IL VANGELO SECONDO GIOVANNI

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi


SECONDA PARTE DEL VANGELO DI GIOVANNI

IL LIBRO DELLA GLORIA

CAPP. 15,1-16,4a


Esortazione a rimanere in Gesù
in un contesto di persecuzione




Note generali


I vv.14,30a.31b lanciavano un chiaro segnale di chiusura del discorso di addio (13,31-14,31), inserito nel contesto di una cena (13,2a). Ma con sorpresa il lettore, ora, si trova inaspettatamente di fronte ad un prosieguo di discorsi lungo tre capitoli (15-17). Tre capitoli che per il loro tono d'intimità, per le tematiche trattate, tutte legate all'addio, e per gli stessi personaggi che li popolano, i discepoli e Gesù in un intimo colloquio tra loro, si armonizzano bene con il contesto di dell'originale discorso di addio (13,31-14,31), che qui, nei capp.15-17, il redattore finale ha in qualche modo riprodotto, non di rado richiamandosi tematicamente ad esso, dando in tal modo l'idea di una sua continuità nei tre capitoli. Si tratta, in realtà, di tre capitoli inseriti tardivamente, probabilmente tra il 96-105 d.C., datazione questa che risponde, come vedremo, ai loro contenuti, che richiamano particolari contesti storici, in cui la comunità giovannea è venuta a trovarsi. Essi sono pertanto una sorta di lunga appendice di 13,31-14,31, associati al discorso di addio, per caricarli d'importanza, qualificandoli in tal modo come le ultime parole di Gesù rivolte ai suoi e quindi la sua eredità spirituale lasciata loro.

Il cap.15 si suddivide in due grandi sezioni: la prima,15,1-17, in cui ricorre pressante l'esortazione a rimanere in Gesù, riguarda il rapporto Gesù-discepoli. Significativo, infatti, è il verbo “mšnw n” (méno en, rimanere in), che solo qui ricorre dieci volte; la seconda, 15,18-16,4a, riguarda il rapporto discepoli-mondo, segnato dall'odio verso i discepoli, oggetto di persecuzioni e sofferenze a causa del nome di Gesù (v.21). Le due sezioni sono significativamente separate da due verbi tra loro contrapposti: l'amore, che deve regnare all'interno della comunità (v.17), con cui termina la prima sezione; e l'odio del mondo contro i discepoli (v.18), con cui si apre la seconda sezione. Amore, che ha la sua radice profonda nel “rimanere in” Gesù; e odio che si origina dall'estraneità dei discepoli al mondo (v.19).

La pressante esortazione a “rimanere in Gesù” in un contesto di odio del mondo, che si traduce in persecuzioni, spinge a pensare come questo cap.15 sia stato aggiunto in un contesto di persecuzioni e in risposta a queste, che appaiono di due tipi: provenienti dal paganesimo, qui indicato nella sua accezione generica di mondo, quale forza negativa di opposizione a Dio (vv.18-19), e dal giudaismo (16,2-3). Due fonti di persecuzioni tra loro distinte, ma accomunate dall'odio verso il cristianesimo. Due forze opposte che già erano state preannunciate nel prologo in 1,10-11: “Era nel mondo, e il mondo avvenne per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero”. Sono in genere quelle tenebre che non hanno saputo accogliere la luce nel suo apparire (1,5).

Quanto al mondo, il cristianesimo, dopo la persecuzione di Nerone nel 64 d.C.1, del tutto occasionale e limitata a Roma, conobbe per la prima volta una persecuzione estesa ad ampie aree dell'impero da parte di Domiziano (81-96 d.C.), verso la fine del suo regno2. Egli infatti si autoproclamò “Dominus et Deus”, pretendendo dai suoi sudditi il riconoscimento della sua divinità. Pretesa non accettabile da parte dei cristiani, che riconoscevano un unico Dio e suo Figlio Gesù Cristo. Il loro rifiuto valse loro l'accusa di ateismo. È durante questa persecuzione che rimase vittima anche Giovanni, nell'isola di Patmos (Ap 1,9).

Quanto al Giudaismo, questi vide nascere al proprio interno un movimento che si richiamava ad un certo Gesù di Nazareth. Tale movimento non solo contestava al Giudaismo il modo letterale e legalistico di interpretare e di comprendere la Torah, svuotandola del suo più autentico significato, ma, dopo la distruzione del Tempio nella prima guerra giudaica (66-73 d.C.), il cristianesimo pretese di essere l'unico e vero erede della Tradizione giudaica, definendosi il nuovo Israele, ponendosi in tal modo in rotta di collisione con il neonato giudaismo rabbinico di Jamnia (70 d.C.). Significativa in tal senso è la forte polemica che trapela dal Vangelo di Matteo al cap.23; la contrapposizione di un diverso modo di leggere la Torah in Mt 5,20-48; l'accusa rivolta al giudaismo rabbinico di aver usurpato la cattedra di Mosè (Mt 23,2). Tutti segnali di una forte tensione che portò il cristianesimo a rompere con il Giudaismo. È proprio di quest'epoca, infatti, intorno all'anno 85 d.C., l'inserimento nelle diciotto benedizioni della dodicesima benedizione, che nella sua formulazione originale, trovata presso la Genizah del Cairo, recitava: “Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nozrim e i minim; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi ”, dove per per “nozrim” probabilmente ci si riferiva ai “nazareni”, come venivano chiamati i seguaci di Gesù; mentre con il termine apostati, contro i quali venne comminata la pena della scomunica dalla sinagoga, testimoniata da Gv 9,22; 12,42 e 16,2a., ci si riferiva ai giudeocristiani, che, lasciato il giudaismo, abbracciarono la nuova fede3.

Questo era il difficile contesto storico in cui veniva a trovarsi il cristianesimo nel suo sorgere: da un lato il mondo pagano, quello greco-romano ed ellenistico; dall'altro il Giudaismo, da cui era fuoriuscito. Il cap.15 rispecchia tale situazione ed è una pressante esortazione a rimanere fedeli in Gesù rivolta alla comunità giovannea. L'idea di persecuzione che sottende, a mio avviso, l'intero cap.15 viene rafforzata dall'azione del Padre sia nei confronti dei tralci che, non portando frutto, vengono tolti di mezzo; sia nei confronti di quelli che invece portano frutto, che comunque sono potati perché portino maggior frutto (v.2). La persecuzione quindi viene qui colta come il momento della verità, che da un lato porta allo scoperto i falsi discepoli, dall'altro tempra e rafforza i veri discepoli nella loro scelta esistenziale: quella di rimanere in Gesù. Essa pertanto diviene un elemento di giudizio, di discriminazione tra i veri e i falsi discepoli, gli apostati, che la persecuzione ha fatto emergere all'interno della comunità. Questi vengono recisi dalla comunità e buttati fuori da essa, cioè scomunicati, e il cui destino è la condanna al fuoco (v.6). Significativi in tal senso è la presenza dei verbi al v.2: “a‡rei” (aírei, levare, togliere), “kaqa…rei” (katzaírei, pulire, purgare, lavare); e al v.6: “™bl»qh œxw” (ekblétze éxo, gettare fuori), “™xhr£nqh” ( exerántze, essere seccato, rendere arido), “sun£gousin” (sinágusin, radunare, raccogliere), “e„j tÕ pàr b£llousin” (eis tò pîr bálusin, gettare nel fuoco), “ka…etai” (kaíetai, bruciare). Tutti verbi ed espressioni verbali che vedono nella persecuzione il compiersi del giudizio divino posto sulla comunità.

Commento a 15,1-17

Testo a lettura facilitata

Il titolo

1- <<Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore.

Il tema

2- Ogni tralcio in me che non porta frutto lo toglie; e ogni (tralcio che) porta frutto lo monda affinché porti un frutto maggiore;
3- voi siete già mondi per la parola che vi ho detto;

Lo svolgimento

4- rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neppure voi se non rimanete in me.
5- Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, questi porta molto frutto, poiché senza di me non potete far niente.
6- Se qualcuno non rimane in me, viene gettato fuori come il tralcio e viene seccato e li raccolgono e (li) gettano nel fuoco e bruciano.
7- Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi accadrà.
8- In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Il rapporto tra Gesù e i discepoli riproduce quello tra Gesù e il Padre

9- Come il Padre ha amato me, anch'io ho amato voi; rimanete nel mio amore.
10- Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre [mio] e rimango nel suo amore.
11- Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia (resa) piena.

Che cosa significa amare come Gesù ha amato

12- Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati;
13- nessuno ha un amore più grande di questo, là dove uno offre la sua vita per i suoi amici.
14- Voi siete miei amici se fate quello che io vi comando.
15- Non vi chiamo più servi, poiché il servo non sa che cosa fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, poiché tutte le cose che ho udito dal Padre mio ve (le) ho rese note.
16- Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché voi andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga, affinché ciò che chiederete al Padre nel mio nome ve (lo) dia.
17- Queste cose vi comando affinché vi amiate gli uni gli altri.

Note generali

Il cap.10 descriveva il rapporto tra Gesù e i discepoli come quello che intercorre tra il pastore e le sue pecore, che si qualificavano come tali per il loro riconoscere la voce del pastore e per il seguirlo (10,4). La ricompensa per tali pecore erano i pascoli della vita (10,9); una vita di cui il pastore faceva dono offrendo se stesso in favore delle pecore (10,10b-11). Tuttavia il pastore rimaneva distinto dalle pecore e le pecore qui avevano comunque una vita propria distinta da quella del pastore. Il loro rapporto infatti era basato, da parte del pastore, sul dono che egli faceva della propria vita; da parte delle pecore, dalla loro capacità di riconoscere e accogliere la voce del loro pastore, da cui ricevevano il dono della pienezza della vita (10,10b). La figura del Padre qui compariva come attore esterno al rapporto Pastore e pecore: egli era colui che affidava le pecore al Pastore (10,29). Similmente al cap.10, ma in una prospettiva più evoluta e maggiormente penetrante, anche 15,1-17 parla della dinamica dei rapporti che intercorrono tra Gesù e i discepoli a cui si assomma una terza figura che qui, a differenza del cap.10, interagisce in questi rapporti, quella del Padre, quale attore principale implicito a tali rapporti, operando egli direttamente sui discepoli, che qui non hanno più una vita propria, ma beneficiano della stessa vita di Gesù, significata nella gioia (v.11). L'esito di tale intreccio è tutto a favore dei discepoli che in tal modo portano molto frutto, alludendo alla loro evoluzione spirituale, che è partecipazione alla stessa vita divina, trasformando in tal modo la loro vita in un atto di culto al Padre (v.8). Rispetto al cap.10, in cui i rapporti tra i diversi attori (Pastore, pecore e Padre) si consumavano attraverso una dinamica esterna, per cui ogni attore era un soggetto a se stante, che si relazionava all'altro, ma mantenendo la propria autonomia, la propria identità e il proprio ruolo, qui, in 15,1-17, i rapporti dei tre diversi attori si compenetrano reciprocamente e tendono tutti all'Uno. Già la parabola della vite e dei tralci parla di una unità profonda, di vitale unità e comunione di vita che intercorre tra i due, così che i tralci si qualificano come una sorta di propaggine della vite, anzi sono parte della vite e formano un tutt'uno con essa così che essi non possono pensarsi diversamente. All'interno di questa reciproca compenetrazione tra i tralci e la vite, espressa da quel “rimanete in me e io in voi” (v.4), opera ed interagisce l'agricoltore, il Padre, la cui azione è finalizzata ad approfondire (v.2b) e a salvaguardare (v.2a) questo rapporto di unità profonda, che è comunione di vita, che defluisce dalla vite ai tralci, ma che nel contempo accorpa i tralci a se stessa, facendoli vite, pur nel rispetto delle rispettive e distinte identità.

La sezione vv.1-17 è scandita in due parti: la prima, vv.1-8, è qualificata dalla fedeltà dei discepoli a Gesù, significata dal loro “rimanere in” lui e che ha come contropartita il suo “rimanere in” loro, formando in tal modo una reciproca compenetrazione, che diviene indivisibile comunione di vita; la seconda parte, vv.9-17, cambia passo e non si parla più di “rimanere in me”, ma di “rimanere nel mio amore” (v.9b) che ha il suo parametro di confronto nel rapporto di amore che intercorre tra Gesù e il Padre (v.9a). Il tema dell'amore qui sarà dominante; un amore, che, costruito su quello che intercorre tra Gesù e il Padre, deve qualificare il vivere del discepolo all'interno della comunità (vv.12-17).

Qui di seguito si propone un possibile svolgimento della struttura di questa prima sezione (vv.1-17), che si snoda attraverso la tecnica del pensiero a spirale, caratteristico di Giovanni:


Prima parte
(vv.1-8)

  1. v.1: La titolatura di questa prima sezione. Qui compaiono i due attori principali nei loro rispettivi ruoli di vite e di agricoltore, su cui si innesta l'intera dinamica dei rapporti Vite-tralci;

  2. vv.2-3: le due tipologie di discepoli che saranno prese in considerazione da questa prima sezione: coloro che “non portano frutto” e quelli che, invece, “portano frutto”. Due sono i diversi e contrapposti destini: i primi sono strappati dalla vite; i secondi mondati perché fruttifichino maggiormente;

  3. vv-4-5: i contrapposti esiti del “non rimanere” e del “rimanere”: chi non rimane non porta frutto; chi rimane porta molto frutto;

  4. vv.6-7: le sanzioni e i premi: “chi non rimane” viene tagliato, gettato fuori e bruciato (v.6); “chi rimane” ha l'accesso alla ricchezza di Dio (v.7);

  5. v.8: la conclusione della prima parte: “rimanere” e “portare frutto” è atto di glorificazione del Padre.


Seconda parte
(vv.9-17)

  1. vv.9-11: preludio introduttivo ai vv.12-17: si apre un parallelismo tra il rapporto Gesù-Padre e quello Gesù-discepoli. Tutto si gioca sull'amore, che si esprime nel compiere la volontà del Padre per Gesù; quella di Gesù per i discepoli;

  2. vv.12-17: viene specificata quale sia la volontà di Gesù; il comandamento che egli lascia loro in eredità: “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”. Il parametro di raffronto di questo amore, che deve qualificare i rapporti intracomunitari, è Gesù, il cui amore è connotato dal sacrificio e dall'estremo dono della propria vita.


SEZIONE PRIMA (vv.1-17)


Commento parte prima
(vv.1-8)


Il v.1, che forma inclusione con il v.5a per il ripetersi dell'espressione “Io sono la vite”, delineando in tal modo l'unità narrativa di base (vv.1-5a), ripresa e variamente elaborata dai successivi vv.5b-8, da un lato funge da titolatura a questa prima sezione (vv.1-17), dall'altro introduce il lettore in un contesto sapienziale molto noto presso il mondo giudaico, quello della vigna, dove Israele era la vigna e Dio l'agricoltore4. Sovente la comparsa della vigna era inserita in un contesto di giudizio in cui Dio giudicava l'infedeltà del suo popolo. Similmente qui, dove si pone una discriminazione tra i tralci fruttiferi e quelli infruttiferi; tra quelli che rimangono e quelli che non rimangono. Un giudizio le cui conseguenze sono indicate ai vv.6.8. Tuttavia qui non si parla di vigna, immagine collettiva, ma di vite. Non si tratta di una semplice scelta di immagine, ma di una sostituzione: la vigna è qui sostituita dalla vite; l'Israele, perseguito dai profeti per le sue infedeltà, è qui sostituito dall'ultimo Resto, quello fedele a Dio5; la Torah, il Libro dell'Alleanza, che Sir 24,17-22 raffigura ad una vite feconda dai dolci frutti, che sazia l'affamato, viene sostituita qui dalla “vite vera”, che, alla stregua di quella, possiede anche lei i suoi insegnamenti e i suoi comandamenti6, che riassumono in loro stessi tutta la Legge e i Profeti (Mt 22,40): “amatevi gli uni e gli altri come io vi ho amato” (vv.10), in cui il parametro dell'amore non è più l'amore per Dio e quello per il prossimo, ma Gesù stesso, la cui vita è rivolta al Padre e donata ai propri discepoli (10,15.17-18). L'attributo “vera”, apposto accanto alla vite, la definisce come l'autentica, quella preannunciata dalle altre immagini di vigne e di viti. Il tono polemico è qui evidente e si contrappone al giudaismo, definito dai profeti come quella vite da cui Jhwh si aspettava uva dolce e invece ha dato soltanto frutti selvatici ed acerbi (Is 5,2b; Ger 2,21), mentre Mt 21,33-41 e Mc 12,8-9 ne denunciano ancora una volta tutta la malvagità; una vite che i Sinottici associano anche a quel fico sterile, lussureggiante di foglie, ma privo di frutti (Mt 21,19; Mc 11,13; Lc 13,6-7) e che il racconto lucano minaccia di tagliarlo perché inutile.

Il v.1 presenta i due attori principali della parabola: Gesù, la vera vite, e il Padre, l'agricoltore, in un rapporto di passività tra Gesù e il Padre, in cui Gesù, quale vite, funge da luogo in cui il Padre opera un giudizio posto sui credenti, tutti nati da questa vite, ma solo alcuni se ne rendono degni e sanno fruttificare, mentre altri si limitano a vegetare, disconoscendo la loro origine e quindi distaccandosene. Strumento di giudizio e di discriminazione è la persecuzione, descritta, fuori da ogni metafora nella seconda sezione (15,18-16,4); mentre qui, al v.2, è richiamata in quel tagliare e mondare, che viene posto a carico dei tralci.

Torna nuovamente qui l' “Io sono” giovanneo, che, richiamandosi al nome e al modo di essere di Jhwh (Es 3,14), svelati a Mosè, definisce la divinità di Gesù, quasi a dire che quel Jhwh che ha incontrato Mosè sul Sinai è ora tornato in mezzo ai suoi nella persona di Gesù (1,14). Un “Io sono” che qui è definito quale “vite”, cioè quale luogo unico ed esclusivo da cui vengono generati i tralci (1,12-13), che non solo gli appartengono, ma ne costituiscono una propaggine; da questa vite la linfa vitale divina scorre verso i tralci-credenti. Si tratta di un'altra immagine che definisce l'indefinibile divinità di Jhwh, di cui Gesù diviene il luogo storico del suo disvelarsi agli uomini. Altrove l' “Io sono” si è variamente presentato imperativamente nella sua forma assoluta (8,24.28.58; 13,19), rendendosi poi più facilmente raggiungibile dagli uomini come “pane della vita” (6,35.48), “pane disceso dal cielo” (6,41), definizioni queste che trovano la loro sintesi in 6,51: “pane vivo disceso dal cielo”, che proprio per questo è capace di dare la vita; un “Io sono” che si autodefinisce come “luce del mondo” (8,12; 9,5) e dichiara la propria dimensione, che si contrappone nettamente a quella dell'uomo: “Voi siete da quaggiù, Io sono da lassù” (8,23); ma nel contempo è anche “la porta” di accesso alla vita, che consente agli uomini di quaggiù di passare a lassù. Sono tutti volti storici, sfaccettature, riflessi della multipla e infinità realtà divina con cui Dio si accosta all'umo e lo interpella nel suo essere storico.

Il v.2 va a completare l'immagine introdotta dal v.1 e presenta una nuova figura, quella del tralcio, che per sua natura è stato generato dalla vite ed è ad essa legato, anzi ne è una sua propaggine e si nutre della sua stessa vita. Vengono qui presentate due tipologie di tralci, le cui dinamiche e destini saranno specificati dai vv.4-8: quelli che non portano frutto e quelli che, invece, portano frutto. Anche quest'ultima categoria viene assoggettata alla potatura. Tagliare, mondare due verbi traumatici a cui tutte due le tipologie di tralci sono indistintamente sottoposti; se da un lato essi richiamano l'azione di un giudizio, che viene posto su tutti, dall'altro lascia intravvedere come lo strumento di questa cernita sia la persecuzione, il momento della prova (15,18-16,4), che discriminerà quelli che rimangono e quelli che invece non rimangono, alludendo alla fedeltà o meno provocata dalla persecuzione.

Il v.3, riprendendo il tema del mondare (v.2b), qui inteso nel senso di purificare, chiude il v.2 ed aggiunge una nuova nota inaspettata: la purificazione non avviene soltanto attraverso la persecuzione o la prova, ma viene misurata anche sull'accoglienza fedele della parola di Gesù, che possiede in se stessa un potere generativo e rigenerativo: “In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico che viene l'ora, ed è adesso, quando i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che hanno ascoltato vivranno” (5,24-25). Gesù, del resto, è presentato da Giovanni come il luogo della vita (5,26) che si fa luce per gli uomini: “in lui era vita, e la vita era la luce degli uomini” (1,4) così che chiunque crede in lui abbia la vita eterna (3,15). Una parola che nel racconto della Samaritana è definita come fonte di acqua viva, che possiede in se stessa una potenza rigenerativa (4,14), testimoniata anche in 1Pt 1,23. È dunque una parola viva ed efficace (Eb 4,12), che ha la vita e la genera in chi l'accoglie, aprendolo alla vita stessa di Dio, da cui è generato e in cui viene radicato (1,12-13). Per questo è una parola purificatrice e trasformatrice. Un concetto questo che è espresso molto efficacemente dalla particella greca “di¦” (dià) che significa “per mezzo di” assegnando alla parola il ruolo primario di strumento specifico attraverso il quale fluisce la vita stessa di Dio. Non è un caso del resto se Giovanni apre il suo vangelo ponendo nel principio assoluto di Dio proprio la sua Parola (1,1-2), da cui fluisce poi tutta la vita (1,3).

Il v.4a (“rimanete in me e io in voi”) completa e termina l'enunciazione del tema che costituisce la base da cui parte e si sviluppa il pensiero a spirale (vite, tralci, portare frutto, rimanere, il tutto intrecciato dalla presenza del Padre) che ha il suo vertice al v.8 e una sua ripresa dal v.9, in cui si prospetta un nuovo modo di “rimanere in Gesù”, quello del “rimanere nel suo amore”, che contiene in sé una dinamica sacrificale, quella del dono estremo della propria vita (v.13b) e il cui vertice è il comando dell'amore reciproco (v.17), parametrato su quello di Gesù (v.12). Il v.4a introduce il tema, successivamente più volte ripreso, del “rimanere in”, che qui presenta il doppio volto del discepolo in Gesù e di questi nel discepolo, aprendo un gioco di reciprocità intercompenetrativa, che si fa comunione di vita, la cui iniziativa è tutta in mano al discepolo, essendo il rimanere di Gesù nel discepolo conseguente al rimanere del discepolo in lui; e non a caso il rimanere di Gesù segue quello del discepolo. Tutto si gioca, quindi, nel pieno rispetto delle logiche della storia della salvezza, che interpella l'uomo nel suo vivere quotidiano e lo sollecita ad una scelta esistenziale definitiva (“rimanere in”), ma senza operare su di lui nessuna costrizione o minaccia, tenendo tuttavia presente che ogni scelta operata porta con sé le proprie conseguenze. È questo il senso dell'esortazione a “rimanere in me”, che sollecita non solo il proprio “essere e dimorare” in Gesù, ma anche il persistere in questa scelta. Si tratta in ultima analisi di una fedeltà esistenziale a Gesù, sempre e comunque, che costituisce la conditio sine qua non del rimanere di Gesù nel discepolo, così che la vita possa defluire dalla vite al tralcio.

vv.4b-8: con il v.4b inizia lo sviluppo del pensiero a spirale, che parte riprendendo il tema di base precedentemente enunciato. I vv.4b-5 divengono così una sorta di specificazione e di ampliamento del v.4a, di cui precisano le conseguenze di questo reciproco “non rimanere” (v.4b) o “rimanere” (v.5). Ci si trova di fronte ad una breve allegoria, che crea un parallelismo stretto e diretto tra il rapporto che intercorre tra Gesù e il discepolo e quello che lega il tralcio alla vite; un confronto strutturato sulle particelle comparative “kaqëj .... oÛtwj” (katzòsútos, come … così), che consente un'immediata comprensione su come si svolge la dinamica di questo particolare rapporto, ma che nel contempo mette le basi per la comprensione delle conseguenze del “non rimanere” o “rimanere”, illustrate ai vv.6-7. L'accostamento della formulazione del pensiero al negativo (v.4b) a quella al “positivo” (v.5) segue le logiche della retorica ebraica: il dire la stessa cosa in due modi diversi, perché in questo gioco di contrasto, venga meglio evidenziato il pensiero di fondo. La prima conseguenza del non rimanere o del rimanere è quella del non portare o del portare frutto. Che cosa significa “portare frutto”? L'autore usa sempre il singolare, “frutto”, e mai il plurale,“frutti”, nel quale caso il lettore è spinto a pensare che questi siano le opere buone o cattive, come similmente avviene in Matteo dove si parla di “frutti degni di conversione” (Mt 3,8), per cui “ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10); e ancora Mt 7,15-20, parlando di falsi profeti che vengono in veste di pecore, ma in realtà sono lupi rapaci, mette in guardia la sua comunità invitandola a guardare i loro frutti, cioè le loro opere. Ma qui non si parla di comportamenti buoni o cattivi; lo sfondo non è quello morale, ma cristologico, inteso come risposta esistenziale al proprio essere o non essere in Gesù. Similmente anche i Sinottici, parlando di alberi buoni o cattivi parlano di “frutto” e non più di “frutti” (Mt 12,33); così come nella parabola del buon seminatore si parla di frutto e mai di frutti (Mt 13,3-8); e parimenti Lc 6,44 osserva come “Ogni albero si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo”. Dall'insieme si può evincere come l'uso del sostantivo “frutti” al plurale indica le opere; mentre il termine al singolare, “frutto”, riguarda più che le opere uno stato di vita, che il v.4a definisce come un reciproco “rimanere in”, una intercompenetrazione tra Gesù e discepolo, che esprime un profondo stato di comunione di vite e tale da farne una sola. Una intercompenetrazione che richiama e in qualche modo riproduce e riflette lo stato di vita di Gesù e del Padre (14,9-11). Il “portare frutto”, pertanto, esclude il riferimento alle opere, definendo, invece, uno stato di vita, che va a toccare l'ontologia stessa del credente, che è in Gesù con il suo essere ed è a sua volta da lui compenetrato, così che i due diventano una sola cosa; così come lo sono la vite e il tralcio, che si nutrono della stessa linfa vitale e in qualche modo si appartengono reciprocamente e si completano reciprocamente. Una vite senza tralci infatti denuncia tutta la sua sterilità, così come il tralcio staccato dalla vite diviene solo legna da ardere, perdendo la sua identità e la sua funzione originarie. Una intercompenetrazione e una profonda comunione di vita che Paolo testimonia circa il suo rapporto con Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

Il v.5 si apre con l'espressione “Io sono la vite”, che si aggancia al v.1, formando con questo inclusione, che circoscrive l'unità narrativa vv.1-5 in cui si presenta la dinamica del rapporto Gesù-discepolo, parametrato su quello della vite e i tralci. Sempre con il v.1 il v.5a ha in comune la presentazione degli attori principali di questo particolare rapporto, così che il Padre agricoltore sta a Gesù-vite (v.1), come il Gesù-vite sta ai discepoli-tralci (v.5a); il parallelismo, che diventa una sorta di proporzione/equazione letteraria tra v.1 e v.5a, non è un semplice accademismo letterario, ma sottolinea come il rapporto Padre-Gesù si riproduce e si riflette in quello tra Gesù-discepoli; un rapporto quest'ultimo, che, proprio per questo, viene in qualche modo associato, ma forse è meglio dire accorpato, al primo. Non è un caso, infatti, che il v.5 termini con l'attestazione “senza di me non potete far niente”. È esattamente quello che Gesù ha detto riferendosi al suo rapporto con il Padre (5,19.30), dichiarando in tal modo la propria imprescindibile dipendenza dal Padre, così come i discepoli da quella di Gesù. La chiusura del v.5 va a completare e a meglio specificare quella del v.4 con cui genericamente si sottolineava come il discepolo non può portare frutto se staccato dalla vite-Gesù. Ora il motivo viene chiaramente spiegato qui in termini sentenziali e categorici, che vanno a toccare l'essenza stessa del rapporto: “poiché senza di me non potete far niente”. Quanto al v.5b, questo riprende in buona sostanza il v.4a, e spiega come il “portare frutto” dipenda da questo intimo e profondo rapporto di comunione intercompenetrativa di vite, che confluiscono l'una nell'altra, e che diviene la conditio sine qua non per poter “portare frutto”, cioè accedere allo stato di vita divina che defluisce dalla vite-Gesù verso il tralcio-discepolo.

L'illustrazione della dinamica del rapporto Gesù-discepoli, parametrato su quello della vite-tralci, si chiude con il v.5. La pericope vv.6-8, pur riflettendo il racconto della vite e dei tralci, tuttavia non ne fa parte, ma ne diviene una sorta di logica conseguenza, in cui si presentano i diversi e contrapposti destini di chi ha fatto la scelta del rimanere e di chi, invece, ha preferito non rimanere. In ultima analisi i vv.6-7, riprendendo il v.2, specificano gli effetti e il senso di quel tagliare e di quel mondare iniziali, affidati all'opera del Padre agricoltore, lasciando intravvedere come in questi si sia compiuto un giudizio.

Il v.6 affronta l'ipotesi di chi non rimane in Gesù. L'espressione “Se qualcuno” introduce la prima fattispecie, quella dell'infedeltà e dell'abbandono della propria fede in un contesto di persecuzione. Il pronome “qualcuno” proprio per il suo anonimato e la sua genericità imprime alla sentenza di condanna un senso di universalità. Si tratta di una sentenza che presenta al proprio interno almeno due apparenti irregolarità: la prima riguarda l'incomprensibile presenza di due verbi all'aoristo passivo, posti all'interno di un contesto che richiede invece un presente indicativo: “Se qualcuno non rimane in me, venne gettato fuori (™bl»qh œxw, exeblétze éxo) come il tralcio e venne seccato (™xhr£nqh, exerántze) e li raccolgono e (li) gettano nel fuoco e bruciano”; la seconda riguarda il passaggio dalla terza persona singolare dei due aoristi alla terza persona plurale dei due verbi seguenti (li raccolgono e li gettano), introducendo in tal modo un nuovo soggetto di cui non si dice nulla, il cui compito è quello di raccogliere e bruciare. Come spiegare queste due apparenti anomalie? Una prima ipotesi, forse la più semplice e immediata, è quella che attribuisce alla lunga gestazione del vangelo giovanneo la formulazione così tesa e problematica del v.6, dovuta ai diversi rimaneggiamenti subiti nel tempo. Una seconda ipotesi, molto più complessa, accetta per buono il v.6 così come la tradizione ce lo ha passato, per cui si cerca di trovare tra le righe gli intenti del suo autore. E sarà questa la strada che tenteremo di percorrere nella speranza di non tradire il pensiero del suo autore.

I due aoristi passivi sono di tipo ingressivo; si tratta di un passivo teologico, anche se raro in Giovanni, ma non completamente assente, in cui il soggetto è Dio stesso, rimandando in tal modo l'azione del gettare fuori e seccare al Padre, che al v.2 taglia e monda. Quanto all'aoristo esso, come si è detto, è di tipo ingressivo, in quanto che l'azione dei due verbi trovano la loro origine già al momento dell'entrata nella comunità di coloro che non rimangono e dicono come questi che “non rimangono” in realtà non erano mai appartenuti alla comunità e già fin da allora essi vennero gettati fuori e seccati, ma soltanto ora, posti alla prova dalla persecuzione sono apparsi per quello che sono sempre stati, dei tralci già tagliati e gettati fuori, cioè non appartenenti, anzi, mai veramente appartenuti alla comunità credente. Quindi il loro essere raccolti e gettati nel fuoco, verbi espressi nuovamente al presente indicativo, mettono in rilievo la conclusione della loro totale estraneità alla comunità, che tale era fin dal loro essere entrati in essa, e fatta ora emergere dalla persecuzione. Similmente 1Gv 2,19 racconta, con riferimento ai falsi profeti e diffusori di menzogne, definiti come degli anticristi (1Gv 2,18), come questi “Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri”. Questo è il contesto storico a cui i due aoristi ingressivi fanno riferimento. Si tratta quindi di un giudizio già emesso a suo tempo, allorché questi, senza alcuna sincerità, sono entrati a far parte della comunità, ma che solo ora, al momento della prova, è stata resa evidente la loro estraneità, significata dai verbi all'aoristo ingressivo “venne gettato fuori e …. venne seccato”. Un concetto simile viene espresso dallo stesso autore in 3,18 dove per chi non crede il giudizio di condanna è già insito nel suo non credere: “Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio”. Il v.6 pertanto andrebbe riletto nel seguente modo: “Se qualcuno non rimane in me, venne (già) gettato fuori come il tralcio e venne (già) seccato e (quindi ora) li raccolgono e (li) gettano nel fuoco e bruciano”. Si tratta quindi di un giudizio di condanna già insito nella loro insincerità di vita, che il momento della prova ha portato allo scoperto. L'essere bruciati, così come il “tagliare” del v.2, indica gli esiti della scomunica che fa gravare su di essi la condanna e che corrisponde al “pianto e stridore di denti” di Matteo e Luca7, posto a conclusione di parabole o di minacce in cui viene espresso un giudizio di condanna. Forse qui vi è un'eco di quanto succedeva presso la comunità di Qumran, dove, secondo Giuseppe Flavio “Quelli che sono trovati colpevoli di gravi crimini li espellono dalla comunità. Chi subisce tale condanna spesso fa una fine assai miseranda; infatti, vincolato dai giuramenti e dalle abitudini, non riesce nemmeno a mangiare ciò che mangiano gli altri, e cibandosi di erba e consumando il corpo con la fame finisce per morire” (Guerra Giudaica, II, 143).

Quanto ai due verbi posti inaspettatamente alla terza persona plurale (li raccolgono e li gettano) fanno pensare ad un contesto giudiziale dove il re o il giudice, emessa la sua sentenza di condanna, questa viene fatta eseguire dai servi o dalle guardie.

Il v.7 formula una seconda ipotesi contrapposta a quella del v.6, quella di chi rimane in Gesù: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi accadrà”. Il tema qui riprende nella sostanza quello di 14,12-14. Già altre due volte si era detto che Gesù rimane in coloro che rimangono in lui (v.4a.5b). Ora il rimanere di Gesù nei discepoli che rimangono in lui viene sostituito dal “rimanere della sua parola nei discepoli”. Non si tratta di un cambio di soggetto: da Gesù alla sua parola, ma di una nuova condizione del rimanere in Gesù: la sua parola deve dimorare nel discepolo perché esso si possa dire veramente tale e conforme a Gesù. Soltanto a questa condizione il discepolo rimane veramente in lui. Il rimanere in Gesù, quindi, subisce una modifica sostanziale: non è più sufficiente essergli fedele nella prova, ma serve anche una conformazione esistenziale a lui, che avviene attraverso l'accoglienza della sua parola nella propria vita. È soltanto in tal modo che si mostra il vero amore a lui, facendo si che la propria vita diventi il luogo della dimora di Gesù e del Padre, considerato che la sua parola è quella del Padre (14,24): “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (14,23); mentre “Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato” (14,24). Se la prova, dunque, fa emergere la fedeltà del vero discepolo a Gesù, il suo accogliere nella propria vita la sua parola, conformandosi ad essa, testimonia il suo amore per lui. E sarà proprio sul tema dell'amore che si giocherà la seconda parte (vv.9-17) di questa prima sezione del cap.15. Questa fedeltà che deve sfociare nell'amore per essere completa, fa accedere il discepolo alla pienezza della vita divina: “chiedete quello che volete e vi accadrà”. Non si tratta qui della promessa di una sorta di bacchetta magica, per cui ogni sogno può essere realizzato a buon mercato, ma dell'accesso del discepolo alle ricchezze di Dio e del suo Regno. Questa domanda, infatti, va letta nel contesto in cui è posta. Innanzitutto la domanda che si colloca nell'oggi (verbi al presente) trova il suo soddisfacimento non nell'immediato, ma soltanto nel futuro: “vi accadrà”, rimandando tale soddisfacimento nel proprio essere nella pienezza di Dio, che non riguarda di certo i propri bisogni materiali, ma le esigenze del Padre, che viene glorificato nel discepolo nella misura in cui questi porta molto frutto, confermandosi nella sequela. L'oggetto del domandare posa il suo accento pertanto sul v.8. La prospettiva di Dio e del suo piano salvifico, infatti, non puntano a far star bene l'uomo qui sulla terra, ma ad indicargli la strada del suo ritorno in seno a quel Dio da cui era disgraziatamente e drammaticamente uscito nei suoi primordi. Il discepolo per il suo particolare stato di vita, che lo vede reciprocamente compenetrato in Gesù in una profonda comunione e simbiosi con lui, metaforizzata nell'allegoria della vite e dei tralci, è chiamato fin d'ora ad interessarsi delle cose di Dio, a cui egli appartiene e verso cui è rivolto. In questo contesto Paolo ricorda alla sua comunità di Roma che “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini” (Rm 14,17-18).

Il v.8 porta a conclusione questa prima parte incentrata tutta sulla dinamica che regola i rapporti dei discepoli con Gesù, giocata sull'immagine della vite e i tralci, prospettando come attraverso questa particolare tipologia di rapporto si attua un'azione di culto al Padre, che ha come pilastri fondamentali su cui poggia “il portare molto frutto” e il “diventare discepoli di Gesù”. Se il “portare frutto”, come si è detto sopra, definisce lo stato di vita di chi rimane in Gesù, qui il “portare molto frutto” dice l'evoluzione spirituale del discepolo nel suo essere in Gesù. L'accento, infatti, cade su quel “molto” che apre il discepolo ad un cammino di crescita spirituale che dal meno va al più, in cui il “molto” non dice una quantità ragguardevole, ma pur sempre limitata, ma indica uno spazio illimitato i cui confini sono quelli della vita stessa di Dio, in cui il discepolo è stato inserito con il suo rimanere in Gesù e questi in lui. Mentre il sollecito di “divenire discepoli di Gesù” non va inteso come il passare da uno stato di non sequela a quello di sequela, considerato che il “portare molto frutto” è conseguente all'essere discepolo, cioè tralcio della vite, già innestato proficuamente nella vite nella quale sta portando “molto frutto”. Il sollecito a “divenire miei discepoli” è legato da un rapporto di dipendenza al “portiate molto frutto” dalla particella “kaì” (e), che non è disgiuntiva, ma congiuntiva, per cui il portare molto frutto fa si che i discepoli si affermino nella sequela a Gesù e crescano sempre più in essa. Il verbo “ggnomai” (ghíghnomai) significa divenire, diventare ed implica un concetto di trasformazione, di evoluzione e quindi di crescita spirituale in Gesù, significata in quel “molto frutto” da cui “ggnomai” dipende. Anche questo è ricompreso nel “portare molto frutto”, manifestandosi in tal modo sempre più discepoli di Gesù, poiché sempre più trasparirà da loro l'immagine di quel Gesù a cui sono sempre più configurati e conformati fino a giungere all'esclamazione di Paolo “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a). Tutto ciò significa glorificare il Padre, rendergli culto con la propria vita, trasformata in tal modo in una liturgia di lode a Dio.

Commento parte seconda (vv.9-17)

I vv.9-11 segnano un radicale cambio di passo, fondamentale per la vita del discepolato: se vv.1-8 erano dominati dal tema del rimanere dei discepoli in Gesù ed egli o le sue parole in loro, questa breve pericope, che funge da introduzione ai vv.12-17, sollecita i discepoli a rimanere nell'amore di Gesù, che va ben oltre al semplice quanto generico rimanere in lui. Rimanere nell'amore dice far parte della dinamica fondamentale che muove la vita stessa di Gesù, in cui si riflette ed opera quella del Padre; significa entrare nel vivo del rapporto dei Due e lasciarsi coinvolgere in esso; lasciare che questo si rifletta ed operi nei discepoli; far si che la loro vita sia informata e conformata a questo rapporto di amore, così che l'operare dei discepoli sia quello proprio dei Due. Il verbo qui prevalente, infatti, è “¢gap£w” (agapáo, amare), che soltanto nei vv.9-10 ricorre ben cinque volte e che in Giovanni definisce la vita relazionale tra Gesù e il Padre ora estesa anche tra i Gesù e i discepoli.

La struttura dei vv.9-11 si snoda in tre parti: v.9 sollecita i discepoli a rimanere nell'amore di Gesù; v.10 precisa la modalità per rimanere nel suo amore; v.11 funge da parte conclusiva di questo processo di immanenza nella vita di amore di Gesù da parte dei discepoli e ne dice le conseguenze: la gioia, che definisce la pienezza di vita comunionale tra Gesù e il Padre, che viene riversata e partecipata ai discepoli, in quanto facenti parte di questo dinamismo di amore. L'intera dinamica del rapporto di amore Gesù-discepoli si presenta pertanto come un riflesso ed una estensione di quella tra Gesù e il Padre. Significative in tal senso sono le particelle comparative: “kaqëj” (katzòs, come), “k¢gë” (kagò, anch'io) del v.9 e nuovamente “kaqëj” (katzòs, come) al v.10.

Il v.9, caratterizzato dalla presenza delle particelle comparative “katzòs … kagò”, “come ... anch'io”, apre il confronto tra l'amore che intercorre tra il Padre e Gesù (katzòs) e quello che intercorre tra Gesù e i suoi discepoli (kagò); come dire che il rapporto di comunione dei Due si riflette e si estende a quello tra Gesù e i suoi, quasi che questo amore sia una sorta di prosecuzione del primo che confluisce nel secondo, così che il secondo viene in qualche modo accorpato al primo, creando in tal modo un ciclo vitale di amore e di comunione in cui coinvolti non sono più soltanto i Due, ma grazie a Gesù, anche coloro che rimangono nel suo amore. Il v.9 si chiude precisando le modalità del rimanere in Gesù: “rimanete nel mio amore”; come dire “rimanete in questo ciclo di amore”, un amore che per sua natura definisce una dinamica relazionale molto complessa tra i diversi soggetti che vi fanno parte; si tratta di un amore che è totale apertura degli uni verso gli altri; totale accoglienza degli altri in se stessi; totale donazione di se stessi agli altri. In questo gioco di amore i rapporti tra i diversi partecipanti si intrecciano al punto tale da compenetrarsi reciprocamente così da formare un UNO comunionale inscindibile. Sarà infatti su questo di tipo di parametro amoroso che Gesù insisterà nella sua preghiera al Padre: “affinché tutti siano uno, come tu, Padre, in me e io in te, affinché anche loro siano in noi” (17,21a e simil. 17,11b.22).

Se il v.9 parla della dinamica amorosa che lega tutti in UNO, il v.10 enuncia la condizione che consente questa dinamica: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. Per poter dunque accedere all'amore di Gesù e rimanervi si rende necessario osservare i suoi comandamenti. Un tema questo che già era comparso in 14,15 in un contesto di grave crisi della comunità giovannea, minata all'interno da sedicenti messia e falsi profeti, che Giovanni definisce gli anticristi8. Anche qui il contesto, caratterizzato dai due verbi al futuro (osserverete, rimarrete), riguarda il tempo della chiesa che lega l'essere nell'amore di Gesù, cioè l'essere partecipi della sua vita di comunione con il Padre, alla concreta osservanza dei suoi comandamenti. Significativa è qui la comparsa del termine comandamento (™ntol», entolé), che lascia intravvedere come ormai il pensiero e la persona di Gesù si siano trasformati in una sorta di dottrina o comunque di elaborazione teologica o cristologica, che deve sostanziare la fede della comunità credente e informare la vita di ogni discepolo. L'osservare i comandamenti diviene pertanto un sollecito a conformarsi esistenzialmente al Mistero di vita e di amore che si è manifestato in Gesù. È lui, in quanto inviato, il comandamento del Padre, cioè il luogo della manifestazione della sua volontà salvifica, che, secondo le logiche della storia della salvezza, si propone e mai si impone all'uomo, lasciandolo nella sua libertà di scelta, che comunque non è scevra di responsabilità e conseguenze. La valenza di “comandamento” risiede nel fatto che tale rivelazione è unica ed esclusiva e costituisce la conditio sine qua non per poter accedere al Padre, del quale Gesù è la Via e la Verità (14,6a), per cui nessuno riesce a raggiungere il Padre se non per mezzo suo (14,6b); così come nessuno può accogliere Gesù se non sospinto dal Padre (6,44).

Anche qui il rapporto di amore Gesù-discepoli, giocato sull'osservanza dei suoi comandamenti (v.10a), ha come parametro di raffronto quello che regola la relazione amorosa tra Gesù e il Padre, che viene estesa a quella di Gesù e discepoli: “come io ho osservato i comandamenti del Padre [mio] e rimango nel suo amore” (v.10b). Si tratta, in realtà, dello stesso rapporto entro cui sono stati accorpati anche i credenti in e per mezzo di Gesù. I comandamenti del Padre altro non sono che la sua volontà salvifica, che in Gesù, quale suo inviato, diviene attuazione del progetto salvifico; un fare la volontà che è per Gesù un atto di culto che glorifica il Padre, verso il quale ha rivolto la sua vita fin dall'eternità (1,1) e che qui nella storia assume il volto di missione propria di Gesù: “Io ti ho glorificato sulla terra, avendo portato a termine l'opera che mi hai dato da fare” (17,4). Il richiamo alla missione compiuta è racchiuso tutto in quel “ho osservato”, qui reso con un perfetto indicativo (tet»rhka, tetéreka), che definisce uno stato presente conseguente ad un'azione passata. Un'osservanza ed una missione, quindi, che hanno radici lontane, nello stesso progetto salvifico del Padre, che “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5); un'osservanza che ha trovato la sua attuazione nell'incarnazione di suo Figlio e nella sua stessa missione, a cui ora Gesù sta per dare pieno compimento, che sarà sancito da quel “Tetšlestai” (Tetélestai, è compiuto), che egli pronuncerà sulla croce (19,30a) a definitivo sigillo di una volontà pienamente compiuta, che diviene salvezza per l'uomo e per l'intera creazione (Rm 8,19-23). Per questo, e qui il verbo torna al presente indicativo per indicare il suo continuo essere nel Padre, egli rimane nel suo amore.

Il v.11 chiude questa breve introduzione alla pericope seguente (vv.12-17), rilevando come la rivelazione operata da Gesù sia non solo conoscenza del Mistero racchiuso nel Padre fin dall'eternità (Rm 16,24-25), ma anche trasfusione di vita divina che da questo Mistero defluisce verso i credenti, così che la loro vita diventi pienezza di vita divina a cui essi sono stati associati in virtù della loro fede. Il v.11, infatti, si apre con il verbo “lel£lhka” (leláleka, ho detto), che in Giovanni ha a che vedere con il “dire” rivelativo di Gesù, mentre l'oggetto di questo “dire”, espresso qui genericamente con “Taàta” (Taûta, Queste cose), abbraccia l'intera missione rivelativa che addentra il credente nell'eternità stessa di Dio: “Ora, questa è la vita eterna, che conoscano te il solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (17,3). Una rivelazione che ha come fine ultimo il dono della pienezza della vita: “affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia (resa) piena”. La gioia di cui l'autore qui parla non è uno stato di esaltazione emotiva, ma è espressione della pienezza di vita divina che unisce il Padre e Gesù e che per mezzo della rivelazione viene trasfusa ai discepoli. Una gioia che troverà la sua eco in 17,13: “Ma ora vengo a te, e queste cose dico nel mondo, affinché abbiano in loro stessi la mia gioia piena”, quella gioia piena che Gesù riavrà nella risurrezione, allorché il Padre gli restituirà quella gloria che egli aveva fin dall'eternità (17,5) e che egli ha donato ai suoi perché essi siano uno come il Padre e il Figlio (17,22), avvolti nella loro vita divina donata, sono Uno.

I vv.12-17 sono delimitati dall'inclusione data dal comando dell'amore vicendevole posto ai vv.12.17 sostanzialmente identici. Preceduta dai vv.9-11 introduttivi, in cui si precisava come per rimanere nell'amore di Gesù, che colloca il credente nella stessa vita che intercorre tra Gesù e il Padre, fosse necessario osservare i suoi comandamenti, questa pericope (vv.12-17) si apre e si chiude prospettando ai discepoli un comandamento da osservare, che 13,34 definiva “nuovo” e che doveva diventare il segno distintivo e qualificante dell'essere discepoli di Gesù (13,35). Già si comprende dunque come il tema di questa pericope altro non è che una ripresa dei vv.13,34-35, finalizzata a precisare la natura di questo amore, che il v.13 definisce come sacrificale e quindi parametrato su quello di Gesù (“come io vi ho amati”), che sta per offrire la sua vita per i suoi amici. (v.13b). Come dire che le relazioni intracomunitarie devono essere improntate ad un amore estremo, che spinge il credente a spendere la sua vita fino in fondo per l'affermazione degli altri. Una vita che si fa pane che si spezza per l'altro.

Il v.12 si apre in modo imperioso, autoritario e autorevole, che dice tutta l'impellenza di tale comando, ma che nel contempo funge anche da eredità spirituale, che Gesù lascia ai suoi. Il contesto infatti è sempre quello dell'ultima cena, quella degli addii (13,2a), in cui sono collocati, sia pur tardivamente, anche i i capp-15-17: “Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”. È un comandamento finalizzato (†na, ína, affinché) a inculcare l'amore vicendevole all'interno dei rapporti comunitari; un amore da cui non si può prescindere se si vuole “rimanere nel suo amore” (v.10a) e quindi essere in comunione di vita con Gesù e il Padre, evitando così di diventare tralci che il Padre taglia, staccandoli dalla Vite e gettandoli nel fuoco (vv.2a.6). Una comunione di vita che deve riflettersi nelle reciproche relazioni fra credenti, che lasciano intravvedere in quel “¢ll»louj” (allélus, gli uni gli altri) la reciprocità intercompenetrativa che intercorre tra Gesù e il Padre. Un concetto questo che verrà ripreso in 17,11.21.22, che assimilano la comunione di vita dei discepoli a quella di Gesù e il Padre, ma che nel contempo hanno come parametro immediato di raffronto l'amore di Gesù per i suoi. Un amore la cui natura verrà illustrata dal v.13.

Il v.13, dal sapore sapienziale e dai ritmi sentenziali, decreta le dimensioni e la qualità di questo amore, che va ben al di là di ogni sentimentalismo e certamente non è sorretto da spinte emozionali, ma trova il suo punto di forza in quel “” (tzê), che tra i suoi diversi significati annovera anche quelli di “deporre, consacrare, offrire” la propria vita. Un dono quindi che avviene attraverso la modalità del sacrificio e che le espressioni “nessuno” e “più grande” rendono esclusivo, unico e superlativo, ineguagliabile, poiché è un dono che spinge l'amante a offrire tutto se stesso fino all'atto estremo della vita. Ma nel contempo quel “nessuno” assegna a questo tipo di amore sacrificale una valenza universale, in cui tutti sono chiamati a configurarsi, riparametrando il proprio vivere su quel “come io vi ho amati”. La particella avverbiale “kaqëj” (katzòs, come) indica al credente le modalità di questo amore, che ha il suo parametro di confronto nel Gesù crocifisso, che della sua vita ha fatto un esclusivo ed unico dono di amore per gli altri. Significativo è qui l'uso del sostantivo “yuc»” (psiché) per indicare la vita. Secondo l'antropologia degli antichi l'uomo è un composto di spirito e di carne, due elementi tra loro inconciliabili, ma tenuti assieme dalla “psiché”, che diviene pertanto l'espressione dell'interezza e della totalità dell'essere umano. L'offerta sacrificale della “psiché”, pertanto definisce il dono come totale e totalizzante, che non ammette in se stesso condizioni o riserve. Questo è stato il dono che Gesù ha fatto di se stesso a favore dei suoi; questo è l'amore che i suoi devono lasciar trasparire da loro stessi e dalle loro relazioni intracomunitarie.

Con il v.13 l'autore oltre che definire la natura di questo amore ne precisa anche l'oggetto: gli amici; un sostantivo che, a cascata, ricorre da qui al v.15 in un continuo susseguirsi di richiami che, man mano procedono, si arricchisce di nuovi aspetti, così da imprimere al termine un nuovo significato. Si parte con gli “amici” del v.13 verso cui è rivolto l'esclusivo dono di amore. Il termine greco “floj” (fílos) significa prevalentemente caro, diletto, amato, accettato, gradito, definendo la natura dell'amico, come colui che rientra nelle preferenze e nell'intimità di chi dona la propria amicizia; ma esso significa in taluni casi anche mio, tuo, proprio, circondando la figura dell'amico di un'aura di appartenenza, di proprietà, così che l'amico in qualche modo non si appartiene più ed entra a far parte della sfera di chi gli dona la propria amicizia, associandolo a se stesso. Se questi sono gli aspetti psicologici ed umani dell'amicizia, tuttavia essi sono del tutto insufficienti a spiegare questo particolare rapporto qualora il dono della propria amicizia implichi di fatto il dono totale della vita, che per l'amico viene sacrificata. Ecco dunque l'ulteriore passo che attribuisce all'amico un nuovo significato: “Voi siete miei amici se fate quello che io vi comando” (v.14). L'amico dunque è colui che “fa” quanto gli viene comandato. L'accento qui cade sul “fare”, espresso in greco dal verbo che dice tutta la concretezza di questo “fare”: “poišw” (poiéo); una concretezza che si radica nella vita stessa nel suo dispiegarsi quotidiano. Amico, dunque, è colui che conforma il proprio vivere a chi gli offre la sua amicizia, che è dono di vita: “amici se fate” è la conditio sine qua non per poter accedere a questo livello di amicizia, che vede porre in palio la Vita per la vita dell'amico. Ed infine, con il v.15, il terzo ed ultimo passaggio, che se da un lato qualifica ulteriormente la figura di questo amico, che ormai ha perso ogni suo connotato umano per assumere aspetti squisitamente divini, dall'altro spiega la dinamica che ha prodotto il passaggio da uno stato di servitù a quello di amicizia: “Non vi chiamo (lšgw, légo) più servi, poiché il servo non sa che cosa fa il suo signore; ma vi ho chiamati (e‡rhka, eíreka) amici, poiché tutte le cose che ho udito dal Padre mio ve (le) ho rese note”. Qui ci si trova di fronte ad un passaggio fondamentale che va a modificare ontologicamente l'essere proprio del discepolo, definito e costituito (e‡rhka, eíreka) “amico” e quindi in qualche modo associato e accorpato alla persona di Gesù e ai suoi destini (“come io vi ho amati”).

Il v.15 è scandito in due parti: la prima definisce la natura del servo come colui che è posto al seguito del suo padrone, ma non partecipa alla sua vita: il servo infatti non sa cosa fa il suo padrone. Quel non “chiamare” più servi è reso in greco con “lšgw” (légo), che significa nominare, designare, chiamare, dichiarare ed è posto qui al presente indicativo e in forma negativa per indicare come lo stato presente dei discepoli non solo non appartiene più a quello di servi, ma continuerà a non appartenervi più; il presente indicativo definisce infatti la persistenza dell'essere o del non essere in una determinata posizione. La condizione di servo, infatti, definisce la posizione iniziale del discepolo, tale per la sequela, ma che ancora non ha accesso al sapere del maestro (12,26). Prima di giungere a tale sapere il discepolo doveva compiere un lungo tirocinio che prevedeva obbedienza, sudditanza e servizio al proprio maestro, con il quale conviveva per apprenderne le espressioni più intime per poi poterlo perpetuare nel suo insegnamento e nel suo modo di vivere9. Questa la posizione iniziale dei discepoli di Gesù, che, giunti al termine della missione terrena del loro Maestro, hanno avuto accesso alla sua conoscenza, i cui contenuti hanno la stessa dimensione divina: “ma vi ho chiamati amici, poiché tutte le cose che ho udito dal Padre mio ve (le) ho rese note”. Questa seconda parte del v.15 segna il passaggio sostanziale dallo stato di servi a quello di amici, poiché ora i discepoli sono stati resi partecipi del Mistero rivelato. Il v.15b si apre con la particella avversativa “ma”, che contrappone quanto segue al precedente stato di vita. Anche i verbi cambiano radicalmente: si passa dal “non vi chiamo più servi” in cui il verbo “chiamare” è reso in geco con “légo” a questa seconda parte in cui il verbo “chiamare” è reso in greco con “e‡rhka” posto al perfetto indicativo. Il verbo significa non solo dire, parlare, chiamare ma anche annunciare, ordinare, stabilire. Vi è dunque una vera e propria costituzione che eleva i discepoli dal rango di servi a quello di amici, che incide a livello ontologico, cioè sullo stato dell'essere dei discepoli, passati da servi ad amici, che determina un passaggio relazionale con Gesù. Il tempo verbale è qui al perfetto indicativo che definisce lo stato presente come conseguenza di un'azione passata, imputabile non soltanto alla fedele sequela, ma anche alla disponibilità di questi discepoli-servi ad accogliere fin dall'inizio il “Sapere” rivelativo del loro Maestro (17,6-8), abbracciandolo e facendolo proprio: “poiché tutte le cose che ho udito dal Padre mio ve (le) ho rese note”. Vi è dunque un'evoluzione spirituale, che prelude al v.16 in cui si dirà che i discepoli sono stati “scelti e costituiti”, gettando le fondamenta dell'apostolato, cioè del proseguimento della missione di Gesù.

Il v.16 porta a conclusione il processo del discepolato, che iniziatosi con la semplice sequela (v.15a), che qualificava i discepoli come servi, si era poi evoluto nella conoscenza partecipatagli dal maestro, che lo ridefiniva nel suo nuovo ruolo e status di amici (v.15b). Si tratta qui (v.16) di una sorta di formula di consacrazione, potremmo dire, anche se in modo del tutto improprio, di ordinazione che costituisce i discepoli quali nuovi “Rabbi”, ormai fondati e saldamente radicati in Gesù, di cui dovranno proseguire l'opera nel suo nome: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché voi andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga, affinché ciò che chiederete al Padre nel mio nome ve (lo) dia”; una formula che in quel “œqhka” (étzeka, ho costituito) risente di una prassi ormai consolidata presso le chiesa primitiva, che assegnava ai responsabili di comunità l'autorità necessaria per la loro cura attraverso l'imposizione delle mani (At 6,6; 13,1-3;). La formula inizia con “Non voi avete scelto me” che dice come il proprio essere discepolo non ha radici umane e nessuno si può autocostituirsi tale. Il discepolato, pertanto, ha diverse origini, che risalgono direttamente a Gesù: “ma io ho scelto voi e vi ho costituiti”. Quel “ma” dice contrapposizione, che stacca nettamente il possibile desiderio dell'uomo ad essere discepolo, dalla scelta-chiamata che invece può provenire soltanto da Gesù. All'origine del discepolato quindi ci sta solo una scelta divina e non un interesse umano. Non è un caso infatti se in tutti i racconti evangelici nessuno dei discepoli si è autoproclamato tale o comunque ha deciso di seguire Gesù, se questo non gli è stato concesso. Il Gesù giovanneo ricorderà questa fase di sequela affermando che “Nessuno può venire da me se il Padre che mi ha mandato non lo attira” (6,44a) e similmente, benché in diverso contesto, il Battista, con riferimento a Gesù e rivolto ai suoi discepoli ricorderà loro che “Non può un uomo prendere in alcun modo una cosa se non gli viene data dal cielo” (3,27). La scelta, fatta seguire dalla sequela e quindi dall'accettazione da parte del discepolo, viene resa definitiva e consolidata da quel “vi ho costituiti”. Il verbo qui usato è “œqhka” (étzeka), un verbo tecnico usato sia per il conferimento di un mandato e della stessa autorità del mandante (Nm 8,10; 27,18-23) che per l'istituzione dei rabbini10.

La scelta e la costituzione dei discepoli li ricopre di autorità e autorevolezza presso le comunità credenti, abilitandoli ad operare nel nome e per conto di Gesù. La finalità di tale consacrazione è duplice ed è segnata dalle due particelle finali con cui sono introdotti i vv.16b e 16c: “†na” (ína, perché, affinché). La prima finalità, che l'atto di elezione e costituzione si propone, è scandita da tre verbi: i primi due (andiate e portiate) ineriscono alla missione postpasquale dei discepoli: il primo, “andiate”, riguarda strettamente e direttamente la missione; il secondo, “portiate”, inerisce alla sua efficacia. Il terzo verbo, (“rimanga”), con riguardo alla fecondità dell'azione missionaria dei discepoli, dice il persistere di tale frutto, così che il lavoro missionario non sia vano. Il v.16c fornisce l'elemento che va ad alimentare l'azione missionaria dei discepoli scelti e costituiti, rendendola efficacie: la capacità di chiedere efficacemente al Padre nel nome di Gesù. Il Padre, dunque, diviene la fonte primaria di questa azione missionaria operata nel nome di Gesù; egli la alimenta e la sostiene con la forza del suo Spirito. È lui, in definitiva, il vero Mandante che invia inizialmente suo Figlio e, poi, nel Figlio e per suo mezzo i discepoli che sono scelti e costituiti in lui: “Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi” (20,21); un invio che sarà accompagnato dalla forza rinnovatrice e rigeneratrice dello Spirito Santo: “E detto questo, soffiò e dice loro: <<Ricevete lo Spirito Santo; Qualora abbiate rimesso i peccati di alcuni, sono loro rimessi; qualora abbiate ritenuto (i peccati) di alcuni, sono ritenuti>>” (20,22-23).

Il v.17 conclude questa pericope e forma inclusione con il v.12: “Queste cose vi comando affinché vi amiate gli uni gli altri”. Una frase che sostanzialmente riproduce il v.12, ma mentre lì si parla di “comandamento”, qui si parla di “Queste cose vi comando”. Il riferimento riguarda i contenuti dei vv.13-16, che devono sfociare ed espandersi, per poter attecchire e portare frutto, nell'amore vicendevole, affinché una comunità divisa non vanifichi l'azione di Dio.


SEZIONE SECONDA (15,18-16,4)


Testo a lettura facilitata

L'odio del mondo verso Gesù e i discepoli

18- Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me.
19- Se foste del mondo, il mondo amerebbe il proprio; ma poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia.
20- Ricordatevi la parola che io vi dissi: “non c'è servo più grande del suo signore”. Se perseguitarono me, perseguiteranno anche voi; se osservarono la mia parola, osserveranno anche la vostra.

La responsabilità oggettiva del rifiuto

21- Ma faranno tutte queste cose contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono chi mi ha mandato.
22- Se non fossi venuto e non avessi parlato a loro, non avrebbero colpa; ora, invece, non hanno scusa per il loro peccato.
23- Chi odia me, odia anche il Padre mio.
24- Se non avessi fatto tra loro le opere che nessun altro ha fatto, non avrebbero colpa; ma adesso e hanno visto e hanno odiato e me e il Padre mio.
25- Ma (questo accadde) affinché fosse compiuta la parola scritta nella loro Legge: mi odiarono senza ragione.

La testimonianza dello Spirito e dei discepoli

26- Quando sarà venuto l'Intercessore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che esce dal Padre, quello darà testimonianza su di me;
27- ma anche voi darete testimonianza, poiché da principio siete con me.

Cap.16, 1-4a

L'odio del giudaismo

1- Vi ho detto queste cose affinché non siate scandalizzati.
2- Vi escluderanno dalle sinagoghe; ma viene l'ora in cui ognuno che vi ha ucciso crederà di offrire un culto a Dio.
3- E faranno queste cose perché non hanno
conosciuto il Padre né me.
4- Ma vi ho detto queste cose affinché, quando sarà venuta la loro ora, le ricordiate, poiché io ve (le) ho dette.

Note generali

La prima sezione (vv.1-17) terminava sollecitando i discepoli all'amore reciproco (v.17); la seconda sezione, quasi per un gioco di contrasti che punta a mettere in rilievo le due contrapposte realtà, discepoli-mondo, inizia sottolineando l'odio del mondo verso i discepoli (v.18). Un odio che risuonerà per ben sette volte all'interno della pericope vv.18-25, che si apre e si chiude con il verbo “odiare”. Come il v.1 costituiva il titolo e il tema della prima sezione, così, parallelamente, il v.18 funge da titolatura tematica alla seconda sezione, interamente dedicata alla persecuzione nei confronti dei discepoli; una persecuzione che presenta due facce: quella del mondo (vv.18-19) e quella del giudaismo (vv.16,2-3). Due tipologie di persecuzioni che formano tra loro inclusione: mondo e giudaismo, che in qualche modo si richiamano ai vv.1,10-11. Quanto avviene in mezzo (vv.21-27) riguarda, da un lato, la responsabilità oggettiva di entrambi per il loro rifiuto (vv.21-25); dall'altro, la testimonianza dello Spirito Santo che confluisce, dandone forma e sostanza, in quella dei discepoli (vv.26-27). La struttura di questa seconda sezione, già anticipata nel “testo a lettura facilitata”, è pertanto la seguente:

  1. vv.18-20: l'odio del mondo verso Gesù e, di conseguenza, verso i discepoli;

  2. vv.21-25: la responsabilità oggettiva del mondo e del giudaismo per il loro rifiuto della rivelazione, attuatasi nelle parole (v.22) e nelle opere (v.24) di Gesù, rifiutando il quale, hanno con lui respinto anche il Padre, che in lui parlava ed operava (14,9-11);

  3. vv.26-27: la testimonianza dello Spirito illumina i discepoli, che a loro volta testimoniano secondo la testimonianza dello Spirito; una testimonianza che costituisce l'elemento scatenante delle persecuzioni;

  4. vv.16,1-4a: l'odio del giudaismo, che non avendo compreso il senso delle Scritture, le ha travisate, non riconoscendo in Gesù l'inviato del Padre, né avendo compreso come il Padre di Gesù fosse quel Jhwh che si era manifestato con tale nome a Mosè.


Commento alla seconda sezione (vv.15,18-16,4a)


L'odio del mondo
(vv.18-20)

I vv. 18-20 si sviluppano come una sorta di sillogismo in cui i vv.18-19 fungono da premessa e il v.20 da conclusione. In questa dinamica sillogica il v.18 costituisce l'enunciato o premessa maggiore; il v.19, riprendendo il v.18, funge da dimostrazione o premessa minore, chiarendo il perché dell'odio sia del mondo che del giudaismo nei confronti dei nuovi credenti; il v.20 è la conclusione. Un odio che si manifesta attraverso le persecuzioni, sia come veri e propri atti di aggressione, finalizzati a distruggere; sia con forme di ghettizzazione sociale, che vede il giudaismo espellere dalle sue sinagoghe queste nuove figure così fortemente contrastanti e critiche nei confronti della sua Tradizione (9,22; 12,42; 16,2a).

Il v.18 si apre enunciando il tema di questa seconda sezione, ma nel contempo apre un'analisi finalizzata alla ricerca delle motivazioni che spingono mondo e giudaismo a perseguitare i credenti in Gesù: da un lato si constata che il mondo odia i discepoli (v.18a); dall'altro si attesta come questo odio ha le sue radici (“prima di voi”) nella persona di Gesù (v.18b). I vv.19-20 ne riprenderanno rispettivamente sia la prima (v.19) che la seconda parte (v.20).

Il tema dell'odio o del disprezzo dei discepoli a causa del nome di Gesù non è nuovo11 e già Matteo e Luca nelle loro beatitudini dichiararono “beati” i perseguitati e quelli che sono oggetto di odio da parte del mondo a causa del nome di Gesù (Mt 5,11; Lc 6,22); Giovanni, con un gioco di contrasti che lo caratterizza, ne dà una prima motivazione in 3,20-21: “Infatti, chiunque compie cose malvagie odia la luce e non va verso la luce, affinché le sue opere non siano biasimate; colui che, invece, fa la verità va verso la luce, affinché le sue opere siano manifestate, poiché sono state compiute in Dio”. Un odio che nasce da una profonda e connaturata avversione verso la luce, la quale, quest'ultima, s'impone sulle tenebre come giudizio di condanna; per questo le tenebre rifuggono dalla luce. Un odio che dice avversione e contrapposizione tra due realtà che hanno una diversa e antitetica origine: il mondo delle tenebre per Giovanni ha come padre il diavolo, che fu menzognero e omicida fin dalle origini (8,44); mentre il mondo della luce ha la sua paternità in Dio stesso (8,42). Due realtà che non possono avere tra loro dialogo o reciproche comprensioni, poiché sono irrimediabilmente irriducibili l'una all'altra, così che dove c'è l'una non vi può essere l'altra: “Disse loro Gesù: <<Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, io, infatti, sono uscito da Dio e sono giunto (qui); poiché non da me stesso sono venuto, ma quello mi ha inviato. Per cosa non comprendete il mio discorso? Perché non potete ascoltare la mia parola. Voi siete dal padre, il diavolo, e volete fare i desideri del padre vostro. Quello era omicida fin dall'inizio e non è stato nella verità, poiché la verità non è in lui. Quando dice il falso, parla di ciò che gli è proprio, poiché è menzognero e suo padre. Io, invece, poiché dico la verità, non mi credete” (8,42-45). Un odio che ha la sua origine in quello verso Gesù, che nei discepoli si riflette e si riproduce. L'espressione “prima di voi” rimanda alle origini di questo odio verso i discepoli, il cui oggetto è Gesù stesso, che da Dio è uscito e da lui è stato inviato; un Dio che è Luce e in lui non ci sono tenebre (1Gv 1,5). La contrapposizione della luce alle tenebre, che si traduce in odio verso tutto ciò che appartiene alla Luce, ha dunque la sua origine primaria nella stessa metastoria dove Giovanni nella sua Apocalisse vede contrapporsi in una guerra mortale le forze del Bene a quelle del male, che vengono precipitato sulla terra (Ap 12,1-9) dove continuano la loro lotta contro il Bene in tutto ciò che da questo Bene è stato generato e appartiene (Ap 12,13-18).

Il v.19 nella sua parte conclusiva (“per questo il mondo vi odia”) si presenta come una ricerca delle cause che generano tale odio verso i discepoli; si tratta di una ricerca che punta a sondare le origini di questo odio, che vede il mondo sia come il luogo che come l'attore di tale odio. Per tre volte compare l'espressione “™k toà kÒsmou” (ek tû kósmu, dal mondo): con le prime due si definisce il mondo come il luogo di origine o di generazione che qualifica l'appartenenza o la non appartenenza dei discepoli al mondo; mentre con la terza espressione si definisce il luogo di provenienza dei discepoli, così che essi, pur essendo stati generati dal mondo, non vi appartengono per una loro consacrazione che nasce dalla scelta posta su di loro da Gesù. Il v.19 si apre con un'ipotetica che vede i discepoli come possibile proprietà del mondo, essendovi nati. Quel “tÕ ‡dion” (tó ídion, proprio, di proprietà di) un aggettivo posto al neutro che indica lo stato di appartenenza di ciò che proviene dal mondo (ek tû kósmu), in quanto ne possiede il DNA, che gli consente di riconoscere i propri figli. Verso questi, ad esso conformi, egli si mostra benevolo; nessun contrasto; nessun ostracismo nei loro confronti. Il mancato contrasto con il mondo diviene pertanto un segno inequivocabile di appartenenza. A questo ipotetico stato di cose (“se foste del mondo”) si contrappone ora la realtà delle cose con i verbi tutti al presente indicativo: “ma poiché non siete del mondo”. La diversa origine dei discepoli (“non siete dal mondo”) lascia trasparire una sorta di rigenerazione, che riposiziona diversamente i discepoli nei confronti del mondo: essi, certo, sono stati originati dal mondo, qui inteso come luogo fisico e storico del loro vivere; la loro origine infatti non è celeste; tuttavia essi non vi appartengono. La loro estraneità al mondo è stata causata da un atto generativo, che qui assume l'aspetto di una scelta che esclude l'eletto da tutto il resto, lo isola, ne fa un essere esclusivo, privilegiato, che viene di conseguenza consacrato, cioè riservato non più per se stesso o per il mondo, ma per una nuova realtà, che si radica nell'attore stesso della scelta: “ma io vi ho scelti dal mondo”. Una scelta che va a modificare ontologicamente l'eletto, poiché viene modificato radicalmente il suo stato di appartenenza originario. Una scelta da cui era stato generato anche il popolo d'Israele, reso da Jhwh sua proprietà, popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19,4-6). Un popolo, che pur continuando a vivere in mezzo agli altri popoli, non vi apparteneva più; una diversità che è divenuta santità, cioè appartenenza al Santo; una santità codificata in un'Alleanza e nella Torah, che ha reso unico ed esclusivo tale popolo.

Anche nel dialogo tra Gesù e Nicodemo l'autore mette in rilievo questa doppia origine del nuovo credente: “Rispose Gesù e gli disse: <<In verità, in verità ti dico, chi non è generato dall'alto, non può vedere il regno di Dio.>>. Dice, verso di lui, Nicodemo: <<Come può un uomo essere generato quando è vecchio? Può forse entrare nell'utero di sua madre una seconda volta ed essere generato?>>. Rispose Gesù: <<In verità, in verità ti dico, se uno non è generato da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (3,3-6). Anche qui ricorre la particella “™k” (ek, da), che parla di diverse origini, di diverse provenienze, che vengono tra loro contrapposte e rese irriducibili l'una nell'altra: “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (3,6). Questa doppia origine, che genera un doppio e contrastato stato di vita, viene messo in rilievo dall'anonimo autore della Lettera a Diogneto12, fatta risalire verso la fine del II sec. e che in qualche modo risente o quanto meno riproduce a modo proprio il pensiero giovanneo: “(I cristiani) sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. […] L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l'anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri.” (Diogneto V,8-9; VI, 3-6); un odio che viene fatto risalire, come per Giovanni, al mondo pagano e al giudaismo: “Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio” (Diogneto V,17).

Il v.20 porta a conclusione il sillogismo e dimostra come l'appartenenza e l'accorpamento del discepolo al suo Maestro (vv.18-19) non solo lo rende simile a lui, ma lo associa anche ai suoi destini: “non c'è servo più grande del suo signore”, una breve sentenza, che l'autore stesso richiama qui espressamente da 13,16a. Ne seguono quattro verbi: due posti all'aoristo di tipo ingressivo, in quanto fanno risalire l'origine del perseguitare e dell'osservare a Gesù stesso; e gli stessi verbi, questa volta riferiti ai discepoli, sono posti al futuro, in cui si rispecchiano i tempi della chiesa. Le persecuzioni o i successi della chiesa, pertanto, sono strettamente legati alla persona e ai destini di Gesù, che nella chiesa si riflette e continua la sua missione.

La responsabilità oggettiva del rifiuto (vv.21-25)

Se la pericope vv.18-20 attestava l'odio del mondo e la sua persecuzione contro i discepoli, adducendo motivazioni di ordine cristologico, questa pericope riprende il tema dell'odio e delle persecuzioni, portando motivazioni di ordine teologico, e rileva la responsabilità oggettiva sia del paganesimo che del giudaismo, che a fronte della missione di Gesù, hanno risposto con la chiusura, passando dal rifiuto all'aggressione.

La struttura della pericope si sviluppa su versetti paralleli e concentrici in C). Una formula letteraria che raramente e quasi mai compare in Giovanni, che, invece, preferisce le inclusioni. Si avrà pertanto:

  1. v.21: L'odio e le persecuzioni nascono da una sostanziale ignoranza dell'origine di Gesù: “perché non conoscono chi mi ha mandato”

  2. v.22: non c'è scusante per loro, perché Gesù si è manifestato loro per mezzo della sua parola;

  3. v.23: l'odio verso Gesù si riflette direttamente sul Padre, poiché i Due sono una cosa sola;

   B') v.24: l'esclusività delle opere di Gesù, manifestavano la sua origine divina;

   A') v.25: l'odio, pertanto, è privo di fondamento


A) ed A') sono paralleli tra loro per complementarietà poiché all'ignoranza dell'origine di Gesù (v.21) si associa un odio privo di ogni fondamento (v.25). Non si può infatti odiare ciò che non si conosce; una non conoscenza che viene denunciata come colpevole ai vv.22.24;

B) e B') sono tra loro paralleli poiché attengono alla missione rivelativa di Gesù, compiutasi per mezzo di parole (v.22) ed opere (v.24).

Il v.23 in C) costituisce la parte centrale dove tutti gli altri versetti convergono e trovano la loro giustificazione: l'odio verso Gesù è odio anche verso il Padre. Un forte atto di accusa verso il giudaismo, che seppur a conoscenza delle Scritture e titolare dell'Alleanza con Dio, non ha saputo riconoscerlo nel suo apparire in mezzo a loro, nonostante la rivelazione compiutasi in Gesù, le cui parole ed opere testimoniavano della sua origine divina.

Il v.21 si apre con una congiunzione avversativa, di chiara marca redazionale, poiché di fatto il v.21 e quanto segue non è contrapposto a nulla di quanto viene detto ai vv.18-20, anzi li conferma e, riprendendoli, li approfondisce e ne dà sviluppo. È probabile che quel “ma” (¢ll¦, allà) faccia riferimento ad un testo precedente, successivamente soppresso, e poi rimasto incorretto; probabilmente il testo mancante o forse sottinteso doveva dire “Non pensiate di scampare all'odio e alla persecuzione del mondo, come io non li ho evitati”. L'espressione generica “tutte queste cose” ricomprende ogni forma di persecuzione e ogni forma di odio che possono colpire i discepoli di Gesù. Quel “faranno” posto al futuro colloca l'odio e le persecuzione nel tempo postpasquale, il tempo della chiesa, ma nel contempo le proietta in modo iterativo lungo tutto il tempo della chiesa; come dire che l'esistenza della chiesa sarà sempre contrassegnata dalle persecuzioni. Essa, dunque, deve rammentare come la difficile situazione da cui è travolta non deve deprimerla, ma anzi, la persecuzione e l'odio diventeranno segni distintivi e probanti dell'autenticità del discepolato. Il motivo che sottende l'espressione “faranno tutte queste cose” è “a causa del mio nome”. La fede in Gesù, dunque, diventa il motivo scatenante, sotteso a sua volta da una sostanziale ignoranza di fondo: “non conoscono chi mi ha mandato”. L'accusa qui, più che al mondo, è rivolta al giudaismo, che pur avendo l'Alleanza, la Torah e i profeti; pur essendo stato costituito proprietà di Dio, popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19,5-6), non è stato in grado di decriptare la figura di Gesù, cosa che invece hanno fatto i giudeocristiani, che rivisitarono le Scritture in senso cristologico. Come sia stato possibile ciò diventa anche per Paolo un mistero a cui cercherà, non senza grande sofferenza (Rm 9,1-3), di dare una risposta (Rm 9-11).

I vv.22-24 costituiscono un atto di accusa sia contro il mondo che contro il giudaismo, poiché ciò che era possibile conoscere sia di Gesù, quale inviato del Padre, che del Padre, si poteva conoscere sia dalla predicazione (v.23) che dalle opere (v.24) di Gesù stesso. In altri termini, le parole e le opere di Gesù erano tali da spingere ad interrogarsi su di lui, aprendosi ad una ricerca e ad una conoscenza del Mistero, che avrebbero condotto al Padre, di cui Gesù è la Via e la Verità e ne possiede la stessa Vita. Le opere che Gesù compie, infatti, gli rendono testimonianza circa la sua provenienza divina (10,25.38; 14,9-11); quanto alle sue parole, Gesù proferisce parole di Dio, poiché il Padre non solo opera in lui, ma anche parla in lui, così che le parole di Gesù sono quelle stesse del Padre (3,34; 14,10), proprio perché i Due sono una cosa sola (10,30). I racconti sinottici spingono esplicitamente i propri lettori a interrogarsi e a riflettere sulla persona di Gesù. Un interrogativo che viene posto parimenti sia alla gente che ai discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?” e “Voi chi dite che io sia?” (Mt 16,13.15; Mc 8,27.29; Lc 9,18.20). Si tratta di una questione di fondo, che gli evangelisti sottopongono all'attenzione delle comunità credenti, e che punta a far emergere la vera identità e la vera natura di Gesù: “Chi è veramente Gesù?”.

Sia il v.22 che il v.24 si aprono con tre ipotesi: “se non fossi venuto e non avessi parlato” e “se non avessi fatto”. Tre ipotetiche che lasciano intravvedere come ciò in realtà non è avvenuto, poiché Gesù è venuto, ha parlato e ha fatto. Il loro senso, quindi, è quello di mettere in rilievo la responsabilità oggettiva sia del mondo che del giudaismo. Non vi è dunque più nessuna scusante, sia per i pagani che per i giudei. Entrambe le categorie rimangono nel loro peccato. Non si parla qui di “peccati”, bensì di peccato, che per Giovanni è quello dell'incredulità (8,24; 16,9), che mina alle radici ogni possibilità di salvezza (9,41), poiché soltanto chi crede può accedere alla vita eterna, che nel linguaggio giovanneo definisce la vita stessa di Dio (3,15.16.18a.36a; 5,24; 6,47). Se il v.22 si chiude sottolineando come l'incredulità non solo costituisca il peccato per eccellenza, che oppone irrimediabilmente l'uomo a Dio, ma toglie al rifiuto del credere ogni possibilità di giustificazione, poiché proprio in Gesù, il suo inviato, il Padre ha detto ed ha operato, tendendo la mano all'uomo. Rifiutare Gesù, luogo storico della rivelazione del Padre, significa rifiutare l'ultima chance che il Padre ha offerto all'uomo nel suo Figlio. Ogni salvezza quindi per l'uomo è preclusa. Il motivo di questa condanna risiede nel fatto che “adesso hanno visto”. Il verbo qui usato e posto al perfetto indicativo è “˜wr£kasin” (eorákasin); un verbo che in Giovanni indica il raggiungimento pieno della fede e quindi, qui si sottolinea, la piena comprensione che essi hanno avuto dell'evento Gesù e nonostante ciò “e hanno odiato e me e il Padre mio”. Quel “kaì” (e) con cui inizia la seconda parte lega l'odio verso Gesù e in lui quello verso il Padre proprio al fatto che essi hanno visto, cioè hanno capito molto bene chi Gesù fosse. La tipologia del verbo (oráo) nonché il tempo verbale, perfetto indicativo, in cui sia “oráo” che “memis»kasin” (memisékasin, hanno odiato, disprezzato) sono stati posti, dice come l'aver veduto, cioè compreso, e l'odiare sono frutto di un'azione che ha radici lontane: nella loro stessa malvagità: “Ora questo è il giudizio, che la luce è venuta nel mondo e gli uomini amarono più la tenebra che la luce, poiché le loro opere erano malvagie. Infatti, chiunque compie cose malvagie odia la luce e non va verso la luce, affinché le sue opere non siano biasimate” (3,19-20).

Ma la chiave di tutto è fornita dal v.23: “Chi odia me, odia anche il Padre mio”, posto al centro dell'intera pericope, evidenziandone, da un lato, l'importanza, dall'altro rilevando la malvagità sia del mondo che del giudaismo; una malvagità la cui gratuità sarà rilevata dal v.25. Da dove dunque nasce questa malvagità gratuita e irrazionale, che spinge l'uomo contro Dio, quasi a considerarlo un nemico da abbattere? È la natura stessa del malvagio, una natura che è in opposizione a Dio, la cui paternità è il diavolo, che fu omicida e falso fin dalle origini (8,44). Il malvagio, dunque, possiede il DNA del diavolo, per questo è per sua natura in costante opposizione a Dio. Significativo in tal senso è il verbo “Chi odia me”, posto al participio presente (Ð misîn, o misôn), che indica la natura stessa di colui che odia o disprezza Gesù, definendola come intrinsecamente malvagia. Un odio, pertanto, che si radica profondamente nell'uomo malvagio, fa parte di lui, per questo ogni possibilità di salvezza gli è preclusa. Ma Gesù avverte, come l'odiare lui sia anche odiare il Padre, non solo perché Gesù ne è l'inviato, ma anche perché i Due sono una cosa sola (10,30; 14,9-11). La gravità di tale odio pertanto pesa enormemente sul malvagio, poiché non va a colpire soltanto l'inviato, ma anche il Mandante, che è il punto terminale e nel contempo di origine del progetto di salvezza, rivelato e attuato nel Figlio.

Il v.25 conclude la pericope (vv.21-25) adducendo la prova scritturistica a testimonianza contro la malvagità gratuita, che proprio perché tale, qualifica il malvagio, il quale odia senza un preciso particolare motivo, ma soltanto perché la sua natura malvagia gli impone di esprimersi secondo malvagità: “Ma (questo accadde) affinché fosse compiuta la parola scritta nella loro Legge: mi odiarono senza ragione”. La citazione scritturistica è tratta dai Sal 34,19 e 68,5, che l'autore definisce come “parola scritta nella loro Legge”. Significativo è quel “loro” che se da un lato dice tutta l'estraneità della comunità giovannea al mondo del giudaismo, dall'altro diviene un atto di accusa nei confronti dello stesso giudaismo, accusato di malvagità dalle sue stesse Scritture.

La testimonianza dello Spirito e dei discepoli

I vv.26-27, il cui contesto storico-teologico riflette quello lucano di At 5,28-32, sono collocati all'interno della sezione riguardante le persecuzioni (vv.15,18-16,4a), quasi come una sorta di intermezzo inaspettato, che sembra volerla interrompere, per allentarne la tensione. In realtà essi costituiscono il motivo scatenante dell'odio e delle persecuzioni: la testimonianza resa dai discepoli. Si tratta di una testimonianza che ha due tempi, ma un'unica dinamica: dallo Spirito ai discepoli, così che la testimonianza dei discepoli riflette quella che lo Spirito ha dato loro a riguardo di Gesù: “ma l'Intercessore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi” (14,26); infatti “allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità intera; poiché, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono. Quello mi glorificherà, poiché prenderà dal mio e ve (lo) annuncerà.” (16,13-14). Il primo tempo (v.26), dunque, è riservato allo Spirito, che opererà nei tempi postpasquali, allorché è venuta meno la presenza storica di Gesù. In tal senso, significativi sono i tempi verbali del v.26, posti tutti al futuro (sarà venuto, vi manderò, darà testimonianza). È un futuro che riguarda i tempi postpasquali, quelli in cui opera la chiesa, ormai costituita nello Spirito Santo, la cui azione, in quanto Spirito della verità, è quella di condurre i discepoli alla pienezza della verità e di rafforzarli nella Verità stessa, affinché essi ne sappiano dare ferma testimonianza. È uno Spirito che “esce dal Padre”, indicando con ciò non soltanto l'origine dello Spirito, ma anche, come questi, alla pari di Gesù, è inviato dal Padre per compiere, dapprima un'azione di potenza ed efficacia divina nell'operare di Gesù (1,32.33b; 7,39); poi, successivamente alla sua dipartita, un'azione di guida, di sostegno e di forza illuminante nei discepoli. Significativo quel presente indicativo “esce dal Padre” (™kporeÚetai, ekporeúetai), che dice un continuo uscire, un continuo fluire dal Padre, dapprima su Gesù, ora sui discepoli, creando una continuità storico salvifica dell'azione stessa del Padre. È questa Potenza del Padre, che continuamente fluisce da Lui, che opera e continua operare nei discepoli, così che l'agire dei discepoli diviene l'agire stesso del Padre per mezzo dello Spirito.

Il secondo tempo (v.27) è riservato all'azione dei discepoli, nella quale si riflette ed opera quella dello Spirito: “ma anche voi darete testimonianza, poiché da principio siete con me”. Il “ma”, con cui si apre il v.27 e fatto seguire dalla congiunzione “kaˆ” (kaì, anche), non è avversativo, bensì acquista un senso confermativo o forse è meglio dire estensivo, che vede la testimonianza dello Spirito dilatarsi ed estendersi ai discepoli, chiamati, in un contesto di persecuzioni (vv.18-25.16,1-4a) a rendere testimonianza alla loro fede. Come dire che attori di questa testimonianza non sono soltanto lo Spirito, ma con lui anche i discepoli, che di questa testimonianza sono i destinatari e i depositari e, quindi, i responsabili diretti della sua gestione. Il motivo per cui i discepoli sono chiamati alla testimonianza e sono qualificati anche come testimoni è “poiché da principio siete con me”. L' “Óti” (óti, perché) ha un senso sia dichiarativo che causativo, poiché spiega l'abilitazione dei discepoli alla testimonianza. Il primo elemento qualificante del discepolo-testimone è primariamente il suo “essere con Gesù”. Quel “met' ™moà” (met'emû, con me) non esprime soltanto un complemento di compagnia, ma parla di una condivisione esistenziale, che si è fatta e continua farsi comunione di vita, attraverso una perdurante intercompenetrazione che fa dei due una cosa sola (14,20-21; 15,4.5.7.11). Il secondo elemento è l'espressione temporale “¢p' ¢rcÁj” (ap'archês, da principio), che definisce un inizio che ha avuto il suo incominciamento qui nella storia e vede come punto di inizio la persona stessa di Gesù13. Egli è l' “ap'archês” storico, che diviene anche il principio della storia, dal quale e grazie al quale la storia acquista il suo senso compiuto, divenendo storia della salvezza, storia del dialogo tra Dio e l'uomo. Egli, pertanto, è il punto di riferimento dell'intero discepolato e dal quale defluisce ogni sequela e ogni sequela si rifà ad esso e in lui trova la sua giustificazione. Gesù, dunque, costituisce un solido punto storico e di riferimento storico su cui affonda le sue radici ogni comunità credente. La chiesa non ha come fondamento un'ideologia o una filosofia, ma una persona concreta, che è apparsa in un determinato momento storico e in un ben definito contesto culturale e che testimoni diretti non hanno avuto esitazioni nel definire “Verbo della vita”, resosi visibile e storicamente raggiungibile ed esperibile (1Gv 1,1-3).

Cap.16, 1-4a

L'odio del giudaismo

1- Vi ho detto queste cose affinché non siate scandalizzati.
2- Vi escluderanno dalle sinagoghe; ma viene l'ora in cui ognuno che vi ha ucciso crederà di offrire un culto a Dio.
3- E faranno queste cose perché non hanno
conosciuto il Padre né me.
4a- Ma vi ho detto queste cose affinché, quando sarà venuta la loro ora, le ricordiate, poiché io ve (le) ho dette.

Commento a 16,1-4a

Se la sezione delle persecuzioni si era aperta con chiari riferimenti al mondo, termine questo che compare per ben sei volte nei soli vv.18-19 (si noti “sei” il numero dell'imperfezione, che lo esclude dal “sette” della perfezione divina), ora essa si chiude con riferimento alle ostilità del giudaismo, rilevate nelle loro duplice forma di esclusione dalla sinagoga e di condanne a morte (v.2); mentre il v.3 ne fornisce la motivazione di fondo: la sostanziale ignoranza dell'autentica religiosità, che avrebbe messo in grado il giudaismo di attingere alla Verità che in essa gli si proponeva, consentendogli in tal modo di aprirsi all'evento Gesù.

Questa pericope conclusiva è delimitata dall'inclusione data sia dal ripetersi dell'espressione posta ai vv.1.4a (“Vi ho detto queste cose affinché”), sia per complementarietà dei due versetti: “non siate scandalizzati” dalle persecuzioni per cui “quando sarà venuta la loro ora, …”. Queste precisazioni, quasi pignolesche, sembrano voler ricordare l'ineluttabilità di tali eventi: “se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (15,20b).

Il contesto storico a cui alludono questi versetti è quello che si colloca sul finire del I sec. allorché la rottura tra giudaismo e cristianesimo si era ormai da tempo consumata.

Il v.1 si apre con l'espressione: “Vi ho detto queste cose”. Le cose a cui il Gesù giovanneo allude sono quelle fin qui dette a riguardo delle persecuzioni (vv.15,18-25). Si tratta, pertanto, qui, di una ripresa del tema dopo la sospensione causata dai vv.15,26-27, che viene ora completato con la denuncia delle persecuzioni da parte del giudaismo, dopo quelle già denunciate da parte del mondo (15,18-19). Il verbo usato è “lel£lhka” (leláleka, ho detto), che in Giovanni, qualora riferito a Gesù, riguarda aspetti rivelativi del suo dire. Il contesto di persecuzioni pertanto è fatto risalire alle stesse parole di Gesù, che già a suo tempo aveva ammonito i suoi (15,20). Certamente un tentativo da parte dell'autore per incoraggiare la propria comunità vessata da incomprensioni, ghettizzazioni e vere proprie persecuzioni. Le comunità credenti, quindi, non devono turbarsi di fronte a queste violenze perché non solo Gesù, lui per primo, le ha subite, ma anche già le aveva previste. Affrontarle quindi con forza e coraggio, senza alcun timore perché esse divengono un segno distintivo del vero discepolato. Le persecuzioni pertanto non devono essere motivo di scandalo, cioè d'impedimento al rimanere in Gesù.

Il v.2 riporta due tipologie di persecuzioni, probabilmente le più comuni: la prima, già più volte menzionata da Giovanni (vv.9,22; 12,42; 16,2), riguarda l'espulsione dalla sinagoga dei seguaci di Gesù, che in lui riconoscevano il Cristo. Si trattava in buona sostanza di una vera e propria scomunica dal giudaismo contro quelli che erano considerati degli apostati e che aveva forti ripercussioni sociali e religiose sulla persona espulsa14. Quanto alla seconda tipologia, essa richiama le persecuzioni violente a motivo delle quali i nuovi credenti erano imprigionati, torturati ed uccisi come apostati. Testimonianze in tal senso ci vengono da At 8,1-3; 12,1-3; 22,4 e 26, 9-11; da 1Ts 2,14-16a. Atti di assassinio di massa vero e proprio finalizzati a tutelare la purezza della Torah, a salvaguardare l'Alleanza e a difendere la Tradizione dei Padri contro i loro attentatori, cioè gli apostati. Proprio per questo tali uccisioni erano considerate come una sorta di culto a Jhwh, così come similmente avveniva all'epoca della “Santa Inquisizione”. Come ciò sia possibile è difficile spiegarselo se non ammettendo un sostanziale fanatismo religioso, fondato su di una totale ignoranza delle Scritture, profondamente distorte nel loro senso per un approccio sbagliato che le autorità religiose hanno avuto con le stesse, ridotte ad una mera volontà di Dio da eseguire pedissequamente senza porsi il problema che cosa esse volessero effettivamente dire, riducendo il proprio rapporto con Dio ad una mera osservanza ed esecuzione fisica di regole e leggi; una semplice formalità giuridica e burocratica da espletare, dunque, sterilizzando in tal modo il senso più vero e profondo delle Scritture e della stessa volontà di Dio15. Ed è proprio questo il senso del v.3 che denuncia tale ignoranza da parte del giudaismo, accusandolo per non essere stato all'altezza, nonostante Torah, Alleanza e Profeti di leggere e cogliere nel suo autentico significato l'evento Gesù e ciò che in Gesù si muoveva, parlava ed operava, il Padre: “E faranno queste cose perché non hanno conosciuto il Padre né me”.

Il v.4a chiude la sezione sulle persecuzioni (15,18-16,4a), riprendendo il v.1 e portandolo a compimento, lasciando così intravvedere come il compiersi delle persecuzioni associ in qualche modo il discepolo al suo Maestro. Come il compiersi della passione e morte per Gesù fu il compiersi dell'ora, così similmente l'ora delle persecuzioni dice il compiersi dell'ora per i discepoli. Le persecuzioni e le sofferenze per Gesù sono il luogo in cui le forze delle tenebre prevalgono su quelle della luce (Lc 22,53). Tuttavia non si tratta di una vittoria, ma, come lo fu per Gesù, soltanto un cammino obbligato verso la risurrezione.


Giovanni Lonardi


N O T E

1La persecuzione scatenata da Nerone nel luglio del 64 d.C. fu del tutto occasionale a seguito di un incendio che devastò Roma e di cui egli fu il colpevole. Quindi, per scagionarsi dalle accuse di aver provocato l’incendio e stornare da lui il furore popolare, accusò i cristiani, che perseguitò e condannò a morte in modi atroci: furono crocifissi, dati alle belve come spettacolo, usati come torce umane o rivestiti di pelli di animali selvatici e dilaniati cosi dai cani. La persecuzione durò un anno e si spense da sola. Nerone, comunque, al di là del fatto contingente, non elaborò mai una politica contro il Cristianesimo, né mostrò una ostilità persistente contro i cristiani. Tale persecuzione ci viene riportata da Tacito negli “Annales” al cap. 15,44 e accennata da Svetonio nella “Vita dei Cesari”, senza però alcun accenno all’incendio. Il fondamento giuridico di tale persecuzione si ritrova nel senatus consultum del 35 d.C. sotto Tiberio (14-37 d.C.) che dichiara il cristianesimo “religio illicita”. Essa fu limitata alla città di Roma e l’accusa non fu di aver appiccato l’incendio, bensì di odio verso il genere umano, che trovava il suo fondamento nella vita riservata dei cristiani e nel loro rifiuto di partecipare alla vita pubblica, al fine di evitare l’obbligatorio culto pubblico.

2Dopo la persecuzione di Nerone, i cristiani godettero di un periodo di trent’anni di sostanziale tranquillità sotto Vespasiano e Tito. Con l’avvento di Domiziano, negli ultimi anni della sua vita, egli accentuò il suo assolutismo e, per primo, promulgò il culto all’imperatore anche da vivo. Egli si fece chiamare “Dominus et Deus” e pretese di conseguenza l’adeguato riconoscimento religioso, che trovò, ovviamente, l’opposizione e il rifiuto dei cristiani. Da qui la persecuzione che, secondo Lattanzio (250-317 d.C.), scrittore, retore e apologeta cristiano, fu di “efferata crudeltà”. Vittime di questa persecuzione furono suo cugino, il console Flavio Clemente, mentre sua moglie Flavia Domitilla venne esiliata. Numerose furono anche le vittime tra la società nobile, e ciò lascia trasparire il grande livello di penetrazione del cristianesimo. Con l’avvento degli Antonini si inaugura un periodo di distensione nei confronti dei cristiani; tuttavia per tutto il II° secolo la situazione è caratterizzata più che dalla persecuzione, da un clima di paura e di precarietà; i cristiani vivono, comunque, sotto la minaccia di denunce e torture. I loro timori derivano più che dalla crudeltà degli imperatori, dalla ostilità delle popolazioni pagane e giudaiche. Con Nerva (96-98) cessa la persecuzione domizianea, perché egli non condivide la divinizzazione dell’imperatore come il suo predecessore.

3Cfr. G. Filoramo d D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, l'Antichità, edizioni Laterza, Bari 1997

4Cfr. Sal 79/80,9-16; Sir 24,17-22; Is 5,1-7; Ger 2,21; 6,9; 12,10; Ez 17,5-10; Os 10,1; Na 2,2

5Sul tema del “Resto” cfr. l'introduzione al Libro della Gloria, cap.13; pagg.1-2

6Cfr. Gv 13,34; 14,15.21; 15,10.12

7Cfr. Mt 8,12; 13,42; 13,50; 22,13; 24,51; 25,30; Lc 13,28

8Sulla questione cfr. il commento al cap.14 della presente opera, pag. 19

9 Nei primi secoli il rabbinato più che una professione (lo diverrà in seguito) era un modo di vivere tipico dei farisei, caratterizzato da una rigorosa osservanza della Torah, della legge della purità e della alimentazione. La formazione del rabbino consisteva in un duplice aspetto: la convivenza con il maestro e l'istruzione. Quanto alla prima, essa serviva a far apprendere un modo di vivere. Il Maestro, infatti, era considerato una sorta di Torah incarnata. Senza questo stile di vita il discepolo era considerato un “'am ha-aretz”, uno che apparteneva alla terra, un contadino, uno di poco conto. Questa prima fase era chiamata dai rabbini “servizio dei discepoli” nel senso letterale dei termini. Soltanto dopo aver superato questa fase, il discepolo poteva sedersi davanti al maestro, cioè dedicarsi allo studio e all'apprendimento. Questo percorso di convivenza serviva a creare uno stato di comunione tra maestro e discepolo, che ne diventava, poi, un suo perfetto continuatore. Durante questo stato di convivenza, il discepolo doveva lasciare la propria casa, anche se sposato, e trasferirsi presso quella del maestro, mentre i celibi erano costretti a ritardare il loro matrimonio. - Sulla questione cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005 – pagg.400-401

10In Palestina la formazione del discepolo si concludeva con l'ordinazione o “semikhah”, cioè l'imposizione delle mani per simboleggiare il conferimento del mandato di trasmettere l'autentica Tradizione, al fine di garantire la continuità della catena iniziata con Mosè e proseguita dai suoi successori. - Cfr. A. R. Carmona, pag.403 – op. cit.

11Cfr. Mt 10,22; 24,9; Mc 13,13; Lc 21,12.17

12La Lettera a Diogneto è un'apologia del cristianesimo indirizzata ad un pagano di alto rango di nome Diogneto. Per una maggiore informazione si cfr. J. Quasten, Patrologia, i primi due secoli (II-III), Edizioni Marietti, ristampa 1992; pagg. 219-223

13A differenza del principio, che ha avuto il suo inizio qui nella storia, quello metafisico viene definito in greco con l'espressione “™n ¢rcÍ(en archê), che esprime un inizio e un principio in senso assoluto. Esempi in tal senso si trovano in apertura del Libro della Genesi (Gen 1,1) e dello stesso vangelo giovanneo (Gv 1,1).

14Sulla questione cfr. il commento al cap.9 della presente opera, pagg.21-22 e relativa nota n.28.

15E' significativo come nella lingua ebraica non esista il termine “religione”, sostituito dall'espressione, mutuata dal persiano, “dat”, che significa legge, ordinanza. Cfr. G. Stemberger, La religione ebraica, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998