IL VANGELO SECONDO GIOVANNI


L'attività pubblica di Gesù
incorniciata da quattro
grandi feste ebraiche

ossia

l'operare trasformante
e rigenerante di Gesù
collocato nel cuore
del culto giudaico,
preludio ad un nuovo culto


Commento esegetico e teologico
ai
Capp. 5 - 10

a cura di Giovanni Lonardi


CAPITOLO SESTO

Il Pane disceso dal cielo:
dubbi, incertezze, incredulità
e solenne professione di fede




Note generali al cap.6

Il cap.6 si presenta come un'unità tematica compatta. Il termine pane, che qui compare per ben 21 volte, forma da comune denominatore all'intero capitolo, il cui intento è rivelativo della persona di Gesù, che si presenta come il vero pane vivente disceso dal cielo (vv.51), dono del Padre per gli uomini (v.32).

Tuttavia, pur tematicamente compatto, questo capitolo presenta al proprio interno non poche incongruenze narrative, alcune reali altre solo apparenti, che ne rendono difficoltosa una lettura esegetica. Già si è detto nella Parte Introduttiva della presente opera (pag.90) come il cap.6, per questioni di ordine temporale e geografico, dovrebbe essere collocato subito dopo il cap.4, con cui si accordano perfettamente i primi due versetti di apertura, che trasferiscono il lettore da Cana di Galilea, dove avvenne il secondo segno (guarigione del figlio del funzionario regio, 4,46-54), alle rive del lago di Tiberiade, che dista soltanto una ventina di Km da Cana di Galilea. Ma al di là di questa prima incongruenza di tipo macrostrutturale, il cap.6 presenta al proprio interno altre incongruenze, ancora probabilmente frutto di una manipolazione redazionale per adattare la convivenza di due racconti tra loro apparentemente indipendenti e di difficile combinazione tematica: la moltiplicazione dei pani e dei pesci (vv.4-15) e la deambulazione di Gesù sulle acque del lago (vv.16-21). Infatti, al v.3 si dice che Gesù salì sul monte e qui sedeva assieme ai suoi discepoli. Sennonché al v.15b si afferma che Gesù, per evitare la sua nomina a re, “si ritirò di nuovo” sul monte da solo. Quel “di nuovo” fa pensare che prima egli sia disceso dal monte con i suoi discepoli, ma niente viene detto in proposito. Anzi sembra quasi che il segno dei pani e dei pesci si sia verificato proprio qui sul monte, secondo il v.5. Gesù infatti si trova sul monte con i suoi (v.3) e alzando gli occhi vede venire verso di sé una grande folla (v.5); ma la cosa viene smentita sia dal vv.15b che dal v.23, che sembrano lasciar intendere come il segno dei pani e dei pesci sia avvenuto, invece, sulle rive del lago di Tiberiade o lì nei pressi. Tuttavia l'aggiunta dell'espressione “di nuovo” lascia intuire come l'autore avesse coscienza di aver lasciato Gesù sul monte con i suoi al v.3, per cui ora, qui, al v.15b ve lo riconduce “di nuovo”. Non si tratta dunque di una svista, ma di una conferma che quanto è riportato al v.3 va bene collocato lì dov'è, ben sapendo che il v.3 costituisce il preambolo introduttivo al racconto della deambulazione di Gesù sulle acque, come accennerò qui di seguito al punto 2 dell'analisi strutturale del cap.6 e che meglio dimostrerò nella fase di commento dei versetti.

Vi è poi una questione tematica relativa ai due racconti (vv.4-15; 16,21): come leggerli insieme? Come si combinano tra loro? E qual è il tema di fondo che li lega tra loro? Questi due racconti, posti l'uno accanto all'altro, si trovano anche in Mc 6,32-55 e Mt 14,14-36, mentre Lc 9,12-17 riporta solo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, omettendo l'episodio della deambulazione di Gesù sulle acque, che non compare nel suo vangelo. Il contesto, poi, è molto diverso: per Mc e Mt la moltiplicazione dei pani e dei pesci esprime la commozione e la compassione di Gesù di fronte alle folle, perché, precisa Mc 6,34, erano come pecore senza pastore. Il clima è quello di un'umanità sfinita dal peccato a cui Dio si avvicina risanandola e sostenendola nel suo Cristo (Mt 14,14; Mc 6,34), che le dona un pane di vita (Mt 14,19-20; Mc 9,41-42); mentre per Lc il contesto è quello proprio della missione che Gesù affida ai Dodici (Lc 9,1-10), anche se questo aspetto traspare più velatamente in Mc e Mt, là dove Gesù affida ai Dodici il compito di gestire in sua vece la situazione1. In Gv le prospettive cambiano completamente. Il contesto non è né quello della commiserazione e della compassione marciane e matteane, né quello missionario di Luca. Il Gesù giovanneo qui è presentato come un signore che domina gli eventi ed è depositario di un sapere superiore; è lui che gestisce la situazione, dirige e dà ordini, mentre i discepoli, che sono da lui messi alla prova, sono semplici esecutori. È lui e non i discepoli a distribuire il pane alle folle. Ma vedremo come questa superiorità divina di Gesù è minata alla radice dall'incredulità e dalla inintelligenza sia della gente che dei suoi stessi discepoli. Ed è proprio questo lo sfondo su cui si muoverà l'interno cap.6.

Quanto all'episodio della deambulazione di Gesù sulle acque in Mc e in Mt, i discepoli prendono il largo su comando di Gesù, che si distacca da loro rimanendo solo sul monte a pregare, raggiungendoli successivamente sulle acque; in Gv invece sono i discepoli che scendono dal monte e se ne vanno in barca senza comandi da parte di Gesù, per loro iniziativa, lasciando Gesù solo sul monte. Lo sfondo su cui si muovono i due racconti giovannei è quello dell'incredulità, dei dubbi, delle incertezze, propri di una sequela ancora molto immatura, sia da parte della gente (vv.26.30.31.41-43.52.) che degli stessi discepoli (v.60-61.64.70-71), molti dei quali alla fine lo abbandoneranno (v.66). Per questo i richiami alla fede si fanno sempre più pressanti (vv.28-31), costringendo il Gesù giovanneo, nell'ambito del suo discorso sul pane, ad una pausa di riflessione sul credere e sul credente e le dinamiche divine che lo determinano, lasciando intendere come il credere non è frutto di volontà umana, ma di un'attrazione divina che opera nel credente stesso (vv.36-47). Non a caso il cap.6 si chiude con una solenne professione di fede, in cui si sente la voce accalorata dell'autore e della sua comunità: “Gli rispose Simon Pietro: <<Signore, da chi andremo? (Tu) hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio>>” (vv.68-69).

L'episodio della moltiplicazione dei pani si trova in tutti quattro gli evangelisti, così come quello della deambulazione di Gesù sulle acque, con esclusione del solo Luca. Tuttavia le diversità che si presentano tra i Sinottici e Giovanni sono molteplici così che è difficile pensare ad una copiatura o ad una qualche dipendenza di Giovanni dai Sinottici. È molto probabile che tutti gli evangelisti abbiano attinto da un'unica fonte, che poi ciascuno ha elaborato a modo proprio in funzione delle finalità teologiche proprie e alle esigenze delle comunità a cui gli scritti erano destinati2.

La struttura del cap.6 si sviluppa in modo piuttosto contorto da un punto di vista narrativo e non particolarmente agevole da comprendere da un punto di vista tematico; e già il primo impatto lo abbiamo qui all'inizio:

  1. vv.1-2: sono versetti di chiusura del cap.4. Il “Dopo queste cose” con cui inizia il cap.6 si riferisce al secondo segno avvenuto a Cana di Galilea. Da qui Gesù va verso il lago di Tiberiade, dove si compiono il quarto (moltiplicazione dei pani e dei pesci) e il quinto segno (deambulazione di Gesù sulle acque);

  2. v.3: forma da preambolo all'episodio della deambulazione di Gesù sulle acque. Questo versetto pertanto va letto assieme ai vv.16-21 e con questi forma un'unica unità narrativa. Questa anomala posizione del v.3 rispetto al racconto dei vv.16-21, di cui fa parte, non è una svista dell'autore, ma apre una sorta di inclusione tematica che abbraccia l'intero racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci e, come vedremo, ne costituirà la chiave di lettura. Si tratta quindi di due racconti tra loro intrecciati non solo narrativamente, ma anche tematicamente nel senso che il racconto dei pani e dei pesci va letto all'interno dell'episodio della deambulazione di Gesù sulle acque, che ne costituisce lo sfondo. Ne vedremo il perché nel commento ai vv.16-21.

  3. vv.4-15: il racconto del quarto segno: la moltiplicazione dei pani e dei pesci, che ha la sua chiave interpretativa nel v.11;

  4. vv.16-21: il racconto della deambulazione di Gesù sulle acque del lago di Tiberiade. Assieme al v.3, che ne è l'introduzione geografica, forma lo sfondo su cui si muove il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci e, come vedremo, ne dà una lettura.

  5. vv.22-27: concludono il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci e costituiscono da un lato una denuncia contro l'inintelligenza e l'incredulità delle folle (v.26), che non hanno saputo cogliere il senso del segno; dall'altro fornisce la chiave di comprensione del segno stesso (v.27).

  6. vv.28-31: costituiscono il preambolo introduttivo al discorso sul pane, in cui si sottolinea la necessità del credere per poter accedere al significato racchiuso nel segno stesso.

  7. vv.32-59: contengono il discorso sul pane (vv.32-35.48-59), inframezzato dai vv.36-47 che costituiscono un intermezzo riflessivo sul credente e sul credere, che trovano le loro radici nel Padre e non nella volontà dell'uomo.

  8. vv.60-71: parallelamente ai vv.22-27, che denunciano l'incredulità delle folle, questi versetti riportano la reazione dei discepoli al discorso del pane: incredulità, defezione, solenne professione di fede e preannuncio di un tradimento, che, come vedremo, legherà il cap.6 alla passione e morte di Gesù, richiamando nel contempo il contesto dell'ultima cena.



Commento al cap. 6


La conclusione, il preambolo e l'introduzione


Testo a lettura facilitata (vv.1-4)


La conclusione del cap.4

1- Dopo queste cose Gesù se ne andò al di là del mare della Galilea, quello di Tiberiade.
2- Ora, lo seguiva molta folla, poiché vedevano i segni che faceva sugli infermi.

Preambolo alla pericope vv.16-21c

3- Gesù poi salì sulla monte e là sedeva con i suoi discepoli.

Introduzione al racconto dei pani e dei pesci

4- Ora, era vicina la pasqua, la festa dei Giudei.


Commento a vv.1-4

Già questi primi quattro versetti danno l'idea della complessità di questo capitolo. Un cap.6 che inizia con la conclusione del cap.4 (vv.1-2); prosegue introducendo un preambolo (v.3) ad un racconto che verrà 13 versetti dopo (vv.16-21) e finalmente con il v.4 introduce la cornice religiosa entro cui va posto il racconto del quarto segno. Potremmo quindi considerare questi primi quattro versetti come preliminari al cap.6, ma nel contempo ne forniscono delle precise indicazioni al lettore per orientarlo nella sua intricata narrazione.

vv.1-2: Questi due versetti portano a conclusione il cap.4. Già lo si è detto3 come i capp.4-7 sono posti in ordine temporale e geografico non corretto. Il cap.4 infatti si chiude con la guarigione del figlio del funzionario regio a Cana di Galilea (4,43-54); il cap.5 si apre con Gesù che sale a Gerusalemme durante una festa dei Giudei in un giorno di sabato (5,1.9b); con il cap.6 Gesù lo ritroviamo sulle sponde del lago di Tiberiade (6,1) a pochi Km da Cana di Galilea dove si trovava con il cap.4; e, infine, con il cap.7 Gesù riparte per Gerusalemme. Un itinerario geografico zigzagato, che lascia perplessi, e che ha fatto nascere il sospetto che i capp.5 e 6 siano stati invertiti, considerato anche che la narrazione del cap.7 si accorda molto bene con il cap.5, ma non con il cap.64.

Il v.1 si apre con un'espressione temporale di tipo redazionale molto cara a Giovanni: “Dopo queste cose” (Met¦ taàta, Metà taûta). Le cose a cui l'autore allude sono quelle contenute nei vv.4,45-54: l'accoglienza festosa di Gesù da parte dei Galilei (vv.4,45), mentre stava rientrando dalla Samaria dove ha incontrato la Samaritana (4,4-43); e la guarigione del figlio del funzionario regio a Cana di Galilea (vv.4.46-54), che dista circa una ventina di Km dalla città di Tiberiade5 prospiciente sul lago6. Gesù quindi da Cana si dirige verso il lago di Galilea e lo attraversa (¢pÁlqen […] pšran, apêltzen […] péran, se ne andò al di là) partendo, secondo le indicazioni di Giovanni, dalla riva dove sorgeva la città di Tiberiade. Infatti il sostantivo “mare” è seguito da due genitivi consecutivi (tÁj Galila…aj tÁj Tiberi£doj, tês Galilaías tês Tiberiádos). Se il primo genitivo indica la regione in cui si trova il lago (la Galilea), il secondo parla di Tiberiade preceduto dall'articolo determinativo al femminile (tês) che funge da pronome, modo di esprimersi piuttosto comune in greco, e sta al posto dell'appellativo “città”, qui sottinteso. Quindi la traduzione letterale è “il lago della Galilea della Tiberiade” in cui quel “della” sta per città.

Se il v.1 trasporta il lettore da un contesto geografico ad un altro, segnalandogli che termina una narrazione e ne sta per iniziare un'altra, che lo introdurrà in un nuovo contesto tematico, il v.2, in chiusura del cap.4, sottolinea i frutti dell'attività missionaria di Gesù svolta durante il suo viaggio dalla regione della Giudea, dove si trovava a battezzare con i suoi discepoli (3,22), verso la regione della Galilea passando per la Samaria (4,2-3) e ne fornisce un resoconto sostanzialmente favorevole: “Ora, lo seguiva molta folla, poiché vedevano i segni che faceva sugli infermi”. Due sono i verbi che indicano l'esito favorevole benché parziale della missione: “seguiva” e “vedevano”. La sequela è significata dal verbo ºkoloÚqei (ekolútzei), che significa accompagnare, andare insieme, lasciarsi guidare, aderire e contiene in sé un senso di servizio. Il participio presente del verbo infatti indica, come il sostantivo corrispondente (akólutzos), il servo, lo schiavo, l'ancella, il seguito che il padrone si porta dietro durante il suo viaggio per il suo servizio. Il verbo qui è posto all'imperfetto indicativo, che indica come questa sequela sia duratura nel tempo; non quindi un qualcosa di effimero e di superficiale come avvenne in 2,23-25 e che Gesù aveva stigmatizzato duramente. La folla che segue Gesù dunque parla di gente che ha fatto una propria scelta a favore di Gesù e a lui ha aderito esistenzialmente. Dei segnali in questo senso già si erano avuti sia nella Samaritana, che, lasciata la brocca della sua fede giudaica presso il pozzo della Torah (4,28), si fa annunciatrice di Gesù presso i suoi concittadini, che con entusiasmo si aprono alla fede in lui (4,39-41) e lo confessano “salvatore del mondo” (4,42). Similmente il funzionario regio di fronte al figlio guarito aderisce a Gesù con la propria famiglia (4,50.53). Un successo, dunque, per l'attività missionaria di Gesù, ma non pieno e completo. Due sono gli elementi che lo dicono: il termine anonimo folla, che indica come coloro che seguivano Gesù non avevano ancora fatto il passo decisivo per uscire dall'anonimato e diventarne discepoli; e il verbo “vedevano”, reso in greco con “™qeèroun” (etzeórun). Un verbo questo che indica un vedere attento, riflessivo, un vedere che si interroga su ciò che vede, a differenza di “blšpw” (blépo), che indica un semplice vedere fisico e superficiale e che non va oltre alle apparenze delle cose; e di “Ðr£w”, che invece indica un vedere superiore; esso è il vedere proprio di Dio e del vero credente, di colui che, raggiunto il Mistero, sa andare oltre alle cose cogliendone la verità ultima che dimora in esse. “Qewršw” (Tzeoréo) si pone come un passaggio intermedio, che dice ricerca , attenzione e riflessione; parla di un cammino verso la pienezza di una comprensione che ancora non è stata raggiunta7. Il verbo è qui posto all'imperfetto indicativo (etzeórun, vedevano) per indicare la costanza e la persistenza di questa ricerca.

I vv.3-4 formano una doppia introduzione: il v.3 introduce l'episodio della deambulazione di Gesù sulle acque (vv.16-21); il v.4 il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci (vv.5-15). Anche se sembra difficile credere che il v.3 introduca un racconto posto a 13 versetti di distanza, tuttavia le cose sono messe in modo tale che non si dà una diversa soluzione. Una prima ipotesi, in apparenza la più plausibile, è che il v.3 formi assieme ai vv.4-5 la parte introduttiva al racconto dei pani e dei pesci. In questa prima ipotesi, Gesù sale sul monte con i suoi discepoli, qui si siede, alza lo sguardo e vede una grande folla che avanza verso di lui. Tutto questo avviene nei pressi della pasqua. Quindi il segno dei pani avviene sul monte dove si trovavano Gesù e i suoi discepoli assieme a molta folla lì confluita. Sennonché al v.23 si narra che delle barche vennero da Tiberiade e approdarono presso il luogo dove avvenne il segno dei pani. Quindi questo segno non avvenne su di un monte, bensì nei pressi della riva del lago; inoltre al v.15b si afferma che Gesù si ritirò di nuovo sul monte. Questo “di nuovo” lascia intendere che prima ne era sceso e ora risale. Questa annotazione confermerebbe che il segno dei pani e dei pesci era avvenuto nei pressi delle rive del lago. Ma non si dice in nessuna parte del racconto che Gesù fosse disceso dal monte, anzi proprio qui, secondo questa prima ipotesi, è avvenuto il segno dei pani. Come dunque conciliare questa seconda salita? Non si può salire un monte in cui già si è sopra, così come non si può aprire una porta che già è aperta. Tutto ciò contraddirebbe la prima ipotesi. Ma come collocare poi sul monte un segno che il racconto lascia intendere che sia invece avvenuto nei pressi delle rive del lago?

Sostenere la prima ipotesi pertanto si incorre in alcune incongruenze prive di soluzione oggettive rilevabili dal testo. Una seconda ipotesi, quella che mi vede più favorevole, è che il v.3 sia l'introduzione del racconto della deambulazione di Gesù sulle acque. Infatti se si togliessero di mezzo i vv.4-15 (segno dei pani e dei pesci), si avrebbe un simile esito narrativo: “Gesù poi salì sul monte e là sedeva con i suoi discepoli. [vv.4-15] Ora, quando venne sera, i suoi discepoli scesero sul mare ed entrati in barca andavano al di là del mare verso Cafarnao” (vv.3.16). Qui tutto scorre secondo una propria logica plausibile: Gesù si ritira sul monte con i suoi discepoli e ci rimane fin verso sera, allorché essi lasciano Gesù sul monte da solo, mentre loro scendono verso il lago. Ci si potrebbe chiedere che ci facesse Gesù tutto il giorno con i suoi discepoli. La risposta sta in quel “sedeva”, la posizione caratteristica del maestro che istruisce e spiega. Il Gesù che si prende in disparte i discepoli spiegando, insegnando o rivelando loro è ben attestato nei racconti evangelici8; nulla di strano quindi in questo ritirarsi di Gesù con i suoi discepoli.

Se è vera questa seconda ipotesi, come credo che sia, si tratta di capire perché Giovanni abbia fatto una simile operazione narrativa: staccare l'introduzione dal suo racconto, collocando questo a 12 versetti di distanza dalla sua introduzione, lasciando questa campata per aria al v.3. Per poter comprendere un'operazione narrativa così temeraria è necessario comprendere lo sfondo su cui si muove l'intero cap.6 e il suo probabile contesto storico in cui si è formato. Al v.15 si dice che, visto il segno, la gente vuole fare re Gesù, ma egli fugge da questa situazione. Viene quindi denunciata una inintelligenza del segno, che verrà apertamente stigmatizzata ai vv.22-27; i vv.16-21, come meglio vedremo nel loro commento, raccontano di una teofania che avviene in mezzo ad un mare agitato dal dubbio e dall'incertezza; ai vv.28-31 si parla della necessità del credere in Gesù; con i vv.36-47 si apre un ampia parentesi all'interno del discorso sul pane di vita, denunciando l'incredulità (v.36) e indicando invece gli effetti del credere (v.47), mentre il resto dei versetti (37-46) presentano, da un lato, il destino del credente (vv.37-40) e come il suo credere non sia frutto di una decisione umana (vv.44-46); dall'altro si rileva per l'ennesima volta l'incredulità (vv.41-43). Ai vv.60-71, infine, si parla ancora, da un lato, di incredulità dei discepoli stessi che si conclude con la loro defezione (vv.60-67); dall'altro di fede, rimarcata da una solenne professione dei fedelissimi. Lo sfondo quindi entro cui si muove l'intero cap.6 è quello della inintelligenza, dell'incredulità, dei dubbi, delle incertezze che agitano la vita delle prime comunità credenti (vv.16-21) attorno ad un elemento essenziale del loro credere e del loro culto: la celebrazione della cena del Signore9 e del significato che in questo contesto veniva attribuito al pane, identificato con lo stesso corpo vivente del Risorto (vv.35.48-59). La questione si poneva prevalentemente all'interno della comunità credente in genere e in particolare in quella giovannea. Per questo il racconto dei pani e dei pesci, dai forti tratti eucaristici (v11) è collocato tra i vv.3 e 16-21, che come sopra accennato parlano del vento del dubbio e dell'incertezza che sta agitando e mettendo a dura prova la barca con i discepoli su cui non c'è Gesù, metafora della comunità credente post-pasquale.

Se come si è accennato qui sopra i vv.16-21 raccontano della situazione post-pasquale della comunità credente agitata dal dubbio e dalle sue incertezze, il v.3, pur collocandosi sempre nel contesto post-pasquale, costituisce la risposta a questi dubbi e a queste esitazioni ed introduce il tema della difficoltà de credere ad una presenza percettibile ora soltanto attraverso una Parola e un Pane benedetto.

Il versetto si apre con uno stacco temporale, dato dalla particella “” dal senso avversativo, che crea una sorta di contrapposizione temporale e narrativa che separa quanto qui si narra dai vv.1-2, che chiudono il cap.4, introducendo il lettore in un nuovo spazio temporale e narrativo: “Gesù poi () salì sul monte e là sedeva con i suoi discepoli”.

Il versetto è scandito in due parti caratterizzate dalla presenza di due verbi molto densi di significato: “salì” e “sedeva”. “Gesù poi salì sul monte”. Si noti come non si dice che Gesù e i discepoli salirono sul monte, anche se la seconda parte del versetto lo lascia chiaramente intendere, ma che “Gesù salì sul monte”. È dunque un'ascesa che riguarda soltanto Gesù. Ci troviamo poi di fronte ad un monte che è qualificato dall'articolo determinativo ( Ôroj, óros, il monte). Non si tratta dunque di un monte qualsiasi, ma di un monte particolare sul quale Gesù è già salito; il tempo verbale infatti è posto all'aoristo che rende l'azione del salire un fatto puntuale nel tempo, quindi già avvenuto. Il monte nell'antichità era considerato la dimora della divinità e della manifestazione della sua gloria. Il Gesù quindi che “salì” sul monte dice il suo essere salito alla gloria divina. Una salire che rimanda, a sua volta, alla salita sul Golgota dove, secondo la teologia giovannea, avviene la sua intronizzazione regale, preludio alla sua manifestazione divina nella risurrezione, che lo collocherà definitivamente sul monte della gloria divina. La salita di Gesù sul monte richiama quindi sia la sua morte che la sua risurrezione, nella logica del doppio significato che Giovanni attribuisce al verbo “ØyÒw” (ipsóo): elevare/salire sulla croce, ma anche elevare/salire dalla morte a quella gloria divina, che il Figlio possedeva ancora prima della creazione del mondo e che qui gli viene restituita (17,5). Un salire sul monte, infine, che richiama ancora la sua ascensione, avvenuta, secondo il racconto lucano degli Atti, sul monte degli Ulivi (At 1,6-12a), che lo colloca in modo definitivo nella gloria del Padre. E che questo sia il senso che Giovanni intende dare a questa salita di Gesù sul monte lo prova il v.16 in cui i discepoli scendono dal monte da soli, verso sera, cioè alla conclusione del tempo storico di Gesù, che ora loro hanno lasciato sul monte della gloria sui cui è salito.

Ma il Gesù ormai salito sul monte della sua gloria divina per mezzo della morte e risurrezione, viene ora colto in una posizione particolare: “e là sedeva con i suoi discepoli”. Il sedersi con e tra i discepoli indica l'atteggiamento proprio del maestro che impartisce i suoi insegnamenti; mentre il tempo verbale all'imperfetto indicativo dice che egli continua ad essere seduto tra di loro e continua quindi ad istruirli per mezzo della sua parola anche se è già salito sul monte, già è stato glorificato definitivamente. Una scena che richiama da vicino Mt 28,16-20: “Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>”. Anche qui dunque c'è un monte e sopra vi è Gesù nella pienezza della sua gloria in mezzo ai suoi discepoli, che impartisce loro le ultime istruzioni, garantendo la sua presenza in mezzo a loro fino alla fine dei tempi. Ma queste scene parallele richiamano da vicino anche un'altra scena, quella del monte Sinai dove Jhwh dimorava nella sua terrificante e gloriosa presenza, impartendo a Mosè e al popolo i suoi insegnamenti (Es 19,16-21). Il v.3 presenta quindi un Gesù glorificato che dal monte della sua gloria continua ad ammaestrare i suoi discepoli con una parola che ora assume i tratti della sua stessa divinità e quindi della indubitabilità. Il v.3 pertanto è significativamente posto ad introduzione dei vv.16-21 con la funzione di diradare i dubbi che agitano la comunità giovannea circa la reale presenza del Gesù glorificato e vivente in quel pane benedetto. Giovanni pertanto rimanda la sua comunità dubbiosa alle parole e all'insegnamento del Maestro, ora glorificato, che è ancora in mezzo a loro non solo con la sua Parola, ma anche in quel pane su cui loro nutrono molti dubbi. Non è un caso che il cap.6 si apra con questa icona del Cristo glorificato, maestro illuminante dei suoi discepoli, guida sicura in mezzo alle acque agitate del dubbio, e si chiuda con una solenne professione di fede nel Risorto, presente in mezzo a loro con la Parola di vita eterna, l'unica in grado di fugare ogni dubbio: “Gli rispose Simon Pietro: <<Signore, da chi andremo? (Tu) hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio>>” (vv.68-69).

Il v.4 introduce il segno dei pani e dei pesci incorniciandolo all'interno della Pasqua, la seconda, che funge da chiave di lettura non solo di questo segno, ma anche dell'intero cap.6. Il tema pasquale infatti verrà richiamato, come vedremo, nei cinque pani e due pesci; sarà nuovamente ripreso dal tema dell'esodo pasquale nei vv.31 e 58, che formano tra loro inclusione, abbracciando l'intero discorso sul pane. Il v.32, poi, richiama la figura di Mosè, legata al racconto del “pane dal cielo”. Non va infine trascurato che il soggetto e oggetto del grande discorso sul pane di vita è Gesù, che Giovanni ha già definito in 1,29.36 come l'Agnello di Dio, in cui spicca il carattere pasquale e sacrificale, tema questo che in qualche modo verrà richiamato in 6,71. All'interno di questa cornice viene riletta e reinterpretata l'antica esperienza pasquale di Israele, che qui diviene figura di una nuova pasqua, che ha come suo simbolo un nuovo pane venuto dal cielo, che possiede in se stesso la vita eterna ed è capace di darla. La diversità tra l'antico e il nuovo pane sta proprio qui: “Questo è il pane che è disceso dal cielo, non come (quello che) i padri mangiarono e morirono; chi mangia questo pane vivrà per sempre” (v.58).

Ma quando si parla di culto e di feste Giovanni non fa mai mancare la sua nota polemica squalificante: la pasqua qui è definita con l'appellativo “la festa dei Giudei”, espressione questa che simile ricorrerà ogniqualvolta compare una festa, al cui interno è posta l'attività di Gesù10, sottolineando l'estraneità dell'antico culto, dal quale si è ormai definitivamente staccato quello nuovo cristiano. Il tono qui non è soltanto di distacco, ma nel contempo anche squalificante. Il nome “Giudei” infatti nel racconto giovanneo acquista sempre una connotazione fortemente negativa, divenendo sinonimo di inintelligenza, di pervicace chiusura e di incredulità11.


Il segno dei pani e dei pesci

Il testo (vv.5-15)


5- Avendo, dunque, Gesù sollevato gli occhi e avendo visto che molta folla viene verso di lui, dice a Filippo: <<Da dove compreremo del pane affinché essi mangino?>>.
6- Ora, diceva questo per metterlo alla prova; egli, infatti,
sapeva che cosa stava per fare.
7- Gli rispose Filippo: <<Pani per duecento denari non bastano per loro, perché ciascuno ne riceva un pezzo>>.
8- Gli dice uno dei suoi discepoli, Andrea, il fratello di Simon Pietro:
9- <<C'è qui un ragazzino che ha cinque pani d'orzo e due pesciolini; ma che cosa sono queste cose per così tanti?>>.
10- Disse Gesù: <<Fate coricare gli uomini>>. Ora, c'era molta erba nel posto. Gli uomini, pertanto, in numero di cinquemila, si coricarono.
11- Gesù, dunque, prese i pani e, dopo aver reso grazie, (li) distribuì a quelli che stavano sdraiati; similmente (fece) anche dei pesciolini, quanto volevano.
12- Ora, quando furono saziati, dice ai suoi discepoli: <<Raccogliete i pezzi sopravanzati, affinché qualcosa non si perda>>.
13- Raccolsero dunque e riempirono dodici ceste di pezzi dai cinque pani di orzo, che sopravanzarono a coloro che avevano mangiato.
14- Pertanto gli uomini, avendo visto il segno che fece, dicevano che questi è veramente il profeta che viene nel mondo.
15- Gesù, dunque, avendo saputo che stavano per venire e portarlo via per far(lo) re, si ritirò di nuovo sul monte egli solo.


Note generali ai vv. 5-15

Collocato in un contesto pasquale (v.4), il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci è scandito in quattro scene incluse dai vv.5a e 15, che denunciano il clima di inintelligenza del segno da parte delle folle:


Commento ai vv. 5-15

I vv.5-9 costituiscono la pericope introduttiva al racconto, una sorta di preambolo, e pongono la questione della provenienza del pane: “Da dove” (PÒqen, Pótzen). Un avverbio interrogativo che spingerà i discepoli interpellati a dare due diverse soluzioni fondate su logiche umane, ma rivelatesi entrambe impossibili; il lettore pertanto è orientato verso Gesù e da lui si attende ora la risposta risolutiva.

Il v.5 è scandito in due parti: nella prima Gesù, sollevati gli occhi, vede venire verso di sé molta folla (v.5a); nella seconda Gesù pone la questione a Filippo (v.5b). L'espressione del sollevare gli occhi e del vedere è ricorrente sia nell'A.T. che nel N.T.12 ed indica l'orientamento che il soggetto imprime alla propria attenzione. Gesù dunque è attratto dalla folla che “viene verso di lui” (œrcetai prÕj aÙtÕn, érchetai pròs autòn). Anche questo movimento, raramente presente nei Sinottici, ma ricorrente in Giovanni13, è metafora dell'aprirsi del credente verso Gesù, del suo orientarsi verso di lui ed esprime in genere una fede incipiente. Gesù dunque accentra la sua attenzione verso la folla e la vede venire verso di lui; ma il suo è un vedere perplesso, che esprime dei dubbi; un vedere che genera sfiducia. Il verbo greco usato infatti per indicare qui il vedere di Gesù è “qeas£menoj” (tzeasámenos), che esprime un vedere che riflette e si interroga, un vedere dubbioso14. Questa incertezza di Gesù troverà la sua conferma nei vv.14-15, dove la folla comprenderà Gesù come il profeta messianico venuto a risollevare le sorti di Israele e pertanto lo vogliono intronizzare. Un'interesse del tutto estraneo a ciò che Gesù intendeva significare con quel segno e che verrà portato allo scoperto al v.26 e duramente ripreso. Già quindi fin dall'inizio l'autore indica come il segno dei pani si muova all'interno di una cornice di diffidenza (quella di Gesù), di inintelligenza e di interpretazioni distorte (quella della folla). Una difficoltà che apparirà sempre più evidente e marcata man mano che il racconto del cap.6 procede, fino a giungere alla defezione degli stessi discepoli (v.66).

Al v.5b la scena, quasi all'improvviso, cambia completamente; l'attenzione di Gesù passa dalla folla ai discepoli: “dice a Filippo: <<Da dove compreremo del pane affinché essi mangino?>>”. A differenza dei Sinottici, in cui sono i discepoli che vedono la folla e prendono l'iniziativa invitando Gesù a rimandarla a casa (Mt 14,15; Mc 6,35-36; Lc 9,12), qui il Gesù giovanneo domina gli eventi, prende l'iniziativa e pone alla prova i suoi discepoli, ben sapendo ciò che egli stava per fare. Nessuna funzione di mediazione viene attribuita ai discepoli, come invece viene sottolineato nel racconto sinottico, dove Gesù invita i discepoli a dare loro da mangiare alla folla e a loro affida la distribuzione dei pani, sono sempre loro, infine, che per propria iniziativa raccolgono il pane rimasto. Nel racconto giovanneo i discepoli appaiono come allo sbando, incapaci di dare una qualsiasi risposta utile e sembrano essere travolti dagli eventi per loro incontrollabili. Essi si muovono soltanto su ordini e comandi di Gesù. Tutta questa fragilità, che meglio apparirà nel racconto della deambulazione di Gesù sulle acque (vv.16-21), indirizza l'attenzione del lettore sull'onnisciente e onnipotente Gesù giovanneo, dominatore degli eventi.

La questione che qui viene posta è fondamentale: “Da dove compreremo del pane affinché essi mangino?”; si pone infatti l'interrogativo sull'origine del pane, il cui fine è nutrire le folle. “Da dove” (PÒqen, Pótzen) è un'espressione avverbiale che in Giovanni ricorre ben 13 volte15 e quando compare allude sempre all'origine divina di Gesù e al suo Mistero.

Il v.5 quindi introduce il lettore nel dramma che si sta rappresentando: tra diffidenze, dubbi, incertezze si colloca il grande Mistero dell'origine divina di un pane destinato a nutrire le folle di uomini.

Il v.6, in cui risuona la voce fuoricampo dell'onnisciente narratore che avverte il lettore di ciò che sta accadendo, è suddiviso in due parti: da un lato si attesta che Gesù sta mettendo alla prova i discepoli; dall'altro si evidenzia il sovrano sapere di Gesù. Ne esce un quadro in cui si sottolinea la fragilità dei discepoli, che contrasta con l'onnipotenza di Gesù. Un quadro che richiama da vicino 15,5b: “senza di me non potete far niente”, evidenziando una volta di più la centralità della figura di Gesù.

Il v.7 riporta la risposta scontata di Filippo: “Pani per duecento denari non bastano per loro, perché ciascuno ne riceva un pezzo”. Si tratta di una risposta logica, indotta da quel “Da dove compreremo del pane” di Gesù. È lui dunque che ha suggerito la risposta a Filippo, lui lo ha indotto in qualche modo in errore, indicandogli la strada commerciale, quella del denaro come soluzione del problema. Ma il lettore sa, perché informato dal narratore al v.6, che si tratta di una prova, per cui si è portati a giustificare questa malizia di Gesù. Duecento denari non bastano, una quantità alquanto rilevante se si pensa che un denaro equivale all'incirca ad una giornata di lavoro (Mt 20, 1-15). Si tratta dunque di un pane che non può essere acquistato e tanto meno commercializzato, poiché nessuna forza umana lo può raggiungere con i propri mezzi.

I vv.8-9 allargano il giro delle proposte risolutive all'interrogativo di Gesù (v.5b) e accanto a Filippo l'autore fa intervenire Andrea, un'accoppiata che troviamo spesso nel racconto giovanneo16. Questi se ne esce con la proposta dei cinque pani d'orzo e di due pesci. Già si comprende che questa idea non è una soluzione, come lo stesso Andrea riconosce in 9b; tuttavia questo secondo intervento si rivela utile all'autore perché fornisce quattro indizi importanti:

  1. cinque pani contro cinquemila persone rilevano l'enorme sproporzione, che rende ogni sforzo umano impossibile e vano. La seconda parte del v.9 infatti evidenzia questo stato di cose: “ma che cosa sono queste cose per così tanti?”. La soluzione al problema ancora una volta non può trovare la sua origine nell'uomo. “Da dove” (Pótzen) dunque trarre un'adeguata risposta? Un interrogativo che orienta il lettore altrove.

  2. Giovanni, unico tra gli evangelisti, segnala al suo lettore che quei pani erano di orzo, il cereale dei poveri17, il cui valore era di molto inferiore a quello del frumento. Ap 6,6 offre un confronto di valore commerciale tra il grano e l'orzo: “Una misura di grano per un danaro e tre misure d'orzo per un danaro! Olio e vino non siano sprecati”. Il valore dunque è di circa tre volte inferiore a quello del frumento18. L'orzo, poi, era il primo cereale ad essere mietuto, all'incirca agli inizi di aprile (mese di Abib o Nisan) e la sua raccolta forniva una sorta di calendario agricolo, un punto di riferimento temporale ben preciso: “quando si cominciava a mietere l'orzo” (Rt 1,22; 2Sam 21,9) o “al tempo della mietitura dell'orzo” (Gdt 8,2); l'ultimo ad essere mietuto era il frumento19. Il nuovo raccolto veniva a cadere pertanto nel bel mezzo della pasqua e degli azzimi, due festività inizialmente tra loro distinte e con origini storiche molto diverse, ma strettamente connesse tra loro20. Nel N.T. esse sono ormai sovrapposte l'una all'altra e praticamente identificate (Mt 26,17; Mc 14,1.12; Lc 22,1.7). L'orzo pertanto era strettamente legato alle due festività e il richiamo qui aggancia il racconto dei pani e dei pesci al tema pasquale, già per altro introdotto con il v.4.

  3. L'orzo, infine, in quanto primizia del raccolto era inserito in un rituale liturgico e cultuale previsto da Es 23,19a e da Lv 23,1021; e benché nei rituali di offerta a base vegetale fosse quasi sempre previsto il fior di farina o il grano o il frumento o pani fatti con questi cereali (Lv 2), tuttavia non mancavano offerte in cui erano previsti pani o focacce di orzo, un cereale che più facilmente era accessibile al povero o al meno abbiente. Testimonianze in tal senso si hanno in Nm 5,15; 2Re 4,42; Ez 45,13. L'orzo quindi è strettamente legato alla ritualità cultuale. Un indizio rilevante questo che fornisce la chiave di lettura di quanto si dirà ai vv.10-11.

  4. Accanto ai cinque pani d'orzo compaiono due “Ñy£ria” (opsária), cioè due pesciolini. È molto interessante questo accostamento sia perché viene definita la quantità dei pesci sia per l'uso che viene fatto del vocabolo “Ñy£rion”, che compare in tutta la Bibbia soltanto cinque volte e soltanto qui in Giovanni22; e tutte le cinque volte in contesti molto simili tra loro, che si richiamano da vicino23. Il termine è il diminutivo di “Ôyon” (ópson), termine quest'ultimo che possiede diversi significati: companatico, in particolar modo di carne ed eccezionalmente di pesce; in genere vivanda, cibo, pietanza, ma anche cibo delicato e squisito. Soltanto ad Atene e successivamente nel mondo ellenistico assume il significato di pesciolino, senza per questo escludere gli altri significati qui sopra indicati24. Si è resa necessaria questa lunga delucidazione per comprendere il significato che Giovanni quasi certamente intendeva dare ai cinque pani d'orzo e ai due pesciolini e in particolar modo lo sfondo veterotestamentario a cui si richiamava. Innanzitutto il cibo è formato da cinque pani e due pesciolini, cioè da sette pezzi complessivamente. Si tratta dunque di un cibo perfetto, che possiede in se stesso un senso compiuto, immagine e figura di un altro cibo venuto dal Cielo. Il termine “opsária”, diminutivo di “ópson”, infatti, richiama in qualche modo quest'ultimo, che come si è visto sopra significa companatico, in particolar modo di carne, ma parla anche di cibo delicato e squisito. Se i cinque pani e i due pesciolini così inquadrati li relazioniamo ai vv.31-32, vedremo come questi rimandano il lettore all'esperienza di Es 16,1-17. Anche qui si ha un popolo affetto da incredulità e da sfiducia nei confronti di Mosè ed Aronne (Es 16,2) e che invoca la carne e il pane (Es 16,3); e Jhwh per mezzo di Mosè darà pane e carne a sazietà al suo popolo (Es 16,8.12), che ne avrà in abbondanza finché non sarà entrato nella terra promessa (Es 16,35). Il cibo formato da cinque pani d'orzo e due pesciolini alludono quindi alla manna e alla carne, un cibo celeste, la cui perfezione e pienezza è significata nella sua composizione di sette pezzi. Significativo inoltre come questi cinque pani e due pesci siano relazionati ad un “paid£rion” (paidárion), cioè ad un ragazzino, ad un fanciullo che richiama da vicino l'immagine di Israele nel deserto, che Geremia ricorda come il tempo della giovinezza di Israele, il tempo del suo amore e del suo fidanzamento con Jhwh (Ger 2,2); il luogo dove egli incontrò il suo Dio, che lo raccolse come una bambina neonata appena sgravata, mentre ancora si dibatteva nel suo sangue; ne ebbe cura e, cresciuta, divenne una fanciulla, splendida nella sua bellezza; la fece sua e la adornò di gioielli e la nutrì di “fior di farina e miele e olio” (Ez 16,6-14), espressione quest'ultima che indica un cibo abbondante e prelibato25.

Riepilogando possiamo dire che i cinque pani e i due pesci contengono una ricchezza di significati, che formano una sorta di cornice propedeutica ai successivi vv.10-11, il cuore di questo racconto e ne danno una chiave di lettura. Questi pani e questi pesci offerti dal fanciullo infatti lasciano intendere come da soli essi siano insufficienti a dare un'adeguata risposta alla moltitudine delle folle; una risposta che invece va cercata altrove. Essi richiamano aspetti rituali e cultuali legati alla pasqua, ma nel contempo si muovono sullo sfondo veterotestamentario dell'esperienza di Israele nel deserto.

I vv.10-11, già lo si è detto più volte, costituiscono il cuore del racconto e alcuni segnali ci indicano come qui ci si trovi di fronte ad un banchetto in piena regola, dove Gesù assurge alla figura del Pastore.

I due versetti presentano due scene, l'una (v.10) preparatoria dell'altra (v.11) che nel loro insieme creano il contesto di un banchetto conviviale. La presenza dei verbi “¢napptw” (anapípto) e “¢n£keimai” (anákeimai), che indicano lo stare sdraiati, caratteristica posizione dei commensali invalsa nella cultura ellenistica e romana, nel cui contesto sono stati scritti i vangeli, e la presenza dei pani e dei pesci che vengono distribuiti ai presenti, definiti come coloro che “stavano sdraiati” (v.11), creano la cornice propria del banchetto.

Il v.10 apre la prima scena: Gesù dà il comando ai discepoli di far coricare gli uomini; il comando porta in se stesso una sorta di implicita missione: quella di far sedere gli uomini attorno al banchetto del pane di vita; un comando che richiama da vicino il “fate questo in memoria di me”, riportatoci da Lc 22,19 e da 1Cor 11,24.25. Gesù dunque affida in qualche modo ai discepoli il mistero di questo banchetto, attorno al quale si siede una numerosa folla, figura forse della nuova comunità credente che andava costituendosi attorno a questo banchetto. Essa è indicata in numero di cinquemila uomini, una grandezza che ha il solo intento di misurarsi con i cinque pani, per rilevare la sproporzione enorme e incolmabile che separano le due quantità. Il pane dell'uomo dunque non è in grado di sfamare le folle che Gesù ha affidato ai suoi (“fate coricare gli uomini”). Ma è significativo come tra il comando di far sedere la folla e il suo sedersi, l'autore sottolinei come “c'era molta erba nel posto”. Il legare il comando di Gesù ad un luogo erboso dove egli sta per dar da mangiare a questa enorme folla richiama da vicino il Sal 23,1-2: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce”. L'immagine di un Dio pastore risuona anche nella voce dei profeti: “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11). Ma sarà soprattutto Ezechiele, il profeta dell'esilio babilonese (597-538 a.C.) che parlerà di un Pastore messianico che radunerà le pecore d'Israele conducendole in pascoli erbosi: “Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d'Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d'Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d'Israele. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia. A te, mio gregge, dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri. […] Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore;” (Ez 34,11-17.23).

Il richiamo all'erba allude dunque in qualche modo a Gesù quale pastore delle nuove comunità credenti, che fa sedere in pascoli erbosi. Si noti come l'autore sottolinei che in quel posto c'era “molta erba” (cÒrtoj polÝj, córtos polìs). Un riferimento all'abbondanza propria dei tempi messianici, a cui si allude in Is 25,6 e che risuonano nelle parole attualizzanti di Gesù: “io venni perché abbiano vita e (l')abbiano con abbondanza” (10,10), parole queste pronunciate proprio nel contesto metaforico di Gesù buon pastore.

Il v.11 è caratterizzato da tre movimenti di Gesù: “prese i pani”, “rese grazie”, “li distribuì”; tre movimenti che ritroviamo in tutti i racconti sinottici dell'ultima cena e in 1Cor 11,23-24; tre movimenti che si radicano nella ritualità quotidiana della mensa ebraica, che dopo la distruzione del Tempio (70 d.C.) ha sostituito in qualche modo l'altare, per cui le prescrizioni là previste sono state trasferite su questa. Prima di mangiare è d'obbligo lavarsi le mani secondo il rito prescritto, recitando una preghiera; non solo quindi per una questione igienica. Il pasto incomincia con la benedizione sul pane, che poi il capo famiglia distribuisce ai commensali. Ma la preghiera della mensa vera e propria segue il pasto, in conformità a quanto stabilito da Dt 8,10: “Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato”. In essa si loda Dio come colui che nutre il mondo e lo si ringrazia per la terra, che ha donato ad Israele. Segue, poi, una preghiera a Dio perché usi misericordia per Gerusalemme e la casa di Davide. Dio, infine, viene lodato perché è buono e fa il bene. Come si può vedere, il pasto ebraico va ben al di la del suo significato puramente nutritivo, ma è un vero e proprio atto di culto a Dio, attorno al quale si ricostituisce il popolo dell'alleanza26.

Come si può ben notare si rincorrono i temi della benedizione e del rendimento di grazie, che vengono posti sul pane e sulla mensa. Giovanni qui si è limitato a sottolineare il rendimento di grazie, usando il verbo “eÙcaristšw” (eucaristéo), che riflette il senso dei pasti comuni delle prime comunità credenti in cui si faceva memoria della cena del Signore (Lc 22,19; 1Cor 11,20-27). È totalmente assente il verbo spezzare, presente invece in tutti i racconti sinottici, in Atti e in Paolo27. Il gesto dello spezzare infatti nelle teologie sinottiche e in Paolo è strettamente legato alla passione e morte di Gesù. È infatti nell'ultima cena, posta a ridosso della passione e morte, che Gesù definisce il pane suo corpo e significativamente lo spezza per darlo ai suoi, quale estremo dono di sé. Anche Paolo, similmente, riportando una Tradizione ormai consolidata presso le comunità credenti, colloca lo spezzare del pane nella notte in cui Gesù fu tradito (1Cor 11,23) e, quindi, a ridosso della sua morte. Segno questo che le comunità credenti avevano legato questo spezzare del pane alla morte di Gesù. Giovanni tuttavia fa eccezione sia perché attribuisce alla morte di Gesù un senso di intronizzazione regale, togliendole ogni aspetto di umiliazione e sconfitta; sia perché, unico tra tutti, sottolinea che non gli venne spezzato nessun osso, in cui vede realizzata la profezia del Sal 33,20-21: “Molte sono le sventure del giusto, ma lo libera da tutte il Signore. Preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Infine Giovanni, definendo Gesù come l'Agnello di Dio (1,29.36) e ponendo la sua morte sacrificale nella Parasceve (19,14.31.42), vigilia della pasqua (19,31a) in cui al tempio venivano sacrificati gli agnelli (Es 12,3-6)28, egli associa in qualche modo Gesù all'agnello pasquale, di cui Es 12,46 e Nm 9,12 dispongono che non sia spezzato nessun osso. Forse per questi motivi Giovanni non riporta la tradizione dello spezzare il pane.

Un'ultima differenza distingue il racconto giovanneo dei pani e dei pesci da quello sinottico: l'assenza di intermediazione. Mentre nei racconti sinottici Gesù dà il pane ai discepoli perché questi lo distribuiscano alle folle, in Giovanni è Gesù stesso che lo distribuisce a “quelli che stavano sdraiati” (v.11a), una posizione questa, come già si è detto sopra, che descrive quella caratteristica dei commensali. Il contesto, dunque, qui è quello di una mensa. Questa distribuzione diretta del pane da parte di Gesù, infatti, si trova soltanto nei racconti dell'ultima cena dove Gesù, preso il pane e rese grazie, lo dà ai suoi; forse è anche questo particolare che lega il racconto giovanneo al tema dell'ultima cena, considerato che l'aspetto della mediazione, che ricorda il lucano e paolino “fate questo in memoria di me”, affidando il dono del pane ai discepoli, verrà richiamato in qualche modo nei successivi vv.12-13, in cui il pane sovrabbondante viene affidato ai Dodici, metaforizzati nelle dodici ceste.

La seconda parte del v.11 potremmo definirla narrativamente complementare, ma di scarso interesse per l'autore, che ha accentrato la sua attenzione sul pane attorno al quale ruotano i tre movimenti di Gesù; per quanto riguarda i pesci invece ci si limita ad un sommario “similmente” e il discorso sui pesci termina qui, mentre il tema del pane percorrerà l'intero cap.6. Di rilevante interesse teologico invece è quel “quanto volevano” (Óson ½qelon, óson étzelon) con cui si chiude il v.11 e che sottolinea, una volta di più, l'abbondanza con cui la numerosissima folla è stata nutrita e che prelude al sopravanzo del pane, già in qualche modo preannunciato da quel luogo in cui c'era “molta erba” (v.10b).

I vv.12-13 riconducono il lettore ai rapporti interni tra Gesù e i suoi discepoli dove vi è un comando, che Gesù dà ai suoi (v.12), e la sua esecuzione (v.13).

Il v.12 si apre rimarcando il tema dell'abbondanza che caratterizza il racconto dei pani e dei pesci: “Ora, quando furono saziati, dice ai suoi discepoli”. Gesù dunque, prima di rivolgersi ai suoi discepoli, attende che tutti si siano saziati dei frutti della sua missione. Egli infatti è venuto perché tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (v.10,10b). Ma una volta che questa sua missione si è compiuta, si rende necessario che altri ne colgano l'eredità: “Raccogliete i pezzi sopravanzati, affinché qualcosa non si perda”. Molto denso il significato del verbo greco “Sunag£gete” (sinagághete, raccogliete). Esso significa raccogliere, ma anche radunare, mettere insieme, condurre, convocare, ricevere e accogliere. Tutti significati che attengono alla missione propria della Chiesa nascente, che ha ricevuta e accolta dal suo Signore e che consiste nel radunare le genti attorno all'unica Parola, convocandole all'unica mensa del vero Pane disceso dal cielo. “Sinagághete”, un verbo dunque che delinea il carattere squisitamente pastorale di questa missione, che Gesù lascia in eredità ai suoi. Compito quindi dei discepoli è quello di raccogliere “i pezzi sopravanzati”. Non si tratta di raccogliere gli avanzi del cibo, ma di ricevere e di accogliere l'eredità lasciata da Gesù: la sovrabbondanza della sua vita divina, che si è fatta Pane per le genti. I “pezzi sopravanzati” infatti parlano dell'abbondanza del dono divino che è Gesù stesso, il Mistero di vita divina che egli è venuto a condividere con gli uomini e che ora lascia in eredità ai suoi perché continuino ad offrire questo dono alle genti. Una missione quindi finalizzata alle genti, ma che è sottesa da un unico scopo: “affinché qualcosa non si perda”. Ciò che non deve perdersi è “qualcosa”, un pronome indefinito, reso in greco con il neutro “ti” (ti); proprio perché indefinito e proprio perché neutro questo pronome è onnicomprensivo e acquista un senso di universalità; questo qualcosa pertanto non riguarda soltanto la sovrabbondanza di vita lasciata in eredità ai discepoli da parte del loro Maestro, ma anche coloro ai quali questa ricchezza di vita è lasciata; il verbo “perdersi” (¢pÒllumi, apóllimi) infatti non ha soltanto il senso di smarrire o smarrirsi, ma anche di andare in rovina, di perire, con attinenza agli aspetti salvifici. La stessa espressione si trova in 39b e acquista chiaramente un senso salvifico: “tutto ciò che mi ha dato non disperda (fuori) da lui, ma lo risusciti nell'ultimo giorno”. L'eredità dunque che Gesù lascia ai suoi non è soltanto la ricchezza della sua vita divina dà trasmettere agli uomini, portando a compimento la sua missione, ma anche l'eredità di tutte le genti29, che egli ha fatto sue sulla croce30. Gesù infatti lamenterà “E ho altre pecore che non sono da questo recinto; anche quelle io devo condurre e ascolteranno la mia voce, e saranno un solo gregge, un solo pastore” (v.10,16). I verbi al futuro parlano del tempo della Chiesa e dell'universalità della sua missione.

Il v.13 si apre con l'esecuzione del comando di Gesù: “Raccogliete” (v.12) ed essi dunque “Raccolsero”. È quanto la chiesa nascente ha fatto nei confronti del suo Maestro, raccogliendone l'eredità, facendone una missione dal respiro universale, nella coscienza che in essa si prolungava e si compiva quella del Risorto. Ciò che i discepoli raccolsero riempì dodici ceste; e ciò che riempi le dodici ceste furono i pezzi che sovrabbondarono. Si parla di riempire, di sovrabbondare, sottolineando ancora una volta l'abbondanza del dono che fu affidato alle dodici ceste e che le colmò. L'autore rileva come questi pezzi sovrabbondanti furono originati dai cinque pani (™k tîn pšnte ¥rtwn, ek tôn pénte árton); la particella “ek” indica infatti l'origine, la provenienza di tutta quell'abbondanza. La pienezza della missione, originatasi “dai cinque pani d'orzo” si trova pertanto ora in dodici ceste, perché nulla vada perduto. Si parla dunque del costituirsi della prima comunità credente attorno ai Dodici, riconosciuti come gli eredi naturali della pienezza di vita affidata a loro e che dai quali ora defluisce facendosi condivisione e comunione non solo tra credenti, ma anche tra questi e i Dodici e questi con il Risorto, da cui si origina ogni pienezza per mezzo della Parola e del Pane. Si parla quindi di condivisione e di comunione mediate, ricordate in 1Gv 1,3: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3).

I vv.14-15 concludono il racconto dei pani e dei pesci e riportano la reazione della gente al segno. Questa è duplice e denuncia una comprensione distorta del segno, che meglio apparirà al v.26: da un lato vi è una sorta di professione di fede (v.14), dall'altro il tentativo di proclamazione regale (v.15).

Il v.14 racconta come a fronte di un segno così eclatante gli uomini riconoscano in Gesù “il profeta che viene nel mondo”. Si tratta di un duplice riconoscimento: Gesù è il “profeta” ed è “colui che viene” nel mondo. Il testo greco in termini più espliciti afferma “Ð prof»thj Ð ™rcÒmenoj” (o profétes o ercómenos), letteralmente “il profeta il veniente”. Entrambe le espressioni sono precedute da un articolo determinativo, lasciando intendere come esse si riferiscano ad eventi precisi. “Il profeta” qui fa riferimento a Dt 18,15, in cui Mosè rivolto al popolo annuncia un suo misterioso successore: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto”. Questa espressione venne intesa nel tempo come un annuncio di un Profeta, una sorta di novello Mosè che avrebbe ristabilito le sorti di Israele e la cui natura era messianica. Ed è proprio quest'ultimo aspetto che testimonia il termine “o ercómenos”, letteralmente “colui che viene” con cui si indicava il messia, l'uomo inviato da Dio per ripristinare il diritto e la giustizia in Israele, e che Giovanni, non senza un pizzico di ironia, mette sulle labbra di questa gente sostanzialmente incredula; una professione di fede che apparirà nella sua pienezza e nella sua verità soltanto dopo la risurrezione di Gesù.

Conseguente al riconoscimento di Gesù quale Profeta promesso da Mosè e Messia, il v.15 narra come la gente tenti di proclamare re Gesù; un tentativo che rispecchia verosimilmente la situazione storica dell'epoca, in cui un popolo, oppresso dall'invasore romano e umiliato continuamente da occupazioni di potenze straniere, attendeva un capo che lo riscattasse. Non erano rari i sedicenti messia o autoproclamatisi re che trovavano seguito presso la gente. Situazioni queste ricorrenti in Palestina tra il I e il II sec. e che spesso si concludevano in un bagno di sangue. Lo stesso sommo sacerdote nell'osservare le numerose folle che seguivano Gesù temeva che la cosa degenerasse in una rivolta, che sarebbe stata repressa duramente da Roma, con gravi conseguenze sull'autonomia religiosa che il Giudaismo godeva: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>” (11,47-48). Un tentativo di proclamazione da cui Gesù rifugge, ma che, seppur in modo velato, rimanda alla sua reale regalità, che verrà proclamata nel pieno della sua passione proprio da un pagano, Pilato: “Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: <<Ecco il vostro re >>” (19,14.15).

Il versetto termina con Gesù che si ritira di nuovo sul monte. Una conclusione che obbedisce più alla fonte comune, da cui Giovanni ha tratto questo racconto, che alle logiche narrative. Gesù infatti era già salito sul monte con i suoi discepoli al v.3 e non si è mai detto che ne fosse disceso, anzi sembra proprio che il segno sia venuto sul monte, anche se già si sono rilevate sopra le incongruenze sia di questa doppia salita sul monte sia del sostenere che il segno sia avvenuto sul monte (cfr. pagg.6-9).


La tempesta del dubbio, un cammino di ricerca della fede nella presenza viva di Gesù

Testo a lettura facilitata (vv.16-21)


Introduzione ai vv.16-21

3- Gesù poi salì sul monte e là sedeva con i suoi discepoli.

Racconto dei pani e dei pesci

[vv.5-15 inclusi]

Racconto della deambulazione di Gesù sull'acqua

16- Ora, quando venne sera, i suoi discepoli scesero sul mare ed entrati in barca andavano al di là del mare verso Cafarnao.
17- E già era venuto buio e Gesù non era ancora andato da loro,
18- e il mare, soffiando un grande vento, si sollevava.
19- Spintisi dunque in avanti per circa venticinque o trenta stadi, scorgono Gesù che camminava sul mare e che diventava vicino alla barca, e furono presi da paura.
20- Ma egli dice loro: <<Io sono, non abbiate paura>>.
21- Volevano, dunque, prenderlo nella barca, e subito la barca fu presso la terra verso la quale andava.


Note generali


Già lo si è detto come il racconto dei pani e dei pesci è incluso all'interno di quello della deambulazione di Gesù sulle acque, che parla di dubbi e diffidenze post-pasquali circa la reale presenza di Gesù in mezzo ai credenti e in particolare nel pane benedetto, che ne celebra la memoria.

Già si è detto come il v.3 allude ad un Gesù già glorificato, che ancora dimora in mezzo ai suoi e come egli continui ad esserne il maestro; una presenza garantita dalla sua Parola ammaestrante e illuminante, che permane presso i nuovi credenti ed è ancora viva e vivente nel pane benedetto31. La Parola nelle prime comunità credenti era considerata un punto di riferimento importante non solo perché dal suo annuncio scaturiva la fede32, ma anche perché questa ne veniva alimentata continuamente33. Pane e Parola erano i due elementi fondamentali attorno a cui si amalgamavano i nuovi credenti e su cui si fondavano le prime comunità di fede. È significativo in tal senso il racconto lucano dei due discepoli di Emmaus che riconoscono il Risorto sia dalla sua parola (Lc 24,32) e in essa lo ritrovano (Lc 24,27), sia dallo spezzare del pane (Lc 24,30-31). La Parola dunque diventa anche per la comunità giovannea l'elemento illuminante che deve fugare ogni dubbio sulla reale presenza del Risorto, fattosi pane per tutti. Una Parola quindi che viene in soccorso al Pane, la cui verità e il cui mistero sono da essa rivelati. Non è un caso infatti se il cap.6 si apre con Gesù sul monte della sua divinità e della sua gloria, che siede ancora in mezzo ai suoi in atteggiamento ammaestrante (v.3) e si chiude con una solenne professione di fede nella Parola riconosciuta come fonte di vita eterna (vv.68-69). La risposta pertanto ai dubbi e alle incertezze sul significato e sulla verità di quel Pane benedetto si trovano soltanto nella Parola del Risorto, capace di fugare ogni dubbio e ogni titubanza. È questo in buona sostanza l'insegnamento del cap.6.

In questo contesto viene inserito il racconto della deambulazione di Gesù sulle acque, che denuncia tutta la fragilità di fede della comunità giovannea in quel Pane di vita eterna. Un racconto che viene riportato anche da Marco (6,45-52) e Matteo (14,22-33), quest'ultimo dipendente dal primo; mentre è assente in Luca. Lo sfondo su cui si muove il racconto in tutti tre gli evangelisti è la sostanziale inintelligenza e incredulità che affligge tutte tre le comunità, marciana, matteana e giovannea circa l'identità di Gesù, per Marco e Matteo; con riguardo alla presenza reale di Gesù in mezzo ai suoi dopo la sua dipartita, per Giovanni. Le prospettive dunque sono molto diverse per i Sinottici e per Giovanni. Marco, che imposta il suo vangelo come un cammino catechetico che porta ad una graduale scoperta di Gesù come Messia e Figlio di Dio ed ha i suoi vertici rispettivamente in 8,29 e 15,39, è l'unico che unisce in modo diretto questo racconto con la moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,52), sottolineando l'inintelligenza dei discepoli nei confronti Gesù, che essi avrebbero dovuto riconoscere nella sua messianicità e nella sua divinità proprio dal miracolo dei pani e dei pesci e dal suo dominio sulle forze della natura. Matteo, al contrario, ha di fronte a sé una comunità formata prevalentemente da giudeocristiani, ancora molto legati a Mosè e all'idea di un Dio irraggiungibile e non raffigurabile, per cui hanno seri problemi nel credere che Gesù sia Figlio di Dio e quindi Dio lui stesso. Matteo dedicherà alla questione i capp. 14-1734. Questi trovano i loro vertici nella solenne professione di fede in Gesù quale Figlio di Dio proprio al termine del racconto della deambulazione di Gesù sulle acque (14,33) e in 16,16, in cui Gesù è riconosciuto solennemente da Pietro quale Cristo e Figlio di Dio vivente. Il problema per la comunità giovannea qui, non è tanto l'identità di Gesù, contemplata e trasparente in tutto il racconto giovanneo, che è una lirica al Verbo Incarnato, quanto la sua reale presenza in mezzo alla comunità dopo la sua dipartita. Il racconto della deambulazione di Gesù sulle acque è strutturato infatti in modo molto diverso dai Sinottici ed è tale che riconduce, come vedremo nel commento, al problema del dopo morte di Gesù: in quale modo egli è ancora presente in mezzo alla comunità? Come è possibile raggiungerlo ancora? Un problema non di poco conto, che vedrà impegnata la comunità giovannea anche sul fronte della risurrezione di Gesù nel racconto della tomba vuota in 20,1-11, che narra come si è formata la fede nella risurrezione e nel Risorto. Anche là come qua si parla di buio, di notte (vv.6,17; 20,1). Tutti problemi che non preoccupano i credenti di oggi, dopo duemila anni di teologie, di dottrine e di fede trasmessa e ormai assodata, ma che certamente dovevano assillare non poco i primi credenti, che la fede invece l'hanno dovuta fondare, approfondendone i contenuti completamente nuovi e inediti e non sempre facilmente raggiungibili, sui quali già esistevano interpretazioni molto discordanti e scritti spesso devianti.

Commento ai vv.16-21

Il v.16 si apre con un'annotazione di tipo temporale: “Ora, quando venne sera”. La sera è l'ultima parte del giorno e parla sempre di un tempo che sta per finire. Il salmista prende il giorno per commisurare il tempo di mille anni e come metafora della vita dell'uomo, che vede come l'erba, che al mattino fiorisce e alla sera è falciata e poi dissecca: “Ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte. Li annienti: li sommergi nel sonno; sono come l'erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca” (Sal 89,4-6). Il giorno, con riferimento alla sua missione, è per il Gesù giovanneo il tempo entro cui compiere le opere del Padre; il tempo della luce, il tempo della sua presenza; poi verrà il tempo delle tenebre, cioè della sua assenza, quando non sarà più possibile operare: “Bisogna che noi compiamo le opere di chi mi ha mandato finché è giorno; viene la notte, quando nessuno può lavorare. Mentre sono nel mondo, sono luce del mondo” (9,4-5). E così similmente in 11,9-10 Gesù paragona la sua vita e la sua missione ad una giornata lavorativa, prestabilita dal Padre, per cui niente può succedergli finché dura questa giornata: “Rispose Gesù: <<Non sono dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa, poiché vede la luce di questo mondo; ma se uno cammina di notte inciampa, poiché la luce non è in lui>>35. Il giorno pertanto indica un tempo determinato entro cui si svolge la vita dell'uomo e nel nostro caso il giorno è metafora della vita stessa di Gesù e del tempo della sua missione. Ed è proprio ciò a cui fa riferimento l'annotazione temporale “Ora, quando venne la sera”, cioè quando il tempo della vita di Gesù e della sua missione sono giunti ormai al termine. Ed è proprio questo il tempo, alla sera, al termine della missione di Gesù, in cui i discepoli lasciano Gesù sul monte della sua gloria e scendono verso il mare. Questo scendere verso il mare, metafora sia della vita piena di insidie e dominio del male, sia dei popoli pagani da evangelizzare36, richiama da vicino dei movimenti simili in At 1,11-12, dove i discepoli con il volto fisso in cielo contemplano la dipartita di Gesù, che ascende verso il Padre; essi sono invitati dall'angelo a scendere dal monte degli Ulivi e a ritornare alla quotidianità della vita. Devono lasciare Gesù perché ora egli si trova in una diversa dimensione, avvolto nella sua gloria. Similmente in Gv 20,9-10, dopo la scoperta della tomba vuota, evento per i discepoli incomprensibile perché non ancora illuminati dalle Scritture, essi tornano alle loro case. Allo stesso modo, i due discepoli di Emmaus, dopo il dramma del Golgota, delusi e amareggiati, se ne vanno via da Gerusalemme e tornano alle loro faccende quotidiane (Lc 24,13-24). In tutti questi casi i discepoli hanno a che fare con la fine terrena della vita di Gesù e della sua missione e si allontanano da soli verso il mare della loro quotidianità, ormai soli e delusi.

Il v.17 è scandito in due parti: la prima annota che i discepoli “entrati in barca andavano al di là del mare verso Cafarnao”; la seconda precisa significativamente che “già era venuto buio e Gesù non era ancora andato da loro”. I discepoli pertanto entrano nella barca e intraprendono la loro traversata verso Cafarnao. Essi sono soli in questa barca. La barca come la casa sono nei racconto evangelici la metafora della comunità credente; ma mentre la casa, in quanto solida e stabile, parla della comunità costituita sulla roccia della Parola (Mt 7,24-27), la barca, specie se in navigazione, inerisce metaforicamente sempre alla comunità, ma colta nel movimento della sua missione37. I discepoli quindi sono ormai soli e costituitisi in comunità credente intraprendono la loro missione dirigendosi verso Cafarnao, dove, secondo il racconto matteano Gesù aveva posto il suo quartier generale e da dove era partita la sua missione (Mt 4,13). I discepoli pertanto decidono di ripercorre la strada del loro Maestro, ora non più tra loro. Essi tornano a Cafarnao quasi per ritrovare le loro sicurezze. Significativo è il verbo “andavano” (½rconto, érconto), posto all'imperfetto indicativo, dopo due verbi all'aoristo (“venne la sera” e “scesero dal monte”). I verbi all'aoristo indicano un'azione puntuale nel tempo e quindi definitivamente chiusa e superata, così come avvenne per la fine del tempo storico di Gesù (“venne la sera”) e il conseguente distacco dai suoi discepoli (“scesero dal monte”). Ma ciò che avviene adesso, l'inizio della loro missione, viene posto all'imperfetto indicativo, “andavano”, un tempo verbale che indica un'azione persistente nel tempo, una chiesa che si è ormai posta in cammino. Ma è proprio a questo punto che l'autore annota che “già era venuto buio e Gesù non era ancora andato da loro”. Giovanni associa il buio con l'assenza di Gesù. Un buio che indica lo stato di disorientamento e di confusione in cui la prima comunità credente è venuta a trovarsi nell'immediato dopo Gesù. È lo stesso buio da cui essa è avvolta quando scopre la tomba vuota: “Ora, il primo giorno della settimana, Maria Maddalena va alla tomba di mattino, quando c'era ancora buio, e vede la pietra tolta dalla tomba” (20,1). È il buio di una fede ancora incipiente, che ancora non ha elaborato l'evento Gesù, il senso della sua parola e della sua missione; non ha ancora elaborato il senso degli eventi che l'hanno travolta. Un buio dunque che è generato dall'assenza di Gesù: “Gesù non era ancora andato da loro”. Giovanni è l'unico che lega il buio all'assenza di Gesù e sottolineando questo particolare rileva probabilmente il problema della sua comunità: la difficoltà a credere alla presenza viva del Risorto in mezzo a loro. Il loro credere era probabilmente legato ad un evento passato, che solo il suo ricordo rendeva in qualche modo presente. Gesù infatti non era ancora andato da loro. A che cosa si allude con quel “non era ancora andato da loro”? Forse ad una fede non ancora compiuta? Forse ad un'attesa o a delle aspettative che non si sono realizzate? O forse al fatto che Gesù non era ancora percepito presente e vivente in mezzo alla comunità nella sua Parola e nel Pane? Anche i due discepoli di Emmaus denunciano lo stesso stato di smarrimento; anche loro attendevano un ritorno glorioso e potente di quel Cristo che avevano seguito da vivo, ma ora son già passati tre giorni e ancora Gesù non era tornato da loro: “Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc 24,19-21). Anche loro si sentono soli e smarriti, avvolti dal buio dell'inintelligenza, per questo Gesù li rimprovera: “<<Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?>>. E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Forse era proprio questo il problema della comunità giovannea: l'inintelligenza delle Scritture. Anche di fronte alla tomba vuota essa non aveva elaborato l'evento, perché, annota l'autore, “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (20,9). L'evento della risurrezione dunque non fu elaborato dalle apparizioni, ma grazie alle Scritture, che hanno consentito loro di comprendere ciò che era avvenuto. Ed è così anche per i discepoli di Emmaus: soltanto rivisitando le Scritture riescono a capire l'evento Gesù e il senso della sua missione. Solo così essi scoprono la presenza di Gesù che fa ardere il loro cuore e li ravviva nella fede: “Ed essi si dissero l'un l'altro: <<Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?>>” (Lc 24,32).

Il v.18 mette in evidenza lo stato di agitazione e di smarrimento della comunità giovannea, scossa forse dal vento della persecuzione o della guerra giudaica (66-70 d.C.) o dei difficili rapporti con il mondo giudaico e con le altre comunità credenti ormai istituzionalizzate, eventi questi che la costrinsero a migrare verso Efeso38; o forse, come ritengo sia, il vento del dubbio che agita la vita della comunità; il dubbio di una comunità che non riesce più a ritrovare il proprio Maestro, dopo i tragici eventi del Golgota, e come esso sia rimasto soltanto un ricordo, che genera amarezza e delusione. Come credere dunque alla sua rinnovata presenza in seno alla comunità ora che non c'è più? Una parola e un po' di pane è tutto questo che è rimasto di Gesù? Sono forse questi i segni della sua nuova presenza in mezzo alla comunità? Come credere a tutto questo? Gesù non c'è più, la sua presenza non è percepita nella comunità giovannea. Una comunità che si rispecchia in Tommaso che esprime tutta la difficoltà del suo credere ad una presenza per lui inconsistente e aleatoria, certamente non più reale; una presenza che non è più raggiungibile attraverso i sensi del toccare e del vedere, ma che solo la fede la può rendere concretamente raggiungibile. Serve dunque una diversa disposizione interiore; è necessario abbandonare l'esperienza dei sensi per poter accedere a quella dello spirito, animato dalla fede. Una diversa disposizione e una raggiunta disponibilità che verranno raccontate nel v.21.

Il v.19 racconta di come la comunità giovannea raggiunse la fede nella presenza viva e vivente di Gesù in mezzo ad essa. Il versetto è scandito in due parti:

  1. una definizione temporale: “Spintisi dunque in avanti per circa venticinque o trenta stadi”. La comprensione di un Gesù presente e vivo in seno alla comunità anche dopo la sua dipartita non fu una cosa semplice e scontata come può esserlo per il credente dei nostri giorni, che è il punto terminale di circa duemila anni di elaborazioni teologiche e dottrinali ed erede di lunghe tradizioni sociali e familiari che lo hanno educato a questa presenza. Per le prime comunità credenti nulla vi era di scontato; furono proprio queste a doversi confrontare con una realtà tutta da definire e da comprendere e su cui riflettere a lungo con conclusioni spesso contrastanti e deviate. Anche per la comunità giovannea il pensare ad una presenza viva ed operante in mezzo ad essa di un Gesù storicamente non più presente non fu una cosa semplice e tanto meno immediata; lo dicono quei 25-30 stadi che intercorsero tra la dipartita di Gesù, lasciato sul monte della sua gloria (v.3) e il realizzare che egli era effettivamente presente e operante in mezzo ad essa (v.19). La grandezza dello stadio è di poco inferiore a 185 mt39, per cui 25-30 stadi significa all'incirca 4625-5550 mt; considerato che la larghezza del lago di Tiberiade è di 12 Km40 questo significa che la barca dei discepoli brancolò nel buio per un lungo tratto prima di giungere alla visione del Risorto sul mare agitato dei loro dubbi. Stabilire esattamente la durata dei dubbi della comunità giovannea circa la presenza viva di Gesù in mezzo ad essa è del tutto irrilevante e non sarebbe neppure possibile determinarlo, considerato il linguaggio simbolico e metaforico con cui ci sta parlando l'autore. Certo che le grandezze offerte sono quelle sopra riportate e queste ci parlano di un tempo piuttosto consistente e rilevante.

  2. Il tempo della riflessione, che portò alla scoperta: “scorgono Gesù che camminava sul mare e che diventava vicino alla barca”. Due gli elementi rilevanti in questa scena: il verbo scorgere, reso in greco con “qewršw” (tzeoréo) e posto al presente indicativo (qewroàsin, tzeorûsin) per indicare lo stato permanente di ricerca, che impegnava costantemente la comunità giovannea; e i due verbi “camminare” e “diventare vicino” posti all'imperfetto indicativo, riferiti a Gesù, per rilevare come un'azione iniziatasi nel passato continuasse anche nel presente, sottolineandone la persistenza, che richiama da vicino la finale del vangelo matteano: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b).

    Quanto al verbo “tzeoréo esso significa vedere, guardare, ma anche scorgere, esaminare, osservare, meditare, riflettere, investigare. Questo scorgere Gesù dunque non ha nulla a che vedere con i racconti delle apparizioni (Gv 20), bensì fu il frutto di una persistente ricerca che aveva accompagnato la comunità giovannea fin dagli inizi. Per questo Gesù non fu scambiato per un fantasma come nel racconto sinottico (Mt 12,46; Mc 6,49) o come nel racconto lucano delle apparizioni (Lc 24,37.39), perché la comunità giovannea non ebbe mai una visione o una qualche apparizione, ma soltanto una sorta di lavoro di intelligence. Un simile lavoro di intelligence viene sottolineato anche nel racconto della rinvenimento della tomba vuota. Anche là comparirà il verbo “tzeoréo” (20,6), che porterà, coadiuvati dalle Scritture (20,9), alla scoperta della risurrezione. Al termine di un persistente cammino di ricerca dunque Gesù venne colto nella sua vera identità divina e nel suo nuovo stato di vita, che ne garantiva la presenza in mezzo alla comunità nonostante la sua dipartita storica. Tre gli elementi che evidenziano la sua divinità: a) Gesù viene colto mentre cammina sulle acque; un'immagine questa che evoca il genesiaco Spirito di Dio che aleggiava sovrano sulle acque del caos primordiale (Gen 1,2), da cui la potenza della sua parola trasse la prima creazione (Gen 1,3ss); b) la paura che scosse i discepoli, una reazione emotiva propria dell'uomo al manifestarsi della divinità; c) infine, il v.20, una vera e propria rivelazione: “Ma egli dice loro: <<Io sono, non abbiate paura>>”. Quel “Io sono”41, espressione caratteristica di Giovanni che ricorre 23 volte nel suo vangelo e richiama il nome stesso di Dio, rivelato a Mosè (Es 3,14). Il contesto pertanto è quello proprio non di una teofania o di un'apparizione, ma di una rivelazione, realizzatasi nell'ambito del lavoro di intelligence a cui si era sottoposta la comunità giovannea. Il sollecito di Gesù a non aver paura più che una risposta allo stato di titubanza e di timore che pervadeva i discepoli sembra essere un sollecito a non temere di accogliere Gesù nel suo nuovo stato di vita, significato ora nella Parola e nel Pane, mettendo quindi al bando tutti i dubbi e le incertezze. Nessun incoraggiamento, dunque, come invece traspare dai Sinottici (Mt 14,27; Mc 6,50), ma soltanto un'esortazione, un sollecito ad uscire dai loro dubbi e dalle loro titubanze.

    Quanto ai due movimenti in cui Gesù è colto dalla comunità giovannea, mentre “camminava sul mare” e “diventava vicino alla barca”, essi rilevano la scoperta della comunità giovannea, che pur nel buio dei suoi dubbi e delle sue incertezze in cui stava navigando, scorge (tzeorûsin), cioè trova attraverso una ricerca di intelligence, che Gesù in realtà stava camminando con loro e che mai li aveva abbandonati, poiché “Il Signore è vicino a quanti lo invocano, a quanti lo cercano con cuore sincero” (Sal 144,18). Gesù dunque è presente nella ricerca stessa non solo in quanto oggetto di ricerca, ma anche quale attore che stimola la ricerca. Una ricerca che, man mano progredisce, fa si che la presenza di Gesù si avvicini sempre più alla barca: “diventava vicino alla barca” e quindi sempre più una presenza reale con cui potersi relazionare, ma che non si potrà mai raggiungere in modo pieno e definitivo, poiché il credente vive in una continua tensione tra il “già” e il “non ancora”. Ecco perché, come lascia intendere il v.21, Gesù non sale in barca con i discepoli, ma si lascia soltanto scorgere, rendendosi vicino a loro che lo cercavano, perché egli ormai vive in una diversa dimensione, che può essere raggiunta soltanto attraverso la fede, ma sufficiente per placare il vento del dubbio e consentire un rapido approdo alla meta. Non a caso il vangelo giovanneo si concluderà con un ammonimento di Gesù circa il credere, seguito dalla solenne professione di fede da parte dell'incredulo Tommaso, che ormai vinto nei suoi dubbi non sente più neppure il bisogno di toccare e di vedere Gesù, gli basta la fede: “Signore mio e Dio mio” (20,27-29). La fede tuttavia non è mai un dato scontato, ma una continua ricerca che ti spinge a livelli sempre più elevati, ma senza mai farti raggiungere in modo definitivo l'oggetto della tua ricerca, che potrai cogliere in pienezza soltanto nell'eternità divina. Una fede che si ritiene consolidata e appagata dalle verità dottrinali ereditate dalla Tradizione e soddisfatta da una ripetitiva ritualità e dal pietismo, che non interpellano più la vita, è sostanzialmente una fede morta, che crea soltanto grosse illusioni, similmente a quel fariseo che salito al tempio per pregare sciorinava a Dio quanto egli fosse bravo, pio e rigoroso osservante della Legge. Se ne uscì dal tempio gravato dal giudizio divino (Lc 18,10-14).


Il v. 21, concludendo l'episodio della deambulazione di Gesù sulle acque, attesta la raggiunta fede della comunità giovannea nella presenza reale di Gesù: “Volevano, dunque, prenderlo nella barca, e subito la barca fu presso la terra verso la quale andava”. Nei Sinottici, benché non invitato dai discepoli, Gesù per sua iniziativa entra nella barca e il vento si placa all'improvviso, mettendo in evidenza il suo potere sulle forze della natura, sottolineandone la divinità, che lo eguagliava allo Spirito di Dio, che aleggiando sopra il caos delle acque primordiali le dominava e dalle quali, con la potenza della Parola, fece scaturire la creazione (Gen 1,2-3ss). Non a caso il racconto matteano si conclude con un riconoscimento e una proclamazione di Gesù quale Figlio di Dio (Mt 14,33); mentre quello marciano si conclude con lo stupore dei discepoli di fronte ad un simile miracolo, denunciando tutta la loro inintelligenza sull'evento Gesù (Mc 6,51b-52)42. In Giovanni le cose cambiano radicalmente. Gli attori primi sono i discepoli che di fronte al buio dell'assenza di Gesù ne cercano incessantemente una presenza, tale da poter placare i loro dubbi. Sono loro che arrivano a comprendere come Gesù stia camminando con loro ed era loro sempre più vicino nella misura in cui essi sapevano scrutare i segni della sua presenza in seno alla comunità, come la sua Parola e il Pane di vita. Ed è a questo punto che essi “volevano prenderlo nella barca”. Quel “volevano”, all'imperfetto indicativo, dice la loro persistente disponibilità ad accogliere Gesù tra di loro, ma ormai senza più legarsi ad una presenza fisica come pretendeva Tommaso, che, in ultima analisi, anche lui risolse la sua incredulità non toccando o vedendo, ma credendo. Per questo la barca, ora, non più sobbalzata dal vento impetuoso del dubbio e delle incertezze, tocca rapidamente la solidità sicura della terra.

Il racconto della deambulazione di Gesù sulle acque potremmo pertanto definirlo come il racconto di un viaggio della comunità giovannea alla ricerca della fede nella presenza viva e rassicurante di Gesù in mezzo ad essa. I discepoli, dopo i tragici eventi del Golgota, che sottrassero loro la presenza fisica di Gesù, furono come degli sbandati (Mt 26,31.55b; Mc 14,27.50.51-52; 16,8), perseguitati dai Giudei (Gv 20,19; At 4,1-3; 6,9-14; 8,1; 12,1) e agitati da dubbi (Mt 28,17), delusioni, incertezze, speranze frustrate (Lc 24,19-23). Per poter continuare la sequela del loro Maestro e nella sua fedeltà essi furono costretti a rivisitare l'evento Gesù e ricomprenderlo attraverso una rilettura delle Scritture in chiave cristologica (Lc 24,27; Gv 20,9), partendo dagli ultimi tragici eventi e dall'inesplicabile e sconcertante episodio della tomba vuota. Un lungo e faticoso lavoro di intelligence, un cammino fatto di incertezze e di dubbi, quasi certamente non senza contrasti interni alla comunità stessa. Un cammino iniziatosi con il lasciare alle loro spalle la terraferma di un Gesù ormai reso storicamente irraggiungibile, imbarcandosi nelle acque infide del lago, agitate dal vento dei loro dubbi e avvolti nella notte dell'assenza di Gesù. Soltanto attraverso una costante ricerca e riflessione, con l'aiuto delle Scritture ricomprese alla luce del Risorto, essi giunsero a scoprire come Gesù fosse presente ancora in mezzo a loro sotto le diverse forme della Parola e del Pane. Una scoperta che li portò a toccare nuovamente un'altra terraferma, quella della certezza fondata non più sui sensi del toccare e del vedere, ma sul credere.


Una ricerca di Gesù mossa dall'inintelligenza

Testo (vv.22-27)

22- Il giorno dopo la folla, che stava sulla parte opposta del mare, vide che non vi era là un'altra barchetta se non una, e che Gesù non entrò con i suoi discepoli nella barca, ma i suoi discepoli partirono da soli.
23- Ma vennero delle barchette da Tiberiade presso il luogo dove mangiarono il pane, dopo che il Signore rese grazie.
24- Quando, dunque, la folle vide che Gesù non è là né i suoi discepoli, essi salirono sulle barchette e andarono a Cafarnao per cercare Gesù.
25- E trovatolo nella parte opposta del mare, gli dissero: <<Rabbi, quando sei venuto qui?>>.
26- Rispose loro Gesù e disse: <<In verità, in verità vi dico, mi cercate non perché vedeste dei segni, ma perché mangiaste dai pani e foste saziati.
27- Procuratevi non il cibo che perisce, ma il cibo che rimane per la vita eterna, che il Figlio dell'uomo vi darà; questo, infatti, il Padre, Dio, ha contrassegnato>>.


Note generali a 6,22-27

Parallelamente alla sofferta ricerca dei discepoli di una fede nella presenza viva del Risorto in mezzo a loro, l'autore, riprendendo il tema del Pane, introdotto con il segno dei cinque pani d'orzo e dei due pesci, affianca ora un'altra ricerca di Gesù operata dalla gente che aveva beneficiato di quel segno. Anche questa, similmente alla comunità credente dei discepoli, sale in barca per raggiungere Cafarnao, ma a differenza della prima qui non viene richiamato il contesto in cui questa si è mossa, anzi si dice che il muoversi di queste folle avviene “il giorno dopo” e, quindi, in un diverso contesto temporale; inoltre qui non vi è buio, non viene menzionata l'attraversata del lago, non si fa riferimento al vento né alle onde agitate, né il lago è chiamato mare, simbolo del male e abitazione di mostri marini. Tutto ciò indica come queste folle non siano mai state scosse dall'assenza di Gesù, né mai si siano poste degli interrogativi sulla sua identità e soprattutto, di conseguenza, non hanno saputo leggere nel giusto modo il segno dei pani e dei pesci, denunciando così tutta la loro inintelligenza e la loro superficialità nell'approcciarsi a Gesù. Non a caso l'autore sottolinea fin dall'inizio come questa folla “stava sulla parte opposta del mare”, cioè opposta a quella a cui invece giunsero i discepoli dopo un lungo travaglio.

Giovanni nel riprendere il tema del pane inizia qui a porre la questione della necessità del credere, indispensabile per raggiungere la verità e il mistero che avvolgono il Pane di vita. L'esigenza della fede, in vario modo sottolineata nei vv.22-29.36-47.60-71, si intreccia con il discorso sul Pane (vv.32-35.48-59). Si tratta di una fede spesso contrastata dall'inintelligenza della gente (vv.22-30) e dall'incredulità dello stesso discepolato di Gesù, che lo abbandona (vv.60-66), mentre i suoi fedelissimi, i Dodici, professano solennemente la loro fede in lui (vv.67-69). Ma anche questa solenne professione di fede è affiancata subito dall'amara prospettiva di un altro abbandono, di un tradimento (vv.70-71), che proietta già fin d'ora il lettore ai piedi del Golgota, associando in qualche modo questo Pane al sacrificio estremo, in cui esso verrà spezzato sulla croce per tutti. Questo alternarsi di fede professata e di incredulità e inintelligenza lascia intendere come la questione del Pane di vita eterna fosse divenuta molto contrastata all'interno della comunità giovannea. Giovanni cercherà di spiegare alla sua comunità come la questione del credere o del non credere non sia frutto di attività razionale o intellettuale dell'uomo, ma soggiaccia ad un disegno divino, di cui Gesù è portatore (vv.36-47).

L'intera pericope (vv.22-27), che trasporta il lettore in epoca post-pasquale, è percorsa dalla ricerca della gente, mondo pagano e giudaico, di Gesù, che ora si trova presso la comunità credente dove ci sono i suoi discepoli che ne proseguono la missione e ne trasmettono la Parola e il Pane. Si tratta di una ricerca che porterà i suoi frutti, poiché Gesù verrà trovato, ma la comprensione della sua Verità e del suo Mistero è ancora molto lontana.


Commento ai vv.22-27


I vv.22-24, sottesi dalla ricerca di Gesù da parte della gente, sono strutturati a parallelismi concentrici in B) (v.23):

  1. v.22: la gente si accorge che Gesù non è più tra i suoi discepoli e che questi se ne sono andati da soli;

  2. v.23: delle barche convergono nel luogo dove si era compiuto il segno, ricongiungendosi alla folla, che aveva beneficiato del segno; tutti quindi si ritrovano nel luogo dove Gesù rese grazie e diede il pane;

    A') v.24: Tutti si accorgono che sulla sponda dove sono non ci sono più né Gesù né discepoli e intraprendono la traversata del lago.

Il v.22 sottolinea la presa di coscienza della gente che Gesù non è più con i suoi discepoli e che ora questi hanno intrapreso il loro viaggio da soli; il v.23 indica come meta comune di ritrovo (barche e folla) il luogo dove Gesù rese grazie e diede il pane; il v.24 evidenzia la comune necessità (barche e folla) di compiere, alla pari dei discepoli (v.16) benché in diverso contesto, il loro passaggio verso l'altra parte dove c'erano Gesù e i discepoli e dove finalmente, non senza stupore, troveranno Gesù (v.25).

Già parafrasati in questo modo i tre versetti lasciano intuire come l'intera pericope in esame (vv.22-27) riguardi gli eventi post-pasquali, che vedono una chiesa in cammino in cui non vi è più la presenza fisica di Gesù, ma soltanto quella dei discepoli, che già hanno compiuto la loro tribolata attraversata verso l'altra sponda (vv.16-21) e che similmente le folle faranno; una chiesa sentita quale luogo del pane e del ringraziamento verso la quale convergono le genti. Il problema, come si vedrà subito ai vv.25-27, sarà quello di una fede nel Pane di vita non ancora giunta a pienezza.

Il v.22 si apre con un'annotazione temporale: “Il giorno dopo”, che crea uno stacco con l'unità narrativa precedente (vv.3.16-21), introducendo il lettore in un nuovo contesto, ma nel contempo ne dà continuità, così che questa nuova pericope (vv.22-27) va agganciata a quella precedente e deve esserne considerata un suo sviluppo. Ciò che qui avviene infatti accade “il giorno dopo” in cui Gesù prese del pane, rese grazie e lo distribuì; e in cui i discepoli, ormai senza la presenza fisica di Gesù, hanno compiuto la traversata della loro comprensione di una nuova presenza di Gesù, ora sotto forma di Pane e di Parola. “Il giorno dopo” quindi colloca il lettore nel tempo post-pasquale; il tempo di una chiesa che già si è messa in cammino.

Si sottolinea subito come la folla stava sulla parte opposta del mare, dove vi erano prima Gesù e i suoi discepoli; al tempo in cui Gesù “preso il pane, rese grazie, lo distribuì” e dopo di che sottrasse la sua presenza fisica, lasciando apparentemente soli i suoi discepoli. Si parla quindi di una folla rimasta ferma ai tempi di eventi passati, quando ancora c'era Gesù assieme ai suoi discepoli; ma nel contempo quello stare sulla parte opposta del mare dice come questa folla non ha ancora compiuta l'attraversata di una nuova comprensione e di una nuova visione di Gesù e di una ricomprensione, ora, di un nuovo ruolo che i discepoli, rimasti soli, hanno assunto. È una folla infatti che “stava sulla parte opposta del mare”.

Questa folla “vide” che sulle sponde del lago non vi era che una barchetta e che i discepoli se ne erano andati da soli, perché Gesù non era entrato con loro nella barca. Il verbo “vide” è reso in greco con “eŒdon” (eîdon), che è il verbo della piena visione e comprensione e parla di un vedere superiore, che va oltre alle apparenze. Giovanni nel suo vangelo lo usa per parlare della raggiunta fede, ma anche della presa di coscienza di ciò che è accaduto e precede talvolta la manifestazione della fede, come nel caso in cui “l'altro discepolo”, entrato nella tomba vuota, “vide e credette” (20,8), un vedere che precede immediatamente il credere. Ora, ciò che la folla vide, ciò di cui si accorse è che sulle sponde del lago non vi era che una “barchetta”. È strano come l'attenzione dell'autore si accentri su di una barchetta al punto tale da rilevarne la presenza; ed è singolare, quando l'autore parla della barca in cui ci sono i discepoli, usi il sostantivo “plo‹on” (ploîon), che significa nave da trasporto o da pesca o barca di grandi dimensioni, stabile e solida; mentre quando parla di barche diverse usa il termine “ploi£rion” (ploiárion), che significa barchetta, lasciandone trasparire non solo le piccole dimensioni, ma anche la sua fragilità. Ora la folla si accorse (“vide”) di tre cose importanti: che sulla riva del lago non era rimasta che una barchetta; che Gesù non entrò nella barca dei discepoli e che questi se ne partirono da soli. Questa triplice presa di coscienza nasce successivamente all'espressione temporale “Il giorno dopo”, cioè dopo gli eventi della passione e morte di Gesù, che ne tolsero la presenza fisica dai suoi discepoli, che rimasero soli e dovettero compiere la traversata che li portò ad una nuova comprensione della presenza di Gesù in mezzo a loro, quella del Pane e della Parola. Ecco, dunque, che questa “barchetta” diviene la metafora della folla stessa, che si trova ora “sulla parte opposta del mare”, cioè in una posizione che è all'esatto opposto di quella dove ora si trovano Gesù e i suoi discepoli. Ma è anche una folla che si trova “presso il luogo dove mangiarono il pane, dopo che il Signore rese grazie”, un luogo dove convergono altre barchette, provenienti da Tiberiade, città dai tratti ellenistici, dove vi era una forte consistenza di pagani, metaforizzati nelle barchette, che convergono verso lo stesso luogo dove già vi era una grande folla. Si noti come questo luogo è definito con i tratti propri dell'eucaristia: non si parla più qui di pani distribuiti da Gesù, ma soltanto di “pane”, preceduto dall'articolo determinativo “il” che lo definisce come un pane ormai ben conosciuto e ben noto (tÕn ¥rton, tòn árton), quello del rendimento di grazie, cioè il pane eucaristico; si parla poi non più di Gesù, ma di “Signore”, il titolo con cui il Risorto era ormai conosciuto presso le comunità credenti in epoca post-pasquale; si parla infine di “rendere grazie”, espressione con cui era conosciuta la cena del Signore o eucaristia. Questo luogo dunque presso il quale già c'era una folta folla e dove altri vi si stavano recando, altro non è che la perifrasi della chiesa o luogo dove c'è il “Signore” e dove “si rende grazie” e ancora una volta si mangia “il pane”. Quindi sia i nuovi credenti che il mondo pagano convertito, tutti infatti sono ora nel comune luogo dove si celebra l'eucaristia, cioè la chiesa. Ma è una folla di credenti che ancora deve scoprire la presenza viva di Gesù in mezzo ad essa, perché essa si trovava ancora sul lato opposto del mare dove ormai non c'erano più né Gesù né i suoi discepoli (v.24), che già compirono, quest'ultimi, la loro tribolata traversata (vv.16-21). Ora anche la folla decide di compiere la sua traversata, cioè la sua ricomprensione della presenza di Gesù, divenuto ora “il Signore”; per questo la folla e tutte le barchette giunte nel “luogo” ora si staccano dalla riva opposta per giungere alla comune riva, dove già si trovano Gesù e i discepoli. Anche per questa folla si tratta di un cammino alla ricerca di Gesù (v.24b), che ripercorre quello già compiuto dai discepoli (v.24) e la porterà alla scoperta di una nuova presenza di Gesù, anche se, come si vedrà al v.25, non vi è ancora una sua piena comprensione. Infatti, a diversità della barca dei discepoli che si ritrovò approdata alla terra ferma di una fede ormai giunta a compimento (v.21b), il v.25 parla di una folla che trova Gesù nella riva opposta a quella dove essa era, a testimonianza di un cammino di fede compiuto, ma non ancora sufficientemente compiuto. Non è un caso infatti che essa si rivolga a Gesù ancora in termini umani, definendolo non con il titolo di “Signore”, ma con l'antico titolo di “Rabbi”. Significativa la domanda che essi pongono al ritrovato Gesù, che non va mai dimenticato, si trova ora sulla riva opposta (v.25a) non solo a quella in cui si trovava prima la folla, ma da cui egli stesso è provenuto: “Rabbi, quando sei venuto qui?”. Una domanda logica e del tutto spontanea, ma da un attento esame dei termini usati da Giovanni si rileva come questa domanda non è poi così tanto innocente. La domanda, come già si è detto, si apre con una definizione di Gesù (“Rabbi”), che denota una non ancora raggiunta comprensione della nuova dimensione in cui egli ora si trova. A seguire vi è l'avverbio di tempo “pÒte” (póte), che significa “quando”, “in quale tempo” con allusione ad un tempo in cui è accaduto un evento; vi è poi un altro avverbio “ïde” (ôde) che esprime non soltanto un luogo (“qui, qua”) in cui questo evento è accaduto, ma anche la modalità con cui questo evento si è compiuto (in questo modo; in questa maniera). Vi è infine un verbo posto al perfetto indicativo, che indica uno stato presente, che risulta come conseguenza di un'azione posta nel passato: “gšgonaj” (ghégonas). Singolare poi l'uso del verbo ggnomai (ghígnomai) al posto di un verbo di movimento, come il comune œrcomai (ércomai, andare, venire). Benché il verbo “ghígnomai” per la sua duttilità di significato possa supplire anche ad un verbo di movimento, come nel nostro caso, esso significa primariamente nascere, diventare, aver luogo, manifestarsi, provenire da. La domanda quindi posta dai discepoli lascia spazio anche ad altre comprensioni come “Quando sei diventato così, in questo tuo modo di essere?”; oppure “Quando ha avuto luogo questo tuo modo di essere?”; “In quale tempo ti sei reso manifesto in questo modo?”. Sono tutte traduzioni possibili che possono generarsi dall'espressione greca: “`Rabb…, pÒte ïde gšgonaj;” (Rabbí, póte ôde ghégonas?), usata con doppio senso da Giovanni, una sua peculiarità letteraria43. Queste traduzioni alternative lasciano trasparire un Gesù trasformato nel suo essere e divenuto altro da quello storico, che si impone ai credenti in modo nuovo, con una presenza nuova, che va rielaborata e ricompresa rispetto a quella sua precedente di tipo storico. La folla arriva dunque ad incontrare il Risorto, ma è ancora legata alla sua figura storica, rivolgendosi a lui con l'appellativo di “Rabbi”.

I vv.26-27 confermano questa inintelligenza della gente, che si approccia a Gesù come ad un utile e conveniente taumaturgo, lasciando trasparire la sua incapacità di lettura del segno stesso. Il v.26, che funge da premessa al v.27, smaschera la vera motivazione che sottende la ricerca di Gesù da parte della folla e lo fa contrapponendo tra loro due motivazioni: quella che avrebbe dovuto essere, cioè la comprensione del significato del segno, espressa dal verbo “e‡dete” (eídete), che parla di un vedere superiore, capace di trascendere l'apparenza delle cose; e quella che invece è, cioè il semplice approfittare della situazione offerta dal segno: mangiare ed essere saziati. In realtà questa seconda parte del v.26 sembra assumere i toni di una vera e propria accusa nei confronti di quella parte della comunità giovannea che non sa distinguere il significato profondo di quel pane consacrato, luogo della presenza del Signore, dal mangiare per saziarsi. Un ammonimento che richiama da vicino quello duro e sferzante che Paolo rivolse alla sua comunità di Corinto, che celebrava la cena del Signore come se si trattasse di una convivialità fatta tra amici, in cui si mangia e si beve in modo smodato, senza saper distinguere la cena del pane spirituale da quello materiale: “E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. E' necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l'altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! [...] Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,17-29). Quasi certamente non era questa la situazione della comunità giovannea, ma alla comunità di Corinto si può probabilmente associare perché incapace come quella di distinguere il pane dal cielo da quello della mensa quotidiana e, quindi la difficoltà che essa aveva nel riconoscere la reale presenza del Risorto legata a quel pane.

Il v.27, dai ritmi sapienziale e sentenziali, conclude la pericope in esame (vv.22-27) ed è un'esortazione teologicamente molto densa che prelude al grande discorso sul pane e ne contiene i tratti essenziali. Il versetto è scandito in tre parti:

  1. Nella prima parte si contrappongono tra loro due cibi, quello che perisce e quello che è per la vita eterna; una contrapposizione accompagnata da una esortazione a reindirizzare la propria ricerca e i propri interessi verso ciò che conta e che rimane per la vita eterna. La contrapposizione di questi due cibi è data da due participi presenti che ne definiscono la natura: il primo, “¢pollumšnhn” (apolliménen), indica ciò che perisce, sottolineando ciò che è effimero e di poco conto. Il secondo “mšnousan” (ménusan), in contrapposizione al primo, qualifica il nuovo cibo come “ciò che rimane” e quindi sottratto alla dimensione effimera e corruttibile propria del precedente, lasciandone intuire qui la natura divina. Si tratta infatti di un cibo utile per la vita eterna. Quel “per la vita eterna” è reso in greco con la particella “e„j” (eis), che esprime un moto per luogo, imprimendo a questo cibo un dinamismo e quindi una capacità intrinseca di proiettare il credente che se ne nutre nella vita eterna, che per Giovanni è la vita stessa di Dio. Si tratta dunque di un cibo che nutre spiritualmente il credente sostenendolo nel suo cammino verso la dimensione divina, di cui già in qualche modo partecipa fin d'ora in virtù di questo cibo, che assimilato nella propria vita lo assimila a sua volta a quella divina. Si tratta quindi di un cibo che costituisce una sorta di caparra per la vita eterna, che in qualche modo è in esso anticipata. Si noti come qui Giovanni non parla più di pane, ma di cibo, sottolineando un aspetto fondamentale di questo pane: esso è nutrimento da cui il credente non può prescindere; un nutrimento che ha attinenza con la vita stessa di Dio e che assume in Giovanni una connotazione squisitamente spirituale44.

  2. Nella seconda parte si precisa come questo cibo sarà donato dal Figlio dell'uomo. Due gli elementi che contraddistinguono questa espressione: Figlio dell'uomo e il verbo al futuro (“vi darà”); due elementi che pongono il lettore in un contesto escatologico nel senso proprio dell'escatologia tradizionale, quell'escatologia che parla degli ultimi tempi. Si tratta quindi di un cibo che ha impresso in se stesso il carattere proprio degli ultimi tempi, quegli ultimi tempi che appartengono a Dio e nei quali egli nutrirà il suo popolo con questo cibo dal cielo. Un'immagine che richiama da vicino la visione escatologica di Is 25,6: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati”.

  3. La terza parte è strettamente connessa alla seconda e mette in rilievo un'ulteriore caratteristica di questo cibo escatologico: “questo, infatti, il Padre, Dio, ha contrassegnato”. Si tratta di un cibo che è contrassegnato dal Padre, cioè un cibo che ha impresso in se stesso il sigillo proprio di Dio: lo Spirito Santo, che sarà il protagonista dei tempi escatologici e che proprio negli ultimi tempi verrà effuso sui credenti (Ez 37,5.6.10; Gl 3,1a). Sarà dunque un cibo ripieno della forza di Dio e si costituirà come cibo spirituale per eccellenza, nel senso che infonde in chi lo magia la vita stessa di Dio per mezzo della potenza del suo Spirito, che accorperà a Dio il credente, rendendolo partecipe della sua stessa vita.


Il grande discorso sul Pane di vita


Testo a lettura facilitata (vv.28-59)


Preambolo introduttivo: la necessità di credere … (tema dell'intermezzo narrativo: vv.37-47)

28- Gli dissero, dunque: <<Che cosa facciamo per compiere le opere di Dio?>>.
29- Rispose Gesù e disse loro: <<Questa è l'opera di Dio, che crediate in colui che egli ha mandato>>.

… e la richiesta di un segno per poter credere (tema del discorso sul pane)

30- Gli dissero, dunque: <<Quale segno, pertanto, fai tu, affinché vediamo e ti crediamo? Che cosa compi?
31- I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, come è stato scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”>> (Sal 78,24).

Il discorso sul Pane di vita: prima parte

32- Pertanto Gesù rispose loro: <<In verità, in verità vi dico, non Mosè ha dato a voi il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero;
33- poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo e dà la vita al mondo>>.
34- Gli dissero dunque: <<Signore, dacci sempre questo pane>>.
35- Disse loro Gesù: <<Io sono il pane della vita; colui che viene a me non avrà fame, e colui che crede in me non avrà mai sete.
36- Ma vi ho detto che e mi avete visto e non credete.

Intermezzo narrativo: il credere come il credente sono opera di Dio per la vita eterna

37- Tutto ciò che il Padre mi dà verrà a me, e non getterò fuori colui che viene a me,
38- poiché sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di chi mi ha mandato. 39- Ora, questa è la volontà di chi mi ha mandato, che tutto ciò che mi ha dato non disperda (fuori) da lui, ma lo risusciti nell'ultimo giorno.
40- Questa, infatti, è la volontà del Padre mio, che ognuno che contempla il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e io lo risorgerò nell'ultimo giorno>>.

41- Mormoravano, dunque, i Giudei su di lui perché disse: “io sono il pane disceso dal cielo”,
42- e dicevano: <<Non è questi Gesù, il figlio di Giuseppe, del quale noi conosciamo il padre e la madre? Come ora dice: “sono disceso dal cielo?”>>.
43- Rispose Gesù e disse loro: <<Non mormorate gli uni con gli altri.
44- Nessuno può venire da me se il Padre che mi ha mandato non lo attira, e io lo risorgerò nell'ultimo giorno.
45- È scritto nei profeti: e tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato dal Padre e ha imparato, viene verso me.
46- Non che qualcuno ha visto il Padre se non colui che è da Dio, questi ha visto il Padre.
47- In verità, in verità vi dico, chi crede ha la vita eterna.

Ripresa del discorso sul Pane di vita: seconda parte

48- Io sono il pane della vita.
49- I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono;
50- questo è il pane che è disceso dal cielo affinché chiunque mangi da lui anche non muoia.
51- Io sono il pane che vive, che è disceso dal cielo; chi mangia da questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo>>.
52- Litigavano, dunque, tra loro i Giudei dicendo: <<Come può costui darci la sua carne da mangiare?>>.
53- Disse pertanto a loro Gesù: << In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e (non) bevete il suo sangue, non avete la vita in voi stessi.

54- Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
55- La mia carne, infatti, è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda.
56- Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
57- Come il Padre che vive mandò me e io vivo per mezzo del Padre, anche chi mangia me, anche quello vivrà per mezzo di me.

58- Questo è il pane che è disceso dal cielo, non come (quello che) i padri mangiarono e morirono; chi mangia questo pane vivrà per sempre>>.
59- Queste cose disse in sinagoga, insegnando a Cafarnao.


Note generali ai vv. 28-59


Dire che il discorso sul Pane di vita è alquanto complesso sia nella sua tematica che nella sua modalità narrativa è semplicemente eufemistico. La densità e la profondità del tema e le modalità con cui questo viene trattato ne rende difficile sia la lettura che la sua comprensione. Cercheremo tuttavia di affrontarlo richiamandoci a dati oggettivi riscontrabili all'interno della narrazione stessa e che dovrebbero condurre il lettore ad una sua più agevole lettura e comprensione.

Partiremo da un'analisi strutturale, che rispecchierà sostanzialmente la “lettura facilitata del testo” sopra riportata, per poi soffermarci sugli elementi essenziali posti al suo interno e che aiutano il lettore ad orientarsi.

La struttura della sezione vv.28-59


  1. I vv.28-31 formano il preambolo al discorso del Pane e ne preannunciano la doppia tematica: a) il credere è opera di Dio (vv.28-29), tema questo che verrà ripreso e trattato dall'intermezzo narrativo (vv.37-47), che a sua volta si intreccia con quello del Pane di vita (vv.32-35.48-59); b) la richiesta di un segno per poter credere (vv.30-31), che introduce il fondamentale richiamo al racconto della manna nel deserto (Es 16,1-17). Questo richiamo, che comparirà lungo l'intero discorso sul Pane di vita ai vv.32.49.58, formerà da sfondo al discorso stesso e costituirà il parallelo di confronto tra quel evento e il Pane annunciato da Gesù. Il riferimento all'episodio di Es 16,1-17 in 6,49 e 6,58 creerà anche inclusione per contrasto tra il pane dal cielo dato da Mosè, di cui i Padri mangiarono e morirono, e il Pane dal cielo dato da Gesù, che invece produce vita eterna.

  2. Con i vv.32-36 inizia la prima parte del discorso sul Pane. Questa pericope forma un'unità narrativa compatta con i vv.30-31, circoscritta dall'inclusione data dalle espressioni “affinché vediamo e ti crediamo” del v.30 e “[...] mi avete visto e non credete” del v.36. Un'inclusione che racchiude la prima parte del discorso sul Pane all'interno del tema dell'incredulità, che farà la sua ricomparsa ai vv.41-42, posti nell'intermezzo narrativo (vv.37-47), dedicato al credere e introdotto dalle espressioni “colui che viene a me” e “colui che crede in me” poste a conclusione della prima parte del discorso sul Pane (v.35), in cui il “venire a me” è sinonimo del “credere in me”. Queste due espressioni infatti ricorreranno più volte e in diverse forme nel sopramenzionato intermezzo narrativo (vv.37-47).

  3. I vv.37-47, preceduti dall'annuncio tematico dei vv.28-29, costituiscono una sorta di battuta d'arresto all'interno del discorso sul Pane; una riflessione sul tema del credere e del credente intesi come opera di Dio. Il tema, introdotto dal v.37, si sviluppa sul particolare pensiero a spirale caratteristico di Giovanni (vv.37-40) ed è interamente percorso da espressioni chiave come “venire da me”, “chi crede o chi crede in lui” e “io lo risusciterò nell'ultimo giorno”, che, a mo' di ritornello, accompagna insistentemente ogni passaggio di pensiero (vv.39.40.44). Questa ampia pericope fornisce anche le motivazioni che aiuteranno a comprendere la triste defezione che si produrrà all'interno dei discepoli al termine del cap.6, dove al v.65 verrà richiamata con la citazione del v.44.

  4. I vv.48-59 costituiscono la seconda parte del discorso sul pane. La ripresa inizia con l'espressione “Io sono il pane della vita” (v.48) con cui era terminata la prima parte del discorso (v.35a), ricongiungendo questa alla seconda parte, dandone continuità narrativa. L'unità narrativa (vv.48-59) è delimitata dall'inclusione data dall'espressione “I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono” che si presenta ai vv.49.58b e che pone un confronto tra i due tipi di pani, rilevandone l'insanabile scarto: il primo, quello di Mosè, incapace di dare la vita; il secondo, quello di Gesù, generatore di vita eterna. Il v.51 si chiude con l'espressione “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, che funge da tema per i vv.52-58.

Al di là della complessa e curata architettura di questa sezione sul Pane di vita, che lascia trasparire tutto il particolare interesse, quasi preoccupato, dell'autore, si può rilevare, già da questa sintetica carrellata, come il tema del credere si muova in parallelo a quello del Pane e ne costituisca la piattaforma su cui poggia. Il forte e persistente richiamo alla fede denuncia tutta la difficoltà dell'argomento, che doveva turbare non poco la stessa comunità giovannea, al cui interno, al termine del racconto, si produrrà una insanabile frattura (v.60) seguita da una definitiva defezione (vv.64.66).

Il discorso sul Pane è interamente disseminato da ben 15 affermazioni dai tratti dogmatici, introdotte da soggetti caratterizzati dall'anonimato e dall'universalità: “colui che”, “chi”, “ognuno che”, “chiunque”, “nessuno”, che danno un tono dottrinale all'intero discorso, i cui contenuti sono componenti essenziali della fede della comunità giovannea e dai quali essa non può prescindere; mentre fa la sua comparsa per quattro volte l'espressione “In verità, in verità vi dico” (v.26.32.47.53), che dà un tono di solennità e di verità certa al discorso che esse introducono. Ci troviamo di fronte quindi ad una sorta di dogma sulla presenza reale del Risorto nel Pane eucaristico, che la comunità giovannea è chiamata a professare al di là di ogni dubbio.

Commento ai vv.28-59


vv.28-29: Il v.27, con cui terminava la pericope precedente (vv.22-27), esortava la folla a procurarsi un cibo che non perisce, ma che rimane per la vita eterna. Fa qui la sua comparsa il verbo “™rg£zesqe” (ergázeste, procuratevi), che in vari modi e sotto diverse forme riecheggerà anche nei vv.28-31 per ben sei volte. Compiere, fare, operare, opere, opera sono le espressioni che caratterizzano la pericope in esame e che rimandano il lettore alla Torah e al dovere che l'israelita aveva di eseguirla. Per Israele l'opera di Dio era la Legge e l'Alleanza (Es 32,16; 34,10; Dt 32,4), di cui la Legge era espressione, mentre le opere di Dio erano i suoi comandi (Es 18,20). Una simile esortazione pertanto non poteva essere intesa dall'ebreo se non in termini di esecuzione perfetta della Torah, vero nutrimento da cui scaturisce la vita45. Dt 8,1-3 infatti presenta la Legge non solo come fonte di vita e di fecondità, ma anche come vero nutrimento per Israele, per cui il popolo doveva preoccuparsi a mettere in pratica la Legge più che premurarsi del mangiare o del bere, perché la loro vita non dipendeva dal nutrimento terreno, ma dalla sua fedeltà a Dio: “Baderete di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi do, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso del paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. [...] Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che neppure i tuoi padri avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,1.3).

Si è reso necessario soffermarci sul contesto in cui si collocano i vv.28-31 per poter comprendere il passaggio essenziale che qui Giovanni fa molto finemente con i vv.28-29: dalla fedeltà alla Torah alla fede nell'inviato di Dio. Avviene qui una sorta di fraintendimento, ma questa volta alla rovescia: non sono più i Giudei a fraintendere Gesù, ma è il Gesù giovanneo che con sottile ironia fraintende i Giudei, spostando la loro attenzione dalla Legge mosaica, a cui essi stavano facendo riferimento (v.28), verso una nuova prospettiva che egli sta per indicare (v.29).

Il v.28 infatti riprendendo il verbo “ergázeste”, con cui si apriva il precedente v.27 e che sollecitava la folla a procurarsi un cibo per la vita eterna, lascia trasparire che cosa questa, fuori da ogni metafora, ha compreso da questa esortazione: “Che cosa facciamo per compiere le opere di Dio?”. In altri termini, la folla si è sentita sollecitare da Gesù a osservare i comandamenti divini (v.27a) per ottenere la vita eterna, per cui ora gli chiede quali siano questi comandi che essa deve osservare. La risposta di Gesù (v.29) opera, come si è detto, un passaggio molto importante, spostando l'attenzione dalla Torah e dall'Alleanza, conosciute anche come “l'opera di Dio” (v. sopra), su se stesso, quale inviato divino, che la folla al v.14b già aveva riconosciuto come il profeta che doveva venire nel mondo: “Questa è l'opera di Dio, che crediate in colui che egli ha mandato”. Questo passaggio, che chiede un riorientamento dei Giudei da Mosè verso Gesù, è significato dall'espressione “credere in”, in cui la particella “in” è resa in greco da “e„j” (eis), che indica un moto verso luogo, imprimendo alla fede un particolare dinamismo che si fa cammino di vita. La vera “opera di Dio” quindi non è più la Legge, che esprime l'Alleanza tra Jhwh ed Israele, ma il credere nell'Inviato di Dio, cioè in Gesù stesso. Il credere in Gesù è dunque la vera opera di Dio, lasciando anche intendere come questo credere non dipende dall'uomo, ma sia un'opera divina, quella vera. E sarà proprio questo il tema che verrà affrontato in modo sistematico e dottrinale dai vv.37-47, di cui i vv.28-29 costituiscono una sorta di preambolo al tema.

I vv.30-31 costituiscono il preambolo al discorso del pane (vv.32-36.48-59) e sono scanditi in due parti: il v.30 pone la questione dell'identità di Gesù. Faceva infatti parte dello statuto dell'inviato divino fornire la prova autentica delle sue pretese facendo ricorso a dei segni che ne indicassero inequivocabilmente il suo mandato divino46. Era una sorta di cartina di tornasole. Il motivo del segno richiesto è “affinché vediamo e ti crediamo” (v.30); un'espressione questa che forma inclusione con quella sostanzialmente identica del v.36: “Ma vi ho detto che e mi avete visto e non credete”. Così inclusa la pericope (vv-30-36) forma un'unità narrativa compatta, che costituisce la prima parte del discorso sul Pane. Nella citata espressione (v.30) Giovanni usa due verbi uno di seguito all'altro, di cui l'uno (vediamo) costituisce la premessa dell'altro (ti crediamo). Si parla di vedere, reso in greco con il verbo “Ñr£w” (oráo), che indica un vedere superiore, che trascende la semplice apparenza delle cose per coglierne la verità e che inerisce al segno probante. Il secondo verbo, conseguente al primo, è “ti crediamo”. Questo verbo greco è qui seguito da un dativo: “pisteÚswmšn soi” (pisteúsomén soi, crediamo a te). Il verbo credere seguito da un dativo compare in Giovanni 18 volte ed indica sempre il soggetto a cui è o deve essere consegnata la propria fede, che nel caso del dativo acquista il significato di fidarsi di qualcuno47. Niente pertanto di trascendentale, ma semplicemente un qualcosa che rientra nei normali rapporti umani. Quindi la folla che chiede un segno a Gesù non è per credere in lui, ma soltanto per potersi fidare di lui, e così da fornire ai suoi discorsi un certo grado di attendibilità. Il segno comunque può anche non essere determinante per passare ad una vera e propria fede, se quanto dice Gesù non risponde a quello che essi credono realmente. Dt 13,1-4 infatti ammonisce: “Vi preoccuperete di mettere in pratica tutto ciò che vi comando; non vi aggiungerai nulla e nulla ne toglierai. Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dei stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima”. Pertanto anche la richiesta di un segno non diviene preambolo alla fede e certamente non è né determinante e tanto meno vincolante; ne sono prova i vv.41-42 e i vv.61.66 in cui sia la gente che i discepoli mormorano contro Gesù per i suoi discorsi, duri da comprendere e per un ebreo anche inaccettabili.

Il v.31 suona come una sfida lanciata a Gesù: “I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, come è stato scritto: <<Diede loro da mangiare un pane dal cielo>>”. In altri termini, la loro fede in Mosè è saldamente riposta e giustificata dal segno inequivocabile che egli ha saputo dare al suo popolo, a sostegno della sua autorità. E a riprova del segno la folla riporta anche una citazione scritturistica liberamente tratta dal Sal 78,2448. Su questo versetto pesa la conclusione di quello precedente: “Che cosa compi?”, che lascia intravvedere sullo sfondo un altro interrogativo: “Sei tu forse più grande di Mosè?”. Simili confronti con le grandi figure veterotestamentarie non sono nuove in Giovanni, un autore che sta rileggendo le Scritture in chiave cristologica. In 4,12 infatti la Samaritana gli chiede se lui è più grande del loro padre Giacobbe, mentre in 8,53 i Giudei gli chiedono se egli è più grande del loro padre Abramo. Si innesca quindi un confronto tra il segno di Mosè e quello che Gesù deve dare; un confronto che percorrerà l'intero discorso sul Pane di vita (vv.32.49-50.58) e in cui risulterà centrale il segno riportato al v.31, attorno al quale si snoderà l'intero discorso.

vv.32-36: introdotta dai vv.30-31, si apre ora con questa pericope la prima parte del discorso sul Pane di vita, la cui finalità è definire la vera identità di questo Pane. Essa è strutturata in due parti che ruotano attorno ad una terza posta centralmente (v.34):

  1. i vv.32-33 innescano un confronto ed una contrapposizione tra il pane dato da Mosè e quello dato da Gesù, sottolineandone la sostanziale diversità;

  2. il v.34 riporta un'ambigua invocazione;

  3. i vv.35-36 aprono un contrasto sul Pane di vita: da un lato ne rivelano l'autentica identità e gli effetti che questo produce (v.35); dall'altro si denuncia l'incredulità con cui questo Pane è accolto (v.36).

Il v.32, sullo stile dell'esegesi rabbinica (“leggi ..., ma devi leggere ...”), riprende il preteso segno dato da Mosè e ne fornisce una nuova lettura, che di fatto apre un confronto tra due pani: quello dato da Mosè e quello dato dal “Padre mio”. Il versetto si apre con una solenne attestazione di verità, una sorta di giuramento che imprime al discorso che segue il sigillo della veridicità, vincolandone l'ascoltatore: “In verità, in verità vi dico”, che risuonerà altre tre volte nell'intero discorso (vv.26.47.53). Il dono che Mosè ha fatto ad Israele nel deserto è reso in greco con un perfetto indicativo “ha dato” (“dšdwken”, dédoken), un tempo verbale questo che indica gli effetti presenti di un'azione che ha avuto la sua origine nel passato; quali siano questi effetti di questo dono verranno detti ai vv.49.58: “I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono”. Il pane dato da Mosè dunque è contrassegnato dalla morte e i suoi effetti salvifici furono effimeri. A questo antico dono ora se ne contrappone parallelamente un altro nuovo. La contrapposizione è rilevata dalla particella avversativa “ma” con cui si apre la seconda parte del v.32 e dall'introduzione di due nuovi soggetti e di un nuovo tempo verbale reso in greco con il presente indicativo: “vi dà” (d…dwsin Øm‹n, dídosin imîn), che indica un dono la cui presenza è già in mezzo a loro e continua ad esserlo e pertanto i suoi effetti sono duraturi; un dono che li interpella nell'oggi (“vi dà”), contrapponendosi a quello mosaico posto nel passato e presente soltanto nel loro ricordo (“vi ha dato”).

Si è detto come la seconda parte del v.32 introduce due nuovi soggetti, attori del nuovo dono: “il Padre mio”; il primo esplicito è il Padre; il secondo implicito e strettamente legato al primo è indicato in quel “mio”, che da un lato indica l'origine divina del secondo soggetto, il quale attribuisce a se stesso una paternità divina; dall'altro associa se stesso al dono che proviene da suo Padre, quasi rivendicandone la contitolarità. Un particolare questo che non è sfuggito alla gente e che verrà contestato apertamente al v.42. Il v.32 si chiude presentando due caratteristiche di questo pane: esso proviene dal cielo ed è quello vero. L'origine divina di questo pane non costituisce di per sé un elemento di vantaggio rispetto al pane dato da Mosè, che Es 16,4 definisce in egual modo come “pane dal cielo”, mentre altrove viene similmente chiamato “pane del cielo” (Ne 9,15; Sal 78,24; 104,40); di questo si è reso conto lo stesso autore che precisa subito “quello vero”, ponendo una sostanziale differenza tra i due pani. Un'espressione questa sottesa da una malcelata polemica e che innesca un confronto tra i due pani. Anche se i due pani hanno comunque una eguale origine divina, quello vero e autentico è quello che “il Padre mio” dà, alludendo con quel presente indicativo alla presenza stessa di Gesù, implicato comunque in quel “mio”. Il pane mosaico pertanto viene relegato ad una sorta di figura di un altro pane, in questa preannunciato.

Il v.32 si chiudeva con l'espressione “quello vero”, creando così una frattura insanabile tra i due pani. L'autore ora deve giustificare la sua affermazione e lo fa con il v.33 che si apre con un “g¦r” (gàr, infatti, poiché) dichiarativo: “poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo e dà vita al mondo”. Il v.33 quindi diviene esplicativo dell'espressione “quello vero” e attribuisce tre caratteristiche fondamentali a questo pane, che creano il contesto teologico e dottrinale in cui si collocherà poi l'autorivelazione del v.35a. Il pane è qui specificato:

Una particolare attenzione va tuttavia qui riservata al verbo “katabaíno” (discendere), che proprio in questo cap.6 si ripete per ben sette volte ed è sempre strettamente connesso all'espressione “dal cielo”, sottolineando così il senso di questo pane che nel suo discendere dal cielo dice la sua natura di dono divino per il mondo (3,16). Inoltre, per l'uso squisitamente cristologico che viene fatto del verbo “katabaíno” in Giovanni, questo “pane discendente” viene legato strettamente alla persona di Gesù.

Il v.34 riporta un'ambigua richiesta da parte della folla, poiché rassomiglia più ad una invocazione di fede che ad una richiesta vera e propria: “Gli dissero dunque: <<Signore, dacci sempre questo pane>>”. Un'invocazione che richiama da vicino quella della Samaritana, fatta seguire, come qui per il pane, alla presentazione delle proprietà miracolose di un'acqua misteriosa (v.4,14): “Dice la donna verso di lui: <<Signore, dammi quest'acqua affinché non abbia (più) sete e non passi qui ad attingere>>” (4,15). Ma se là traspare chiaramente l'inintelligenza sull'acqua di vita, qui al v.34 questa inintelligenza è più sfumata, quasi impercettibile, e può essere dedotta soltanto dal v.26, in cui Gesù rimprovera l'utilitarismo delle folle: “In verità, in verità vi dico, mi cercate non perché vedeste dei segni, ma perché mangiaste dai pani e foste saziati”. Al v.34 il gioco dei doppi sensi, delle ambiguità e dei fraintendimenti, sottesi da una fine ironia, che caratterizza lo stile narrativo giovanneo, anche se qui non è completamente scomparso, sembra essersi di molto attenuato per dare un maggiore spazio all'invocazione, sollecitata dalla fede. Un'invocazione che trova una lontana eco in Mt 6,11 e Lc 11,3 in cui le comunità sinottiche invocavano il Padre a donare loro ogni giorno il pane, che da un'attenta analisi esegetica ha dei forti addentellati eucaristici51. E che qui al v.34 si tratti di un'invocazione di fede più che di una dichiarazione di inintelligenza, lo si arguisce sia dal titolo “Signore”, con cui la folla si rivolge a Gesù, che dalla richiesta stessa in cui sembra prevalere l'invocazione sull'inintelligenza. Inoltre, a differenza di quella della Samaritana a cui Gesù non dà nessuna risposta, qui Gesù accoglie questa invocazione e al v.35 rivela la vera identità di questo Pane. Di fronte al Pane di vita a cui è legata la presenza reale del Risorto, sulla quale vi erano molti dubbi e incertezze da parte della sua comunità, Giovanni diviene meno scherzoso e spinge invece la propria comunità alla fede in quel Pane di vita.

Il v.35 è scandito in due parti: la prima è una formula autorivelativa: “Io sono il pane della vita”; la seconda, dai toni sapienziale e sentenziali, indica gli effetti che questo Pane produce in chi gli si accosta: “colui che viene a me non avrà fame, e colui che crede in me non avrà mai sete”. Un'enunciazione quest'ultima che verrà ripresa e sviluppata nella seconda del discorso (vv.48-59) dove ai sostantivi “fame” e “sete” si sostituiranno i verbi mangiare, ripetuto per ben dieci volte, e il verbo bere, che compare tre volte.

La formula “Io sono il pane della vita” contiene in sé il nome con cui Dio si rivelò a Mosè in Es 3,14: “Dio disse a Mosè: <<Io sono colui che sono!". Poi disse: "Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi>>”. Esso fa qui al v.35 la sua prima comparsa ed è associato all'espressione “il pane della vita” che definisce l'indefinibilità dell' “Io sono”52, rendendolo in tal modo raggiungibile all'uomo e ne esprime le modalità con cui Dio intende relazionarsi agli uomini, ma anche in quale modo l'uomo può trovare e sperimentare il suo Dio. Si tratta di una modalità relazionale che rimanda agli antichi nomi con cui Dio era conosciuto presso il mondo dei Patriarchi; nomi che sottendevano una particolare esperienza di Dio. In Gen 21,33 troviamo il nome di “El Olam”, il Dio dell'eternità; in Gen 31,13 Dio stesso si presenta come l' “Io sono il Dio di Betel” dove Giacobbe gli consacrò una stele e fece un voto; ma Dio è riconosciuto da Agar come “El roi”, il Dio che vede, riferendosi ad una precedente visione che essa ebbe di Dio, che per lei era divenuto il Dio visibile e che vede (Gen 16,13), mentre Melchisedech, re e sacerdote della città di Salem, benedice Abramo nel nome di “El Elyôn”, il Dio Altissimo. Un'altra denominazione di Dio molto ricorrente nella Bibbia è “El Šadday” (Gen 17,1; 28,3; 35,11; 48,3; Es 6,3) il cui significato rimane incerto, forse il “Dio della montagna”, ma che la LXX indica come il “Pantocrátor”cioè “Il Dio Onnipotente”. Sono soltanto alcuni esempi di come Dio, prima dell'esperienza mosaica del Sinai, venisse indicato (Es 3,14). Tutti nomi che sono legati alla personale esperienza che i Patriarchi fecero di Dio e, quindi, esprimenti il tipo di comprensione e di relazione che essi tennero con Dio. Molto simile nel nostro caso la formula “Io sono il pane della vita” in cui probabilmente Giovanni indica ai suoi l'esperienza di Dio che essi sono chiamati a fare in quel Pane di vita.

Io sono il Pane della vita”, una formula che in diversi modi e in un continuo crescendo, risuonerà altre tre volte nel discorso sul Pane (vv.41.48.51). Al v.41 la formula verrà ripresa, ma significativamente modificata: “Io sono il pane disceso dal cielo”; non si parla più di Pane della vita, ma “disceso dal cielo” indicando da un lato la provenienza divina di Gesù, identificatosi con questo Pane (v.35a.48); dall'altro leggendo questo Pane come un'evoluzione di quello mosaico, figura di questo nuovo Pane, che in qualche modo era stato promesso in quel pane dal cielo (Es 16,4). Al v.48, con cui si apre la seconda parte del discorso sul Pane, viene ripreso il tema della figura di Gesù, pane della vita, che qui si fa dono offrendosi in cibo. Infine, al v.51, vi è una sorta di sintesi delle due formule precedenti: “Io sono il pane che vive, che è disceso dal cielo”. In quest'ultimo passaggio il “Pane della vita” si trasforma in “Pane vivente”, che indica la natura stessa di questo Pane, che non solo viene associato alla vita stessa di Dio, ma ne fa una sorgente di vita divina; mentre quel “disceso dal cielo” nel confermare la dimensione divina da cui proviene, attesta anche implicitamente il senso del suo discendere dal cielo, strettamente legato al suo essere “Pane vivente” che si offre quale vero cibo di vita eterna al credente (vv.27.51), rendendolo partecipe della vita divina di cui è sorgente. Un discendere dal cielo quindi che dice il dono di vita divina offerto agli uomini in quel Pane, perché mangiandone vivano di questa e si lascino a questa assimilare.

La seconda parte del v.35 detta le condizioni per ottenere questo pane di vita e in un certo qual modo costituisce la risposta all'invocazione del v.34: “colui che viene a me non avrà fame, e colui che crede in me non avrà mai sete”. Fame e sete nella Bibbia sono indicate come i due bisogni fondamentali dell'uomo53 con le quali egli spesso viene colpito e la sua vita messa in discussione. Esse richiamano da vicino la prova a cui Israele fu sottoposto da Dio nel deserto; ma il pane, la carne e l'acqua date da Mosè al popolo non produssero la sua salvezza, perché “I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono” (vv.49.58b), mentre qui i bisogni fondamentali dell'uomo vengono definitivamente soddisfatti. Questa definitiva pienezza di vita in cui l'uomo non è più assillato dai suoi bisogni vitali apre ad una prospettiva dal sapore messianico ed escatologico che Giovanni richiama nella sua Apocalisse: “Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l'Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 7,16-17) Torna dunque nuovamente il confronto tra il Pane di vita e quello dato da Mosè, tra questi e Gesù, innescato dai vv.31-32 e che proseguirà per tutta la pericope vv.49-58.

Il v.35b probabilmente ha come sottofondo sapienziale Sir 24,1-20, che richiama al credente la persona di Gesù, Sapienza eterna del Padre, e nello specifico viene richiamato da vicino da 24,18-20: “Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete”. Si tratta ovviamente di una fame e di una sete spirituali, che ben si addice al nuovo Pane. Ma nel v.35b si intravvedono, quasi in filigrana, anche le parole di Is 49,8-10: “Dice <<Signore: Al tempo della misericordia ti ho ascoltato, nel giorno della salvezza ti ho aiutato. Ti ho formato e posto come alleanza per il popolo, per far risorgere il paese, per farti rioccupare l'eredità devastata, per dire ai prigionieri: Uscite, e a quanti sono nelle tenebre: Venite fuori. Essi pascoleranno lungo tutte le strade, e su ogni altura troveranno pascoli. Non soffriranno né fame né sete e non li colpirà né l'arsura né il sole, perché colui che ha pietà di loro li guiderà, li condurrà alle sorgenti di acqua ...>>”.

Il v.35b, infine, è caratterizzato da due verbi “colui che viene a me non avrà fame, e colui che crede in me non avrà mai sete”. Sono le condizioni perché fame e sete siano spiritualmente saziate: “venire a”, “credere in” due espressioni verbali coincidenti e che di fatto dicono la stessa cosa. Esse sono entrambe seguite da due particelle di moto a luogo (prÒj, e„j, prós, eis, a, in) e che imprimono ad entrambi i verbi una forte dinamicità che li lega ai ritmi stessi della vita. Due espressioni verbali che formano una sorta di endiadi: “colui che viene a me crede in me o è colui che crede in me” ed entrambe dicono l'orientamento esistenziale che ha come unica meta il Pane di vita. Il v.35 in buona sostanza accomuna in se stesso, quasi in una sintesi magistrale, due aspetti fondamentali e tra loro complementari: rivelativo (“Io sono il pane della vita”) e di fede (chi viene a me … chi crede in me). Fede e rivelazione, dunque, un binomio inscindibile. Non è un caso che Giovanni sottolinei questa inscindibilità, mettendo l'accento proprio sulla fede, che contrasterà con il v.36, che concluderà la prima parte del discorso sul Pane della vita.

Il v.36 costituisce un momento di contrasto e di accusa all'interno della prima parte del discorso sul Pane: “Ma vi ho detto che e mi avete visto e non credete”. Esso inizia con una particella avversativa (¢ll£, allà, ma) che caratterizza l'intero versetto, creando uno stacco netto non solo con il v.35, ma anche con l'intera prima parte del discorso sul Pane. Al v.30 infatti la folla chiedeva un segno perché vedendo potessero credere; la conclusione è che nonostante essa avesse visto il segno (moltiplicazione dei pani e dei pesci), continua invece a non credere, proprio per la sua incapacità di saper leggere il segno (v.26). Il v.36 pertanto diviene un atto di accusa contro l'ostinata cecità spirituale della gente, che non riesce ad andare oltre a ciò vede, riducendo il tutto ad una comprensione meramente utilitaristica delle cose (v.26).

Il contrasto tra i vv. 35 e 36, credere e inintelligenza, anticipano in qualche modo la pericope immediatamente seguente (vv.37-47) in cui verrà trattato in modo sistematico ciò che sottende il credere e il non credere. Le due espressioni verbali del v.35b (chi viene a me; chi crede in me) verranno infatti più volte riprese all'interno della trattazione.

I vv.37-47, già introdotti dai vv. 28-29 in cui si parla del credere come opera di Dio, costituiscono all'interno del grande discorso sul Pane di vita una sorta di parentesi riflessiva che ha per tema la fede e le sue origini. Questa riflessione assume qui i contorni di una trattazione dottrinale, che si sviluppa in modo sistematico. Si sprecano infatti le formule generalizzanti che introducono le sentenze dogmatiche: “colui che”, “tutto ciò che”, “ognuno che”, “nessuno può”, “chiunque”, “colui che”. Il tutto si muove attraverso la tecnica del pensiero a spirale caratteristico di Giovanni. Una tecnica che favorisce non soltanto la riflessione, ma anche l'approfondimento del tema stesso, ponendo al vertice del pensiero e quindi all'attenzione del lettore il cuore del tema. La trattazione, poi, sviluppa il tema sotto due aspetti cristologico (vv.37-40) e teologico (vv.44-47), intervallati tra loro da una considerazione sulla persona di Gesù che denuncia tutta l'inintelligenza dei suoi interlocutori (vv.41-42), che ora sono individuati non più come folla a cui Gesù sta parlando, ma come i Giudei, un termine che in Giovanni assume la connotazione negativa di incredulità invincibile54. I due aspetti sono delimitati dalle espressioni riprese dal v.35b: “chi viene a me” e “chi crede in me” poste rispettivamente in apertura e in chiusura di ogni singola trattazione.

Lo sviluppo di questa riflessione è alquanto elaborata e va spesa una parola per la sua comprensione:

La pericope 37-40, delimitata dalle espressioni “verrà a me” e “crede in lui”, riprese dal v.35b e che parla del dinamismo proprio che caratterizza la fede, ne sviluppa l'aspetto cristologico attraverso la tecnica del pensiero a spirale:

Cuore pulsante di questo progetto di salvezza è Gesù (aspetto cristologico).

Il v.37, già lo si detto qui sopra, enuncia il tema che sarà trattato dai vv.38-40. Esso è scandito in due parti: la prima riguarda la relazione tra il Padre e Gesù, che dal Padre riceve i credenti; la seconda inerisce al rapporto tra Gesù e il credente. Nell'intero versetto risalta il contrasto tra i verbi al presente indicativo e quelli posti al futuro, accostati l'uno all'altro, proiettando il lettore in un contesto escatologico sia di un'escatologia realizzata (verbi al presente indicativo), caratteristica di Giovanni, sia di un'escatologia tradizionale da fine dei tempi (verbi al futuro): “Tutto ciò che il Padre mi dà verrà a me”, “e non getterò fuori colui che viene a me”. L'enunciazione del tema colloca dunque la sua trattazione su di un doppio sfondo escatologico che da un lato lega il credente al compiersi dell'azione del Padre in e per mezzo di Gesù, qui e ora, operando in lui già fin d'ora una discriminazione tra credente e non credente; ma quanto qui avviene ha fin da adesso la sua ripercussione sull'ultimo giorno ed è in vista di questo tempo in cui si compirà in via definitiva il progetto del Padre; così come definitivo sarà il giudizio, che già fin da questo momento è posto sull'uomo. Le due escatologie pertanto hanno come unico elemento distintivo la definitività, non ancora attuata in quella presenziale; realizzata in quella degli ultimi tempi.

Il v.37 si apre con l'espressione neutra “Tutto ciò” (P©n Ö, Pãn ò), che si ripete in Giovanni tre volte (6,37.39; 17,2) in cui viene definita non tanto una o più persone in senso generico, ma una specifica categoria di persone indicata al v.37b come “colui che viene a me”, cioè persone che sono esistenzialmente orientate a Gesù e hanno conformato la loro vita a lui; lo stesso significato assume il “tutto ciò” del v.6,39, dipendente da 6,37. Similmente in 17,2 il “tutto ciò” viene sciolto in “loro”; il riferimento qui sono i discepoli, cioè i primi credenti che hanno fatto della loro vita una sequela di Gesù, i capostipiti di una lunga catena, con cui Gesù si trova a tavola per la sua cena di addio (13,1-2). Possiamo quindi concludere che il “Tutto ciò” che il Padre a Gesù sono i credenti, in cui il verbo “dare” assume qui il significato di “generare” alla vita divina. Il concetto di generazione divina in genere e del credente nello specifico è ben attestato scritturisticamente55 ed è esplicito in Gv 1,12-13: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati”; gli fa eco Ef 1,4-5: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”. Una generazione divina che nasce dalla conformazione del credente all'Inviato del Padre (v.40). Un concetto questo che compare anche in 17,6: “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola”. E chi è generato da Dio ne possiede in qualche modo il DNA, un'impronta divina che lo caratterizza come suo figlio e assieme a Gesù condivide in qualche modo la stessa paternità divina (20,17). Il futuro “verrà a me” dice sostanzialmente che il credente, generato dal Padre, viene costantemente sospinto verso Gesù, ma anche che la sua pienezza di figlio troverà il suo compimento nell'ultimo giorno; così che il credere del credente si configura come un cammino di vita verso quell'eternità definitiva che già nell'oggi lo interpella e lo qualifica come figlio di Dio, in una continua tensione del già, ma non ancora, che caratterizza il suo vivere.

La seconda parte del v.37 forma da risposta alla prima parte: “e non getterò fuori colui che viene a me”; letteralmente il greco dice: “e il veniente a me non getterò fuori”. Il credente è qui definito come “il veniente a me” (tÕn ™rcÒmenon prÕj ™mš, tòn ercómenon pròs emè), un participio presente che indica come l'andare verso Gesù sia un atto costante, che qualifica la natura stessa del credente e ne definisce il suo orientamento esistenziale; una natura espressa in termini squisitamente dinamici, verbo di moto (venire), seguito da una particella che indica il moto a luogo (a) e che assumono il dinamismo proprio della stessa vita credente. Il fedele discepolo di Gesù non verrà gettato fuori. Il verbo al futuro e il tenore della sentenza proietta il lettore in un contesto di giudizio escatologico56, a cui non sarà soggetto il servo fedele, poiché “Chi crede in lui non è giudicato” (v.18a). Infatti “Così Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (3,16).

I vv.38-40, riprendono il tema intonato dal v.37 e attraverso lo scorrimento di un pensiero a spirale, che toglie il respiro per il suo stringente e quasi ossessionante ripetersi continuo, ma a livelli sempre più alti, conduce il suo lettore al vertice del tema stesso, quale conclusione di precedenti premesse. Esso strutturalmente assomiglia ad una sorta di strano sillogismo, che qui assume la configurazione di una trattazione dottrinale che si muove su di uno sfondo cristologico.

Il v.38 è scandito in due parti: la prima funge da premessa (“poiché sono sceso dal cielo”); la seconda ne fornisce la motivazione attraverso una contrapposizione di due volontà, in cui l'una viene fatta prevalere sull'altra, sottolineando come questa missione non è di iniziativa personale di Gesù, ma ha la sua origine “dal cielo” da dove Gesù proviene: “non per fare la mia volontà, ma la volontà di chi mi ha mandato”.

Quanto alla prima parte, questa si apre con la congiunzione “Óti” (óti) che generalmente, preceduta da un verbo dicendi o simili, assume un significato dichiarativo; ma se si presenta da sola, come nella fattispecie, assume un senso causale, per cui va tradotta “poiché, perché, per questo che” imprimendo all'intera espressione e di conseguenza, nel nostro specifico caso, alla concatenazione dell'intero pensiero a spirale un senso causale; quindi tutto ciò che qui segue la congiunzione “óti”, man mano che il pensiero a spirale procede di versetto in versetto, fornisce la motivazioni, i contenuti e la finalità di questa discesa dal cielo (v.40).

Significativa e molto densa è l'espressione “sono disceso dal cielo” resa in greco con un perfetto indicativo (katabšbhka, katabébeka), che indica uno stato presente che risulta come conseguenza di un'azione passata, per cui sia avrà: “sono disceso dal cielo, quindi sono qui”, indicando in tal modo in Gesù una presenza di provenienza divina (dal cielo), che imprime a tutto ciò che segue un particolare significato di azione divina operante in mezzo agli uomini e per gli uomini. Ma l'uso dell'espressione “sono disceso dal cielo” non è casuale, ma assume per Giovanni un altro senso: associare la presenza di Gesù, già qualificata come divina, al pane disceso dal cielo, che è il tema dominante dell'intero cap.6. Si tratta di un'espressione già peraltro anticipata al v.6,33: “poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo e dà vita al mondo” e che si ripeterà quasi in modo ossessivo in 6,41.42.50.51.58.

La seconda parte del v.38 è introdotta dalla congiunzione di senso finale “†na” (ína), che fornisce la motivazione della discesa dal cielo di Gesù: compiere la volontà di colui che mi ha mandato. La volontà qui non è del Padre, ma di colui che mi ha mandato, sottolineando in tal modo come il discendere dal cielo di Gesù ha a che fare con una missione che egli deve compiere.

Il v.39 riprende nella sua prima parte (v.39a) l'espressione con cui terminava il v.38, agganciandosi in tal modo ad esso, così che il v.39 ne diviene il suo sviluppo, con cui si enuncia, nella sua seconda parte (v.39b), il contenuto della missione stessa: “tutto ciò che mi ha dato non disperda (fuori) da lui, ma lo risusciti nell'ultimo giorno”. L'espressione con cui si apre la seconda parte del v.39 “tutto ciò che il Padre mi ha dato” riprende il tema con cui si era aperto il v.37, ma vi è un sostanziale cambio dei tempi verbali del verbo “ddwmi”: si passa dal presente indicativo del v.37 con cui si sottolineava il continuo atto generativo del Padre, che diviene così anche il Padre di tutti i credenti, che con Gesù condividono la comune paternità e figliolanza (20,17), al perfetto indicativo del v.39, con cui si sottolinea come ogni credente in quanto tale è il frutto di un atto generativo di Dio, che ha avuto la sua origine nel Padre ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4). La missione di Gesù è che nessuno di questi generati dal Padre si disperda al di fuori del Padre. Questa è la missione di Gesù, ma anche il senso della missione della chiesa, che riprende quella di Gesù e, quindi, quella del Padre stesso: “Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi” (20,21). In questo senso già si era espresso Gesù in 6,12, lasciando ai discepoli il suo comando, prima di ritirarsi sul monte della sua gloria (v.15): “Raccogliete i pezzi sopravanzati, affinché qualcosa non si perda”. L'abbondanza del dono di Dio, quali sono i credenti, va pertanto raccolto e conservato per la risurrezione dell'ultimo giorno, con la quale essi saranno definitivamente accorpati a quel Padre che li ha generati nel suo Cristo ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4). Tutto dunque deve essere ricondotto e conservato in Cristo (Ef 1,10), perché tutto sia ricondotto e ristabilito definitivamente in Dio mediante la risurrezione (1Cor 15,28) con la quale si chiude il ciclo salvifico. Questa missione ha dunque come finalità di conservare il credente in Dio per la sua redenzione finale; una missione che il Gesù giovanneo rivendicherà per sé: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco e mi seguono, e io do a loro vita eterna e non si perderanno in eterno, e nessuno le strapperà dalla mia mano” (10,27-28); e che riconoscerà di aver compiuto fino all'ultimo: “Quando ero con loro, io li conservavo nel tuo nome che mi hai dato, e (li) ho custoditi, e nessuno di loro si è perso se non il figlio della perdizione, affinché fosse compiuta la Scrittura” (17,12).

Il v.40 costituisce il vertice del pensiero a spirale e lo conclude presentando gli strumenti attraverso i quali il credente rimane nel Padre, che lo ha generato in Cristo nell'attesa della sua redenzione definitiva: “Questa, infatti, è la volontà del Padre mio, che ognuno che contempla il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e io lo risorgerò nell'ultimo giorno”. Si noti il cambio del modo di esprimere il soggetto di questa volontà: si passa da “colui che mi ha mandato” (vv.38.39), che sottolinea la missione, a “il Padre mio”, che invece evidenzia il rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre e sul quale si fonda quello del credente. Qui infatti l'accento non va più a cadere su Gesù esecutore della volontà di un Padre mandatario, ma si sposta sul credente, il cui compito è contemplare e credere nel Figlio per ottenere la vita eterna, che gli sarà resa definitiva dal Risorto. Torna qui per la terza volta, l'ultima, il binomio “vedere e credere”, apparso la prima volta al v.30 in cui il vedere era pregiudiziale al credere; ricompare al v.36 in cui, sotto forma di accusa, si attesta che il vedere non è determinante per il credere; ed infine, qui al v.40, si sottolinea che non tanto il vedere, ma il riflettere e il contemplare il Mistero che abita in Gesù porta al credere. Cambia infatti il verbo, si passa da “Ðr£w” (oráo), il vedere di una fede piena (vv.30.36), a “qeoršw”, il vedere che accompagna un cammino interiore fatto di indagine, di riflessione, di meditazione, di crescita spirituale, che apre alla contemplazione del Mistero, oggetto della propria indagine; ed è proprio questo cammino preparatorio che apre al credere. Per Giovanni, dunque, il credere non è frutto di una comprensione improvvisa o di una qualche visione miracolistica del divino, ma un cammino introspettivo, fatto di studio, ricerca, indagine, riflessione, contemplazione del Mistero di Dio che opera nel Figlio. Non è un caso infatti che il “credere in lui” sia espresso con la particella “e„j” (eis), che indica un moto a luogo indicando come il credere non sia un fatto intellettuale, ma un cammino di vita, il cui effetto immediato è di collocare fin da subito il credente nella la vita stessa di Dio (“abbia la vita eterna”). Torna qui l'escatologia presenziale giovannea che viene subito coniugata e stemperata con quella tradizionale: “e io lo risorgerò nell'ultimo giorno”, cioè renderò definitivo il suo “già, ma non ancora”. La risurrezione infatti ricolloca l'uomo nella dimensione divina da cui proviene dopo la colpa originale, rendendolo nuovamente e definitivamente partecipe della vita divina di cui era rivestito originariamente.

I vv.41-43 costituiscono un intermezzo narrativo circoscritto dall'inclusione data dal verbo mormorare. Essi hanno una duplice funzione: accentrare l'attenzione del lettore sulla vera origine di Gesù e quindi sulla sua vera identità e sottolineare l'inintelligenza dei Giudei, che li rende incapaci di credere in lui. Ed è proprio questo secondo aspetto che consentirà all'autore di rilanciare la seconda parte di questo intermezzo riflessivo (vv.37-47).

Il v.41 è molto denso e significativo poiché accentra in sé due elementi rilevanti:

  1. il segno dei pani e dei pesci è compiuto sulle rive del lago di Galilea e quindi la folla che ne ha beneficiato è da pensare che sia formata da galilei, cioè da abitanti del luogo. Tuttavia Giovanni li definisce “Giudei”. Per Giovanni infatti il nome “Giudei” ha assunto una connotazione negativa ed è diventato sinonimo di inintelligenza e di incredulità. Attribuire il titolo di “Giudei” ad una folla di galilei significa che questi sono accusati dall'autore di inintelligenza e di incapacità a credere; un'accusa che richiama da vicino Es 32,9: “Il Signore disse inoltre a Mosè: "Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice.”

  2. L'incredulità, ma sopratutto l'inintelligenza di questa folla sono evidenziate dal verbo “mormorare” ('EgÒgguzon, Egónghizon), posto all'imperfetto indicativo per indicare la continuità e la persistenza di questa mormorazione. Un verbo che riporta l'israelita all'esperienza del deserto, dove spesso il popolo mormorava contro Dio, perché da Dio provato57 nei suoi bisogni vitali come il bere e il mangiare58. Un mormorare che viene letto dall'agiografo come un atto di rivolta contro Dio59. Ma è in particolar modo ad Es 16,2-4 che qui sembra richiamarsi il v.41, in cui il mormorare del popolo viene coniugato con il pane, che Jhwh annuncerà come “pane dal cielo”, così come la mormorazione dei Giudei su Gesù si coniuga con il pane in cui Gesù si identifica, annunciandosi come “pane dal cielo”. Su questo verte la mormorazione oggi come ieri: “Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: "Fossimo morti per mano del Signore nel paese d'Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine". Allora il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no”.

Il v.41 termina con l'oggetto del contendere tra Giudei e Gesù: “io sono il pane disceso dal cielo”. Qui in gioco non c'è l'identità di Gesù come potrebbe suggerire l'espressione “io sono il pane”, bensì l'origine di Gesù, che afferma la sua provenienza divina (“dal cielo”); mentre i Giudei, riferendosi alla loro esperienza cercano la sua origine tra gli uomini, tradendo tutta la loro inintelligenza e la loro incapacità di trascendere l'apparire delle cose, così come non seppero leggere il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci (v.26): “Non è questi Gesù, il figlio di Giuseppe, del quale noi conosciamo il padre e la madre? Come ora dice: “sono disceso dal cielo?” (v.41). Il v.41 si chiude dunque ponendo l'accento non sull'identità, ma sulla provenienza divina di Gesù. Una questione questa umanamente insolubile: l'uomo non può giungere alla divinità di Gesù indagando all'interno di parametri umani con logiche che non gli consentono di trascendere la dimensione umana. La divinità di Gesù, così come il suo essere pane di vita eterna, origine e identità divine, sono raggiungibili solo attraverso il credere, che non è mai la conclusione di un bel ragionamento umano, ma solo un dono del Padre, che genera il credente. Sarà proprio la pericope seguente (vv.44-47) che illustrerà la dinamica generativa del credente da parte del Padre.

L'intermezzo narrativo termina con il v.43 in cui Gesù invita i Giudei ad abbassare i toni della polemica: “Non mormorate gli uni con gli altri”, di cessare quindi la loro rivolta contro il mondo del divino che sta per manifestarsi loro e per loro del tutto incomprensibile. Soltanto attraverso la disponibilità interiore ad accogliere la rivelazione si può accedere al Mistero, diversamente non raggiungibile, poiché la strumentazione che l'uomo possiede è del tutto insufficiente e inadeguata.

I vv.44-47, riprendendo il tema del precedente pensiero a sfondo cristologico (vv.37-40), lo completa e lo porta a conclusione mettendo qui in rilievo l'aspetto teologico, cioè l'agire del Padre nel processo del credere. Da questo insieme si comprende come il credere non dipende da sforzi o capacità umane, ma possiede una dinamica propria complessa; essa trova la sua origine nel Padre, che genera il credente nel Figlio per mezzo della sua parola (Ef 1,13-14; 1Pt 1,23). Punto di convergenza della comune azione del Padre e del Figlio è l'uomo, che viene generato alla fede per mezzo della contemplazione accogliente della rivelazione manifestatasi nel Figlio. Similmente alla prima parte, anche questa seconda è delimitata dalle espressioni “venire a me” (v.44) e “credere” (v.47).

Il v.44, già lo si è detto sopra (pag.39), riprende il tema enunciato dal v.37, spostando però la sua attenzione da Gesù al Padre, che diviene il soggetto primario di questo secondo momento di riflessione sull'origine del credere (vv.44-47): “Nessuno può venire da me se il Padre che mi ha mandato non lo attira, e io lo risorgerò nell'ultimo giorno”. Lo sfondo di questo versetto, che ha il suo parallelo nel v.65, è sempre missionario. Il Padre infatti è indicato ancora come “colui che mi ha mandato”. L'azione determinante del Padre che attira il credente verso Gesù è sottolineata dalla sentenza con cui si apre il versetto: “Nessuno può” (oÙdeˆj dÚnatai, udeìs dínatai). In altri termini l'uomo non è dotato di un potere proprio che gli consenta di entrare nel Mistero di cui è permeato e compenetrato Gesù. Entrambi i verbi “non può venire” e “attira” sono legati tra loro dallo stesso tempo verbale che li fa dipendere l'uno dall'altro. Il v.44 si chiude con un verbo al futuro che proietta il credente, opera del Padre, in un contesto escatologico, reso inequivocabile dall'espressione “ultimo giorno”: “e io lo risorgerò nell'ultimo giorno”. Il “kaˆ” (kaì, e) con cui si apre la seconda parte del v.44 lega questa alla prima e la rende ad essa conseguente. La risurrezione finale, con cui il credente viene accorpato definitivamente alla vita stessa di Dio, dipende quindi dall'azione del Padre, che si compie hic et nunc, qui e ora, quasi a dire che è l'orientamento esistenziale che si forma e si compie nel mio oggi che determina l'esito finale della mia salvezza, che non dipende dall'uomo (“Nessuno può”), ma dal progetto salvifico del Padre, che si manifesta e opera nel suo Figlio. Si tratta ora di capire il significato di quel “attira”, che diviene un'azione determinate per il concepimento e la nascita del nuovo credente e, quindi, della sua definitiva salvezza. Sarà compito del v.45 a precisarne il senso.

Il v.45 è scandito in due parti: la prima si appella all'autorità dei Profeti, cioè scritturistica; la seconda diventa in un certo qual senso esplicativa della prima. Esso si apre con un riferimento scritturistico, chiamando in causa l'autorità dei profeti, caricando d'importanza quanto viene detto: “e tutti saranno istruiti da Dio”. Si tratta quasi certamente di Is 54,13: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli”, in cui l'espressione “Tutti i tuoi figli”, il riferimento qui è Israele, è sostituita da “tutti” imprimendo alla profezia di Isaia una forte valenza universalistica, che caratterizza gli ultimi tempi, in cui Dio, secondo le attese, non parlerà più per il tramite di mediatori, ma ciascuno sarà un suo diretto interlocutore e un suo discepolo. Un pensiero che si ritrova anche in Geremia che prospetta negli ultimi tempi una nuova alleanza, la cui legge è scritta direttamente da Dio nel cuore di ogni credente, che non avrà più bisogno di mediatori per esservi istruito: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l'alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,31-34). Un annuncio che verrà ripreso anche da Ezechiele: “vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” (Ez 36,26-28). Ma è soprattutto all'interno della corrente sapienziale, molto vicina a quella profetica, che si richiamerà l'ammaestramento di Dio60. Non mancano cenni in tal senso neppure nel N.T., che lasciano intuire come le profezie, che parlavano degli ultimi tempi, si siano di fatto realizzate in Gesù, manifestazione e rivelazione ultima del Padre (Gv 14,8-11). Paolo infatti ricorda alla sua comunità di Tessalonica che “Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri” (1Ts 4,9); così 1Gv 2,27 sottolinea alla propria comunità come “[...], l'unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna”. Scultorea, infine, è l'immagine che Matteo ci ha lasciato di Gesù in 5,2, assiso sul monte assieme ai suoi discepoli, circondato dalle folle: “Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo”. Un'immagine che richiama da vicino quella di Jhwh che sul monte Sinai impartiva la Legge al suo popolo per il tramite di Mosè. Ora Dio invece sta ammaestrando e istruendo il suo popolo direttamente nel suo Figlio. Un ammaestramento che avviene attraverso la Parola.

Ed è proprio quest'ultima a cui accenna la seconda parte del v.45: “Chiunque ha ascoltato dal Padre e ha imparato, viene verso me”. L'attirare del Padre verso Gesù non avviene attraverso miracoli o segni portentosi; non attraverso incantesimi che ammagliano, ma attraverso la sua Parola. È da questa che sgorga la forza di Dio che genera e plasma il credente e continuamente lo rigenera a Dio. Paolo, rivolgendosi alla comunità di Roma, attesta questa potenza della Parola, da cui sgorga la fede: “Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene! […] La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,14-15.17); mentre Pietro vede nella Parola la potenza di Dio che genera il credente: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1,23); infine, l'autore della lettera agli Ebrei vede nella Parola la potenza plasmatrice di un Essere vivente: “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Si tratta di quella Parola eterna del Padre che Giovanni canta in 1,1-4 e di cui contempla la gloria di Figlio Unigenito incarnato del Padre (1,14). Ed è proprio l'ascolto accogliente di questa Parola che attrae il credente a Gesù. L'autore della lettera agli Efesini, a conclusione dell'inno cristologico (Ef 1,1-14) con cui essa si apre, attesta: “In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria” (Ef 1,13-14). L'autore ricorda alla sua comunità il percorso di fede che li ha generati a Dio e li ha segnati per mezzo dello Spirito nel battesimo, nell'attesa di accedere definitivamente nella gloria di Dio a cui sono destinati in virtù del fatto che essi hanno accolto la Parola di verità. Tutto dunque nasce dall'ascolto accogliente della Parola, che Giovanni pone significativamente all'inizio del suo Vangelo, quale principio di tutto, da cui tutto discende e dipende (1,1-4).

Al di là di questi aspetti teologici fin qui considerati, il v.45 dà spazio anche ad una diversa interpretazione, che tuttavia non esclude la precedente. Esso si sta rivolgendo ad Israele, definito come colui che è stato istruito da Dio attraverso la Torah, l'Alleanza e i Profeti; all'autentico Israele, che ha saputo ascoltare e conformarsi nella sincerità di cuore, quale fedele discepolo di Jhwh, ponendosi in attesa della redenzione annunciata dalle Scritture (Lc 2,25.38) e che qui è definito come colui che “ha ascoltato dal Padre e ha imparato”, in cui l'ascoltare dal Padre e l'imparare inerisce alle Scritture; per questo al momento opportuno, al suo apparire, ha saputo “andare verso Gesù”. Segno questo che le Scritture in qualche modo consentivano di leggere il nuovo evento Gesù e a questo esse preparavano (Lc 24,27.32.35). Ma questo elogio all'Israele fedele contiene in sé anche un'implicita accusa contro il giudaismo pervicacemente incredulo. Il Gesù giovanneo infatti qui sta rivolgendosi ai Giudei, che ai vv.41-42, con le loro mormorazioni e le loro considerazioni, hanno dato prova sia della loro inintelligenza che della loro incredulità invincibile. Ora egli con i vv.44-47, qui in analisi, fornisce loro le motivazioni del loro essere così ostinatamente increduli e così inintelligenti di fronte al Mistero che si sta rivelando in lui; motivazioni che sono nel contempo un atto di accusa contro la loro incapacità di comprendere le Scritture e di credere correttamente in esse. Infatti se essi avessero compreso bene le Scritture e si fossero conformati ad esse, ora essi verrebbero da lui e non gli si opporrebbero in modo così tenace, proprio perché le Scritture attestano su di lui (5,39). Un'accusa che richiama da vicino quella già duramente lanciata in 5,37-40: “E il Padre che mi ha mandato, quello testimoniò di me. Né voi mai ascoltaste la sua voce, né vedeste il suo aspetto, e non avete la sua parola che rimane in voi, poiché quegli lo mandò, a questo voi non credete. Indagate le Scritture perché voi credete di avere in esse la vita eterna; e sono (proprio) quelle che testimoniano su di me; e non volete venire da me per avere la vita”.

Il v.46 si presenta come una sorta di correttivo al v.45. L'idea che il v.45 passa, infatti, è che Israele avesse un rapporto privilegiato diretto con Dio da cui è stato istruito, ascoltando la sua voce e imparando dal suo insegnamento. Certo Israele ha avuto tutto questo, ma il suo rapporto con Jhwh fu mediato da Mosè, Aronne, la Torah, l'Alleanza e i Profeti. Giovanni tuttavia non si lascia sfuggire l'occasione per sottolineare una volta di più il rapporto esclusivo e privilegiato che Gesù ebbe con il Padre: “Non che qualcuno ha visto il Padre se non colui che è da Dio, questi ha visto il Padre”, in cui si precisa che soltanto colui che “è da Dio” (par¦ toà qeoà, parà tû tzeû) ha visto il Padre. La preposizione “parà”, seguita come nel nostro caso dal genitivo, evidenzia un movimento di provenienza, che indica l'origine da cui si proviene: “da Dio”. L'origine di Gesù è pertanto divina, non in senso metaforico o simbolico, ma reale. Per questo egli può rivolgersi a Dio con l'appellativo di Padre in senso proprio (5,18); per questo, uscito dal Padre (8,42; 16,28.30; 17,8) egli è un suo profondo conoscitore: infatti “Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1,18).

Il v.47 con tono sentenziale e in modo brusco, quasi una sorta di giudizio divino posto sull'uomo in genere e nello specifico sul giudaismo pervicacemente incredulo (vv.41-42), chiude l'intero discorso sulla generazione divina del credente e le sue implicazioni (vv.37-47): “In verità, in verità vi dico, chi crede ha la vita eterna”. L'introduzione è solenne ed attesta non solo l'importanza, ma anche la fondamentalità della sentenza: “chi crede ha la vita eterna”. Entrambi i verbi sono posti al presente indicativo stabilendo una stretta correlazione tra il credere e l'avere la vita eterna, attestando che il credere colloca il credente fin d'ora nella dimensione divina, in una prospettiva di escatologia presenziale o realizzata, caratteristica del pensiero giovanneo. Significativo è il modo con cui il testo greco si esprime nella sentenza: “il credente ha la vita eterna”. Il soggetto è espresso con un participio presente (Ð pisteÚwn, o pisteúon), che indica non soltanto un credere che si esprime in modo costante e permanente nella vita, ma designa la natura stessa del soggetto, il cui vivere si coniuga con il credere, così che il vivere diventa un costante orientamento esistenziale verso Dio, che Paolo, in attesa della sentenza che sta gravando su di lui e che può condannarlo alla pena capitale, esprime così intensamente: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21).

Si noti infine come al v.47 il Gesù giovanneo non parla più della necessità di “credere in lui”, ma soltanto di “credere”, sollecitando in tal modo un atteggiamento di apertura spirituale e intellettuale a Dio, poiché ora, con la ripresa della seconda parte del discorso sul pane, non si parlerà più dell'identità di Gesù quale Pane di vita eterna, tema questo della prima parte del discorso (vv.32-36), ma del modo con cui il credente dovrà relazionarsi con questo Pane datore di vita divina. Sarà un discorso molto duro e difficile (v.60), al limite della blasfemia, e che si concluderà amaramente con la defezione di molti dei suoi discepoli (v.66), anche loro affetti da incredulità (v.64). Questo intermezzo dunque è servito anche a preparare il lettore a quanto avverrà nell'ultima parte di questo capitolo (vv.60-71), in cui l'autore vi si richiamerà espressamente per spiegare l'incredulità dei suoi discepoli (v.65), così come spiega quella dei Giudei. Nessuno dunque fa eccezione; tutti sono accomunati nella stessa necessità del credere, che è opera di Dio (v.29), per poter accedere al Mistero.

Con i vv.48-59 ha inizio la seconda parte del discorso sul pane, definita dall'inclusione dei vv. 49.58b, data dall'espressione “I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono”. Questa seconda parte infatti risentirà di questo continuo confronto latente tra la manna che non ha salvato dalla morte gli antichi padri e il vero Pane vivente di vita divina, che invece infonde la vita eterna a chi lo mangia. Da questo contrasto, morte vita, viene posto in rilievo la potenza generatrice di vita divina che opera in questo Pane, datore di vita eterna.

Questa seconda parte riprende di fatto le identiche tematiche enunciate nella prima parte (vv.31-35) e le completa con nuovi elementi, che vanno a precisare sempre più l'identità di questo pane, dandogli una concretezza fin qui sconosciuta. Tutto ora converge sulla persona di Gesù, di cui viene accentuata la corporeità. Egli, qui, diviene il centro propulsore di una nuova azione di Dio a favore degli uomini: essere pane vivente datore di vita divina, che chiede al credente un nuovo modo di relazionarsi a Dio: mangiare di questo pane, che viene proclamato carne e sangue di Gesù. Il pane della vita in questa seconda parte del discorso assume una personalizzazione molto spinta. Il linguaggio qui si fa duro e crudo: mangiare e bere, due verbi che ricorrono per ben 13 volte in soli 11 versetti (vv.48-58); verbi che dicono il modo che l'uomo ha di relazionarsi con il cibo, che attraverso il processo di distruzione e di metabolizzazione viene assimilato dal corpo e ne diventa parte integrante, consentendone la sussistenza. Ai due verbi si accompagnano i due corrispondenti sostantivi carne e sangue, che ricorrono negli stessi versetti ben 10 volte. Qui il rapporto tra credente e Dio non è più di tipo mistico e/o spirituale, ma implica un nuovo elemento: la corporeità non solo di Dio stesso, assunta in Gesù, ma anche quella del credente, che in questo connubio “carnale” viene compenetrato e avvolto nella sua totalità di essere umano dalla stessa corporeità di Dio ed è a Lui assimilato, originando una sorta di simbiosi umano-divina.

Questa seconda parte del discorso sul pane è scandita in quattro parti:

  1. vv.48-51: viene ripresa, rielaborata e ampliata la tematica della prima parte del discorso sul pane (vv.31-36), che trova il suo vertice conclusivo al v.51, che non solo la sintetizza, ma in 51c l'autore rilancia la posta e apre una nuova tematica del tutto inedita, che formerà la trattazione della terza parte di questa pericope: il pane è la carne di Gesù, offerta per la vita del mondo;

  2. v.52: nel riprendere l'ultima parte del v.51 ne rilancia il tema e accentra l'attenzione del lettore non più sul pane che è la carne di Gesù (v.51c), ma sulla sola carne di Gesù quale vero cibo per il credente. Sarà questo il tema dibattuto nei vv.53-58.

  3. vv.53-58: pericope conclusiva del grande discorso sul pane, interamente incentrata sulla carne e sul sangue di Gesù, vero cibo e vera bevanda, che introduce il credente nella vita stessa di Dio e lo rende partecipe fin d'ora. Qui il termine pane scompare completamente per dare spazio alla realtà e alla verità che esso simboleggia: la carne e il sangue di Gesù, nei cui confronti il credente è chiamato ad assumere una inedita relazione: mangiare e bere, non più pane e vino, ma carne e sangue.

  4. v.59: a mo' di verbale notarile, si attesta il luogo in cui è avvenuto il discorso: la sinagoga di Cafarnao.

I vv.48-51, già lo si è detto qui sopra, riprendono la tematica della prima parte del discorso sul pane (vv.31-36) e la completano in una nuova prospettiva, che preparerà gradualmente il lettore alla parte più shoccante dell'intero discorso sul Pane di vita, l'ultima (vv.53-58).

Il v.48 apre la seconda parte del discorso, riprendendo l'affermazione perentoria e rivelativa dell'identità di Gesù con cui si era chiusa la prima al v.35: “Io sono il pane della vita”. L'accento tuttavia qui va a cadere non più su “Io sono”, espressione caratteristica di Giovanni con cui egli indica il nome di Jhwh rivelato a Mosè (Es 3,14), ma sulla seconda parte: “pane della vita”, che qualifica l' “Io sono”. Il v.48 infatti innesca un confronto contrastante con il v.49 che parla invece di un “pane di morte”: “I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono”. Anche questo era un pane proveniente dal cielo (v.31b), ma non era quello vero (v.32c), del quale era soltanto figura. E sarà proprio su questo contrasto tra pane di vita e quello di morte, che si giocherà questa seconda parte del discorso.

Nel v.49, che riprende sostanzialmente il v.31a, compaiono due nuovi elementi: al v.31a si parlava dei “nostri padri”; qui si parla invece dei “vostri padri” che denuncia l'estraneità della comunità giovannea rispetto al giudaismo, un'esperienza religiosa che ormai non sente più sua e da cui prende le distanze a tutto favore di un'altra e nuova esperienza di Dio che si opera in Gesù. Il secondo elemento è l'aggiunta dell'espressione “e morirono”, che dice la qualità di questo pane che pur venuto dal cielo non è stato in grado di infondere la vita.

Il v.50a riprende il tema del v.33 in cui si parla del “pane di Dio che discende dal cielo e dà la vita al mondo”; ma se al v.33 si sottolineavano le qualità di questo pane che appartiene a Dio, da lui proviene ed è capace di infondere la vita, qui al v.50 l'accento va a cadere sulla missione e sul senso di questo pane disceso dal cielo e quindi sul senso dell'incarnazione stessa, significata in quel discendere dal cielo: “affinché (†na, ína) chiunque mangi da lui anche non muoia”. La sottolineatura “mangi da lui e non muoia” apre il confronto con il v.49 in cui i padri nel deserto mangiarono il pane dal cielo, ma morirono. Significativa l'espressione “mangiare da lui”, cioè dal pane (™x aÙtoà f£gV, ex autû fághe), in cui la particella “ ™x” (ex) dice l'origine primaria da cui scaturisce la vita e in cui la vita stessa si radica. Il senso della missione di questo pane disceso dal cielo dunque è dare la possibilità al credente di trarre da questo pane la vita stessa di Dio così da farla propria, lasciandosi assorbire e metabolizzare da questa.

Il v.51 è scandito in quattro momenti; i primi tre costituiscono una grande sintesi sia della prima parte del discorso sul pane che dei vv. 48-50, che introducono la seconda parte del discorso. Vi ricorrono infatti tutti gli elementi principali: “il pane della vita”, il suo “discendere dal cielo”, la sua capacità di donare la vita eterna a chi ne mangia. Il quarto elemento introduce un componente nuovo: “e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. La funzione del v.51 quindi è quella di sintetizzare quanto fin qui detto e di rilanciare il discorso su di un livello nuovo, più elevato e più ardito.

La caratteristica del pensiero a spirale è quella di riprendere i concetti precedenti rilanciandoli a livelli superiori, tuttavia qui la ripresa non è una fotocopia del pensiero precedente, ma vengono introdotte piccole quanto significative variazioni. La precedente espressione “pane della vita”, infatti, viene qui modificata in “pane che vive”, letteralmente “il pane vivente” (Ð ¥rtoj Ð zîn, o ártos o zôn), che dice sia la natura propria di questo pane che la qualità di questa vita, la quale si protrae in un eterno presente, che caratterizza il vivere di Dio, conosciuto come “il Dio vivente”61; ma nel contempo richiama da vicino anche Ap 1,17b-18: “Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi”. Ed è proprio questo aspetto che viene sottolineato con l'espressione verbale “vivente” attribuita al Pane. Essa infatti associandosi alla quarta parte del v.51, in cui si parla di una carne che verrà donata per la vita del mondo, dà pienezza di significato e di senso al Pane.

L'espressione, poi, “Pane vivente” (v.51a) diventa fonte e causa di vita eterna per chi mangia di questo Pane (v.51c); due elementi strettamente legati tra loro dal comune verbo “vivere”, il primo posto al presente indicativo per indicare il gettito continuo di vita che fuoriesce da questo Pane; il secondo al futuro per indicare una vita che non si esaurisce qui nel presente, ma che avrà la sua pienezza definitiva nell'eternità di Dio dove è collocato fin d'ora chi mangia di questo Pane. Un Pane dunque ben diverso da quello che mangiarono gli antichi padri nel deserto, finalizzato soltanto a soddisfare i bisogni contingenti del vivere quotidiano, senza prospettiva alcuna al di là di questo.

Il v.51d porta a conclusione l'intero pensiero fin qui prodotto e lo apre ad una inattesa prospettiva: “e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Significativo quel “kaˆ” (kaì, e) con cui si apre il v.51d. La congiunzione infatti salda quest'ultimo elemento con i tre precedenti dandogli non solo continuità logica, ma anche portandoli alla pienezza del loro significato, approfondendo e completando in tal modo la comprensione della natura di questo Pane vivente. Questo Pane ora viene identificato con la carne che Gesù darà per la vita del mondo: “il pane che io darò è”. Non si dice che questo Pane è “assimilabile a” o “simile a” o “come se fosse”, ma “è”, un verbo questo che definisce questo Pane sul piano ontologico, creando di fatto una identificazione di questo Pane con la stessa carne di Gesù. Questo pane è specificato dalla frase relativa “che io darò” (Ön ™gë dèsw, òn egò dóso), un'espressione breve, ma molto densa: questo Pane, che è carne, è innanzitutto un dono che non dipende più dal Padre, ma da Gesù stesso (“io darò”); un dono che non è immediatamente raggiungibile, ma viene posto al futuro (“darò”), legando strettamente questo Pane ai dolorosi eventi del Golgota. Si parla infatti di una carne che verrà data per la vita del mondo. Il verbo “dare” viene dunque ad assumere il senso di offrire la propria carne per la vita del mondo, richiamando da vicino il cap.10 dove Gesù si presenta come il buon pastore che dà la sua vita per le pecore (10,11.15b); lo fa spontaneamente e liberamente senza costrizione alcuna (10,17-18), così come deve essere un dono; e così come egli ha dato la propria vita, così ha anche il potere di riprendersela (10,17b-18). Una chiara allusione alla sua risurrezione, che lo qualificherà in modo definitivo come il “Vivente” (Ap 1,18). Per questo il Pane-Carne è definito da Giovanni come “vivente”. Il connubio Pane-Carne ha di conseguenza uno stretto legame con la passione e morte di Gesù sottolineata non soltanto dal verbo al futuro (“io darò”), ma anche dal verbo mangiare, che da “f£gw” (fágo) passa ora a “trÒgw” (trógo). L'uso di questo verbo, “trógo” anziché “fágo”, sottolinea tutta l'asprezza e la primitività, quasi animalesca, di questo mangiare. Il verbo infatti indica il mangiare proprio dell'animale62 in tutte le sue forme possibili che caratterizza l'animalità, come il rodere, il divorare, il dilaniare, il masticare ripetutamente, quasi un triturare il cibo, così come lo fu il corpo di Gesù nella sua passione e morte. Un mangiare che esprime tutta la sua violenza incontrollata, che si radica soltanto nell'istintualità della sopravvivenza. Si tratta di un verbo che in tutta la Bibbia compare soltanto sei volte: una in Mt 24,38, con riferimento al mangiare e al bere della gente fino a pochi giorni prima del diluvio, quasi a voler associare il loro mangiare incosciente a quello degli animali, che continuano a farlo fino a poche ore dalla loro macellazione; e qui in Gv 6,54.56.57.58 per esprimere la violenza distruttiva di questo mangiare rivolto verso la carne, qui associata al sangue. L'uso di questo verbo in riferimento non più al Pane, ma alla carne e al sangue diventa un forte segnale che qui l'autore sta pensando alla morte sacrificale di Gesù. E che così sia, Giovanni lo dimostra al v.13,18 dove userà per l'ultima volta il verbo “trógo”, nel contesto dell'ultima cena. Questo versetto cita il Sal 41,10 in cui il verbo “Ð ™sq…wn” (o estíon, colui che mangia) della LXX, viene qui cambiato significativamente in “`O trègwn” (o trógon, colui che mangia), creando un non casuale legame tra il mangiare di questo Pane-Carne con quello dell'ultima cena, inserendolo dunque in un contesto sacrificale e redentivo nel contempo.

Si tratta dunque di un pane strettamente legato al sacrificio di Gesù, che riconduce questo giovanneo Pane di Carne nel solco della tradizione sinottica63 e paolina dell'ultima cena dove si evidenzia unanimemente che Gesù, preso il pane, “lo spezzò e lo diede”; spezzare e donare, due verbi che legano quel pane al sacrificio della croce (“spezzò”) colto come dono di vita per l'umanità (“diede”).

Il v.51d, introducendo questo nuovo aspetto sul Pane vivente, annuncia il tema che verrà ripreso e dibattuto nei successivi vv.52-58.

Il v.52 riprende il tema del v.51d e lo rilancia, introducendo di fatto il dibattito su queso Pane che ora si è scoperto essere Carne che si dona per la vita del mondo, assumendo tratti di universalità . Ci troviamo di fronte ad un versetto di transizione che crea uno stacco netto tra quanto si è fin qui detto sul Pane vivente e quanto si dirà con i vv.53-58. Esso tuttavia denuncia una volta di più tutta l'inintelligenza del mondo giudaico di fronte al manifestarsi di Gesù.

La domanda che i Giudei si pongono si apre con una particella avverbiale: “Pîj” (Pôs, Come, in quale modo) che ricorre venti volte nel vangelo di Giovanni. Essa spesso introduce degli interrogativi che vengono posti sulla persona di Gesù e sul suo manifestarsi. Questi sono finalizzati a far riflettere il lettore e ad accentrare la sua attenzione sul tema, che in qualche modo anticipano, rilanciano o introducono, fornendo a Gesù l'occasione per approfondire l'annuncio del suo Mistero64, che non è accolto pacificamente, ma crea una notevole tensione all'interno del mondo giudaico. Il v.51a infatti inizia con il verbo “ 'Em£conto” (emáconto) che significa combattere, lottare, contrastare, contrapporsi sia con le armi che con le parole. Il dibattito attorno a Gesù dunque era acceso e creava tensioni e scontri fra fazioni pro e contro65; l'uso poi dell'imperfetto indicativo sta ad indicare come questi contrasti non fossero occasionali e salutari, ma costanti, al punto da preoccupare le stesse autorità religiose (11,47-48). Ho quindi preferito tradurre “emáconto” con litigavano piuttosto che con discutevano perché rende meglio la focosità del dibattito, che animerà la stessa comunità giovannea, che giungerà a dividersi (v.66).

I vv.53-58 costituiscono il nocciolo duro dell'intero discorso sul pane, il suo “dunque” conclusivo, quello più scandaloso e inaudito; il punto di arrivo verso cui l'intero cap.6 converge e attorno al quale ruota. Un discorso volutamente duro perché incentrato tutto sulla fisicità corporea di Gesù, espressa crudamente con carne e sangue da mangiare e da bere, dove il mangiare è espresso volutamente con il verbo “trógo”, che dice tutta la crudezza e la durezza di questo mangiare, assimilato a quello dell'animalità. Un discorso che trova il suo Sitz-im-leben nelle tensioni che agitavano la comunità giovannea, da un lato, intorno a questo Pane di vita identificato con lo stesso corpo di Gesù (“il pane che io darò è la mia carne”), ma difficile da accettare; dall'altro, contro un docetismo che negava una reale corporeità a Gesù. Un problema quello del docetismo66 che agiterà le acque della chiesa ancora per diversi secoli e che ancora oggi molti cristiani, che accettano dottrinalmente l'umanità di Gesù, di fatto la negano rifiutandone le conseguenze. L'idea che serpeggia è quella di una sorta di superman, ma niente al di sotto di questo.

I vv.53-57 sono strutturati in forma parallela che ha il suo punto di convergenza al v.55; mentre il v.58 va considerato a parte poiché sinteticamente riepilogativo e conclusivo dell'intero discorso sul Pane, riportandone tutti gli elementi essenziali. Pertanto si avrà:

  1. v.53: si attesta la necessità di mangiare la carne e di bere il sangue per avere in se stessi la vita. L'attestazione avviene in forma negativa: “se non mangiate … se non bevete … non avete”;

  2. v.54: viene ripreso in modo identico il contenuto del v.53 e riproposto in forma positiva: “chi mangia … chi beve … ha”;

  3. v.55: costituisce il cuore di questa parte finale del discorso, proclamando la carne e il sangue di Gesù vero cibo e vera bevanda; un'attestazione dai toni dogmatici;

  4. v.56: viene ripreso in modo identico il testo del v.54, ma se ne varia la concluione;

  5. v.57: mangiare Gesù porta a vivere l'eternità di Dio per suo mezzo.

Tutti i versetti sono percorsi in modo ripetitivo e quasi ossessivo dal tema del mangiare e del bere rispettivamente carne e sangue, fino a giungere alla conclusione, v.55, come questi siano vero cibo e vera bevanda. Questa ripetitività ossessiva ed asfissiante crea una forte densità tematica, quasi un chiodo fisso che Giovanni vuole impiantare in profondità nell'anima della sua comunità incredula, lasciando intendere come ormai si è giunti al cuore della questione: il Pane della vita è il corpo vivente di Gesù, colto nella sua piena realtà carnale, crudemente espressa con i termini carne e sangue, che nel linguaggio semitico indicano l'interezza della realtà umana di una persona e della sua corporeità. Di fronte a simili attestazioni dottrinali e di fede così sferzanti non ci possono più essere incertezze o tentennamenti: o si crede o non si crede. Una sorta di aut aut implicito, che di fatto si concluderà con la spaccatura della comunità giovannea, di cui si analizza il dramma ai vv.60.64a.66-69.

Fatta esclusione per il v.55, che costituisce il cuore dell'intera pericope, gli altri quattro versetti sono raggruppati due a due secondo la loro conclusione che li accomuna: i vv.53.54 riportano sostanzialmente la stessa formulazione, la prima al negativo la seconda al positivo, secondo i canoni della retorica ebraica, che ama queste contrapposizioni di chiaro-scuri, ma la loro conclusione è identica: si evidenziano gli effetti che produce il mangiare e il bere, la carne e il sangue, nel credente: la vita eterna con i suoi conseguenti esiti.

Quanto ai vv.56.57, questi analizzano gli effetti del mangiare e del bere, carne e sangue, sotto un altro aspetto, quello relazionale, che ha come parametro di raffronto il rapporto Padre-Gesù: una profonda e reciproca compenetrazione tra Gesù e il credente, che ne ha assunto la carne e il sangue (v.56) e come questi vivrà per mezzo di quel Gesù che ha assunto nella sua corporeità (v.57).

I vv.53-54 riprendono il tema già preannunciato in 51d e 52 e lo completano aggiungendo al mangiare la carne anche il bere il sangue, definendo in tal modo la corporeità di Gesù. Il v.53 si apre con l'espressione “In verità, in verità vi dico”, che dà un tono di solennità e di veridicità giurata all'intera pericope (vv.53-58). Gesù qui parla in terza persona indicando se stesso come Figlio dell'uomo. Un'espressione questa che ricorre 13 volte nel racconto giovanneo e che richiama la figura di Dn 7,13-14, letta in tempi successivi in termini messianici ed escatologici. L'espressione tuttavia, molto ricorrente nell'A.T. in particolar modo in Ezechiele, è un semitismo per indicare l'uomo colto nella sua fragilità carnale. Non è dunque da escludersi che l'uso di questa espressione posta in questo contesto voglia sottolineare più che la messianicità di Gesù la sua umanità e ancor più la sua corporeità. È caratteristico di Giovanni infatti usare termini ed espressioni con doppio senso. I verbi qui sono posti alla seconda persona plurale (voi) con riferimento alla comunità giovannea, a cui l'autore si sta rivolgendo, ponendo su di essa una sorta di giudizio divino: “se non mangiate, se non bevete, non avete la vita in voi”. L'uso dei tempi verbali al presente indicativo dice come questo giudizio sia già in atto, nell'ottica giovannea di una escatologia realizzata; la pena da pagare è la morte spirituale (“non avete la vita in voi stessi”), che non solo li esclude dalla vita eterna, ma li pone fuori anche dalla comunione comunitaria, lasciando sottintendere la possibilità di una loro scomunica, cosa che avverrà nell'ultima parte del cap.6 (vv.60-71), in cui “Da questo (momento) molti tra i suoi discepoli se ne tornarono indietro, e non camminavano più con lui” (v.66).

Il v.54 di fatto riprende il v.53, ma in termini positivi “chi mangia, chi beve, ha la vita eterna”. I tempi verbali qui rimangono al presente indicativo, per indicare gli effetti immediati e duraturi di questo particolare nutrimento; cambia tuttavia il soggetto: dalla seconda persona plurale (voi) si passa alla terza singolare, che dà un tono sentenziale e dogmatico a questo versetto, sottolineandone l'universalità. Giovanni pone qui una sorta di equazione: mangiare e bere equivale ad avere la vita eterna; il credente dunque viene reso partecipe fin d'ora della vita stessa di Dio, che diviene nel contempo caparra di definitiva eternità divina: “e io lo risusciterò nell'ultimo giorno”. Compare qui, al cap.6, per la quarta volta questa espressione67, che parla di essere definitivamente e pienamente accorpati alla vita divina per opera del Risorto, la cui missione è quella che niente vada perduto di tutto ciò che il Padre gli ha affidato (v.39). La risurrezione dunque ha un effetto conservativo, che rende definitivamente stabile una situazione che ora il credente vive in una condizione di precarietà e di instabilità, soggetta ad un continuo divenire. Per la quarta volta Giovanni coniuga la sua escatologia presenziale o realizzata, espressa con i verbi al presente indicativo, con quella tradizionale (verbi al futuro), per indicare come questo stato di vita divina a cui fin d'ora partecipiamo sarà reso definitivo soltanto nell'ultimo giorno, ammonendo probabilmente quella parte della sua comunità che riteneva erroneamente di essere già definitivamente salvata e pertanto non più soggetta ad alcun comandamento, neppure quello dell'amore68.

Il v.55 costituisce il cuore di questa pericope (vv.53-58). Non si parla più di mangiare e di bere, azioni che ineriscono agli uomini, ma dell'oggetto di questo mangiare e di questo bere: la carne e il sangue, che sono triplicemente definiti: a) con un aggettivo possessivo “mia, mio”. Si tratta dunque di una carne e di un sangue che non solo appartengono a Gesù, ma ne definiscono la persona colta qui nella sua corporeità fisica; b) carne e sangue, cioè la realtà corporea di Gesù, espressione fisica non solo della sua persona, ma anche della sua realtà divina incarnata, sono definiti cibo; e come ogni alimento, qualora assunto, attraverso un processo di metabolizzazione e di assimilazione, trasmette la vita e la conserva, infondendole nuovo vigore e divenendo parte integrante di chi se ne nutre, così l'assimilazione di Gesù nella sua corporeità compenetra l'essere del credente e lo trasforma in ciò che egli ha mangiato: carne e sangue spiritualizzati attraverso il processo della risurrezione, che è trasformazione per opera dello Spirito; non da carne a spirito, ma da carne a carne spiritualizzata. La realtà corporea rimane sempre benché nella risurrezione abbia subito un processo di trasformazione o forse meglio dire di spiritualizzazione. Questa precisazione di carne e sangue da mangiare e bere trasferisce il rapporto Gesù-credente non più soltanto su di un piano di fede o mistico, ma anche sul piano dell'esperienza reale, poiché in quel pane è legata la realtà di un corpo, sia pur spiritualizzato, ma non per questo meno reale e meno corpo. Ci troviamo infatti di fronte non ad un puro spirito, ma ad un corpo spiritualizzato, che diviene per il credente che se ne nutre pegno e caparra di sua risurrezione, cioè di trasformazione da essere materiale a essere spiritualizzato. Per questo Gesù può ben dire “e io lo risusciterò nell'ultimo giorno”, perché lui è risuscitato e proprio per questo possiede in se stesso il germe della vita e la capacità di donare questa risurrezione (10,17-18). Paolo scrivendo alla sua comunità di Corinto, che dubitava sulla risurrezione dei morti, ammonisce: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! […] Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (1Cor 15,12-13.20-22). Paolo dunque sottolinea una profonda quanto inscindibile connessione, una sorta di conseguenza logica, tra la risurrezione dei credenti e quella di Gesù, che definisce primizia di coloro che risorgeranno (1Cor 15,23). c) La carne e il sangue vengono definiti infine come vero cibo e vera bevanda. Se il senso di quel “vero” significa primariamente “reale, genuino” sottolineando l'autenticità di questa carne e di questo sangue come principio nutritivo vitale e imprescindibile per il credente, dall'altro lascia trasparire, quasi in filigrana, una polemica contrapposizione con il pane mosaico, che pur disceso dal cielo, tuttavia non ha saputo dare la vita ai padri nel deserto. Non a caso l'aggettivo “vero” compare in questo cap.6 tre volte, due qui al v.55 e una al v.32 a cui, a nostro avviso, si aggancia.

I vv.56-57 riprendono il tema il tema del mangiare e del bere, della carne e del sangue, ma l'attenzione qui viene spostata dagli effetti, accedere alla vita eterna (vv.53-54), alla relazione con Gesù, di cui il credente si nutre, e che si esprime sia in una reciproca compenetrazione (“rimane in me e io in lui”; v.56) sia nell'accedere alla vita per mezzo di Gesù (v.57). I due versetti in esame si completano tra loro e il primo diviene spiegazione del secondo. Il credente infatti può vivere per mezzo di Gesù (v.57) soltanto perché tra i due esiste una profonda compenetrazione simbiotica (v.56), che consente al credente di vivere della vita stessa di Gesù, mentre questi manifesta il proprio vivere attraverso quella del credente, così che il vivere del credente è lo stesso vivere di Cristo, come il vivere di questi si esprime in quello del credente. Questa simbiosi Cristo-credente viene significativamente testimoniata da Paolo, che alla sua comunità della Galazia attesta: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a). Il vivere di Paolo è dunque quello di Cristo, così come il vivere di questi si esprime in quello di Paolo. Similmente, scrivendo alla comunità di Roma, Paolo la esorta a vivere per il Signore, così da fare della propria vita un'offerta che la consacra al Signore: “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,7-8). Questo essere compenetrati da Cristo spinge il credente a vivere di lui e per lui. Questo è il senso di quel “rimanere”, caratteristico di Giovanni, che lo usa nel suo vangelo 40 volte contro le sole 12 dei Sinottici e che qui in qualche modo anticipa il tema del cap.15, dedicato tutto al rimanere del discepolo in Gesù e di Gesù nel discepolo, che acquista nel cap.15 una valenza tutta particolare, perché collocato all'interno del grande discorso di addio (capp.13-17) pronunciato nell'ultima cena (v.13,1-2) e che assume i contorni di una pressante esortazione a rimanere in comunione con Gesù, mentre nel cap.17 l'accento va a cadere sull'unità dei discepoli sul modello dell'unità del Padre con il Figlio; esortazioni rivolte ad una comunità, quella giovannea, la quale in merito doveva avere dei problemi, che traspaiono dalla prima lettera di Giovanni.

Il v.57 crea un parallelismo di rapporti tra il Padre e Gesù e questi con il credente; un rapporto quest'ultimo che ha il suo fondamento in quello originario tra il Padre e Gesù, rapporto che ora si riflette e si riproduce in quello Gesù-credenti. Quel “kaqëj” (katzòs, come) con cui si apre il v.57 diviene pertanto fondativo del secondo termine di paragone introdotto dal “kaˆ” (kaì, anche). Solo il Padre infatti è definito con l'aggettivo verbale “il vivente” (Ð zîn, o zôn), che lo indica non solo come il titolare della pienezza di vita, ma anche come colui che la vita la genera. Potere questo di cui è stato rivestito il Figlio nel suo invio all'uomo e che è apparso in pienezza nella sua risurrezione69.

Il raffronto tra i due tipi di rapporto Padre-Gesù e Gesù-credente trova la sua chiave di comprensione in quel “di¦” (dià) + accusativo: “Come (katzòs) il Padre che vive mandò me e io vivo per mezzo (dià) del Padre, anche chi mangia me, anche (kaì) quello vivrà per mezzo (dià) di me”. La particella “dià” + accusativo indica il luogo attraverso cui si esprime il vivere di Gesù, che si muove attraverso e in consonanza a quello del Padre, così che chi vede lui vede il Padre e fa sì che i due siano una cosa sola (14,9-11), in una profonda unità e comunione non solo d'intenti, ma anche di vita, per cui il fare la volontà del Padre è motivo e alimento del vivere di Gesù (4,34). Ma il “dià” con l'accusativo esprime anche la durata del tempo, indicando così la consonanza del vivere di Gesù con quello del Padre, vite che si muovono in contemporaneità di intenti e di volontà, l'una realizzante l'altra, l'una radicata nell'altra e nel contempo reciprocamente compenetrantisi, pur distinte tra loro, senza confusione di persone e di ruoli propri. Ed infine la particella all'accusativo dice la causa, il motivo del vivere di Gesù, che fin dall'eternità è “rivolto verso il Padre” (vv.1,1b.2) e tende a Lui, creando in Gesù una forte tensione esistenziale, per cui il suo vivere è per il Padre e ne costituisce il senso. Tutto questo rapporto Padre-Figlio, nei limiti della compatibilità per la diversa natura dei soggetti che si relazionano, si trasferisce e si costituisce anche tra Gesù e il credente. Un rapporto che Paolo sintetizza in Gal 2,20a: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”; e similmente, in modo più intenso, in Fil 1,21: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno”. Si tratta di un rapporto che vede la cristificazione del credente, la cui vita è pregna di Cristo e ha in lui il suo esclusivo polo catalizzatore: “per me vivere è Cristo”, per il quale Paolo ha rifiutato tutto, reputando tutto spazzatura di fronte alla sublimità dell'esperienza di Cristo: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8).

Il v.58 viene posto a conclusione dell'intero discorso sul pane e ne sintetizza i tratti essenziali, polarizzati su tre capisaldi, che costituiscono la struttura del versetto. Il suo tenore è dichiarativo, quasi una sorta di sintetico promemoria che Giovanni vuole lasciare alla sua comunità: “Questo è il pane che è disceso dal cielo, non come (quello che) i padri mangiarono e morirono; chi mangia questo pane vivrà per sempre”. Il v.58 si apre con un'attestazione perentoria: “Questo è il pane disceso dal cielo”. L'accento di questa affermazione cade sul pronome dimostrativo “Questo” che assume una triplice valenza: da un lato indica la presenza di Gesù, che quindi qui allude a se stesso; dall'altro egli offre se stesso quale segno alle folle, che gli chiedevano un segno per supportare la sua credibilità (v.30), un segno che viene posto in concorrenza con quello citato dalle folle al v.31; e infatti il “Questo” innesca un confronto polemico con il pane mosaico, menzionato dalle folle quale segno della credibilità di Mosè (v.31). E che di confronto polemico si tratti lo dicono le altre due parti del v.58. Esse sono poste in parallelo tra loro e sono finalizzate a mettere in rilievo la sostanziale differenza tra la manna, che la citazione del Sal 78,24 definisce “pane dal cielo” (v.31), e il pane, che Gesù dice di essere, anche questo disceso dal cielo: il primo non è un pane di vita, ma ha lasciato i padri nel potere della morte; il secondo pane, che il v.32 definisce “quello vero” è invece produttore di vita eterna, che in Giovanni definisce la vita stessa di Dio. Si tratta dunque quello di Gesù un pane che trasmette la vita divina a chi lo mangia e in qualche modo ne costituisce una caparra, in attesa della sua definitiva conferma nell'ultimo giorno.

Il v.59, in coerenza con i vv.24-25, attesta il luogo in cui venne pronunciato il discorso di Gesù: “Queste cose disse in sinagoga, insegnando a Cafarnao”. Un'annotazione che arriva improvvisa e inaspettata. Annotazioni sostanzialmente identiche si riscontrano soltanto altre due volte: in 1,28 e in 8,20. Sono annotazioni che vengono poste al termine di discorsi o di eventi di un certo rilievo, quasi per circostanziarli e per dare loro una sorta di annotazione protocollare, sancendone il contenuto. Similmente avviene in 14,25, che attesta: “Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi”. Un'annotazione posta al termine di un lungo discorso che sembra voler riepilogare quanto Gesù aveva detto ai suoi durante la sua missione terrena. Una sorta di testamento e di promemoria spirituali.

Compare qui per la prima volta il termine “sinagoga” usato soltanto due volte in Giovanni, qui e in 18,20, contrariamente ai Sinottici, in cui il sostantivo si presenta 38 volte. Questo grande divario tra Sinottici e Giovanni lascia intuire come l'esperienza della sinagoga fosse già conclusa da parecchio tempo e quindi lo scarso interesse che questa rivestiva per Giovanni e la sua comunità ormai lontana dalla Palestina, da dov'era fuggita stanziandosi ad Efeso70.


La reazione dei discepoli al discorso sul Pane: inintelligenza, incredulità, defezione e professione di fede

Testo a lettura agevolata (vv.60-71)


Primo quadro: l'incredulità dei discepoli

60- Pertanto, molti tra i suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: <<Questo discorso è duro; chi può ascoltarlo?>>.
61- Ora, avendo
saputo Gesù in se stesso che i suoi discepoli mormoravano su questo, disse loro: <<Questo vi scandalizza?
62- Se dunque vedeste il figlio dell'uomo che sale dov'era prima?

63- È lo spirito che dà la vita, la carne non giova niente; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. (il cuore della pericope)

64- Ma vi sono tra voi alcuni che non credono. Gesù, infatti, sapeva da principio chi sono quelli che non credono e chi è colui che lo avrebbe tradito.
65- E diceva: <<Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre.
66- Da questo (momento) molti tra i suoi discepoli se ne tornarono indietro, e non camminavano più con lui.

Secondo quadro: la solenne professione di fede dei Dodici

67- Disse, dunque, Gesù ai Dodici: <<Anche voi volete ritirarvi?>>
68- Gli rispose Simon Pietro: <<Signore, da chi andremo? (Tu) hai parole di vita eterna,

69- e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio>>. (cuore della pericope)

70- Rispose loro Gesù: <<Non ho scelto io voi, i Dodici? Eppure uno tra voi è un diavolo>>.
71- Ora, diceva di Giuda, (figlio) di Simone Iscariota; questi, infatti, uno dei Dodici, stava per consegnarlo.


Note generali sui vv. 60-71

Il discorso sul pane di vita era destinato a creare numerose incomprensioni e dissensi tra gli ascoltatori, sia per la durezza del linguaggio che per il suo inusuale contenuto. Ma segnali di difficoltà di comprensione già si erano manifestati al v.15, dove la folla, dopo aver beneficiato del segno dei pani e dei pesci, voleva eleggere Gesù suo re, dando a vedere che non aveva colto il significato di quel segno. E Gesù stigmatizza al v.26 l'inintelligenza dei suoi interlocutori, che per tutta risposta gli chiedono un segno per essere creduto (v.30), non avendo compreso che il segno era proprio quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Gesù pertanto redarguisce al v.36 la loro incredulità. Questa incapacità a comprendere e a saper leggere nei segni porta la gente a scandalizzarsi circa l'identità di Gesù, che si dice disceso dal cielo, vedendo in lui, invece, soltanto un uomo di origini umane (v.42); mentre al v.52 si turbano all'esortazione di Gesù di mangiare la sua carne. Se questo era lo stato di fede e di intelligenza spirituale della folla di fronte al disvelarsi del Mistero, di certo i discepoli di Gesù non andavano meglio (vv.60-66). Essi infatti vengono associati dall'evangelista alle mormorazioni della folla (vv.60-61) a motivo della loro incredulità e della loro inintelligenza di fronte al dispiegarsi del Mistero. Ma non tutti. C'è infatti il nucleo solido, lo zoccolo duro del discepolato, i Dodici, che compiono di fronte a tutti la loro solenne professione di fede per mezzo di Pietro (vv.68-69).

Da questa sintetica lettura circa le diverse e contrapposte reazione di fronte al rivelarsi di Gesù si vanno delineando due antitetiche posizioni: chi non crede e di fatto non accetta (v.60) il rivelarsi di Gesù nel suo Mistero, abbandonandone la sequela (v.66); chi invece crede fermamente e rimane (vv.68-69).

Già si intuisce pertanto come la pericope in esame (vv.60-71) si suddivida in due quadri tra loro contrapposti, che trasferiscono il lettore dalla folla all'interno del gruppo dei discepoli, che riflette i contrasti e le divisioni della stessa comunità giovannea sul tema del Pane vivente. Entrambi i quadri sono strutturati su di uno schema a parallelismi concentrici nel v.63, il primo; nel nel v.69, il secondo.

Struttura del primo quadro: l'incredulità dei discepoli (vv.60-66)

A) v.60: i discepoli dichiarano la loro indisponibilità al discorso sul pane;

B) v.61: Gesù denuncia il loro scandalizzarsi;

C) v.62: i discepoli non credono che Gesù sia disceso dal cielo e tanto meno che salga al cielo;

D) v.63: sentenza che rileva la necessità dell'intelligenza spirituale per accedere al Mistero;

C') v.64: Gesù denuncia l'incredulità di alcuni discepoli;

B') v.65: Gesù, richiamandosi al v.44, ricorda che solo quelli attirati dal Padre sanno comprendere;


A') v.66:
molti discepoli abbandonano la sequela di Gesù.

Questi versetti sono tra loro paralleli per complementarietà e così accoppiati tra loro: in A) i discepoli non accettano il discorso sul pane, così che in A') molti se ne vanno. In B) Gesù denuncia lo scandalizzarsi dei discepoli, ma in B') ricorda che solo quelli che sono attirati dal Padre sanno comprendere; in C) i discepoli non hanno creduto che Gesù sia disceso dal cielo e tanto meno credono che egli ritorni al cielo; e in C') Gesù denuncia la loro incredulità. La lettera D) si pone al centro di tutta questa dialettica, rilevando la necessità di superare i limiti del ragionare umano per poter accedere alle cose divine, di cui sono portatrici le parole di Gesù.

Struttura del secondo quadro: la professione di fede dei Dodici (vv.67-71)

A) v.67: Gesù chiede ai Dodici se vogliono andarsene anche loro;

B) v.68: I discepoli confermano la loro sequela a Gesù, onorandone la chiamata (vv.1,37-51);

C) v.69: solenne professione di fede dei Dodici in Gesù, definito “Santo di Dio”;

B') v.70: Gesù ricorda ai Dodici di averli chiamati lui stesso, ma uno non ha onorato la chiamata;

A') v.71: Giuda con il suo tradimento si stacca dal gruppo dei Dodici e se ne va al suo destino.

Anche qui ci troviamo di fronte ad un parallelismo che associa i versetti per complementarietà, così che in A) Gesù chiede ai Dodici se vogliono andarsene anche loro e infatti in A') uno dei Dodici lo farà nel peggiore dei modi. In B) i discepoli confermano la loro sequela, onorando così l'iniziale chiamata con la fedeltà, anche se difficile; mentre in B') Gesù rileva che questa chiamata non è stata onorata da uno dei Dodici. Il cuore della pericope è la lettera C) in cui viene riportata la solenne professione di fede dei Dodici in Gesù e con la quale viene ricompattata e riconciliata la rimanente comunità, che si stringe attorno ai Dodici.

La pericope in esame (vv.60-66) è delimitata dall'inclusione, per complementarietà, data dai vv.60.66, che si integrano tra loro. Con il v.60 infatti si ha la protesta e il rifiuto dei discepoli di Gesù a motivo del discorso, mentre con il v.66 si ha il loro ritiro dalla sequela. Il discorso di Gesù, qui incluso, costituisce una sorta di riflessione che cerca di motivare questa grave defezione da parte dei suoi e ha il suo centro gravitazionale nel v.63.

Commento ai vv.60-71

Il v.60 si apre con la congiunzione “oân” (ûn, pertanto, dunque, quindi), che da un lato lega la pericope al discorso sul pane; dall'altro rileva la reazione dei discepoli: “Questo discorso è duro; chi può ascoltarlo?”. Si tratta di un giudizio che i discepoli emettono sul discorso di Gesù e ne sottolineano tutta la durezza che ne rende loro impossibile non soltanto la comprensione, ma anche ogni altra possibilità di dialogo con Gesù. Non è un caso infatti che i discepoli parlino soltanto al v.60b e il loro parlare non è una richiesta di chiarimento, ma soltanto un giudizio senza appello, che porta alla fine rapporto con il loro Maestro. Il termine “SklhrÒj” (Sklerós), infatti, non dice soltanto che il discorso è duro, ma anche gli effetti che questo discorso ha provocato su di loro. L'aggettivo greco infatti significa anche acerbo, aspro, secco, ruvido, penoso, molesto. La conseguenza di questo giudizio è l'impossibilità di continuare ad ascoltare. La religione ebraica è per eccellenza la religione della Parola, che sta alla base del rapporto tra Israele e Jhwh. L'ascolto quindi costituiva una funzione essenziale per Israele ed aveva il suo precetto fondativo in Dt 6,4; un'esortazione all'ascolto che ripetutamente risuona nel Deuteronomio71. Il rifiuto dell'ascoltare dice dunque una decisa rottura con il Logos incarnato, che proprio attraverso la Parola si rendeva manifesto al suo popolo. Ciò che i discepoli definiscono duro e rifiutano infatti non è soltanto “il discorso” di Gesù, ma anche la presenza di un altro Logos, che in quel “o lógos” si riflette e traspare come in filigrana e che Giovanni contempla in apertura della sua opera (1,1-2) e di cui attesta che “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero” (1,11).

Significativo è il passaggio del verbo “¢koÚw” (akúo, ascoltare), dall'aoristo all'indicativo presente, che lascia intendere l'evoluzione negativa di una parte del discepolato di Gesù, che dall'ascolto accogliente iniziale (aoristo) è passata al rifiuto dell'ascolto (indicativo presente). I discepoli infatti sono definiti come “¢koÚsantej” (akúsantes), cioè come “coloro che ascoltarono”. Sono proprio questi “akúsantes” che oggi mettono in discussione la continuità del loro ascolto: “chi può ascoltarlo?”. La domanda, chiaramente retorica, sottende una risposta negativa. L'iniziale disponibilità accogliente del Logos, dunque, di fronte al suo duro e incomprensibile manifestarsi, che chiede il superamento degli schemi ragionativi e cognitivi umani, ora non c'è più. Sarà il compito dei successivi vv.61-65 fornire la comprensione di questa grave e insanabile defezione, che si è prodotta all'interno del discepolato di Gesù e che in qualche modo rispecchia quella della comunità giovannea.

I vv.61-62 danno una prima inquadratura al problema dei discepoli, la cui protesta non doveva essere né clamorosa, né aperta, ma doveva serpeggiare nei loro animi, rendendoli inquieti, dubbiosi e incerti; Gesù infatti viene a sapere della cosa “in se stesso” (™n ˜autù, en eautô). Una sottolineatura quest'ultima che pone in evidenza la conoscenza superiore di Gesù, da cui traspare la sua messianicità e ancor prima la sua divinità. Già in 2,24-25 l'autore segnalava al suo lettore questa prerogativa di Gesù: “Ma egli, Gesù, non si fidava di loro poiché egli conosceva tutti e poiché non aveva bisogno che qualcuno testimoniasse sull'uomo; egli, infatti, conosceva che cosa c'era nell'uomo”; e non passerà molto che ancora una volta, qui, al v.64b, verrà nuovamente ribadita questa prerogativa di Gesù. Da questa insistenza sulla conoscenza superiore di Gesù ne esce fuori l'immagine di un Gesù dominatore e non vittima degli eventi. È lui infatti che prende l'iniziativa e pone i suoi discepoli con le spalle al muro: “Questo vi scandalizza?”. La domanda che qui Gesù pone ai suoi non va intesa come una sua preoccupazione nei loro confronti perché non hanno ben compreso il discorso sul pane, bensì un “aut, aut” che egli pone loro e che avrà come esito finale la loro defezione. Il pronome “Questo” infatti non si riferisce al discorso, poiché se così fosse sarebbe posto al maschile (Oátoj, Ûtos) e non al neutro (Toàto, Tûto) come invece è posto. Gesù dunque chiede ai suoi discepoli se lui, la sua persona, la sua missione, la sua predicazione e la sua opera sono per loro motivo di scandalo. Tutto ciò è espresso in quel “Toàto”. Del resto la critica mossa dai discepoli lasciava trasparire molto di più del giudizio di durezza posto sul discorso del loro Maestro: “chi può ascoltarlo?”. È proprio su questa seconda battuta che va a cadere l'accento e che porta allo scoperto la loro sostanziale incredulità e la loro sfiducia in Gesù. Essi non sono più disponibili al suo ascolto. Non a caso Giovanni, riferendosi ai discepoli, usa lo stesso verbo che ha usato per descrivere le contestazioni e l'incredulità della folla verso Gesù, associandoli in tal modo alla sua stessa incredulità e inintelligenza: goggzw (gonghízo), che significa mormorare, brontolare, borbottare, parlottare e che denuncia tutta la loro insoddisfazione nei confronti di Gesù; una mormorazione che richiama da vicino le contestazioni di Israele rivolte a Dio, che lo stava provando nel deserto nei suoi bisogni essenziali del mangiare e del bere, bisogni che mettevano in discussione la sua stessa esistenza (v. pag.44).

Con il v.62 Gesù spinge oltre la sua offensiva contro l'incredulità dei suoi discepoli: “Se dunque vedeste il figlio dell'uomo che sale dov'era prima?”. Una frase un po' oscura, quasi una forzatura; una frase che sembra tronca, buttata lì, certamente inaspettata, ma che va compresa nel contesto in cui è posta. Gesù si trova di fronte a discepoli che lo stanno contestando per la durezza del suo discorso (v-60); essi sono disorientati (v.61) costretti ad abbandonare i propri schemi mentali per accedere ad un Mistero che va solo creduto e non ragionato, perché fuori dalla portata umana. Gesù, quindi, dice loro che se si scandalizzano per il discorso del pane, simbolo della sua corporeità vivente, come potrebbero reggere quando saranno chiamati a ragionare, a riflettere e a investigare72 su altri misteri più elevati, quali la sua divinità, significata in quel “salire dov'era prima”, con cui si indica la sua coeternità con il Padre, da cui è stato inviato (vv.29.38.39.44.57), da dove è uscito (8,42; 16,28a.30; 17,8) e disceso dal cielo (vv.3,13; 6,38.41.42.51.58), proponendosi quale Pane di vita per gli uomini. Diventa un'impresa impossibile accedere a cose ardue se quelle più semplici li scandalizzano. Un interrogativo che richiama da vicino il dialogo con Nicodemo (3,1-10), dove alle sue resistenze Gesù risponde: “Se vi ho detto le cose terrene e non credete, come crederete qualora vi dicessi quelle celesti?” (3,12). In altre parole, Gesù, là come qui, sta parlando agli uomini attraverso una simbologia umana (“le cose terrene”), da loro facilmente comprensibile: acqua, vento, nascere, rinascere nel racconto di Nicodemo; acqua viva in quello della Samaritana (4,7-15); pane, carne e sangue, mangiare e bere qui al cap.6. Simboli a cui Gesù lega realtà divine diversamente non raggiungibili né esperibili dagli uomini; realtà queste che vanno soltanto credute per poter superare la limitatezza umana. Ma Gesù nel contempo offre anche le sue credenziali attestando la sua divinità e pertanto la sua credibilità. In Nicodemo afferma che “nessuno è salito al cielo se non colui che dal cielo è disceso, il Figlio dell'uomo” (3,13); nel racconto della Samaritana si lascia cogliere come “il profeta (4,19), il messia (4,25-26.29) e salvatore del mondo” (4,42); mentre qui, al v. 62, suggerisce la sua divinità fin dall'eternità (“dov'era prima”). Soltanto la fede dunque consente di raggiungere il Mistero che vive in Gesù, rivelatosi in lui e conoscibile soltanto attraverso la sua parola creduta ed accolta, poiché la carne è del tutto inadeguata. Sarà questo il tema del v.63.

Il v.63 costituisce il cuore dell'intera pericope (vv.60-66), tutta dedicata all'incredulità dei discepoli: “È lo spirito che dà la vita, la carne non giova niente; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. Si tratta di una attestazione dai ritmi sapienziali e sentenziali, che viene scandita in due parti: la prima è un'affermazione di principio, che introduce il tema dello spirito, della vita e della carne; la seconda riprende il tema della prima, ma lo trasforma, riferendolo alle parole di Gesù. Un versetto quindi scandito in due tempi che innescano una evoluzione tematica.

Spirito e carne costituiscono un'accoppiata che compare in tutta la Bibbia 28 volte, 6 nell'A.T. e 22 nel N.T. e sono tra loro sempre contrapposti. La carne viene indicata come l'elemento debole ed effimero, che caratterizza il vivere dell'uomo e ne dice tutta la fragilità e la pochezza. Essa non viene mai indicata come principio di vita, ma come elemento bisognoso dello spirito per poter vivere (Gen 2,7; Ez 37,1-5.10). Essa dunque non contiene in se stessa la vita, bensì la riceve dallo spirito e la trattiene in se stessa solo per un breve periodo di tempo (Gen 6,3), segno della sua fragilità e della sua inconsistenza. Il Salmista medita sulla triste condizione dell'uomo e paragona la fragilità e il tempo del suo vivere all'erba del campo: “sono come l'erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca” (Sal 89,5b-6). Significativa, in quanto riassume in sé il senso biblico di spirito e carne, è la sentenza con cui Gesù si rivolge ai suoi intimi nell'orto del Getsemani “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41b; Mc 14,38b). “Pronto” e “debole” due attributi che definiscono rispettivamente la natura dello spirito e della carne; il primo è reso in greco con “prÒqumoj” (prítzimos) che significa ardente, pieno di vigore, coraggioso, alacre; il secondo con “¢sqen»j” (astenés) che dice l'essere senza vigore, debole, fiacco, malaticcio, infermo. In Paolo il binomio spirito-carne diviene metafora e simbolo del nuovo modo di vivere in Cristo, contrapposto al vecchio modo di vivere senza Cristo73 e ne enumera i rispettivi frutti74. Due realtà che si coniugano nell'uomo, ma che obbediscono a principi diversi, contrapposti, che li rendono inconciliabili e irriducibili l'uno all'altro, perché appartenenti a dimensioni completamente diverse. Ed è proprio il Gesù giovanneo, nel dialogo con Nicodemo, che evidenzia l'inconciliabilità dei due diversi mondi: “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (3,6). Sarà soltanto la risurrezione di Gesù a riconciliare la caducità della carne, trasformata dalla potenza dello Spirito, con le realtà spirituali, riconducendola alla sua originaria condizione di vita, allorché rivestita dello Spirito di Dio, divenne vivente, partecipe della stessa vita divina (Gen 2,7).

Entro questa cornice biblica si inserisce il v.63a in cui si attesta che è lo spirito a dare la vita. Essa dunque appartiene per eccellenza allo spirito e da questi è generata; uno spirito che è per sua natura sorgente instancabile di vita, proprio perché esso appartiene al mondo di Dio e ne è costitutivo; contrariamente alla carne soggetta al divenire sgretolante dello spazio e del tempo. Per questo essa non giova a nulla, perché intrinsecamente segnata dalla morte, cioè priva dell'alito di vita divina, di cui un tempo era rivestita. Ma questo dice anche, ed è questo in definitiva il messaggio del v.63, che l'uomo di fronte al dispiegarsi del Mistero deve fare un salto qualitativo, che lo vede superare le logiche limitanti della carne e fare proprie quelle dello spirito, l'unico in grado di introdurlo nel Mistero che si sta manifestando in Gesù e in lui opera.

Il v.63b sembra riprendere il v.63a, ma in realtà Giovanni, con un gioco di parole, opera una trasformazione sostanziale: “le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. Si era detto come lo spirito è generatore della vita, in contrapposizione alla carne, priva di questa prerogativa. Ora l'autore scinde lo spirito dalla vita e ne fa due realtà distinte (“sono spirito e sono vita”), che vengono identificate con le parole di Gesù. Sono queste che sono spirito e sono vita. La sorgente primaria della vita che prima era incentrata nello spirito, ora viene decentrata nelle parole di Gesù, che divengono per ciò stesso, a loro volta, sorgenti primarie sia dello spirito che della vita. Spirito e vita definiscono quindi la natura stessa delle parole di Gesù. Non stupisce come le parole di Gesù siano definite come spirito e come vita, poiché queste parole sono espressioni del manifestarsi e dell'agire di quel Logos eterno che Giovanni contempla nella sua eternità divina e che pone al principio di tutto (1,1-2) e da cui tutto dipende (1,3). Il testo greco definisce queste parole come “r»mata”, che nella Settanta acquista anche il significato di “cosa”, “azione”75, ed ha il suo corrispondete ebraico in “dabar”, che definisce la parola come azione. La parola di Jhwh per l'ebreo non è un semplice flatus vocis, ma dice l'agire stesso di Dio che opera per mezzo della sua Parola, da cui è sgorgata la creazione (Gen 1,3-31; Sap 9,1). L'autore della Lettera agli Ebrei definisce la Parola come un essere vivente, che produce ciò che dice con grande potenza penetrativa (Eb 4,12); un'efficacia che con un'immagine poetica viene sottolineata anche da Isaia: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata” (Is 55,10-11).

Le parole di cui qui si parla sono quelle “che io vi ho detto” (§ ™gë lel£lhka, à egò leláleka). L'uso del verbo al perfetto indicativo (leláleka) dice uno stato di cose presenti che risulta come conseguenza di un'azione posta ne passato. Lo stato di cose presenti si riferiscono al pronome “io” (egò), che qui viene enfatizzato per indicare come questo “io” sia la fonte di queste parole dette, in cui l' “io” si rivela e si manifesta. A quali parole si fa qui riferimento? Sono parole di cui si sono scandalizzati e quindi in qualche modo sono legate alla domanda che Gesù ha posto ai suoi: “Questo vi scandalizza?” in cui il pronome dimostrativo “Questo”, posto al neutro, si riferisce, come già si è detto sopra (pag.59), all'azione missionaria, parole ed opere, di Gesù. Le parole quindi a cui Gesù fa qui riferimento sono inerenti alla sua predicazione e vanno intese come esplicitazione e manifestazione dell'Io che le ha dette.

Il v.63, pertanto, posto all'interno di una pericope incentrata sull'incredulità dei discepoli, diviene un suo elemento di rottura, ma nel contempo è un'esortazione a lasciarsi plasmare dalle parole di Gesù che sono Spirito, perché provengono da Dio e sono capaci di vincere i limiti di una carne che porta in se stessa il segno della propria sconfitta, la morte; ma nel contempo sono anche vita, perché datrici e rivelatrici della vita divina che si manifesta e si dona in Gesù. Sono parole che non comunicano delle idee, dei concetti o spingono a formulare delle ideologie o filosofie, ma operano una trasformazione in chi le accoglie, poiché esse sono l'agire stesso di Dio (8,51); mentre sono poste come giudizio di condanna su chi le rifiuta: “Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno” (12,48)76.

I vv.64-65 riprendono e portano a conclusione il tema dell'incredulità dei discepoli (vv.60-62), ne ricercano le cause (v.65) e nel contempo preparano l'amaro e traumatico finale di questa pericope, tutta dedicata al rifiuto di credere dei discepoli: l'abbandono della sequela (v.66).

Il v.64 è scandito in due parti: la prima è una denuncia da parte di Gesù contro l'incredulità di alcuni dei suoi (tinej, tines), che poi al v.66 l'autore dirà essere “molti” (polloˆ, polloì). Gesù porta allo scoperto gli increduli accusandoli di “non credere”. In Giovanni il verbo credere è quasi sempre seguito da particelle che specificano il senso del credere o del non credere77; in questo caso il verbo è preso in senso assoluto, cioè non accompagnato da nessuna particella che ne specifichi il senso, lasciando in tal modo intendere come la loro incredulità sia profondamente radicata e che anzi denunci una loro generale incapacità a credere e quindi vi è nei discepoli un'assenza di disponibilità nei confronti di Gesù, che si concluderà con il loro abbandono.

La seconda parte del v.64 riprende il tema della superiorità di Gesù, che nonostante l'incredulità e l'abbandono da parte dei suoi, rimane sempre il Signore dominatore degli eventi e della storia: “Gesù, infatti, sapeva da principio chi sono quelli che non credono e chi è colui che lo avrebbe tradito”. Quel sapere fin da principio rimanda alle origini (™x ¢rcÁj, ex archês) della chiamata e della sequela dei discepoli. Non ci fu dunque un errore di valutazione da parte di Gesù, ma il compiersi di un disegno salvifico che passa anche attraverso l'abbandono e il tradimento (18,11; 19,28.30). Tuttavia qui Giovanni aggiunge un elemento nuovo e inedito: non ci si sofferma più soltanto sull'incredulità dei discepoli, ma anche viene annunciato, per la prima volta, il tradimento di uno di questi, che verrà ricordato nuovamente in chiusura di questo capitolo (vv.70-71). Pane, carne, sangue, mangiare, tradimento e traditore sono tutti elementi strettamente legati tra loro e che creano di fatto il contesto dell'ultima cena, in cui è collocato il pane di vita.

Il v.65 riprende sostanzialmente identico il v.44, in cui “l'attirare del Padre verso Gesù”, si trasforma qui al v.65 in “dono che viene dal Padre” (dedomšnon aÙtù ™k toà patrÒj, dedoménon, autô ek tû patrôs), non più visto come “colui che mi ha mandato” come nel v.44, ma come origine originante ogni dono. L'andare verso Gesù dunque non è frutto della volontà umana, né della sua determinazione, ma di una forza spirituale che attrae e si dona all'uomo, poiché “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (3,6); infatti “È lo spirito che dà la vita, la carne non giova niente” (v.63a). Con quel “nessuno può venire verso di me” viene dunque dichiarata l'impotenza dell'uomo nei confronti del mondo dello Spirito e della sua impossibilità a raggiungerlo se Dio, in vario modo, non gli tende la mano.

Il v.66 presenta l'amara e triste conclusione di una incredulità invincibile: “Da questo (momento) molti tra i suoi discepoli se ne tornarono indietro, e non camminavano più con lui”. Tre gli elementi che descrivono questo abbandono. Il primo è l'espressione “Da questo (momento)”, reso in greco con “'Ek toÚtou” (ek tútu), letteralmente: “Da questo”, a cui nella mia traduzione ho dato un senso temporale, ma che tuttavia non esclude un senso causativo; la particella “ek” infatti non indica soltanto l'origine, ma anche la causa. Quel “ek tútu” quindi dice il motivo per cui essi lasciarono Gesù: “a causa di tutto ciò”, con riferimento sempre alla questione iniziale posta da Gesù: “Questo vi scandalizza?” (v.61). Il motivo del loro abbandono quindi viene fatto risalire al manifestarsi progressivo della persona di Gesù, durante il compiersi della sua missione. La decisione della sequela iniziale va continuamente rielaborata, ricompresa e rimotivata alla luce del continuo disvelarsi di Dio nella storia e non può mai essere data come scontata. Ogni evento interpella il credente e gli chiede di ricomprendere la sua scelta di fede all'accadere delle cose, a cui egli è chiamato a dare, di vola in volta, la sua risposta.

Il secondo elemento è l'espressione “se ne tornarono indietro”, letteralmente il testo greco dice “se ne tornarono alle cose indietro” (¢pÁlqon e„j t¦ Ñp…sw, apêltzon eis tà opíso); in altri termini tornarono a quello che fu il loro passato, dichiarando in tal modo la loro delusione e il loro fallimento, nati dalla loro inintelligenza del Mistero che si stava disvelando loro. È lo stesso comportamento che Pietro e il discepolo che Gesù amava tennero di fronte alla scoperta della tomba vuota: “I discepoli dunque se ne tornarono di nuovo presso di loro” (20,10), perché, commenta l'evangelista, “non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti” (20,9). Similmente accadde ai due discepoli di Emmaus, che dopo i tragici eventi del Golgota si stavano allontanando da Gerusalemme, mossi dalla delusione (Lc 24,15-21), perché erano incapaci di vedere nel Mistero che si stava svolgendo davanti a loro (Lc 24,16.21). Anch'essi stavano tornando indietro. Dietro all'involuzione ci sta dunque sempre un'incapacità di leggere le cose, che costituisce la spinta spirituale evolutiva.

Appare qui, non senza un'amara punta di ironia tutta giovannea, l'avverbio “opíso”, che nei racconti evangelici e in particolar modo in Giovanni, è l'avverbio proprio della sequela, che dice “l'andare dietro” a Gesù. Ironicamente e amaramente viene usato per indicarne l'allontanamento verso le cose di prima. Vi è dunque un cambio di orientamento esistenziale.

Il terzo elemento è l'espressione conclusiva “oÙkšti met' aÙtoà periep£toun” (ukéti met'autu periepátun). Il verbo “periepátun” significa muoversi attorno, girare attorno e quindi un muoversi nell'area gravitazionale di Gesù, in consonanza con lui (met'autu), che caratterizza il vivere del discepolo. Tutto questo, dice l'avverbio “ukéti” (“non più”), ora, non avviene più e il verbo all'imperfetto indicativo dice la persistenza e la definitività di questo allontanamento.

Un versetto, il 66, molto pesante che descrive di fatto la morte del discepolato non solo come un porsi fuori dall'area vitale di Gesù, ma anche come un'involuzione spirituale, che relega il discepolo nell'oblio della morte, quale conseguenza del suo rifiuto.

I vv.67-71 presentano il secondo quadro narrativo, tutto dedicato ai Dodici, e riportano una solenne professione di fede da parte loro, accompagnata dall'ombra del tradimento, che si annidava anche all'interno del gruppo scelto. Nessuno dunque è esente dalla defezione; non vi sono persone o gruppi privilegiati. Il seguire Cristo, in ultima analisi, interpella sempre e continuamente l'intimo di ogni persona e ogni risposta non è mai quella definitiva.

Anche questa breve pericope si apre, parallelamente alla prima (v.61), con una domanda di Gesù, qui rivolta ai Dodici. La struttura narrativa e tematica di questa pericope, benché elaborata in modo tutto giovanneo, richiama da vicino l'episodio della confessione di Pietro nei Sinottici78. Qui come là Pietro rende, a nome dei Dodici, la sua solenne professione di fede, seguita subito dal racconto dell'annuncio della passione79, che ha qui il suo parallelo nei vv.70-71, dove questa è richiamata dalla citazione di Giuda e del suo tradimento.

Compare qui per la prima volta il titolo “Dodici”, che in Giovanni si ripete complessivamente soltanto quattro volte, tre in questa pericope e una quarta in 20,24. Più frequente e più diffuso invece nei Sinottici: 8 volte in Mt, 12 in Mc e 7 in Lc, che lo citerà per per un'ultima volta negli Atti (v.6,2). Anche Paolo nel suo elenco dei testimoni delle apparizioni del Risorto citerà i Dodici (1Cor 15,5). Il termine Dodici era ormai diventato una sorta di titolo con cui si indicava il gruppo di riferimento all'interno di una chiesa che ormai si era istituzionalizzata. L'autore dell'Apocalisse li vedrà come il fondamento della nuova Gerusalemme (Ap 21,14). Il fatto che Giovanni citi il titolo soltanto così poche volte sta ad indicare che tra la chiesa istituzionalizzata, raffigurata nei Dodici, e la sua comunità carismatica, che riconosceva in lui e nello Spirito Santo l'unico autentico magistero, non correva buon sangue80. Lo si arguisce dal ricorrente confronto tra Pietro e il discepolo prediletto, da cui il primo se ne esce sempre perdente nei confronti del secondo; e similmente anche qui quando compare il titolo “Dodici” vi è l'immancabile sottile polemica, che punta a sminuirne l'immagine, anche se questo non è l'intento principale dell'autore; ma l'occasione comunque non se la lascia scappare. Qui infatti viene sottolineato il tradimento di Giuda, “uno dei Dodici”, ci tiene a precisare; e così in 20,24 quando si parla della persistente incredulità di Tommaso, anche qui, definito “uno dei Dodici”.

I vv.67-68 riportano il dialogo tra Gesù e i Dodici. Si è giunti qui all'ultimo passaggio in tema di credibilità di Gesù presso i suoi ascoltatori e i suoi seguaci; l'ultimo baluardo. Dapprima Giovanni infatti presenta la reazione perplessa e disorientata della folla al discorso di Gesù (vv.30.36.41-42.52); poi passa a quella traumatica dei discepoli (vv.60-61.64.66) e infine, qui, ultima spiaggia, i Dodici. Soltanto qui si ha un'autentica dichiarazione di fede, anche se questa è adombrata dalla presenza del tradimento (vv.70-71).

Il v.68 vede emergere la figura di Pietro quale portavoce del gruppo. I verbi infatti sono tutti alla prima persona plurale, segno che Pietro sta parlando anche a nome degli altri. Egli si rivolge a Gesù con il titolo di “Signore”, di chiara marca postpasquale. La domanda che egli pone a Gesù è chiaramente retorica e lascia intendere che Gesù è l'unico polo catalizzatore della loro scelta esistenziale. La domanda contiene in sé una venatura polemica lanciata contro l'abbandono degli altri discepoli, di cui al v.66. Il verbo usato per indicare la defezione al v.66, infatti, è identico a quello della domanda di Pietro: “¢pšrcomai” (apércomai), ma viene usato in senso contrapposto al primo. Al v.66 i discepoli se ne tornano indietro (¢pÁlqon, apêltzon), mentre qui nella domanda di Pietro se ne vanno verso Gesù (¢peleusÒmeqa, apeleusómetza). Un movimento uguale, ma contrario.

La seconda parte della risposta di Pietro fornisce la motivazione del loro rimanere: “(Tu) hai parole di vita eterna”. Si tratta di una dichiarazione solenne, che Giovanni mette in bocca a Pietro e che di fatto egli suggerisce alla sua comunità dubbiosa. Una risposta che riecheggia in sé quella del v.63b: “le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. L'aggancio ai due versetti è dato dal termine “parole” (r»mata, rémata), così che l'affermazione sulle parole di Gesù, definite “di vita eterna” va a completare quella del v.63b. Pertanto si avrà che le parole di Gesù sono spirito e sono vita, cioè parole di vita eterna, che in Giovanni indica la vita stessa di Dio. Queste parole pertanto portano in loro stesse la veridicità e la potenza di Dio stesso.

Il v.69 costituisce il cuore della pericope e presenta una solenne attestazione di fede da parte dei Dodici, che sta a fondamento dell'intero cap.6; un capitolo tutto agitato da dubbi e da incredulità, ma che trova qui la sua ancora di certezza: “e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio”. Il versetto narrativamente crea uno stacco netto all'interno della pericope, ponendosi in tutta evidenza al lettore; e benché il versetto faccia parte della risposta di Pietro, tuttavia la voce e la figura di quest'ultimo scompaiono dietro a quel “noi” così perentorio. Si tratta di un “noi” enfatico ed enfatizzato, dietro il quale si sente la voce della comunità giovannea che solennemente fa la sua attestazione di fede in Gesù, riconoscendolo come “il Santo di Dio”; un'espressione che va ben al di là di un titolo messianico, anche se tuttavia non raggiunge la pienezza di “Figlio di Dio”. La santità nella Bibbia è uno stato, una condizione di vita e del vivere proprio di Dio, che dice la totale diversità che separa l'uomo da Dio e ne misura tutta la distanza (Nm 23,11; Os 11,9). Essa è espressa significativamente e simbolicamente ai piedi del monte Sinai da quella linea demarcatoria e insuperabile, pena la morte, che separa il popolo da Dio (Es 19,12). Una santità che ha anche delle ricadute morali sul credente nel suo rapportarsi a Dio, che in Lv 19,2 viene esortato alla santità, anche se si tratta di una santità intesa soltanto come corretta esecuzione della Torah81: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” L'espressione “Santo di Dio” nell'A.T. viene usata per indicare lo stato di consacrazione e di appartenenza a Dio, che rende il suo servo sua speciale proprietà e sul quale posa la sua potenza, che si manifesta in lui82. Il titolo, riferito a Gesù, si trova nel N.T., in questa forma, soltanto altre due volte nei passi paralleli di Mc 1,24 e Lc 4,34, in cui il titolo è riferito a Gesù da spiriti immondi. È strano questo accostamento, certamente non casuale, che Giovanni fa tra Pietro e lo spirito immondo, che Luca definisce demonio (Lc 4,33). Anche Gesù definirà Pietro un “Satana” quando questi si oppone all'annuncio della sua passione (Mt 16,3; Mc 8,33). Una forma più semplice, che si trova anche in At 3,14 e in Ap 3,7; 16,5, è il titolo di “Santo”, rivolto sempre a Gesù per definirne l'appartenenza a Dio.

A questa comprensione i Dodici sono giunti attraverso un cammino indicato dai due verbi: “pepisteÚkamen kaˆ ™gnèkamen, pepisteúkamen kaì egnókamen”, “abbiamo creduto e abbiamo conosciuto” in cui il secondo verbo, che indica non tanto una conoscenza intellettiva o intellettuale, quanto piuttosto un'esperienza del Verbo Incarnato83, trova la la sua origine e sua giustificazione nell'aver creduto. All'origine dell'esperienza del divino dunque ci sta la fede, cioè l'accoglienza del Verbo della Vita nella propria esistenza (1,12-13). Vi è qui uno strano accostamento di tempi verbali: il primo (pepisteúkamen) è al perfetto indicativo e definisce uno stato presente quale conseguenza di un'azione posta nel passato; il secondo verbo (egnókamen) è un aoristo ingressivo che colloca l'esperienza del Verbo Incarnato al nascere della fede. Un'esperienza che viene ricordata anche in 1Gv 1,1-4. Si tratta quindi di un richiamo che l'autore fa alla propria comunità di ritornare alle origini della loro primitiva esperienza di quella fede che ancor oggi li caratterizza come credenti e che, sola, è capace di consentire loro l'esperienza del Risorto in quel Pane di Vita e generatore di vita eterna.

Con i vv.70-71 l'attenzione del lettore viene spostata dalla professione di fede data da Pietro a nome dei Dodici (vv.68-69) ad un indiretto richiamo alla passione. Viene dunque rispettato lo schema narrativo dei Sinottici, che dopo la professione di fede di Pietro a Cesarea di Filippo fanno seguire il primo annuncio della passione di Gesù. Questo richiamo alla passione di Gesù citando il tradimento d Giuda, già lo si è detto sopra (v. pag.62, commento al v.64b), evoca, assieme al pane, carne e sangue, mangiare e bere il contesto dell'ultima cena con cui si chiude questo lungo cap.6 tutto incentrato sul Pane della Vita, che l'insieme del racconto, in particolar modo la seconda parte del discorso di Gesù (vv.48-58), invita a leggere come il pane eucaristico.

Il v.70 affronta apertamente per la prima volta la questione del tradimento: “Rispose loro Gesù: <<Non ho scelto io voi, i Dodici? Eppure uno tra voi è un diavolo>>”. Appare qui inaspettata l'affermazione del Gesù giovanneo che attesta di aver scelto lui i Dodici. Ma in nessuna parte del vangelo si legge un simile racconto. La chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, fatto seguire dall'elenco di nomi, è di esclusiva tradizione sinottica84. Forse Giovanni qui, a modo suo, ha voluto riconoscere in qualche misura l'autorità del gruppo, ormai così istituzionalizzato e così conosciuto dalla chiesa primitiva. Probabilmente un riconoscimento tardivo da parte della comunità giovannea, seguito alla morte del discepolo prediletto, dopo la quale vi fu una riconciliazione con la chiesa istituzionalizzata; e da qui l'aggiunta del cap.21 da dove traspare per la prima volta il primato petrino85.

Il v.71 per la prima volta presenta in modo circostanziato la figura di Giuda, del quale ci viene presentata la paternità e il tradimento, con cui il discorso sul pane viene legato alla passione e morte di Gesù, che qui per la prima volta, anche se in modo indiretto, vengono annunciate: “Ora, diceva di Giuda, (figlio) di Simone Iscariota; questi, infatti, uno dei Dodici, stava per consegnarlo

Una particolare attenzione va riservata a questa figura di apostolo così controversa e divenuta proverbialmente negativa. Ma fu veramente così?

Il nome di Giuda compare negli Scritti neotestamentari 23 volte ed è comunemente conosciuto con l’appellativo di “traditore”86. Egli era figlio di un certo Simone l'Iscariota (Gv 6,71; 13,2.26). Con tale soprannome Giuda verrà citato 10 volte nei vangeli. Iscariota è la forma grecizzata dell’ebraico “is Qeriyyot”, cioè “uomo di Kerioth87”. Questa precisazione geografica è da preferirsi a quella che nel soprannome vede una grecizzazizone del termine latino sicarius, cioè “uomo della sica88”, che spinge a vedere in Giuda un seguace del movimento zelota. Altre interpretazioni recenti89 vedono nel nome una grecizzazizone dell’aramaico sheqar (mentitore, falso, traditore). In ogni caso, rimane, a nostro avviso, sempre più appetibile la soluzione geografica, considerato che Giovanni nel suo vangelo applica, per la prima volta nella sua opera, il soprannome Iscariota non a Giuda, ma a suo padre, Simone (Gv 6,71a), probabilmente per indicarne la provenienza, più che per definirne qualità morali o tendenze politiche. Dal padre, quindi, Giuda erediterà tale soprannome, che indicherà anche per lui la sua origine.

La figura di Giuda, per ovvi motivi, non è ben vista dai vangeli, in particolar modo in quello di Giovanni. Infatti, mentre i Sinottici si limitano a citare il nome di Giuda soltanto negli elenchi apostolici e nei racconti della passione, riportando di lui soltanto la sua appartenenza al Gruppo e il suo misfatto, Giovanni, lungo lo svolgersi del suo racconto, ne traccia gradualmente l’identità. Dapprima lo cita in modo anonimo, precisandone soltanto la natura demoniaca: “Rispose Gesù: […] Eppure uno di voi è un diavolo!" (Gv 6,70). Nel versetto immediatamente seguente ne cita il nome, ne definisce la paternità, l’origine geografica e la sua appartenenza al gruppo dei Dodici, imprimendogli fin da subito il triste marchio di traditore: “Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici” (Gv 6,71); successivamente ne traccia l’identità morale e il ruolo che ricopriva all’interno del Gruppo: “Questo egli disse non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (Gv 12,6); precisa poi come il diavolo fosse il suo vero consigliere: “Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo” (Gv 13,2); e, infine, presenta Giuda come un vero e proprio posseduto dal demonio, uno strumento operativo nelle sue mani: “E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. […]” (Gv 13,27). Da questo momento Giuda uscirà dal Gruppo dei Dodici ed entrerà nella notte del tradimento e delle potenze del male, a cui egli appartiene per sua natura (Gv 6,70): Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). L’ultimo accenno Giovanni glielo riserva nel momento in cui Giuda compare davanti a Gesù, schierato con i suoi nemici: “Vi era là con loro anche Giuda, il traditore” (Gv 18,5b). Da questo momento in poi l’evangelista calerà una cortina di silenzio, lasciando Giuda al suo triste e drammatico destino, avvolto nelle tenebre della notte.

Giuda, presente in tutte le liste sinottiche, è sempre posto alla fine dell’elenco, contrariamente a Pietro, che invece è posto in cima a tutte le liste. Su di lui Matteo e Marco fanno pesare una sorta di maledizione divina, mettendo sulle labbra di Gesù la comune espressione: “Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo è tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!” (Mc 14,21; Mt 26,24). Quanto questa espressione sia vera o una mera inserzione redazionale non ci è dato di sapere. Va tuttavia ricordato che Gesù ebbe parole di perdono per tutti quelli che avevano contribuito alla sua morte (Lc 23,34). Lo stesso Giuda, che lo aveva tradito, di certo non si aspettava una simile conclusione del suo tradimento. In tal senso è significativo quanto riporta Matteo: “Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: "Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Ma quelli dissero: "Che ci riguarda? Veditela tu!". Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi” (Mt 27,3-5). Ci fu, dunque, da parte di Giuda un pentimento e un atroce e insopportabile rimorso per il suo gesto, che lo porterà al suicidio. Benché l’episodio si trovi soltanto in Matteo, tuttavia esso deve essere verosimile, se anche Luca nei suo Atti ne fa accenno: “Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere. La cosa è divenuta così nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, che quel terreno è stato chiamato nella loro lingua Akeldamà, cioè Campo di sangue” (At 1,18-19).

Se c’è stata una salvezza per gli uomini, di certo ci fu anche per Giuda, poiché in lui ci furono tutti i segni del pentimento e della conversione. Non fu da meno, su di un piano morale, Pietro che rinnegò ripetutamente il suo Maestro (Mt 26,34.75), a cui aveva giurato, poco prima, fedeltà fino alla morte assieme a quelli del Gruppo (Mt 26,33.35); non furono da meno gli altri discepoli, che non hanno saputo vegliare con il loro Maestro (Mt 26,40) e di fronte al pericolo lo hanno abbandonato a se stesso (Mt 26,56; Mc14,50); non lo furono da meno, ancora una volta, sempre loro, i discepoli, che di fronte al Risorto, persistevano nella loro incredulità (Mt 28,17; Lc 24,25; Gv 20,25.27). Eppure Gesù era stato molto chiaro su questo punto, in tema di testimonianza: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,33-34; Lc 12,8-9; 2Tm 2,12). Giuda, in ultima analisi, si riscatta nel dare la sua testimonianza a favore di Gesù davanti ai sacerdoti: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. Con ciò dichiara l’innocenza di Gesù e la pienezza della sua colpa. E la sincerità della sua testimonianza è confermata dallo spargimento del proprio sangue. Così, similmente, tutti i discepoli di Gesù avranno modo di riscattare la loro fragilità umana, di quella notte disgraziata e drammatica, con una testimonianza tale che li porterà a versare il loro sangue per Gesù.


Giovanni Lonardi


N O T E


1Cfr. Mt 14,16.19c.22; Mc 6,37.39.41.-

2Sulla questione si cfr. l'ampio studio del R.E. Brown in Giovanni, op. cit.

3Cfr. pag.1 del presente commento e pag.6 del commento ai vv. 5,1-9, nonché a pag.90 della Parte Introduttiva della presente opera.

4Per un maggiore approfondimento della questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera a pag.90

5La città di Tiberiade fu costruita da Erode il Grande (73-4 a.C.) con grande sfarzo in onore dell'imperatore Tiberio (42 a.C.-37 d.C.), suo protettore, verosimilmente tra il 17-20 d.C. probabilmente per festeggiare i sessantanni di età dello stesso. La cosa non passò inosservata a Giuseppe Flavio che in Antichità Giudaiche così la ricorda: “Il tetrarca Erode aveva conquistato un posto così eminente tra gli amici di Tiberio che nella più bella regione della Galilea, sulla riva del lago di Genezareth, edificò una città alla quale diede il nome di Tiberia; non lungi da essa, in un paese detto Ammato, vi è una sorgente di acqua calda. I nuovi abitanti erano gente promiscua, un contingente non piccolo era galileo; con costoro vi erano altri tratti dal territorio a lui soggetto e portati a forza alla nuova fondazione; alcuni di costoro erano magistrati. Erode accolse tra i partecipanti anche povera gente che era portata a unirsi agli altri, qualunque fosse la loro origine; vi era pure il dubbio se fossero veramente liberi; ma costoro spesso e con larghezza li beneficava (imponendo loro la condizione di non abbandonare la città), li gratificava di case, a sue spese, con l'aggiunta anche di nuove donazioni 643 in terreni. Egli sapeva che questo era un insediamento contrario alla legge e alla tradizione dei Giudei perché Tiberia era stata costruita su di un sito cimiteriale spianato, e qualche sepolcro era ancora là. La nostra legge dice che chi abita tali insediamenti è impuro per sette giorni.” (Ant.Jud. XVIII, 36-38 ).

6Il lago di Tiberiade è ricordato con questo nome solo da Giovanni (6,1; 21,1), mentre Matteo e Marco parlano genericamente di “mare della Galilea” (Mt 4,18; 15,29; Mc 1,16; 7,31) e similmente Gv in 6,1, che precisa subito, però, trattarsi di “quello di Tiberiade”. Solo Luca, che si rivolge ad una comunità greca erudita, parla con precisione di “lago di Genezaret” (l…mnhn Gennhsaršt, límen Ghennesarét). Per tutti gli altri evangelisti il lago è definito genericamente con l'appellativo di “mare”, tradendo in tal modo la loro origine ebraica. Infatti in ebraico il termine “yam” significa sia il mare che una grande estensione di acque interne, come il lago. Ancor oggi nell'ebraico moderno il lago è chiamato ufficialmente “Yam Kinnæræt”. Nella fattispecie il mare o lago di Tiberiade o della Galilea o di Genezaret ha una lunghezza di 21 Km e una larghezza di 12 Km; la sua superficie misura 170 Km quadrati e il punto più profondo va tra i 42 e i 48 mt. - Cfr. la voce “Genezaret, Lago di” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

7Per un maggiore approfondimento del verbo “vedere” nella sua molteplice significanza in greco, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera – pagg. 80-83.

8Cfr. Mt 17,1.19; 20,17; 24,3; Mc 6,31.32; 8,32; 10,32; 13,3; Lc 10,23

9La celebrazione cultuale della Cena del Signore ha origini antichissime e si colloca quasi certamente nell'immediato postea del Gesù storico. Paolo nella sua 1Cor 11,17-22 ne dà testimonianza riprendendo il comportamento dissacrante che la sua comunità di Corinto teneva in queste cene cultuali. L'epoca in cui Paolo scrive questa lettera è intorno all'anno 55, quindi circa 25 anni dopo la dipartita di Gesù. Un tempo molto breve e già questo culto della cena del Signore era diffuso nel mondo greco. Questo lascia pensare come la sua formulazione rituale sia molto antica. Ma ciò che meglio attesta tale antichità è quanto Paolo scrive subito dopo: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: <<è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me>>. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: <<Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me>>. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1Cor.11,23-27). Paolo dice di aver ricevuto, rifacendosi in tal modo direttamente ad una Tradizione ormai consolidatasi e alla quale egli si conforma (“quello che a mia volta vi ho trasmesso”). Egli probabilmente lo ha ricevuto intorno all'anno 36 circa, epoca della sua conversione, dopo la quale rimase all'interno delle comunità credenti per un decennio circa, dove apprese i rudimenti della nuova fede, che egli stava perseguitando. Tutto ciò si colloca a circa 6 anni dopo la risurrezione di Gesù. Ma se si analizza attentamente la formula eucaristica (vv.23b-26) si rileva una ritualità liturgica e cultuale consolidatasi ormai da molto tempo, la quale cosa ci riporta a ridosso della fine storica di Gesù e il suo proseguimento nella Chiesa credente e celebrante. Quando quindi Giovanni scrive il cap.6 il culto della Cena del Signore era ormai ampiamente diffuso, ma probabilmente molti dubbi e incertezze sussistevano attorno alle pretese di quel pane e di quel vino, corpo e sangue di Gesù.

10Cfr. Gv 2,6.13; 5,1; 6,4; 7,2; 11,55; 19,42

11Sul significato del nome “Giudei” nel racconto giovanneo si cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag.61.

12Cfr. Gen 13,10; 2Sam 18,24; 1Cr 21,16; Prv 30,13; Is 60,4a; Ez 18,6; Zc 2,1; Mt 17,8; Lc 6,20; 16,23; 18,13; Gv 4,25; 6,5;17,1

13Cfr. Mc 1,40; 2,3; Gv 1,47; 3,2; 4,40; 6,5; 7,50; 10,41; 19,39;

14Sui diversi significati del verbo “vedere” in greco cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.80-83

15Cfr. Gv 1,48; 2,9; 3,8; 4,11; 6,5; 7,27.28; 8,14; 9,29.30; 19,9.

16Cfr. Gv 1,40.43.44; 6,7.8; 12,22

17Cfr. G.Flavio, Guerra Giudaica, V, 427;

18 Cfr. anche 2Re 7,1.16.18

19A Ghezer è stata scoperta una tavoletta in calcare, che riporta un elenco di otto attività agricole su dodici lunazioni, che corrispondono ai mesi di calendario, ma senza nominarli. Al posto dei nomi sono indicate le attività agricole che caratterizzavano i mesi. - Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, casa editrice Marietti Spa, Genova, ristampa 2002, pag. 191

20Le due festività, originariamente, erano sorte in contesti culturali e storici molto diversi e lontani nel tempo. La Pasqua, la cui etimologia è incerta, era una festa caratteristica dei pastori, che, dopo la fermata invernale, sul far della primavera (marzo-aprile), al sorgere della luna nuova, riprendevano il loro peregrinare in cerca di nuovi pascoli per le greggi. In questo contesto temporale veniva sacrificato un giovane animale per la prosperità e la fecondità degli armenti. Il sangue, messo sui sostegni delle tende, aveva un significato squisitamente apotropaico, serviva per tenere lontane le potenze malefiche, il mašhît, lo Sterminatore, il cui ricordo è conservato nella tradizione jahvista (Es 12,23). - Parallela alla festa della Pasqua, e nel tempo ad essa associata, è quella degli Azzimi, massôt, pani senza lievito. Questa festa agricola segna l'inizio della mietitura dell'orzo, che è la prima dell'anno. A partire da questa festa Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane; poi celebrerai la festa delle settimane per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto (Dt 16,9-10). La festa degli Azzimi, la cui durata era di una settimana, dal 15 al 21 di Abib o Nisan (Es 12,18), è una festività che il popolo ebreo ha incominciato a praticare dopo il suo ingresso a Canaan (circa 1200 a.C.) e che, probabilmente, Israele ha mutuato dalle popolazioni cananee, adattandola poi alle proprie esigenze religiose. Essa, nel suo carattere iniziale, era una semplice offerta delle primizie della terra. Successivamente venne celebrata con un suo proprio rituale, ricordato in Lv 23,9-14. Le due festività, quella della Pasqua e quella degli Azzimi, l'una, come si è visto, di origine pastorale e nomadica, l'altra agricola e stanziale, venivano celebrate entrambe nello stesso mese di Abib o Nisan. Con la riforma di Giosia (622 a.C.) le due festività vennero tra loro associate, quanto al tempo, e poiché la Pasqua era celebrata anch'essa con pani azzimi e le due festività facevano memoria dello stesso evento salvifico, parve opportuno congiungere le due feste. La prima congiunzione è testimoniata da Es 12,1-18 e Lv 23,5-8, in cui le due festività sono descritte l'una dietro l'altra. La seconda congiunzione, che sembra essere una vera e propria fusione delle due feste, è data da Dt 16,1-8. - Sul tema della Pasqua e degli Azzimi cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, casa editrice Marietti Spa, Genova, ristampa 2002; e A. R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, op. cit.

21Similmente cfr. anche Es 23,16; 34,22.26a; Lv 2,12; Nm 15,20.21; 18,13; Dt 26,2;

22Cfr. Gv 6,9.11; 21,9.10.13

23Due sono i contesti in cui compare il termine “Ñy£rion”: due volte in Gv 6 e tre volte in Gv 21. In entrambi i racconti è identico il contesto geografico: Gesù si trova sulle sponde del lago di Tiberiade con i suoi discepoli (6,1; 21,1); in entrambi i casi c'è la presenza di pane e di pesce; entrambe le volte Gesù prende il pane e il pesce e lo distribuisce direttamente in prima persona (6,11; 21,13);

24Sul significato di “Ñy£rion” e di “Ôyon” cfr. L. Rocci, Vocabolario GRECO-ITALIANO, Società editrice Dante Alighieri, Città di Castello, 1993 – trentasettesima edizione.

25La lettura del v.9 nel senso che gli è stato da me attribuito nei quattro punti indicati (a-d), al di là della simbologia che si presta in tal senso, mi è stata suggerita anche dalla natura stessa del vangelo giovanneo e dalla figura del suo autore, probabilmente un sacerdote della classe dei sadducei, che, a conoscenza delle festività, del culto e delle Scritture rilegge queste in chiave cristologica. Per una maggior approfondimento della questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.19-30, con particolare attenzione alle pag.24 e 30

26Il tema della sacralità del pasto nel giudaismo è stato liberamente tratto da G. Stemberger, la religione ebraica, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998; pag.27

27Cfr. Mt 14,19; 15,36; 26,26; Mc 6,41; 8,6; 14,22; Lc 9,16; 22,19; 24,30.35; At 2,46; 20,7; 1Cor 11,24.

28Con la riforma religiosa di Giosia (621 a.C.), che aveva centralizzato il culto della Pasqua a Gerusalemme, trasformando la Pasqua in una festa di pellegrinaggio, l'immolazione degli agnelli pasquali non avveniva più presso l'abitazione privata, ma presso il Tempio di Gerusalemme. Questo portò ad un superlavoro per i sacerdoti e i leviti, per cui non si poté più contenere l'immolazione sul far del tramonto (15,00-17,00), ma si dovettero ampliare i tempi a partire dalla tarda mattinata della vigilia pasquale e fino verso la sera, intorno alle 18,00. Giovanni, ne farà un vago riferimento in 19,14.

29Cfr. Rm 1,5; 15,18; 2Cor 10,5; 1Pt 1,22.

30Cfr. Gv 12,32; 17,2; 1Cor 15,25; Ef 1,22; Eb 2,8a.

31Per il commento al v.3 rimando alle pagg.7, ultimo capoverso, e 8 del presente commento.

32Cfr. Rm 10,14-17; Ef 1,13; 1Pt 1,23; 1Ts 2,13; Tt 1,1-3

33Cfr. Lc 24,32; Rm 10,8; Col 3,16.

34Sulla questione cfr. il mio commento ai capp.14-17 sul Vangelo di Matteo, presente su questo sito nella Sezione Esegetica

35Sul tema del giorno, metafora della vita di Gesù e del tempo della sua missione, cfr. il lemma “Notte” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; e A. Poppi, I Quattro Vangeli – commento sinottico, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1997 nel commento ai due passi citati.

36Cfr. J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli, Cittadella Editrice, Assisi, 1997 seconda edizione, pagg.39-41. - Cfr. anche la voce “Mare” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.

37Cfr. J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli, op. cit., pagg.37-39

38Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg 35-37

39Lo stadion alessandrino è una misura greca affermatasi in Palestina in epoca ellenistica e romana e verosimilmente usato anche dai Giudei palestinesi; esso misurava poco meno di 184,9 mt. - Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Casa editrice Marietti, Genova, III edizione 1997, ristampa 2002; pag.205; e la voce “Pesi e misure” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

40Cfr. nota 6

41Per un approfondimento sulla voce “Io sono” cfr. La Parte Introduttiva della presente opera, pag. 63

42La diversa conclusione dei due Sinottici va ricercata nella finalità delle rispettive teologie e del diverso contesto storico in cui i racconti sono nati. La preoccupazione di Matteo era quella di sottolineare la divinità di Gesù alla sua comunità di giudeocristiani, che cresciuti in un rigoroso monoteismo mosaico avevano non poche difficoltà ad accettarla; mentre il vangelo marciano si snoda come un cammino catechetico alla scoperta di Gesù e del suo Mistero, che avrà due vertici: in 8,30, in cui Gesù è riconosciuto dal mondo ebraico come Cristo; e in 15,39 dove Gesù è riconosciuto dal mondo pagano come vero Figlio di Dio.

43Su questo modo di esprimersi tutto giovanneo si cfr. la Parte Introduttiva della presente opera alla pag.54

44Cfr. Gv 4,32.34; 6,27.55

45Cfr. Pvr 4,4; 7,2; Is 5,3; Ml 2,5; Ez 33,15; 20,21; Bar 3,9.14; 4,1; Sal 118,144

46Cfr. Es 3,12; 4,1-9.28; 7,8-10; Dt 13,2; 1Re 17,23-24; 2Re 20,8; Is 7,11.14; 38,22; Ez 24,27.

47Sul tema del “credere” in Giovanni vedi la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 60-61

48Altre citazioni simili si possono trovare in Es 16,4; Ne 9,15; Sal 104,40; Sap 19,21

49Cfr. Gv 1,32.33.51; 3,13; 6,33.38.41.42.50.51.58.62; 20,17

50Sul concetto di “mondo” in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.67-69

51Cfr. il commento al “Padre nostro” presente sul mio sito di “Teologia per Tutti” nella Sezione esegetica, Area altri scritti

52Sull'uso della formula “Io sono” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.63-64

53Dt 28,48; 2Sam 17,29; 2Cr 32,11; Prv 25,11; Sir 24,20; Is 49,10; Is 65,13; Am 8,11

54Sul significato del termine Giudei in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag.61

55Cfr. Dt 32,18; Sal 2,7; 109,3; Mt 1,20; 1Pt 1,3.23; 1Gv 2,29; 3,9; 4,7; 5,1;

56L'espressione “cacciare/gettare fuori” è metafora del giudizio finale posto sugli iniqui e sugli increduli. In tal senso cfr. Mt 8,12; 22,13; 25,10-12.30; Lc 13,25.28; Gv 12,31.

57Cfr. Es 15,25; 16,4; Dt 8,2; 13; 33,8

58Cfr. Es 15,23-24; 16,2-3; 17,1-4;

59Cfr. Nm 14,1-4.27; Sal 77,17-19; Sir 46,7

60Cfr. Sal 93,12; Sap 1,5; 6,25; 9,13-18; Sir 18,13.

61Cfr. Dt 5,26; 1Sam 17,26.36; 2Re19,4.16; Sal 41,3.9; 83,3; Is 37,4.17; Ger 10,10; 23,36; Dn 6,21.27; 14,24.25; Os 2,1; Mt 16,16; 26,63; At 14,15; Rm 9,26;

62Il verbo trÒgw”, che definisce il mangiare degli animali, a partire da Erodoto (484-425 a.C.), storico greco e padre della storia, viene usato anche in riferimento agli uomini, senza mai perdere il suo senso primario legato all'animalità

63Cfr. Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 24,30; 1Cor 11,23-24

64Cfr. Gv 3,4.9; 4,9; 5,47; 6,42.52; 7,15; 8,33; 9,10; 9,15.16.19.26; 12,34; 14,5.9;

65Cfr. Gv 7,41; 9,9.16; 12,29; Mt 27,49; Mc 6,15

66Le radici più profonde del docetismo attingono allo gnosticismo, che considerava la materia e quindi il corpo come elementi del Male, che si contrapponeva al Bene. Non era quindi pensabile che Gesù, riconosciuto e proclamato Dio, si fosse rivestito di un simile corpo. Esso invece assunse un'apparenza di corpo, ma non un corpo reale. Una simile posizione di pensiero andava a negare sia l'incarnazione di Gesù, che la sua passione e morte, nonché la sua risurrezione. Una negazione che andava a colpire nel cuore il Mistero della salvezza, vanificandolo. La Chiesa reagì contro questa linea di pensiero dichiarandola eretica attraverso diversi concili ecumenici: Efeso (431), Calcedonia (451), Costantinopoli II (553), Costantinopoli III (680).

67Le altre tre volte compaiono ai vv.39.40.44

68Nella sua Prima Lettera Giovanni si scaglia con notevole durezza contro dei personaggi, che non nomina, forse perché conosciuti, definendoli anticristi, mentitori, seduttori e profeti di menzogna. Questi personaggi sono quasi certamente dei predicatori che si sono presentati presso le comunità e diffondono strane dottrine dal sapore gnosticheggiante. Essi pretendono di conoscere Dio e di vivere in comunione con lui e di essere nella luce, ma in realtà negano che Gesù sia il Messia e il Figlio di Dio e non ammettono l'incarnazione. Inoltre, presumono di essere senza peccato e non si preoccupano di osservare i comandamenti, in particolare quello dell'amore fraterno, vivendo già in una condizione di definitiva salvezza.

69Cfr. Gv 10,18; 13,3; 16,15a; 17,2; Mt 28,18

70Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera; pagg. 29.31.32.37

71Dt 4,1; 5,1; 6,3; 9,1; 20,3; 27,9.

72Il verbo qewršw (tzeoréo) significa un guardare attento; un guardare che si interroga e che si pone alla ricerca; e in senso intellettivo significa anche osservare, meditare, riflettere, investigare, esaminare, valutare. Sul significato e i diversi usi del verbo vedere in Giovanni si cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 80-83.

73Cfr. Rm 8,4.5.6.13; Gal 5,16.17; 6,8

74Cfr. Rm 1,28-31; 1Cor 5,9-11; 2Cor 12,20b-21; Gal 5,19-22; 2Tm 3,1-5

75Cfr. il vocabolo “rÁma” in L. Rocci, Vocabolario GRECO-ITALIANO, società editrice Dante Alighieri, Roma 1993; trentasettesima edizione

76Cfr. anche Gv 3,18; 5,24.38; 8,37.47

77Circa l'uso del verbo del verbo “credere” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera – pagg.60-61

78Cfr. Mt 16,15-16; Mc 8,27-29; Lc 9,18-20.

79Cfr. Mt 16,21; Mc 8,31; Lc 9,22

80Sul rapporto della comunità giovannea con la chiesa nascente cfr. la Parte Introduttiva della presente opera; pag.28, lett.c; pag.29 e pag.33

81L'intero cap.19, a partire dal v.3, infatti è un elenco di comandi da eseguire correttamente e si conclude significativamente con l'esortazione ad osservare e a mettere in pratica quanto comandato: “Osserverete dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e le metterete in pratica. Io sono il Signore” (Lv 19,37).

82Cfr. Gdc 13,7; 16,17; 2Re 4,9; 1Cr 22,19; Sal 105,16;

83Il conoscere come la conoscenza in senso biblico hanno sempre una stretta attinenza con l'esperire e l'esperienza. La mentalità ebraica infatti non ama le astrazioni o i giochi di idee e concetti, che invece si affermeranno nella filosofia greca, ma il suo riferimento è la realtà concreta.

84Cfr. Mt 10,1-4; Mc 3,13-19; Lc 6,12-16

85Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della present opera; pag.36 ultimo capoverso.

86Cfr. Mt 10,4; 26,5; 27,3; Mc 3,19; Lc 6,16; Gv 6,71; 12,4; 18,2.5

87Keriot è una cittadina citata in tutto l’A.T. solo tre volte: in Gs 15,25 chiamata Keriot-Chezron o Cazor, posta verso il confine di Edom nel Negheb;  in Ger 48,24 e in Am 2,2, che la pongono nella regione di Moab.

88Il termine sicario deriva dal latino "sica", che indica un pugnale dalla lama ricurva, usato in genere dai Traci, considerati dai romani dei briganti. Era, quindi, un’arma privilegiata da assassini e rivoltosi, che usavano l’omicidio come azione di terrorismo.

89Cfr. O. Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1998; G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Città Nuova Editrice, Roma – 2001.