IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
L'attività
pubblica di Gesù
incorniciata
da quattro
grandi
feste ebraiche
ossia
l'operare
trasformante
e
rigenerante di Gesù
collocato
nel cuore
del
culto giudaico,
preludio
ad un nuovo culto
Commento
esegetico e teologico
ai
Capp. 5 -
10
a cura di Giovanni Lonardi
CAPITOLO SETTIMO
Intorno a
Gesù
interrogativi,
contrasti, divisioni
trasversalmente
percorsi dal tema della morte
Con
il cap.7 si apre una nuova sezione che comprende i capp.7-91;
capitoli che pur formando unità narrative a se stanti e ben
circoscritte, sono tuttavia legati tra loro da una continuità
narrativa geografica e temporale. Quanto all'aspetto geografico
l'azione si svolge in tutti tre i capitoli a Gerusalemme (7,102).
Nei primi due essa si svolge nel tempio3,
ma in due giorni successivi. Il cap. 7,37a infatti attesta che era
l'ultimo giorno della festa delle Capanne, il più grande, mentre il
cap.8,2a si apre affermando che “Sul
far del giorno, giunse nuovamente al tempio”4,
da cui esce al termine del cap.8,59b. Il cap.8 pertanto è
circoscritto da un'inclusione data da un movimento uguale e
contrario: entrata e uscita dal tempio. Quanto all'aspetto temporale
il cap.7 è incorniciato all'interno della festività delle Capanne
(7,2.8.10.11.14.37), mentre i capp.8-9 si collocano il giorno
successivo a quello dell'ultimo giorno della festa delle Capanne, il
giorno che Lv 23,36b definisce come l'ottavo giorno. Questo
costituisce una sorta di transizione tra il periodo della festa delle
Capanne, la cui durata era di sette giorni (Lv 23,36a), e il normale
periodo feriale che sanciva il ritorno alle attività quotidiane.
L'ottavo giorno quindi non appartiene più alla festa delle Capanne
propriamente detta5;
anche la quantità dei sacrifici, che dal primo al settimo giorno si
ripetevano in 13 giovenchi, 2 arieti e 14 agnelli; giovenchi che
scalavano uno per giorno fino a giungere a sette giovenchi al settimo
giorno (Nm 29,12-33), all'ottavo giorno essi diventavano “un
giovenco, un ariete e sette agnelli” (Nm 23,36); anche il ritmo
narrativo che si ripete costante dai vv.12-35, giunti all'ottavo
giorno (Nm 23,35) cambia improvvisamente e compaiono nuove regole
rispetto a quelle della precedente settimana. Quanto al cap.9, in cui
si colloca il racconto del cieco nato, esso si svolge sempre
nell'ottavo giorno; Gesù, infatti, uscito dal tempio (8,59b) si
imbatte in un uomo cieco dalla nascita (9,1).
Vi sono anche due punti di contatto tra il cap.7 e il cap.8, punti che hanno come sfondo la festa delle Capanne. Questa, come vedremo meglio nel commento, girava attorno al rituale dell'acqua, collocato all'interno di uno scenario impressionante caratterizzato dalla presenza di grandi illuminazioni alimentate dal fuoco. Gesù riprenderà proprio questi due aspetti dell'acqua e del fuoco e li riferirà a se stesso rispettivamente in 7,37-39 e in 8,12. Quanto al cap.9, questo può essere considerato come una propaggine del cap.8 e una sorta di sua metaforizzazione. Infatti in 8,30-32 si attesta che molti credettero in Gesù (8,30), che a sua volta si rivolse ai Giudei che avevano creduto in lui (8,31). Il cap.9 parlerà proprio del giudaismo favorevole a Gesù e disponibile alla sua sequela, nonché del conflitto che si era innescato tra questo e il giudaismo tradizionale.
Il cap.7 potremmo definirlo come il capitolo delle incomprensioni, degli interrogativi, dei contrasti e delle divisioni che si addensano attorno alla figura di Gesù. Ben 18 sono gli interrogativi che percorrono l'intero capitolo6 provenienti dalle folle e dai Giudei su Gesù e da quest'ultimo verso la gente e verso i Giudei; interrogativi spesso senza risposta o volutamente retorici e sottesi talvolta da una venatura polemica. Questo denso amalgama di tese relazioni umane è percorso dal filo rosso della morte7 che si sta lentamente avvolgendo attorno a Gesù a partire da questo capitolo e in modo sempre più evidente con l'andare del racconto evangelico. A questo si contrappone il tema dell'ora che non è ancora giunta8 e che per questo ogni tentativo di sopraffazione viene vanificato; ma ciononostante è l'ora verso la quale Gesù è ineluttabilmente avviato. Tuttavia in Giovanni il tema della morte non è mai angosciante come invece appare nel racconto lucano (Lc 22,44) e in quelli matteano e marciano (Mt 26,38; Mc 14,34). Per Giovanni, infatti, il cammino di Gesù verso l'ora è colto come un percorso verso la sua intronizzazione regale e verso la sua glorificazione. Il Gesù giovanneo è sempre presente a se stesso e appare in ogni circostanza come il dominatore degli eventi, che si stanno compiendo attorno a lui.
Preso nel suo insieme questo capitolo genera un clima di forte tensione e segna una svolta decisiva, una sorta di sterzata all'interno della narrazione del vangelo, che punta diritta verso il Golgota. Infatti, se fino a tutto il cap.6 emergevano prevalentemente l'inintelligenza e l'incredulità, lasciando sullo sfondo il tema del morire9, dal cap.7 in poi queste si trasformano in atteggiamenti aggressivi, che ben presto diventano progetti di morte, sempre più appariscenti e sempre più determinati, da parte delle autorità giudaiche. In altri termini dal cap.7 la tensione sale e le diatribe si fanno sempre più frequenti, mentre il tema della passione e della morte si fa sempre più dominante10. L'ora che fino al cap.8 non era ancora venuta11, a partire dal cap.12 si dirà che essa è giunta12.
Da un punto di vista narrativo e strutturale il cap.7 è incorniciato dalla festività delle Capanne o delle Tende (vv.2.8.10.11.14.37) e si presenta come un accorpamento di nove quadri narrativi giustapposti l'uno accanto all'altro senza continuità narrativa logica, tenuti assieme dalla cornice della festività e dal comune denominatore dei contrasti e del tema della morte, che li percorre tutti. Ogni quadro narrativo è popolato da personaggi propri che, di volta in volta, mutano al mutar della scena e ruotano tutti attorno a Gesù, l'unico personaggio onnipresente, che polarizza tutti gli altri attorno a sé. Tuttavia non si pensi che il cap.7 sia un disordinato coacervo di unità narrative buttate là a caso; queste infatti, come vedremo meglio nell'analisi strutturale, sono state distribuite secondo la logica dei parallelismi concentrici.In questo capitolo i temi teologici e cristologici, sebbene non assenti, non sono prevalenti. L'idea che nasce da questo concentramento di diatribe, che lasciano più spazio alla storia che alla teologia, sembra essere quella di raccogliere in un unico capitolo quegli aspetti storici da cui traspare la forte tensione che aleggiava attorno a Gesù. In un colpo solo quindi l'autore informa il suo lettore del clima storico e sociale in cui si svolgeva l'azione missionaria di Gesù e in cui si collocava la sua stessa persona; un clima che prelude alla sua fine drammatica, quale sua logica conseguenza. È certamente questo un capitolo che dà una svolta decisiva all'intero racconto giovanneo, indirizzandolo verso l'ora della glorificazione di Gesù.
In conclusione, il cap.7 è una sorta di piccola antologia, formata da nove brevi unità narrative giustapposte l'una accanto all'altra, tenute assieme sia dalla festività delle Capanne, sia da una forte tensione e dal tema del morire che le accomunano tutte e da cui ne esce un Gesù molto contrastato: da un lato accolto come persona buona ed onnisciente, riconosciuta nella sua identità di profeta e di Cristo13; dall'altro incompreso, rifiutato e perseguitato; una figura che certamente creava attorno a sé divisioni e discordie e che comunque non lasciava indifferente la gente14. Una figura che richiama da vicino la profezia del vecchio Simeone, raccontataci da Lc 2,33-35: “Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: <<Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima>>”.
Ci apprestiamo ora ad analizzare la struttura di questo capitolo, che come si è sopra accennato, si presenta a parallelismi concentrici in E). Essa non è immediatamente riconoscibile, ma va accuratamente cercata nel senso di ogni singola unità narrativa, per scoprire come ognuna di esse è speculare alla sua corrispondente al lato opposto. Per cui si avrà:
vv.1-2: Introduzione
A) vv.3-9: contrasti e divisioni all'interno del gruppo familiare di Gesù: i suoi fratelli vanno alla festa; Gesù rimane in Galilea;
B) vv.10-11: Gesù nascosto e sconosciuto (“Dov'è quello?”);
C) vv.12-13: la gente mormora su Gesù ed ha paura dei Giudei;
D) vv.14-18: Gesù insegna liberamente al Tempio con un insegnamento ed una sapienza che gli viene dal Padre;
E) vv.19-24: Gesù difende il suo operare in giorno di sabato e ribalta l'accusa dei Giudei: sono loro che non osservano la Legge mosaica, rilevando la contraddizione della loro interpretazione restrittiva della Torah: si viola il sabato per praticare la circoncisione comandata da Mosè, ma ci si straccia le vesti per la guarigione di un uomo in giorno di sabato. Si rende necessaria una reinterpretazione della Torah su nuovi parametri antropocentrici (“giudicate secondo il giusto giudizio”);
D') vv.25-30: Gesù parla liberamente nel Tempio come il Cristo, sottolineando che egli, inviato dal Padre, lo conosce bene perché proviene da lui;
C') vv.31-36: la folla mormora sommessamente su Gesù forse per paura delle autorità religiose, che ordinano l'arresto di Gesù;
B') vv.37-44: Gesù è riconosciuto dalla folla come Profeta e Cristo;
A') vv.45-53: contrasti e divisioni all'interno del gruppo delle autorità religiose.
In B) Gesù va alla festa, ma nascostamente, mentre tutti lo cercano, chiedendosi “Dov'è quello”. Qui Giovanni sottolinea una presenza di Gesù nascosta e un Gesù sconosciuto nella sua vera identità. Il nome proprio infatti è sostituito dal pronome “quello”; per contro in B') Gesù è riconosciuto come Profeta e come il Cristo, anche se questa titolatura provoca ancora discussioni e disaccordi e un tentativo di arresto;
In C) si riporta il mormorio che serpeggia tra la folla circa la persona di Gesù, da cui emerge l'ennesimo contrasto tra favorevoli e contrari, e si attesta la paura della gente nei confronti dei Giudei; similmente in C') la folla parla a favore di Gesù e ipotizza che egli sia il Cristo; e subito, a seguito del mormorio della folla (si noti come l'autore usi lo stesso verbo, mormorare, che si trova in C), le autorità giudaiche ordinano l'arresto di Gesù, con cui si dimostra come fosse fondata la paura della gente nei confronti dei Giudei, denunciata in C).
In D) Gesù insegna liberamente al Tempio con un insegnamento e una sapienza che gli vengono dal Padre; similmente in D') Gesù parla liberamente al Tempio come il Cristo e si sottolinea che egli proviene dal Padre di cui sta eseguendo il mandato.
Ed infine la lettera E) che costituisce il cuore del cap.7, in cui si denuncia la ristrettezza interpretativa dell'osservanza sabbatica del magistero rabbinico, accusato di scarsa avvedutezza e di contraddittorietà. Il presente dibattito è mutuato dal cap.5, probabilmente uno stralcio che l'autore ha operato per riservarlo al cap.7, che, come si è detto, è una raccolta di dibattiti e diatribe.
Commento al cap. 7
L'introduzione
Testo (vv.1-2)
1- E dopo queste cose Gesù camminava nella Galilea;
infatti non voleva camminare nella Giudea, poiché i Giudei cercavano
di ucciderlo.
2- Ora, era vicina la festa dei Giudei, quella delle
Tende.
Commento ai vv.1-2
Questi primi due versetti danno il tono all'intero capitolo. Il v.1 mette subito in evidenza la grave situazione che si era venuta a creare attorno a Gesù dopo la guarigione del paralitico presso la piscina di Bethzatà (5,1-9a) in giorno di sabato (5,9b), la quale cosa gli costò i propositi omicidi delle autorità religiose, non solo per aver violato il sabato (5,16.18a), ma anche perché si era giustificato appellandosi alla sua figliolanza divina, ponendosi alla pari di Dio (5,17.18b). Le arie dunque per Gesù non erano buone in Giudea, meglio rimanersene in Galilea, sua terra di origine e dove, a Cafarnao, secondo il racconto matteano, aveva stabilito la sua dimora (Mt 4,13). Già questo richiamo agli eventi del cap.5 lasciano intendere come l'intero cap.7 dovrà essere carico di forti tensioni, mettendo in rilievo contrasti e divisioni sorti attorno alla persona di Gesù.
Quanto al v.2, questo colloca il cap.7 all'interno della festività delle Capanne, che, come vedremo, assume un significato particolare, poiché proprio in questo contesto Gesù, prendendo l'occasione da due particolari aspetti propri di questa festività, quello dell'acqua e quello del fuoco, compirà due annunci autorivelativi, l'uno in 7,37-38, l'altro in 8,12.
Il v.1 è carico di negatività e dà il là all'intero cap.7. Esso si apre con un'espressione, tutta redazionale, cara a Giovanni: “met¦ taàta” (metà taûta), “dopo queste cose”15. Le cose a cui l'autore qui allude sono quelle accadute al cap.5 e qui sopra richiamate; un capitolo che va collocato immediatamente prima del cap.7, al posto del cap.6, sia per ragioni geografiche che di logica narrativa16.
La seconda parte del v.1 vede contrapposte tra loro due regioni: la Galilea e la Giudea; la prima è la terra familiare di Gesù, da cui è originario (Mt 2,22; Lc 4,16a) e dove egli è stato anche bene accolto dai suoi concittadini (4,45) e dove si sente sicuro (7,1b.9). È qui in Galilea che egli ha compiuto i primi due segni, quello delle nozze di Cana (2,1-12) e la guarigione del figlio del funzionario regio (4,46-54), ottenendo qui i primi successi della sua missione (2,11; 4,53); qui, dopo il suo duro discorso sul pane, ottiene la piena solidarietà e la piena adesione dei Dodici (6,67-69), i suoi intimi, anche se accompagnata amaramente dalla defezione di molti suoi discepoli (6,66). Qui, in Galilea, secondo la tradizione sinottica, egli aveva dato inizio alla sua missione17 e della Galilea erano i suoi primi discepoli18. Galilea , dunque, ambiente familiare e caro a Gesù dove egli suole rifugiarsi nei momenti di difficoltà (Mt 4,12; Gv 4,1-3). Di tutt'altro tenore è la Giudea dove egli si scontrerà con la pervicace chiusura dei Giudei, che in Giovanni sono divenuti sinonimo di inintelligenza e incredulità invincibili; e dove i ripetuti scontri con le autorità religiose, fautrici di tentativi di arresto (7,30.32.44) e di progetti omicidi19, lo porteranno, infine, sul Golgota.
La contrapposizione è rilevata anche dai due verbi, che accompagnano le due regioni: “camminava” in Galilea e “non voleva camminare” in Giudea. I verbi all'imperfetto indicativo e la presenza del verbo volere (½qelen, étzelen) stanno ad indicare la determinazione e l'irremovibilità di Gesù (vv.8a.9b), sottese certamente dal timore dei Giudei che in 5,16.18 avevano progettato di arrestarlo e di ucciderlo, ma soprattutto da un'ora che ancora non era giunta (7,30c; 8,20b), perché i tempi della salvezza, stabiliti dal Padre, entro i quali si muoveva Gesù, non si erano ancora compiuti (v.6a.8b). Il motivo di tanta resistenza è spiegato nella terza parte del v.1, introdotto da un “Óti” (óti) causale: “poiché i Giudei cercavano di ucciderlo”. Quest'ultima espressione viene ripresa identica da 5,18a, creando in tal modo un forte legame tra il cap.7 e il cap.5, che qui non solo viene richiamato da questa espressione, ma anche dai vv.19-24, che nella struttura del cap.7 ne sono non solo il cuore, verso cui convergono tutte le altre diatribe, poste a parallelismi concentrici (v. pagg.3-4), ma, come vedremo, anche la vera motivazione in cui si radica ogni altra diatriba. Il tema del soffrire e del morire, a partire da questo cap.7, si farà sempre più incalzante e prepotente.
Il v.2 annota come le vicende qui riportate accadono durante la festa delle Tende, letteralmente la festa dell' “innalzamento delle tende” (skhnophg…a, skenopeghía20), che in tal modo richiama la peregrinazione di Israele nel deserto (Lv 23,43). Il mese di Tishri (settembre/ottobre) inizia annoverando tre festività importanti, stabilite da Lv 23,24-36: il capodanno (rosh ha-shanà), cadente il primo del mese; il giorno dell'espiazione (iòm Kippùr), cadente il dieci del mese; la festività delle Capanne (sukkòt), la cui durata, a partire dal 15 del mese, era di sette giorni fino al 21 di Tishri, a cui si aggiunse l'appendice di un ottavo giorno (Lv 23,36b), che traghettava il fedele dal lungo periodo festivo alla quotidianità degli impegni. Questo il quadro cronologico entro cui si collocava la festa delle Capanne denominata anche delle Tende, “considerata dagli Ebrei santissima e grandissima”21. Già questa doppia denominazione lascia intravvedere come questa festa, parimenti a tutte le altre feste ebraiche, originatasi nel mondo agricolo, sia stata successivamente teologizzata e legata all'esperienza del deserto (Lv 23,43). Di questo passaggio ne risente la stessa LXX, formatasi tra il 250 e il 150 a.C. circa, in cui scompare il termine “Capanne” per lasciare posto a quello più recente e più significativo di “Tende”. La festa delle Capanne è legata alla raccolta dei frutti autunnali (Es 23,16; 34,22; Lv 23,39a; Dt 16,13) e la sua origine, quasi certamente cananea (Gdc 9,27; 21,19-21), aveva probabilmente una duplice funzione: da un lato offrire riparo durante la raccolta, consentendo anche di pernottare per trovarsi sul posto il mattino presto; dall'altro per vigilare sul raccolto, evitandone i furti. Il clima che si andava formando era quello gioioso delle feste paesane, di cui si sente un'eco, ormai ritualizzata, in Lv 23,40 e Dt 16,14. Solo tardivamente la festa assunse un carattere prettamente religioso e cultuale legato all'esperienza del deserto con un proprio rituale (Lv 23,39-44; Nm 29,12-34). I riti più significativi erano legati all'acqua e al fuoco. La festa si apriva con una processione dei pellegrini verso il Tempio con torce accese. Ogni mattina, per sette giorni, i sacerdoti, scendendo processionalmente dal Tempio, si recavano alla piscina di Siloe, alimentata dalla sorgente Ghicon, che porta il nome del mitico fiume Ghicon, uno dei quattro che irrigavano il Paradiso Terrestre (Gen 2,13); qui, con una brocca d'oro, i sacerdoti attingevano dell'acqua, che processionalmente portavano al Tempio, passando dalla Porta dell'acqua, dove veniva versata nella coppa dell'altare degli olocausti. Da qui, attraverso dei canali interni all'altare, defluiva a terra, simboleggiando la copiosità dell'acqua che si sarebbe riversata su Gerusalemme, un segno di fecondità e di abbondanza (Ez 47,1ss), e che ricordava l'acqua che nel deserto defluì dalla roccia dissetando il popolo (Nm 20,8). Tardivamente quest'acqua venne associata al dono escatologico dello Spirito. Il popolo partecipava a queste processioni, seguendo il rituale di Lv 23,40, tenendo nella mano destra un fascio di ramoscelli di mirto, salici e palma; nella sinistra l'ethrog, un particolare tipo di cedro legato a due ramoscelli dello stesso frutto, simboli del raccolto, cantando i Sal 113-118. Il rito aveva il duplice scopo di ringraziare Dio per il raccolto della terra e di invocare la pioggia autunnale necessaria per il nuovo raccolto22. L'altro aspetto della festa era il tema della luce, che durante la festa si irradiava dal Tempio, vistosamente illuminato da quattro grandi candelabri alti circa una cinquantina di cubiti23 ed erano visibili da tutta Gerusalemme. Saranno proprio questi due aspetti cultuali, acqua e luce, che Gesù riferirà a se stesso, rispettivamente in 7,37-39 e in 8,12.
Ma vi è anche un terzo elemento che, a mio avviso, non va sottaciuto: la festa delle Tende, terza festività del pellegrinaggio, assieme a quella della Pasqua e della Pentecoste, è strettamente legata al Tempio; Dt 16,16-17 stabilisce infatti che tre volte all'anno, nella festa degli azzimi, delle settimane e delle capanne ogni maschio dovrà presentare una propria offerta al Signore “nel luogo che egli avrà scelto”, cioè nel tempio. Non a caso, poi, tutte le vicende e i grandi discorsi di Gesù riportati nei capp.7 e 8 sono incorniciati non solo all'interno della festività, ma anche del Tempio, che formerà da sfondo all'intero cap.8. Festa delle Tende e Tempio, quindi, sono due aspetti che non vanno scissi, se pensiamo, ancora una volta, come il primo Tempio, quello di Salomone, fu inaugurato solennemente proprio durante la festa delle Capanne (1Re 8,2.65-66), creando una sorta di connubio che non poteva essere dimenticato e che certamente la festa delle Capanne in qualche modo richiamava. Il primo Tempio, poi, fu costruito in sostituzione della Tenda in cui dimorava l'Arca dell'Alleanza (2Sam 7,1-3; 1Re 8,17-21), che aveva accompagnato Israele nel suo lungo peregrinare nel deserto. Una Tenda e un Tempio che Jhwh aveva riempito della sua Shekinah, della sua presenza gloriosa (Es 33,9-10; Ez 10,4). Tenda, Tempio e festa delle Tende costituiscono pertanto nel cuore dell'israelita un trinomio sacro e inscindibile. L'autore della Lettera agli Ebrei riprende proprio questa immagine della Tenda e del Tempio per indicare come questi fossero figura di un'altra Tenda e di un altro Tempio non costruiti da mano d'uomo, con i quali indicava l'incarnazione di Gesù, quale luogo storico in cui dimorava la Shekinah, la presenza gloriosa di Dio (Eb 8,1-2; 9,1-15), come testimonia il racconto sinottico della trasfigurazione24. Anche qui sembra esserci un'allusione alla festa delle Capanne in quella esortazione di Pietro a fare tre tende o comunque un richiamo alla Tenda dove dimorava l'Arca dell'Alleanza e su cui scendeva la nube della presenza di Jhwh25. Giovanni stesso del resto in 1,14a, parlando dell'incarnazione del Logos dice che egli “si attendò tra noi” (™sk»nwsen ™n ¹m‹n, eskénosen en imîn), richiamando in qualche modo l'attendamento di Jhwh in mezzo al suo popolo durante il suo peregrinare nel deserto. Gesù, infine, nuova Tenda e nuovo Tempio non costruiti da mano d'uomo, già prefigurato nell'antica Tenda e nell'antico Tempio è divenuto sommo sacerdote di se stesso, che si fa offerta santa e gradita a Dio in modo definitivo, con un sacrificio unico e irripetibile (Eb 9,11-12.24-28).
Il richiamo alla festa delle Capanne o delle Tende, dunque, viene caricata di significati storici e teologici, ma prelude anche ad una loro rilettura e ricomprensione che Giovanni si appresta a dare nella figura di Gesù, collocandolo in questo contesto.
Contrasti e divisioni all'interno del gruppo familiare di Gesù
Testo (vv.3-9)
3- I suoi fratelli, dunque, gli dissero: <<Vai
(via) da qui e scendi nella Giudea, affinché anche i tuoi discepoli
vedano le tue opere che fai;
4-
nessuno infatti fa qualcosa in segreto ed egli cerca di essere in
libertà di parlare.
Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo.
5- Infatti, neppure i suoi fratelli credevano in lui.
6- Pertanto dice loro Gesù: <<Il mio tempo non è
ancora venuto, ma il vostro tempo è sempre pronto.
7- Il mondo non può disprezzare voi, ma disprezza me,
poiché io testimonio di lui che le sue opere sono malvagie.
8- Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa,
poiché il mio tempo non è ancora compiuto>>.
9- Ora, dopo aver loro detto queste cose, rimase nella
Galilea.
Note generali
La pericope in esame è delimitata da un'inclusione data da due movimenti uguali contrari nei vv.3.9: “scendi in Giudea” e “rimase in Galilea”, che danno il tono di contrasto che caratterizza l'intera pericope e che si riflette nelle espressioni “il mio tempo”-”il vostro tempo”; “non è ancora venuto”- “è sempre pronto”; “Salite voi”-“io non salgo”.
Strutturalmente la pericope si suddivide in due parti,
separate al v.5 dal commento dell'autore, che precisa come neanche i
suoi fratelli credevano in lui.
Commento ai vv.3-9
I Sinottici Matteo e Luca, Marco ne fa solo un vago accenno in 1,12-13, riportano il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto26, attraverso le quali egli veniva sottoposto ad una dura prova27 e spinto ad una scelta radicale circa il modo di compiere la sua missione: compierla attraverso azioni portentose ed eclatanti proprie della sua divinità, rendendo in tal modo incontrastabili la sua parola e la sua azione, facilitando così la sua missione, che sarebbe stata coronata da un pieno successo; o seguire la logica della sua incarnazione, che lo vedeva un essere fragile, discutibile, equivoco28, soggetto al fallimento, alla sofferenza e alla morte (Fil 2,6-8). Egli preferì questa seconda soluzione, conformandosi al disegno del Padre e rimettendosi alla sua volontà (Mt 26,42; Lc 22,42), perché, parafrasando 2Cor 12,9-10, dalla debolezza dell'uomo trasparisse la potenza di Dio. Dio infatti “[...] ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1Cor 1,27).
Similmente
alle tre tentazioni29
sinottiche, accomunate tra loro dalla prospettiva di un messianismo
facile e trionfale, così come era pensato e atteso dalla tradizione
giudaica, Giovanni, secondo logiche narrative proprie, ne riproduce
lo spirito con questa breve pericope, che vede Gesù scontrarsi con i
suoi fratelli, così come si scontrò con Pietro che, riconosciutolo
come il Cristo, lo invitava a rifuggire da un messianismo sofferente
e perdente30.
Questi, similmente, lo incitano a salire a Gerusalemme, molto
affollata in quel frangente a motivo della festa delle Capanne; una
festa molto sentita dalla gente anche perché Dt 16,16-17 faceva
obbligo ad ogni maschio di recarsi in pellegrinaggio al Tempio per
compiere un'offerta a Jhwh durante le feste della pasqua, della
pentecoste e delle capanne. Uno scenario quindi quanto mai opportuno
in cui Gesù poteva manifestarsi come un taumaturgo strabiliante,
raccogliendo consensi e aumentando così la propria popolarità,
magari aprendo alla possibilità di essere riconosciuto ed acclamato
come messia, che secondo certe attese, le cui origini non sono molto
chiare, doveva apparire proprio durante questa festività. Non è un
caso infatti che proprio durante questa festività si colleghi più
volte Gesù al Cristo e ci si interroghi su di lui in tal senso
(vv.26.31.40.41a). Perché dunque non approfittarne? Del resto una
cosa simile già era successa durante la prima pasqua, allorché dei
concittadini di Gesù lo accolsero festosi dopo averlo visto operare
a Gerusalemme durante la pasqua (4,45).
la prima parte (v.3) comprende l'invito da parte dei fratelli di Gesù a scendere in Giudea, la cui finalità era il suo manifestarsi ai suoi discepoli per mezzo delle sue opere. Chi sono questi fratelli di Gesù e a quali discepoli essi alludono? Quanto ai fratelli essi vanno intesi in senso carnale. Il termine ¢delfÒj (adelfós) infatti compare nel N.T. 343 volte e in tutti i casi il termine indica soltanto due tipologie di persone: i fratelli in senso carnale e, a seconda del contesto, indica i fratelli di fede. In nessun caso, comunque, viene usato per indicare la parentela né in senso stretto né in quello più generico. Del resto il greco possiede una ventina di termini specifici per indicare le varie sfumature dei diversi gradi di parentela, non si comprenderebbe quindi perché l'evangelista, che scrive in greco, debba usare il termine “¢delfÒj” per indicare la parentela di Gesù31. In questo il greco è molto preciso. Quanto ai discepoli, questi non sembrano riferirsi al gruppo dei Dodici, che già hanno avuto modo di constatare la potenza del loro Maestro a partire dalle nozze di Cana, il cui racconto termina con il significativo commento dell'autore: “Gesù fece questo inizio dei segni in Cana della Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11). Ma essi furono testimoni anche della guarigione del figlio del funzionario regio (4,46-54), della moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,1-13) e, infine, della deambulazione di Gesù sulle acque del lago di Tiberiade (6,16-21); e certamente di altri segni che vengono sommariamente citati in 2,23 e compiuti durante la prima pasqua (2,13). Del resto in 20,30 l'autore avverte il suo lettore che “Gesù in presenza dei [suoi] discepoli fece certamente molti e altri segni, che non sono stati scritti in questo libro”. I Dodici o comunque i più fedeli seguaci di Gesù non avevano bisogno di vedere all'opera il loro Maestro, in cui hanno già dato la loro adesione di fede sia in 2,11 che in modo solenne in 6,68-69. I discepoli a cui i fratelli di Gesù alludono sono quelli qualificati dal verbo “qewr»sousin” (tzeorésusin, affinché vedano). Questo verbo, se da un lato indica un vedere riflessivo, attento, un vedere che si interroga, dall'altro significa anche assistere, essere spettatore dell'operare miracoloso e spettacolare di Gesù, che avrebbe dovuto deciderli per la sequela, ingrossando così le fila dei suoi simpatizzanti. È lo stesso verbo che l'autore usa per definire quelli che si erano decisi di seguire Gesù avendo visto i segni che egli compiva e verso i quali Gesù aveva mostrato tutta la sua diffidenza e la sua disistima (2,23-25). Questi discepoli, quindi, sono probabilmente dei simpatizzanti di Gesù, quelli che probabilmente facevano parte di quella folla anonima che durante la festa delle capanne si chiedeva dove fosse Gesù (v.11) o che in qualche modo lo stimava (vv.12b.15.31.40-41a.46.50-51), ma che ancora non si erano decisi di uscire allo scoperto, benché in qualche modo fossero impressionati dalla sua attività miracolistica e ammagliati dalla sua personalità, ma ancora ben lontani da una autentica adesione di fede e da una sequela sincera. Si trattava probabilmente di persone che in qualche modo erano, benché superficialmente, legate a Gesù. Essi, infatti, vengono definiti come “i tuoi discepoli”.
La seconda parte (v.4) mette in evidenza un'apparente contraddizione nel comportamento di Gesù, che da un lato sembra non voler dare vistosità al suo operare miracoloso, per cui, come nel caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci, rifugge ogni attestazione pubblica circa il suo operato da parte della gente (6,14-15); ma dall'altro cerca di manifestarsi per quello che egli è veramente, cioè il Cristo e Figlio di Dio (4,25-26; 5,18; 10,33.36). Questo comportamento per i fratelli, che non hanno colto il significato e la finalità dei segni, è una contraddizione, un'ambiguità incomprensibile, che spazientiva le stesse autorità religiose che gli chiedono, una volta per tutte, di dire chiaramente chi egli sia veramente (10,24; Mt 26,63; Mc 14,61; Lc 22,67). Per questo in 4b i fratelli invitano Gesù a rompere gli indugi e a manifestarsi per quello che egli è veramente, imponendosi con la sua potenza taumaturgica in mezzo alla gente e di fronte alle autorità. È molto probabile che la critica qui mossa dai fratelli sull'ambiguità del comportamento di Gesù e del suo continuo tentennamento, da cui non traspare mai con chiara certezza chi egli veramente sia e che cosa voglia concretamente, abbia delle basi storiche reali, poiché tutti i vangeli sono concordi su questo32. Un tentennamento che probabilmente ha le sue radici più vere nello stato di coscienza che Gesù ha avuto della propria identità. Che egli avesse avuto coscienza di essere un uomo è fuori discussione; in quanto tale egli ha subito il processo di crescita e di maturazione proprio di un essere umano; ma che egli avesse avuto anche la piena coscienza di essere il Cristo di Dio, Figlio di Dio e Dio lui stesso, generato dal Padre e da lui inviato per compiere la sua missione, credo che tutto ciò non sia stato immediato, ma abbia richiesto l'intera sua vita per poterlo se non capire pienamente almeno intuirlo con un sufficiente livello di certezza. Anche il senso della sua missione non gli fu immediatamente chiaro, credendo di essere stato inviato per la sola casa di Israele (Mt 10,5-6; 15,24.26); soltanto in un secondo momento egli capirà che il vero Israele sono coloro che credono in lui (Mt 8,5-13; 15,22-28). La coscienza della propria identità nasce sempre attraverso un processo piuttosto complesso di confronto-scontro tra il sé e l'altro da sé; ma in quale modo Gesù è pervenuto alla coscienza della sua divinità e della missione da compiere quale inviato diretto e personale del Padre? Forse il confronto con le Scritture? La lettura dei Profeti? Il suo relazionarsi al Padre attraverso la preghiera? Tutte cose queste che forse provocavano in lui forti vibrazioni o strane sensazioni, aprendogli un po' alla volta la mente e facendogli nascere lentamente dall'interno la coscienza della sua appartenenza divina. Certo è da escludersi la sua onniscienza o una sua qualche scienza o coscienza infuse dall'alto, come in abbondanza ci ammannisce la letteratura apocrifa. Gesù fu vero uomo e non un superuomo o una sorta di eroe onnipotente e invincibile. Luca in merito per ben due volte insiste nel dire che Gesù, alla pari del Battista (Lc 1,80), cresceva e si fortificava in età, in sapienza, in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini (Lc 2,40.52); ed è sempre Luca che ci racconta del terrore che travolse Gesù nel Getsemani (Lc 22,44); mentre Marco racconta che l'ultimo atto di Gesù immediatamente prima di morire fu un forte grido (Mc 15,37), forse di dolore, forse di disperazione e di rabbia per l'abbandono anche del Padre (Mt 27,46; Mc 15,34).
La terza parte (v.5) conclude il breve racconto dei fratelli di Gesù con un'amara annotazione dell'autore: “Infatti, neppure i suoi fratelli credevano in lui”. Il v.5 si apre con un “g¦r” (gàr, infatti) dichiarativo che dà all'intero versetto un senso esplicativo, fornendo la chiave di lettura del comportamento dei fratelli di Gesù: essi esortarono in tal modo Gesù perché non credevano in lui; ma forse è meglio dire che ancora non avevano colto la reale portata di Gesù, il senso vero della sua missione e del suo operare. Non sorprende questo commento da parte del narratore, che già aveva sottolineato a modo suo la difficoltà che Maria ebbe di comprendere suo figlio alle nozze di Cana; ma anche altrove leggiamo come Maria assieme ai fratelli di Gesù si recarono da lui per portarselo a casa, perché lo ritenevano fuori di testa (Mc 3,21.31)33. Per comprendere l'incredulità e la diffidenza, almeno iniziali, di Maria, dei fratelli e dei parenti in genere di Gesù, nonché dei suoi concittadini nei suoi confronti è necessario spogliare il Gesù giunto a noi, avvolto da duemila anni di riflessioni teologiche e sintesi dottrinali e dogmatiche, per rendersi conto del personaggio alquanto singolare, difficile, enigmatico, equivoco, che traspare dai vangeli e tale da far decidere le autorità religiose di eliminarlo per la sua pericolosità sociale e religiosa (Gv 11,47-50)34. L'incredulità dei fratelli viene espressa con un verbo all'imperfetto indicativo che dice la persistenza di questo loro comportamento; ma ciò che più dice di questa loro incredulità è la particella che segue il verbo “e„j aÙtÒn” (eis autón, in lui); essa indica un moto verso luogo, definendo il credere come un orientamento esistenziale verso Gesù, che ancora non c'era nei suoi fratelli. Va tuttavia detto che nel tempo essi ebbero un ripensamento e divennero a loro volta seguaci di Gesù e li ritroviamo, per l'ultima volta, riuniti nel Cenacolo, in preghiera, assieme ai Dodici e a Maria (At 1,13-14); due di loro, Giacomo e Giuda, divennero poi personaggi di rilievo all'interno della chiesa.
I vv.6-8 costituiscono la seconda parte della pericope 7,3-9 e riportano la risposta di Gesù ai propri fratelli, delimitata dall'inclusione data dall'espressione “Il mio tempo non è ancora venuto/compiuto” in vv.6a.8b. Questi versetti sono caratterizzati da un forte contrasto35 che contrappone Gesù ai fratelli e da cui emerge il termine “tempo”, reso in greco con “kairÒj” (kairós) ripetuto tre volte. Non si tratta del tempo comunemente inteso, quello scandito dal calendario e dall'orologio, per il quale il greco usa il termine “crÒnoj” (crónos), ma di un particolare tempo definito dal suo contenuto. Si tratta di un tempo giusto, opportuno, la buona occasione, il momento propizio. Questo tempo è qualificato da due aggettivi possessivi tra loro contrapposti “il mio”-”il vostro”, che collocano questo tempo in due campi avversi, perché diversi sono i contenuti di questo tempo: quello di Gesù è scandito dal disegno salvifico del Padre, che Gesù sta attuando nella sua stessa persona. Il tempo di Gesù dunque è quello del Padre; un tempo che non gli appartiene, per questo Gesù non può muoversi secondo le logiche umane. Già per questo fu rimproverato Pietro, accusato da Gesù di essere un satana perché pensava come gli uomini e non come Dio (Mt 16,23; Mc 8,33); mentre Is 55,8 lamentava la necessità per Israele di convertirsi perché “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – dice il Signore”. L'espressione “kairós” riferito, qui al v.6a, a Gesù è un sinonimo dell'ora di Gesù, il tempo della sua passione e morte e della sua glorificazione, il punto culminante di questo “kairós” verso cui tutto l'esserci di Gesù tende ed è giustificato: “Ora la mia anima è turbata. E cosa dico? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo venni, per quest'ora” (12,27). Il verbo che accompagna questo “kairós” è “p£restin” (párestin), che corrisponde al latino “adest” e significa “essere presente”. Il tempo qui indicato pertanto “non è ancora presente” e, quindi, non ancora giunto. Il riferimento all'ora è pertanto evidente. Diverso significato acquista il secondo “kairós” al v.8b; esso non riguarda l'ora ma il progetto salvifico del Padre che Gesù sta attuando in se stesso, entro il quale e al suo vertice si colloca anche l'ora, quale suo compimento definitivo. Il verbo che accompagna questo “kairós” infatti non è più “párestin”, ma “pepl»rwtai” (peplérotai). Si tratta quindi di un tempo che ancora non è giunto al suo compimento, ma che storicamente ha avuto inizio con la venuta di Gesù e in lui si sta attuando, ma la cui origine si colloca nel seno del Padre (Ef 1,4-7). Il verbo infatti è significativamente posto al perfetto indicativo che esprime uno stato presente come conseguenza di un'azione che si colloca nel passato. È proprio questo tempo, quello di Gesù, che si contrappone a “il vostro tempo”, quello dei fratelli. Anche questo tempo è reso in greco con “kairós” per indicare lo spazio che qui però non appartiene a Dio, ma agli uomini ed è determinato dalla loro volontà e sostanziato dai loro progetti, che come si è detto non sono quelli di Dio (Is 55,8); esso infatti è qualificato dall'aggettivo possessivo “vostro”. Questo tempo “è sempre pronto” proprio perché non dipende da altri, come nel caso di Gesù, ma dalla loro volontà. Il tempo di Gesù e quello dei fratelli sono tempi quindi che si posizionano su livelli completamente diversi, anzi contrapposti.
Al centro di questi diversi tempi ci sta una diversa posizione di appartenenza dei loro attori: “Il mondo non può disprezzare voi, ma disprezza me, poiché io testimonio di lui che le sue opere sono malvagie” (v.7). Gesù è uscito dal Padre ed è da lui inviato per manifestare e compiere il suo progetto salvifico (8,42; 13,3; 16,28; 17,8); l'intero suo essere, in quanto Logos, è rivolto verso il Padre fin dall'eternità (1,1.2) e verso il quale ora, in quanto Logos incarnato (1,14), è orientata l'intera sua esistenza (16,28); i due vivono in una sorta di simbiosi perfetta così che l'agire e il dire di Gesù è quello stesso del Padre; egli è azione in atto del Padre e sua Parola rivelatrice; vedere Gesù è vedere di fatto il Padre, poiché i due sono una cosa sola (14,9-11). In tale contesto i tempi in cui Gesù si sta muovendo sono scanditi dal progetto del Padre, che ha preso forma in lui e in lui si sta attuando. Per questo il mondo36 non si riconosce in Gesù e lo disprezza, perché non gli appartiene; eppure, ricorda l'autore, in un gioco di doppi sensi non privi di una sottile ironia, egli era nel mondo (luogo fisico) e il mondo fu fatto da lui (creazione), ma il mondo (uomini) non lo riconobbe (1,10).
Il verbo “disprezzare” è qui reso in greco con “misšw” (miséo), che ha un significato molto denso indicando un disprezzo carico di odio e che richiama da vicino il quarto canto del Servo di Jhwh37: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità” (Is 53,3-5a). Il verbo “miséo” pertanto richiama da vicino l'ora di Gesù, non ancora giunta (1° kairós,v.6a), ma nel quale essa è già in qualche modo presente, e verso la quale Gesù è incamminato (2° kairós,v.8b).
La seconda parte del v.7 inizia con la congiunzione “Óti” (óti, poiché, per questo che), che dà un senso esplicativo all'intera frase e costituisce il motivo di tanto odio verso Gesù: “poiché io testimonio di lui che le sue opere sono malvagie”. Si tratta di una testimonianza che ha una valenza carica di accusa e con cui Gesù instaura una sorta di giudizio di condanna del mondo, perché porta allo scoperto la malvagità delle sue azioni, che sono in totale dissonanza con il piano salvifico che si sta attuando in lui, poiché il mondo appartiene ad un “kairós” che è contrapposto a Dio: “il mio … il vostro” (v.6). L'argomento non è nuovo e in qualche modo si richiama ai vv.3,19-20: “Ora questo è il giudizio, che la luce è venuta nel mondo e gli uomini amarono più la tenebra che la luce, poiché le loro opere erano malvagie. Infatti, chiunque compie cose malvagie odia la luce e non va verso la luce, affinché le sue opere non siano biasimate”.
Il v.8 conclude la risposta di Gesù ai fratelli: “Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, poiché il mio tempo non è ancora compiuto”. Gesù dunque formula la sua decisione: lascia ai fratelli di muoversi liberamente secondo i loro progetti, poiché essi appartengono ad un altro “kairós”, da cui egli si dissocia perché totalmente diverso è il “kairós” in cui egli si muove. Significativa infatti è la conclusione che trae per se stesso; significativa perché allusiva: “io non salgo a questa festa”. Il salire di Gesù nel linguaggio evangelico allude alla sua salita a Gerusalemme dove dovrà soffrire e morire e dove risorgerà. Il salire di Gesù, quindi, allude al compiersi dell'ora, che ancora non si è compiuta, benché stia camminando verso di essa. Significativa anche la sottolineatura “questa festa”, lasciando intendere che la sua salita avverrà in un'altra festa, quella della terza pasqua (11,55), in cui si compirà l'ora (12,23; 13,1; 17,1) e con essa anche il suo “kairós”.
Il v.9, riportando la voce del narratore, conclude la prima diatriba tra Gesù e i suoi fratelli, informando i lettori che “Gesù rimase nella Galilea”; una conclusione che ci si aspettava e che si contrappone all'esortazione iniziale dei fratelli di “scendere nella Giudea” (v.3), rilevando il contrasto e l'inintelligenza che divideva la stessa famiglia di Gesù, a cui farà riscontro parallelamente la diatriba e la divisione in seno alle autorità giudaiche (vv.45-53), con cui si concluderà il cap.7.
Interrogativi e mormorii su Gesù
Testo (vv.10-13)
10- Ma quando i suoi fratelli salirono alla festa,
allora anch'egli salì non apertamente, ma come di nascosto.
11- I Giudei, dunque, lo cercavano durante la festa e
dicevano: <<Dov'è quello?>>.
12- E tra le folle c'era molto mormorio su di lui;
alcuni dicevano che è buono, altri, invece, dicevano: <<No, ma
inganna la folla>>.
13- Comunque nessuno parlava liberamente di lui per la
paura dei Giudei.
Note generali
Questa breve pericope ha la funzione narrativa di presentare il clima di tensione che si percepiva attorno a Gesù: da un lato i Giudei si interrogano sul “Dov'è quello” (v11); un interrogativo che in qualche modo allude allo smarrimento delle autorità giudaiche, che non sanno dove collocare Gesù nel quadro sociale e religioso che caratterizzava il giudaismo; esse infatti non sanno dove “quello” si trovi. L'uso del pronome al posto del nome dice proprio questa loro inintelligenza circa la persona di Gesù; dall'altro, si hanno le folle (v.12), nome collettivo anonimo, che dice la generalità della gente, che si presenta come una società nettamente divisa su Gesù: “è buono”-“è un ingannatore”. Questa genericità delle definizioni di Gesù e l'anonimato delle folle danno l'idea di una sorta di statistica, di sommario generale sulla situazione che si era venuto a creare attorno a Gesù. Infine, sullo sfondo l'autore annota che il tutto si muove in un clima di paura delle autorità giudaiche (v.13), che avevano decretato l'espulsione dalla sinagoga chi avesse riconosciuto Gesù come il Cristo (9,22; 12,42); quindi anche il parlarne poteva essere sospetto. Questo clima di tensione, al cui interno si muovono inintelligenza e divisioni, anticipa e introduce in qualche modo i singoli quadri seguenti, che ne diventano una sorta di illustrazione dettagliata.
Commento ai vv.10-13
La pericope precedente (vv.3-9), dopo aver narrato dello scontro tra Gesù e i suoi fratelli, si concludeva con una netta presa di posizione di Gesù nei loro confronti e la sua decisione irrevocabile di rimanere in Galilea (vv.8-9). Sennonché il v.10 annota che non appena “i suoi fratelli salirono alla festa, allora anch'egli salì non apertamente, ma come di nascosto”. Un comportamento chiaramente contraddittorio; il fatto poi che lo faccia di nascosto, quasi che non voglia farsi prendere in fallo dai fratelli, lo fa apparire anche incredibile. Se poi si pensa che nel bel mezzo della festa egli sale al tempio e si mette ad insegnare pubblicamente (v.14), vanificando quindi i suo nascondimento, allora il suo comportamento diventa anche sconcertante. Ma qui Giovanni non sta raccontando la storiella di Cappuccetto Rosso, ma sta facendo una narrazione teologica ad alto livello. Si rende pertanto necessario saper leggere tra le righe il suo intento.
Lo scontro tra Gesù e i suoi fratelli verteva sul fatto che i fratelli lo incitavano a manifestarsi apertamente alla gente e alle autorità giudaiche con segni portentosi all'interno di una grande festa, quella delle Capanne, molto frequentata. Ciò che Gesù rifiuta non è il salire a Gerusalemme per la festa, che peraltro, secondo Dt 16,16, era anche reso obbligatorio per gli ebrei maschi, ma l'attuare la manifestazione solenne della sua messianicità e della sua regalità secondo logiche squisitamente umane, mettendosi in tal modo in rotta di collisione con il disegno del Padre. Per questo egli aveva affermato “io non salgo a questa festa” (v.8a), poiché non era questo il tempo della sua manifestazione, bensì la terza pasqua (11,55); qui egli si sarebbe manifestato, acclamato messia e re dalle folle (12,12-15). Sapendo poi che le autorità giudaiche tramavano di ucciderlo (5,18; 7,1.19.25) il rischio concreto sarebbe stato di anticipare l'ora, ponendosi fuori dal “kairós” del Padre. Non a caso la diatriba con i fratelli si conclude con l'asserzione di Gesù che “ il mio tempo non è ancora compiuto” (v.8b). E sarà proprio questa la motivazione che lo farà decidere di rimanere in Galilea (v.9b). In alcun modo il piano del Padre, di cui egli era l'incarnazione attuativa, doveva essere violato. Ora diviene più semplice spiegare l'apparente contraddizione del v.10.
Il v.10 narra di due salite a Gerusalemme tra loro separate: quella dei fratelli di Gesù e quella di Gesù stesso. Le due salite avvengono in tempi diversi: prima salgono i fratelli, poi Gesù. Questa diversità di tempi rispecchia la diversità dei due “kairós” (v.6); ma diverse sono anche le modalità dell'ascesa: su quella dei fratelli non si dice nulla; su quella di Gesù l'autore annota che “egli salì non apertamente, ma come di nascosto”. La sottolineatura “non apertamente” seguita dalla precisazione “ma di nascosto” sembra una tautologia. In realtà l'autore richiama qui in modo conciso la diatriba tra Gesù e i suoi fratelli che a quanto pare, come si è detto poc'anzi, non riguardava il salire o il non salire a Gerusalemme, ma la modalità del salire: tra gli applausi della gente per i mirabolanti segni compiuti da Gesù, come suggerivano i fratelli; o, per contro, nel silenzio, nell'attesa del compiersi del tempo e dell'ora, come voluto da Gesù. A confronto, quindi, vi sono due tipologie di salita, evidenziate dalle due espressioni avverbiali poste tra loro a confronto “oÙ fanerîj ¢ll¦ [æj] ™n kruptù” (u fanerôs, allà [os] en kriptô) che denunciano due modi opposti di intendere la realizzazione del piano della salvezza, secondo logiche umane e secondo logiche divine. Le due espressioni avverbiali (“non apertamente, ma come di nascosto”), potrebbero pertanto tradursi come “Gesù salì a Gerusalemme non in modo eclatante, come volevano i suoi fratelli; ma di nascosto, nel rispetto della volontà del Padre”. Questa sottolineatura, pertanto, va a chiarire l'apparente contraddittorietà del comportamento di Gesù, che dapprima decide di non salire, mentre poi vi sale. L'accento pertanto non va posto sul salire a Gerusalemme, bensì sulle modalità del salire.
Il v.11 delinea un primo contesto ambientale: “I Giudei, dunque, lo cercavano durante la festa e dicevano: <<Dov'è quello?>>”. Il termine Giudei38 non sembra assumere qui quella connotazione negativa che solitamente in Giovanni accompagna tale nome, ma indica soltanto gli abitanti della Giudea. Il loro comportamento infatti non viene presentato in modo negativo, ma è qualificato dal verbo “™z»toun” (ezétun), che se in senso generico significa “cercare”, nel suo significato più specifico significa “vado alla ricerca di; cerco di conoscere, di scoprire, investigo su; desiderare di conoscere, sentire desiderio di”; il verbo posto poi all'imperfetto indicativo delinea il persistere di questo atteggiamento di ricerca che qualifica questi Giudei. È probabile che Giovanni qui stia pensando ai giudeocristiani che compongono la sua comunità e che ancora non avevano colto la novità di Gesù rispetto all'antico culto da cui essi provenivano e, quindi, continuavano a cercarlo al suo interno, ma senza ottenerne risposta. Essi infatti “lo cercavano durante la festa”. Ma non è da escludersi che qui Giovanni stia pensando anche a quella parte del giudaismo favorevole a Gesù. Essi sembrano essere desiderosi di conoscere quel Gesù che di fatto non conoscono se non per sentito dire; una ricerca che si esprime in quel “Dov'è quello?”. Si noti come qui non viene citato il nome di Gesù, ma il pronome che lo indica: “quello”. Se si considera come per il mondo semitico il nome dice l'essenza di una persona e definirla per nome significa quasi un possederla nella profondità del suo essere, si comprende allora come per loro la conoscenza di Gesù sia alquanto superficiale. Una ricerca che avrà la sua risposta nella pericope parallela a questa, in cui Gesù è riconosciuto dalla gente come il Profeta e il Cristo (vv.37-43).
Con i vv.12-13 viene presentato un secondo spaccato del contesto entro cui Gesù si muoveva: da un lato vi è un sostenuto mormorio che serpeggiava tra le folle e che creava tra loro un profondo disaccordo sulla discussa figura di Gesù, che l'autore sintetizza in due giudizi contrapposti: “è buono”; “No, ma inganna la folla”; un'attestazione quest'ultima che si ritroverà sulla bocca delle autorità religiose che sferzano duramente i servi per non aver eseguito l'ordine di arresto di Gesù (v.32), accusandoli di essersi lasciati ingannare (v.47). Nei racconti sinottici si ritroverà questa accusa nel giudizio che si terrà davanti al sommo sacerdote (Mt 27,63; Lc 23,2). Di fatto questo mormorio costituisce una sorta di giudizio che si compie tra la gente e che in qualche modo richiama la lucana figura di Simeone che annuncia a Maria come questo Gesù sia posto in mezzo al popolo come segno di contraddizione, per la rovina e la salvezza di molti (Lc 2,34). Dall'altro lato, l'autore presenta lo sfondo minaccioso in cui si muovevano i seguaci di Gesù e coloro che in qualche modo simpatizzavano per lui: “Comunque nessuno parlava liberamente di lui per la paura dei Giudei”. Sappiamo infatti da 9,22; 12,42; 19,38 e 20,19 come i Giudei avessero stabilito che chiunque avesse riconosciuto Gesù come un messia o se ne fosse fatto in qualche modo seguace sarebbe stato espulso dalla sinagoga, decretandone di fatto la morte civile e religiosa. Il clima che si era dunque instaurato attorno a Gesù era di disaccordo, di divisione e di paura per possibili gravi sanzioni e ritorsioni. Una pericope questa che trova la sua eco parallela in 7,31-36 dove la gente mormora sulla messianicità di Gesù così che le autorità religiose ordinano l'arresto di Gesù.
Gesù, la conoscenza e l'insegnamento che vengono da Dio
Testo (14-18)
14- Ora, quando la festa era già a metà, Gesù salì
al tempio e insegnava.
15-
Pertanto i Giudei stupivano dicendo:<<Come
costui conosce
le Scritture non avendo studiato?>>
16- Rispose, dunque, loro Gesù e disse: <<Il mio
insegnamento non è mio, ma di colui che mi ha mandato;
17-
se uno vuole fare la sua volontà, conoscerà,
quanto all'insegnamento, quale è da Dio o (se) io parlo da me
stesso.
18- Colui che parla da
se stesso cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui
che lo ha mandato, questi è veritiero e in lui non vi è
ingiustizia.
Note generali
Questa pericope richiama molto da vicino il racconto di Lc 2,46-50 dove Gesù, nel tempio, seduto in mezzo ai dottori della Legge li ascoltava e li interrogava e tutti si stupivano per la sua intelligenza e per le risposte che dava; e ai genitori, preoccupati per la sua sparizione, risponde che egli deve occuparsi delle cose del Padre suo. Questa sua attività dunque è legata al Padre e ha a che fare con lui. Similmente anche qui Gesù si trova nel tempio e insegna tra lo stupore degli ascoltatori che si interrogano sull'origine della sua sapienza. Anche qui la risposta che Gesù indica come il suo sapere è strettamente legato al Padre e ha a che fare con lui.
La finalità di questo breve racconto è, dunque, mettere in rilievo come il dire di Gesù è lo stesso dire del Padre (v.16), creando una sorta di identificazione tra Gesù e il Padre, che rimanda in qualche modo a 14,9-11, dove Gesù, rispondendo alla curiosità di Filippo, gli dice: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse”. Il v.16 pertanto costituisce il cuore di questa pericope, che vi ruota attorno con una struttura a parallelismi concentrici in C). Si tratta di un parallelismo complementare in cui A) e B) si completano nei loro corrispondenti A') e B')
A) v.14: nel cuore della festa, Gesù sale al tempio e impartisce il suo insegnamento;
B) v.15: i Giudei stupiscono dell'insegnamento e si interrogano sulla sua provenienza;
C) v.16: Gesù svela l'origine del suo insegnamento: questo viene dal Padre ed è suo;
B') v.17: per conoscere l'origine del sapere di Gesù è necessario compiere la volontà del Padre;
A') v.18: l'insegnamento di Gesù è veritiero perché egli non cerca la propria gloria, ma quella del Padre.
I versetti in A) e A') si completano tra loro: il v.14 infatti mostra Gesù che insegna nel tempio, mentre il v.18 dice come questo insegnamento sia veritiero, fornendone la motivazione; il v.15 (B) riporta la domanda circa l'origine del sapere di Gesù, mentre il v.17 (B') fornisce la chiave per conoscerne l'origine: fare la volontà del Padre; come dire, solo mettendosi in sintonia con il Padre si scoprirà come l'insegnamento di Gesù lo riflette in se stesso. Il v.16, in C, si colloca al centro ed è il punto di convergenza dell'intera pericope, che rivela l'origine del sapere di Gesù: “Il mio insegnamento non è mio, ma di colui che mi ha mandato”.
Commento ai vv.14-18
Il v.14 funge da cornice introduttiva di questa pericope riguardante la natura dell'insegnamento di Gesù. Questo viene collocato nella sacralità del culto giudaico, ed esattamente nel suo cuore. La sua salita al tempio infatti avviene allorché la festa è giunta a metà del suo svolgersi39 e in qualche modo scandisce il tempo dell'agire di Gesù. Ci troviamo infatti di fronte ad un genitivo assoluto (tÁj ˜ortÁj mesoÚshj, tês eortês mesúses), che per sua natura forma da premessa e da contesto all'azione che segue e in cui questa azione viene collocata40. L'azione di Gesù è scandita in due momenti, segnati da due diversi tempi verbali: un aoristo (“salì”) e un imperfetto indicativo (“insegnava”). Se il primo tempo definisce un'azione compiuta, l'imperfetto dice un'azione che si protrae nel tempo. In altri termini, Gesù già si era riappropriato della casa di suo Padre in 2,13-16, sottraendola ai commerci umani e riconsacrandola alle attività proprie di suo Padre. Un tempio che in quel contesto divenne annuncio e prefigurazione di un altro tempio, rinnovato dalla potenza dello Spirito (2,21-22). Questo salire di Gesù al tempio posto all'aoristo e nel bel mezzo delle celebrazioni cultuali, dice l'insediarsi di Gesù all'interno del culto giudaico, dal quale promana il suo insegnamento, che poi si scoprirà essere quello del Padre (v.16). Dio, dunque, come ai tempi di Mosè sul Sinai e nella Tenda del convegno, è ritornato in mezzo al suo popolo per impartire in modo stabile e continuativo il suo insegnamento (verbo all'imperfetto indicativo). Un passaggio questo che verrà sottolineato dal v.15 con lo stupore circa l'insegnamento e sulla sua origine.
Il v.15 mette in rilievo come l'agire di Gesù sia l'operare di Dio in mezzo al suo popolo. Lo dice lo stato di stupore e di meraviglia, che accompagnano l'avvicinarsi degli uomini alla santità di Dio (Gen 28,18), e le teofanie, che pervadono gli uomini da grande timore41; lo dice l'interrogarsi sull'origine del sapere di Gesù, che non ha risposta nelle logiche umane (“non avendo mai studiato”). Il v.15 trova la sua eco anche nel mondo dei Sinottici, i cui racconti sono pervasi da continue sottolineature dello stupirsi delle folle di fronte all'operare di Gesù, al suo sapere e al suo insegnamento42. Lo stupore delle folle dunque ci riporta nel contesto delle teofanie, rafforzato dal loro interrogarsi sulla provenienza del sapere di Gesù e di conseguenza della sua identità. L'insegnamento di Gesù pertanto va compreso come il suo disvelarsi al mondo, come una sorta di teofania, che ha la sua risposta nello stupore della gente che vi assiste. E questo stupore si origina da un contrasto: una conoscenza apertamente riconosciuta ed apprezzata, ma che non ha origini umane; essa infatti non si radica nel sapere acquisito attraverso lo studio. Questo aspetto qui sottende altri due interrogativi: da dove dunque proviene il suo sapere? Chi è veramente questo rabbì? Saranno i vv.16-18 a darne la risposta.
Va posto un chiarimento sull'espressione, che può risultare equivoca: “Come costui conosce le Scritture non avendo studiato?”. Il termine “gr£mmata” (grámmata), da me tradotto con “Scritture”, significa di per sé “scritti, libri, trattati, leggi scritte” e simili; di conseguenza sembrerebbe che la gente si interroghi sul sapere umano di Gesù, come dire come fa costui ad essere così dotto se non ha nessun titolo di studio. Anche se l'espressione porta a comprendere questo, tuttavia il contesto storico dice una cosa ben diversa. Il sistema scolastico obbligatorio ai tempi di Gesù era già funzionante. Per essere un buon ebreo osservante era necessario che questi sapesse leggere e comprendere la Torah. In tal senso rabbì Simeon ben Shetach (120-40 a.C.), studioso fariseo e capo del sinedrio sotto il regno di Alessandro Ianneo (103-76 a.C.), favorì la fondazione nelle grandi città di scuole primarie con indirizzo religioso, in cui si insegnava a leggere e a scrivere ai fini dell'apprendimento della Torah e della sua pratica. Fino a quel tempo, anche se si mantenne successivamente, l'insegnamento della Torah era affidato esclusivamente al padre secondo le disposizioni della stessa Torah43, su di lui incombeva il dovere dell'istruzione. Poiché non tutti i padri erano in grado di assumersi l'onere di un adeguato insegnamento, né tutti i cittadini erano in grado di pagarsi un tutore, si avvertì ben presto la necessità di avere una struttura pubblica che assolvesse a tale compito educativo in modo diffuso e uniforme. L'insegnamento era esclusivamente orientato ai testi religiosi. Si trattava di imparare a leggere e a comprendere i testi sacri. I bambini erano obbligati alla frequenza dall'età di sei/sette anni. Successivamente alla formazione della Mishnah (II sec. d.C.), il trattato pirqé Abot (5,21) scandiva le tappe fondamentali dell'educazione pubblica dei fanciulli: “a cinque anni alla Bibbia, a dieci anni alla Mishnah, a tredici anni ai comandamenti, a quindici anni al Talmud, a diciotto anni al matrimonio”. Benché questa specie di calendario formativo sia databile intorno al II sec. d.C. e quindi molti decenni dopo la venuta di Gesù, tuttavia, esso riporta e codifica in sé antiche tradizioni. È quindi pensabile che Gesù avesse frequentato questa scuola dell'obbligo che si teneva presso la sinagoga locale e pertanto sapesse leggere e scrivere e avesse almeno una rudimentale conoscenza generica della Torah e dei doveri che essa imponeva. Lo stupore per la sua conoscenza “senza aver studiato” non va riferita pertanto al suo livello culturale primario o di base, comune alla generalità degli ebrei, ma alla sua capacità d'insegnamento delle Scritture. Al v.14 infatti si attesta che egli, entrato nel tempio, si mise ad insegnare. Questo comportamento era proprio dei dottori della Legge, che tali erano dopo aver seguito un percorso formativo abbastanza semplice e pratico e che verrà perfezionato e istituzionalizzato dopo il 70 d.C. La prassi formativa era scandita in due momenti: a) la convivenza con il maestro, che il discepolo si sceglieva; questa serviva a far apprendere un modo di vivere: come vestirsi, come parlare, come comportarsi e come relazionarsi. Per il discepolo infatti il maestro era una sorta di Torah incarnata, che egli doveva riprodurre nella propria vita, acquisendone lo stile. Questa prima fase è detta “servizio dei discepoli”, nel senso letterale del termine. Soltanto dopo averla superata, il discepolo poteva “sedersi di fronte al maestro”, cioè dedicarsi allo studio e all'apprendimento. La convivenza con il maestro serviva a metterlo in comunione con lui, per poter poi diventare un prosecutore della sua scuola. b) Il secondo momento, quello propriamente didattico, si compiva presso la “Bet ha-Midrash”. È questo percorso di studi che Gesù quasi certamente non aveva compiuto e a questo tipo di studi i Giudei dovevano riferirsi quando affermarono “Come costui conosce le Scritture non avendo studiato?”. Di conseguenza il termine “gr£mmata”, in questo contesto, ho preferito tradurlo con “Scritture”44.
v.16: Nell'ambito della struttura della pericope in esame (vv.14-18), il v.16 ne è il cuore attorno a cui essa ruota. Tale versetto è composto da due parti tra loro contrapposte, la cui funzione è mettere in rilievo la vera origine di tale insegnamento: “Il mio insegnamento non è mio, ma di colui che mi ha mandato”. Significativo è il gioco dell'aggettivo possessivo e del pronome corrispondente, che affermano e negano nello stesso tempo: “il mio … non è mio”, come dire che ciò che esce da Gesù non gli appartiene. L'attenzione, pertanto, viene reindirizzata altrove, verso la seconda parte del v.16 che si apre con una congiunzione avversativa, che la contrappone alla prima, incentrando l'attenzione del lettore su se stessa. L'insegnamento che si promana da Gesù, che il testo greco definisce “didac¾” (didaché), cioè insegnamento autorevole, ha la sua origine in “colui che mi ha mandato”. Questa circonlocuzione per definire il Padre, mette in rilevo l'aspetto mandatario che investe Gesù e che si radica nel Padre stesso, dando pertanto all'insegnamento di Gesù una grande autorevolezza in quanto manifestatrice della volontà dello stesso Padre, da cui Gesù proviene (3,13; 8,42; 16,28a.30;17,8) e al servizio del quale egli si è posto (4,34; 5,30; 6,38), così che il suo insegnamento diventa rivelazione e manifestazione dello stesso Padre (14,9-11), luogo della sua rivelazione e del suo comunicarsi agli uomini.
Il v.17 forma una sorta di risposta al v.15, in cui i Giudei stupefatti si chiedevano la natura del suo insegnamento e la sua provenienza. Gesù lancia loro una sfida che rimanda al contenuto del suo insegnamento, sottoponendolo al loro giudizio. Tuttavia, la premessa necessaria per poter adeguatamente valutare il suo insegnamento è il decidersi per Dio, accettando di conformarsi alle sue esigenze, entrando in tal modo in sintonia con Gesù, che con il Padre forma una cosa sola (10,30; 17,11.22). Soltanto in tal modo si può comprendere la natura e la vera origine dell'insegnamento di Gesù. La risposta che qui Gesù dà non è diretta, ma rimanda il suo ascoltatore a se stesso. Un simile comportamento lo si riscontra in 18,19-21 nel contesto del giudizio a cui è sottoposto Gesù davanti al sommo sacerdote. Anche qui egli non risponde direttamente, ma rimanda ai suoi ascoltatori, presso i quali egli ha seminato il suo insegnamento. Significativo è questo comportamento di Gesù che non dà soluzioni immediate, ma rimanda il suo ascoltatore ad una ricerca in se stesso e presso quelli che hanno ascoltato e accolto la sua parola. La comprensione di Gesù e del suo disvelarsi non è immediatamente raggiungibile, ma richiede un percorso di ricerca e di riflessione, che ha due poli fondamentali: se stessi e gli altri credenti con cui confrontarsi nel proprio credere, condividendo la stessa fede. I vv.16.17 vengono a costituire pertanto con 18,19-21 una sorta di parallelismo, rafforzato dalla presenza del termine “didac¾” (didaché), che compare soltanto in questi versetti e che in qualche modo li accomuna.
v.18: se il conformarsi al Padre costituisce l'elemento primario che fornisce la capacità di discriminare sull'insegnamento di Gesù, riconoscendone o meno l'impronta di Dio, se cioè è proveniente da Dio o meno (v.17), il v.18, riprendendo le parole con cui termina il v.17 e quindi agganciandosi ad esso, fornisce, con il suo ritmo sentenziale, la chiave di lettura immediata e più facilmente raggiungibile da un punto di vista umano per poter discernere la veridicità dell'insegnamento di Gesù: soppesare ciò che l'annunciatore ricerca con il suo annuncio: se stesso o Dio. Il tema della ricerca della propria gloria anziché quella di Dio viene in qualche modo mutuato qui da 5,41-44, dove gloria di Dio e gloria degli uomini sono tra loro antitetiche, perché diverse sono le loro finalità, che tra loro si contrappongono: Dio e gli uomini; due tipologie di gloria che hanno la radice della loro contrapposizione nel fatto che nei Giudei non vi è l'amore di Dio (5,42).
Nell'ambito della struttura della pericope in esame (vv.14-18), il v.18 si riallaccia al v.14 precisando come l'insegnare di Gesù (v.14) sia “veritiero e in lui non vi è ingiustizia” (v.18b). Un giudizio questo riferito alla persona di Gesù e di conseguenza al suo stesso insegnamento. L'espressione è caratteristica della retorica ebraica che ama i chiaroscuri per mettere in rilievo il concetto di fondo: la verità abita con pienezza in Gesù senza che nulla la possa adombrare in qualche modo; garanzia di ciò è il fatto che Gesù non persegue la propria gloria, ma quella del Padre; proprio per questo egli è manifestazione veritiera del Padre, che con lui forma una cosa sola; proprio per questo Gesù è il luogo storico della sua manifestazione.
Ricomprendere la Legge a favore dell'uomo
19- Mosè non vi ha dato la Legge? E nessuno tra di voi
compie la Legge. Perché cercate di uccidermi?>>.
20- Rispose la folla: <<Hai un demonio; chi cerca
di ucciderti?>>
21- Rispose Gesù e disse loro: <<Ho fatto una
sola opera e tutti stupite.
22- Per il fatto che Mosè vi ha dato la circoncisione –
non che (questa) sia da Mosè, ma dai padri – circoncidete un uomo
anche di sabato.
23- Se un uomo riceve una circoncisione di sabato perché
non sia violata la Legge di Mosè, siete adirati con me perché ho
reso sano un uomo intero di sabato?
24- Non giudicate secondo apparenza, ma giudicate
(secondo) il giusto giudizio>>.
Note generali
Si era detto che il cap.7 è un assemblaggio di nove piccole unità narrative tematicamente legate e finalizzate a rilevare il clima di tensione che aleggiava intorno a Gesù. Un capitolo che segna una svolta narrativa che punta più decisamente verso il Golgota (v. pag.3). Si era detto anche come queste unità narrative fossero state distribuite strutturalmente secondo la logica dei parallelismi concentrici in E) (v. pagg.3-4), la cui unità narrativa, vv.19-24, che ora viene presa in esame, costituisce il cuore dell'intero capitolo e fornisce la motivazione di fondo che di fatto genera e sottende l'intero clima di nervosismo e di tensione, che animava i rapporti tra Gesù, le autorità religiose e il giudaismo in genere.
Che Gesù non fosse un fanatico delle osservanze giudaiche, del sabato45 o delle regole sulla purità46 e sui digiuni47 lo si arguisce molto bene dai vangeli; così come questi ci attestano che egli non vedeva di buon occhio la miriade di commenti che formavano la Torah orale e scandivano, normandolo minuziosamente, quasi in modo ossessivo, il vivere quotidiano del pio ebreo; così che Gesù definì tutta questa elaborazione dottrinale, tout-court, “precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7) e pesi inutili e insostenibili, accusando le stesse autorità religiose di inosservanza (Mt 23,4)48. Il deciso e duro intervento di Gesù presso il tempio di Gerusalemme, malmenando i venditori di colombe e i cambiavalute49, aumentò non poco la forte tensione tra lui e la classe sacerdotale, che su questi commerci alimentava le proprie entrate50. Il gesto simbolico e profetico del rovesciamento dei banchi dei venditori alludeva simbolicamente al rovesciamento e al rinnovamento cultuale che egli era venuto a portare (Mt 23,37). Il suo stesso rapporto con le autorità religiose, rappresentanti e conservatrici del sistema religioso, imperniato sulla rigida e formalistica osservanza della Legge mosaica, non fu tra i più distensivi51. Lo scontro quindi tra Gesù e il giudaismo verté essenzialmente sull'autenticità e sul rinnovamento del culto, che per l'ebreo aveva delle forti risonanze sul proprio modo di vivere e di rapportarsi a Dio. Ed è proprio questo aspetto che la pericope in esame intende evidenziare come la causa primaria del clima di tensioni, che permea l'intero cap.7. Qui la questione centrale è la modalità dell'osservanza del sabato, quale istituto giuridico, religioso e cultuale rappresentativo e caratterizzante il giudaismo e, quindi, dall'autore preso a simbolo dell'intero sistema religioso giudaico. La questione affrontata pertanto da questa pericope (vv.19-24) non va letta in modo restrittivo, riferendola solo alla questione del sabato. Gesù infatti non fu ucciso perché ha violato qualche volta il sabato, ma perché ha messo in seria discussione l'intero sistema religioso, scontrandosi duramente con i suoi rappresentanti52, che temevano non poco una qualche rivolta da lui capeggiata, considerate le folle che lo seguivano, ammagliate dai suoi discorsi e dalle sue opere (11,47-50.53).
Un'ultima parola va spesa su questa pericope in esame (vv.19-24), posta al centro del cap.7. Essa si richiama espressamente alla guarigione del paralitico (5,1-15) e alle minacce là contenute (5,16.18) e a loro volta richiamate in 7,1.19-20. Questo fa pensare che originariamente i vv.19-24 appartenessero a quel racconto e dovevano essere collocati tra i vv.5,44 e 5,45. Infatti il v.5,44 forma inclusione con il v.5,41, costituendo in tal modo un'unità narrativa a se stante (5,41-44), il cui tema è la ricerca della gloria. Collocando pertanto la nostra pericope tra 5,44 e 5,45, da un lato essa viene inserita in un contesto dove già si parla di Mosè (5,45-47) e lo va a completare; dall'altro gli attuali vv.5,45-47 andrebbero a formare la logica conclusione sull'intero discorso riguardante la figura di Mosè, che pone così il suo giudizio finale sulla persistente incredulità dei Giudei. Del resto, lo stesso v.7,19, che apre questa pericope, sembra dare per scontato tutto il racconto che lo doveva precedere e a cui si richiama, mentre qui manca interamente quel contesto là (5,1-15), venendo la nostra pericope (vv.19-24) inserita qui, nel cap.7, ex abrupto, senza alcun legame con il cap.7 se non quello tematico, ma non narrativo. Il trasloco da quel contesto a questo deve essere avvenuto per consentire all'autore di incentrare l'attenzione del suo lettore sul vero motivo che animava l'intero conflitto tra Gesù e il giudaismo e che lo porterà sulla croce: questioni interpretative della Torah, radicate in un opprimente formalismo esecutivo per i Giudei; ricondotte al senso autentico della Torah per Gesù (Mt 5,21-48), donata da Dio a favore dell'uomo e non contro di lui (Mc 2,27). Si trattava dunque di due visioni radicalmente opposte della Legge: fondata su di una mera esecuzione formalistica, l'una; radicata nella sincerità del cuore, l'altra. Due visioni che partivano da prospettive diverse: l'uomo in funzione della Torah, la prima; la Torah in funzione dell'uomo per la seconda.
Strutturalmente la pericope si suddivide in due parti: la prima, vv.19-21, riguarda propriamente la polemica innescata da Gesù contro un giudaismo che lo vuole morto, e contiene al v.19b l'accusa di inosservanza della Legge da parte dello stesso; la seconda parte, vv.22-24, è dimostrativa dell'accusa mossa al v.19b e riporta nella fattispecie il caso della circoncisione operata in giorno di sabato, mettendola in concorrenza perdente con la guarigione da lui operata a tutta favore di un uomo, interamente risanato.
Commento ai vv.19-24
Il v.19 è scandito in tre parti:
“Mosè non vi ha dato la Legge?”; l'interrogativo è chiaramente retorico e la risposta è ovviamente positiva. La formulazione della domanda tuttavia è posta in modo tale da rilevare due aspetti negativi circa la Legge mosaica: la Legge non ha più la sua origine in Dio, ma in Mosè; è lui che ha dato la Legge. Essa pertanto ha perso il suo valore sacrale e vincolante, mentre le sue continue interpretazione, che nel tempo formarono la Torah orale, hanno portato a manipolarla al punto tale da violare la stessa Torah scritta53, sostituendo l'originale Volontà di Dio con le dottrine degli uomini (Mt 15,3-6.9; Mc 7,7-13). Il secondo elemento negativo è la presa di distanza della comunità giovannea nei confronti della stessa Torah, significata in quel “vi ha dato”; un “voi” che dice tutta la sua estraneità al mondo religioso giudaico, che non sente più di appartenergli. La Torah dunque non riguarda più la comunità giovannea, ma soltanto i giudei, poiché essa, colta nell'insieme sistemico religioso in cui era collocata, ha perduto le sue origini divine, conservando soltanto quelle mosaiche, avendo subito da parte del giudaismo una profonda manipolazione, che ha portato a sterilizzare il messaggio divino in essa contenuto.
Si comprende ora anche l'accusa che il Gesù giovanneo muove al giudaismo: “E nessuno tra di voi compie la Legge”, sia perché il compierla fedelmente era stato reso pressoché impossibile per le notevoli manipolazioni interpretative che essa ha subito nel corso del tempo; sia per l'impossibilità di praticarla per l'enorme massa di interpretazioni normative, che la rendevano ormai insostenibile. In tal senso, il Gesù matteano, nella sua dilagante polemica di rottura con il giudaismo (Mt 23,1-39), accusa le autorità giudaiche proprio di questo: “Legano carichi pesanti e opprimenti e li pongono sulle spalle degli uomini, mentre loro non vogliono muoverli con un dito” (Mt 23,4)54. L'accusa di non compiere la Legge da parte dei Giudei non è presente soltanto qui in Giovanni, ma percorre anche il mondo dei Sinottici55, e lo stesso Paolo punta il suo dito contro un giudaismo perbenista, accusandolo di violare sistematicamente la Legge (Rm 2,1.17-25). Ed è sempre Paolo che individua la radice di questa incapacità naturale di osservare dovutamente la Legge: la fragilità della condizione umana segnata profondamente dal peccato (Rm 7,18-25).
Il v.19 si conclude con un interrogativo inaspettato e sconcertante di Gesù: “Perché cercate di uccidermi?”; l'incomprensibilità di un simile interrogativo è reso tale proprio perché la pericope è stata estrapolata dal suo contesto originale, il cap.5, così che lo stesso autore, al successivo v.20, si trova in dovere di sottolineare lo stupore della folla circa tale asserzione, che di fatto si richiama direttamente a 5,16.18. Quest'ultima parte del v.19 forma la conclusione logica e conseguente alla premessa delle lettere a) e b). In altri termini, il Gesù giovanneo compie un ragionamento che si avvicina molto ad un sillogismo: premesso che Mosè vi ha dato una Legge, che neppure voi osservate, perché allora se non la osservo io mi volete uccidere? Il lavorare di sabato era infatti sanzionato con la pena di morte (Es 31,14), benché la tradizione rabbinica avesse riconosciuto delle eccezioni al rigore del riposo sabbatico, che vanno sotto il nome di 'eruv (mescolanza); si tratta di una normativa che consente alcune opere proibite anche in giorno di sabato e, anzi, talvolta le rende obbligatorie allorché si tratti di salvare la vita ad un uomo o ad un animale od evitargli delle sofferenze56. Nel caso di Gesù (5,1-15) non era stata probabilmente riconosciuta l'urgenza della guarigione; ma soprattutto ciò che più ha offeso la sensibilità delle autorità giudaiche fu probabilmente il fatto, dalle stesse rilevato (5,10), che Gesù avesse ordinato al paralitico guarito un'azione proibita in giorno di sabato: “alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina” (5,8). Quindi non solo lui violava il sabato, ma lo faceva violare anche ad altri, arrogandosi un'autorità che non gli era riconosciuta.
Il v.20 svolge la funzione di polo catalizzatore dell'attenzione del lettore su di un tema che è centrale nella narrazione dei vangeli: il morire di Gesù. In tal senso questo versetto funge da cassa di risonanza a questo tema insistentemente rimarcato: già annunciato, infatti, in 5,16.18 e ripreso in 7,1.19, viene ora nuovamente qui evidenziato in un contesto di stupore generale sdegnato, che riflette probabilmente quello del lettore, che all'improvviso e inaspettatamente si trova di fronte ad una denuncia di morte incombente da parte di Gesù ed è chiamato per questo ad interrogarsi da dove nasce questa formulazione di accusa contro il giudaismo. Ripercorrendo infatti a ritroso il cammino fin qui fatto, scandito dai versetti sopracitati, si giungerà a capire come l'origine dello scontro tra Gesù e il giudaismo sta in due contrapposte modi d'intendere il rapporto con Dio: un modo rigorosamente legalistico e formalistico il primo, a cui viene sacrificato l'uomo; fondato sulla sincerità di cuore, il secondo, al cui centro viene collocato l'uomo, colto nella sua interezza evolutiva verso Dio, in un cammino di salvezza in cui non c'è più alcuna previsione di condanna per lui (Rm 8,1) e dove anche la sua fragilità trova la sua comprensione e il suo perdono incondizionato57. Due visioni che trovano il loro vertice nei vv.22-23 e la loro sintesi conclusiva nel v.24
Di fronte all'accusa lanciata da Gesù le folle sdegnate gli rispondono: “Hai un demonio; chi cerca di ucciderti?”. L'espressione “Hai un demonio” va intesa secondo il sentire del tempo che faceva risalire a forze maligne le malattie non solo fisiche, ma anche mentali. Avere un demonio equivale al nostro “sei fuori di testa” o “sei matto”, “ti manca una rotella”. Una simile equivalenza, in tal senso molto significativa, la troviamo al v.10,20 in cui l'espressione “avere un demonio” è associata ad “essere fuori di sé”: “Ora, molti di loro dicevano: <<Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo ascoltate?>>”; e similmente la stessa espressione in 8,48 è abbinata all'accusa di essere un Samaritano, considerato un eretico e fuori dal giudaismo tradizionale. Del resto l'accusa di avere un demonio rivolta a Gesù non è nuova in Giovanni e fa qui la sua prima comparsa58. Lo stesso Battista, per la sua vita ascetica e la sua dura predicazione escatologica, veniva accusato di avere un demonio (Mt 11,18; Lc 7,33). I Sinottici, poi, narrano come Gesù venisse accusato di operare segni e prodigi per opera di Beelzebùl o di essere da lui posseduto59. Di fronte dunque al mistero che si disvela e che esce dai suoi schemi culturali, l'uomo tende in qualche modo a dominarlo, riportandolo all'interno del suo contesto culturale, o se del caso a respingerlo, anziché interrogarsi sulla novità che nel suo disvelarsi lo interpella ed attende da lui la sua risposta accogliente.
I vv.21-24 sono finalizzati a mettere in rilievo la contraddittorietà del culto giudaico60 e aprono un confronto con l'operare di Gesù, considerato dalle autorità religiose poco rispettoso se non lesivo della Torah e della Tradizione dei Padri61. Terreno di scontro qui è il riposo sabbatico. Il divieto di lavoro in giorno di sabato, sancito da Es 16,23 e 20,10, era finalizzato a sottrarre l'uomo dai suoi impegni quotidiani per reindirizzarlo a Dio, consacrandogli uno spazio della propria vita, per fargli capire che “l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3b), aiutandolo ad orientare l'intera sua vita verso questo settimo giorno, che Dio ha riservato a se stesso (Gen 2,2-3); questo spazio divino che l'uomo è chiamato ad abitare fin da subito e da cui riceve senso l'operare dell'uomo. Ma una rigida e letterale interpretazione della Torah scritta, ha spinto gli interpreti sulla strada di una sua esecuzione fisica, senza coglierne lo spirito che l'animava62, trasformando il sabato in un duro carcere per il credente ebreo, che si vedeva limitato, se non impedito, in ogni suo più naturale movimento, più che in un momento di gioioso incontro con il suo Dio63. Su questo tipo di comportamento il Gesù sinottico, riprendendo Is 29,13, lamentava: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Mt 15,8; Mc 7,6).
I vv.21-24, similmente al v.19, si muovono sulla falsariga di un sillogismo:
v.21: viene richiamato l'episodio della guarigione del paralitico (5,1-15), avvenuto in giorno di sabato (5,9);
v.22: si rileva la contraddizione dispositiva circa l'osservanza del sabato: la circoncisione può avvenire anche di sabato per rispettare gli otto giorni stabiliti dalla Torah;
v.23: si apre il confronto tra la violazione del sabato consentita per non violare la legge di Mosè e la violazione del sabato operata da Gesù per restituire la piena salvezza all'uomo; chi ha dunque la precedenza: la Torah sulla salvezza dell'uomo o quest'ultima verso la quale è preordinata la Torah?
v.24: esortazione a valutare in profondità il vero senso della Torah.
Con il v.21 Gesù, rivolto alla folla, dice: “Ho fatto una sola opera e tutti stupite”. L'opera a cui Gesù allude qui è la guarigione del paralitico in giorno di sabato. L'espressione del v.21 riprende, e non a caso, il v.5,20, in cui Gesù affermava che il Padre gli mostrerà opere maggiori “affinché voi stupiate”. Il v.5,20 è inserito nel contesto dei vv.5,17.19 in cui si attesta, da un lato (5,17), che Gesù opera in consonanza con il Padre, il quale non ha limiti di tempo e tanto meno è tenuto a rispettare il sabato; dall'altro (5,19), che egli non può operare nulla per proprio conto, poiché il suo operare riflette in se stesso quello del Padre. Proprio per questo le folle saranno prese da stupore, che dice la reazione dell'uomo di fronte al manifestarsi e al rivelarsi del numinoso. Tuttavia, benché il v.7,21 riprenda i termini “opera e stupire” del v.5,20, il contesto in cui è qui inserito è completamente diverso: là lo stupore parlava di una rivelazione che nel suo manifestarsi induceva allo sbalordimento; qui, v.21, lo stupire, invece, è sinonimo di scandalizzarsi di fronte a una di quelle opere che rivelano l'operare del Padre, benché non sia tra quelle più grandi (5,20), con cui si allude alla risurrezione. Uno scandalizzarsi che nasce dal fatto che tale opera si è manifestata in giorno di sabato e per questo viene adombrata la sua valenza di segno rivelatore e non se ne percepisce il messaggio. La cosa apparirà più evidente in 9,16a dove a fronte della tangibile e incontestabile guarigione del cieco nato vi è chi si scandalizza perché avvenuta di sabato: “Dicevano dunque alcuni dei Farisei: <<Questo uomo non è da Dio, poiché non osserva il sabato”. Il sabato, qui rappresentativo del sistema religioso giudaico, rende dunque irraggiungibile la novità portata da Gesù; una novità che esce dagli schemi veterotestamentari, ormai incompatibili con tale novità. Marco e Matteo rendono tale concetto parlando di pezze grezze che non possono essere poste su vestiti vecchi; così come non si può mettere vino nuovo in otri vecchi (Mt 9,16-17; Mc 2,21-22).
Il v.22 pone i termini della questione: da un lato riporta la disposizione giuridica di Lv 12,3, in cui si attesta che “L'ottavo giorno si circonciderà il bambino”; ovviamente se l'ottavo giorno cadeva di sabato, la circoncisione veniva operata in tale giorno; dall'altro l'autore interviene con un suo inciso storico, che richiama Gen 17,10-14, con cui si spiega l'origine e il senso della circoncisione e se ne dettano le modalità. La presenza delle particelle “™k” (ek, da) nell'inciso, separate e contrapposte tra loro dalla congiunzione avversativa “¢ll£” (allá, ma) riconduce l'attenzione del lettore alle origini storiche della circoncisione, spostando in tal modo la sua attenzione da Mosè ai Padri. In tal modo la portata della disposizione mosaica di fatto viene sminuita. La circoncisione, quindi, non nasce da disposizioni giuridiche mosaiche, ma si radica storicamente nei Patriarchi; Mosè l'ha presa da lì e poi la codificata. Vi è quindi una relativizzazione della circoncisione, che va a pesare maggiormente sul fatto che essa viene compiuta di sabato.
Fatta questa premessa relativizzante, con il v.23 si rileva da un lato la contraddittorietà del culto giudaico, che per non violare una disposizione mosaica, che peraltro non ha la sua origine in Mosè, viola la stessa sacralità del sabato, che invece è di disposizione divina (Es 16,23 e 20,10); dall'altro si pone sullo stesso piatto della bilancia, l'operabilità in giorno di sabato, la guarigione di un uomo, che viene restituito interamente alla vita. Il processo di relativizzazione della circoncisione e della stessa Legge mosaica continua anche in questo versetto. L'autore infatti insiste sul fatto che la Legge è di Mosè, cioè di un uomo, avendo essa ormai perso il suo radicamento divino a motivo della Tradizione dei Padri, cioè della Torah orale, che Gesù aveva definito come “precetti di uomini” e che di fatto, non di rado, la contraddicevano, in tal modo annullandola (Mt 15,6; Mc 7,13). Significativa è la seconda parte del v.23 in cui l'accento va a cadere sul risanamento di “un uomo intero” (Ólon ¥nqrwpon, ólon ántzropon). L'uso del nome generico “ántzropon” per indicare l'uomo che è stato guarito (5,1-15) e l'articolo indeterminativo posto davanti al nome, dando così un senso di genericità allo stesso, fanno pensare che qui si alluda in qualche modo all'uomo in senso generale, dando un tocco di universalità all'azione risanatrice e rigeneratrice di Gesù, che rimanda al senso più profondo della sua stessa missione, che ha il suo vertice nella morte e risurrezione, in cui muore la vecchia umanità adamitica e viene inaugurata una nuova umanità, rigenerata dallo Spirito. È dunque l'uomo nella sua interezza (ólon ántzropon) che viene risanato e restituito a quella pienezza di vita da cui era provenuto.
Il v.24, dal ritmo sentenziale, chiude questa pericope, che posta al centro del cap.7, mette in evidenza il motivo fondamentale, che sottende il clima di tensioni che circonda Gesù e anima i suoi rapporti conflittuali con il giudaismo, in cui si rispecchiano quelli della comunità giovannea e della chiesa nascente del I sec. L'invito è perentorio: “Non giudicate secondo apparenza, ma giudicate (secondo) il giusto giudizio”. Esso fornisce una nuova chiave di lettura non solo della Torah, ma anche del nuovo e inaspettato evento Gesù, apparso sulla scena di un giudaismo tutto aggrappolato attorno ad una Legge appesantita e devitalizzata da una eccessiva preoccupazione di una sua corretta e formalistica esecuzione, fermandosi alla lettera, ma trascurando ciò che la sostanziava (Mt 23), ritenendo fine ciò che invece era solo un mezzo. “Non secondo apparenza, ma secondo giusto giudizio” è la sollecitazione che spinge ad un nuovo e diverso approccio sia con al Legge che con l'evento Gesù, la cui novità non può essere colta secondo gli schemi e le logiche veterotestamentarie. Una pressante esortazione ad andare oltre all'asfittica lettera per poterne cogliere il contenuto di senso di cui è portatrice. È in ultima analisi ciò che ha fatto il cristianesimo nascente, che di fronte all'evento Gesù, è ricorso alle Scritture rileggendole e ricomprendendole in chiave cristologica64. Una rilettura che si staccava dal ristretto panorama della lettera, per coglierne lo spirito di cui era portatrice. Del resto lo stesso vangelo di Giovanni è fondamentalmente una rilettura dell'Antico Testamento in chiave cristologica65.
Due conoscenze a confronto: quella del giudaismo e quella di Gesù
25- Dicevano, dunque, alcuni dei Gerosolimitani: <<Non
è questi colui che cercano di uccidere?
26-
Ed ecco parla con libertà di parola e non gli dicono niente. Forse
che i capi non abbiano riconosciuto
per davvero che costui è il Cristo?
27-
Ma sappiamo
da dov'è costui; il Cristo, invece, quando viene nessuno conosce
da dov'è>>.
28-
Gesù, pertanto, gridò insegnando nel tempio e dicendo: <<E mi
conoscete
e conoscete
da dove sono; e non sono venuto da me stesso, ma colui che mi ha
mandato è veritiero, che voi non conoscete;
29-
io lo conosco,
poiché sono da lui e quello mi inviò>>.
30- Cercavano, pertanto, di arrestarlo, e nessuno
metteva su di lui la mano, poiché non era ancora venuta la sua ora.
Note generali
Questa pericope è delimitata dai vv.25.30 che formano inclusione tematica e danno il tono all'intera pericope, collocandola in un contesto di forte tensione che aleggia intorno a Gesù, evidenziando il pesante stato di persecuzione a cui era soggetto. Il v.25, infatti, evoca il tentativo di uccidere Gesù, mentre il v.30 denuncia il fallito tentativo di arrestarlo, fornendone il motivo: “poiché non era ancora venuta la sua ora”. All'interno di questo contesto vanno letti i vv.26-29, che parlano della provenienza di Gesù, sulla quale vengono poste a confronto due tipi di conoscenza: quella della tradizione giudaica (vv.26-27) e quella fornita da Gesù stesso (vv.28-29). Due tipi di conoscenza che aprono a due prospettive diverse e a due diverse comprensioni di Gesù, contrapposte e irriducibili l'una all'altra, perché completamente diverse e contrapposte sono le loro rispettive fonti: elaborazione umana, la prima; rivelazione divina, la seconda. La struttura della pericope pertanto è scandita in due parti: la prima (vv.26-27) riguarda il sapere proveniente dalla tradizione giudaica circa la venuta del Messia, del tutto insufficiente per identificare Gesù; la seconda parte (vv.28-29) indica la provenienza del suo sapere, sconosciuto al giudaismo, troppo legato a Mosè; un legame che gli impedisce di andare oltre.È una pericope questa che ha il suo parallelo corrispondente nei vv.14-18, ne costituisce quasi una sorta di prolungamento e di completamento. Il v.14 attesta infatti che Gesù sale al tempio e insegna, mentre al v.28 vediamo un Gesù che al tempio impartisce con vigore il suo insegnamento; ai vv.15-16 le folle stupiscono del suo insegnamento che non trova fondamento negli appositi studi, ma che Gesù rimanda al Padre. Come ciò sia possibile viene detto dai vv.28-29, che indicano come la provenienza di Gesù sia divina e, quindi, lo è anche la sua conoscenza, che diviene pertanto rivelativa del Padre, definito qui (v.28) come là (v.18) “veritiero”.
Commento ai vv.25-30
I vv.25-26 introducono, non senza una certa ironia (v.26b), il tema dell'identità di Gesù e di conseguenza della sua origine, fungendo in tal modo da premessa ai vv.28-29, in cui Gesù rivelerà la sua origine e quindi l'autorità con cui egli insegna nel tempio (vv.14b.28a). Una questione quella dell'origine e dell'identità di Gesù che doveva disturbare non poco le autorità di Gerusalemme se in 10,24 gli chiedono con fare spazientito di rivelarsi per quello che egli è una volta per tutte: “Fino a quando tieni in sospeso il nostro animo? Se tu sei il Cristo, dicci con libertà di parola”. La risposta di Gesù li porterà al tentativo di lapidazione prima (10,31) e di arresto poi (10,39), entrambi falliti. Similmente anche nei Sinottici, in un contesto di passione e morte, troviamo un'analoga richiesta da parte del sommo sacerdote e qui la risposta di Gesù sarà determinante per la sua condanna66. Sembra quasi esserci una stretta correlazione tra la rivelazione dell'identità di Gesù e la sua persecuzione fino alla sua morte67. Non fanno eccezione neppure i vv.25-26, che introducendo il tema dell'origine di Gesù e della sua identità alludono ad un contesto di persecuzione e di morte, che apparirà evidente nei vv.30.32. Tre sono gli elementi che inducono a pensare a tale contesto: l'espressione “alcuni dei Gerosolimitani”, cioè abitanti di Gerusalemme e appartenenti a questa città e quindi da non confondersi con le folle o i pellegrini o i visitatori casuali. È significativo in tal senso come il nome “gerosolimitani” per indicare in modo inequivocabile gli abitanti di Gerusalemme compaia in tutta la Bibbia soltanto due volte: in Mc 1,5 e qui in 7,25. Questi abitanti sono solo “alcuni”, che sono al corrente dei tentativi di eliminazione di Gesù (v.25); si tratta dunque di personaggi ben definiti, anche se, per il momento, nella sola mente dell'autore, così come soltanto “alcuni” abitanti di Gerusalemme saranno quelli che inciteranno Pilato a crocifiggere Gesù (19,6). Lo stretto riferimento a Gerusalemme, luogo della morte di Gesù, e al pronome “alcuni”, che furono i fautori della sua morte, formano il primo indizio, che associato all'espressione verbale “cercano di uccidere” rende più preciso il richiamo al contesto della passione e morte. Ma vi è anche un terzo elemento, il v.26a: “Ed ecco parla con libertà di parola e non gli dicono niente”. Questa espressione si ritrova molto simile in 18,20, in un contesto di passione e morte, dove Gesù, rispondendo al sommo sacerdote, dice: “Io ho parlato apertamente al mondo, io ho sempre insegnato in sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e niente ho detto di nascosto”. Tuttavia, se al v.26 si attesta che Gesù parla liberamente e glielo si lascia fare è perché non è ancora giunta la sua ora (v.30c). Non si tratta quindi della conversione delle autorità religiose, a cui l'autore, con fine ironia, allude: “Forse che i capi non abbiano riconosciuto per davvero che costui è il Cristo?”. I capi (¥rcontej, árcontes) di cui si parla qui sono probabilmente membri del Sinedrio, proprio quel Sinedrio, che decreterà la morte di Gesù. Nicodemo, infatti, membro del Sinedrio, è definito “un capo dei Giudei” (3,1); in 7,48 e in 12,42 si parla di “capi”, tenuti distinti dai farisei, anche se alcuni loro membri formavano assieme ai sommi sacerdoti, sadducei, scribi e anziani il Sinedrio, organo politico e religioso del giudaismo palestinese, che finì, come istituzione, nel 70 d.C., allorché Gerusalemme venne distrutta nel corso della guerra giudaica (66-73 d.C.).
Il v.27 riconduce all'interno della tradizione giudaica l'ironica ipotesi che i capi avessero potuto in qualche modo riconoscere Gesù come messia: “Ma sappiamo da dov'è costui; il Cristo, invece, quando viene nessuno conosce da dov'è”. Il versetto si apre con la particella avversativa “Ma” (¢ll¦, allà), che se da un lato si contrappone all'ipotesi del riconoscimento messianico da parte delle autorità religiose, ironicamente ipotizzato dall'autore, dall'altro prepara la motivazione, esposta al v.27b, per cui Gesù non poteva essere il messia. Compare qui l'avverbio interrogativo “pÒqen” (pótzen, da dove), che in Giovanni ricorre 13 volte e allude quasi sempre all'origine divina di Gesù68. La questione posta dal v.27 è pertanto fondamentale, poiché qui si sta valutando la provenienza di Gesù (pótzen) e quindi la sua origine; di conseguenza la sua identità e da qui il comprendere se le sue pretese siano legittime. Il risultato della ricerca tuttavia sarà deludente, perché il punto di partenza della ricerca è limitato alla storia e dalla storia: Tradizione giudaica e origini familiari di Gesù. La conoscenza e il sapere del giudaismo quindi sono del tutto inadeguati per cogliere il Mistero che vive nell'uomo Gesù, perché incapaci di andare oltre al suo porsi storico.
Compare infatti qui un verbo caro a Giovanni, “o‡damen” (oídamen, sappiamo), dietro il quale si cela il sapere della Tradizione giudaica, che si contrappone al sapere di Gesù (vv.28-29). Una contrapposizione di saperi che già si era presentata nel dialogo con Nicodemo: il sapere del giudaismo, che vedeva in Gesù soltanto “un maestro venuto da Dio” (3,2), contrapposto a quello della comunità giovannea (3,11), che, oltrepassando le apparenze storiche, ha saputo cogliere in quel maestro la sua messianicità e la sua divinità. Ciò che il giudaismo sa di Gesù circa la sua origine già lo aveva espresso in 6,42: “Non è questi Gesù, il figlio di Giuseppe, del quale noi conosciamo il padre e la madre? Come ora dice: “sono disceso dal cielo?””; per questo Gesù non poteva essere il Messia, infatti “il Cristo quando viene nessuno conosce da dov'è” (v.27b). Vi era infatti una tradizione che riteneva che la presenza del Messia sulla terra sarebbe stata nascosta fino a quando egli si sarebbe presentato apertamente al popolo. Giustino (100-165 d..C. circa), filosofo e apologeta cristiano, nel suo Dialogo con Trifone69, riporta una testimonianza sul Messia nascosto: “Quando Cristo, se è già nato e si trova da qualche parte, è ancora sconosciuto, non sa di esserlo, e non avrà alcuna potenza fino a quando non sarà venuto Elia ad ungerlo e a renderlo manifesto a tutti”70 (Dial. 8,4). Diversamente da questo particolare filone della tradizione, normalmente le attese messianiche erano rivolte a Betlemme, il villaggio da cui ebbe origine Davide e in cui doveva apparire pubblicamente il Messia, di discendenza davidica. In tal senso ce ne dà testimonianza il v.42. Su tale linea si attesta anche il v.41 e similmente il v.52, dove i Farisei, rivolti a Nicodemo, lo apostrofano duramente per la sua ignoranza della Tradizione: “Sei forse anche tu della Galilea? Indaga e vedi che dalla Galilea non sorge profeta”. È sostanzialmente lo stesso discorso che Natanaele aveva rivolto in tono canzonatorio a Filippo, che gli annunciava di aver trovato il Messia, predetto dalle Scritture: “Da Nazareth può esserci qualcosa di buono?” (1,45-46).
I vv.28-29 costituiscono la risposta al sapere del giudaismo (“Ma sappiamo” v.27a), che però ignora il vero sapere, quello che rende capaci di leggere e di raggiungere il Mistero incarnato nell'uomo Gesù. Solo chi è addentro al Mistero può comprendere la vera origine di Gesù, che conosce le proprie origini, quelle vere, per diretta esperienza e discendenza.
Il v.28 riprende il v.14b, allorché Gesù, a metà della festa, “salì al tempio e insegnava”. Ora il suo insegnamento, qui al v.28 viene introdotto e qualificato da tre termini significativi: “Gesù, pertanto, gridò insegnando nel tempio e dicendo”. Ciò che segue il suo dire, dunque, è un insegnamento, che a sua volta viene qualificato come una rivelazione della sua divinità, che egli compie nel Tempio, il cuore pulsante del giudaismo, figura di un altro Tempio, in cui si sarebbe manifestata la pienezza della divinità (2,19-21). Ciò che dà il significato di manifestazione e rivelazione a questo insegnamento, imprimendogli un tono di proclamazione solenne, è il verbo “œkraxen” (ékraxen, gridò). Il verbo “gridare” in Giovanni, ricorre complessivamente dieci volte; di queste, quattro volte viene usato il verbo “kr£zw” (krázo) e sei volte il verbo “kraug£zw” (kraugázo). Il primo verbo (krázo) significa “gridare, emettere un alto grido”, dando l'idea di una forza e di una potenza che si sprigionano; un grido che nasce dalle profondità dello Spirito. Doveva essere questo il senso a cui pensava Giovanni usando questo verbo, considerato che a questo fa seguire sempre una rivelazione71. Quanto al verbo “kraugázo”, questo significa “gridare, strillare, abbaiare, gracchiare”. L'idea che ne nasce è di un grido scomposto, disordinato, investito, per ciò che riguarda l'uomo, da forti tensioni emotive. Un verbo che Giovanni riserva, nel racconto della passione, per quattro volte, alle folle urlanti72; una quinta volta alla folla osannante (12,13), per sottolineare probabilmente la spontaneità e l'occasionalità di quelle grida non organizzate o preordinate; e, infine, una sesta volta a Gesù, che richiamava in vita Lazzaro (11,43). L'uso di questo verbo riservato a Gesù esprime probabilmente la scompostezza di un tono di voce rotto da una profonda emozione (11,33.35.38a), che nulla aveva di divino, se non la potenza della sua parola.
Il v.28 riporta la risposta che Gesù dà alla pretesa conoscenza che il giudaismo ha su di lui (v.27). Il verbo “oídamen” del v.27 viene qui ripreso tre volte alla seconda persona plurale, due al positivo e una al negativo, che di fatto nega le prime due: “E mi conoscete e conoscete da dove sono; e non sono venuto da me stesso, ma colui che mi ha mandato è veritiero, che voi non conoscete”. I primi due “conoscete” rimarcano la conoscenza che il giudaismo ha di Gesù, una conoscenza superficiale e soltanto apparente e lo sta a testimoniare la stessa presenza di Gesù, che non è venuto di sua iniziativa. Il verbo qui usato per indicare il “venire” di Gesù è posto al perfetto indicativo73, che indica come il suo esserci ora sia frutto di un'azione che proviene da lontano e allude al progetto di chi lo ha mandato, definito “veritiero”, cioè generatore e portatore di verità; una qualificazione quest'ultima che va a definire l'operare missionario di Gesù, in quanto mandato. In lui dunque si riflette sia l'agire che la verità del Padre (14,9-11), che il giudaismo con tutte le sue pretese di conoscenza, in realtà non conosce. Quest'ultimo conoscere, posto qui al negativo, allude ad una conoscenza che trascende quella umana e per questo irraggiungibile dall'uomo. Si tratta di una conoscenza diretta di colui che ha mandato Gesù e da cui Gesù è uscito e proviene e prelude al conoscere proprio di Gesù (v.29), che si contrappone a quello del giudaismo, frutto di tradizioni e di elaborazioni umane74.
Il v.29 si compone di un'attestazione e di una motivazione, che la supporta: “io lo conosco, poiché sono da lui e quello mi inviò”. Esso si apre con un espressione perentoria introdotta da un “™gë” (egò, io), che si impone e si contrappone all' “Øme‹j” (imeîs, voi) con cui si concludeva il v.28 e che dice tutta la distanza che separa il sapere del giudaismo da quello di Gesù; una distanza che si può riassumere tutta tra la finale del v.28 e l'inizio del v.29: “che voi non conoscete; io lo conosco”. La ragione di questa distanza incolmabile è data dalla seconda parte del v.29, introdotta da un “Óti” (óti, perché, poiché) dichiarativo e causale nel contempo, che rileva come quanto segue costituisca la motivazione che sostanzia il sapere di Gesù: esso non proviene dalla Tradizione o da congetture umane, ma direttamente dal Padre. Si noti l'espressione con cui Giovanni rileva la provenienza di Gesù dal Padre: non dice “vengo dal Padre”, bensì “sono dal Padre”, ponendo il proprio esistere su di un piano generativo divino e pertanto il suo essere è divino (“par'aÙtoà e„mi”, par'autû eimi, “sono da lui”), non tanto per partecipazione divina, ma per sua propria connaturalità al Padre. In altri termini, egli è Dio come il Padre75.
Il v.30 trova il suo corrispondente, sostanzialmente identico, al v.44 con cui forma inclusione, che sottolinea come l'operare di Gesù, benché contrastato dalle autorità giudaiche, tuttavia non può essere ancora arrestato, perché il tempo stabilito dal progetto divino di salvezza ancora non si è compiuto. L'azione di Dio è pertanto superiore ai progetti degli uomini, che possono soltanto contrastare, ma non arrestare. Un messaggio forse che Giovanni lancia agli sfiduciati della sua comunità:: “Cercavano, pertanto, di arrestarlo, e nessuno metteva su di lui la mano, poiché non era ancora venuta la sua ora”. Un versetto questo sui generis, quanto meno strano, ma comprensibile nell'ottica di un piano divino che si sta compiendo e contro il quale l'uomo non può nulla. Chi infatti cerca di arrestare Gesù? Non si capisce bene, poiché lì vi erano soltanto degli abitanti di Gerusalemme, che si stupivano che i capi gli lasciassero campo libero (v.26). L'ordine di arresto verrà in seguito (v.32), ma non ora. Chi dunque? È evidente che da un punto di vista di logica narrativa questo versetto faccia acqua, ma non da una prospettiva teologica. L'azione manifestatrice e rivelatrice di Gesù, azione salvifica e voce del Padre in mezzo agli uomini, prosegue secondo un piano di salvezza prestabilito76, alluso in quel “non era ancora venuta la sua ora”, cioè il tempo stabilito da un progetto che si stava attuando in Gesù e che spiega perché quel persistente tentativo di fermare Gesù (“Cercavano di arrestarlo”, verbo all'imperfetto) non riesca mai a concretizzarsi (“nessuno metteva su di lui la mano”). Quel “cercavano” dice tutto l'impegno che il giudaismo ha posto nel fermare un Gesù e il suo movimento, che la storia ci dice essere stato inarrestabile e travolgente.
Timori e interrogativi su Gesù
Testo (vv.31-36)
31- Ora, molti dalla folla credettero in lui e dicevano:
<<Il Cristo, allorché viene farà forse segni più grandi di
quelli che costui ha fatto?>>.
32- I Farisei udirono la folla che mormorava queste cose
su di lui, e i sommi sacerdoti e i Farisei mandarono dei servi
affinché lo arrestassero.
33- Disse pertanto Gesù: <<Sono con voi ancora
per un po' di tempo e (poi) me ne vado da colui che mi ha mandato.
34- Mi cercherete e non mi troverete, e dove io sono voi
non potete venire.
35- Dissero, dunque, i Giudei tra loro: <<Dove
costui sta per andare che noi non lo troveremo? Forse sta per andare
nella diaspora dei Greci e insegnare ai Greci?
36- Che discorso è questo che ha detto: “Mi
cercherete e non mi troverete, e dove sono io voi non potete
venire”?>>.
Note generali
La pericope in esame è scandita in tre parti al cui centro (vv.33-34) si colloca l'annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, quale conseguenza dei vv.31-32, in cui i Farisei, per la prima volta nel racconto giovanneo, emanano l'ordine di cattura di Gesù. La formulazione dell'annuncio è posta in modo enigmatico affinché l'annuncio, da un lato, non sia ancora apertamente coglibile, graduando in tal modo il lento emergere del progetto divino e di una nuova tipologia di messianismo, del tutto inattesa, quella di un messia sofferente; il v.31 infatti allude ad un messia che si impone con segni eclatanti; dall'altro, da un punto di vista narrativo, per consentire il fraintendimento dei vv.35-36, che fungono da eco, riprendendo interamente l'annuncio di Gesù, e il cui intento è quello di accentrare su tale annuncio l'attenzione del lettore; quasi una sorta di indovinello che lo impegna in una ricerca che lo porterà lentamente, capitolo dopo capitolo, nel cuore del Mistero della salvezza. Il cap.7, del resto, come già si è sopra detto (v. pag.3), costituisce all'interno del vangelo giovanneo una svolta radicale, una brusca sterzata verso il Golgota. È tempo dunque che in esso appaiano i primi segnali di questa svolta e che il lettore inizi, assieme a Gesù, ad orientarsi verso la meta finale della sua glorificazione (17,1)
Questa pericope trova il suo parallelo ai vv.12-13, in cui la folla mormorava su Gesù e temeva le autorità giudaiche, che avevano proibito di parlare di lui come il messia, pena la scomunica dalla sinagoga (9,22; 12,42). Il timore non era infondato, considerato che esse ora impartiscono l'ordine di arresto di Gesù e che costringono Gesù ad uscire allo scoperto con il piano di salvezza che lentamente e gradualmente si stava manifestando.
Commento ai vv.31-36
Il v.31 potremmo definirlo come una sorta di battuta sottilmente ironica di Giovanni, ma che fornisce nel contempo motivo di riflessione sia alla sua comunità che agli oppositori giudaici: “Il Cristo, allorché viene farà forse segni più grandi di quelli che costui ha fatto?”. Queste locuzioni, dal loro modo di porsi, sembrano dei sintetici condensati di logica su cui riflettere e da contrapporre alle pretese denigratorie del giudaismo. Simili battute si trovano anche in 9,16.24-25.29-33 e riflettono intenti sia didattici che polemici, nati in un contesto di rottura con il giudaismo.
Il versetto si apre con un movimento significativo, definito da due particelle “™k”(ek, da) ed “e„j” (eis, in, verso), non avvertibile nella traduzione italiana, ma molto eloquente in greco: “Ora, molti dalla (ek) folla credettero in (eis) lui e dicevano”. La prima particella, seguita da un genitivo, indica un moto da luogo, quindi la provenienza; la seconda dice un moto verso luogo e, quindi, la destinazione. Si tratta di numerose persone (polloˆ, polloì, molti) affascinate dai segni compiuti da Gesù (v.31b) e che, uscite dall'anonimato della folla ('Ek toà Ôclou, Ek tû óclu), hanno intrapreso un cammino di fede verso di lui (e„j aÙtÒn, eis autón). La particella “eis” dice come queste non siano ancora giunte a pienezza di fede, nel qual caso il credere sarebbe stato seguito dalla particella di stato in luogo “™n” (en, in)77, che indica una fede raggiunta. Esse comunque hanno avuta la forza di uscire dall'anonimato, la quale cosa indica una scelta di vita, esponendosi personalmente, intraprendendo un cammino di avvicinamento a Gesù.
La seconda parte del v.31 riporta la motivazione di questa loro scelta, nata dal loro interrogarsi sull'operare di Gesù: “Il Cristo, allorché viene farà forse segni più grandi di quelli che costui ha fatto?”. L'attesa del messia in Israele era molto viva e non di rado sedicenti messia provocavano sommosse che puntualmente Roma reprimeva nel sangue78. Un simile timore è segnalato anche in 11,47-48 dove i sommi sacerdoti temono dei disordini per l'eccessiva popolarità di Gesù. L'intera questione qui posta gira tutta attorno al comparativo “ple…ona” (maggiori, più grandi) che innesca un confronto tra le opere di un ipotetico messia atteso e quelle di Gesù. La comparazione è finalizzata ad indirizzare l'attesa messianica verso Gesù. L'interrogativo infatti è retorico e attende una risposta negativa: no, le opere del messia atteso non saranno superiori a quelle compiute da Gesù e quindi il futuro messia non potrà essere più grande di Gesù; di conseguenza Gesù potrebbe essere il messia atteso79.
Il v.32, benché dipendente narrativamente dal v.31 apre una nuova fase narrativa che avrà il suo proseguo ai vv.45-49, formando con questi una sorta di inclusione, che sottolinea da un lato l'affermarsi della predicazione di Gesù (vv.37-38) e della sua figura (vv.40.41a.46); dall'altro, lo scompiglio e il disaccordo all'interno del giudaismo e dello suo stesso apparato di potere (vv.43.45-53), che a partire da questo cap.7 va sempre più determinandosi verso la soppressione di Gesù. Giovanni del resto non è nuovo a questi giochi letterari. Già lo si era visto al cap. 6 dove il v.3 fungeva da preambolo al racconto della deambulazione di Gesù sulle acque del lago (vv.16-21), che sarebbe avvenuto 12 versetti dopo, intrecciando così tra loro due racconti, in cui la deambulazione sul lago diventava una sorta di chiave lettura del racconto della moltiplicazione dei pani80.
Se di progetti di persecuzione e di morte già se ne era sentito parlare in precedenza81 e in particolar modo proprio in questo cap.7, con questo v.32, per la prima volta, questi progetti prendono corpo: “I Farisei udirono la folla che mormorava queste cose su di lui, e i sommi sacerdoti e i Farisei mandarono dei servi affinché lo arrestassero”. Si tratta di un primo tentativo andato a vuoto perché le stesse guardie inviate a compiere l'arresto di Gesù, ne furono invece affascinate (vv.46-47). Un motivo surreale questo; non esiste infatti che un ordine impartito dallo stesso Sinedrio a dei soldati non venga eseguito, perché questi si sono lasciati conquistare da colui che dovevano arrestare (v.47). Ma il lettore, già edotto al v.30, sa che tutto ciò accade perché l'ora di Gesù non è ancora venuta. Non sono dunque gli uomini a decidere il come e il quando delle cose, ma le fila sono tramate altrove; per questo i loro tentativi falliscono di continuo (v.30.44.45; 8,20).
Il v.32 è scandito in due parti: i Farisei sentono ciò che si dice di Gesù (v.31), di conseguenza impartiscono l'ordine di arresto. Vi è in tutto ciò una coerenza letteraria che si estende all'intero vangelo giovanneo e che lascia intravvedere una realtà storica. Già in 7,13 si diceva che nessuno parlava liberamente per paura dei Giudei; il timore nasce dal fatto che il Sinedrio aveva decretato l'espulsione dalla sinagoga di coloro che avessero riconosciuto Gesù come messia (9,22) o se ne fossero fatti in qualche modo discepoli o ne avessero parlato apertamente (12,42; 19,38). Per questo la gente parla in modo sommesso, un mormorio (7,12.32), che dà l'idea di voci che si diffondono e che creano un substrato sociale e culturale pericoloso, perché uniformano un certo modo di pensare e di sentire. Il primo risultato lo si ha proprio qui: le guardie non eseguono l'ordine di arresto perché si sono lasciate fuorviare non solo dalla figura di Gesù (v.47), ma probabilmente anche dal favore che questi godeva presso la gente e che, secondo il racconto sinottico, ne aveva spesso frenato l'arresto (Mt 21,45; Mc 12,12). Tutto ciò poteva creare una situazione socialmente e religiosamente pericolosa, che lo stesso Sinedrio, riunitosi dopo la risurrezione di Lazzaro, rileverà inequivocabilmente: “I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>” (11,47-48); e con Pilato al potere in quel tempo (26-36 d.C.) non era proprio il caso di scherzare, considerate la sua determinazione e la sua crudeltà nel reprimere qualsiasi motto insurrezionale82.
Fa qui, al v.32b, la sua prima comparsa l'accoppiata “sommi sacerdoti e farisei”, due gruppi religiosi, che assieme agli Anziani formavano il Sinedrio. Sarà proprio questa accoppiata, che tornerà in 7,45; 11,47-53.57;18,3 e scandirà, con una presenza sempre più aggressiva e determinata, il cammino di Gesù verso la croce.
vv.33-34: la decisione del Sinedrio di arrestare Gesù (v.32b), benché si risolvi per il momento in un nulla di fatto (vv.45-47), non essendo ancora giunta l'ora (v.30b; 8,20b), spinge qui Gesù a compiere il primo annuncio della sua passione e morte. Lo fa in modo sibillino, quasi una sorta di indovinello, poiché il vangelo di Giovanni, a differenza di quello sinottico83, non è un kerigma, ma una contemplazione del Logos Incarnato e della sua gloria (1,14), che invita alla riflessione del Mistero manifestatosi. Da questo momento in poi l'annuncio risuonerà più volte in vario modo nel corso del racconto giovanneo84: “Sono con voi ancora per un po' di tempo e (poi) me ne vado da colui che mi ha mandato”. “... ancora per un po' di tempo”, un'espressione ambigua che può riferirsi al tempo storico, ma anche ad un altro tempo in cui gli uomini sono chiamati a farne parte. Così, secondo la cronologia giovannea, il poco tempo qui rimasto a Gesù si aggira intorno ai sei mesi circa. Infatti questi discorsi avvengono durante la festa delle Capanne (7,2), che si colloca nel mese di Tishrì (settembre/ottobre); seguirà, poi, quella della Dedicazione (10,22), nel mese di Kislèv (novembre/dicembre); e infine arriverà l'ultima Pasqua (11,55), nel mese di Nissàn (marzo/aprile) quella in cui è giunta l'ora (13,1). Ma l'annotazione del “poco tempo ancora” suona anche come un pressante sollecito alla conversione, che richiama da vicino Is 55,6-7: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L'empio abbandoni la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”. E che si tratti prevalentemente di quest'ultimo aspetto lo dice il v.34, in cui si cercherà Gesù, ma non lo si troverà, poiché il tempo del passaggio di Dio in mezzo agli uomini si è ormai compiuto. Il tempo della presenza di Gesù è pertanto il “kairÕj” di Dio che si sta compiendo in mezzo agli uomini (vv.6a.8) e che si contrappone al loro (v.6b); è questo il tempo di Dio che viene scandito nell'operare di Gesù e che si prolunga e si attua in quello della Chiesa85. In questa prospettiva il poco tempo assume una decisa connotazione escatologica e un forte richiamo alla conversione. Marco sottolinea molto bene questo passaggio della presenza di Gesù, che egli presenta come Cristo e Figlio di Dio (Mc 1,1): “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). La venuta di Gesù è per gli uomini un tempo unico, proprio perché ultimo e in questa prospettiva Gesù diventa l'ultimo discorso, l'ultimo appello del Padre rivolto all'umanità; non vi è più un tempo di attesa, poiché tutto è compiuto (19,30). Ora non c'è che il giudizio, che verterà sull'adesione esistenziale o meno a questo appello escatologico (3,16-18). Il v.33 del resto non parla mai di scadenza di un qualche tempo, ma di una successione di eventi che si compiono nel tempo, qui inteso in senso lato come tempo degli uomini e tempo di Dio; un connubio di tempi che viene rilevato dallo stesso Gesù giovanneo in 7,6. Gesù dunque lascia il tempo degli uomini per ritornare a colui che lo ha inviato, perché il tempo degli uomini trovi la sua definitiva pienezza nel tempo di Dio, da cui l'uomo è venuto. Il suo ritorno, si noti bene, non è al Padre, ma a colui che lo ha inviato, sottolineando in tal modo come la sua missione, uscita dal Padre, trovi ora il suo compimento in Lui (16,28; 1Cor 15,21-28).
Il v.34 conclude questo breve annuncio di Gesù: “Mi cercherete e non mi troverete, e dove io sono voi non potete venire”. Per poter comprendere il senso di questa sentenza è necessario tenere presente sia ciò che si è detto nel commento del v.33, sia i destinatari di questa sentenza, la cui individuazione certa sarà indicata dal successivo v.35 e dal v.13,33, dove Gesù, riprendendo proprio questo discorso, attesta che era rivolto ai Giudei. I Giudei86, dunque, colti qui nel senso giovanneo di inintelligenza (vv.35-36) e di incredulità, sono i destinatari del v.34, che qui assume il tono sentenziale di un giudizio di condanna, che verrà meglio rilevato da 8,21. Il loro cercare e non trovare denuncia infatti la loro incapacità di cogliere la novità dell'evento Gesù, per questo essi non potranno aver parte del Regno (“dove io sono voi non potete venire”). Il v.34, infatti, sembra richiamarsi a Prv 1,23-32, in cui l'autore sapienziale stila un giudizio di condanna su di un giudaismo incapace di cogliere il senso più vero e profondo della Torah, che secondo Lc 24,27 e il nascente cristianesimo già parlava di Gesù: “Volgetevi alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione; avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto; anch'io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpirà l'angoscia e la tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Poiché hanno odiato la sapienza e non hanno amato il timore del Signore; non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato tutte le mie esortazioni; mangeranno il frutto della loro condotta e si sazieranno dei risultati delle loro decisioni. Sì, lo sbandamento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire; ma chi ascolta me vivrà tranquillo e sicuro dal timore del male”
Un ultimo appunto va fatto sul v.34b, in cui Gesù afferma che “dove io sono voi non potete venire”. Al v.33b Gesù aveva affermato che se ne stava andando da colui che lo aveva mandato; ci si sarebbe aspettati dunque, qui al v.34b, “dove io vado, voi non potete venire”, anziché “dove io sono”. Si è pensato ad uno scambio di verbi da parte di qualche copista: “sono” (e„m…, eimí) al posto di “vado” (eŒmi, eîmi), molto simili tra loro in greco87. Tuttavia l'espressione “dove io sono” non è nuova nel vangelo giovanneo e ricorre in 7,28.34.36; 12,26; 14,3; 17,24. Essa quando compare indica sempre lo stato divino di Gesù a cui sono chiamati e accorpati i credenti fin d'ora, anche se non ancora in modo pieno e definitivo. Va pertanto tenuta l'espressione “dove io sono” che indica sia il luogo della provenienza di Gesù, e dall'altro il luogo dove egli è e comunque rimane, cioè in seno al Padre, poiché lui e il Padre sono una cosa sola (10,30). Il senso di questo “dove io sono” del resto viene spiegato dallo stesso Giovanni in 8,23 dove, in un contesto (8,21-24) simile a questo, afferma “Voi siete da quaggiù, io sono da lassù; voi siete da questo mondo, io non sono da questo mondo”.
I vv.35-36 fungono da eco alla breve sentenza di Gesù e la ripropongono in chiave interrogativa per sospingere da un lato il proprio lettore e la propria comunità a riflettere su questo annuncio; dall'altro, evidenziando una volta di più, attraverso la tecnica del fraintendimento, l'inintelligenza del giudaismo, incapace di andare oltre al senso letterale della Torah e delle parole di Gesù. L'ipotesi qui formulata dal fraintendimento è che Gesù vada nella diaspora dei Greci ad insegnare loro; altrove, in passi paralleli a questo (8,21), sarà l'ipotesi che Gesù pensi ad uccidersi (8,22). La diaspora dei Greci va intesa qui come quel giudaismo di lingua greca che vive fuori dalla Palestina, cioè gli ellenisti. Saranno proprio questi nei tempi successivi a Gesù l'oggetto delle attenzioni della chiesa primitiva e i destinatari del primo annuncio. Forse nell'interrogarsi di questi Giudei l'autore ha voluto ironicamente lasciar trasparire ciò che già era la missione della chiesa primitiva ai tempi in cui questo vangelo veniva scritto; così come in quel “volersi uccidere” di Gesù (8,22) non è escluso che abbia voluto alludere non al suicidio di Gesù, bensì all'omicidio che le autorità giudaiche stavano lentamente perpetrando contro Gesù.
L'annuncio di tempi nuovi crea tra la folla disaccordi sull'identità di Gesù
Testo (vv.37-44)
37- Ora nell'ultimo giorno della festa, il più grande,
Gesù stava ritto e gridò dicendo: <<Se qualcuno ha sete,
venga a me e beva,
38- chi crede in me. Come disse la Scrittura, fiumi di
acqua che vive scoreranno dal suo ventre>>.
39- Ora, disse questo circa lo Spirito che stavano per
ricevere quelli che avevano creduto in lui; infatti non c'era ancora
lo Spirito, poiché Gesù non era stato ancora glorificato.
40- Quelli della folla, dunque, che ascoltarono queste
parole, dicevano: <<Costui è veramente il Profeta>>;
41- altri dicevano: <<Questi è il Cristo>>;
ma altri dicevano: <<No, infatti, forse che il Cristo viene
dalla Galilea?
42- Non disse la Scrittura che il Cristo viene dal seme
di Davide e da Betlemme, il villaggio dov'era Davide?>>.
43- Ci fu, dunque, disaccordo nella folla per causa sua.
44- Ora alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno
mise le mani su di lui.
Note generali
Ai vv.10-11 l'autore ci presentava un Gesù che entrava nascostamente alla festa delle Capanne, mentre i Giudei si interrogavano su “Dov'è quello?”. Il Gesù nascosto al e nel culto giudaico e sconosciuto ai Giudei trova ora in questa pericope la sua manifestazione rivelativa: egli è la vera acqua vivente, in qualche modo prefigurata nella liturgia dell'acqua di questa festa (vv.37-39) ed è riconosciuto come il Profeta (v.40b) e come il Cristo (v.41a) non dai Giudei, ma da coloro che l'hanno accolto nell'ascolto (v.40a); per gli altri perdura ancora l'oscuramento della Legge mosaica e della Tradizione giudaica, che impediscono loro di cogliere la novità dell'evento Gesù (v.41b); essi non l'hanno saputo leggere in modo nuovo ed evolutivo, benché proprio le Scritture parlassero di lui (5,39; Lv 24,27), lasciando trasparire in qualche modo come le cose del passato fossero un'ombra di quelle future (Col 2,17; Eb 8,5; 10,1).
Il racconto di questa pericope si colloca all'interno della festa delle Capanne, che, come si è visto sopra (v. pagg.6-8), ha avuto una evoluzione teologica e un arricchimento di significati con l'andar del tempo. Inizialmente nata come festa agricola, venne associata ben presto all'esperienza dell'Esodo (Lv 23,39-44). Divenne così, assieme a Pasque e Pentecoste, una delle tre feste del pellegrinaggio (Dt 16,16). Venne associata poi anche alla lettura della Legge e al rinnovamento dell'Alleanza (Dt 31,10-13); essa ricordava l'introduzione dell'arca nel Tempio di Salomone e quindi la presa di possesso del Tempio da parte di Dio (1Re 8,65-66; 2Cr 7,9); dopo il ritorno dall'esilio babilonese (538 a.C.) essa venne legata anche alla ricostruzione dell'altare e alla lettura della Legge da parte di Esdra (Ne 8,17-18). Sukkot è anche la festa dagli spiccati profili escatologici. Essa infatti è l'unica festività che Zc 14,16-19 comanda ai popoli di celebrare dopo il rovesciamento dell'ordine cosmico e sociale (Zc 14,1-15). Quella delle Capanne dunque è una festa carica di storia e densa di significati. Il Gesù che si erge nel momento più solenne di questa festa e lancia il suo proclama dottrinale e rivelativo, riassume in se stesso tutto ciò che di sacro e di solenne porta con sé questa festività, divenendone di fatto il compimento.
Da un punto di vista strutturale la pericope in esame è scandita in due parti: la prima (vv.37-39), il cui tenore è rivelativo e dottrinale, è teologicamente molto densa e nel contempo alquanto complessa; la seconda parte (vv.40-44) presenta la reazione della folla al breve proclama di Gesù. Torna nuovamente qui il tema della messianicità di Gesù, che percorre l'intero cap.7 (vv.26-27; 31; 41-42), quasi a rispondere alle attese messianiche che caratterizzavano la festività delle Capanne.
Commento ai vv. 37-43
Prima di introdurmi nel commento esegetico e teologico, desidero operare fin da subito una scelta di campo, che influirà ovviamente sul commento stesso, circa tre problemi che hanno da sempre fornito agli studiosi motivo di ampie discussioni che li ha visti schierati in due parti contrapposte e che per il momento tali rimarranno per l'equivocità con cui i vv.37-38 si pongono. Tre sono sostanzialmente i problemi:
L'espressione: “nell'ultimo giorno della festa” a qual giorno si riferisce? Al settimo o all'ottavo giorno?
Vi è in seconda battuta un problema di punteggiatura. C'è chi pone il punto fermo dopo l'espressione “venga a me e beva”; chi invece dopo la frase “chi crede in me”. Lo spostamento della punteggiatura fa assumere ai vv.37-38 valenze molto diverse: ecclesiologica nel primo caso; cristologica nel secondo.
Infine vi è la citazione scritturistica “fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre”, che non si trova nella Scrittura. A quale parte della Scrittura alludeva dunque l'autore?
Quanto alla prima questione (ultimo giorno = settimo o ottavo?) la mia scelta va a cadere sul settimo giorno, perché Lv 23,34.42; Nm 29,12; Dt 16,13.15; Ez 45,25 parlano della durata della festa di sette giorni. Anche la festa degli azzimi è ritualizzata su sette giorni (Es 12,15.19; 13,6.7; 23,15) e sette giorni sono un lasso di tempo che viene preso come misura per molti eventi di un certo rilievo; una misura di tempo questa che ricorre ben 91 volte in tutto l'A.T. Sette perché per l'ebreo tale numero ha un valore simbolico particolare che indica pienezza, perfezione, compimento, ed è un numero perfetto e compiuto perché in sette giorni Dio ha compiuto la creazione (Gen 2,2), il primo atto rivelativo di Dio (Rm 1,20). Su questo parametro divino viene di conseguenza elaborato anche quello umano, in particolar modo se questo operare umano ha a che vedere con il divino, come nel caso della purità e del culto. Nel racconto della creazione infatti il settimo giorno rappresenta l'ultimo giorno, su cui Dio accentra la sua attenzione e lo solennizza e lo consacra perché è il giorno in cui Egli cessa ogni lavoro creativo, avendo in questo giorno portato a compimento l'intera creazione (Gen 2,3).
A questi sette giorni soltanto Lv 23,36.39 e Nm 29,35 menzionano un ottavo giorno in cui non sembra esserci nessuna particolare ritualità, che possa qualificare questo ottavo giorno come “il più grande”, come invece sottolinea Giovanni in 7,37a. Anche i sacrifici che vengono compiuti in questo ottavo giorno sono in numero di gran lunga inferiore (Nm 29,35) rispetto a quelli che invece sono prescritti nei sette giorni della festa delle Capanne (Nm 29,12-34). Anche la ritualità dell'acqua che percorre i sette giorni della festa cessa nell'ottavo giorno, segno questo che la festa vera e propria era terminata e l'ottavo giorno era un giorno di transizione verso la normalità; un andare oltre la festa, in cui quasi come un'eco essa risuonava ancora, ma nel contempo andava a spegnersi. Certamente sarà sempre un giorno sacro, contrassegnato da una propria ritualità, in cui ci si astiene dal lavoro ed è parificato al sabato (Lv 23,36), ma perde quella solennità che invece è propria degli altri sette giorni. Va tenuto presente poi che il proclama di Gesù sull'acqua (v.37) deve essere stato compiuto in un giorno in cui il rito dell'acqua c'era ancora ed era particolarmente solennizzato e questo avveniva, come già si è visto (v. pag.7) nel settimo giorno. Non avrebbe avuto senso che Gesù facesse il suo proclama sull'acqua nell'ottavo giorno quando questo rituale era già terminato. Il punto forte di questo proclama infatti sta nella sua associazione al rituale dell'acqua, sostituendolo: egli è la vera acqua vivente. Per contro, l'ottavo giorno sembra essere quello del cap.8, che si apre con Gesù che sale nuovamente al tempio sul far del mattino (8,2), dando l'idea che questo sia il giorno successivo all'ultimo giorno della festa delle Capanne, cioè l'ottavo. È in questo frangente infatti che Gesù farà il suo secondo proclama, quello di essere la luce del mondo, che è luce della vita (8,12). Lo sfondo dello scenario in cui avviene questo proclama dovevano essere i fuochi con cui era illuminato a giorno il tempio e la cui luce si espandeva sulla città sottostante. Una simile illuminazione durava tutti i sette giorni di festa, compreso l'ottavo giorno. Gesù dunque compie i suoi due proclami negli ultimi due giorni della grande festa delle Capanne: il settimo per l'acqua e l'ottavo per la luce.
Quanto alla seconda questione (lo spostamento della punteggiatura) c'è chi ritiene, da Origene in poi, fautore e sostenitore di questa interpretazione, che l'espressione dei vv.37b-38 vada letta nel seguente modo: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come disse la Scrittura, fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre”. Una simile lettura sposta l'accento da Gesù al credente, al quale è riferita la citazione scritturistica. È lui, dunque, il credente, che dissetatosi presso Gesù, diviene egli stesso fonte di vita per gli altri. La valenza in questo caso è ecclesiologica. Altri invece compiono una diversa lettura: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, chi crede in me. Come disse la Scrittura, fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre”. In questa versione l'accento va a cadere su Gesù e non più sul credente e la citazione scritturistica va riferita a Gesù. È lui la sorgente da cui sgorgano fiumi di acqua viva, che dissetano coloro che vengono a lui. Il peso qui è tutto cristologico.
La mia scelta va a cadere sull'interpretazione cristologica88. Ritengo che la chiave solutiva della questione sia data dal v.39: “Ora, disse questo circa lo Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui; infatti non c'era ancora lo Spirito, poiché Gesù non era stato ancora glorificato”. Viene qui riportato il commento interpretativo dell'autore alle controverse parole di Gesù (vv.37-38). Giovanni qui attesta che Gesù stava parlando dello Spirito che egli stava per dare a coloro che avevano creduto in lui. Lo Spirito va dunque da Gesù al credente; è lui, Gesù, il luogo in cui dimora lo Spirito e da cui si dipartiranno i fiumi di acqua vivente, a cui attinge il credente, come testimonia lo stesso Battista: “ E io non l'ho conosciuto; ma colui che mi ha mandato a battezzare in acqua, quello mi disse: <<Su chi vedrai lo Spirito che discende e che rimane su di lui, questi è colui che battezza in Spirito Santo>>”. Del resto l'espressione scritturistica “fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre” parla di una grande abbondanza che sgorgherà dal suo ventre, cioè dalle profondità del suo essere. Non è pensabile che si possa attribuire ad un semplice credente una simile capacità donativa, che ha caratteristiche divine e che scritturisticamente è sempre attribuita a Dio e mai all'uomo, sia pur esso credente. Si tratta di un'abbondanza per cui Gesù stesso è venuto: “io venni perché abbiano vita e (l')abbiano con abbondanza.” (10,10b).
La terza questione è la citazione scritturistica: “Come disse la Scrittura, fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre”. Certosine ricerche su espressioni simili in tutta la Scrittura hanno portato ad un nulla di fatto. È chiaro a tal punto che l'autore non intendeva fare una precisa citazione scritturistica, ma soltanto una evocazione tematica ispirata a diversi passi scritturistici dove si parla di acqua che scorre dalla roccia e disseta come in Es 17,6; Nm 20,11; Ger 2,13 e 17,13; Ez 47,1-12; Gl 4,18; Zc 13,1; 14,8; Sal 77,16.20 e 104,4; Sap 11,4; Sir 15,3 e simili.
Precisata la mia posizione sulle tre questioni, passo ora ad un'analisi dei vv.37-39, che formano il vertice cristologico in questa festa delle Capanne. Vertice non soltanto perché un simile proclama avviene nell'ultimo giorno della festa, quello più solenne, ma anche perché Gesù associa quell'antico rito giudaico dell'acqua a se stesso, dichiarandosi egli stesso “acqua vivente”, capace di dissetare, chi viene e crede in lui. In altri termini, il Gesù giovanneo lascia intendere come quell'acqua fosse in qualche modo figura di se stesso e come quell'antico rito prefigurasse in qualche modo il nuovo (Col 2,17; Eb 8,5; 10,1).
Il v.37a forma da cornice entro cui viene collocato il solenne proclama cristologico, rilevandone tutta l'importanza. Potremmo dire che in questo caso la cornice non è solo forma, ma fa parte della sostanza e aiuta a comprendere la profondità dell'annuncio: “Ora nell'ultimo giorno della festa, il più grande, Gesù stava ritto e gridò dicendo”. Tre sono gli elementi di rilievo:
“Nell'ultimo giorno della festa”. La sottolineatura temporale che inquadra la dichiarazione di Gesù nell'ultimo giorno, il settimo, quello del compimento, imprime alla stessa una valenza escatologica, di cui la stessa festa delle Capanne era carica. Essa è l'unica festa ammessa dopo gli sconvolgimenti che devasteranno Gerusalemme e i suoi nemici; una nuova Gerusalemme si eleverà e in essa si insedierà Dio come re e Signore di un nuovo regno (Zc 14,10-11), in cui affluiranno tutti i popoli a celebrare la festa delle Capanne (Zc 14,16-19). Ed è proprio da questa nuova Gerusalemme, divenuta regno di Dio, che sgorgheranno acque vive che si riverseranno al di fuori di Gerusalemme, estendendosi su tutti i popoli, raffigurati dai mari, instaurando così un regno di prosperità e di pace universale (Zc 14,8). Un'immagine questa che richiama da vicino Ap 22,1 dove in un contesto di una nuova creazione (Ap 21,1-5) l'autore vede “un fiume d'acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello”, simbolo dello Spirito, che sgorga dal trono del suo potere universale e rende nuove tutte le cose (Ap. 21,5a). Una visione che richiama a sua volta da vicino Is 43,18-21, che rivolto al popolo in esilio a Babilonia (597-538 a.C.), lo sollecita alla speranza con una visione escatologica dalle forti tinte messianiche: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi”. L'ultimo giorno richiama dunque questi temi messianici ed escatologici, in cui predomina sempre la presenza dell'acqua, simbolo di uno Spirito rigeneratore, che rinnova e crea nuovi scenari paradisiaci. Ecco perché questo settimo giorno della festa Giovanni lo definisce “il più grande” (tÍ meg£lV, tê megále), perché in prospettiva escatologica e cristologica richiama quegli ultimi tempi vaticinati da Gioele, in cui, dopo la restaurazione di Israele, ricolmato di ogni bene messianico ed escatologico (Gl 2,19-27), Dio effonderà su di lui negli ultimi giorni lo Spirito, così che tutti diverranno profeti del Signore (Gl 3,1-2).
“Gesù stava ritto” (eƒst»kei Ð 'Ihsoà, eistékei o Iesû). Questa posizione corporea di Gesù, delineata da un verbo che indica solidità e fermezza (†sthmi, ístemi89), dice, da un lato, il suo atteggiamento non più ammaestrante, nel quale caso egli verrebbe presentato seduto90, l'atteggiamento caratteristico del maestro in mezzo ai suoi discepoli, ma impositivo e autorevole, evidenziando in tal modo la solennità di ciò che sta per dire, a cui viene impresso una valenza dottrinale; dall'altro egli si presenta in una posizione di superiorità dominante, che farà stupire la folla, che vedrà in lui il Profeta e il Cristo, riconoscendogli un'autorità messianica (vv.40-41a). Ed è proprio quest'ultimo aspetto, unito al tempo verbale con cui è espresso il verbo “ístemi”, che apre una nuova prospettiva. Il verbo infatti è al piuccheperfetto indicativo, che indica uno stato presente come conseguenza di un'azione posta nel passato. In altri termini, la sua autorità, la sua autorevolezza e la sua superiorità dipendono da un evento avvenuto in passato, che gli ha consegnato “[...] ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18), la risurrezione. Non è escluso quindi che il verbo in questione alluda e preluda in qualche modo anche alla risurrezione di Gesù. Non è un caso infatti se qui abbiamo un Gesù “dritto in piedi”91, posizione che nel linguaggio neotestamentario, se riferita a Gesù, richiama il suo stato di risorto, in un contesto, qui, in cui si sta parlando del dono dello Spirito che verrà dato dopo la sua glorificazione (v.39). - Un ultimo appunto va posto su questo verbo “eistékei”, che richiama da vicino Es 17,6: “Qui io sto posto davanti a te, là sulla roccia in Oreb; e colpirai la pietra e uscirà da essa l'acqua, e berrà il mio popolo. Così fece Mosè davanti ai figli di Israele”92. Anche qui Dio si presenta a Mosè e al popolo in una posizione di solidità e di fermezza (›sthka, ésteka) simile alla roccia che sta davanti a Mosè e al popolo: “Qui io sto posto davanti a te”. La posizione di Gesù dunque richiama la solidità e la fermezza di quella roccia, che colpita, gettò fuori da sé acqua dissetante e salvifica, così come dal corpo di Gesù colpito dalla lancia uscirà sangue ed acqua, preludio allo Spirito che avrebbe diffuso sui credenti. Paolo in 1Cor 10,4 ricorderà l'episodio, vedendo in esso prefigurato Cristo: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo”.
“gridò” (œkraxen, ékraxen) un verbo che già abbiamo incontrato al v.28 e al quale rimandiamo per un commento più esteso (pag. 28), limitandoci qui a richiamare come questo verbo, che in Giovanni compare solo quattro volte, imprima a ciò che viene detto una forza e una potenza, che si impongono con autorevolezza all'ascoltatore.
I vv.37b-38 riportano il solenne annuncio di Gesù, composto da un proclama (vv.37b-38a) e da una citazione scritturistica (v.38b): “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, chi crede in me. Come disse la Scrittura, fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre”. Il proclama di Gesù che invita l'assetato ad andare a lui per bere e dissetarsi ha come sfondo Is 55,1.3. Vi è infatti un netto parallelismo tra questo detto di Gesù e quello di Isaia.
Isaia 55,1.3 |
Giovanni 7,37b-38a |
a) O voi tutti assetati b) venite all'acqua c) Porgete l'orecchio a me e venite a me d) ascoltate e voi vivrete e) xxxxxxxxxx |
a') Se qualcuno ha sete b') venga a me c') venga a me d') e beva e') chi crede in me |
Se fino alla lettera c-c') le corrispondenze sono evidenti, forse un po' meno risulta d-d'): “ascoltate e voi vivrete”. L'ascoltare su di un piano metaforico e simbolico è sinonimo di bere. Chi ascolta infatti beve le parole e i pensieri che gli vengono dalla sorgente del suo interlocutore. La conseguenza di questo ascolto accogliente è la vita. Isaia accosta due tempi verbali: il presente indicativo (ascoltate) e il futuro (vivrete), poiché il tempo veterotestamentario è ancora il tempo delle promesse e delle attese. Per Giovanni, invece, i tempi verbali sono tutti al presente. La sua escatologia infatti si risolve tutta nel presente, poiché la Parola si è già incarnata qui e ora (1,14a), quale attuazione delle promesse fatte ai Padri (Eb 1,1-2). Ogni promessa e ogni attesa trova il suo vertice e il suo compimento in Lei. La lettera e) invece non ha corrispondente in Isaia, ma è stata aggiunta dall'autore per formare una sorta di inclusione tra il “venire a me” e il “credere in me”, che in Giovanni sono sinonimi. In entrambi i casi credere e venire sono colti in modo dinamico sottolineato dalle due particelle di moto verso luogo “prÒj, e„j” (pros, eis, verso di/a), che seguono i rispettivi verbi. Due espressioni queste che già abbiamo trovato nel nostro commento in 6,35b (comm. cap.6 pag.38), dove fungevano da preludio ai vv.6,37-47, una parentesi dedicata al credere e al credente posta all'interno del discorso sul Pane di vita, in cui le due espressioni si rincorrono numerose volte e formano una sorta di intelaiatura all'intera pericope.
L'esortazione a bere si colloca al centro delle due espressioni tra loro parallele e convergenti su di essa, sia perché l'andare e il credere in Gesù portano al dissetarsi della sua sapienza, collocando il credente nel suo Mistero; sia perché il bere ha come presupposto il credere in lui, colto qui come un cammino, un orientamento esistenziale (pros, eis) verso di lui, che dice attrazione a lui. La condizione a tutto ciò è che uno abbia sete: “Se qualcuno ha sete”. L'anonimia di questa espressione imprime al proclama di Gesù un tono di universalità, ma dice anche il presupposto e la condizione per poter accedere a lui: l'aver sete. La sete esprime uno dei bisogni fondamentali della vita ed indica l'anelito verso l'acqua che disseta, dà la vita e la conserva; in termini metaforici e simbolici essa esprime il desiderio di conoscenza e di sapienza, che dopo essersi dissetato in lui diventa desiderio di Dio (Sal 41,3; 62,2). Dio infatti non è fatto per i superficiali e gli sciocchi93. L'aver sete, questo bisogno vitale che spinge l'uomo alla ricerca dell'acqua dissetante e salvatrice, dice quella forza che nasce dal Padre e che sospinge l'uomo verso suo Figlio, fonte di vita eterna: “Nessuno può venire da me se il Padre che mi ha mandato non lo attira, e io lo risorgerò nell'ultimo giorno” (6,44). Un'attrazione che richiama la visione escatologica del profeta Amos: “Ecco, verranno giorni, - dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d'ascoltare la parola del Signore” (Am 8,11). Fame e sete parlano di ascolto della Parola di Dio, suo Logos Incarnato.
Il proclama di Gesù, strutturato su delle parole chiavi “aver sete”, “bere”, “venire a lui”, richiama da un lato l'esperienza dell'acqua dissetante che in abbondanza sgorgava dalla roccia nel deserto in mezzo ad un popolo assetato (Nm 20,2-5.11); quella roccia in cui Paolo vide prefigurato Cristo (1Cor 10,4) e che qui è richiamata in qualche modo dalla posizione eretta di Gesù espressa dal verbo “eistékei”; dall'altro esso prepara la seconda parte del v.38, la citazione biblica, dove si parla di fiumi d'acqua vivente che sgorgano dal ventre di questa roccia.
Il v.38b, a detta dell'autore, riporta una citazione biblica, che, già lo si è visto sopra (pag.37), si rifà, più che ad un testo specifico, ad una tematica biblica riguardante l'acqua che sgorga e disseta ed ha come agente e sorgente primi Dio, lo Spirito, la sua Parola, la Torah, così che l'acqua, il suo sgorgare, il suo dissetare diventano metafora dell'azione divina verso l'uomo che attinge la salvezza dal suo Dio, rendendosi disponibile ad essa (Is 12,3): “Come disse la Scrittura, fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre”. Due gli elementi di rilievo in questa citazione: l'espressione “Ûdatoj zîntoj” (ídatos zôntos), letteralmente “acqua vivente”, definita con un participio presente per indicarne non soltanto la vita che continuamente palpita in lei, ma anche la natura propria di questa acqua, che possiede in se stessa la vita e la capacità di darla a chi vi attinge. Essa è anche quantificata dal termine “fiumi” per indicarne un'abbondanza piena, traboccante e inesauribile, che richiama da vicino 10,10b: “io venni perché abbiano vita e (l')abbiano con abbondanza”. Il secondo elemento, che in qualche modo prepara il v.39, è il termine “™k tÁj koil…aj” (ek tês koilías), che indica l'origine originante (ek) di questa incontenibile pienezza di vita: “dal suo ventre”. Il termine “koilía” ha una pluralità di significati come “cavità, ventre, addome, utero, stomaco, intestino, visceri”; tutti termini che possiedono un comune denominatore che li associa tra loro: essi indicano indistintamente la cavità toracica dove sono contenute le parti vitali dell'uomo. Esso pertanto designa le profondità dell'uomo, dove in qualche modo si produce e si nasconde l'intero meccanismo della sua vita, di per sé irraggiungibile, pena la vita stessa dell'uomo. Trasferito metaforicamente e simbolicamente a Dio, queste profondità, in cui si genera e palpita la vita, designano l'ineffabilità e l'irraggiungibilità del Mistero stesso di Dio, che Paolo canta in una stupenda dossologia: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen” (Rm 11,33-36). Sono queste realtà divine imperscrutabili e irraggiungibili per l'uomo, che gli sono rivelate per mezzo dello Spirito, l'unico capace di scrutare e sondare le profondità di Dio: “Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1Cor 2,9-12).
Il v.39 riporta l'interpretazione dell'autore circa il proclama di Gesù ed è scandito in due momenti: il significato autentico (v.39a) e la giustificazione di quanto affermato in 39a (v.39b): “Ora, disse questo circa lo Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui; infatti non c'era ancora lo Spirito, poiché Gesù non era stato ancora glorificato”. L'associazione acqua-Spirito è ben attestata nella Bibbia94, già lo si è visto in occasione del commento di Gv 3,5 (pagg.15-16), per questo l'autore non ha alcuna difficoltà ad indicare nel simbolismo dei fiumi traboccanti di acqua vivente l'effusione dello Spirito riservato a coloro che avevano creduto e che defluiscono dal suo ventre. Un'allusione forse a quel sangue ed acqua che sgorgheranno dal costato trafitto di Gesù e da quel profondo respiro che nel momento culminante del suo morire Gesù trasse dalle profondità del suo essere, riconsegnando in tal modo lo Spirito al Padre95 (19,30b), in cui gli studiosi vedono non solo una riconsegna dello Spirito al Padre, ma anche una sorta di prima effusione dello Spirito sui credenti, una sorta di preludio che avrà il suo compimento in 20,22.
La seconda parte del v.39, introdotta da un “g¦r” dichiarativo (gàr, infatti), è una precisazione giustificativa di quel “stavano per ricevere” che lascia intendere come coloro che avevano incominciato a credere in Gesù ancora non avevano ricevuto lo Spirito. La motivazione è perché “Gesù non era stato ancora glorificato”. Un'affermazione quanto mai singolare che verrà riconfermata in 16,7 e preceduta da un'altra equivoca: “infatti non c'era ancora lo Spirito”; un “non c'era ancora” che ovviamente va inteso “sui credenti” che stavano per riceverlo. La coeternità dello Spirito con il Padre e il Figlio del resto è testimoniata da 15,26; uno Spirito che vediamo testimoniato anche dal Battista in 1,32.33. Ma ciò che può stupire è la precisazione che lega l'effusione dello Spirito alla glorificazione di Gesù. Per quel che se ne può sapere vediamo come ogni componente la Trinità è da noi conosciuto per il ruolo che svolge nell'ambito della storia della salvezza. Quello dello Spirito è prendere il posto di Gesù e continuare la sua opera salvifica attingendo da lui, dimorando presso i credenti, sostenendoli nella verità e conducendoli alla sua pienezza96. Ma la sua funzione non è solo illuminante e sostenitrice del credente nel suo cammino verso il Padre, ma anche avvolgente e coinvolgente nella stessa vita di Dio, nel senso che la sua effusione sui credenti rende possibile il loro accorpamento alla vita stessa di Dio, in Cristo e per Cristo97. In altri termini lo Spirito, in quanto potenza di Dio in atto, è colui che rende possibile la partecipazione dei credenti alle promesse attuatesi in Cristo, che a sua volta opera per la potenza dello Spirito e si muove secondo i suoi impulsi98. Un Gesù che è venuto ad inaugurare i tempi dello Spirito, che verrà emanato attraverso la sua glorificazione, così che lo Spirito del Risorto potrà continuare l'opera iniziata dal Gesù storico, ora trasformato per la potenza dello Spirito (Rm 1,4), prendendo e ripartendo da essa per portarla a pieno compimento nei credenti (16,12-15).
I vv.40-44 riportano la reazione della gente al solenne proclama di Gesù (vv.37-38), che vede il fronte spaccarsi in due parti: chi riconosce in Gesù il Profeta e il Cristo e chi si oppone a una simile comprensione di Gesù per motivi scritturistici e che degenererà in un tentativo di arresto. Leggendo attentamente il vangelo giovanneo si rileva in esso il riflettersi delle attese giudaiche circa la venuta dell' “™rcÒmenoj” (ercómenos, colui che viene) espressione ricorrente nei vangeli99 con cui si indicava il messia o il profeta messianico atteso. Fin dal primo capitolo si accentra l'attenzione sul Battista e si indaga sulla sua identità per capire in quale schema scritturistico esso possa in qualche modo rientrare: è forse il Cristo, il Profeta o Elia? (1,20-25). Ma tutte le attese scritturistiche e della Tradizione sembrano essere inadeguate per poter cogliere la novità dell'evento storico che si sta profilando all'orizzonte. Il Battista non è nessuno dei tre (1,20-21), ma solo un testimone precursore (1,7-8; 3,28). La ricerca dell'identità del Cristo e del Profeta non si arresta, ma continua insistente nel racconto giovanneo e si sposta dal Battista a Gesù100, attorno al quale si concentrano i due titoli messianici, che man mano il racconto procede s'impongono sempre più a favore di Gesù, creando attorno a lui dissensi, divisioni e abbandoni101.
vv.40-42: il v.40 si apre mettendo in evidenza tra la folla una particolare categoria di persone: “coloro che ascoltarono queste parole”. Dall'ascolto accogliente nasce la scoperta dell'identità di Gesù e se ne profila una duplice definizione: egli è “il Profeta” (Ð prof»thj, o profétes). La presenza dell'articolo determinativo davanti al titolo dice che Gesù non è colto come uno dei tanti profeti, ma quel Profeta messianico di cui Dio parlò a Mosè, annunciandone la venuta (Dt 18,15.18). Altri individuano in lui “il Cristo”, cioè il Messia. Ma ciò che si contrappone a questo tipo di comprensione di Gesù è l'interpretazione che il giudaismo aveva dato delle Scritture e da cui aveva elaborato le proprie attese. Al v.27 infatti si era parlato di un messia nascosto nella cui categoria Gesù non rientrava, poiché, sottolineava ironicamente Giovanni, la folla conosceva le origini di Gesù; qui al v.41b vi è una diversa attesa messianica, quella del filone maggiore della Tradizione e che si riscontra anche in Mt 2,5-6 e a cui allude lo stesso Lc 2,4. Questa posizione del giudaismo, strettamente vincolato alla lettera delle Scritture e alla Tradizione, non riesce ad uscirne, rendendosi incapace di cogliere la novità dell'evento Gesù: “No, infatti, forse che il Cristo viene dalla Galilea? Non disse la Scrittura che il Cristo viene dal seme di Davide e da Betlemme, il villaggio dov'era Davide?”. Una simile posizione la troviamo al termine della pericope seguente, là dove si rimprovera a Nicodemo di parteggiare per Gesù: “Indaga e vedi che dalla Galilea non sorge profeta” (v.52b). E così anche Natanaele aveva canzonato Filippo, che con entusiasmo gli annunciava di aver trovato il Messia (1,45): “Da Nazareth può esserci qualcosa di buono?” (1,46). Il Gesù giovanneo in 5,39.46 aveva già avuto modo di redarguire il giudaismo proprio per la miopia con cui leggeva le Scritture e interpretava la Tradizione. Le attese messianiche pertanto erano concentrate sulla discendenza davidica e su Betlemme, da cui era originario Davide (1Sam 17,12). Quanto alla discendenza davidica questa traeva la sua giustificazione dalla profezia di Natan fatta al re Davide (2Sam 7,12-16); quanto al luogo di origine, Betlemme, esso si rifaceva a Mic 5,1, profezia, come si è qui sopra accennato, dalla quale attinsero anche Matteo e Luca.
vv.43-44: il contrasto sulla persona di Gesù non fu privo di conseguenze per il giudaismo al cui interno si crearono delle divisioni e delle contrapposizioni di discordanti pareri, che porteranno le autorità a sanzionare chiunque avesse riconosciuto Gesù come il Cristo o si fosse fatto in qualche modo suo seguace102; dall'altro si innescò un sistema persecutorio nei suoi confronti che, a partire da questo cap.7 in poi, si farà sempre più pressante fino al suo arresto e al suo assassinio. Contrasti e divisioni che lo stesso Luca sottolineerà nel suo racconto con la profezia del vecchio Simeone: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35a); e alla madre, alludendo alla passione e morte di suo figli, preannuncerà che anche a lei “una spada trafiggerà l'anima” (2,35b).
Contrasti e divisioni all'interno delle autorità giudaiche
Testo (vv.45-53)
45- Vennero, dunque, i servi dai sommi sacerdoti e dai
Farisei, e quelli dissero loro: <<Per che cosa non lo avete
portato?>>.
46- Risposero i servi: <<Mai un uomo parlò
così>>.
47- Risposero dunque a loro i Farisei: <<Forse che
siete stati fuorviati anche voi?
48- Forse che qualcuno dei capi o dei Farisei ha creduto
in lui?
49-
Ma questa folla che non conosce
la Legge, (questi) sono esecrabili>>.
50- Nicodemo, uno che era dei loro (e) che era andato da
lui precedentemente, dice a loro:
51-
<<Forse che la nostra Legge giudica l'uomo se prima non ha
ascoltato da lui e ha conosciuto
che cosa fa?>>.
52- Risposero e gli dissero: <<Sei forse anche tu
dalla Galilea? Indaga e vedi che dalla Galilea non sorge profeta>>.
53- E se ne andarono ciascuno a casa propria.
Note generali
Quest'ultima pericope, che narra dei contrasti sorti all'interno del gruppo delle autorità circa la persona di Gesù, funge da contraltare alla prima (vv.3-9), dove similmente l'autore racconta dei contrasti all'interno del gruppo familiare di Gesù al suo riguardo. Si formano in tal modo due poli opposti, privato e pubblico, attraverso i quali passano i contrasti tra le folle. Al centro di tutto la controversa identità di Gesù, che sembra agitare l'intera società ad ogni livello. Si viene così a creare un unico racconto, che ha come comune denominatore la forte tensione che si sta polarizzando attorno alla persona di Gesù, che crea ovunque dissensi e divisioni. Segno questo che Gesù si colloca in mezzo agli uomini come elemento di discriminazione e di giudizio, spingendoli, loro malgrado, a prendere posizione nei suoi confronti.
Narrativamente questa pericope riprende il racconto iniziatosi ai vv.31-32 in cui i Farisei e i sommi sacerdoti all'udire tra la folla insinuazioni messianiche su Gesù, ne dispongono l'arresto. Tra l'ordine di arresto, impartito nel contesto del v.14, allorché la festa era giunta a metà, e il ritorno dei servi a mani vuote, avvenuto nel contesto dell'ultimo giorno della festa (v.37) dovrebbero essere passati all'incirca quattro giorni, un lasso di tempo eccessivo per eseguire un ordine di cattura nei confronti di una persona che era pubblicamente esposta. Tuttavia in questo caso la tempistica giovannea non sembra avere rilevanza teologica e probabilmente il particolare è sfuggito anche al suo redattore finale.
La struttura della pericope è scandita in due momenti: a) il rapporto dei servi sul mancato arresto di Gesù con la conseguente reazione stizzita delle autorità; b) la spaccatura all'interno del gruppo delle autorità per l'intervento a favore di Gesù operato da parte di Nicodemo, che causa lo scioglimento del gruppo stesso (v.53), decretandone il fallimento. Il lettore, già edotto dal v.30b, sa che niente può ancora succedere contro Gesù, perché non è ancora giunta la sua ora.
Elemento di congiunzione e di passaggio tra le due parti è il giudizio che l'autore mette in bocca alle autorità giudaiche al v.49, posto non casualmente al centro della pericope e che come si vedrà ricadrà proprio sulle teste delle autorità stesse. La pericope pertanto si muove su di un duplice sfondo che punta da un lato ad esaltare l'autorità e l'autorevolezza di Gesù a scapito delle autorità religiose; dall'altro a condannare la persistente chiusura di queste che va a violare la stessa Legge, di cui esse si proclamano tutrici.
Commento ai vv.45-53
I vv.45-49 narrano un episodio di normale rapporto alle autorità che avevano impartito un ordine di cattura, in questo caso non eseguito (v.32). La motivazione che giustifica il mancato arresto è “Mai un uomo parlò così”. Anche i servi dunque fanno parte di quelle persone tra la folla che ascoltarono (v.40a) e che in qualche modo hanno accolto in loro le parole di Gesù, riconoscendone la superiorità. Certo loro non hanno partecipato al dibattito di cui ai vv.41-42, ma certamente essi hanno operato una scelta di campo a tutto favore di Gesù: “Mai un uomo parlò così”, riconoscendo in tal modo a Gesù un'autorità e un'autorevolezza che le loro stesse autorità religiose non avevano. Hanno preferito infatti trasgredire il loro ordine. Lo sfondo su cui si muove questa scena richiama da vicino le folle dei sinottici, che dopo aver ascoltato Gesù, gli riconoscono un'autorità e un'autorevolezza che esse non avevano mai riscontrato negli scribi e nei farisei, testimoniando in tal modo in Gesù una presenza superiore103, che le stesse autorità religiose temono (11,48).
La risposta delle autorità (v.48) è di fatto un'accusa nei confronti dei loro stessi servi, dai quali si sentono traditi e ai quali indicano come parametro di raffronto, in alternativa a Gesù, se stesse, proponendosi come guide sicure di verità, a cui loro avrebbero fatto bene dare ascolto. Infatti ora esse lanciano un anatema contro i seguaci di Gesù e, quindi, anche contro i loro stessi servi: “Ma questa folla che non conosce la Legge, (questi) sono esecrabili” (v.49). Più che una vera e propria citazione scritturistica si tratta di una sorta di sentenza dai ritmi sapienziali, che racchiude in se stessa un giudizio di condanna. Anche se non in modo esplicito essa ha per sfondo tutti quei passi scritturistici che lanciano anatemi e maledizioni su chi trasgredisce la Torah104. Ma vi è in essa anche un senso di disprezzo nei confronti della gente che per la loro condizione sociale non conosceva la Legge e che veniva definita come “'am hā' āres”, cioè gente della terra, gente quindi rozza e incolta, che molto probabilmente per il loro contatto con gli animali viveva anche in un costante stato di impurità e su cui pesava la maledizione di Dio. Pirque Abot105 in 2,6 attesta che il popolo della terra non può essere santo. Un problema questo già era presente in Ger 5,4, che invece tendeva a scusarli106.
Il v.49, posto al centro della pericope, ne costituisce il cuore e come si è visto formula un giudizio di condanna contro coloro che non conoscono la Torah. Quanto ora segue (vv.50-53) vedrà il ribaltarsi di questo giudizio sulle stesse autorità.
I vv.50-53 infatti presentano la diatriba tra Nicodemo, che l'autore sottilmente definisce “uno di loro”, con i Farisei e i sommi sacerdoti. L'episodio ha un duplice intento: da un lato rimarcare la divisione che si sta creando all'interno dello stesso Sinedrio sulla persona di Gesù; dall'altro accusare lo stesso Sinedrio di parzialità e di trasgressione della Torah: “Forse che la nostra Legge giudica l'uomo se prima non ha ascoltato da lui e ha conosciuto che cosa fa?”. Il giudizio di condanna emanato dalle autorità religiose sulla gente ignorante circa la Torah (v.49), si riversa ora sulle stesse autorità, che la violano palesemente. Questo è un primo livello di interpretazione, quello che la narrazione offre al lettore, il più intuibile e che di fatto crea un contesto di giudizio, che qui viene posto sul giudaismo, che si vantava di conoscere la Legge e di sentirsene maestro, salvo poi violarla all'occasione. Un'accusa che lo stesso Paolo muoverà in Rm 2,1: “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose”. Ma la fine ironia di Giovanni e il gioco dei doppi sensi che egli usa nello stendere il suo racconto, lasciano intravvedere in quel “non ha ascoltato” e “non ha conosciuto” ciò che Gesù ha fatto e ha detto un'accusa ben più grave che quella di una semplice violazione della Torah: quella di una pervicace e invincibile incredulità, sottese dal rifiuto di Gesù, che si discostava dalla Tradizione e dalle loro attese, che li rendeva miopi di fronte al dispiegarsi di un nuovo evento. Eppure la sapienza dei Proverbi esortava i figli d'Israele all'ascolto e alla conoscenza: “Ascoltate, o figli, l'istruzione di un padre e fate attenzione per conoscere la verità, poiché io vi do un dono buono; non abbandonate il mio insegnamento” (Prv 4,1-2); mentre Isaia ne lamentava la trasgressione a motivo di una cecità pervicace: “Egli disse: <<Va e riferisci a questo popolo: Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d'orecchio e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da esser guarito>>” (Is 6,9-10). Ascoltare e conoscere, due verbi sinonimi nella teologia di Israele e che hanno a che vedere con l'Alleanza e la Torah, che di fronte all'evento Gesù chiedevano di essere rivisitate e ricomprese alla sua luce, poiché proprio queste gli rendevano testimonianza (5,39.46; Lc 24,27).
La risposta dei sinedriti è stizzita e offensiva: da un lato si accusa Nicodemo di partitismo campanilistico; dall'altra lo si sollecita ad approfondire le Scritture da cui si evince, secondo la tradizione più affermata, che il Messia doveva provenire dalla Giudea, da Betlemme (Mi 5,1), dalla stirpe davidica (2Sam 7,8-16). Ancora una volta la comprensione si è soffermata sulla forma della lettera, impedendo al giudaismo di coglierne la sostanza. E fu proprio questa incapacità ad andare oltre che ridusse il giudaismo nell'aridità di un culto della Lettera. La conclusione, che denuncia questa incapacità di un secondo livello di comprensione delle Scritture, quello della sostanza, fu che i sinedriti, suprema espressione del giudaismo, “se ne andarono ciascuno a casa propria”(v.53). È la stessa espressione che riscontriamo in 20,10 dove i discepoli, dopo la scoperta della tomba vuota, se ne tornarono ognuno a casa propria, perché, precisa l'evangelista “non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti” (20,9). È dunque l'incomprensione delle Scritture che determina l'involuzione spirituale, metaforizzata da quel “ritornare alla propria casa”.
1Contrariamente a molti esegeti che estendono questa sezione fino al cap.10,21, ho preferito contenerla entro i capp.7-9 perché tra loro legati da elementi geografici e temporali e, per un qualche aspetto, anche tematici, che li accomunano. Quanto al cap.10 l'ho escluso perché non solo è un capitolo a se stante, collocato all'interno della festività della Dedicazione (10,22), ma, come vedremo nell'apposito commento, è anche un capitolo completamente da ristrutturare, perché così com'è presenta numerose incongruenze narrative e strutturali.
2In questo versetto si dice che Gesù salì alla festa, espressione che sta per Gesù salì a Gerusalemme per la festa. L'autore dice “salire” perché Gerusalemme si trova a circa 750 metri sul livello del mare e per raggiungerla è necessario affrontare una ripida salita. Anche Luca nella sua parabola del Buon Samaritano racconta di un uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,30a).
3Cfr. Gv 7,14.28; 8,2.20.59
4I vv.8,1-2 non vanno considerati delle interpolazioni alla stregua del racconto dell'adultera (8,3-11), ma sono introduttivi ai tre grandi discorsi che seguono (8,12-20.21-30.31-58). Il v.8,2 infatti dice che Gesù salì nuovamente al tempio e sedutosi ammaestrava il popolo che lo aveva seguito. I tre grandi discorsi che seguono sono pertanto l'ammaestramento preannunciato in 8,2. I vv.8,1-2 si rendono poi narrativamente necessari perché, segnalando un cambio di scena geografico e temporale, avvertono il lettore che sta per iniziare una nuova unità narrativa, circoscritta dall'inclusione data dai vv.8,2a e 59b, entrata ed uscita dal tempio di Gesù.
5Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico testamento, Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1997, ristampa 2002; pag. 477
6Cfr. Gv 7,11.15.19.20.25.26.31.35.36.41.42.45.47.48.52
7Cfr. Gv 7,1.6a.8b.19.20.25.30.32.44
8Cfr. Gv 7,6b.8.30
9Riferimenti ala passione e alla morte di Gesù nei primi sei capitoli compaiono soltanto quattro volte e in modo del tutto marginale in 2,19 e in 5,16.18 e in 6,71.
10Cfr. Gv 7,1.6a.8b.19c.20.25.30.32.33; 8,20.28.37.40.44.59; 10,31-33.39; 11,50-53.57; 12,7.23-24.27.32-33.35a.
11Cfr. Gv 2,4; 7,6.8b.30; 8,20.
12Cfr. Gv 12,23; 13,1; 16,21.32; 17,31.
13Cfr. Gv 7,12.15.26.40.41a.
14Cfr. Gv 7,5.12.13.20.25.30.32.43.44.
15L'espressione “met¦ taàta” ricorre nei vangeli 15 volte: 2 in Mc 16,12.20; 5 in Lc 5,27;10,1; 12,4; 17,8;18,4; e 8 volte in Gv 3,22; 5,1.14; 6,1; 7,1; 13,7; 19,38; 21,1.
16Sulla questione dell'inversione dei capp. 5.6, per cui la sequenza giusta è 4.6.5.7, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.45-46, punto 8).
17 Mt 4,23; Mc 1,14.28.39; Lc 4,14-15
18Cfr. Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-11
19Cfr. Gv 5,18; 7,1.19.25; 8,37.40; 11,49-50.53; 12,10
20Il termine “skenopeghía” è composto dal vocabolo “skênos” (tenda) e dal verbo “pégnimi” (piantare, conficcare per terra, costruire). Il termine ricorre in tutta la Bibbia 9 volte di cui 8 nell'A.T. e una sola volta nel N.T., qui in Gv 7,2.
21Cfr. Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche 8,100
22Sul tema della ritualità dell'acqua nella festa di Sukkot cfr. A.M. Lupo, La sete, l'acqua e lo Spirito – Studio esegetico e teologico sulla connessione dei termini negli scritti giovannei, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2003; S. Grasso, Il Vangelo di Giovanni – commento esegetico e teologico, Editrice Città Nuova, Roma 2008
23Il cubito è la distanza che intercorre tra il gomito e la punta del dito medio, standardizzata in 44,45 cm. Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico testamento; e la voce “Pesi e misure” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, opp. citt.
24Mt 17,1-8; Mc 9,2-9; Lc 9,28-36
25Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, Edizioni Messaggero di S.Antonio, Padova 1997; G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, 2001 – terza edizione, pag.345; R. Fabris, Matteo, Edizioni Borla, Roma 1996 – pag.381, nota 4; J. Hervieux, Vangelo di Marco, commento pastorale, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, 1993 – pag.158.
26Cfr. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13
27Benché conosciute come il racconto delle tentazioni, il verbo greco usato per indicare l'essere tentato di Gesù è “peir£zw” (peirázo), che significa, più che tentare, “mettere alla prova”.
28Cfr. Mt 16,13-14; 26,63; Mc 8,27-28;14,61; Lc 9,18-19; 22,66-67
29L'episodio dei fratelli che vogliono sospingere Gesù a Gerusalemme affinché desse dimostrazione della sua potenza e delle sue abilità taumaturgiche assomiglia molto ad una delle tre tentazioni, quella in cui satana porta Gesù sul pinnacolo del tempio e lo invita a compiere un gesto clamoroso, dimostrando in tal modo la sua divinità (Mt 4,5-7; Lc 4,9-11).
30Cfr. Mt 16,21-23; Mc 8,31-33.
31Sulla questione della parentela di Gesù cfr. il mio studio sui fratelli di Gesù in “Il racconto di Matteo”, pagg.28-30, presente sul mio sito di “Teologia per Tutti”, “Sezione esegetica”, area “Matteo”.
32Cfr. Mt 8,4; 9,30; 16,20; 17,9; Mc 1,25.44; 5,43; 7,36; Mc 1,44; 5,43; 7,24.36; 8,30; 9,9; Lc 4,35; 5,14; 8,56; 9,21.
33Sul rapporto di Gesù con sua madre cfr. il commento al cap.2 della presente opera, pagg.7-9; e il “Il racconto di Matteo”, pagg.24-27, presente sul mio sito di “Teologia per Tutti”, “Sezione esegetica”, area “Matteo”.
34Sul tema della figura di Gesù nel suo rapporto con il mondo giudaico cfr. il mio studio “Ma veramente i Giudei furono perfidi?”, presente sul mio sito di “Teologia per Tutti”, “Sezione esegetica”, area “Altri scritti”.
35Cfr. sopra in “Note generali”, pag.8
36Il termine “mondo” ricorre in Giovanni 78 volte e a seconda del contesto in cui viene a trovarsi assume diversi significati. Esso va inteso a) come luogo fisico, storico, abitato dagli uomini; b) nel senso di uomini, di umanità; c) nel senso di forza avversa a Dio, come nella fattispecie; d) in senso onnicomprensivo di umanità e creazione. - Per un maggiore approfondimento cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.67-69.
37Nel 1892 il teologo luterano tedesco Bernhard Duhm (1847-1928) aveva individuato tra i capp.40-55 di Isaia quattro testi che presentano in modo misterioso il Servo di Jhwh. Compare qui come una figura isolata che compie una particolare missione divina, affidata ad Israele e ai popoli. Egli soffre, ma non si ribella e infine muore per i nostri peccati e viene glorificato da Dio. I quattro testi che il Duhm ha rilevato sono Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-52,12. - Cfr. la voce “Servo di Jhwh” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
38Sul significato di tale nome in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera alle pagg.61-62
39La festività delle Capanne durava una settima, da sabato a venerdì, a cui si aggiunse, secondo Lv 23,36b, un ottavo giorno di transizione, cadente di sabato. L'avvertimento che si è giunti a meta della festa, significa che quel giorno era martedì. Siamo dunque nel pieno delle celebrazioni.
40Grammaticalmente il genitivo assoluto esprime un punto di partenza, una condizione, che forma da premessa, da causa, da contesto in cui si pone e/o si relaziona quanto segue.
41Cfr. Es 3,9; 20,18-20; 34,29-30; Dt 5,5; 1Sam 12,17-19; 1Re 19,11-13.
42Cfr. Mt 7,28; 8,27; 9,33; 13,54; 15,31; Mc 1,22; 5,42; 6,2.51; 7,37; 10,32; Lc 2,18.33.47; 5,9.26; 9,43; 24,12.37.41-
43Cfr. Es 10,2; 13,8.14; Dt 4,9; 6,7.20-21; 11,19; 32,46;
44Sulla questione della formazione scolastica e rabbinica cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica – Storia e teologia, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005; il lemma “Scuola” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; G.STEMBERGER, La Religione Ebraica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998; R. DeVaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002.
45Cfr. Mt 12,1-8.10-12; Mc 2,23-28; 3,1-5; Lc 6,1-5.6-10; 13,10-14; 14,1-4; Gv 5,10-11; 7,23; 9,14.16;
46Cfr. Mt 15,1-2.11.20; 23,25; Mc 7,2-5.15; Lc 11,39-41;
47Cfr. Mt 9,14-15; Mc 2,18-19; Lc 5,33-34;
48Circa i rapporti di Gesù con il Giudaismo, cfr. il mio studio “Ma veramente i Giudei furono perfidi?”, sul mio sito di “Teologia per Tutti”, Sezione esegetica, area “Altri Scritti”.
49Cfr. Mt 21,12; Mc 11,15; Lc 19,45; Gv 2,14-16
50Sulla questione cfr. il commento al cap.2,14-17 della presente opera.
51Cfr. Mt 7,29; 23; Mc 1,22.27; Lc 4,32;
52Cfr. Mt 7,29; 23; Mc 1,22.27; Lc 4,32;
53L'ebraismo ha una duplice Torah, quella scritta, che la Tradizione attesta essere stata data da Jhwh ad Israele per il tramite di Mosè sul monte Sinai (Es 24,12); e quella orale, interpretativa di quella scritta e formatasi nel tempo. La prima contiene 613 precetti; la seconda, in quanto interpretativa, un numero incalcolabile di disposizioni che nel tempo divennero ingestibili. Esse costituiscono la doppia faccia dell'unica medaglia: la Torah, in cui è espressa dogmaticamente la volontà divina. Le due Torah sono tra loro strettamente legate e indivisibili. Secondo la Tradizione rabbinica la fonte originaria della Torah è il Sinai, dove Dio dette a Mosè tutta la Torah, sia quella scritta che quella orale. La Torah orale, che tale doveva rimanere, fu tuttavia messa per iscritto verso la fine del II sec. d.C. ad iniziativa di Rabbi Yehuda ha-Nasi sia perché l'enorme quantità di interpretazioni e di precettistica accumulatisi nel tempo divennero impossibili da gestire soltanto oralmente, sia perché il pericolo costante di guerre e di persecuzioni rischiava di disperdere un patrimonio culturale e religioso di enorme rilevanza. Nacque in tal modo la Mishnah - Sul tema cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello balsamo, 2005; cfr. anche la voce “Mishna” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
54Similmente cfr. Lc 11,46
55Cfr. Mt 15,3-9; 23,1-39; Mc 7,1-13; 11,42-52; At 7,51-53
56Cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, nota 45, pag.549; op. cit.
57Cfr. Mt 12,10-13; 9,11-13.36; 12,7; 14,14; 15,32; 23,23; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 10,33; 15,20; Gv 11,33.38.
58Cfr. Gv 7,20; 8,48-49.52; 10,20-21
59Cfr. Mt 10,25; 12,24.27; Mc 3,22; Lc 11,15.18.19
60Anche il Gesù sinottico, nella sua diatriba circa il sabato, la purità e il digiuno mette in rilievo più volte le diverse contraddizioni all'interno del sistema religioso giudaico. In tal senso cfr. Mt 12,1-5; 12,10-12; 15,1-6.10-11; 23,4.16-21.23.24-28; Mc 2,23-27; 7,1-13.14-23; Lc 6,1-4.9; 13,14-15; 14,3-6;
61Cfr. Mt 12,1-2.10-14; Mc 2,23-24; 3,1-6; Lc 6,1-2; 6,6-11; 13,10-17; 14,1-6; Gv 5,8-11.16.18; 9,14-16
62Questo tipo di interpretazione adottato dal giudaismo aveva portato a creare una categoria particolare di comandamenti, gli huqim o decreti. Si trattava di norme in apparenza prive di motivazione, che servivano a misurare la capacità di obbedienza e di sottomissione a Dio, accettando di eseguire anche comandi che potevano sembrare privi di logica. Sul tema cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, pag.374, op. cit.
63La rigida osservanza del sabato fu imposta in epoca postesilica, allorché, per la debolezza politica, la promiscuità religiosa venutasi a creare nel periodo esilico (597-538 a.C.) e la necessità di ricreare una nuova identità cultuale e culturale, la nuova classe di scribi ritenne di dover rendere più severa la precettistica riguardante il sabato. Tuttavia il giudaismo fu sempre ben consapevole dell'impossibilità di una perfetta osservanza del sabato, tant'è che un adagio rabbinico rimarcava questa difficoltà: “Se venisse osservato anche un solo sabato, giungerebbe il messia”. Sulla questione del sabato cfr. la voce “Sabato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
64Cfr. Mt 21,42-44; 26,54.56; Lc 4,21; 22,37; 24,27.45; Gv 2,22; 5,39; 7,38.42; 13,18; 17,12; 19,24.28.36.37; 20,9.
65Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag.28
66Cfr. Mt 26,63; Mc 14,61-64; Lc 22,67-71
67Cfr. Gv 5,18; 8,58-59; 10,31-33.36-39
68Cfr. Gv 1,48; 2,9; 3,8; 4,11; 6,5; 7,27.28; 8,14; 9,29.30; 19,9.
69Il “Dialogo con Trifone” è la più antica apologia cristiana contro gli ebrei, che ci sia pervenuta. L'opera fu composta probabilmente tra il 132-135 d.C., epoca questa in cui avvenne la rivolta giudaica contro Roma, capeggiata da Bar Kokhbah, di cui Giustino fa cenno ai capp.1 e 9. L'opera riporta una discussione tra Giustino e un ebreo istruito, probabilmente lo stesso Tarfon, di cui fa cenno la Mishnah. Secondo Eusebio di Cesare la discussione ebbe luogo ad Efeso e riporta conversazioni e dialoghi realmente avvenuti. - Cfr. Johannes Quasten, Patrologia, i primi due secoli (II-III), Vol. I, Editrice Marietti, Assisi1992.
70Questo passo citato è notevole, poiché di fatto richiama da vicino la figura del Battista, che è indicato dai Sinottici come l'Elia che deve venire (Mt 11,14; 17,10-12; Mc 9,11-13; Lc 1,17). E sarà proprio lui, il Battista a manifestare pubblicamente e ai suoi discepoli Gesù come il Cristo (Mt 3,11-17; Mc 1,4-11; Lc 3,15-17; Gv 1,26-27.29-34.35-37)
71Cfr. Gv 1,15; 7,28.37; 12,44
72Cfr. Gv 18,40; 19,6.12.15
73Il perfetto indicativo in greco esprime uno stato presente quale conseguenza di un'azione passata.
74Cfr. Gv 3,13; 6,46; 8,40.42; 13,3; 16,27.30; 17,7.8
75Cfr. Gv 8,42; 10,30; 14,9-11; 16,28.30; 17,8.11.21
76Ef 1,4; At 2,23; Rm 3,25; Ef 1,9
77Sul verbo la voce “Credere” nella Parte Introduttiva della presente opera, pagg.60-61
78Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.3-7
79Secondo un filone della tradizione giudaica dal messia atteso ci si aspettava dei segni portentosi e inequivocabili. Ai discepoli del Battista che gli chiesero se era lui “colui che viene”, cioè il messia, Gesù risponderà citando liberamente Isaia (Mt 11,5; Lc 7,22). Mc 13,22 e Mt 24,24 mettono in guardia dai falsi profeti e dai falsi cristi operatori di prodigi eclatanti; non di rado le autorità giudaiche a fronte dell'operare di Gesù, che poteva richiamare quello messianico, gli chiedono un segno a conferma delle sue pretese (Mt 12,38; 16,1; Mc 8,11; Lc 11,16; Gv 2,18; 6,30; 10,41). In Gv 6,15 la gente, visto il segno del pane, accorrono da Gesù per proclamarlo re messianico, mentre in Gv 6,14, altri leggono in lui il Profeta che doveva venire nel mondo.
80Cfr. Il commento al cap.6
81Cfr. Gv 5,16.18; 6,58; 7,1.19.20.25
82Sulla questione Pilato, autorità giudaiche e Gesù cfr. il commento al cap.2, nota 54. Per un approfondimento della figura di Pilato cfr. la mia opera “Il racconto di Matteo”, pagg.40-42, reperibile presso il mio sito di Teologia per Tutti, Sezione Esegetica, Area Matteo.
83L'annuncio della passione e morte del Gesù sinottico avverrà in termini diretti e questo provocherà la reazione negativa di Pietro e dei discepoli. In tal senso cfr. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19; Mc 8,31-33; 9,30-32; 10,32-34; Lc 9,22.44-45; 18,31-34
84Cfr. Gv 8,21; 12,35; 13,33; 14,19; 16,16;
85Questo aspetto del tempo di Gesù che si prolunga e continua nel tempo della Chiesa viene sottolineato molto bene dalla stessa opera di Luca, che al suo vangelo fa seguire senza discontinuità temporale il racconto degli Atti degli Apostoli, ossia del primo diffondersi della chiesa nel mondo.
86Sul significato del termine “Giudei” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag. 61
87L'osservazione viene mossa da R. E. Brown, in Giovanni, editrice Cittadella, Assisi 1999 – 5^ edizione – pag. 405
88Su questa posizione anche R. E. Brown, Giovanni, op. cit. - pagg.413-418
89Il verbo “ístemi” esprime in se stesso una forza che si impone drasticamente e che va a rafforzare l'azione del verbo, imprimendogli un forte vigore. In tal senso esso assume significati spesso impositivi e autorevoli, come disporre, imporre, ordinare, istituire, stabilire, rizzarsi in piedi, stare fermo lì, fissare, stare immobile, resistere.
90Cfr. Mt 5,1-2; 24,3-4; Mc 9.35; Lc 5,3; Gv 8,2
91La posizione di “diritto in piedi” descrive la posizione dell'Agnello dell'Apocalisse, che Giovanni vede in mezzo al trono, ai quattro Viventi e agli Anziani: “E vidi in mezzo al trono e ai quattro Viventi e in mezzo agli Anziani un agnello, come sgozzato, diritto in piedi” (Ap 5,6a). L'allusione simbolica è al Cristo morto e risorto.
92Traduzione dal testo greco della LXX fatta da me, perché la traduzione italiana non rendeva bene il senso di Es 17,6 nella prima parte.
93Cfr. Sal 52,2; 72,22; 91,7; Prv 1,22.32; 14,8; Qo 10,12-13; Ger 4,22; 5,21
94Sul rapporto acqua-Spirito nell'A.T. cfr. il mio commento a Gv 3,5 – pagg.15-16. Cfr. anche, per l'A.T. : Gen 1,2; Gdc 15,19; Ne 9,20; Is 44,3; 63,11; Ez 36,25-27 Per il N.T. cfr. Mt 3,11.16; Mc 1,8.10; Lc 3,16; Gv 1,33; 3,5; 7,38-39; At 1,5; 8,39; 10,47; 11,16; 1Gv 5,6.8; Ap 22,17. - Cfr. anche R.E. Brown, Giovanni, editrice Cittadella, Assisi 1999 – pag.419
95L'espressione greca “paršdwken tÕ pneàma” (parédoken tò pneûma) (Gv 19,30b) significa infatti “riconsegnò lo spirito”, ma anche “trasmise lo spirito”. Il verbo “parad…dwmi” (paradídomi), infatti ha questo doppio significato: di consegnare, ma anche di trasmettere, tramandare. Cfr. R.E. Brown, Giovanni, op. cit. - pag. 1159; X. Léon-Dufour, Lettura del Vangelo secondo Giovanni, edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, seconda edizione 2007; A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.
96Cfr. Gv 14,16-17.26; 15,26-27; 16,7.12-14
97Cfr. Rm 5,5; 7,6; 8,9.11-16.23.26; 1Cor 12,1.4-11
98Cfr. Gv Mt 4,1; 12,18.28; Mc 1,10; Lc 1,15; 3,16.22; 4,1.14.18; 10,21
99Cfr. Mt 3,11; 11,3; 16,28; 23,39; 24,30; 26,64; Mc 11,9.10; 13,26; 14,62; Lc 7,19.20; 13,35; 19,38; 21,27; Gv 1,9.15.27.29; 12,13.15
100 Cfr. Gv 1,41; 4,19.25; 6,14; 7,26.31.40.41; 9,17.22; 10,24; 11,27; 12,34; 17,3; 20,31
101 Cfr. Gv 6,66; 7,43; 9,16; 10,19
102 Cfr. Gv 7,13; 9,22; 12,42; 19,38; 20,19
103 Cfr. Mt 7,29; 9,8; Mc 1,22.27; Lc 4,32.36;
104 Cfr. Dt 11,26-28; 27,14-26; Dt 28,15-46; Ger 11,3; 17,5; 48,10a;
105 Letteralmente “I capitoli dei Padri”. Si tratta di una raccolta di detti e di insegnamenti rabbinici dell'epoca mishnaica (II sec. d.C.). Per i sui contenuti è chiamata anche Etica dei padri o Massime dei Padri.
106 Per la citazione cfr. S.Grasso, Il Vangelo di Giovanni – commento esegetico e teologico, op. cit. - pag.352, nota74; e in R.E. Brown, Giovanni, op. cit.- pag. 421