e il Secondo Testamento e con quest'ultimo uno nuovo tempo si apre davanti all'uomo (v.16), mentre quello precedente, pur conservando tutta la sua validità (v.17) va ricompreso alla luce di quello nuovo. In questa nuova prospettiva, va ricompreso e riformulato il diritto al divorzio della Legge mosaica (v.18).
16,19-31: La parabola del ricco e di Lazzaro riprende il tema dell'uso dei beni terreni, visti in prospettiva escatologica, e ne trae le conseguenze, indicando nelle Scritture la via maestra verso la salvezza (vv.29-31).
17,1-37: il cap.17 è una raccolta di riflessioni sapienziali e di sentenze a temi diversi, giustapposti l'uno all'altro: il perdono (vv.1-4); la fede (vv.5-6); il doveroso impegno nel discepolato (vv.7-10); la riconoscenza e il ringraziamento a Dio per la salvezza provengono dai pagani e non dal popolo eletto (vv.11-19); la venuta del Regno di Dio e il contesto escatologico in cui avviene (vv.20-37).
18,1-30: similmente al cap.17 anche il cap.18 si caratterizza quale raccolta di detti di Gesù incorniciati all'interno di racconti e parabole o da un susseguirsi di domande finalizzate a sviluppare e ad approfondire il tema. Si ha, pertanto, il racconto della vedova e il giudice iniquo, che sottolinea l'importanza di una preghiera insistente (vv.1-8); il Fariseo e il pubblicano, per una preghiera fondata sull'umiltà, poiché nessuno è giusto davanti a Dio (vv.9-14); Gesù e i bambini, i prediletti del Regno (vv.15-17); l'uomo ricco e la sequela, ossia la salvezza conseguita attraverso l'osservanza della Legge, ma la perfezione soltanto nella sequela, che richiede l'abbandono di tutti i beni per dedicarsi totalmente a Dio (vv.18-30).
18,31-43: l'incapacità dei discepoli di comprendere il destino di passione, morte e risurrezione di Gesù (vv.31-34) viene drammatizzata nel cieco di Gerico (vv.35-43).
19,1-28: con questa sezione termina il lungo racconto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, mettendo in rilievo due aspetti della salvezza con altrettanti racconti. Entrato in Gerico Gesù incontra Zaccheo, che lo accoglie benevolmente, operando in se stesso un radicale cambiamento, evidenziando la primaria missione di Gesù: “Infatti il Figlio dell'uomo venne a cercare e salvare ciò che era perduto” (vv.1-10). Il secondo racconto (vv.11-28), che si muove su di uno sfondo escatologico, rileva, da un lato, l'importanza dell'attivarsi per mettere a frutto il tempo e le proprie risorse nell'attesa della venuta del Signore; dall'altro, il giudizio finale che condanna l'ignavia di chi non ha saputo mettere a frutto il dono della fede, ricevuto nella parola e nel battesimo. Il racconto termina con una stoccata finale di condanna al popolo eletto che ha rifiutato l'inviato stesso di Dio (v.27). Il v.28 chiude la lunga sezione del viaggio verso Gerusalemme, iniziatosi in 9,51 con Gesù, che davanti a tutti, sale a Gerusalemme.
4) L'attività missionaria a Gerusalemme (19,29-21,38)
19,29-48: Gesù, giunto nei pressi di Gerusalemme, discendendo dal monte degli Ulivi,viene accolto trionfalmente dalla “moltitudine dei suoi discepoli”, che lo acclamano re e messia tra i rimbrotti dei Farisei, che contestano la titolatura data dai suoi discepoli a Gesù. Ed è qui, ormai quasi giunto a Gerusalemme, che piange su di essa per la sua imminente distruzione da parte delle legioni romane, che avverrà nel 70 d.C., ma in realtà, all'epoca della redazione del vangelo lucano, già avvenuta. Si tratta, quindi, di una lettura dell'evento retrospettiva. Ed entrato nel tempio ne caccia i venditori, provocando la reazione omicida dei sommi sacerdoti, degli scribi e dei capi del popolo.
20,1-21,38: Il Tempio di Gerusalemme forma da cornice a questi due capitoli (20,1.21,1.37-38), che sono una sorta di contenitore di diverse unità letterarie, caratterizzate sia da uno sfondo polemico (20) che escatologico (21). La sezione si apre ponendo la questione sull'origine dell'autorità di Gesù (20,1-8); Israele sarà privato del suo privilegio di popolo eletto a motivo della sua pervicace e invincibile incredulità (20,9-16), che tornerà a loro condanna (20,17-19); seguono due diatribe: sul tributo a Cesare (20,20-26) e sulla risurrezione (20,27-40); il messianismo davidico è proprio di Gesù (20,41-44); accuse di condanna contro l'arroganza e l'avidità degli scribi (20,45-47), a cui fa riscontro l'umiltà e la semplicità di una vedova, che getta nel tesoro del Tempio tutto il suo povero avere: due monetine (21,1-4). L'ammirazione per la bellezza del Tempio funge da motivo introduttivo al grande discorso escatologico, che si conclude con una pressante esortazione alla vigilanza (21,5-38).
5) La passione e la morte (22,1-23,56)
22,1-23,56: I due capitoli formano la sezione della passione e morte di Gesù, suddivisi in diversi quadri narrativi, che hanno come elemento unificante la figura di Gesù. Il cap. 21 si apre con due prologhi introduttivi alle vicende del cap.21: prologo introduttivo all'arresto di Gesù (22,1-6); prologo introduttivo all'ultima cena (22,7-13); l'ultima cena (22,14-38); gli eventi del Getsemani: l'agonia di Gesù (22,39-46) e il suo arresto (22,47-54); il rinnegamento di Pietro (22,55-62); Gesù in balia dei soldati e del Sinedrio, che lo accusa di blasfemia (22,63-71). Il cap.23 costituisce la seconda parte della sezione della passione e morte, che ha come ambientazione Pilato ed Erode, sospinti alla condanna di Gesù da parte dei Giudei (23,1-12.13-25) e gli eventi del Golgota (23,33-48). Questa seconda parte si apre con Gesù trascinato davanti a Pilato e le accuse di sedizione mossegli contro, non riscontrate da Pilato (23,1-5), che lo invia da Erode, che lo rimanda a Pilato (23,6-12), che dichiara innocente Gesù sia da parte sua che da parte di Erode (23,13-16); i Giudei con grida minacciose invocano la condanna di Gesù, che, infine, Pilato concede (23,17-25); il viaggio al Calvario, inframmezzato dai racconti del Cireneo e delle donne di Gerusalemme piangenti (23,26-32); la crocifissione e morte di Gesù tra la derisione da parte delle autorità religiose e di uno dei due malfattori, da un lato, e la supplica, esaudita, del secondo malfattore e la dichiarazione di fede del centurione (23,33-48); la deposizione dalla croce e la sepoltura del corpo di Gesù (23,49-56).
24,1-53: L'annuncio della risurrezione di Gesù alle donne, recatesi al sepolcro, da parte degli angeli, confermato da Pietro (24,1-12); prima apparizione del Risorto ai due discepoli di Emmaus (24,13-35); seconda apparizione del Risorto ai discepoli, riuniti nel cenacolo, e affidamento della missione (24,36-49); assunzione di Gesù al cielo (24,50-53).
Il concetto di salvezza nella visione di Luca è contenuto tutto nei primi quattro capitoli del suo racconto e si snoda all'interno di tre parametri fondamentali che ne caratterizzano il pensiero: la dimensione spaziale, quella temporale, i destinatari della salvezza. Il tutto ruota attorno a Gerusalemme e la sacralità del suo Tempio ed è sotteso dal persistente concetto di universalità, che travalica i ristretti confini del Giudaismo, pur radicandosi in esso, per espandersi “all'intera terra abitata” (2,1).
La centralità di Gerusalemme
Innegabile la centralità di Gerusalemme nelle prospettive lucane della salvezza. Essa ne è il cuore pulsante. Già il numero di volte con cui viene citata rivela il particolare interesse che l'autore mostra nei suoi confronti: 31 volte su 68 volte che compare nei quattro evangelisti38. Non è un caso, infatti se il racconto di Luca si apre proprio a Gerusalemme con la scena liturgica dell'incenso bruciato, che apre ed accompagna le offerte e i sacrifici il mattino e alla sera. In questo sacro contesto ha inizio la storia di Luca, che si chiude sempre a Gerusalemme, che diviene il luogo da cui si diparte e si irradia l'annuncio della salvezza rivolto a tutte le genti (24,47). Una sorta di inclusione che abbraccia l'intero racconto lucano e fa di Gerusalemme la capitale storica della salvezza offerta all'intera umanità. Una stretta associazione lega, fin dall'inizio, la figura di Gesù a Gerusalemme e al Tempio. Tutti gli eventi più significativi riguardanti la salvezza accadono in Gerusalemme e spesso sono associati al Tempio. L'annuncio della nascita di Giovanni avviene nel Tempio di Gerusalemme (1,8-17); Gesù è presentato al Tempio e qui è offerto al Padre, un'offerta che è associata ad un sacrificio (2,22-24), quasi un preludio di quanto avverrà, proprio a Gerusalemme (23,33.46). E proprio qui nel Tempio, a Gerusalemme, in un contesto di offerta e di sacrificio, viene riconosciuto quale salvatore universale dal vecchio Simeone (2,30-31) e potenza liberatrice dalla profetessa Anna (2,38). E sempre qui, a Gerusalemme, sempre nel Tempio, Gesù vi tornerà all'età di dodici anni in un contesto pasquale (2,42) dove egli dichiarerà ai suoi smarriti genitori di dover compiere il disegno del Padre (2,49b); un disegno che prevede che proprio a Gerusalemme egli venga perduto per la durata di tre giorni e soltanto al terzo giorno egli venga ritrovato dai suoi (2,46), preannunciando qui, in qualche modo, l'evento della risurrezione. Significativo, poi, come termina la terza prova, in cui Gesù viene condotto a Gerusalemme sulla parte più alta del Tempio e qui sollecitato a compiere il gesto che lo avrebbe rivelato Figlio dell'Altissimo39. Ma la strada che egli deve percorrere è ben diversa (4,9). Sempre qui a Gerusalemme satana tornerà al tempo opportuno per compiere il suo tradimento (4,13; 22,3-6). Gerusalemme, quale luogo in cui Gesù tornerà al Padre, che qui Luca definisce come “esodo”, diviene oggetto di discussione tra Mosè ed Elia nel racconto della trasfigurazione (9,30-31). Questa significativamente viene collocata qui al cap.9, poco prima che inizi il racconto del lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove si compirà l'esodo preannunciato e che occuperà ben dieci capitoli (9,51-19,28). Un viaggio in cui si respira una forte tensione verso Gerusalemme. Un viaggio che inizia e termina con il nome di Gerusalemme (9,51.18,28), formando in tal modo una inclusione, che dà unità e compattezza all'intero racconto. Un viaggio durante il quale l'autore ricorderà più volte che Gesù è in cammino verso Gerusalemme (9,51.53; 13,22; 17,11; 19,11.28); ed egli ricorderà più volte il senso di questo suo andare a Gerusalemme (13,33; 18,31.33), associando in tal modo Gerusalemme agli eventi della salvezza. A Gerusalemme, infine, si compiranno i misteri della salvezza della morte e risurrezione di Gesù, il quale ricondurrà a Gerusalemme i delusi e smarriti discepoli, che da Gerusalemme si stavano allontanando verso Emmaus. Lì, a Gerusalemme, dunque, tutti devono ritornare, poiché a Gerusalemme riceveranno l'unzione dello Spirito (At 1,4) e da lì espandersi verso tutte le genti (At 1,8). Per Luca, dunque, Gerusalemme diviene il fulcro in cui si compie e da cui si irradierà la salvezza fino ai confini della terra.
Le coordinate spazio-temporali della salvezza
Per Luca la salvezza non è un concetto teologico astratto, ma, in quanto salvezza spesa a favore degli uomini, essa è incarnata e resa raggiungibile a loro. Ecco, dunque, come gli eventi, in cui questa salvezza si manifesta, si attua ed opera, sono circoscritti all'interno di coordinate storiche che la caratterizzano. Luca si qualifica da subito come uno storico che vuole narrare “i fatti compiutisi in mezzo a noi” (1,1) e che sono posti a fondamento della fede (1,4), che si radica, pertanto, in eventi storici. Si tratta, quindi, di fatti, di eventi compiutisi “in mezzo a noi”. Un'espressione questa che richiama da vicino quella giovannea che vede come “la Parola divenne carne e si attendò tra noi” (1,14a). Qui nella storia, dunque, nel nostro habitat naturale. Il racconto, pertanto, si apre subito con un accostamento storico significativo: da un lato Erode, re della Giudea (1,5a), che forma il contesto storico-profano in cui si compie un evento sacro: Zaccaria, un sacerdote della classe di Abia, colto mentre sta officiando nel Tempio di Gerusalemme (1,5b.8-9). Fin da subito, dunque, Luca presenta le coordinate entro cui si muove la salvezza che egli intende narrare: vi è una storia profana, significata da Erode, entro cui ha inizio, si attua e si muove una storia sacra, quella storia che è stata pensata da Dio a favore degli uomini e qui rappresentata da Zaccaria, un sacerdote officiante e depositario di una promessa di salvezza. Due storie, quindi, che si muovono non in modo parallelo, ma sovrapponendosi l'una nell'altra, compenetrandosi l'una nell'altra. Circa sei mesi dopo l'inizio della storia sacra, questa prosegue a Nazareth, una città della Galilea dove vive una fanciulla di nome Maria, fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe, discendente del casato davidico. In questo contesto viene gettato un altro seme. Anche qui, come là, vengono fornite le coordinate storico-geografiche entro cui continua la storia della salvezza o, per meglio dire, entro cui la salvezza si fa storia ed assume il volto concreto della storia. Si tratta di due racconti, di due storie che Luca, ora, intende far incontrare e annodare tra loro, in un reciproco riconoscimento: “In quei giorni Maria, alzatasi, partì con sollecitudine verso una (regione) montuosa, in una città della Giudea, ed entrò nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta” (1,39-40). Anche qui, luoghi, personaggi, eventi, storia di uomini, che diventa storia di Dio, di un Dio che si storicizza in mezzo agli uomini, per rendersi raggiungibile da loro e meglio comprensibile, parlando lo stesso linguaggio che è loro proprio.
Ed ora un altro evento: quel seme di salvezza gettato nel silenzio in quella fanciulla di Nazareth sta per svelarsi in mezzo agli uomini. Il contesto storico qui creato da Luca è altisonante: un censimento di tutta la terra abitata indetto da Cesare Augusto, mentre Quirino governava la Siria. L'evento salvifico viene incorniciato all'interno di un altro evento umano dalle dimensioni universali, preludendone in qualche modo la sua universalità. All'interno di questo evento storico universale Luca associa un altro evento storico, la cui sacralità si radica nella stessa profezia40: “Ora salì anche Giuseppe dalla Galilea, da(lla) città di Nazareth, alla Giudea, in una città di Davide, che si chiama Betlemme, poiché egli era dalla casa e dalla discendenza di Davide” (2,4). Ancora una volta la storia umana diventa il palcoscenico di quella sacra; ancora una volta gli eventi salvifici assumono il volto di quella umana. Per Luca la storia umana diventa il luogo del realizzarsi degli eventi divini, dando concretezza storica alla salvezza.
Similmente, l'apparire sulla scena del Battista è introdotto all'interno di una sostanziosa cornice storica, descritta minuziosamente, a cerchi concentrici, quasi a voler focalizzare l'attenzione sull'evento salvifico, qui posto al termine della lunga enumerazione del quadro storico e politico e rappresentato dalla figura del Battista e dal suo annuncio: “Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, governando Ponzio Pilato la Giudea ed Erode tetrarca della Galilea, inoltre Filippo, suo fratello, tetrarca della Iturea e della regione della Taconitide e Lisania tetrarca dell'Abilene, sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa, si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto” (2,1-2). Questa insistenza circa le cornici storiche entro cui collocare gli eventi storici della salvezza lascia intendere come Luca, da un lato, rimanga fedele al suo ruolo di narratore storico (1,1-4); dall'altro come egli concepisca la salvezza universale come una potenza divina sacramentata nella storia stessa dell'uomo, anzi ne assume la configurazione, divenendo, pertanto, storia sacra e salvifica nello stesso tempo. In questa visione la storia per Luca diviene lo strumento e il luogo salvifico e di riscatto per tutti gli uomini.
L'oggi della salvezza
L'avverbio temporale “oggi” (s»meron, sémeron) ricorre in Luca undici41 volte ed è quasi sempre legato ad un evento salvifico. La salvezza per Luca non solo si attua nella storia e per suo mezzo, ma essa si compie “oggi”. Non vi sono in Luca prospettive escatologiche o una qualche attesa di un ritorno imminente del Signore. Per lui, credente di seconda o terza generazione, la storia della salvezza continua in quella della Chiesa, legando il credente alla concretezza del suo presente, spingendolo con i suoi racconti a ricercare la sua salvezza non in un al di là a venire, ma nel suo oggi. L'oggi della salvezza per Luca è lo stesso Gesù, che nella sua parola e nel sacramento del pane spezzato, incontra e interpella l'uomo nella concretezza della sua quotidianità, spingendolo a dare la sua risposta esistenziale e a prendere esistenzialmente posizione fin da subito. Significativo in tal senso è il racconto dei due discepoli di Emmaus (24,13-31)42, dove parola e pane costituiscono i due fondamentali elementi d'incontro tra il Risorto e gli uomini, colti inaspettatamente nella loro quotidianità. È nel suo oggi che l'uomo sperimenta la salvezza, che lo interpella e lo spinge a compiere la sua scelta, determinando, qui e ora, la sua salvezza. Una salvezza, dunque, che non è a venire, ma si colloca per Luca nella presenzialità dell'oggi. Una sorta di escatologia presenziale giovannea, caratterizzata da quel suo persistente uso dei verbi posti all'indicativo presente, come per dire che la salvezza si attua fin d'ora e fin d'ora il credente è reso partecipe della vita divina, in cui già vive, anche se non ancora in modo definitivo e compiuto. Ma tutto per Giovanni, così come per Luca, si compie nel presente storico nell'attesa che confluisca nella definitiva eternità di Dio. L'oggi di Luca, quindi, dà concretezza alla salvezza e ne circoscrive l'efficacia qui nella storia, ma nel contempo evidenzia l'urgenza di una risposta esistenziale da parte del credente. Un oggi che trova la sua continuità nella Chiesa, colta da Luca nei suoi Atti degli Apostoli, come l'oggi di Dio, che continua nel tempo.
Le coordinate storico-teologiche della salvezza in Luca
Benché Luca radichi saldamente la storia della salvezza all'interno di un contesto storico e geografico ben preciso, tuttavia essa è avvolta fin da subito da un inequivocabile contesto di sacralità. Due storie che si muovono in uno stretto parallelismo tra loro fino ad intrecciarsi profondamente, fino a diventare un'unica storia, quella di Dio con gli uomini e che trova il suo punto di aggancio nell'incarnazione.
È una storia che ha inizio a Gerusalemme, la città santa, legata a Davide e alle promesse; nel Tempio, il luogo della presenza di Dio; all'interno di un contesto liturgico. Già questa prima cornice storica spinge a leggere l'evento della salvezza, Gesù, sia come il realizzarsi delle promesse fatte a Davide, il depositario del messianismo nazionale (1,32-33); sia come il luogo di un nuovo Tempio, al cui interno si celebrerà un nuovo culto non più fatto di sacrifici di animali e di incenso e in cui vi è un sacerdote officiante, che prelude in qualche modo ad un nuovo sacerdozio (2,22-24); sia ad una nuova rilettura e ricomprensione della Torah alla luce del Risorto, quella di un Gesù, che, perduto, è ritrovato dopo tre giorni, mentre ammaestra nel Tempio i dottori della Legge, metafora dell'antico insegnamento della Torah (2,46-49). Ci si trova qui di fronte ad un Gesù dodicenne, l'età del bar mitzvah, cioè figlio del comandamento, che lo rende religiosamente adulto e capace di intervenire nel culto e nell'insegnamento della Torah.
Vi è, poi, una sconosciuta fanciulla di Nazareth, che viene salutata e definita come “riempita di grazia” (kecaritwmšnh, kecaritoméne) e Dio è con lei, dimora in lei (1,28) ed è stata attratta nella stessa santità di Dio: “poiché trovasti grazia presso Dio” (1,30). Luca, quindi, crea una nuova cornice storico-sacrale in cui colloca l'annuncio di un figlio, nel cui nome è racchiusa la sua stessa missione: Jeshouah, Gesù, Dio salva (1,31). Ne vengono subito delineati i tratti caratteristici che lo qualificano, da un lato, nella sua regalità davidica e frutto della promessa fatta da Natan a Davide (2Sam 7,12-16), definendone in tal modo il messianismo davidico (1,32-33); dall'altro, questo figlio possiede i tratti della divinità, la cui potenza opera in lui: “Lo Spirito Santo si stenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti adombrerà; per questo anche ciò che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio” (1,35). Esso, dunque, non è frutto di volontà o di relazione umana, ma di un progetto divino, che si attua con la potenza dello Spirito in e per mezzo di quella fanciulla. Per questo egli possiede lo stesso DNA di Dio, in quanto suo figlio, ma nel contempo quello umano di Maria. Egli dunque opererà con la stessa potenza di Dio, da cui è stato concepito e da cui proviene. Il connubio di Dio con la carnalità umana tocca qui il suo vertice e dice l'inscindibile intreccio tra uomo e Dio, così che la carnalità umana, assunta da Dio, diviene parte integrante e definitiva del suo essere Dio nel momento della risurrezione di questo figlio-Dio (Rm 1,3-4); mentre la disponibilità umana diviene, in tale intreccio, feconda di salvezza e capace di generare salvezza. Una salvezza che si attua qui nell'oggi della storia e assume il volto stesso della storia, che per ciò stesso diviene salvifica. Solo l'eternità la renderà definitiva e piena. Ma essa si compie già fin d'ora. La salvezza che Luca qui concepisce, dunque, non è un qualcosa di estraneo all'uomo e che si pone al di fuori dall'uomo e dai suoi schemi esistenziali, ma si colloca al loro interno, parla il suo stesso linguaggio. E il pensiero di Dio prende forma umana e si rende raggiungibile da ogni uomo, qui e ora, oggi. Tutto ciò che l'uomo ora fa, l'intero suo vivere diviene salvifico e produce salvezza per sé e per gli altri nella misura in cui egli ha saputo dare spazio a Dio nella propria vita, lasciando che la sua Parola s'incarnasse nella sua vita, così come avvenne nell'incontro tra Maria e la Parola, durante il quale la fanciulla di Nazareth ha dato spazio e disponibilità in se stessa, generandola agli altri. Dalla disponibilità collaborativa di Maria, dunque, è stata generata la salvezza: “oggi vi è stato partorito un salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide” (2,11.30). Un Salvatore che si pone in mezzo agli uomini non solo come potenza salvatrice di Dio, ma anche come elemento di discriminazione e di giudizio, che s'impone in mezzo a loro, costringendoli, loro malgrado, a prendere esistenzialmente posizione nei suoi confronti: “Ecco questi è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e a segno contraddicente” (2,34b). Si tratta di una salvezza che per Luca cresce, si fortifica e si afferma con la potenza stessa di Dio (2,40.52). Un dinamismo fecondo che l'autore riprenderà anche nei suoi Atti degli Apostoli: “Intanto la parola di Dio si diffondeva, e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede” (At 6,7). Una salvezza che attua in se stessa e nel suo dispiegarsi storico un progetto divino prestabilito: “Non sapevate che devo essere nelle cose di mio Padre?” (2,49b); e che nell'uomo Gesù, quale luogo privilegiato della rivelazione del Padre, diviene luce per gli uomini: “luce per la rivelazione delle genti e gloria del tuo popolo Israele” (2,32). Una salvezza che supera i ristretti confini del Giudaismo per dispiegarsi a tutti gli uomini, poiché “ogni carne vedrà la salvezza di Dio” (3,1); infatti “anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!” (At 11,18b), poiché “Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34b-35). Una salvezza che interpella ogni uomo e ogni categoria di persone, chiedendo loro di riparametrare la propria vita sulla correttezza, sull'onestà, sulla bontà e sulla generosità (3,10-14). Nulla, dunque, di sovrumano. Ad ogni uomo è chiesto di vivere al meglio la sua umanità, resa perfetta, e quindi salvifica, nel Crocifisso Risorto43. Una salvezza che si tramuta in condanna senza appello per il malvagio, che si chiude ad ogni richiamo (3,19-20). Essa proclama ed opera la sua missione nello Spirito e con la forza dello Spirito e il cui programma è definito e tratto dal Libro di Isaia (61,1), che in qualche modo lo aveva preannunciato: “Lo Spirito del Signore su di me; a motivo di questo mi unse perché fosse annunciata la buona novella ai poveri; mi inviò per proclamare ai prigionieri (la) liberazione e ai ciechi il recupero della vista, per mandare in libertà gli oppressi, per proclamare un gradito anno del Signore” (4,18-19). Una salvezza che si propone agli infermi, affetti da varie malattie e li guarisce, liberandoli dalla schiavitù di satana (4,40-41; 7,21-22), restituendo loro la pienezza della loro vita originale. Essi sono la metafora di un'umanità afflitta da un degrado spirituale, morale e fisico operato dal peccato, che meglio apparirà nel racconto della guarigione del paralitico (5,18-25), dove la salvezza offerta sotto forma di perdono dei peccati, viene associata alla guarigione fisica. La guarigione fisica diviene, pertanto, metafora e testimonianza di un'altra guarigione, che in qualche modo anticipa e preannuncia gli effetti della risurrezione, dove viene rigenerata una nuova umanità, ricostituita nella purezza del suo stato originale, allorché l'uomo era ancora incandescente di Dio e in cui Dio si riconosceva, decretando che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31). Una salvezza che rompe gli schemi oppressivi di dottrine, imposizioni, di osservanze, di cose da fare o non fare per essere graditi a Dio, come i digiuni (5,33; 18,12), l'osservanza del sabato (6,1-11;) e la purità rituale, riconducendo l'uomo alla sincerità del cuore nel suo rapporto con Dio (18,10-14), ricostituendo un culto, che si radichi nella sincerità del cuore e della vita ancor prima di essere celebrato nel Tempio (19,45-48). Una salvezza che ha il suo epicentro nella morte e risurrezione, da cui si irradia sull'intera umanità (24,47).
È interessante rilevare il modo di procedere di Luca nel suo prologo, molto simile a quello che Giovanni usa nel suo (Gv 1,1-18). Giovanni apre il suo vangelo contemplando il Verbo eterno del Padre e ne evidenzia la natura e la sua potenza creatrice (Gv 1,1-3), per poi affermare come quel Verbo “divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria” (1,14). Viene in tal modo a crearsi un forte e inscindibile legame e una profonda identità tra il Verbo contemplato nella metastoria e quello incarnatosi. Anzi, l'incarnazione diviene un'evoluzione di quel Verbo (lÒgoj s¦rx ™gšneto, lógos sàrx eghéneto, il Verbo divenne carne), precedentemente colto nello splendore del seno del Padre. Tutto ciò che Giovanni racconterà nel suo vangelo sarà, dunque, una contemplazione del Verbo Incarnato, colto come azione del Padre in mezzo agli uomini e come luogo della sua rivelazione.
Similmente
Luca nel suo prologo (1-2) caratterizza fin da subito quel bambino,
tratteggiandolo come messia davidico e come appartenente all'alea
divina, non in senso metaforico, ma reale. Di conseguenza egli è sia
la realizzazione della promessa davidica (1,31-32) che la potenza
divina che opera la salvezza in mezzo agli uomini (1,35). E fin dal
suo apparire storico questo figlio preannunciato è definito
“salvatore”, legato alla promessa davidica (2,11). Centrale in
Luca è, infatti, il tema della salvezza riversata indistintamente su
tutti gli uomini (3,6). Quindi, Luca, come Giovanni, forniscono ai
loro lettori, entrambi nei loro prologhi, la chiave di lettura, l'uno
del Verbo Incarnato, l'altro di quell'uomo chiamato Gesù. Tutto ciò
che avverrà di seguito nei loro racconti diventerà l'esplicitarsi
storico dell'agire salvifico e rivelatore di Dio in mezzo agli
uomini, che Giovanni contempla e Luca racconta e la cui finalità per
entrambi è quella di rafforzare la fede dei credenti (Gv 20,31; Lc
1,4).
Le particolarità del vangelo lucano
Già si è detto sopra (pag,21) come Luca abbia costruito il suo racconto su quello di Marco, riuscendo tuttavia ad imprimere alla sua opera un'impronta di originalità che lo caratterizza inconfondibilmente. Luca, dunque, è debitore a Marco, ma non ne dipende in modo pedissequo e servile, ma si muove con grande libertà redazionale.
Consistente è il materiale proprio di Luca, complessivamente 482 versetti44 su 1149 che compongono il suo vangelo, pari al 41,95% dell'intero racconto lucano. Questa notevole consistenza di materiale proprio unitamente all'uso alquanto libero che Luca ha fatto del vangelo di Marco, così da poter dire d'averlo profondamente manipolato, salvaguardandone tuttavia lo schema, ha spinto qualche studioso a pensare all'esistenza di uno scritto pre-lucano da cui, poi, l'autore avrebbe tratto il suo vangelo, integrandolo e rafforzandolo con Marco e la fonte Q. Tuttavia, se raggruppiamo l'intero materiale proprio di Luca e lo mettiamo in fila, sia pur integrandolo con la fonte Q, non ne risulta un vangelo, ma soltanto delle pericopi o sezioni prive comunque di logica narrativa. Lo schema di Marco, poi, predomina sull'intero vangelo lucano, che in questo dipende da Marco. È difficile pensare, quindi, ad un proto-Luca scomposto per ricomporlo poi sullo schema narrativo di Marco. Non va dimenticato quanto si è detto sopra circa il Luca missionario (pag.20), che, giunto al termine della sua attività di annuncio, scrive le memorie della sua predicazione, utilizzando ed elaborando anche quel materiale, che nel corso della sua attività missionaria ha avuto probabilmente modo di raccogliere presso le diverse comunità credenti, dove veniva ospitato di volta in volta.
In quanto storico, già lo si è visto qui sopra (pagg. 32-34), Luca si interessa particolarmente agli eventi della storia della salvezza, che incornicia all'interno di quelli profani. Tuttavia l'evangelista non è uno storico disinteressato, ma tende a leggerli con l'occhio del teologo, cercando di coglierne il significato salvifico, facendo così emergere accanto, anzi all'interno della storia profana una storia sacra.
Quanto alla geografia lucana questa è preordinata alla storia della salvezza. Come gli eventi della salvezza sono circoscritti dalla storia profana e si compiono in essa, così il muoversi della salvezza in mezzo agli uomini si compie nei luoghi propri del vivere umano. E lì si propone a loro, li interpella e li spinge a dare la loro risposta esistenziale.
Il movimento geografico lucano si muove su di una duplice direttrice uguale e contraria: convergente verso Gerusalemme nel vangelo (9,51)45, verso la quale traspare una forte tensione (9,53; 13,22.33; 17,11; 18,31; 19,11.28); espansivo da Gerusalemme verso il mondo abitato negli Atti degli Apostoli (At 1,8).
Si tratta di una geografia meticolosa nel suo esprimersi, ma non sempre corretta e rivela che il suo autore non conosce bene la Palestina e quasi certamente non ci è mai stato. Tuttavia ciò che a Luca interessa è presentare ai suoi lettori come questa salvezza nata all'interno della Palestina, secondo le promesse, si muove e si espande in essa, fino a travalicarne i confini.
La geografia lucana si muove secondo logiche teologiche e si suddivide in tre grandi aree: quella galilaica, dove numerose sono le citazioni topografiche, che scandiscono il compiersi degli eventi della salvezza e i movimenti di Gesù46, anche se non sempre corrette; quella del grande viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28), caratterizzata dal grande silenzio geografico e dove l'attenzione del lettore viene incentrata esclusivamente su Gerusalemme, citata ben dodici volte47. Le altre località di passaggio verso Gerusalemme sono anonimamente definite con termini generici come “città”, “villaggi”48. Quasi a non voler distrarre il lettore dalla meta finale. Uniche eccezioni sono la citazione della città di Gerico, in quanto ultimo luogo di passaggio per accedere a Gerusalemme e, quindi, in qualche modo strettamente legata alla meta finale (18,35; 19,1); e la citazione delle due regioni, “Samaria e Galilea” (17,11b), indicate come luoghi di passaggio verso Gerusalemme e, nello stesso versetto, strettamente associate all'andare di Gesù verso Gerusalemme (17,11a). Vi è, infine, la terza area, quella di Gerusalemme, dove, in modo essenziale e scarno vengono citati i luoghi del compiersi del Mistero della salvezza: Betfage, Betania, il monte degli Ulivi (19,29; 24,50) ed infine, Emmaus (24,13). Fa qui da sfondo sottinteso Gerusalemme.
Luca, a differenza degli altri evangelisti, mostra una certa precisione nel citare i luoghi: chiama in modo appropriato il “mare” di Galilea con il termine “lago”49; precisa che Nazareth si trova in Galilea (1,26) e pur citando vagamente “una regione montuosa”, la colloca in Giudea (1,39); molto precisa e attenta, ricca di particolari, invece, la citazione di 2,4: “Ora salì anche Giuseppe dalla Galilea, da(lla) città di Nazareth, alla Giudea, in una città di Davide, che si chiama Betlemme, poiché egli era dalla casa e dalla discendenza di Davide”; dà una certa sequenza logica al muoversi di Gesù: dal Giordano, dopo il battesimo e dopo essere stato sospinto nel deserto per essere provato (4,1), fa ritorno in Galilea a Nazareth (4,14.16) e da qui, correttamente, racconta che Gesù discese a Cafarnao, che precisa essere una città della Galilea (4,31); corretto è qui l'uso che fa del verbo “discese”, poiché Nazareth si trova in zona collinare, mentre Cafarnao è in riva al lago; dopo l'esperienza missionaria dei Dodici (10,1-2) con accuratezza precisa che Gesù si ritirò privatamente con i suoi a Betsaida (9,10b); così come segnala con precisione che Emmaus dista 60 stadi da Gerusalemme, cioè circa 11 Km.
Tuttavia, nonostante queste attenzioni, Luca incorre in alcune imprecisioni che lasciano intravvedere la sua scarsa conoscenza del territorio palestinese. In 2,4 attesta che Giuseppe “dalla Galilea, dalla città di Nazareth” “salì” in Giudea a Betlemme, anziché “discese” da Nazareth, posta a nord, a Betlemme, posta a sud. Per due volte Luca conclude il suo racconto in 4,44 e in 7,17 attestando che la fama di Gesù percorreva tutta la Giudea, mentre gli eventi, motivo della fama, si erano compiuti in Galilea, a Cafarnao nel primo caso (4,32); a Cafarnao e Nain nel secondo caso (7,1.11). In 4,29 colloca Nazareth “sul ciglio di un monte” da cui Gesù poteva essere precipitato. Una posizione non corrispondente alla Nazareth che conosciamo, posta in costa ad una collina. Se l'episodio di linciaggio nei confronti di Gesù, che doveva essere fatto precipitare, è vero, doveva trattarsi, più che un dirupo, di un luogo un po' più scosceso da cui con qualche spintone Gesù poteva essere fatto rotolare giù, più che precipitare, che dà l'idea di un cadere nel vuoto. Dopo la tempestosa traversata del lago di Tiberiade (8,22-25) Gesù e i discepoli “approdarono nella regione dei Geraseni, la quale è di fronte alla Galilea” (8,26). Sia l'approdo a Gerasa, sia la sua posizione nei confronti della Galilea sono fuori luogo. Gerasa, infatti, è una cittadina posta nella regione della Decapoli, tra il lago di Galilea, da cui dista circa 55 Km, e il mar Morto, a circa 65 Km. Il lapsus geografico è probabilmente dovuto ad una cattiva interpretazione di Mc 5,1, dove si dice che “Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Geraseni”. Non conoscendo bene la geografia palestinese, Luca si è fidato di Marco, traendo le sue conclusioni. Un'altra svista si trova in 17,11 dove si racconta che “nel mentre che andava a Gerusalemme, egli passava tra la Samaria e Galilea” (“di»rceto di¦ mšson”, diércheto dià méson). Due sono qui sostanzialmente le imprecisioni: la prima riguarda la direzione di marcia: dirigendosi dalla Galilea verso la Giudea si passa prima attraverso la Galilea e poi attraverso la Samaria e non viceversa. La seconda imprecisione è racchiusa tutta in quel “dià méson” che letteralmente significa passare attraverso a ciò che sta di mezzo tra la Galilea e la Samaria. Ma in realtà di mezzo non vi è nulla, nessuna terra di nessuno, poiché i due confini coincidono tra loro: dove termina la Galilea inizia la Samaria, non vi sono terre o diversi territori di mezzo.
Sono, comunque, tutte imprecisioni di chi non ha mai visitato la Palestina, che per Luca non fu mai terra di missione, essendo la sua attività missionaria, per sua formazione mentale, per la sua cultura e per la sua stessa appartenenza, rivolta al mondo degli ellenisti e dei pagani in genere. Queste tensioni geografiche se da un lato denotano la sua estraneità al mondo giudaico, dall'altro non toccano minimamente la verità della sua storia della salvezza.
N O T E
1 Nella sua opera “De consensu evangelistarum” (I,2.4) S.Agostino così definiva il vangelo di Marco : “Marcus eum (Matteo) subsecutus tamquam pedissequus et breviator eius videtur”. Tale giudizio sbrigativo e dispregiativo pesò negativamente sulla tradizione successiva. Dopo la pubblicazione degli altri vangeli, quello di Marco subì una sorta di oscuramento dal quale fu tratto soltanto dalla critica della metà del XIX secolo. Questa lo considerò non solo il più antico dei vangeli, datandolo tra il 65-69 d.C. , ma la fonte stessa di Matteo e Luca, nonché l’inventore della forma letteraria “vangelo”. Con l’avvento del Concilio Vaticano II (1962-1965) al vangelo di Marco venne riservato un posto di tutta attenzione nell’ambito della liturgia alla pari degli altri due sinottici (Lezionario Anno B); prima della riforma il vangelo marciano era utilizzato nel lezionario domenicale soltanto 4 volte. Lo studio storico-critico della Formegeschichte (Studio delle forme) prima e della Redaktiongeschichte (Studio della redazione dei vangeli) poi ne rilevò la complessa struttura e la ricca teologia.
2Sulla formazione del vangelo di Matteo cfr. la Parte Introduttiva, pagg. 13-16 scaricabile dal seguente sito: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf
3Sulla questione della formazione del vangelo di Giovanni e dei problemi letterari cfr. la Parte introduttiva alle pagg. 41-47 e scaricabile dal sito http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf
4Il testo cristiano più antico oggi a nostra conoscenza è la Prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, scritto tra la fine dell'anno 50 e primi mesi del 51. Dal 50 e fino alla fine del I secolo si collocano, in questi cinquantanni, tutti gli altri scritti neotestamentari, anche se alcuni dei quali, a mio avviso, sforano il sec. come il vangelo giovanneo (circa105/110 d.C.) e quello matteano (circa 105 d.C.) e qualche lettera apostolica come la seconda di Pietro, databile intorno all'anno 120 d.C.
5Secondo la lettera di Aristea al fratello Filoirate, scritta in lingua greca, è un falso del II sec. a.C. Secondo tale scritto Tolomeo II Filadelfo (309-246 a.C.), su richiesta del suo bibliotecario Demetrio Falereo, al fine di arricchire la già sontuosa biblioteca di Alessandria d'Egitto, fece tradurre il Pentateuco in greco. Da Gerusalemme vennero inviati 72 saggi, che, ospitati nell'isola di Faro, tradussero, ognuno per conto proprio, il Pentateuco, impiegando esattamente 72 giorni. Tutte le traduzioni, quasi miracolosamente, erano identiche le una alle altre, così che lo stesso bibliotecario, stupito, esclamò che la traduzione veniva da Dio stesso. Nacque così, in quest'aura leggendaria, la traduzione dei 72, chiamata, poi, dei Settanta e abbreviata in “La LXX”.
6Il termine “b£rbaroj” (bárbaros) significa balbuziente, straniero, barbaro con riferimento al modo di parlare il greco da parte degli stranieri. Divenne poi anche sinonimo di incivile, incolto, zotico per definire i non greci.
7Cfr. la breve parabola dell'uomo saggio che costruisce la sua casa sulla roccia e quello stolto sulla sabbia (6,48-49), la parabola dell'uomo incappato nei ladroni (10,30-36), quella del ricco stolto (12,16-21), degli invitati ingrati (14,16-24), del figlio ritrovato (15,11-32), dell'amministratore disonesto (16,1-8), l'uomo ricco e Lazzaro (16,19-31), i due uomini saliti al tempio per pregare (18,10-14), i dieci servi e le mine (19,12-24), i vignaioli malvagi (20,9-16)
8Cfr. 5,17a; 7,36; 10,25; 11,37; 13,31; 14,1; 20,39.
9Cfr. At 6,7; 8,4.14; 11,1; 12,24; 13,44.48-49
10La questione della canonicità, benché sorta nel II secolo non si esaurì con esso, ma si estese fino al IV secolo. Si considera, per motivi di semplicità, come data di chiusura del canone cristiano il 367 d.C., anno in cui il patriarca Atanasio di Alessandria nella sua XXXIX lettera pasquale diretta alle comunità, si atteneva ai 27 libri neotestamentari (4 vangeli, gli Atti degli Apostoli, le 7 lettere canoniche, le 14 lettere di Paolo, di cui faceva parte anche quella agli Ebrei benché notoriamente non attribuibile a Paolo né alla scuola paolina, e l’Apocalisse) che egli considerava come “fonti della salvezza” in cui veniva “annunciata la dottrina della beatitudine”. Successivamente il Concilio di Trento (1545-1563) l’ 8 aprile del 1546, IV sessione, con suo apposito documento definiva nuovamente, confermandolo, il canone cristiano-cattolico in opposizione alle pretese della Riforma luterana
11Il termine “canone” deriva dalla parola greca “kanèn” (kanón), che tra i diversi significati annovera anche quello di “regola, guida, norma, modello, tipo, principio”. In senso tecnico, per i costruttori e gli architetti significava regolo, squadra, livella, cioè uno strumento di misura su cui riparametrare i diversi elementi della costruzione.
12Le altre due regole su cui confrontare le opere neotestamentarie per verificarne l'attendibilità erano l'Universalità, cioè l'opera doveva essere molto diffusa tra le comunità credenti; e la Fedeltà, cioè la correttezza dottrinale e teologica dell'opera.
13Papia, vescovo di Gerapoli tra il 110 e il 130 d.C., attribuisce un vangelo a Marco, interprete di Pietro a Roma. Il vangelo sarebbe stato composto a Roma dopo la morte di Pietro, secondo Ireneo (Prologo antimarcionita del II sec.); oppure, secondo Clemente di Alessandria, mentre Pietro era ancora vivo.
14Benché la Tradizione ci passi con certezza le identità degli autori dei Vangeli o delle Lettere, la critica letteraria e la moderna esegesi hanno sollevato numerosi interrogativi sulla loro attendibilità.
15Traduzione personale. Le parole incluse nella parentesi tonda sono state aggiunte per rendere più comprensibile il testo italiano, ma sottinteso in latino e dal contesto stesso. Il testo originale, quasi certamente in lingua greca, come si può intuire dal nome Lucas (nominativo) e Lucan (accusativo), che l'autore ha semplicemente traslitterato dal greco, è giunto a noi tradotto in un pessimo latino, probabilmente da un greco, che non conosceva bene il latino; una traduzione fatta presumibilmente per qualche comunità occidentale di lingua latina. Il testo qui di seguito riportato è quello da me corretto, al fine di rendere più comprensibile la mia traduzione: “[2] tertium evangelii librum secundum Lucam [3] Lucas iste medicus, [4] post ascensum Christi, [5] cum eum Paulus quasi ut iuris studiosum [6] secundum adsumsisset, numine suo, ex opinione, conscripsit. [7] Dominum tamen nec ipse vidit in carne [8] et idem prout asequi potuit. [9] ita et ad natiuitate iohannis incipit dicere” . Il testo originale senza correzione alcuna è il seguente: “[2] tertio euangelii librum secundo lucan [3] lucas iste medicus [4] post ascensum xri. [5] cum eo paulus quasi ut iuris studiosum [6] secundum adsumsisset numeni suo ex opinione concripset [7] dnm tamen nec ipse d uidit in carne [8] et ide prout asequi potuit. [9] ita et ad natiuitate iohannis incipet dicere,”
16Cfr. At 20,23; 21,30-33; 23,29; 26,28-32; 2Cor 11,23-28.32; 2Tm 3,11; Fm 1,23. Sono citazioni queste che dimostrano come Paolo, a motivo della sua attività missionaria, avesse a che fare quasi quotidianamente con questioni legali
17Cfr. Ef 6,20; Fil 1,7.13.14.17; 2Cor 11,24-25a; Col 4,3.18; 2Tm 1,16; 2,9; Fm 1,10.13
18“Il diritto di cittadinanza romana è regolato dalle antiche leggi Valeria, Julia e Porcia. La Lex Julia relativa alla vis publica proibiva ad ogni magistrato di mettere a morte o sottoporre alla flagellazione un cittadino romano contro il suo diritto di appello. La Lex Valeria stabiliva per ogni cittadino romano il diritto di appellarsi contro la coercitio – sentenza esecutiva o punizione – dei magistrati. Erano previste pene severe per chi violava le leggi di tutela dei cittadini romani come la degradazione e l'inabilità alla cariche pubbliche” - Cfr. nota 15 pag. 27 in R. Fabris, Paolo l'apostolo delle genti, Paoline Editoriale Libri, Milano, 1977 -
19Cfr. 2Cor 1.10; Gal 4,13-14; 2Cor 11,23-27; 12,7. Cfr. anche R. Fabris, Paolo l'apostolo delle genti, Paoline Editoriale Libri, Milano, 1977 – pagg.50-55
20Il v.8,43 nella versione critica di Nestle-Aland, 27a edizione del 1993 del Novum Testamentum Graece ed Latine, è segnalato come una lettura alternativa, mentre l'espressione “aveva speso tutte le sostanze in medici” risulta omessa. Il fatto che il v.8,43 presenti dei problemi e comunque una sua parte risulti omessa potrebbe anche significare che l'autore, che segue, sia pur liberamente, il vangelo di Marco, trovatosi di fronte a Mc 5,26 l'abbia o saltato in tutto o in parte o l'abbia modificato rendendolo meno aggressivo nei confronti della categoria medica. Comunque sia 8,43 risulta indiziario circa la professione medica di Luca, poiché Luca di fronte a Mc 5,26 non l'ha riportato fedelmente, ma ha apportato delle modifiche.
21Cfr. Rm 1,1; 11,13; 1Cor 1,1; 2Cor,1,1; Gal 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1Tm 1,1; 2Tm 1,11
22Cfr. Gal 1,18-20; 2,1-2.6-10
23È questa la finalità propria dello storico in genere: rendere testimonianza al mondo degli eventi. Lo stesso Flavio Giuseppe attesta nella sua opera “Guerra Giudaica” di voler narrare agli abitanti dell'impero romano, quale diretto testimone degli eventi stessi, i fatti della guerra giudaica (66-73 d.C.), che, a suo dire, altri hanno malamente narrato o falsandoli per adulazione ai romani ed odio verso i giudei (Bel. Jud. I, 1-3). Similmente scriverà in Antichità Giudaiche: “Altri perché sentono il bisogno di ordinare in uno scritto eventi nei quali ebbero personalmente una parte, per renderli noti a tutti. La maggior parte, però, è affascinata dalla grandezza di utili imprese rimaste neglette, e da esse traggono il coraggio di metterle in luce a beneficio di tutti. Gli ultimi due motivi sono propri anche a me, che per l'esperienza acquisita nella guerra dei Giudei contro i Romani, dai fatti che ebbero luogo e dalla fine alla quale giunsero, mi sentii costretto a esporre tali eventi a motivo di coloro che con i loro scritti sovvertono la verità. Alla presente fatica do inizio perché ritengo di esserne debitore a tutti i Greci, perché – così mi pare - comprenderanno la nostra grande antichità e l’ordinamento politico degli Ebrei” (Ant. Jud. I,3-5)
24I viaggi missionari di Paolo si collocano tra il 45 e il 48 d.C. primo viaggio missionario: visita Cipro, Antiochia di Psidia, Listra e Derbe (At 13,1-14,28). Tra il 49 e il 52 d.C. secondo viaggio missionario: visita Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto (At 15,36-18,22). Tra il 53 e il 57 d.C. terzo viaggio missionario: visita Efeso, Troade, Filippi, Corinto, Mileto. Fulcro di questo viaggio è Efeso. (At 18,23-21,14). Le “sezioni noi” si collocano rispettivamente la prima (At 16,10-18) nel secondo viaggio missionario di Paolo; la seconda (At 20,5-16) e la terza (At 21,1-18) nel terzo viaggio missionario di Paolo. La quarta “sezione noi” (At 27,1-28,16) si colloca nel racconto del trasferimento di Paolo, ormai definitivamente prigioniero, da Cesarea a Roma tra il 61 e il 63 d.C. dove, dopo due anni di prigionia, morirà martire (At 27,1-28,30).
25Il prologo antimarcionita, ma è forse meglio definirlo al plurale, “prologhi”, poiché sono tre testi di autore sconosciuto, che accompagnano i vangeli di Marco, Luca, per questo evangelista giuntoci anche nella versione greca, e Giovanni, ma non quello di Matteo, forse per la diffusa stima e popolarità che godeva tale vangelo presso le prime comunità credenti e, pertanto, non necessitava di una carta d'identità; o forse più semplicemente perché il prologo riguardante Matteo è andato smarrito, come successe per il frammento muratoriano.
26Le chiese marcionite ebbero una grande diffusione nei primi secoli e furono resistenti, poiché nel V sec. se ne trovavano ancora numerose in Oriente, soprattutto in Siria. - Cfr. J. Quasten, Patrologia, i primi due secoli, ed. Marietti, Vol.I, Casale 1980 – pag. 237
27Testo latino del Prologo antimarcionita, da me tradotto in italiano: “Est quidem Lucas Antiochensis Syrus, arte medicus. 1aut eius scripta indicant, Greci sermonis non ignarus fuit.1b discipulus apostolorum, postea vero Paulum secutus est usque ad confessionem eius, serviens domino sine crimine, nam neque uxorem unquam habuit, neque filios procreavit. LXXXVIIII2 annorum obiit in Boeotia,3 plenus spiritu sancto. cui igitur cum iam descripta essent evangelia, per Mattheum quidem in Iudaea, per Marcum autem in Italia, sancto instigatus spiritu in Achaiae partibus hoc descripsit evangelium, 4aquod non tantum ab apostolo didicerat, qui cum domino in carne non fuit, sed a ceteris apostolis magis, qui cum domino fuerunt,4b significans etiam ipse per principium ante suum alia esse descripta, 5ased et sibi maximam necessitatem incumbere Graecis fidelibus cum summa diligentia omnem dispositionem in narratione sua exponere,5b ne Iudaicis fabulis 6aadtenti in solo legis desiderio tenerentur, nevel hereticis fabulis6b et stultis sollicitationibus seducti excederent a veritate, elaboraret. itaque perquam necessariam statim in principio sumpsit a Iohannis nativitate, quae est initium evangelii, praemissus domini nostri Iesu Christi, et fuit socius ad perfectionem populi, item inductionem baptismi, atque passionis socius. cuius profecto dispositionis exempli meminit Zacharias7 propheta, unus ex duodecim. et tamen postremo scripsit idem Lucas actus apostolorum; postmodum Iohannes evangelista8 descripsit primum apocalypsin9 in insula Pathmos, deinde evangelium in Asia”
28Cfr. la voce “Antiochia (Siria)” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1997
29La profonda conoscenza che Luca mostra nei confronti della LXX e del metodo midrashico lo farebbe propendere per un cristiano proveniente dal giudaismo della diaspora. Tuttavia, l'autore talvolta dà a vedere di non ben comprendere certe espressioni ebraiche e regole grammaticali. Questo fatto lo fa propendere per un cristiano proveniente dal mondo pagano. Quanto alla sua conoscenza approfondita della LXX va attribuita al manierismo molto di moda all'epoca. In tal senso G.Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, III edizione 2001 – nota 3, pag.8. A ciò va anche aggiunto il fatto che Luca, quasi certamente, non è mai stato in Palestina, non conoscendone la geografia. Una cosa imperdonabile per un ellenista, cioè un ebreo della diaspora, tenuto comunque, almeno una volta all'anno, a salire a Gerusalemme per le festività (At 2,1a.5).
30Il termine “scriba” in Matteo ricorre 22 volte di cui 20 volte al plurale, “scribi”; e soltanto due volte al singolare: in 8,19 dove “uno scriba si avvicinò e gli disse: <<Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai>>”; e in 13,52 dove si legge: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. Probabilmente questo scriba è Matteo stesso che si presenta agli inizi del suo discepolato (8,19) e poi, ormai, divenuto responsabile di comunità, che è chiamato a gestire con saggezza (13,52).
31Cfr sopra la voce “I riflessi dell'ellenismo in Luca”
32“Marcus eum subsecutus tamquam pedissequus et breviator eius videtur” - Cfr. s.Agostino, De consensu evangelistarum, Liber I, 2.4. Sarà soltanto con l'avvento della critica letteraria e dell'esegesi storico critica che Marco acquisirà il posto che gli compete: egli fu il primo ad inaugurare il genere letterario “vangelo”. Il suo vangelo fu scritto tra il 65 e il 69, molto probabilmente tra fine estate e l'autunno del 69 (Mc 13,14-18). Il suo vangelo fece scuola e venne preso come fonte primaria sia da Matteo che da Luca.
33“primum Antiochiae -nam ibi natus est loco nobili- celebri quondam urbe et copiosa, atque eruditissimis hominibus liberalissimisque studiis adfluenti ” (Cicero, Pro Archia, § 4). Trad. “prima ad Antiochia, dove infatti nacque, nobile luogo, un tempo celebre come città e ricca, e inoltre copiosa di uomini assai eruditi e molto liberali negli studi” (La traduzione è personale).
34Dalle due date qui poste, quella di morte 89 anni, e quella della fine del suo vangelo 97, a cui aggiungere alcuni anni sopra menzionati, la data di nascita di Luca può essere collocata verosimilmente intorno agli anni 11/13 d.C.
35Quanto all'età in cui Luca morì, i numeri divergono tra loro. Il Prologo antimarcionita nella versione latina parla di 89 anni (LXXXVIIII), mentre San Girolamo (347-420 d.C.), nel suo prologo al vangelo di Luca, parla di 74 anni (in numerazione latina LXXIIII). Probabilmente una cattiva lettura del numero latino “LXXXVIIII”, dove sono state saltate erroneamente le lettere “XV”; la versione greca, infine, indica in 84 anni l'età in cui Luca morì (ετων ογδοηκοντα τεσσαρων, eton ogdoekonta tessaron). La nostra scelta è caduta su 89, in quanto numero più rispondente alle nostre ricerche.
36Secondo At 9,26-30, Paolo, a motivo della sua conversione e della sua attività predicatoria, fu costretto a fuggire da Gerusalemme e ritornarsene a Tarso. Qui continuò la sua predicazione nelle regioni della Cilicia e della Siria (Gal 1,21), finché Barnaba, che ebbe il merito di aver scoperto il talento di Paolo, non lo condusse ad Antiochia, ospiti, per circa un anno, di quella comunità (At 11,26). Antiochia diventerà, grazie a Paolo, Barnaba e Luca un attivo centro missionario.
37Lo schema è stato liberamente desunto dall'opera di A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, editrice Messaggero di S. Antonio, Padova1997, pag.371. Cfr. anche G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, III edizione gennaio 2001, pag.15
38Matteo la cita 13 volte; Marco la ricorda 11 volte e 13 volte Giovanni.
39Nel racconto matteano delle tentazioni (Mt 4,3-11) la prova del Tempio è posta in seconda posizione, mentre Luca, qui, la colloca alla fine, non solo perché nella visione lucana tutto ha inizio e tutto si compie in Gerusalemme, ma anche per poter dare immediatamente seguito all'annuncio della passione, collegando in tal modo la terza tentazione alla prova che Gesù dovrà subire, quella del Golgota.
40La profezia a cui qui si allude e duplice: Mic 5,1 e 2Sam 7,12-16
41Cfr. Lc 2,11; 4,21; 5,26; 13,32-33; 19,5.9; 23,43
42Cfr. anche At 2,42 dove l'assiduità dell'ascolto della Parola si coniuga sempre con lo spezzare il pane.
43La Gaudium et Spes, al §41, annota questo particolare: “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo”.
44I criteri di rilevamento del materiale proprio di Luca riguarda materiale inedito, che non si ritrova negli altri evangelisti, ma solo in Luca. Da questo materiale proprio sono stati da me esclusi quei versetti o quelle pericopi che sono introduttivi ad una pericope o conclusivi di una sezione, come un sommario, che sono di chiara marca redazionale e, quindi, elaborazioni proprie dell'autore. E tali sono state da me considerate anche le variazioni all'interno di un racconto, che si ritrova anche negli altri due evangelisti. Sono stati, poi, da me esclusi dal materiale proprio di Luca anche quei versetti o pericopi che la critica letteraria considera di incerta autenticità o antiche inserzioni nella tradizione dl testo, come ad es. 22,43-44 e 23,34 e segnalati con la parentesi quadra semplice o doppia. Ciò premesso, il materiale proprio lucano, siglato con SLc (Sondergut di Luca), da me rilevato, riguarda i seguenti versetti o pericopi: 1,1-80; 1,1-52; 3,1-2; 3,10-15; 3,18; 3,23-38; 4,13; 4,17-30; 4,41; 5,1-10; 5,17; 6,24-28; 6,34; 7,11-17; 7,36-50; 8,2-3; 9,51-56; 9,61-62; 10,1; 10,17-20; 10;29-42; 11,5-8; 11,27-28; 11,53-54; 12,13-21; 12,37; 12,47-50; 12,52; 13,1-17; 13,31-33; 14,1-15; 14,28-33; 15,8-32; 16,1-12; 16,14-15; 16,19-31; 17,7-22; 17,28-29; 18,1-14; 19,1-10; 19,41-46; 21,34-38; 22,15-17; 22,28-33; 22,51b; 23,6-16; 23,27-32; 23,39-43; 24,13-53
45Benché 24,47 esprima un movimento espansivo, da Gerusalemme verso tutti i popoli, tuttavia esso non è tale da caratterizzare il movimento salvifico dell'intero vangelo, ma posto alla fine del racconto lucano, va compreso come una sorta di anticipazione di At 1,8.
46Cfr. Lc 1,26.39; 2,4.15.22.39.41.43.45; 3,1.3; 4,1.14.16.29.31.44; 5,1.12.17; 6,17; 7,1.11.17; 8,1.22.26
47Cfr. Lc 9,51.53; 10,30; 13,4.22.33.34; 17,11; 18,31; 19,11.28
48Cfr. Lc 9,52.56; 10,1.38; 11,1a; 13,22; 17,12
49Cfr. Lc 5,1; 8,22.23.33