IL VANGELO SECONDO GIOVANNI


L'attività pubblica di Gesù
incorniciata da quattro
grandi feste ebraiche

ossia

l'operare trasformante
e rigenerante di Gesù
collocato nel cuore
del culto giudaico,
preludio ad un nuovo culto


Commento esegetico e teologico
ai
Capp. 5 - 10

a cura di Giovanni Lonardi



CAPITOLO NONO

Gesù, luce del mondo,
illumina il giudaismo accogliente
e lo annovera tra i suoi discepoli




Note generali

Il cap.8 si concludeva con Gesù che, nascostosi nel tempio, poi ne usciva (8,59b). Questo suo nascondersi alludeva al suo rendersi irraggiungibile al giudaismo del Tempio e della Legge mosaica; al giudaismo ufficiale, quello delle autorità religiose, chiuso nelle sue sicurezze e nelle sue certezze e in una rassicurante ritualità ripetitiva, ma ormai svuotata di ogni senso (Mt 23); un giudaismo resosi impermeabile a qualsiasi novità e al disvelarsi di Dio nell'uomo Gesù, avvolto e compenetrato nel suo Mistero; mentre l'uscire dal Tempio dice l'abbandono di Gesù di questo tipo di giudaismo. E nell'uscire Gesù incontra ora un diverso tipo di giudaismo, quello che stava ai margini del Tempio; quel giudaismo del vecchio Simeone, della profetessa Anna e di tutti quelli che, mossi dallo Spirito, attendevano la redenzione di Israele e che videro in Gesù la luce che illumina le genti (Lc 2,25-38). È il giudaismo di Nicodemo (3,1-9; 7,50; 19,39), di Giuseppe di Arimatea (19,38) e degli altri capi, che seppur nascostamente seguivano o simpatizzavano per Gesù (12,42). Il cap.9 parla di questo giudaismo, che si è lasciato illuminare ed ha accolto Gesù, rendendosene proselita; parla dei disagi e delle persecuzioni che esso ha dovuto subire ad opera del giudaismo istituzionale. Vi è quindi una continuità logica e temporale tra il cap.8 e il cap.9 sottolineata, qui (v.5b) come là (8,12), non solo dal richiamo tematico di Gesù come luce del mondo, ma anche narrativa: “[...] Gesù si nascose e uscì dal tempio. E passando vide un uomo cieco dalla nascita” (8,59b-9,1). In tal senso è significativo come il v.9,1 inizi senza citare il soggetto dell'azione, Gesù, poiché questo era stato nominato nell'immediatamente precedente v.8,59b, rafforzando in tal modo la continuità narrativa tra i capp.8 e 9, legati tra loro anche da quel “Kaˆ” (Kaì, E) con cui si apre il v.9,1, facendone quasi un'unica unità narrativa. Non vi è dunque frattura tra i due capitoli, ma continuità sotto ogni aspetto. Il contesto infatti è sempre quello della festività delle Capanne (7,2), richiamata qui anche nei suoi due aspetti più appariscenti e caratterizzanti: l'acqua e la luce. La vasca a cui il cieco è mandato a lavarsi, infatti, è quella di Siloe (v.7), la stessa a cui i sacerdoti attingevano l'acqua per la ritualità della festa1; e così la luce, con cui Gesù si identifica (8,12; 9,5), forma da sfondo all'intera festa2. Anzi, il cap.9 racconta gli effetti illuminanti (vv.35-38) e nel contempo accecanti (vv.39-41) di questa luce, illustrando il senso dell'attestazione di Gesù. Il contesto dunque è sempre quello della festa delle Capanne e più precisamente l'ottavo giorno3 (8,2); ma la cornice qui non è più il Tempio (7,14.28; 8,2.20.59), da cui Gesù è uscito (8,59b), abbandonandolo, bensì la gente, colta nei suoi più variegati aspetti della quotidianità della loro vita: vi è il cieco nato (v.1), che mendicava alle porte del tempio (v.8); vi sono i suoi vicini e conoscenti (v.8) ed altra gente anonima (v.9), che parlano e discutono sul suo caso; vi sono le immancabili autorità religiose (v.13), che indagano con insistenza (vv.15a.17.19.24.26) e dissertano con saccenteria un caso incredibile, che mai si era udito (v.32), sentenziando con autorità e presunzione, in base a parametri veterotestamentari del tutto inadeguati per fornire la comprensione di un evento del tutto nuovo, apparso in modo inatteso all'interno del giudaismo (vv.16.28-29.34); vi sono i genitori del cieco nato, che attestano la sua congenita cecità, ma non voglio esporsi oltre per timore delle autorità giudaiche (vv.18-22); vi sono ancora i discepoli che si interrogano sulla condizione di cecità del mendicante secondo le loro consuete logiche tradizionali (v.2), anche queste del tutto inadeguate per comprendere la novità che si sta profilando all'orizzonte; ed infine vi è anche Gesù, che, a mo' di inclusione, compare all'inizio (vv.1-7) e alla fine del racconto (vv.35-41); ma in realtà la sua presenza forma da sfondo all'intera narrazione e traspare continuamente, quasi in filigrana. È lui infatti l'oggetto diretto e indiretto o collaterale al cieco nato dei sedici interrogativi disseminati lungo l'intero racconto; è lui l'oggetto dell'indagine, che porterà alla luce in modo contrastato, con i ritmi propri di una lenta e graduale scoperta, la sua vera identità. Dapprima egli è compreso come un semplice uomo (v.11.16), poi come un profeta (v.17b), poi come Cristo (v.22b), e ancora come uno che proviene da Dio (v.33); è colto con il titolo messianico di Figlio dell'uomo (v.35); è invocato come Signore (v.36) e come tale, poi, professato e adorato (v.38). Si tratta di un cammino di fede contrastato, in cui non mancano le voci contrarie, il cui ruolo è quello, da un lato, di mettere sempre più in evidenza la vera natura di Gesù e del suo Mistero, in un gioco di chiaroscuri e di contrasti; dall'altro, di denunciare le difficoltà di cui era disseminato il percorso di fede di quei giudei che, illuminati dalla Parola, avevano deciso di aderirvi. Infatti per le autorità religiose Gesù altri non è che un peccatore e in quanto tale non poteva venire da Dio, ne esserne il suo interprete (vv.16.24.29b), poiché violava il sabato (v.16a).

Si tratta di un racconto che si sviluppa su due corsie tra loro parallele, ma di senso opposto: da un lato il cieco guarito, che nel corso del dibattito, man mano che il racconto progredisce, migliora sempre più il suo “vedere” su Gesù, scoprendone alla fine la vera identità; dall'altro, vi è un processo inverso, quello dei farisei, che, radicati nella Legge mosaica, la oppongono al comportamento di Gesù e a nulla vale la portentosità del segno e il messaggio che esso porta in sé, rilevato dalla lectio magistralis impartita loro dal cieco nato: “Sappiamo che Dio non ascolta dei peccatori, ma se uno è pio e fa la sua volontà, questo (lo) ascolta. Da sempre non fu (mai) udito che qualcuno aprisse gli occhi di un cieco nato. Se questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare niente” (vv.31-33). Alla fine del racconto i due comportamenti sono posti tra loro a confronto: il cieco nato, terminato il suo percorso di illuminazione, giunge alla pienezza della luce e del suo vedere (vv.35-38); mentre i farisei, che pretendevano di essere illuminati, sprofondano nelle tenebre della loro pervicace incredulità e per questo saranno sottoposti a giudizio (vv.39-41)

Il racconto del cieco nato, il sesto segno compiuto da Gesù4, ha dei forti parallelismi e contatti con quello della Samaritana (4,1-42). Similmente a quello della Samaritana, che racconta la risposta positiva della Samaria all'annuncio di Gesù, che vi “doveva passare” (4,4), anche questo racconto del cieco nato intende narrare la nascita del giudeocristianesimo all'interno della comunità giudaica e i problemi che questo vi ha incontrato. Entrambi sono un omaggio e un riconoscimento dell'autore a due gruppi consistenti che formavano la comunità giovannea5, al cui interno è nato questo vangelo. Anche la lunghezza delle due narrazioni è identica: 42 versetti per la Samaritana; 41 per il cieco nato. Entrambi i racconti si prospettano come un cammino di fede, in cui l'identità di Gesù viene gradualmente scoperta per poi concludersi in entrambi i casi con una solenne quanto commovente professione di fede: “noi stessi (lo) abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo” attestano i samaritani (4,42b); mentre il cieco nato, prostratosi in adorazione, proclama la sua fede nel Risorto (9,38). Nel racconto della Samaritana “Gesù doveva passare dalla Samaria”, facendo intendere chiaramente con quel “doveva passare” come la Samaria rientrasse nei piani salvifici del Padre; similmente, il racconto del cieco nato inizia con un Gesù, che, abbandonato il giudaismo istituzionalizzato del Tempio (8,59b), anche qui “passa e vede” (9,1), un'espressione che, come vedremo meglio in seguito, dice tutta l'attenzione che Gesù rivolge a quel giudaismo che vive ai margini della religione ufficiale e che dai suoi rappresentanti subiva continue, pesanti quanto inutili imposizioni precettistiche (Mt 23,4). Ma anche il cammino della scoperta dell'identità di Gesù è sostanzialmente identico nei due racconti. Nella Samaritana Gesù è inizialmente compreso come un semplice Giudeo ed uomo (4,9.29), poi come Rabbi (4,31), poi come Profeta (4,19), come “Io sono e Signore” (4,1.11.15.26) e infine come il “Salvatore del mondo” (4,42). Quanto al cieco nato, già lo si è visto sopra, l'autore traccia un progressivo cammino di scoperta e di identificazione di Gesù, colto inizialmente come un semplice uomo (v.11.16), poi come un profeta (v.17b), poi come Cristo (v.22b), e ancora come uno proveniente da Dio (v.33); è infine colto con il titolo messianico-divino di Figlio dell'uomo (v.35) ed è invocato come Signore (v.36). In entrambi i racconti vi è un crescendo di titolatura cristologica, che partendo dalle apparenze umane di Gesù, man mano che i racconti procedono, queste vengono superate per entrare pienamente nel Mistero della sua divinità e nel senso della sua missione salvifica. La forte somiglianza dei due percorsi di fede fa riecheggiare schematicamente in se stessa un cammino di catechesi che le prime comunità credenti, e qui quella giovannea in particolare, rivolgevano ai loro catecumeni. La stessa procedura di scoperta graduale della persona di Gesù e del suo Mistero, accompagnata da continui interrogativi sulla sua persona viene adottata dallo stesso vangelo marciano, che appare come un percorso catechetico rivolto ai catecumeni.

Un'ultima attenzione va rivolta al verbo “vedere”6 che si ripete in questo racconto quindici volte in tutte tre le forme care a Giovanni: la prima è blšpw (blépo), che qui ricorre 12 volte, indica un vedere fisico, superficiale, incapace di trascendere la realtà delle cose che si vedono; è il vedere proprio di una fede ancora incipiente e acerba, che comprende Gesù come un uomo, un taumaturgo, un profeta, un personaggio di rilievo, ma ancora non è giunta a coglierne l'identità più intima e più vera che va ben al di là di ciò che appare: la sua divinità. Un verbo con cui Giovanni probabilmente allude alla situazione di molti giudeocristiani che componevano la comunità giovannea, credenti, ma non ancora pienamente illuminati. La seconda è qewršw (tzéoreo), che ricorre soltanto una volta in 9,8, al participio presente, per indicare coloro che avevano visto il cieco a mendicare e che si interrogano su di lui e su quanto gli è successo. Il verbo “tzéoreo” infatti significa guardare, scorgere, esaminare, osservare, investigare. È il verbo di chi ha già superato il primo stadio della fede, espresso con “blépo”, e incomincia ad interrogarsi su ciò che ha visto, intuendo un qualcosa che trascende ciò che è immediatamente raggiungibile nelle sue apparenze. È il secondo stadio della fede. La terza forma è “Ðr£w” (oráo), che è il verbo della fede raggiunta e che apre alla visione e alla comprensione piena del Mistero; è lo stadio della illuminazione. Questa terza forma verbale viene usata soltanto due volte in questo racconto: al v.9,1, dove si dice che Gesù “passando vide un uomo cieco”. In questo caso il verbo, riferito a Gesù, dice il vedere proprio di Dio, che è un vedere onnisciente e irresistibile, che va a cogliere l'uomo nella sua intimità e, nel nostro caso, è un vedere selettivo ed elettivo; e al v.9,37 dove Gesù, rivolto al cieco guarito, indicando se stesso come il Figlio dell'uomo, gli dice: “Lo hai visto ed è quello che parla con te”. Il cieco dunque è colui che “ha visto”, cioè ha saputo accogliere Gesù non soltanto come un uomo o un profeta o un taumaturgo, ma nella sua divinità e nel suo messianismo. Il vedere del cieco quindi è ora pieno e completo, poiché ha raggiunto nell'uomo Gesù il suo Mistero.

Ci troviamo di fronte, con quest'ultimo verbo (oráo), posto all'inizio e alla fine del racconto (9,1.37), ad una inclusione, che abbraccia l'intero racconto, indicando fin da subito come esso parli di un cammino di fede di quel giudaismo disponibile a Gesù giunto felicemente a compimento; un cammino che si apre con l'elezione-chiamata da parte di Gesù (“E passando vide”), metafora dell'annuncio kerygmatico che interpella l'uomo, e si conclude con l'illuminazione di questi divenuto credente.

La struttura di questo racconto si snoda in sette quadri narrativi tutti attraversati dalla figura del cieco nato e da quella di Gesù, la cui presenza, tolti il primo (vv.1-7) e gli ultimi due quadri (vv.35-38.39-41), si muove sullo sfondo del racconto ed emerge sempre più, man mano che il racconto procede, nella sua sempre meglio precisata identità:

1° Quadro (vv. 1-7): contiene il segno, che occupa soltanto i vv.6-7, e la sua chiave interpretativa (vv.1-5);

2° Quadro (vv.8-12): è caratterizzato dalla presenza dei vicini e dei conoscenti del cieco nato (v.8) e da altre persone (v.9). Nascono i primi interrogativi su Gesù: “Dov'è quello?”, e la sua prima definizione come “L'uomo chiamato Gesù”. Gesù dunque appare come un semplice uomo sconosciuto: “Non so”;

3° Quadro (vv.13-17): è animato dalla presenza dei Farisei, che indagano sul segno compiuto in giorno di sabato, che, secondo la Legge mosaica, pregiudica le pretese di Gesù come uomo proveniente da Dio (8,42). Ma nel contempo il segno prodotto da Gesù è inequivocabile, poiché nessuno avrebbe un potere simile se non gli venisse dato da Dio. Come dunque interpretare la novità di un simile evento? L'interrogativo rimane senza soluzione se non si esce dagli schemi mosaici, incapaci di spiegare la novità dell'evento Gesù.

4° Quadro (vv.18-23): continua l'indagine dei Farisei, che rinchiusi nello schema mosaico del sabato, non riescono a capacitarsi di quanto è avvenuto e cominciano a dubitare della cecità congenita del cieco e convocano i suoi genitori, che, confermandola, prendono le distanze dal figlio per timore dei Giudei, che avevano minacciato l'espulsione dalla sinagoga chi lo avesse riconosciuto come messia. È l'occasione per Giovanni di fornirci un dato storico interessante, che rileva lo stato di persecuzione che il giudaismo aveva decretato nei confronti del nascente cristianesimo.

5° Quadro (vv.24-34): torna l'accoppiata Farisei-cieco nato del 3° Quadro il cui tema è ripreso sostanzialmente identico, ma viene ampliato notevolmente traducendosi in una lectio magistralis (vv.30-33) che il cieco guarito impartisce ai Farisei. Si viene a sapere come questo cieco risanato sia considerato dai Farisei come “discepolo di quello”, cioè di Gesù, contrapposto al discepolato mosaico a cui appartengono i Farisei. Il dato fornitoci è interessante, perché attesta come questo cieco nato è metafora del giudeocristianesimo, che non può più considerarsi seguace di Mosè, e pertanto non appartiene più alla sinagoga (v.34b), segnalandoci in tal modo la spaccatura venuta a crearsi tra giudaismo e cristianesimo, inizialmente compreso come un'appendice di questo.

6° Quadro (vv.35-38): la solenne professione di fede del giudaismo illuminato e guarito dalla pervicace incredulità, provocata dall'acritico attaccamento alla legge mosaica.

7° Quadro (vv.39-41): la pretesa del giudaismo istituzionale di essere illuminato dalla Legge mosaica fino a respingere Gesù, che nei segni manifesta la sua divinità, lo rende di fatto cieco, cioè incapace di cogliere la novità dell'evento Gesù, che gli si disvela nel suo Mistero, radicandosi sempre più nella sua invincibile incredulità. Per questo su di lui si è aperto un giudizio di condanna.


Commento al cap.9


Il Testo

1° Quadro: il segno e la sua chiave interpretativa (vv.1-7)

1- E passando vide un uomo cieco dalla nascita.
2- E i suoi discepoli lo interrogarono dicendo: <<Rabbi, chi peccò, costui o i suoi genitori, per essere nato cieco?>>.
3- Rispose Gesù: <<Né costui peccò, né i suoi genitori, ma affinché fossero manifestate in lui le opere di Dio.
4- Bisogna che noi compiamo le opere di chi mi ha mandato finché è giorno; viene la notte, quando nessuno può lavorare.
5- Mentre sono nel mondo, sono luce del mondo>>.
6- Dopo aver detto queste cose, sputò per terra e dallo sputo fece del fango e spalmò il fango sui suoi occhi.
7- E gli disse: <<Va a lavarti alla vasca di Siloe>> - che significa inviato -. Se ne andò, dunque, e si lavò e ritornò che ci vedeva.

Note generali

Questo primo quadro narrativo funge da introduzione all'intero capitolo: da un lato presenta la figura di un uomo, qualificato come cieco dalla nascita (v.1) e la sua guarigione (vv.6-7); dall'altro fornisce la chiave interpretativa del segno stesso. Il segno in sé occupa uno spazio narrativo del tutto irrilevante, solo due versetti (vv.6-7), mentre l'autore riserva l'intero cap.9 al dibattito che ne segue e da cui emergerà, sia l'identità di Gesù, in un progressivo sempre più incalzante; sia un vedere, via via sempre più illuminato, del cieco risanato fino alla sua professione finale di fede, a cui fa riscontro, in un movimento uguale contrario, lo sprofondamento del giudaismo istituzionale nella cecità di un'invincibile incredulità.

La struttura di questa pericope, molto semplice e immediatamente rilevabile, è scandita in tre parti: a) v.1: Introduzione; b) vv.2-5: la chiave di lettura del segno; c) vv.6-7: il segno.

Commento al Primo Quadro (vv.1-7)

Il v.1, come si è già sopra rilevato (pag.2), si apre con un “Kaˆ” (Kaì, E) redazionale, il cui intento è di legare il cap.9 al precedente cap.8, facendone un suo naturale proseguimento narrativo. Significativo in tal senso è anche l'aver taciuto il nome del soggetto principale dei verbi “passare e vedere”, perché questo è già stato indicato al v.8,59b. Quindi, grazie a questo escamotage letterario, l'autore indica al suo lettore come vi sia un profondo legame e una forte continuità narrativa tra i due capitoli, tra loro coniugati anche da altri elementi comuni come il tema della luce, dell'acqua e della festa delle Capanne.

Il v.1 si apre con un participio presente: “par£gwn” (parágon, passando), un verbo del tutto inusuale per Giovanni, ricorrendo soltanto qui. Al suo posto l'autore avrebbe potuto tranquillamente usare il verbo molto comune e più appropriato “œrcomai” (ércomai), che significa, solo a titolo esemplificativo, “andare, venire, giungere, entrare, uscire” ed altri verbi ancora indicanti movimento. Il fatto che l'autore abbia scelto invece “parágon” e che questo sia un hapax legomenon7, significa che a questo verbo egli attribuisce un significato particolare. Si tratta di un verbo composto da due parti: dall'avverbio “par£”, che significa, a seconda dei casi, luogo di provenienza (da, da parte di), oppure luogo verso dove si sta andando, o anche, in senso di quiete, essere, stare presso, accanto, vicino. La seconda parte è il verbo “¥gw” (ágo), anche questo dai molteplici significati, come ad esempio “condurre, muovere, guidare, accompagnare, governare, amministrare, educare, ammaestrare, agire, andare”. Questa pluralità di significati non è casuale perché questi vanno a definire la missione stessa di Gesù, che verrà meglio esplicitata ai vv.2-5. In quel “parágon” si può vedere, infatti, un Gesù che conduce, muove, guida, accompagna, educa, amministra e ammaestra, in ultima analisi, opera e si muove da parte del Padre da cui proviene; oppure un Gesù che si muove ed opera in funzione del Padre ed è rivolto verso di Lui, così come l'operare e il muoversi di Gesù è finalizzato ad essere e stare presso, vicino, accanto all'uomo, dove ora si trova per tendergli la mano del Padre. Il verbo “parágon” quindi racchiude in se stesso il senso più profondo della missione di Gesù, la quale proviene dal Padre e verso di Lui è rivolta, e che Gesù sta compiendo qui, ora, dove egli si trova presso gli uomini, glorificando il Padre nel suo compierla (17,4).

Il verbo “parágon” è accompagnato dal verbo “eŒden(eîden), che significa “vedere” e se attribuito a Gesù assume il significato di un vedere privilegiato, un vedere selettivo ed elettivo. Non è un caso che l'accoppiata dei due verbi “parágon … eîden” nei Sinottici compaia soltanto nei racconti di chiamata dei discepoli, dove Gesù “passando ... vide” (Mt 9,9; Mc 1,16; 2,14). Già, dunque, con questi due verbi, l'autore inquadra l'intero racconto: ciò che qui si narrerà ha attinenza con la stessa missione di Gesù, una missione volta a chiamare a sé, per farlo suo discepolo, “un uomo cieco dalla nascita”. Il fatto che si tratti di “un uomo” definito in senso generico sia da un articolo indeterminativo (un), sia dal sostantivo stesso “¥nqrwpon” (ántzropon), che significa un uomo qualunque, in senso generale, significa che quest'uomo assume la valenza di una metafora, che rappresenta una categoria di persone, che qui viene qualificata dal suo essere “cieco dalla nascita”. Si parla di una cecità che è “dalla nascita” (™k genetÁj, ek ghenetês); quel “ek”, particella che indica la provenienza e dice da dove trae origine questa cecità. Isaia nel rimproverare Israele lo apostrofa come un popolo di sordi e di ciechi, incapaci di sentire e di vedere: “Sordi, ascoltate, ciechi, volgete lo sguardo per vedere. Chi è cieco, se non il mio servo? Chi è sordo come colui al quale io mandavo araldi? Chi è cieco come il mio privilegiato? Chi è sordo come il servo del Signore? Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione, hai aperto gli orecchi, ma senza sentire” (Is 42,18-20); un popolo, dunque, che pur avendo occhi non vede: “Fa uscire il popolo cieco, che pure ha occhi, i sordi, che pure hanno orecchi” (Is 43,8); anche i responsabili di Israele soffrono della stessa cecità del popolo: “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma tali cani avidi, che non sanno saziarsi, sono i pastori incapaci di comprendere. Ognuno segue la sua via, ognuno bada al proprio interesse, senza eccezione” (Is 56,10-11). Similmente in Ez 12,2, Dio rivolgendosi al profeta, definisce il suo popolo come una genia di ribelli, incapaci di vedere e di sentire: “Figlio dell'uomo, tu abiti in mezzo a una genia di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono, perché sono una genia di ribelli”. Israele, dunque, è un popolo di ciechi, a cui Dio manda il suo Servo per ridonare loro la luce che li illumini e li faccia uscire dal carcere di una Legge divenuta che li teneva imprigionati: “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” (Is 42,6-7). Il Gesù matteano, in una sua prima fase missionaria, aveva inteso la sua missione come rivolta esclusivamente ad Israele: “Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele” (Mt 10,5-6); e similmente, nei confronti della donna cananea, che gli chiedeva aiuto per la propria figlia tormentata da un demonio, rispose: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15,24). Gesù, dunque, è venuto per Israele, per risanarlo dalla sua cecità, dalla sua incredulità e durezza di cuore e reindirizzarlo a Dio. Al suo passaggio molti giudei risposero accogliendo la sua parola e, sfidando le dure sanzioni delle autorità giudaiche e l'isolamento sociale e religioso, si fecero suoi discepoli. Questa è la loro storia.

I vv.2-5 forniscono la chiave di lettura del segno. La loro struttura si sviluppa come una sorta di pensiero a spirale, in cui le parole del precedente versetto vengono riprese e sviluppate al versetto successivo fino a giungere al v.5, vertice del pensiero stesso. Così si ha la seguente elaborazione:

  1. v.2: i discepoli, di fronte al cieco nato, forniscono la loro lettura tradizionale, che prevedeva il castigo sui figli per colpe commesse o da loro o dai propri genitori;

  2. v.3: Gesù, riprendendo la loro lettura, la nega e ne fornisce una nuova: la manifestazione nel cieco delle opere di Dio;

  3. v.4: la manifestazione delle opere di Dio viene qui ricompresa come il compierle; un compimento, che rientra in un piano divino (bisogna) e a cui sono associati assieme a Gesù anche i discepoli, finché è giorno, cioè fin da subito, mentre Gesù sta ancora conducendo la sua missione;

  4. v.5: il termine giorno della presenza di Gesù, che si contrappone alla notte della sua assenza, si trasforma in luce e che cosa significhi questo viene detto nel segno compiuto ai vv.6-7.

Con il v.2 ricompaiono, dopo ben due capitoli (7-8), i discepoli che avevamo lasciato al cap.6 nel contesto della seconda pasqua (6,4), quella della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Molti di questi, scandalizzati per i discorsi di Gesù, lasciarono la sequela (6,66), altri, i fedelissimi, rimasero, confermando la loro fede in Gesù (6,67-69). Ora, l'inattesa entrata dei discepoli, che in tutto il capitolo compaiono soltanto qui, serve all'autore non solo per introdurre il tema, ma anche per mettere a confronto due diverse correnti di pensiero: quella della Tradizione dei Padri e quella di una nuova prospettiva che Gesù è venuto ad inaugurare e che insegna a leggere le cose dal punto di vista di Dio e non più degli uomini: “Rabbi, chi peccò, costui o i suoi genitori, per essere nato cieco?”. Una simile richiesta, che troverà la sua eco al v.34, là dove i farisei si scaglieranno contro il cieco accusandolo di essere nato nei peccati, causa della sua cecità, ha la sua radice e la sua giustificazione giuridica e teologica in Es 20,5: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano”; un asserto che riecheggerà persistente anche in Es 34,7, Nm 14,18, Dt 5,9 e Ger 32,18 e che venne efficacemente sintetizzato in un proverbio, riportatoci sia da Geremia che da Ezechiele: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati!” (Ger 31,29; Ez 18,2). Ma già con Dt 24,16 si invertirà la tendenza, rendendo la responsabilità della colpa non più sociale, ma individuale e personale: “Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato”; e così verrà confermato anche da 2Re 14,6; Ger 31,29-30; Ez 18,1-4. Su quest'ultima linea si posizionerà anche Gesù al v.3, benché il senso qui, come vedremo subito, sia sostanzialmente diverso.

Il v.3 riporta la risposta di Gesù, che, riprendendo l'attestazione dei discepoli, rigetta integralmente un modo di pensare che non aveva né capo né coda, ivi compresa la correzione apportata in seguito, che personalizzava sia la colpa che il castigo: quindi non vi è nessuna correlazione tra il peccato e la sofferenza, intesa come sanzionatoria della colpa, benché la colpa, per definizione, porti già in se stessa la punizione, poiché essa rimanda sempre ad una violazione dei principi naturali e spirituali che regolano il vivere dell'uomo. L'infrazione di uno di questi principi porta automaticamente in se stesso la corrispondente punizione, anche se non immediata, ma che può manifestarsi nel tempo sotto diverse forme: malattie in genere, disorientamento esistenziale, stati esistenziali di insoddisfazione e di inquietudine, depressioni, disturbi e/o sofferenze psicosomatiche, difficoltà relazionali, nevrosi, perdita del senso del vivere, spingendo l'uomo verso una spirale autodistruttiva che può culminare anche nel suicidio. Pensare quindi che il peccato sia punito da Dio soltanto nell'aldilà è una visione distorta delle cose, poiché il vivere nel peccato porta già in se stesso il proprio inferno, che nell'aldilà verrà reso soltanto pieno e definitivo, venendo meno i limiti spazio-temporali, causativi dei limiti e del divenire.

Gesù, dunque, respinge in toto questo modo deforme e deformante di pensare le cose e prospetta una nuova visione e una nuova comprensione delle stesse: “ costui peccò, i suoi genitori, ma affinché fossero manifestate in lui le opere di Dio”. Il v.3 è scandito in due parti: nella prima Gesù, riprendendo l'asserto dei discepoli, esclude con quel doppio “né” ogni relazione tra peccato e sofferenza, che addita in Dio soltanto un padre padrone pronto a castigare e a giustiziare i figli che sbagliano, per cui alla colpa Dio risponde con il contraccolpo della sua punizione. Sono le logiche delle stesse cose, come si è visto poc'anzi, a giustiziare o a premiare l'uomo, non Dio. La seconda parte si apre con una particella avversativa: “ma”, che non solo si contrappone al modo di pensare dei discepoli, ma lo sostituisce, fornendo una nuova chiave di lettura di quella cecità: “affinché fossero manifestate in lui le opere di Dio”. Il cieco, come si è visto sopra (pagg.6-7), è la metafora di un Israele che aveva perso il suo orientamento verso Dio a causa del suo modo di leggere la Torah, vedendo in essa soltanto una volontà divina da eseguirsi fisicamente alla lettera, mostrando in tal modo tutta la sua incapacità ad andare oltre ad essa: la vittoria della forma sulla sostanza, che ha spinto Gesù a riscrivere la Torah e a ricomprenderla dalla prospettiva di Dio (8,6.8; Mt 5,21-48). La venuta di Gesù aveva l'intento di illuminare Israele, ricompattandolo attorno ad una nuova comprensione della Torah, che l'avrebbe aperto ad un nuovo rapporto con Dio e ad un nuovo culto, riorientandolo verso di Lui in un grande movimento escatologico, che l'avrebbe tratto fuori dallo stallo di una ritualità ripetitiva, che aveva perso ogni senso e che dava l'illusione di una salvezza raggiunta. Un tentativo andato a vuoto e che il Gesù matteano rinfaccerà duramente ad Israele (Mt 23,37-38). Un fallimento quello di Israele che tormenterà e addolorerà non poco lo stesso Paolo, che alla questione dedicherà i capp.9-11 della sua lettera ai Romani. Il manifestare in lui le opere di Dio diviene pertanto la metafora del manifestarsi di Gesù in mezzo ad Israele quale inviato del Padre, perché manifestandosi smuovesse la fede di Israele in lui e così credendo avesse la vita eterna (3,15-16.36a; 6,47; 20,31b), cioè fosse reimmesso nel ciclo vitale di Dio, da cui si era autoescluso per una innata e connaturata incapacità di comprenderne la Parola al di là della sua forma letteraria. La diretta manifestazione del Padre nel Figlio-Gesù aveva l'intento di dare una nuova visione e una nuova comprensione di Dio al di là della lettera accecante e immobilizzante, aprendo ad una nuova relazione con Dio, espressa in un nuovo culto, che doveva radicarsi più che nelle pietre del tempio, nel cuore stesso del credente. Il credere in Gesù è dunque la vera opera di Dio (6,29), finalizzata a ridonare la luce ad un popolo di ciechi che pur vedendo la Parola non la comprendono (Is 42,18-20). Alla domanda delle folle “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” Gesù risponde: “Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (6,28-29).

Il v.4 riprende il tema delle opere di Dio e ne dà una nuova visione che va ad ampliare e a completare quanto detto al v.3: “Bisogna che noi compiamo le opere di chi mi ha mandato finché è giorno; viene la notte, quando nessuno può lavorare”. Il versetto è incluso dal verbo “™rg£zesqai” (ergázestai), comparendo questo sia all'inizio che alla fine del versetto stesso, mettendolo sotto l'egida del fare e del compiere, rilevando quindi la necessità che tali opere, che sono manifestate e annunciate in Israele, siano anche compiute; solo così la sua cecità può dirsi pienamente risanata. Questo versetto si richiama probabilmente ad una situazione storica dell'immediato periodo post-pasquale allorché il discepolato di Gesù, completamente disorientato dai tragici eventi della sua morte, venne disperso, venendo a crearsi un pericoloso vuoto attorno al Maestro che ora non era più con loro. Indizi in tal senso ci sono forniti dagli stessi racconti evangelici: al momento dell'arresto di Gesù nel Getsemani i suoi più intimi fuggono, lasciandolo in balia dei suo avversari (Mt 26,56b; Mc 14,50); Pietro timoroso segue Gesù da lontano8 e lo disconosce persistentemente9; ai piedi della croce compaiono in lontananza soltanto poche donne e dei conoscenti10; dopo la sua morte i due discepoli di Emmaus si allontanano da Gerusalemme sconsolati e disillusi (Lc 24,13-21); altri accorrono alla notizia della tomba vuota, ma se ne tornano alle loro case e alle loro attività (Lc 24,9-12; Gv 20,10); mentre il gruppo dei fedelissimi si trova chiuso in casa per timore dei Giudei (20,19) e dubbi e incertezze li assalivano (Mt 28,17). Il clima che si respira nell'insieme è quello di un fuggi fuggi generale, che l'evangelista commenta parafrasando Zc 13,7b: “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge” (Mt 26,31; Mc 14,27). Il v.4 diventa pertanto un sollecito che l'autore rivolge alla comunità giovannea perché si stringa attorno alla missione di Gesù, portando a compimento in mezzo ad Israele quelle opere che Gesù aveva annunciato e manifestato durante la sua missione terrena. È molto probabile che questo sollecito risalga al primo nucleo fondativo della comunità giovannea, allorché essa era formata prevalentemente da giudei convertiti al cristianesimo e al cui interno si elaborò una prima stesura del vangelo.

Il v.4 si apre significativamente con l'espressione “¹m©j de‹ ™rg£zesqai t¦ œrga” (emâs deî ergázestai tà érga), “Noi bisogna che compiamo le opere”. Il versetto pone l'accento sul “Noi”, che associa alla missione di Gesù l'intera comunità giovannea. Ciò che Gesù manifestò dunque non è un affare suo, ma ora appartiene a tutti i credenti, che l'hanno ricevuto da lui e su di loro ora grava la responsabilità del compiere quelle opere annunciate. La necessità di portare a compimento la missione di Gesù, infatti, rientra in un preciso piano divino, che viene espresso sinteticamente in quel “de‹” (deî, bisogna): le opere di Dio manifestate in Gesù (v.3) vanno assunte dalla comunità giovannea e portate a compimento, poiché ciò rientra in un preciso progetto di Dio (v.4). E che qui si tratti di missionarietà ereditata lo lascia intendere la sostituzione dell'espressione “opere di Dio” del v.3 in “opere di chi mi ha mandato” del v.4, con cui si sottolinea come questa missionarietà ha la sua origine primaria nello stesso Padre e come questa da Gesù ora passa a loro. La cosa apparirà più evidente nella prima apparizione ai discepoli del v.20,21: “Disse dunque di nuovo Gesù a loro: <<Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi>>”. Il sollecito a compiere le opere di Dio è di farlo “finché è giorno”. L'espressione lega e fa discendere l'attività missionaria della comunità giovannea direttamente a quella terrena di Gesù. Il termine “giorno”, qualora riferito a Gesù, indica il tempo della sua vita terrena e in particolare quello della sua missione. Quel “finché è giorno” coinvolge direttamente la comunità giovannea in quella di Gesù, collocandola in essa, così che in quella giovannea si rende presente quella terrena di Gesù. Vi è dunque una continuità “fisica” tra le due missioni, che rende responsabile la comunità giovannea del buon esito di quella iniziata da Gesù.

Al giorno della missione terrena di Gesù, che prosegue ora in quella giovannea, si contrappone la notte, allorché nessuno può lavorare. Se il giorno dice il tempo terreno di Gesù, va da sé che la notte dice la sua assenza, con riferimento al tempo immediatamente post-pasquale in cui il discepolato di Gesù fu disperso e perseguitato, significato in quel “quando nessuno può lavorare”. Proprio per questo la comunità giovannea deve proseguire la missione di Gesù per evitarne la dispersione e la sua fine e perché il giorno della missione di Gesù continui a splendere nella comunità giovannea, così che Gesù continui ad essere luce che illumina non solo Israele, ma anche il mondo.

Il v.5, riprendendo la precedente espressione “finché è giorno”, ora la scioglie in “mentre sono nel mondo”, con chiaro riferimento alla missione di Gesù; e in quel “mentre” ora è associata anche la comunità giovannea (“Noi”) che deve farlo proseguire in se stessa per far si che quella luce che Gesù è venuto a portare al mondo continui a risplendere anche per il mondo giudaico per il quale il Gesù matteano era venuto (Mt 10,5-6; 15,24; 23,37) e a cui si riferisce il nostro racconto.

I vv.6-7 raccontano il segno della guarigione del cieco nato. Solo due versetti, ma molto densi. Va subito detto che la gestualità del Gesù giovanneo, che molto simile ricorre altre due volte in Mc 7,33 e 8,23, era una sorta di rituale terapeutico molto diffuso nel mondo antico. Alla saliva venivano attribuiti poteri sia terapeutici che apotropaici; questi se mischiati alla terra venivano potenziati11. Il fatto che di questa gestualità ne parlino solo Marco e Giovanni dipende probabilmente dal contesto culturale e religioso a cui i vangeli erano destinati oltre che agli intenti dei rispettivi autori. Luca scrive ad una comunità ellenista, che poteva facilmente interpretare questi gesti come operazioni di magia12; mentre Matteo, che si rivolge ad una comunità prevalentemente formata da giudeocristiani, evita questa ritualità perché facilmente scambiabile come rituale magico e rientrante in un mondo esoterico, condannato dalla Torah e dai profeti13. Diverso è il discorso per Marco che scrive al mondo dei romani, dalla mentalità più pragmatica e meno incline alla magia, anche se propensi, e non poco, alla superstizione e al credere al malocchio e alle maledizioni; diverso anche per Giovanni che scrive ad una comunità multicomposita ed elitaria14, lasciando trasparire chiaramente dai vv.6-7, come vedremo subito, tratti di chiara marca battesimale, togliendo quindi dalla gestualità di Gesù ogni possibilità di fraintendimento. Probabilmente per entrambi gli evangelisti, che ben conoscevano le loro comunità, era importante sottolineare la sacramentalità della guarigione operata da Gesù, senza incorrere in rischi di fraintendimento.

Il v.6 si apre con l'espressione “taàta e„pën” (taûta eipòn), “Dopo aver detto queste cose”, che se da un lato è di tipo redazionale, dall'altro si carica anche di valenza teologica. L'espressione, infatti, lega il segno ai vv.3-5 in cui Gesù dichiara che nel cieco nato, metafora di Israele, si devono compiere le opere di Dio, cioè Israele ha a che vedere con la venuta e la missione di Gesù (Mt 10,5-6; 15,24), per essere risvegliato nella sua coscienza di popolo eletto, proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6) e ricondotto ad un culto che si radichi nella sincerità del cuore e nella verità della Parola e non più soltanto nella lettera. Tutta questa operazione si definisce come operazione luce o illuminazione, che trova in Gesù il suo vertice: “Mentre sono nel mondo, sono luce del mondo” (v.5). Una missione che fallirà nei confronti del giudaismo istituzionale, ma che avrà successo con quello della gente. Il segno racconterà la loro storia.

Il segno è scandito in tre tempi: il primo (v.6) ha una funzione meramente preparatoria e annovera il segno nella categoria dei miracoli di guarigioni. Il gesto infatti che Gesù compie rientra nel consueto rituale proprio del guaritore e invita a leggere il segno come una sorta di risanamento e di rianimazione di Israele, ammalato di lettera, privata, per la sua incapacità di andare oltre, della luce dello Spirito, che lo ha condotto ad un rapporto asfittico e inconcludente con Dio. Giovanni, tuttavia, inserisce in questa gestualità terapeutica il verbo “™pšcrisen” (epécrisen), che letteralmente significa spalmare sopra con riferimento allo spalmare dell'olio e quindi ungere, un'azione strettamente legata al rito del battesimo nella chiesa antica che prevedeva due unzioni, una pre-battesimale e una successiva. Non è quindi possibile pensare, unitamente alla simbologia della vasca, dell'acqua e del lavarsi, da cui il cieco acquista la vista, venendo illuminato nella sua cecità dalla luce (v.7), che qui Giovanni non pensasse al battesimo di quel giudaismo ben disposto che ha saputo accogliere l'annuncio.

Il secondo tempo (v.7a) è dato dal comando “<<Va a lavarti alla vasca di Siloe>> - che significa inviato”. È dunque il “comando”, cioè la forza della Parola creatrice, che possiede in se stessa la potenza creatrice e rigeneratrice (1Pt 1,23). In quel “Upage n…yai” (ípaghe nípsai, va a lavarti) risuona in qualche modo quell'altro comando: “Genhq»tw fîj” (ghenetzéto fôs, Sia luce! - Gen 1,3). È sempre lo stesso Logos che era presso il Padre (1,1-2) e per mezzo del quale tutto è stato fatto di ciò che esiste (1,3) e di cui ora Giovanni e la sua comunità contemplano la sua gloria (1,14b), che si manifesta nel compiersi delle opere di Dio in mezzo ad Israele (v.3). Il Logos dunque sollecita Israele a lavarsi alla vasca di Siloe. “Lavarsi” è il termine chiave che si ripeterà altre quattro volte (vv.7b.11b.15), mentre la vasca di Siloe, posta all'incrocio tra le valli della Geenna e quella del Cedron, è il contenitore di questa acqua viva che, convogliata attraverso un canale a vaga forma di S, lungo 533 mt, fatto costruire dal re Ezechia (716-687 a.C.) per rifornire di acqua Gerusalemme, scaturiva dalla sorgente Ghicon15, nel cui nome riecheggia quello di uno dei quattro mitici fiumi che irrigavano l'Eden (2,13), in cui l'uomo, ancora incandescente di Dio, visse la sua prima innocenza, permeata e illuminata della stessa vita divina. Questa vasca ha un nome “Siloe”, che significa letteralmente vasca “del canale” in ebraicoha-la” (Ne 3,15b), termine che è connesso con la radice l che significa “inviare” e letteralmente, con riferimento al canale conduttore, l' “inviante”, ma che Giovanni legge nella sua forma passiva “lah”, l' “inviato”16. Questa deformazione operata dall'autore è intenzionale e indirizza il lettore all'Inviato che deve compiere “le opere di colui che mi ha mandato” (v.4a). La lettura che Giovanni dà della piscina rimanda dunque alla persona di Gesù, che per 44 volte viene definito come l'inviato o il mandato dal Padre, indicando con questa espressione verbale la missione che Gesù è venuto a compiere e che in lui si attua in nome e per conto del Padre, così che Gesù diviene il luogo storico dell'agire salvifico del Padre. Il Gesù giovanneo, sulle cui labbra risuona la voce della stessa comunità (v.4a), sospinge pertanto il cieco-Israele a lavarsi nella vasca di Siloe-Gesù, da cui sgorgano fiumi di acqua viva (7,38). Il termine “vasca”, che è la meta che il cieco deve raggiungere per ottenere la pienezza della luce, è preceduta dalla particella “e„j” (eis, verso), che indica un moto verso luogo e che in Giovanni segue spesso il verbo “credere”17, concependo in tal modo il credere in Gesù come un cammino esistenziale. Ed è proprio la particella “eis” che qui indica lo spazio che intercorre tra il cieco e la pienezza della sua illuminazione; una particella che dice il cammino che il cieco deve percorrere e che sarà narrato dal resto del racconto, irto di interrogativi e di difficoltà in cui il cieco deve muoversi e dare la sua testimonianza; un cammino in cui scoprirà gradualmente l'identità del suo guaritore e salvatore, che soltanto alla fine di questo difficile percorso egli incontrerà di persona … e sarà luce piena.

Il terzo tempo (v.7b) è molto dinamico ed è costituito dalla sola presenza di quattro verbi, che si susseguono con ritmo incalzante: “Se ne andò, dunque, e si lavò e ritornò che ci vedeva”. Esso è l'esplicitazione della particella “eis”. La prima parte riprende il comando dato al v.7a (“Va a lavarti”); la seconda parte ne presenta gli effetti. Come dire che il seguire la Parola donata (3,16) porta alla luce della vita (8,12). È significativo il modo con cui Giovanni presenta gli effetti che la parola ha avuto sul cieco: “Ãlqen blšpwn” (êltzen blépon), “se ne ritornò vedente” in cui il vedere è espresso con un participio presente che indica la natura stessa del cieco definito come “vedente”, indicando con ciò il suo nuovo stato di vita. Certo, si tratta di un vedere ancora imperfetto, che esprime una fede incipiente e immatura. Il verbo usato infatti è “blépo18 che parla di un vedere fisico, che ancora non è andato al di là delle apparenze, per la quale cosa serve ancora un cammino di maturazione (“eis”), che verrà raccontato dalla restante narrazione.

Tutta la simbologia fin qui analizzata, lo spalmare/unzione (v.6), la vasca, l'acqua sorgiva, il lavarsi (v.7) o immergersi in quest'acqua, richiama da vicino il battesimo, che nella chiesa primitiva veniva somministrato in acqua preferibilmente viva, cioè corrente e per immersione, unitamente a due unzioni. Un battesimo che veniva anche definito come illuminazione e che si raggiungeva dopo un percorso catecumenale della durata di due/tre anni e di non facile accesso e che impegnava il candidato in un radicale cambiamento di vita e di modo di vivere19. L'intero racconto del cap.9 parla dunque del processo di conversione del giudaismo disponibile e accogliente e delle difficoltà da questo incontrato nell'ambito familiare e sociale.


2° Quadro: prima indagine sull'uomo Gesù da parte della gente (vv.8-12)


Testo

8- I vicini, dunque, e quelli che prima lo avevano visto che era un mendicante, dicevano: <<Costui non è quello che stava seduto e mendicava?>>.
9- Altri dicevano che è costui, altri dicevano: <<No, ma è (uno) simile a lui>>. Quello diceva che sono io.
10- Gli dicevano dunque: <<Come, dunque, furono aperti i tuoi occhi?>>.
11- Rispose quello: <<L'uomo, chiamato Gesù, fece del fango e spalmò i miei occhi e mi disse “va a Siloe e lavati”; pertanto, andato e lavatomi, riacquistai la vista>>.
12- E gli dissero: <<Dov'è quello?>>. Dice: <<Non so>>.

Note generali

Dopo l'avvenuta guarigione (vv.6-7), ha ora inizio l'indagine sull'accaduto, che investe quattro tipologie di persone: a) la gente comune, che girava attorno al cieco ed erano in qualche modo a conoscenza della sua condizione di cecità; b) i farisei; c) i genitori del cieco nato; d) lo stesso cieco nato. L'indagine ha come oggetto tre elementi: a) l'accertamento dell'identità del cieco nato; b) la dinamica dei fatti; c) l'identità di Gesù. All'interno di questo quadro emerge gradualmente l'identità di Gesù e la coscienza sempre più illuminata del cieco risanato, che ha la sua contropartita in quella sempre più obnubilata delle autorità religiose, così che alla fine i due si trovano su fronti diametralmente opposti: il cieco vede (vv.35-38); i farisei, che invece pretendo di vedere, si riscoprono ciechi (vv.39-41).

Si tratta di un percorso di fede ad ostacoli, in cui il cieco risanato è chiamato a dare con insistenza e persistenza la sua testimonianza nelle varie situazione che si vengono a creare attorno a lui; una testimonianza che si vedrà sempre più precisa e sempre più spiritualmente evoluta fino alla professione di fede, preceduta dall'abbandono della sinagoga. Soltanto al di fuori di questa, infatti, il cieco risanato riuscirà ad incontrare Gesù e a dare la sua definitiva adesione a lui, lasciando nella sua cecità il giudaismo istituzionale. Ci troviamo di fronte ad un percorso di fede che richiama da vicino quello catecumenale in uso presso la chiesa primitiva, in cui il candidato era tenuto ad approfondire la sua conoscenza su Gesù e a darne testimonianza. È proprio questa sua scelta che gli creerà dei problemi tra amici, conoscenti, familiari e autorità religiose, venendo non di rado espulso dalla sinagoga, che comportava per un giudeo una sorta di morte civile.

In questo secondo quadro narrativo gli attori principali sono il cieco risanato, oggetto del dibattito da cui traspare come in filigrana la figura di Gesù, e la gente comune che l'attorniava, che qui viene delineata da tre categorie di persone che si muovevano attorno al cieco: i vicini, forse amici e conoscenti del cieco; gli abituali frequentatori del tempio che lo avevano sempre visto a chiedere l'elemosina; e infine gli altri in senso generale. Questa progressiva enumerazione di persone, che vanno dal meno al più, ha l'intento di abbracciare l'intero giudaismo del popolo, quello non istituzionale del tempio.

Si tratta di una prima indagine che muove dall'accertamento dell'identità del cieco risanato (v.9b) e si incentra sulle modalità della sua guarigione (v.10), da cui scaturisce la prima, ma ancora incerta testimonianza del cieco guarito (vv.11-12).

Da questi brevi accenni già si intuisce la struttura della pericope, scandita in tre parti:

  1. vv.8-9: presentazione degli interlocutori;

  2. v.10: la domanda attorno a cui ruota l'intera pericope;

  3. vv.11-12: la testimonianza del cieco risanato.

Commento al Secondo Quadro (vv.8-12)

I vv.8-9 nel presentare gli attori principali di questa prima inchiesta, il giudaismo non istituzionale e il cieco, pongono sotto indagine l'identità del cieco guarito, che viene definito significativamente come colui che stava seduto e mendicava. In greco i due verbi sono resi con due participi presenti (Ð kaq»menoj kaˆ prosaitîn, o katzémenos kaì prosaitôn), che per loro natura indicano il debilitato e degradato stato esistenziale del cieco. L'essere seduto parla di una condizione di vita che rendeva incapace l'uomo di una qualsiasi autonomia, ponendolo ai margini della vita sociale e religiosa. Ad accentuare questo stato di cose viene sottolineato come la sua vita miserevole dipendesse soltanto dalla generosità del passante. Ma è proprio il suo stato di cecità che lo isola e lo immobilizza completamente, impedendogli un qualsiasi normale rapporto sociale. In buona sostanza viene qui descritto lo stato spirituale di un Israele, reso cieco da una religiosità fondata sulla lettera della Legge e che lo rendeva incapace di una qualsiasi evoluzione spirituale verso Dio, riducendo il suo rapporto ad una mera esecuzione fisica della Torah orale. Israele, dunque, era spiritualmente in panne. Su questo stato di cose si accende il dibattito all'interno del giudaismo non istituzionale sotto forma di indagine. Attori di questa indagine, infatti, sono “coloro che prima lo avevano visto”. Il verbo greco qui usato è “qewršw” (tzeoréo), che significa guardare, scorgere, esaminare, osservare, investigare; un verbo che dà il tono all'intero racconto e ne coinvolge tutti gli attori, che nel loro continuo interrogare (ben 16 sono gli interrogativi disseminati lungo la narrazione) fanno emergere un po' alla volta nel cieco guarito la sua vera identità di discepolo di Gesù (v.28), stimolando la sua evoluzione spirituale verso Gesù, riconosciuto, proclamato e adorato alla fine come “Signore” (v.38).

Ci si trova di fronte ad un'indagine posta ancora all'interno di un quadro confuso e incerto reso molto bene dal v.9, da un susseguirsi di pareri discordi e convulsi: “Altri dicevano che è costui, altri dicevano: <<No, ma è (uno) simile a lui>>. Quello diceva che sono io”. Tutti i verbi dicendi sono posti all'imperfetto indicativo per indicare la continuità di questo interrogarsi, di questo indagare, che solo il cieco risanato è in grado, almeno in parte, di dipanare.

Il v.10 pone la questione fondamentale: “Gli dicevano dunque: <<Come, dunque, furono aperti i tuoi occhi?>>”. Si tratta ancora di un'indagine superficiale perché si chiede soltanto come sia avvenuta la sua guarigione. Ma qui Giovanni pone di fatto un principio sistematico di interpretazione dei segni: di fronte ad un evento straordinario e portentoso è necessario interrogarsi, indagare sul suo compiersi, ma senza fermarsi alle apparenze, ma, interrogandosi su queste, trascenderle per giungere a ciò che esse esprimono. Serve dunque una seconda lettura più profonda perché i miracoli per l'autore, ancor prima di essere espressione dell'irrompere della potenza divina in mezzo agli uomini, sono dei segni, che rimandano a ciò che essi significano nelle loro apparenze. Proprio per questo il cieco dettaglierà, con una sintesi narrativa straordinaria, quanto gli è successo, perché, riflettendo e indagando (tzeoréo, v.8) sul segno si giunga a scoprire quella luce che lo ha illuminato (v.11).

I vv.11-12 riportano da un lato la testimonianza del cieco guarito, che descrive dettagliatamente quanto gli è successo, ma senza andare oltre (v.11); dall'altro compare la prima domanda di senso: “Dov'è quello?” (v.12), che spingerà oltre la ricerca e l'indagine su Gesù, portando il caso alle autorità religiose (v.13).

La prima risposta che il cieco dà ai suoi interlocutori è un'indicazione generica: “L'uomo, chiamato Gesù”. Significativo qui l'uso del termine “¥nqrwpoj” (ántzropos) che indica un uomo in senso generico, non ben definito, denunciando in tal modo una conoscenza ancora imperfetta del suo guaritore. Egli certo ne conosce il nome, ma soltanto per sentito dire (“chiamato Gesù”); sa che attraverso una sua ritualità tutta particolare e dei comandi da lui impartiti e di cui non conosce il senso, gli ha acceso la luce negli occhi e nel cuore; ma gli manca ancora l'esperienza diretta, quella visiva, che, sola, gli può fornire una conoscenza piena, portando a compimento il suo cammino di illuminazione. Ma prima di giungere a questo egli deve attraversare ancora molti interrogativi e superare molti ostacoli; deve dare ancora altre testimonianze, difendere e annunciare lui stesso il suo salvatore, e, cacciato dalla sinagoga, giungere fino ad una scelta obbligata, quella dell'abbandono della sua vita precedente. Soltanto a questo punto egli lo incontrerà e proclamerà il suo “Credo”, riconoscendone la divinità.

Ma quanto il cieco risanato ha attestato ai suoi interlocutori (v.11) è ancora del tutto insufficiente per definire chi veramente sia questo Gesù. Si rende, quindi, necessario trovarlo, sapere dove si trova: “E gli dissero: <<Dov'è quello?>>. Dice: <<Non so>>”. “Dove” (Poà, Pû), un avverbio interrogativo di luogo che in Giovanni compare 18 volte e, quando è riferito a Gesù, ha sempre a che vedere con la ricerca della sua origine. È la stessa domanda che compare in 7,11 dove il giudaismo del tempio, quello istituzionale, forse inizialmente ben disposto nei confronti di Gesù (7,31a), si interroga su Gesù; anche qui si fa un gran chiacchierare su di lui, che crea divisioni e discordie (7,12), ma senza giungere a delle risposte; anche qui non si parla liberamente per la paura dei Giudei (7,13), timori che, invece, prenderanno corpo ora nel racconto del cieco nato (v.22). Si viene quindi a creare un parallelismo tra l'episodio di 7,11-13 e il nostro racconto (vv.8-12). Là come qua ci si interroga sul “dove è quello” in cui il nome di Gesù è sostituito da un pronome, che indica come la conoscenza di Gesù sia ancora superficiale e abbia quindi bisogno di una maggiore investigazione prima di giungere al nome, che nella cultura degli antichi indica l'essenza stessa della persona, l'intimo nucleo della suo essere e del suo mistero. L'esito di questa ricerca, infatti, risulta inefficace: “OÙk oŒda” (Uk oîda, non so), letteralmente “Non ho visto” e quindi non so20. È dunque l'assenza del vedere, la sua connaturata cecità che gli ha impedito di cogliere “Dove” si trova, dove dimora il suo salvatore. Certo il cieco risanato ha incontrato Gesù, che lo ha guarito, ma questa esperienza di Gesù egli l'ha fatta quando ancora era cieco, quando ancora doveva arrivare alla vasca di Siloe e lavarsi con l'acqua viva. Fu dunque un incontro salvifico si, ma che richiedeva tutto un cammino per giungere pienamente a vedere il suo salvatore. Per questo egli ancora “Non sa”.

È dunque giocoforza che la ricerca continui, ora presso le autorità religiose, quelle che dovrebbero essere la luce che illumina Israele.

3° Quadro: l'indagine contrastata su Gesù: è un peccatore; no, è un Profeta (vv.13-17)

Testo

13- Lo conducono dai Farisei, il cieco di una volta.
14- Ora, era sabato il giorno in cui Gesù fece il fango e aprì i suoi occhi.
15- Di nuovo, dunque, anche i Farisei lo interrogarono come avesse riacquistato la vista. Egli disse loro: <<Pose del fango sui miei occhi e mi lavai e ci vedo>>.
16- Dicevano dunque alcuni dei Farisei: <<Questo uomo non è da Dio, poiché non osserva il sabato>>. Altri invece dicevano: <<Come può un uomo peccatore fare tali segni?>>. E vi era disaccordo tra loro.
17- Pertanto, dicono di nuovo al cieco: <<Che cosa dici di lui, poiché aprì i tuoi occhi?>>. Egli disse che è un profeta.


Note generali

Prosegue l'indagine su Gesù, che qui assume i contorni di un processo, che ha in questo 3° Quadro il suo inizio e, attraversando i restanti quadri narrativi (vv.18-23.24-34), si concluderà, da un lato, con la sentenza che dichiarerà Gesù un peccatore (vv.16a.24b), poiché ha violato il sabato; e, dall'altro, con l'espulsione del cieco risanato (v.34b) dalla sinagoga, in quanto riconosciuto discepolo di Gesù (v.28), del quale aveva preso le difese (vv.30-33), dichiarandolo Profeta (v.17b).

La struttura di questa pericope è tripartita:

  1. vv.13-14: premessa introduttiva dalla quale si viene a sapere che i Giudei conducono il cieco risanato davanti ai Farisei e che l'operazione terapeutica di Gesù è avvenuta di sabato, giorno in cui era fatto divieto sia di “spalmare” sia di guarire, se non vi fosse pericolo di vita.

  2. vv.15-16: interrogatorio del cieco guarito da cui emerge la violazione sabbatica di Gesù e la conseguente dichiarazione che Gesù è un peccatore.

  1. v.17: il cieco risanato dà la sua testimonianza: Gesù è un profeta.

Commento al Terzo Quadro (vv.13-17)

I vv.13-14 formano la cornice entro cui verrà collocato il processo contro Gesù e il cieco nato e che occuperà i quadri narrativi 3-5.

Il v.13 si apre con il verbo “”Agousin” (Águsin), che compare 13 volte in Giovanni e spesso ha a che fare con contesti di tipo persecutorio che si richiamano all'arresto, al processo o al giudizio in genere21. Il cieco, dunque, viene condotto presso i Farisei per essere sottoposto alla loro valutazione. Chi siano coloro che lo conducono dai farisei non viene detto, ma è da supporre che siano gli stessi personaggi indicati ai vv.8-9: i vicini o gli abituali frequentatori del tempio o altri ancora che si erano espressi sul caso del cieco. Perché il cieco sia portato dai Farisei non ci è dato di sapere, ma verosimilmente si può pensare ad una duplice motivazione: sulla falsariga di Lv 13,9 e 14,2-4, che prevedono in caso di lebbra che il colpito sia condotto dal sacerdote e così similmente in caso di sua guarigione, poiché la lebbra ancor prima di essere considerata una malattia era una questione di purità rituale. È l'autorità religiosa, dunque, che deve constatare e deliberare nel merito. Certo, il caso di cecità non è lo stesso di quello della lebbra, e non vi è nessuna prescrizione nella fattispecie, se non che essa può essere inflitta da Dio per punizione22. Da questo esempio, tuttavia, si può evincere che l'autorità religiosa fosse quella preposta a indagare su casi di guarigione e su fenomeni strani, anche per la stretta correlazione che si poneva tra la malattia e la religione e comportamenti religiosi23. I Farisei, in quanto profondi conoscitori della Legge, erano certamente in grado di esprimere un loro parere nel merito. Del resto il motivo per cui Levitico fa obbligo di sottoporre i casi di lebbra ai sacerdoti è proprio perché questi, all'epoca unici conoscitori della Legge, erano in grado di esprimere un giudizio in conformità a quanto essa dettava. Il secondo motivo verosimile risiede nel fatto che il giorno in cui Gesù guarì il cieco era di sabato (v.14). In questo caso si era verificata una sua violazione e pertanto il cieco guarito viene condotto dai Farisei perché attesti l'infrazione e per accertare se egli ne fosse in qualche modo coinvolto.

Significativa l'annotazione con cui termina il v.13: “il cieco di una volta” (tÒn pote tuflÒn, tón pote tiflón), per sottolineare, da un lato, l'avvenuto cambiamento di stato di vita: da cieco a vedente; da incredulo a credente; dall'altro, per indicare che qui sotto processo ci sta andando quello che era un tempo cieco, cioè un giudeo poi convertitosi al cristianesimo. Infatti la presa di posizione di questo cieco di una volta a favore di Gesù, che emergerà sempre più evidente man mano che il racconto procede, e la sua espulsione finale dalla sinagoga stanno ad indicare la rottura di questo ex cieco con il giudaismo.

Con il v.14, similmente a 5,9 riguardante la guarigione dell'uomo infermo da trentotto anni (5,1-9), veniamo a sapere soltanto ora che quel giorno era di sabato. Un'annotazione rilevante per l'intero racconto, perché il sabato è il parametro mosaico su cui verrà valutato il comportamento di Gesù e quello del cieco. Il v.14 infatti accosta l'annotazione del sabato con il comportamento di Gesù: “il giorno in cui Gesù fece il fango e aprì i suoi occhi”. Due sono qui gli elementi sottoposti a giudizio: “fece del fango” e “aprì i suoi occhi”. L'espressione “fare del fango” denuncia una prima violazione sabbatica, rientrante in una delle 39 attività proibite di sabato24, quella dell'Impastare; una seconda violazione è quella dello spalmare il fango sugli occhi, che va sotto la voce “Lisciare”, che proibisce, come lavoro derivato, di spalmare una crema su qualsiasi superficie. E in questa attività proibita viene coinvolto anche il cieco che va alla vasca per lavarsi via il fango dagli occhi, anche questa espressamente prevista e vietata tra le attività derivate del “Lisciare”. Da queste attività poste in violazione al sabato ne esce, a carico di Gesù, anche una terza: quella del guarire. Il curare una malattia in giorno di sabato era consentito solo in caso di pericolo di vita, nella cui fattispecie non era di certo contemplato il caso di cecità congenita. Queste eccezioni rientravano nella 'eruv (mescolanza), che consisteva in un insieme di norme casistiche in cui si poteva violare la sacralità del sabato25.

Questo dunque il contesto entro cui va letto il dibattimento processuale, che vede i Farisei nelle vesti del giudice per le indagini preliminari e il cieco guarito, in quelle momentaneamente di persona informata sui fatti e poi in quella di imputato. Su questo sfondo processuale emerge un po' alla volta l'identità di Gesù, che si concluderà con l'espulsione del cieco dalla sinagoga, presupposto indispensabile per poter incontrare Gesù e riconoscerlo nella sua divinità.

I vv.15-16 introducono i primi elementi del dibattimento: al v.15 vi è l'interrogatorio, che si apre con “Di nuovo anche” (p£lin oân, pálin ûn), che, riagganciandosi ai vv.10-12, prosegue in quel “anche” nell'indagine. La risposta del cieco data ai Farisei, rispetto all'azione di Gesù, che occupa i vv.6-7, e alla prima risposta molto dettagliata fornita alla gente (v.11), qui, invece, viene riportata nei suoi elementi essenziali: “Pose del fango sui miei occhi e mi lavai e ci vedo”, ma che forniranno, per i motivi sopra illustrati, anche i capi d'accusa, inizialmente solo contro Gesù, poi anche contro il “cieco di una volta”.

Il v.16 riporta il dibattito sul segno e delinea due posizioni in netto contrasto tra loro. La prima è un'attestazione netta: “Questo uomo non è da Dio, poiché non osserva il sabato”. Essa sembra riagganciarsi a Dt 13,2-6 secondo cui anche un profeta operatore di prodigi non va creduto qualora si ponga in contrasto con la Legge: “Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dei stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; [...]. Seguirete il Signore vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, obbedirete alla sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto l'apostasia dal Signore, dal vostro Dio, che vi ha fatti uscire dal paese di Egitto e vi ha riscattati dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il Signore tuo Dio ti ha ordinato di camminare”.

La seconda posizione pone, invece, in discussione la precedente certezza: “Come può un uomo peccatore fare tali segni?”. Il significato di quel “peccatore” non va inteso in senso morale, nei termini di bene o di male, ma per l'ebreo era tale colui che si poneva con il suo modo di fare contro e fuori dalla Legge. Il peccato infatti era solo una questione di legalità, così come la giustizia indicava la fedeltà alla Legge. La contestazione della seconda posizione ha il suo parallelo in Nicodemo che riconosce in Gesù un inviato da Dio per i segni che egli compie: “Rabbi, sappiamo che sei venuto da Dio (come) maestro; infatti, nessuno può fare questi segni, che tu fai, se Dio non fosse con lui” (3,2). Tuttavia questa posizione non è sempre confortata da riscontri biblici univoci. I maghi del faraone infatti erano in grado di ripetere gli stessi prodigi di Mosè (Es 7,11.22; 8,3;.14), ponendosi in concorrenza con Dio; e così similmente Mt 24,24 annuncia che “Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti”; e la stessa Apocalisse avverte delle portentose capacità dei nemici di Dio per trarre in inganno gli uomini (Ap 13,13.14; 16,14 ). Ma qui l'autore sembra soltanto interessato ad introdurre il tema che verrà ripreso e approfondito ai vv.30-33 e che costituirà una sorta di lectio magistralis che il cieco risanato impartirà con autorevolezza ai Farisei.

Il v.16 si conclude rilevando che “vi era disaccordo tra loro”. Non è nuova la constatazione, che già era risuonata direttamente o indirettamente nel cap.7 (7,12.43.45-53). La figura di Gesù sia per il suo messaggio che per il suo modo di operare era spesso oggetto di critiche o di apprezzamenti, creando divisioni all'interno del giudaismo, realizzando così la profezia del vecchio Simeone: “Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: <<Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima>>” (Lc 2,34-35). Un segno dunque di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori; come dire che la presenza di Gesù provoca una reazione discriminante tra la gente, che prende contrapposte posizioni nei suoi confronti, attuandosi in tal modo il giudizio escatologico, che consiste per l'appunto nell'accogliere o respingere l'invito di Dio, che si configura come il Logos Incarnato (1,14a), cioè come l'ultimo discorso che Dio rivolge all'uomo e che di conseguenza, in quanto ultimo, porta con sé il giudizio.

v.17: L'aperto dissenso all'interno dei Farisei riporta l'attenzione sul cieco risanato e con l'espressione “di nuovo” riprende il suo interrogatorio: “Pertanto, dicono di nuovo al cieco: <<Che cosa dici di lui, poiché aprì i tuoi occhi?>>. Egli disse che è un profeta”. Se fino a questo momento il cieco era stato un involontario testimone di un evento che lo ha piacevolmente investito, ora egli è chiamato direttamente a dare la sua testimonianza pubblica di fronte alle autorità religiose. Qui non si tratta più di dire cosa gli è successo, ma che cosa egli pensa di Gesù e dalla sua risposta dipende il suo livello di coinvolgimento personale e di adesione a questo controverso ed equivoco personaggio, che non si sa neanche da dove venga (v.29); una risposta che lo può compromettere anche gravemente. Da questo momento in poi tutta l'attenzione si rivolgerà al cieco, che è chiamato in prima persona a dare la sua testimonianza. Risuona qui, come in seguito, lo stato di persecuzione a cui erano sottoposti i giudei che aderivano al messaggio di Gesù e se ne facevano discepoli. E il cieco risanato dà la sua testimonianza: “Egli disse che è un profeta”. È sostanzialmente la stessa risposta che la Samaritana stupita dà a Gesù, quando questi le svela i segreti della sua vita privata (4,17-18): “Gli dice la donna: <<Signore, vedo che tu sei un profeta>>” (4,19) L'uso dell'articolo indeterminativo davanti al sostantivo “profeta“, sia nella Samaritana che qui, lascia pensare che il cieco non si riferisse al Profeta messianico che Dio aveva promesso al suo popolo dopo Mosè (Dt 18,15), ma esso indichi soltanto un personaggio di rilievo, che con autorità e autorevolezza si pone in mezzo alla gente e la cui parola viene provata e rafforzata da segni e prodigi. Diversi, invece, sono i casi riportati ai vv. 6,14 e 7,40 dove la gente, visto il segno dei pani operato da Gesù e udite le sue parole, lo riconosce come “il Profeta”, qui con chiaro riferimento a Dt 18,15.

4° Quadro: lo stato di persecuzione spinge i familiari del cieco a prendere le distanze (vv.18-23)

Testo

18- I Giudei non credettero dunque su di lui, che era cieco e riacquistò la vista, finché chiamarono i suoi genitori, di costui, di quello che riacquistò la vista
19- e li interrogarono dicendo: <<Costui è il vostro figlio, che voi dite che è nato cieco? Come dunque ora vede?>>.
20- Risposero dunque i suoi genitori e dissero: <<
Sappiamo che costui è il nostro figlio e che è nato cieco;
21- ma come ora ci veda non (lo)
sappiamo, o chi aprì i suoi occhi non (lo) sappiamo; interrogatelo, ha l'età, egli parlerà di se stesso>>.
22- Queste cose dissero i suoi genitori perché temevano i Giudei; infatti i Giudei già si accordarono che se qualcuno lo avesse confessato Cristo, fosse escluso dalla sinagoga.

23- Per questo i suoi genitori dissero che “ha l'età, interrogate lui”.


Note generali


Questo 4° Quadro narrativo racconta il contesto di intimidazione sociale e religiosa a cui erano soggetti quei giudei che aderivano al nuovo annuncio. Lo fa prendendo a riferimento due categorie rappresentative di persone: le autorità religiose, che, da un lato, sottoponevano a interrogatori i nuovi credenti e i loro familiari; dall'altro, minacciando di espulsione dalla sinagoga coloro che avessero aderito alla nuova fede; la seconda categoria sono i familiari nel senso lato di parentela, cerchia di amici e conoscenti, qui simbolicamente rappresentati dai genitori, che di fronte ad uno di loro che si era convertito ne prendevano le distanze, lasciandolo spesso in uno stato di isolamento sociale ed affettivo, creando al loro interno stati di conflittualità. Una situazione che viene narrata anche da Matteo: “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. […] Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato. Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un'altra; […] Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10,17-18.21-23.32-36); e similmente Luca: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12,51-53). Nelle due citazioni qui sopra riportate è significativo come sia proprio Matteo, un ebreo, probabilmente uno scriba26, che sta scrivendo alle sue comunità formate da giudeocristiani, che si dilunga sullo stato di persecuzione a cui sono sottoposti i giudei convertiti.

La struttura della pericope è molto semplice. Si tratta di sei versetti raggruppati due a due:

  1. vv.18-19: i Giudei, dubitando della cecità congenita del cieco, ne interpellano i genitori;

  2. vv.20-21: i genitori nel confermare la sua cecità dalla nascita, ne prendono le distanze;

  3. vv.22-23: l'autore, con voce da fuori campo, spiega il motivo della presa di posizione neutrale dei genitori

Non vi sono qui grandi teologie, ma soltanto la presentazione della difficile situazione in cui erano posti i giudeocristiani e le loro famiglie.

Commento al 4° Quadro (vv. 18-23)

vv.18-19: compare qui inaspettatamente il nome Giudei che va a sostituire quello di Farisei (v.13), dando in tal modo a quest'ultimo una tonalità negativa. L'espressione “Giudei” infatti in Giovanni assume sempre una valenza negativa e polemica ed è sinonimo di incredulità pervicace e invincibile27. Si ha quindi una sostanziale equivalenza tra i due termini. Con questi due versetti prosegue l'indagine sul cieco nato e appare chiara la tendenza a negarne la guarigione, per questo convocano i genitori per ricevere la loro testimonianza sul caso. La domanda tuttavia che le autorità religiose pongono ai due genitori è triplice: se quello fosse veramente il loro figlio; se fosse veramente cieco dalla nascita e come mai ora ci vede.

I vv.20-21 riportano in modo articolato la triplice risposta dei due genitori. Ogni risposta è significativamente preceduta da un “sappiamo” (v.20) e da due “non sappiamo” (v.21). Ciò che i genitori sanno è che quello lì è il loro figlio ed è nato cieco. Il sapere dunque dei genitori si ferma alle apparenze storiche, quelle in cui essi sono stati e sono coinvolti. La loro testimonianza dunque si ferma a ciò che è umanamente raggiungibile e innegabile; ma prendono le distanze e sconfessano il loro coinvolgimento su quanto è avvenuto nel loro figlio, negando di conoscere colui che lo ha prodotto: essi “non sanno”. Sembra di trovarci di fronte al rinnegamento di Pietro che di fronte al pericolo personale di essere coinvolto direttamente nel processo del suo Maestro, finge di non conoscerlo o di non sapere quello che si stava dicendo di lui. Giovanni sembra con questo episodio voler stigmatizzare il comportamento reticente di alcuni membri della sua comunità, che di fronte al pericolo di essere denunciati e duramente sanzionati, preferiscono rifugiarsi dietro al “non sanno”, negandosi a quella testimonianza a cui erano stati chiamati.

I vv.22-23 riportano la motivazione del comportamento reticente dei due Genitori: “perché temevano i Giudei; infatti i Giudei già si accordarono che se qualcuno lo avesse confessato Cristo, fosse escluso dalla sinagoga”. Il timore dei Giudei provato da parte di chi si era fatto discepolo di Gesù ci è più volte testimoniato da Giovanni nel suo vangelo (7,13; 9,22; 12,42; 19,38; 20,19). L'attestazione giovannea ci riporta storicamente intorno agli anni 80 allorché il cristianesimo, inizialmente percepito come un movimento all'interno del giudaismo, acquista una sua identità sempre più spiccata, contrapponendosi non solo al giudaismo istituzionale, ma anche facendo numerosi proseliti, ponendosi quindi in concorrenza con questo. È di questi anni infatti la dodicesima “benedizione”, eufemismo che sta per “maledizione”, contro i nazareni che recitava: “Non ci sia speranza per gli apostati; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nazareni e gli eretici: siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano scritti. Benedetto sei tu Jhwh, che pieghi i superbi28. L'esclusione dalla sinagoga equivaleva ad una scomunica dal giudaismo, un porre al di fuori dell'Alleanza e dalla Torah l'escluso. Ora, se si pensa alla notevole incidenza che la religione aveva nel mondo ebraico sulla vita dell'individuo e della società, si può ben capire come l'esclusione dalla sinagoga equivalesse ad una sorta di morte civile. Si comprende quindi la reticenza dei genitori e le titubanze di molti giudeocristiani della stessa comunità giovannea, a cui questo passaggio è probabilmente dedicato.

5° Quadro: la lectio magistralis del cieco risanato, un esempio di apologetica cristiana (vv.24-34)

Testo

24- Chiamarono dunque per la seconda volta l'uomo che era cieco e gli dissero: <<Dà gloria a Dio; noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore>>.
25- Rispose dunque quello: <<Se è peccatore non (lo) so; una cosa so che essendo cieco, ora ci vedo>>.
26- Gli dissero dunque: <<Che cosa ti ha fatto? Come aprì i tuoi occhi?>>.
27- Rispose loro: <<Già ve (lo) dissi e non mi ascoltaste; perché volete ascoltar(lo) di nuovo? Forse volete anche voi diventare suoi discepoli?>>.
28- E lo ripresero e dissero: <<Tu sei discepolo di quello, noi invece siamo discepoli di Mosè;
29- noi
sappiamo che Dio parlò a Mosè, ma costui non sappiamo da dov'è>>.
30- Rispose l'uomo e disse loro: <<In questo, infatti, sta lo stupendo che voi non
sapete da dov'è e aprì i miei occhi.
31-
Sappiamo che Dio non ascolta dei peccatori, ma se uno è pio e fa la sua volontà, questo (lo) ascolta.
32- Da sempre non fu (mai) udito che qualcuno aprisse gli occhi di un cieco nato.
33- Se questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare niente>>.
34- Risposero e gli dissero: <<Tu sei nato tutto nei peccati e tu insegni a noi?>>. E lo cacciarono fuori.


Note generali

Il 4° Quadro (vv.18-23) terminava con il sollecito dei genitori del cieco nato a rivolgersi al loro figlio per sapere quanto gli è successo, rimandando così i Farisei alla fonte originaria. Certamente un comportamento reticente e pilatesco, diremmo noi oggi, per i motivi sopra analizzati, ma è quanto succede ora nel 5° Quadro che riprende sostanzialmente il precedente 3° Quadro (vv.13-17) e ne amplifica e approfondisce i contenuti, qui intessuti di fine ironia. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio dibattito ben strutturato, condotto con abilità dal cieco nato, in cui si sente la voce della comunità giovannea nel suo scontro con il giudaismo istituzionale. Da un punto di vista narrativo potremmo considerare questa pericope (vv.24-34) come una sorta di pensiero a spirale, che ha la sua radice al v.16 e il suo sviluppo nel seguente modo:

All'interno di questi continui richiami e rimpalli sono introdotte alcune novità di approfondimento:

La struttura della pericope è scandita in quattro parti; le prime tre fungono da premessa e sono caratterizzate dalla presenza di parole chiave che formano il tema di ogni parte; esse forniscono il materiale da loro elaborato alla quarta parte, che funge da sintesi finale, la vera e propria stoccata inferta al giudaismo istituzionale. Pertanto si avrà:

  1. vv.24-25: la parola chiave è “peccatore” su cui si accentra il giudizio dei Giudei e il contro giudizio del cieco; quindi sulla questione di Gesù peccatore, perché inosservante del sabato, vi è la battuta e la controbattuta, sullo stile proprio dell'apologetica, che qui punta a dare rilevanza ai fatti, poiché contra facta argumentum non valet.

  2. vv.26-28: qui la parola chiave è “discepoli”, che produce la diatriba sui contrapposti discepolati di Gesù e di Mosè, in cui Gesù e Mosè fungono da titoli qualificanti, le cui credenziali verranno precisate nella terza parte;

  3. vv.29-30: l'espressione chiave qui è “non sappiamo da dov'è” che si contrappone al “noi sappiamo” con cui si dibatte l'origine e l'identità dei due capi discepolati;

  4. vv.31-34: questa quarta parte contiene la lectio magistralis del cieco, che con una certa dialettica stringente, in cui si sente quella propria della prima apologetica cristiana, riepiloga e porta a conclusione le tre parti precedenti, che fungono in qualche modo da premessa. Questa ultima parte in buona sostanza contiene la risposta al 3° Quadro, in cui al giudizio di peccatore posto su Gesù viene fin da subito suggerita una diversa possibilità (v.16b), che questo 5° Quadro riprende ed elabora in modo sistematico.


Commento al 5° Quadro (vv.24-34)


Con i vv.24-25 viene ripreso il v.16. Il rimando al 3° Quadro (vv.13-17) viene dato sia in apertura del v.24 in cui si dice che i Giudei “Chiamarono dunque per la seconda volta”, sia dalla ripresa degli stessi termini (peccatore) che degli stessi concetti (non è da Dio). Il sollecito rivolto al cieco è di “dare gloria a Dio”, una sorta di formula di giuramento che veniva rivolta all'imputato o al teste prima della loro testimonianza perché dicessero la verità, onorando così Dio. Una simile formula di scongiuro venne rivolta a Gesù dal sommo sacerdote perché attestasse la verità sulla sua identità (Mt 26,63). E qui il cieco “darà gloria a Dio” non solo testimoniando la sua avvenuta guarigione, dalle tenebre della cecità alla luce che gli illumina la vita, ma anche prendendo una netta posizione a favore di Gesù. Una sorta di schema tipo di come doveva svolgersi la testimonianza dei nuovi credenti nei confronti dell'atteggiamento persecutorio del giudaismo istituzionale: con franchezza e decisione, senza timore delle conseguenze. Il cieco infatti sosterrà fino alla fine il confronto con le autorità giudaiche e ne uscirà vincitore anche se cacciato fuori dal giudaismo, poiché proprio in questo momento e solo allora egli troverà l'accoglienza di Gesù (v.35).

Ciò che il cieco doveva testimoniare per dar gloria a Dio era il “noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore”. Si tratta di un'attestazione di assoluta certezza, che trova il suo fondamento nel fatto che Gesù violò in molteplice modo il sabato, sia impastando del fango, sia spalmando questo fango sugli occhi del cieco e sia, infine, guarendo senza immediata necessità; per questo egli non poteva essere da Dio e per questo egli era un peccatore nel senso inteso dal giudaismo, cioè una persona che con il suo comportamento violava una qualche prescrizione della Torah, senza che in ciò vi sia una qualche implicazione morale di bene o di male. I parametri di valutazione dunque erano quelli mosaici del tutto incapaci a leggere la novità dell'evento Gesù. Quel “noi sappiamo” li qualifica infatti come appartenenti alla classe magisteriale, quella capace di comprendere le cose e di insegnarle perché in possesso del sapere divino della Torah. Un atteggiamento arrogante, caratteristico di un certo tipo di giudaismo, che lo stesso Paolo stigmatizza duramente nella sua lettera ai Romani: “Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità” (Rm 2,17-20). Ecco dunque il senso di quel “Noi sappiamo”, che qualificava anche il sapere di Nicodemo e di quella parte del giudaismo istituzionale, che di fronte alle opere di Gesù si sapeva interrogare sulla sua identità (9,16b), intuendo in esse la presenza di una potenza divina, aprendoli in tal modo alla sequela (3,2; 7,50;12,42; 19,38.39); mentre per un altro tipo di giudaismo, legato indissolubilmente alla lettera della Torah, che lo rendeva incapace di andare oltre, non vedeva in Gesù nient'altro che un trasgressore della Legge mosaica.

Alla dotta asserzione dei Farisei il cieco contrappone l'accadimento dell'evento salvifico inconfutabile. La comunità giovannea, nella voce del cieco, adotta qui il principio latino del “contra facta argumentum non valet”, rifiutando un confronto con il giudaismo istituzionale sul piano della diatriba sapiente, disquisente quanto inconcludente, opponendo ad essa l'evento salvifico. Al sapere mosaico che condanna Gesù come peccatore, viene contrapposto all'attenzione dei Farisei un altro sapere, quello che si radica in un evento salvifico: “Se è peccatore non (lo) so; una cosa so che essendo cieco, ora ci vedo”. Sugli eventi salvifici dunque viene aperto il dibattimento, cercandone una lettura e una comprensione, che avrebbero dovuto portare a riconsiderare il rapporto che il giudaismo tradizionale teneva con la Torah, così come già era avvenuto per una parte di esso, sull'esempio di Nicodemo, di Giuseppe d'Arimatea e di molti altri capi, che seguivano di nascosto Gesù per timore dei Giudei (3,2; 7,50;12,42; 19,38.39).

I vv.26-28 sembrerebbero puntare all'analisi dell'evento (v.26), per il quale il cieco, tout-court, rimanda (v.27a) invece al precedente 3° Quadro (vv.13-17). L'autore quindi vuole accentrare l'attenzione del suo lettore non sull'evento in sé, ormai ampiamente conosciuto, sia perché il lettore ha assistito al compiersi del segno (vv.6-7), sia perché lo ha sentito ripetere altre due volte dal cieco (vv.11.15b). Il dibattimento qui viene spostato dall'evento salvifico alle conseguenze di questo: il discepolato, introdotto con sfacciata e quasi offensiva ironia: “Forse volete anche voi diventare suoi discepoli?”. Il discepolato, frutto della sequela, nasce sempre da un evento salvifico che nel suo manifestarsi interpella l'uomo, spingendolo a prendere posizione nei suoi confronti. Ed è proprio qui, sul discepolato che si compie la frattura tra il giudaismo istituzionale e quello credente, sotteso dall'implicito confronto tra le figure di Gesù e di Mosè: “Tu sei discepolo di quello, noi invece siamo discepoli di Mosè”. Gesù è qui indicato dai Farisei con il pronome “quello”, che se da un lato indica il disprezzo e il rifiuto che essi hanno nei confronti di questo nuovo Rabbi, che gioca con regole tutte sue, spesso scontrandosi con la Tradizione e la Legge mosaica, dall'altro dice la loro non conoscenza che essi hanno della persona di Gesù, che per loro rimane uno sconosciuto. Il nome, infatti, per il mondo antico e quello ebraico, indica l'essenza e la sostanza della persona; pronunciare il nome di una persona significa entrare in qualche modo in intima relazione con questa. Ma qui l'autore intende contrapporre due discepolati definiti dai loro capostipiti. Il qualificarsi con Mosè significa identificarsi con una plurisecolare Tradizione, fare parte di un popolo eletto e consacrato a Jhwh (Es 19,5-6) a cui la salvezza apparteneva di diritto. Dt 7,6-8 insisteva su questo concetto: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto”. Vi è era dunque in tutto questo un motivo di orgoglio. I giudeocristiani, invece, hanno lasciato tutto questo per un anonimo Rabbi privo di pedigree e di cui significativamente viene taciuto il nome. Il confronto tra questi due discepolati risente dell'eco dei profondi contrasti tra il giudaismo e la nuova chiesa nascente, sorta all'interno del giudaismo stesso.

I vv.29-30 si giocano tutti attorno al verbo “sapere”, che ricorre tre volte in due versetti ed ha come oggetto di conoscenza l'identità di Mosè, qualificata dal suo intimo rapporto con Jhwh, che l'autore di Esodo così descrive: “Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33,11a). Mosè dunque aveva un rapporto non solo intimo con Dio, ma anche familiare. Questo è ciò che il giudaismo tradizionale sa. Ciò che invece non sa è “da dov'è costui”. Un'espressione che qui ricorre due volte ed accentra l'attenzione sull'origine di Gesù. L'avverbio “pÒqen” (pótzen) compare in Giovanni 12 volte e qualora riferito a Gesù allude sempre alla sua origine divina. Torna ancora qui il pronome “costui” per indicare Gesù, che va ad accentuare tutta l'estraneità e tutta l'ignoranza del giudaismo su Gesù, che semplicemente viene rifiutato come un corpo estraneo.

La risposta del cieco riprende il “non sapere” del giudaismo circa le vere origini di Gesù e con fine ironia si stupisce della loro ignoranza nel merito, ponendo in relazione questa con l'evento salvifico che si è manifestato in lui e in mezzo a loro: “aprì i miei occhi”. Com'è possibile dunque che non giungano a conoscere la vera identità di Gesù riflettendo sull'evento straordinario occorsogli? Sarà proprio su questo interrogativo che si giocherà tutta la pericope successiva (vv.31-34).

I vv.31-34 sviluppano quella riflessione sull'evento prodigioso che i Giudei addirittura negavano (v.18). Come si è detto ci troviamo di fronte ad una lectio magistralis strutturata in modo molto efficace, che si muove sulla falsariga di un sillogismo:

  1. v.31: enunciazione del principio: “Sappiamo che Dio non ascolta dei peccatori, ma se uno è pio e fa la sua volontà, questo (lo) ascolta”;

  2. v.32: evidenziazione dell'eccezionalità e portentosità dell'evento di portata storica: “Da sempre non fu (mai) udito che qualcuno aprisse gli occhi di un cieco nato”;

  3. v.33: la conclusione logica inoppugnabile: “Se questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare niente”

Il v.31 si apre con la voce del cieco nato, in cui risuona quella della comunità giovannea: “Sappiamo che Dio non ascolta dei peccatori, ma se uno è pio e fa la sua volontà, questo (lo) ascolta”. L'intonazione viene data da un verbo alla prima persona plurale “Sappiamo”, che fa il verso al “Noi sappiamo” dei Giudei (vv.24.29). Non si tratta tuttavia di un pluralis maiestaticus, ma della contrapposizione di due “saperi” che ritroviamo anche nella dialettica tra Nicodemo e Gesù (3,2.11). “O‡damen” (oídamen, sappiamo) un verbo significativo che ricorre nei vangeli 23 volte di cui 18 volte nel solo Giovanni. Esso è un verbo che è posto in relazione alle due parti che nel vangelo giovanneo spesso si fronteggiano e si contrappongono29: il giudaismo e la comunità giovannea, che sovente, quest'ultima, assume le diverse voci di Gesù (3,11; 4,22), dei suoi discepoli (16,30), dei samaritani (4,42), del cieco nato (9,31), dei suoi titubanti genitori (vv.9,20.21), di Tommaso (14,5), di Maria di Magdala (20,2) o del redattore finale (21,24). Un “sappiamo”, qualora pronunciato dalla comunità giovannea, che è quasi sempre correlato ad una manifestazione di fede o comunque inerente in qualche modo al Mistero della persona di Gesù o ad esso riconducibile.

L'assioma enunciato dal cieco al v.31 fa riferimento al comune modo di pensare del mondo biblico, che potremmo sintetizzare in Dio ascolta chi gli è fedele, ma respinge le suppliche degli empi o dei superbi30. Anche qui, quando si parla di peccatori, ci si riferisce più che all'aspetto morale di una persona, all'adeguamento del suo vivere alle disposizioni normative della Torah scritta, filtrata da quella orale, che nel linguaggio dei vangeli viene definita come la Tradizione dei Padri31 e che il Gesù sinottico aveva declassato a semplici precetti di uomini, destituendola di ogni valenza divina (Mt 15,9; Mc 7,7). Il termine peccatore pertanto dice il livello di infedeltà all'Alleanza, che si riflette e si esprime nella Legge. La contropartita al termine peccatore, infatti, è “qeoseb¾j” (tzeosebès, pio, devoto), che definisce presso il mondo ellenistico l'atteggiamento di religiosità e di devozione che caratterizza il credente e che si manifesta nel “fare la sua volontà”. Un'espressione quest'ultima che indica la conformità del proprio vivere alle disposizioni della Torah e in cui risuona in qualche modo il giuramento di fedeltà di Israele all'Alleanza, il patto che egli concluse con Jhwh: “Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: <<Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!>>. Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: <<Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!>> (Es 24,6-8). La contropartita a questo patto di sangue sono le maledizioni che incorre colui che lo viola: “Vedete, io pongo oggi davanti a voi una benedizione e una maledizione: la benedizione, se obbedite ai comandi del Signore vostro Dio, che oggi vi dò; la maledizione, se non obbedite ai comandi del Signore vostro Dio e se vi allontanate dalla via che oggi vi prescrivo, per seguire dei stranieri, che voi non avete conosciuti” (Dt 11,26-28). Si tratta pertanto di un principio universalmente attestato, conosciuto e inoppugnabile, che ha il suo radicamento ultimo nell'Alleanza e nella Torah.

Il v.32 attesta l'eccezionalità del segno portentoso: “Da sempre non fu (mai) udito che qualcuno aprisse gli occhi di un cieco nato”. Certo, a Tobi venne restituita la vista (Tb 11,11-13), ma non nacque cieco (Tb 2,9-10). Nessun racconto biblico attesta una simile guarigione e quel “™k toà a„înoj” (ek tû aiônos), che potremmo tradurre “da che fu il tempo” lo sta a testimoniare. Le origini di una simile eccezionalità, non riscontrabile nella storia dell'uomo, vanno dunque cercate fuori dalle sue capacità umane, che rimandano direttamente a Dio. Proprio per questo, conclude il cieco “Se questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare niente” (v.33). Il segno dunque rimanda a Dio e dietro quel segno va letto l'agire diretto di Dio che opera in Gesù, che senza l'intervento del Padre “non avrebbe potuto fare niente” (5,19.30a; 8,28;.54).

La logica stringente del cieco risanato mette i Giudei con le spalle al muro e anziché controbattere il sillogismo vanno a colpire la sua condizione di cecità, vista come una punizione divina per colpe commesse da lui o dai suoi stessi genitori, secondo la logica già considerata dei discepoli (v.2) e che richiama da vicino il lamento di Davide: “Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 50,7). Ancora una volta il giudaismo istituzionale preferisce seguire la strada della lettera, che li rendeva per questo ciechi (vv.40-41), cioè incapaci di andare oltre alla fisicità di ciò che era scritto e quindi di cogliere la novità che si parava davanti a loro. Per questo il cieco, che ha saputo dare una diversa lettura ad un evento che in se stesso spingeva a superare le logiche mosaiche sul sabato e con queste confliggeva, non poteva più rimanere nel giudaismo istituzionale: “kaˆ ™xšbalon aÙtÕn œxw” (kaì exébalon autòn éxo), “e lo cacciarono fuori”. Quel “kaì” lega la cacciata del cieco alla sua attestazione di divinità di Gesù. Si tratta qui della sua uscita dalla sinagoga e quindi dal giudaismo. Quel “œxw” (éxo, fuori), rafforzato dal verbo “™xšbalon” (exébalon, buttarono fuori) non dice un'uscita temporanea, ma definitiva. Il verbo qui all'aoristo indica un'azione puntuale nel tempo e per questo resa definitiva. Del resto l'intero racconto si svolge al di fuori del tempio e comunque non in luoghi chiusi, pertanto il suo essere buttato fuori non può avere che un significato: quello di essere escluso dalla sinagoga. A suggerire questo, oltre agli elementi fin qui considerati, vi è anche l'annotazione del v.22b il quale attesta che “i Giudei già si accordarono che se qualcuno lo avesse confessato Cristo, fosse escluso dalla sinagoga”. Ed è ciò che fece il cieco nella sua lectio magistralis proclamando Gesù “uscito da Dio” e quindi riconoscendo in lui l'agire stesso di Dio, senza il quale “non avrebbe potuto fare niente”.

6° Quadro: la professione di fede del cieco risanato (vv.35-38)

Testo

35- Gesù udì che lo cacciarono fuori e trovatolo disse: <<Tu credi nel Figlio dell'uomo?>>.
36- Rispose quello e disse: <<E chi è, Signore, affinché creda in lui?>>.
37- Gli disse Gesù: <<E lo hai visto ed è quello che parla con te>>.
38- Ora, quello dichiarò: <<Credo, Signore>>. E si prostrò davanti a lui.


Note generali

Quattro versetti molto densi posti al termine di un lungo e tribolato cammino di fede, costellato di ostacoli e posto in un ambiente ostile, che hanno messo a dura prova il cieco risanato, il cui cammino richiama da vicino quello catecumenale del candidato al battesimo, al termine del quale vi era la solenne professione di fede in Gesù in quanto Cristo e in quanto Figlio di Dio (v.20,31), entrambe riconoscibili qui dal “Credo, Signore” (v.38a), che va a confermare l'espressione messianica “Figlio dell'uomo” (v.35b); e dal prostrarsi adorante di fronte a Gesù, riconoscendone la divinità. Soltanto ora l'autore sostituisce il verbo “blšpw” (blépo), che indica un vedere ancora superficiale e impreciso, fin qui usato per indicare il vedere del cieco risanato, con il verbo “Ðr£w” (orao), che indica un vedere che va oltre le apparenze e sa cogliere il Mistero di Gesù, la sua vera identità messianica e divina. Soltanto ora infatti il cieco risanato incontrando nuovamente quello che per lui inizialmente era soltanto “l'uomo chiamato Gesù” (v.11) ora è in grado di riconoscerlo nella sua Verità di Messia e di Figlio di Dio.

La struttura di questo 6° Quadro è molto semplice e riproduce schematicamente il percorso catecumenale: la domanda del credere posta al candidato, la richiesta di approfondimento che richiama da vicino il cammino di ricerca e, infine, l'adesione di fede. Non è un caso, infatti, che questo racconto del cieco nato fosse letto nelle catechesi battesimali.

Pertanto i avrà:

  1. v.35: la domanda fondamentale del credere cristiano, che avrà la sua risposta nell'adesione di fede al v.38;

  2. vv.36-37: l'approfondimento della fede;

  3. v.38: l'adesione di fede.


Commento al 6° Quadro (vv.35-38)


Il v.35 è scandito in tre movimenti:

  1. Gesù viene a sapere che il cieco risanato è stato cacciato dalla sinagoga. Qui viene ripresa l'identica espressione di espulsione dalla sinagoga del v.34b, creando quindi uno stretto collegamento con questo: “kaì exébalon autòn éxo” (lo cacciarono fuori); si sottolinea pertanto che il cieco, uscito ormai dalla sinagoga, non appartiene più al giudaismo; la causa di questa sua uscita dal giudaismo è la guarigione di cui ha beneficiato ai vv.6-7, che potremmo assimilare all'annuncio della parola accolta, che già gli ha aperto gli occhi; da allora egli, anche se in modo imperfetto, ha incominciato ha vedere (blépo) anche se soltanto ora egli è in grado di incontrare Gesù nella pienezza della sua Verità e nel suo Mistero e fare la sua professione di fede;

  2. il secondo movimento sottolinea l'incontro diretto e personale con Gesù: “e trovatolo”; un incontro vivo, reale e profondo proprio perché diretto e personale; proprio di quegli incontri che vanno diritti al cuore e ti cambiano definitivamente; un incontro, si noti bene, che avviene soltanto dopo che il cieco risanato è uscito definitivamente dalla sinagoga, cioè dopo aver lasciato definitivamente il giudaismo; solo allora Gesù l'ha trovato e ha potuto instaurare con lui un rapporto diretto e personale. Forse in tutto questo possiamo vedere un richiamo di Giovanni a quei membri giudeocristiani della sua comunità, che pur avendo ricevuto e accolto l'annuncio hanno continuato a frequentare parallelamente la sinagoga. Un esempio di questa commistione di giudaismo e cristianesimo lo abbiamo proprio in At 2,46: “Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore”. Da un lato quindi si continuava a frequentare il tempio, praticando l'antico culto, ma contemporaneamente, dall'altro, si praticava il nuovo culto della cena eucaristica all'interno della comunità (spezzare il pane a casa);

  3. il terzo movimento è la domanda con cui si sottopone al candidato al battesimo l'oggetto del credere: “Tu credi nel Figlio dell'uomo?”. L'espressione “figlio dell'uomo” è un semplice ebraismo per dire “uomo” e ricorre in tutto l'A.T. 108 volte, di cui ben 94 volte nel solo libro di Ezechiele ed è un titolo con cui Dio si rivolge al profeta per indicare tutta la distanza che intercorre tra i due; ma a partire da Dn 7,13-14 in poi, l'espressione ha assunto dei connotati strettamente messianici. Qui in Giovanni ricorre 13 volte ed indica la dimensione umana di Gesù, ma posta sempre in un contesto che ha attinenza con la sua dimensione divina e con il suo Mistero32. Qui nel nostro caso, v.35, essa ricorre in modo unico ed esclusivo in forma assoluta senza alcuna contestualizzazione. Alcune testimonianze greche più tardive e i manoscritti latini qui leggono “Figlio di Dio”, ma si tratta di una evidente sostituzione di formula quasi certamente dovuto all'uso che se ne faceva di questo racconto nelle catechesi battesimali33. L'uso che comunque qui ne fa Giovanni va collegato a nostro avviso al tema del giudizio che viene richiamato nella pericope immediatamente successiva (vv.39-41). Questo abbinamento “Figlio dell'uomo” con il tema del giudizio non è nuovo in Giovanni, anzi il titolo sottolinea proprio il potere di giudizio che Gesù ha: “E gli diede potere di fare giudizio, poiché è Figlio dell'uomo” (5,27). In entrambi i casi qui richiamati (5,27-30; 9,39-41) la presenza di Gesù diviene un elemento di discriminazione, poiché chiama gli uomini a prendere posizione nei suoi confronti e dalle risposte che essi danno dipende la loro sorte.

I vv.36-37 si collocano di mezzo tra la richiesta di fede, che Gesù rivolge al cieco risanato (v.35), e la sua professione adorante (v.38). Si tratta di un dialogo appena accennato, ma denso nei suoi contenuti. Egli sa che davanti a sé c'è l'uomo chiamato Gesù (v.11), che è un profeta (v.17b) e che per il suo operare certamente è da Dio e Dio opera in lui (vv.31-33); tutto ciò crea un alone di affidabilità verso l'uomo Gesù, ma non va a cogliere ancora l'essenza della sua persona, la sua vera natura. Ed è su questa che ora il cieco guarito è chiamato ad esprimersi. Si ha dunque un ulteriore approfondimento sulla ricerca della vera identità di questo personaggio singolare attorno a cui aleggia il mistero, che ora va sciolto con un atto di fede nel “Figlio dell'uomo”, che se da un lato allude all'umanità di Gesù, dall'altro è un'espressione gravida di messianismo e di potere divino, che colloca quest'uomo nella dimensione stessa di Dio. La domanda del cieco guarito infatti verte sulla natura di questo personaggio: “Chi è?”; soltanto al raggiungimento della piena conoscenza del Mistero di questo personaggio la sua fede può dirsi completa.

La risposta di Gesù è incentrata su due verbi: “E lo hai visto ed è quello che parla con te”; il primo è “˜èrakaj” (eórakas, hai visto). Non più quindi “blépo”, che definisce un vedere superficiale e che non va oltre alle apparenze, ma “oráo” che indica un vedere superiore, capace di trascenderle e di cogliere ciò che sta al di là; nei vangeli è sempre indicato come il verbo proprio del vedere di Dio e del vedere della fede. L'apparire di questo verbo dice l'evoluzione spirituale che si è operata in questo cieco risanato, il successo del suo cammino di fede, che dal vedere di “blépo” è passato a quello di “oráo”, capace ora di cogliere il Mistero di quest'uomo chiamato Gesù. Significativo è l'uso del tempo verbale di “oráo”: il perfetto indicativo, che per sua natura esprime uno stato presente quale effetto di un'azione che si colloca nel passato. La capacità del vedere oltre dunque risale per il cieco al primo incontro che egli ha avuto con “l'uomo chiamato Gesù” (vv.6-7), da cui si è poi prodotto un cammino che lo ha portato ad una visione piena e completa. Il secondo verbo è il verbo essere, “è colui che ti parla”, che rimanda all'ontologia stessa di Gesù, alla sua stessa essenza definita da quel “colui che ti parla”. Gesù dunque per definizione è la Parola, che incontra gli uomini e li interpella. Non è un caso se nel suo prologo Giovanni definisce Gesù come il Logos incarnato che egli contempla nel suo disvelarsi agli uomini (1,14); una Parola che possiede in se stessa la vita, che è luce per gli uomini (1,4), nonché il potere di darla loro, generandoli a Dio (1,4.12-13). I vv.36-37, dunque, posti di mezzo ai vv.35.38, spiegano la dinamica di questo cammino di vita, nato dall'incontro con la Parola, che porta il cieco alla pienezza della luce.

Il v.38 è il vertice dell'intero cap.9 e la coronazione di un lungo e tribolato cammino di fede: “Ora, quello dichiarò: <<Credo, Signore>>. E si prostrò davanti a lui”. Tre gli elementi rilevanti: a) l'uso di “œfh” (éfe) al posto del più comunemente usato “eŒpen”, ma se quest'ultimo significa semplicemente “dire”, “œfh” è molto di più di un semplice “dire”; esso significa infatti “affermare, asserire, attestare, dichiarare”. Questo verbo dunque carica di solennità il dire del cieco facendolo diventare una proclamazione ufficiale di fede. b) La dichiarazione di fede: “Credo, Signore”. Non si dice “Credo in te, Signore”, ma solo “Credo” che parla di fede in senso assoluto e incondizionato, una totale e piena apertura al disvelarsi di Gesù che gli si dona nel suo Mistero, che ora egli “vede”. Con quel “Credo” si delinea così la nuova dimensione esistenziale in cui il cieco risanato è entrato e di cui ora fa parte. E qui il suo interlocutore non è più “un uomo chiamato Gesù”, non è più neanche un profeta o un uomo speciale inviato da Dio, ma è il “Signore”, un appellativo con cui la chiesa primitiva attestava la divinità del Risorto. c) Alla professione solenne di fede il cieco risanato e ora illuminato dalla luce della vita si prostra davanti a lui: “prosekÚnhsen aÙtù” (prosekínesen autô); un verbo questo che nei racconti evangelici, qualora rivolto a Gesù, assume il significato dell'atto di adorazione e quindi il riconoscimento della sua stessa divinità. Il dire è qui fatto seguire dal fare; l'atto di fede proclamato solennemente è fatto seguire subito dal gesto di adorazione che dice come questa fede, che ha illuminato la vita di questo cieco abbia anche trasformato la sua vita in un atto di culto e per questo di adorazione a Gesù, riconoscendolo nella sua vita quale suo Dio e Signore.

7° Quadro: la cecità dei vedenti e il giudizio posto su di loro (vv.39-41)

Testo

39- E disse Gesù: <<Io venni in questo mondo per un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi>>.
40- (Quelli) dei Farisei, che erano con lui, udirono queste cose e gli dissero: <<Siamo ciechi anche noi?>>.
41- Disse loro Gesù: <<Se foste ciechi, non avreste colpa; ma, ora, poiché dite “vediamo”, il vostro peccato rimane>>.


Note generali

Alla luce che ha illuminato il cieco risanato, trasformandone la vita, si contrappone ora il quadro fosco del giudizio che Gesù pone sul giudaismo istituzionale, chiuso nelle sue sicurezze. Tutto il giudizio si gioca sul vedere e il non vedere, sull'essere ciechi e il non esserlo. Stati di vita tra loro contrapposti. Elemento di discriminazione e di contrasto in tutto ciò è la persona di Gesù e tutto si gioca nella risposta che gli uomini danno. Torna nuovamente qui il verbo “blépo” che parla di un vedere superficiale e non sufficientemente illuminato, ma comunque è pur sempre un vedere da cui è partito anche il cieco risanato che, contrariamente al giudaismo istituzionale, si è lasciato illuminare fino alla pienezza della sua fede. Ma è proprio la sicurezza dell'essere nel giusto, il non sapersi mettere in discussione, il non lasciarsi interpellare dal nuovo evento Gesù che si pone davanti, limitandosi a rifiutarlo, che ha impedito al giudaismo istituzionale la sua evoluzione spirituale, lasciando la lettera per lo Spirito che in essa si racchiudeva.

La struttura della pericope è scandita sostanzialmente in due parti: a) il senso della venuta di Gesù, legato al giudizio da porre sugli uomini (vv.39-40); b) la sentenza finale che condanna di fatto il giudaismo per la sua intransigente chiusura nei confronti di Gesù (v.41).

Commento al 7° Quadro (vv.39-41)

Il v.39 si apre con un “kaˆ” (kaì, e) redazionale che aggancia quest'ultimo Quadro con quello precedente e ne dà continuità, ma con esiti diametralmente opposti. Un “kaì” che crea un parallelismo tra i due quadri che sono inversamente proporzionali e che mettono in rilievo i due contrapposti atteggiamenti tenuti dal giudaismo nei confronti di Gesù: mentre il cieco nel suo vedere imperfetto riesce a raggiungere la pienezza della luce, rendendosi disponibile all'uomo Gesù, scoprendone infine la divinità, che gli trasforma la vita, parallelamente, ma in modo inverso, i farisei, dichiaratisi discepoli di Mosè e chiusi nelle loro certezze, precipitano invece nella cecità.

Il v.39 è scandito in due parti: la prima rileva il motivo della venuta di Gesù ed è caratterizzata dal verbo “Ãlqon” (êltzon, venni), da cui dipendono le due particelle “e„j” (eis), l'una posta davanti al sostantivo “mondo”, la meta della sua venuta; l'altra davanti al termine “giudizio” imprimendo allo stesso una certa dinamicità; in altri termini si tratta di un giudizio che si sta compiendo con la venuta di Gesù, anzi, è proprio la sua presenza che fa si che questo giudizio si attui. Il termine giudizio è reso in greco con “kr…ma” (kríma), che oltre a giudizio significa anche decisione, sentenza, decreto, condanna. Tutto questo produce la venuta di Gesù nel mondo. Essa si costituisce in mezzo agli uomini come elemento di discriminazione senza “se” e senza “ma” per cui “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23); la stessa indifferenza si costituisce come motivo di condanna: “Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,16). Una presenza quella di Gesù che spinge gli uomini, loro malgrado, a prendere posizione nei suoi confronti. Vi è in questa presenza un radicalismo fin qui sconosciuto e che pone gli uomini di ogni epoca e di ogni latitudine di fronte ad un aut aut escatologico, che non ammette tentennamenti, poiché Gesù, Logos Incarnato, è l'ultimo discorso che il Padre rivolge agli uomini, per questo esso porta con sé il giudizio.

La seconda parte del versetto spiega il contenuto di questo giudizio: “affinché quelli che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. Il vedere qui è chiaramente un sinonimo di credere e benché questa sentenza abbia una valenza universale essa qui è prodotta per il giudaismo, sia perché posta a conclusione del cap.9, che narra le vicende del cieco nato, metafora, come si è visto, del giudaismo credente; sia perché essa viene qui applicata (vv.40-41) a quel giudaismo istituzionale che si riteneva “di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici” (Rm 2,19-20a) perché possedeva la sapienza della Torah, ma che giunta la luce, quella vera che illumina ogni uomo (1,9) preferirono le tenebre alla luce. Questo v.39b richiama da vicino 3,18-21: “Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio. Ora questo è il giudizio, che la luce è venuta nel mondo e gli uomini amarono più la tenebra che la luce, poiché le loro opere erano malvagie. Infatti, chiunque compie cose malvagie odia la luce e non va verso la luce, affinché le sue opere non siano biasimate; colui che, invece, fa la verità va verso la luce, affinché le sue opere siano manifestate, poiché sono state compiute in Dio”. Non che la Torah sia malvagia, anzi essa possiede in sé la Santità stessa di Dio, esprimendone la volontà, ma fu l'approccio ad essa che fu sbagliato, poiché ci si limitava ad eseguire ciò che vi era scritto, ma senza chiedersi il significato e senza cogliere il senso di ciò che lo scritto, al di là della lettera, voleva significare. Dio stava parlando al cuore del suo popolo, che invece si è limitato a metterci soltanto l'orecchio, anzi si è imposto delle norme, gli huqim, in apparenza prive di motivazione, che servivano a misurare la capacità di obbedienza a Dio anche in quei comandi che potevano sembrare privi di logica34. Ed è da qui il lamento di Dio espresso per mezzo del suo profeta: “Dice il Signore: "Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13), un lamento che verrà ripreso dal Gesù sinottico (Mt 15,8-9; Mc 7,6-7).

Con il v.40 ricompaiono inaspettatamente alcuni farisei. Questi, infatti, il lettore li aveva lasciati alquanto adirati al v.34 mentre, insultandolo, cacciavano il cieco risanato; ognuno quindi per la sua strada. Loro infatti erano discepoli di Mosè, mentre lui, il cieco, lo era di quello sconosciuto che neppure si sapeva da dove venisse. Questa inattesa quanto improvvisa ricomparsa fa sorgere dei dubbi: perché Giovanni li ha reinseriti qui? Forse il motivo è meramente narrativo, finalizzato a provocare la risposta di Gesù al v.41; ma se si guarda attentamente come vengono definiti questi farisei, sorge una diversa possibile comprensione del loro reinserimento qui: “(Quelli) dei Farisei, che erano con lui”. Qui dunque non si sta parlando dei Farisei in senso generale, i rappresentanti del giudaismo istituzionale, con cui il cieco risanato ha dovuto fin qui confrontarsi duramente, ma di “Quelli” che provenivano dai Farisei (™k tîn Farisa…wn, ek tôn Farisaíon), quel “ek” infatti è una particella di moto da luogo e quindi indica l'origine di provenienza; chi sono? Discepoli dei farisei fuoriusciti da loro o che si stavano staccando da loro per seguire Gesù? Esempi ne abbiamo in Nicodemo (3,1-9; 7,50; 19,39), in Giuseppe di Arimatea (19,38) e in altri capi, che avevano incominciato a credere in Gesù, ma nascostamente per timore dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga (12,42), o nello stesso scriba di Marcoi che si sente rispondere da Gesù che non è lontano dal Regno di Dio (Mc 12,34) e di altri ancora che, ammirati per le sue parole, lo elogiano (Lc 20,39). Sono dunque personaggi che provengono dal mondo farisaico e Giovanni sottolinea “che erano con lui”. Questo “essere con” sembra definire una sorta di discepolato, che dice il condividere la sorte o quanto meno il messaggio di questo inquietante rabbi. Dunque qui si sta parlando forse di un certo tipo di discepolato, quasi certamente non ancora pienamente maturato considerata la dura risposta che Gesù dà loro al v.41. Il riferimento a questa categoria di personaggi “che erano con Gesù” è probabile che vada a colpire una certa fascia di giudeocristiani della comunità giovannea ancora giudaizzanti, cioè osservanti della legge mosaica, i quali non di rado creavano disturbo e divisioni all'interno delle prime comunità credenti in particolar modo in quelle miste, dove vi era la presenza anche di etnocristiani, cioè convertiti provenienti dal paganesimo verso i quali questi si sentivano superiori e volevano imporre la pratica giudaica in particolar modo quella della circoncisione (At 15,1). Il fenomeno all'epoca era molto diffuso e ci viene ampiamente testimoniato dagli scritti paolini35.

Il v.41, nel concludere il racconto e con questo il cap.9, riporta la risposta di Gesù a questo giudaismo che si riteneva illuminato dalla Torah e maestro in mezzo alle genti (Rm 2,19-20a): “Se foste ciechi, non avreste colpa; ma, ora, poiché dite “vediamo”, il vostro peccato rimane”. La sentenza, che di fatto è una implicita accusa di presunzione, innesca un confronto tra il cieco nato, metafora di un giudaismo disponibile e accogliente, che è giunto alla piena illuminazione; e questo giudaismo saccente, che convinto di essere illuminato dalla Torah, divenuta la misura di tutte le cose e sui cui parametri anche Gesù era stato valutato come peccatore (v.16), si era precluso ogni possibilità di accesso al Mistero del suo evento. Non vi è dunque una evoluzione né spirituale né culturale per questo tipo di giudaismo rimasto intrappolato nella lettera della Legge. Per questa sua impenetrabilità e impermeabilità al manifestarsi del Padre in Gesù, questo giudaismo rimane nel suo peccato, che per Giovanni è il peccato che esclude l'uomo dalla vita eterna (3,18), quello che porta alla morte (1Gv 5,16-17): l'incredulità, che in ultima analisi altro non è che il rifiuto di Dio.


Giovanni Lonardi


N O T E


1Cfr. il commento al cap.7, pag. 7

2Cfr. il commento al cap.8, pag. 16

3Sulla questione dell'ottavo giorno cfr. il commento al cap.8, pag. 6

4I segni che il vangelo di Giovanni riporta, in ordine di apparizione, sono i seguenti: 1) Nozze di Cana (2,1-11); 2) Guarigione del figlio del funzionario regio (4,46-54); 3) Guarigione di un paralitico in un giorno di sabato (5,1-9); 4) La moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,1-15); 5) Il camminare di Gesù sulle acque agitate (6,16-21); 6) Guarigione del cieco dalla nascita (9,1-38); 7) La risurrezione di Lazzaro (11,1-46). Sul significato e sul senso dei segni in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 86-88

5Sulla composizione della comunità giovannea cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag. 31

6Sul verbo “vedere” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 80-82

7L'espressione greca “hapax legomenon”, letteralmente “detto una volta sola, ” è un termine tecnico per indicare che una determinata parola o verbo o espressione ricorre una volta soltanto in tutto il racconto o in un testo.

8Cfr. Mt 26,58a; Mc 14,54a; Lc 22,54b

9Cfr. Mt 26,69-74; Mt 14,66-72; Lc 22,55-62; Gv 18,17.25-27

10Cfr. Mt 27,55; Mc 15,40; Lc 23,49

11Cfr. voce “Saliva” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; similmente cfr. Plinio, Naturalis Historia, 28,35-36, che considera la saliva come un elemento terapeutico contro i morsi dei serpenti e contro i foruncoli; ma non solo, per Plinio essa ha anche una valenza apotropaica e terapeutica in genere, rilevando come “ormai è abitudine sputare tre volte in ogni pratica medica per rafforzarne gli effetti”. Cfr. anche C. Tacito, Storie, 4,81 in cui si racconta della guarigione di un cieco operata con la saliva dall'imperatore Vespasiano.

12Dal II sec. a.C. sono pubblicati trattati pseudo-scientifici che influiscono sulle credenze del tempo. Mettevano in relazione il mondo degli astri con l’uomo, ritenendo che essi influissero su di lui. Si stavano inoltre facendo scoperte di carattere astronomico; così astrologia e magia si vengono a mescolare con religione, scienza e filosofia in una tentativo di trovare una base scientifica. Rappresentano una degenerazione della fede religiosa, anche se sappiamo che è caratteristica propria dell’Ellenismo la presenza contraddittoria di razionalità e irrazionalità. Il cerimoniale magico era molto conosciuto e la magia era applicata da Eroda ed altri.

13Cfr. Lv 19,31; 20,6.27; 2Re 21,6; 23,24; 2 Cr 33,6; Is 2,6. Cfr. anche la voce “Magia e Incantesimi” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni Piemme, Casale Monferrato; nuova edizione rivista e integrata 2005

14Cfr. la voce “La comunità giovannea” nella Parte Introduttiva della presente opera, pagg.30-38

15Cfr. la voce “Siloe” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

16Cfr. R.E. Brown, Giovanni, edizioni Cittadella, Assisi 1999, V edizione; pag. 486

17Cfr. la voce “Credere” nella Parte Introduttiva della presente opera, pag.60

18Sui diversi significati del verbo vedere in Giovanni cfr. la voce “Vedere” nella Parte Introduttiva della presente opera, pagg.80-83

19Sul tema del battesimo nella chiesa primitiva cfr. K. Bihlmeyer-H. Tuechle, Storia della Chiesa, vol. 1 l'antichità cristiana, ed. Morcellania, Brescia, 2000 – XIII edizione; Didaché, edizioni San Paolo, Cenisello Balsamo, 1999; Ippolito di Roma, La Tradizione apostolica, edizione Figlie di San Paolo, Milano 1995, ristampa della seconda edizione

20Il verbo “oŒda” (oîda) è il perfetto di “eŒdon” (eîdon), che supplisce i tempi mancanti di “Ðr£w” (oráo), che significa “vedere”, usato in Giovanni per indicare il vedere proprio della fede raggiunta, quella che va al di là delle apparenze.

21Cfr. Gv 7,45; 8,3; 9,13; 11,7.8.16; 18,13.28; 19, 4.13

22Cfr. Dt 28,8; 2Re 6,18; Sap 19,17; Zc 12,4.

23Sul tema della malattia nella Bibbia cfr. la voce “Malattia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.- Un esempio di correlazione tra malattia e religione è At 10,38, in cui si attesta che Gesù passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui; mentre per chi è fedele a Dio e cammina rettamente davanti a Lui, Egli lo salvaguarderà da ogni malattia (Es 23,25; Dt 7,15a), ma colpirà con malattia chi gli si rivolta contro o compie il male davanti a Lui ( Dt 715b; 28,59.61; 29,21; Ger 16,4)

24Circa i lavori proibiti di sabato i Dottori della Legge classificarono trentanove casi di divieti, tra i quali rientrano i due casi di violazione operata da Gesù nel guarire il cieco: Arare, Seminare, Mietere, Formare covoni, Trebbiare, Ventilare,gettare al vento, Selezionare, Setacciare, Macinare, Impastare, Cuocere in forno ,bollire,arrostire, Tosare, Lavare, Cardare, Colorare tingere, Filare, Tendere, Realizzare due briglie per tessere, Tessere, Dividere due fili, Legare, Slegare, Dare due punti di cucitura, Strappare (con l'intenzione di ricucire), Cacciare, Macellare, Scuoiare, Salare e conciare, Disegnare, tracciare righe, Lisciare, Tagliare, Scrivere, Cancellare, Costruire, Demolire, Accendere, Spegnere, Dare l'ultimo colpo di martello, Trasportare. La classificazione, tuttavia, non pacificava la questione circa le proibizioni in giorno di sabato, ma su ogni caso specificato si accendeva un ampio e infinito dibattito su ciò che rientrava o meno nelle proibizioni elencate. Tutto ciò generava nuove regole e nuove limitazioni, che andavano ad aggiungersi ad altre ancora, formando in tal modo pesi insostenibili e ingestibili, che gravavano sul vivere quotidiano della gente. - Per l’elenco dei lavori proibiti e le considerazioni su questi cfr. Abraham Cohen, Il Talmud, traduzione di Alfredo Toaff, Edizioni Laterza, Bari 1999 – pagg. 193-198. - Cfr. anche Es 20,10 Es 31,14-15; 35,2; Lv 16,31; 23,3; Dt 5,12.14-15

25Il rigore e la rigidità che si riscontrano nell’osservanza del sabato risalgono probabilmente ai tempi dell’esilio (598-538 a.C.). A motivo dell’assenza del tempio, le festività non potevano essere celebrate cultualmente, pertanto il sabato divenne una sorta di distintivo del popolo ebreo in esilio e nel quale il pio ebreo riconosceva la propria identità. Ma sarà soprattutto nel periodo postesilico che l’importanza del sabato si trasformerà in rigida osservanza, a motivo della debolezza politica e religiosa in cui il giudaismo veniva a trovarsi. Tuttavia, tale rigidità non era assoluta, e il buon senso popolare ammetteva di fatto delle trasgressioni del sabato in caso di particolari necessità. Un adagio rabbinico, infatti, recitava: “Se venisse osservato anche un solo sabato, giungerebbe il messia”. Le stesse scuole rabbiniche formularono, poi, una casistica, che costituiva una serie di eccezioni all’obbligo del riposo assoluto in giorno di sabato. Nacque in tal modo lo ‘eruv (mescolanza), una normativa che consentiva lavori proibiti anche in giorno di sabato. Tra questi, a titolo esemplificativo, si consentiva di intervenire quando si trattava di salvare la vita ad un uomo o ad un animale o evitargli delle sofferenze – Sulla questione dell’osservanza del sabato cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia; R. De Vaux, Le Istituzioni dell’Antico Testamento; la voce “Sabato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; tutte le opere citate.

26Cfr. la Parte Introduttiva al Vangelo di Matteo, pagg.5-7 consultabile e scaricabile dal mio sito di Teologia per Tutti.

27Cfr. La Parte Introduttiva della presente opera alla voce “Giudei”, pag.61

28Dopo la guerra giudaica (66-73 d.C.) che portò alla distruzione di Gerusalemme e alla fine del Tempio e del suo culto, Scribi, Farisei e dottori della Legge si rifugiarono a Jamnia (ebr. Yavne) e qui riorganizzarono e rilanciarono il giudaismo dandogli una nuova impronta incentrata esclusivamente sulla Torah. La Torah, quindi, divenne il nuovo tempio e il suo studio un vero e proprio atto di culto sostitutivo dei sacrifici. Ebbe così origine un nuovo tipo di giudaismo, quello rabbinico, che aveva come punto di riferimento la Torah, mentre ai sacerdoti si sostituirono di fatto i rabbini. I Rabbini di Jamnia si ritennero i veri maestri ed eredi della Tradizione. Una nota polemica in tal senso echeggia in Matteo, che li accusa di essersi seduti sulla cattedra di Mosé (Mt 23,2). Al fine di evitare uno sfaldamento del giudaismo e di ricompattarlo, essi cercarono di imporre a tutti gli ebrei, sia in Palestina che nella diaspora, le loro interpretazioni e decisioni. Tuttavia la loro autorità non fu accettata pacificamente da tutti, in particolare dai giudei della diaspora, gli ellenisti. Fu in questo periodo che Samuel il Minore, all'ombra dell'autorità di Gamaliele II, introdusse la dodicesima benedizione, la Birkat ha minim, ossia la benedizione degli esclusi, un eufemismo per dire maledizione, il cui testo è qui sopra riportato. Chi fossero esattamente questi "minim", che letteralmente significa "separati, esclusi", non ci è dato di sapere. Esso va probabilmente riferito in senso generale a tutti coloro che contestavano o rifiutavano l'autorità dei nuovi Rabbini. Per il Talmud palestinese sono coloro che si staccano dal popolo d' Israele. Non è corretto, quindi, riferirlo esclusivamente ai cristiani. Oggi gli studiosi ritengono che al tempo di Jamnia le Diciotto Benedizioni, dette anche Amidah, fossero già esistenti e che, pertanto, Samuel il Minore reinterpretò la dodicesima benedizione, estendendola anche ai giudeocristiani, chiamati qui nazareni, noserim. Di questo stato di cose dà conferma lo stesso Giustino nel suo "Dialogo con il giudeo Trifone": "Voi nelle vostre sinagoghe maledite coloro che si sono fatti cristiani" (Dial. 96 e 107). Si è venuta, pertanto, a creare una forte tensione tra il nascente cristianesimo, ritenuto fino ad allora una sorta di forma deviata di giudaismo, con quello ufficiale di Jamnia, che portò alla rottura tra i due gruppi, la cui eco risuona in vari scritti neotestamentari, come in At 8,1-3; 26, 9-11; Gv 9,22; 12,42; 16,2; 1Ts 2,14; Rm 9-11. Ma è l'intero vangelo di Giovanni che ne dà piena testimonianza, in cui il termine Giudeo ha acquistato un significato decisamente negativo, divenuto sinonimo di incredulità. Cfr pagg. 173-178, A.R. Carmona, La religione ebraica ..., op. cit.; A.Poppi, I Quattro Vangeli ..., op. cit.; D. Jaffé, Il Talmud e le origini ebraiche del cristianesimo, edizioni Jaca Book, Milano 2008

29Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag. 489, op. cit.

30Cfr. Is 1,10-15; Ger 29,12-13; Sal 66,17-19; Prv 15,29; Gb 27,8-10; 35,13; Sir 3,5; 51,8-11; 1Gv 3,21-22

31Cfr. Mt 15,2.3.6; Mc 7,3.4.5.8.9.13

32Cfr. Gv 1,51; 3,13.14; 5,27; 6,27.53.62; 8,28; 9,35; 12,23.34; 13,31

33Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag. 490, op. cit.

34Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, pag.374, op. cit.

35Sulla questione cfr. la voce “Giudaizzanti” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne, R.P. Martin, D.G. Reid; edizione italiana a cura di Romano Penna; edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999; seconda edizione 2000.