IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
L'attività
pubblica di Gesù
incorniciata
da quattro
grandi
feste ebraiche
ossia
l'operare
trasformante
e
rigenerante di Gesù
collocato
nel cuore
del
culto giudaico,
preludio
ad un nuovo culto
Commento
esegetico e teologico
ai
Capp. 5 -
10
a cura di Giovanni Lonardi
CAPITOLO QUINTO
Nell'operare
vivificante
e
rigenerante di Gesù
si
riflette
l'operare
del Padre
Introduzione alla sezione capp. 5-10
Con il cap.5 si apre una nuova sezione caratterizzata dall'operare rivelativo di Gesù collocato all'interno di quattro festività ebraiche, poste in sequenza cronologica: la seconda Pasqua (cap. 6), la Pentecoste (cap.5), le Capanne (capp.7-9) e la Dedicazione (cap.10). In questo contesto la missione di Gesù assume toni molto accesi e di costante scontro con le autorità giudaiche, che non solo non nascondono la loro contrarietà e il loro disappunto, ma tramano progetti di morte nei confronti di Gesù (5,18;7,1.25; 8,37.40.59). Anche i suoi discepoli cominciano prendere le distanze da lui e molti lo abbandonano (6,60-67) e, similmente, i suoi fratelli che, se prima assieme a Maria e ai discepoli formavano un gruppo apparentemente compatto (2,12), ora non si fidano più di lui (7,5). La sua persona crea divisioni e dissensi tra la gente (7,12.40-43; 9,16; 10,19). Tutta questa opposizione e questa diffidenza nascono dal linguaggio di Gesù che qui, in modo più diretto e aperto, lascia intendere la sua origine divina (7,26): egli attesta che Dio è suo Padre (8,42), facendosi in tal modo uguale a Dio, provocando le ire omicide delle autorità religiose (5,17-18); afferma che le Scritture e Mosè hanno parlato di lui (5,39.46); si dichiara il pane vivo disceso dal cielo, capace di dare la vita eterna a coloro che si cibano di lui (6,51); afferma che egli proviene da Dio e che se non credono nella sua divinità non si salveranno (8,23-24); e attesta la sua coeternità con Dio (8,58). Proprio per questa immediatezza e durezza di linguaggio (6,60) il manifestarsi di Gesù crea sconcerto, dissensi, divisioni, scontri, persecuzioni e progetti di morte. Sono proprio queste reazioni che formeranno il leit-motiv, che prelude alla sua passione e morte.
L'idea di collocare l'attività pubblica di Gesù all'interno della cornice delle festività ebraiche maggiori o quantomeno più significative trova, a nostro avviso, la sua radice e la sua giustificazione nel racconto della purificazione del Tempio (2,13-21), di cui costituisce una sorta di suo sviluppo teologico. Nel racconto della purificazione del Tempio, sviluppo e completamento teologico delle nozze di Cana, si parla infatti di un rinnovamento cultuale del giudaismo, che ha il suo principio innovatore e rigenerante nella risurrezione di Gesù, che del suo corpo, trasformato dalla potenza dello Spirito, ha fatto il nuovo Tempio1 (Gv 2,19-21; Ap 21,22). Per poter capire gli intenti dell'autore nel collocare l'attività pubblica di Gesù all'interno di alcune festività giudaiche è indispensabile comprendere il significato che il giudaismo attribuiva alle festività stesse2. Le festività ebraiche sono rigorosamente scandite dal calendario, che forma una sorta di architettura sacra del tempo entro cui si colloca la vita del popolo, che Es 19,5-6 definisce proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa. Le feste per l'ebreo hanno la funzione di ricordare gli eventi salvifici del passato, che attraverso la loro ritualizzazione, li rendono presenti e raggiungibili anche dalle generazioni presenti, così che esse ne sono in qualche modo protagoniste, direttamente coinvolte e chiamate a dare la loro risposta esistenziale. Le feste, pertanto, innescano un dinamismo di stimolazione spirituale, che viene settimanalmente alimentato dalla festività dello Shabbath. Esse, quindi, costituiscono per il pio israelita il momento di un incontro salvifico con Jhwh, rafforzando il suo rapporto non solo con Lui, ma anche con i suoi Padri. Ogni festa, pertanto, diviene un memoriale, in cui, attraverso il rituale liturgico, il passato si fa presente, coinvolgendo in un'unica azione salvifica l'intero Israele3. Collocare, pertanto, l'operare di Gesù all'interno di questo contesto liturgico-salvifico, assegnandogli il posto di primo attore, significa che Gesù da un lato assume su di sé l'intera storia della salvezza, che in queste festività viene ritualmente celebrata e significata, dall'altro diviene l'agente primario di un'azione rinnovatrice e reinterpretatrice di quegli eventi salvifici. In tal senso è significativo il cap.6, che riprendendo il racconto della manna lo rilegge in chiave cristologica, per cui la manna prefigura in qualche modo Gesù, il vero pane disceso dal cielo (6,30-35.49-51).
Riportiamo di seguito la macrostruttura di questa sezione (capp.5-10), riprendendola integralmente dalla Parte Introduttiva della presente opera (pag. 105), per facilitare la lettura del nostro paziente lettore. Come già si è sopra accennato, i capp. 5-10 contengono la grande sezione dell'attività pubblica di Gesù, scandita su di una sequenza temporale logica delle quattro festività principali del mondo giudaico: Pasqua, Pentecoste, Capanne e Dedicazione, che, abbracciando il periodo marzo/aprile – dicembre/gennaio, formano il secondo anno di attività di Gesù4. Per un motivo di ordine logico, faremo partire la nostra analisi strutturale dal cap.65, mentre il commento esegetico-teologico rispetterà l'ordine canonico:
Cap. 6: festività di Pasqua (seconda). Il capitolo è caratterizzato dalla presenza di due segni, il quarto e il quinto: la moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,5-15) e la deambulazione di Gesù sulle acque (6,16-27). Segue un lungo discorso sul pane (6,28-71), che occupa il restante capitolo, concludendo la riflessione sul quarto segno.
Cap. 5: festività di Pentecoste6. Il capitolo è caratterizzato dal terzo segno, la guarigione di un paralitico in giorno di sabato (6,1-8), seguito da una diatriba sul sabato (6,9-18) e da un lungo discorso conclusivo (6,19-47).
Cap. 7: festività delle Capanne funge da cornice (7,2.14.37) a nove unità narrative di varia natura, giustapposte l'una accanto all'altra, senza apparente ordine né logico né di interconnessione tra loro. Tutte hanno come argomento centrale la persona di Gesù, attorno alla quale si sviluppano notevoli tensioni. Quest'ultimo aspetto è l'unico leit-motiv che le accomuna tutte.
Cap. 8: il giorno successivo alla festa delle Capanne (8,2) ha come cornice il Tempio (8,2.20.59). Qui si svolge il racconto dell'adultera colta in flagrante (8,3-11) e qui si susseguono tre discorsi (8,12-20.21-30.31-59), in cui Gesù si dichiara “luce del mondo” (8,12);
Cap. 9: stesso giorno del cap.8 (8,59-9,1) ed è un sabato (9,14). L'intero capitolo è dedicato al racconto del cieco nato e che spiega il senso di Gesù luce del mondo.
Cap. 10: festività della Dedicazione. L'intero capitolo è dedicato all'identità di Gesù, definito come la Porta delle pecore (10,1-10); il Buon Pastore (10,11-18); il Cristo (10,24-25); Gesù è Dio (10,10,33). Il capitolo, e con esso il secondo anno di attività di Gesù, si chiude con Gesù che sfugge all'arresto (10,39) e si rifugia in Betania di Perea (10,40), dove prima battezzava Giovanni (1,28; 3,22-23).
Note generali al cap. 5
I
contenuti del cap.5 rispecchiano i tratti caratteristici propri di
Giovanni: racconto di un segno, segue il dialogo, che sfocia in modo
sfumato e pressoché impercettibile in un lungo monologo che ha
finalità rivelative e non privo di venature polemiche. Già da
questa sintetica descrizione si intuisce la macrostruttura del cap.5,
che potremmo suddividere in tre parti: a)
vv.1-9a:
racconto di guarigione, avvenuto in un giorno di sabato; b)
vv.9b-18:
diatriba sulla questione del sabato, che avrà una sua eco fuori
campo in 7,22-23; c) vv.19-47:
un lungo discorso rivelativo dei rapporti intercorrenti tra Gesù e
il Padre, che si conclude con la denuncia dell'incredulità del mondo
giudaico. Benché il cap. 5 sia scandito in tre parti, i racconti che
lo compongono sono tra loro legati da uno sviluppo narrativo logico,
che ne fa una unità narrativa compatta. Ogni parte, infatti, termina
con un'espressione aggancio che introduce la successiva, creando in
tal modo una concatenazione narrativa armonica, che partendo dalla
presentazione dell'operare di Gesù (guarigione) e dal contesto
temporale in cui si svolge (sabato) giunge a sviluppare una lunga
riflessione dai ritmi sapienziali, la cui finalità è introdurre il
lettore nel Mistero che vive, opera e muove Gesù. La concatenazione
delle tre parti tra loro è data dai vv.9b e 17, che fungono da
introduzione alla parte successiva. Il primo, contestualizzando la
guarigione all'interno del sabato, introduce la questione della
operabilità in giorno di sabato, dedicato al riposo assoluto, ma,
come vedremo, soltanto in apparenza. Tuttavia, mentre nei Sinottici
la diatriba sul sabato era finalizzata a rivisitare il significato di
tale giorno7,
in Giovanni la questione del sabato è legata al Mistero di Gesù.
Quanto al secondo (v.17), questo costituisce il titolo tematico
attorno a cui si svilupperà l'intero discorso (vv.19-47), il terzo
dei diciotto che popolano il vangelo giovanneo8.
Il tratto caratterizzante dell'intero capitolo, come del resto
dell'intera sezione (capp. 5-10), è un'accentuata diatriba che
cresce man mano che la rivelazione del Mistero, che opera in Gesù,
si disvela in modo aperto e diretto. Già in questo cap.5, infatti,
compaiono i primi propositi omicidi delle autorità giudaiche (v.18),
formulati a seguito della dichiarazione di Gesù circa la propria
relazione con Dio (v.17), che lascia intendere la sua stessa divinità
(18b).
Il
racconto della guarigione dell'uomo infermo da trentotto anni si
sviluppa strutturalmente sullo stesso schema del cap.9, il racconto
della guarigione del cieco nato, dove alla guarigione del cieco segue
una lunga diatriba con le autorità religiose in cui il cieco è
coinvolto direttamente e si conclude con il suo incontro finale con
Gesù e la sua professione di fede in lui; mentre qui si chiude con
l'esortazione di Gesù a non più peccare. La professione di fede,
invece, con molta ironia, caratteristica di Giovanni, verrà fatta
fare ai suoi stessi avversari al v.18b, sotto forma di
considerazione, che forma anche il motivo degli intenti omicidi nei
confronti di Gesù (v.18a). Il racconto in analisi occupa i vv.1-18
ed è scandito in due tempi: a) vv.1-9
in cui si narra la guarigione dell'uomo infermo; b)
vv.10-18
in cui l'infermo guarito è, suo malgrado, il protagonista della
diatriba sul sabato, che non è incentrata sul riposo sabbatico, come
potrebbe sembrare in prima istanza, ma sull'identità divina di Gesù
in rapporto al Padre. La questione del riposo sabbatico con
riferimento a questo racconto verrà invece richiamata in 7,23b.
Questo spostamento probabilmente fu effettuato dall'autore per
evitare che il suo lettore fosse distratto da una questione che non
aveva nulla a che vedere con gli intenti che egli si proponeva:
relazionare l'operare di Gesù a quello del Padre. In entrambe le
parti l'attore principale è sempre l'infermo guarito, che funge da
collante narrativo tra la prima e la seconda parte, così come la
Samaritana lo è stato per il racconto 4,1-42; mentre Gesù qui,
avvolto nell'anonimato (v.13), si muove soltanto sullo sfondo, quasi
impercettibilmente. Il racconto si conclude in modo funzionale
annunciando il tema che occuperà il restante cap.5 (vv.19-47): “Il
Padre mio fino ad ora opera, anch'io opero”.
La
finalità di questo segno non è la manifestazione della divinità di
Gesù, che comunque viene riconosciuta alla fine del racconto, ma per
motivi non dipendenti dal segno (v.18b), bensì l'azione salvifica e
redentiva di Gesù, capace di infondere una nuova vita con la potenza
della sua Parola (v.8). L'attenzione, infatti, è accentrata sulle
infermità che colpiscono gli uomini (v.3) e nello specifico
sull'infermità in cui giaceva da trentotto anni il protagonista
(v.5). Il racconto, infatti, non si conclude con una professione di
fede nella divinità di Gesù, come avviene invece per il cieco nato
(9,35-38) ma con un invito a non peccare più. Inoltre, per ben sei
volte ricorre l'espressione “diventare sano” (Øgi¾j
genšsqai,
ighiès
ghenéstai).
Significativo, infine, è il comando di guarigione al v.8: “”Egeire”
(Egheire,
Alzati), un verbo tecnico che nella chiesa primitiva era usato per
indicare la risurrezione di Gesù e che risuonava nelle primitive
liturgie battesimali9.
Un'ultima
annotazione va posta sul rapporto tra questo racconto di guarigione e
quello narrato dai Sinottici10,
che pur avendo dei punti di contatto divergono nettamente tra loro11.
I punti di contatto sono il perdono dei peccati, esplicito nel
racconto sinottico, sottinteso e sfumato, quasi impercettibile, in
Giovanni, che lo lascia vagamente intendere soltanto in ultima
battuta al v.14b; un secondo punto di contatto coincidente e identico
in tutti gli evangelisti è il comando di Gesù rivolto al
paralitico: “alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. Un altro
punto di contatto, ma solo con Matteo, è l'ordine narrativo con cui
viene proposto questo episodio: in Matteo l'episodio del paralitico
avviene dopo la guarigione del servo del centurione (Mt 8,5-13), così
come in Giovanni il racconto è collocato subito dopo la guarigione
del figlio del funzionario regio (Gv 4,46-53). Ed è forse questo
ordine narrativo e la vaga somiglianza del racconto giovanneo con
quello sinottico che deve aver spinto qualcuno a porre un qualche
ritocco al racconto giovanneo per allinearlo in qualche modo a quello
sinottico. I possibili ritocchi apportati sono da leggersi, a mio
avviso, al v.8 in cui viene riportato l'identico comando dei
Sinottici e il v.14 in cui si parla di un risanamento con riferimento
ai peccati, seguito dalla minaccia di peggiori castighi. È
significativo, infatti, come il racconto giovanneo dell'infermo
sanato non termini con una testimonianza di fede, la quale cosa
collimerebbe con gli intenti del vangelo (20,30-31), ma con
un'esortazione di Gesù a non peccare, che esula totalmente dallo
stile giovanneo. Una simile esortazione la si trova nel racconto
dell'adultera (8,3-11), su cui gravano, però, forti dubbi di
autenticità12.
In Giovanni il tema del peccato non è affrontato in senso morale, ma
si riferisce al peccato di incredulità, che condanna l'uomo.
Il Testo
(vv.1-9) a lettura facilitata
Preambolo religioso e geografico
1- Dopo queste cose c'era una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Il contesto immediato
2-
Ora, c'è in Gerusalemme presso la porta delle pecore una piscina,
chiamata in ebraico Bethzatà, che ha cinque portici.
3-
In questi giaceva una moltitudine di ammalati, di ciechi, di zoppi,
di aridi, che aspettavano il movimento dell'acqua.
4-
Infatti, un angelo del Signore, a tempo debito, discendeva nella
piscina e agitava l'acqua; il primo, dunque, che fosse andato dentro
dopo l'agitazione dell'acqua diventava sano da qualsiasi malattia
fosse affetto.
Il racconto di guarigione
5-
Ora, là vi era un uomo che da trentotto anni stava nella sua
infermità;
6-
Avendo Gesù visto questi che giaceva e avendo saputo
che ha già molto tempo, gli dice: <<Vuoi diventare sano?>>
7-
Gli rispose l'infermo: <<Signore, non ho un uomo che mi getti
nella piscina quando l'acqua viene agitata; nel mentre che io vado,
un altro discende prima di me>>.
8-
Gli dice Gesù: <<alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina>>.
La prova dell'avvenuta guarigione (v.9a)
9a- E subito l'uomo divenne sano e prese il suo lettuccio e camminava. [v.9b]
Commento ai vv.1-9
Il v.1 si apre con un'espressione redazionale caratteristica di Giovanni e che ricorre nel suo vangelo sette volte: “Met¦ taàta” (Metà taûta, Dopo queste cose)13. Le cose a cui si allude con questa espressione sono quelle del cap.6, che nell'ordine narrativo va letto prima del cap.5. La questione dell'inversione dei capp. 5 e 6 nasce da una questione logica di ordine geografico per la quale rimandiamo alla Parte Introduttiva della presente opera (pagg. 89-92). Questa inversione di capitoli ci è utile anche per individuare la festività anonima qui indicata. Di quale festa si tratta?Tutte
le festività in Giovanni sono indicate con il loro nome, ad
esclusione di questa. Due gli interrogativi che si impongono su
questo anonimato: a quale festività si fa riferimento; e perché
Giovanni ne ha taciuto il nome, la quale cosa urta contro la sua
precisione, talvolta pignolesca, nel citare gli avvenimenti. Le
festività citate da Giovanni nel suo vangelo sono complessivamente
sei: tre pasque (2,13; 6,4; 11,55), una festività anonima (5,1),
festa delle Capanne (7,2) e quella della Dedicazione (10,22). Ora, se
si tolgono la prima e l'ultima pasqua (2,13 e 11,55), che formano
inclusione tra loro e, pertanto, occupano un loro preciso spazio
narrativo, le altre quattro festività rimanenti, tenendo conto
dell'inversione dei capp.5 e 6, si snodano con una loro propria
sequenza temporale: seconda pasqua - pésach - (6,4), cadente nel
mese di Nisan (marzo-aprile); festività anonima (5,1), oggetto del
nostro studio; la festa delle Capanne o delle Tende – Sukkòth -
(7,2), cadente nel mese di Tishrì (settembre-ottobre); festa della
Dedicazione del Tempio – Channukà o Hannukah - (10,22), cadente
tra il mese di Kislèv (novembre-dicembre) e quello di Teveth
(dicembre-gennaio). Va rilevato come la festività anonima si
collochi tra la festa di Pasqua e quella delle Capanne, che sono due
delle tre feste del pellegrinaggio (Shalòsh
Regalìm),
le uniche che godono del titolo di “festa” nel calendario ebraico
(hâg),
mentre le altre sono definite con il termine generico di “solennità
del Signore” (mō'ădē).
Tutte tre sono in immediata sequenza temporale l'una all'altra:
Pésach, Shavu'òth
e
Sukkòth.
La festa anonima, pertanto, sembra essere proprio quella di
Shavu'òth, o festa delle settimane, chiamata anche Pentecoste dagli
ebrei di lingua greca; essa cadeva nel mese di Sivan (maggio-giugno)
e si agganciava direttamente alla pasqua, prolungandosi per sette
settimane, 49 giorni, e si chiudeva all'ultimo giorno con la
celebrazione della festa di Pentecoste, il 6 di Sivan.
L'individuazione è resa possibile o quantomeno molto probabile sia
dalla sequenza temporale regolare, con cui Giovanni cita le quattro
festività, sia perché essa, assieme a Pasqua e Capanne, forma il
trio delle festività di pellegrinaggio. Al v.5,1, infatti, si dice
che in questa festa Gesù salì a Gerusalemme e questa sua “salita
a Gerusalemme” dalla Galilea (6,1) può ben essere interpretata
come un pellegrinaggio, proprio perché quella festa anonima è
Pentecoste.
Rimane
da capire, ora, perché Giovanni ne taccia il nome. Molto
probabilmente il motivo sta nel contenuto stesso del cap.5: la
guarigione del paralitico avvenuta in giorno di sabato, da cui ne
discende un'accesa polemica con i farisei. Considerato, poi, che il
termine sabato ricorre in questo capitolo tre volte (5,10.16.18), con
riferimento al segno di guarigione, non resta che pensare che
l'anonimato della festa, quella delle Settimane o Shavu'òth, fosse
stato imposto sulla festa per evitare che questa oscurasse la
questione del sabato, che invece, è la vera festa oggetto di
attenzioni dell'intero cap.514.
Un anonimato, forse, che potrebbe essere un segnale lanciato da
Giovanni ai suoi lettori, indirizzandoli ad accentrare la loro
attenzione sull'unica festa citata nel cap.5, il sabato, mentre
l'altra viene opportunamente oscurata.
Un
ultimo appunto va fatto su come Giovanni definisce le festività
ebraiche, chiamandole “dei Giudei”15.
Questa definizione lascia trasparire da un lato un distacco nei
confronti del culto giudaico, che l'autore non sente più proprio, ma
“dei Giudei”; dall'altro la definizione delle festività ebraiche
come “dei Giudei” favorisce un'accentuazione negativa di queste
festività e del culto giudaico in genere. Infatti per Giovanni il
nome “Giudei” è sinonimo di incredulità e di chiusura
all'azione salvifica di Dio manifestatasi in Gesù16.
In altri termini per Giovanni il culto giudaico ha perso ogni sua
validità nei confronti di Dio, che per bocca dei suoi profeti e di
Gesù, che li riprende, accusa Israele: “Poiché
questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le
labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi
rendono è un imparaticcio di usi umani”
(Is 29,13; Mt 15,8; Mc 7,6). Un rimprovero che diviene sferzante in
Is 1,10-17.
vv.2-4:
se il v.1 costituiva il preambolo religioso e geografico in cui viene
incorniciato il cap.5, questi tre versetti formano il contesto
immediato entro cui è collocato il racconto di guarigione. Il v.1
termina con il nome Gerusalemme, che forma da parola aggancio al v.2,
che inizia a sua volta riprendendo il nome stesso: “Ora, c'è in
Gerusalemme”. Non è casuale questa ripresa perché dice l'intento
dell'autore, quello di collocare la guarigione dell'infermo, che
vedremo subito essere un evento salvifico, in Gerusalemme, il luogo
dove si sono compiuti i misteri della nostra salvezza, grazie ai
quali ogni credente è “diventato sano”, un'espressione questa
che ricorre nell'intero racconto per ben sei volte
(vv.4.6.9.11.14.15). Il racconto, infatti, non ha per finalità lo
smuovere alla fede l'ascoltatore, non almeno in prima battuta come
vorrebbe il v.20,31, ma lo svelare la potenza redentrice dell'operare
salvifico di Gesù. Si tratta, dunque, di un racconto rivelativo o
manifestativo del Mistero che opera in Gesù. Significativa in tal
senso è la conclusione del racconto, che termina non con una
professione di fede da parte del risanato, come avviene in altri
racconti di segni17,
ma con un'esortazione da parte di Gesù a non peccare più per
evitare castighi peggiori (v.14). Segno che questa infermità è
strettamente legata alla condizione di peccato in cui si trova
l'uomo, metaforizzata significativamente nel v.3 che riporta un
elenco di infermità.
Il
contesto storico-leggendario in cui Giovanni colloca questo racconto
è la piscina di Bethzatà18
che si trovava presso la porta delle Pecore, così chiamata perché
da questa porta, posta sulle mura nord del Tempio, passavano le
pecore destinate ai sacrifici. La piscina, posta sul lato nord-est
del Tempio, si trovava di fronte alla Torre Antonia, situata sul lato
nord-ovest e prospiciente sul cortile del Tempio. A quanto Giovanni
ci racconta, questa piscina era frequentata da numerosi infermi
(v.3), mossi dalla speranza di guarigione, perché secondo la
credenza popolare, un angelo veniva dal cielo a muovere le acque,
rendendole salvifiche per chi vi entrava per primo (v.4). Il
movimento dell'acqua era probabilmente causato da una polla sorgiva
intermittente che alimentava le vasche, come avveniva del resto per
la piscina di Siloe (9,7). Un fenomeno del tutto naturale, quindi, ma
che, posto in certi contesti culturali, veniva attribuito a forze
soprannaturali.
Il v.3 racconta come sotto questi portici giacessero “una moltitudine di ammalati, di ciechi, di zoppi, di aridi, che aspettavano il movimento dell'acqua”. Un elenco di uomini colpiti da varie infermità, che sommariamente l'autore definisce “una moltitudine di ammalati”. Il termine “ammalati” è reso in greco con “¢sqenoÚntwn” (astenúnton), participio presente di “¢sqenšw” (astenéo), che significa “sono debole, fiacco, languido, impotente; sono nella ristrettezza della penuria; sono ammalato, infermo”. Questo participio presente, dunque, va ben al di là di un semplice stato di infermità temporanea, ma indica uno stato di vita, una condizione esistenziale degradata, che il verbo “katškeito” (katékeito), posto all'imperfetto indicativo, evidenza in tutta la sua gravità. Il verbo significa, infatti, oltre che giacere, anche stare, trovarsi in una certa condizione, in un certo stato di cose, che l'imperfetto indicativo rende costante e persistente, facendo sì che quella condizione di vita sia senza speranze. Viene, dunque, qui alluso allo stato di degrado esistenziale dell'umanità travolta dal peccato, significata nel termine “moltitudine” (plÁqoj, plêtzos); è la “moltitudine” infatti che “giaceva” e che nel contempo “aspettava il movimento dell'acqua”, espressione che descrive l'atteggiamento di attesa della propria redenzione.
Come per il v.3, anche il v.4 presenta dei problemi sia perché nelle testimonianze più antiche esso è omesso, sia perché vi si nota la presenza di ben sette termini che esulano dal vocabolario giovanneo19. Gli studiosi ritengono che questo sia una glossa destinata a spiegare il v.7, che altrimenti non si capirebbe. Tuttavia, va osservato che se il v.7 è autentico, allora questo presuppone necessariamente il v.4, che ne costituisce, assieme al v.3, il presupposto logico. In altri termini, se Giovanni ha scritto il v.7 doveva necessariamente pensare a ciò che viene detto dai vv.3.4. Tuttavia, se quest'ultimo non è riportato dalle testimonianze più antiche e quindi più sensibili al problema, significa che qualcuno, temendo che una simile pratica di guarigione fosse poco ortodossa o avesse addentellati con i templi pagani della guarigione o con questi potesse essere in qualche modo confusa, ha pensato bene di toglierlo (v.4) o di manipolarlo in qualche modo per non dare spazio a sospetti20. Infatti, vicino alla nostra piscina gli scavi archeologici hanno rivelato la presenza di un santuario pagano, risalente ad epoca ellenistica, con bacini di piccole dimensioni dove si immergevano gli infermi speranzosi di guarigione. Questo santuario, ben attestato a partire dal II sec., era dedicato a Serapide e sorgeva nei pressi della Torre Antonia ed era, quindi, anche nei pressi della piscina in questione. E quando si tratta di salute non si fa molta distinzione tra il sacro e il profano, le si tenta tutte. Non è escluso quindi che anche giudeocristiani o appartenenti alla comunità giovannea frequentassero questo santuario dalle acque curative. Posto in questo contesto la guarigione dell'infermo narrata da Gv 5,1-9 potrebbe anche essere compresa come una polemica contro queste strane frequentazioni e pratiche da parte dei giudeocristiani21. L'autentico guaritore, pertanto, non è né l'angelo né Serapide, bensì Gesù, che poco prima gli stessi samaritani avevano riconosciuto e proclamato come il salvatore del mondo (4,42).La piscina a cinque portici raffigura dunque la casa di Israele, chiamata “Bethzetà”, che ha le sue varianti in Bethzatà o in Betsdà, la casa della misericordia, in cui è raccolto non solo Israele, metaforizzato al v.5, ma anche l'intera umanità, raffigurata dal v.3, realizzando così la profezia di Is 14,1: “Il Signore infatti avrà compassione di Giacobbe e si sceglierà ancora Israele e li ristabilirà nel loro paese. A loro si uniranno gli stranieri, che saranno incorporati nella casa di Giacobbe”. In questa piscina a cinque portici, in questa casa della misericordia caratterizzata dalla Torah, vi è contenuta un'acqua capace di riscattare non solo Israele, ma anche l'intera umanità. Infatti “[...] quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,4-5). L'acqua della piscina, dunque, mossa dallo Spirito, raffigura in qualche modo Gesù stesso. Quest'acqua contenuta in questa piscina è resa risanatrice, infatti, dalla discesa dell' “angelo del Signore”, figura dello Spirito di Dio, e chi vi si getta dentro per primo viene sanato da ogni infermità e rigenerato ad una nuova vita. Grava su questa immagine dell'acqua pregna dello Spirito di Dio quanto già Giovanni è venuto dicendo fin qui, quasi preparando a leggere questo racconto dell'infermo risanato: “E Giovanni testimoniò dicendo: <<Ho contemplato lo Spirito che discendeva come colomba dal cielo e rimase su di lui. E [...] quello mi disse: <<Su chi vedrai lo Spirito che discende e che rimane su di lui, questi è colui che battezza in Spirito Santo>>” (1,32-33). È dunque un'acqua mossa dallo Spirito di Dio, che opera cioè con la Potenza di Dio, per questo essa è un'acqua capace di rigenerare l'uomo alla vita stessa di Dio: “Rispose Gesù: <<In verità, in verità ti dico, se uno non è generato da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (3,5-6). Proprio per questo cambio di parametro, dalla carne allo Spirito, si è resa necessaria la ricollocazione dell'uomo in una nuova dimensione, quella stessa di Dio, da cui proviene, attraverso l'acqua e lo Spirito, acqua che è lo Spirito. Solo così egli potrà relazionarsi a Dio in modo nuovo, secondo i nuovi parametri dettati dallo Spirito. Infatti “[..] viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità” (4,23-24). Ora appare in pienezza il senso di quel “divenire sano”, che risuona per sei volte nel racconto dell'infermo, e che si ottiene soltanto gettandosi nell'acqua per primi, cioè con prontezza e determinazione, necessarie al nuovo credente per superare le molte resistenze frappostegli sia dal giudaismo che dal mondo pagano. In ultima analisi un salto nell'acqua battesimale26 resa redentrice e rigeneratrice per la potenza dello Spirito (Ef 1,13-14).
I vv.5-9a fanno seguito al preambolo introduttivo dei vv.1-4, che creano la cornice storico-simbolica e teologica, in cui viene contestualizzato il racconto della guarigione dell'infermo.
Il v.5 infatti si apre con un avverbio di luogo “là” (™ke‹, ekeî), che richiama tutto il contesto storico, simbolico e teologico dei vv.1-4 in cui viene collocato in modo anonimo e generico “un uomo”, reso in greco con l'espressione “tij ¥nqrwpoj” (tis ántzropos). Questo carattere di genericità e anonimia imprime al nostro uomo un significato di universalità e, quindi, di rappresentanza: egli fa parte dell'anonima moltitudine degli ammalati e, probabilmente, vista la sua incapacità di muoversi, appartiene alla terza categoria, quella degli aridi o paralitici (v.3), la più grave perché totalmente incapace di muoversi e, quindi, incapace anche di operare una qualsiasi propria scelta personale, soggiacendo totalmente alla volontà altrui, come lo stesso infermo rileverà al v.7. Tuttavia, pur mantenendo il carattere di rappresentanza universale, questo infermo perde, almeno parzialmente, il suo anonimato poiché viene caratterizzato in due modi: egli “stava nella sua infermità” da “trentotto anni”. Il suo stato di infermità viene indicato significativamente con quel “stava”; uno stare espresso in greco col verbo “œcw” (éco) posto al participio presente con senso intransitivo, che dice anche il suo stato di isolamento esistenziale; un tempo verbale che evidenzia non solo la condizione esistenziale di questo infermo, ma anche la sua persistenza, quasi una catena che lo sta imprigionando, togliendogli ogni speranza di riscatto, che verrà confessata al v.7: “non ho un uomo che mi getti nella piscina”. Egli sta dentro, giace dentro “alla sua infermità”. Non si tratta di una infermità qualsiasi, ma “sua”, cioè un'infermità che gli appartiene e che gli è connatura, fa parte di lui. Il termine “infermità”, inoltre, è reso in greco con “¢sqšneia” (asténeia), il cui significato va ben oltre alla semplice infermità o malattia e dice debolezza, fiacchezza, mancanza di vigore, indicando lo stato di prostrazione esistenziale in cui viene a trovarsi questo infermo.
Il
secondo elemento che toglie il nostro uomo dal suo anonimato è dato
dal tempo in cui esso si trova in quel pietoso quanto drammatico
stato di vita: trentotto anni. Di certo esso indica un ampio spazio
di tempo che segnala la gravità di una situazione ormai senza
speranze di salvezza. Tuttavia, come già si è detto sopra (pag.8
ultimo capoverso),
la meticolosità con cui Giovanni ha costruito questo racconto,
fornendo al suo lettore numerosi dati sia sul contesto che sul nostro
infermo, fa nascere il sospetto che egli voglia alludere anche a
qualcos'altro.
I
trentotto anni di infermità in cui giaceva quest'uomo richiamano da
vicino Dt 2,14, che parla della lunga peregrinazione di Israele nel
deserto: “La
durata del nostro cammino, da Kades-Barnea al passaggio del torrente
Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di
uomini atti alla guerra scomparve dall'accampamento, come il Signore
aveva loro giurato”.
Un giuramento che si trova in Nm 14,29-30b: “I
vostri cadaveri cadranno in questo deserto. Nessuno di voi, di quanti
siete stati registrati dall'età di venti anni in su e avete
mormorato contro di me, potrà
entrare nel paese nel quale ho giurato di farvi abitare”.
Il mormorio, cioè la rivolta di Israele contro Jhwh, sarà la causa
di morte di un'intera generazione. Un mormorio che è sotteso da una
infedeltà che si protrarrà per tutta la storia di Israele, definito
numerose volte come un popolo dalla dura cervice27,
insensibile cioè alle esigenze di Dio e il cui cuore era lontano da
Lui. Uno stato di cose che Is 29,13 denuncerà e il cui lamento fu
ripreso anche da Gesù (Mt 15,8; Mc 7,6): “Poiché
questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le
labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi
rendono è un imparaticcio di usi umani”.
Un'infedeltà e una durezza di cuore che fu sempre punita duramente
fino alla distruzione definitiva del Regno del Nord (722 a.C.) e alla
deportazione nell'esilio babilonese del Regno del Sud (597-538 a.C.),
la cui identità etnica e religiosa, ormai sostanzialmente scomparsa,
fu faticosamente ricostruita con fermezza da Esdra e Neemia nel
periodo postesilico.
I
trentotto anni di invincibile infermità e prostrazione in cui giace
il nostro uomo richiamano, pertanto, quella condizione di durezza di
cuore e di insensibilità religiosa di Israele, il cui culto ormai
era ridotto ad una formale applicazione di leggi, legando la propria
salvezza alla corretta e mera esecuzione di quanto la Torah
comandava. Ma l'avvento di Gesù, che da un lato denuncerà
duramente e con determinazione questo stato di cose, che gli costerà
la vita; e dall'altro, raccogliendo Israele attorno a sé “come una
chioccia raccoglie i suoi pulcini” (Mt 23,37), dava inizio ad un
movimento escatologico universale che riconduceva Israele verso il
suo Dio con sincerità di cuore, introducendolo in quei cieli nuovi e
quella terra nuova sognati da Isaia (Is 65,17) e annunciati da
Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1), in cui la nuova Gerusalemme non
ha più nessun tempio “perché
il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio”
(Ap 21,22). Un culto, quindi, legato al cuore e alla vita, in cui
ognuno è sacerdote di se stesso (Rm 12,1-2). Con l'avvento di Gesù
Israele e l'intera umanità, accomunati sotto un'unica infermità
(1,10-11; 5,3; Rm 3,22b-23), sono interamente perdonati (Rm 8,1) e
chiamati a camminare in novità di vita (Rm 6,4c). La promessa di
Jhwh di distruggere il suo popolo infedele così come accadde alla
prima generazione uscita dall'Egitto e come il Battista andava
predicando con la durezza del suo linguaggio escatologico (Mt 3,5-12;
Lc 3,7-9), è stata superata dall'avvento di Gesù (Mc 1,15).
L'Israele infermo, chiuso nella durezza del suo cuore e della sua
invincibile incredulità al punto di rischiare di far fallire la
missione di Gesù (Gv 12,32), è collocato ora, insieme al resto
dell'umanità, a Betesda, cioè nella casa della misericordia divina
in cui Gesù, con il movimento proprio del Dio misericordioso e
compassionevole, che si avvicina all'uomo per risanarlo e che ricorda
il racconto lucano del Buon Samaritano (Lc 10,30-35), allegoria di
Gesù, tende per l'ultima volta la mano al suo popolo e con lui
all'intera umanità, il cui intento è quello di volerli risanare,
riportarli allo stato di integrità originaria quando, creato dal
soffio divino, l'uomo venne collocato nella vita stessa di Dio (Gen
2,7).
vv.6-7:
il v.6 riprende la descrizione dell'infermo al v.5 relazionandolo
alla persona di Gesù, che
“vede” („dën,
idòn)
e “sa” (gnoÝj,
gnùs).
Il vedere di Gesù, espresso con il verbo Ðr£w
(oráo),
indica un vedere superiore ed ha come conseguenza anche una
conoscenza superiore (gnoÝj,
gnùs).
I due verbi, quindi, collocano Gesù nell'area messianica, che già
abbiamo trovato in 2,24b-25: “poiché
egli conosceva
tutti e
poiché non aveva bisogno che qualcuno testimoniasse sull'uomo; egli,
infatti, conosceva
che cosa c'era nell'uomo”.
Al messia, infatti, veniva attribuita una conoscenza superiore e una
grande capacità di penetrazione degli uomini28.
Chi sta davanti a questo infermo dunque possiede tratti messianici e
quindi ne possiede anche il potere, che già in qualche modo traluce
dalla domanda posta all'infermo: “Vuoi diventare sano?”,
lasciando sottinteso: “Io ne ho il potere”. Gesù ha davanti a se
un infermo paralizzato che è in attesa da trentotto anni di una
guarigione che mai riesce a raggiungere proprio a causa della sua
stessa infermità, che lo isola da tutti, e se ne esce fuori con una
simile domanda. Letta così effettivamente è sconcertante
soprattutto se la premessa a questa domanda dice che colui che gliela
pone è il Messia. Ma è proprio questa domanda sconcertante che fa
sorgere il sospetto che essa voglia dire ben altro da ciò che
appare. Per poterne cogliere il senso è necessario coniugarla con la
risposta dell'infermo (v.7), che in realtà non è una vera e propria
risposta alla domanda posta da Gesù, ma denuncia sia tutta
l'incapacità insita nell'infermo di poter guarire da solo sia tutta
l'inadeguatezza del contesto sociale e religioso, in cui è posto
questo infermo, di dargli la salvezza (“non ho un uomo che mi getti
nella piscina”). Domanda e risposta, quindi, sono finalizzate a
mettere in rilievo l'incapacità sia di Israele, metaforizzato
nell'infermo, che degli uomini in genere, raffigurati nella
moltitudine degli ammalati del v.3, a dare salvezza. Nessuno è in
grado di salvare. La salvezza, dunque, deve provenire da qualcun
altro che ha capacità salvifiche. La salvezza tuttavia, seppur
gratuita, richiede comunque la libera accettazione da parte
dell'infermo e la sua disponibilità ad un radicale cambiamento
esistenziale. La domanda, dunque, “Vuoi diventare sano?”
interpella direttamente l'uomo decaduto per il peccato nella sua
volontà (“Vuoi”) che è la facoltà preposta alla determinazione
e alla decisione, che fa muovere e orienta ogni scelta e se questa è
radicale, come nel nostro caso, decide dell'orientamento esistenziale
stesso. La decisione è posta sul “diventare” (genšsqai,
ghenéstai).
Il “diventare” implica sempre un passaggio “da … a”, una
trasformazione, un cambiamento che coinvolge l'intera esistenza, che
si fa cammino di salvezza e che al v.8 si fa dono.
vv.8-9a: due versetti che potremmo sintetizzarli in “guarigione e constatazione”. Il v.8 riporta il comando di guarigione scandito in tre parti: “Alzati” - “prendi il tuo lettuccio” - “cammina”. Il miracolo di guarigione è legato esclusivamente al doppio comando “alzati” e “cammina”, mentre il terzo comando “prendi il tuo lettuccio” funge da premessa alla diatriba sul sabato, che è tutta incentrata sul trasporto del lettuccio in giorno di sabato (vv.10.11.12), in cui vige il divieto di qualsiasi lavoro. Il primo comando “Alzati” è espresso in greco con “”Egeire” (ègheire), un verbo che significa destarsi, risvegliarsi, risuscitare, destarsi dalla morte, elevarsi, innalzarsi, sollevarsi. Un verbo che nella sua poliedricità di significati indica come nella vita di quell'infermo sia avvenuta una netta frattura con la vita precedente e l'inaugurazione di una nuova vita in cui è stato introdotto da quel comando, legato alla potenza della Parola, e che ha in qualche modo a che fare con la stessa risurrezione di Gesù. “Ege…rw” (egheíro) infatti nella chiesa primitiva era un verbo tecnico con cui si indicava la risurrezione di Gesù. Il risanamento pertanto dipende dalla potenza della risurrezione ed è ad esso strettamente associato. Se Cristo, infatti, non fosse risorto, affermerà Paolo con vigore, la nostra fede sarebbe inutile così come l'annuncio di Cristo, mentre noi resteremmo nei nostri peccati (1Cor 15,14.17). Le guarigioni nei racconti dei vangeli hanno sempre questo stretto aggancio con la risurrezione e ne sono in qualche modo un'anticipazione degli effetti. Non è un caso che Gesù ai discepoli di Giovanni che gli chiedono se è lui “colui che viene”, cioè il Messia, risponda con l'annuncio delle guarigioni (Mt 11,5; Lc 7,22), cioè con il risanamento di un'umanità degradata e corrotta dal peccato.
Il
secondo commando, conseguente al primo e da questi dipendente, è
“cammina” (“perip£tei”,
peripátei),
il cui significato più che camminare assume la valenza di “muoviti
in questo nuovo stato di vita”, “continua a vivere nella vita
nuova”. Il verbo “peripatšw”
(peripatéo)
infatti più che immettersi in un preciso cammino che ha una
determinata meta, significa “andare attorno”, “passeggiare” e
quindi diviene una sorta di metafora del vivere in una nuova
condizione di vita.
Il
v.9a,
riprendendo i comandi del v.8, ne annuncia l'immediata attuazione: “E
subito l'uomo divenne sano e prese il suo lettuccio e camminava”.
Il v.9a si apre con l'espressione “E subito” per evidenziare
l'istantaneità della guarigione, ma nel contempo sottolineando la
potenza della Parola che proprio in questa sua immediatezza,
commando-attuazione, richiama da vicino l'atto creativo della Genesi:
“Dio
disse: <<Sia la luce!>>. E la luce fu”.
Al comando “Alzati” infatti corrisponde l'immediata attuazione:
“divenne sano”. La Parola, quella della creazione genesiaca, ha
dunque attuato una trasformazione sull'infermo (“divenne”), che
rimarca il passaggio da una condizione di vita ad un'altra
completamente nuova, che lascia trasparire quasi in filigrana la
potenza della risurrezione, passaggio da morte a vita nuova, dal
degrado esistenziale ad un nuovo stato di vita; una nuova creazione
scaturita dalla potenza della Parola creatrice, che Paolo evidenzierà
ricordando ai credenti di essere una nuova creazione in Cristo (2Cor
5,17; Gal 6,15).
Il
v.9a termina riprendendo il comando “cammina”, ma questa volta il
verbo non è più al presente indicativo, bensì all'imperfetto: “e
camminava” (periep£tei,
periepátei
), un tempo verbale che indica il persistere nel presente di
un'azione che ha avuto la sua origine nel passato, segno questo
dell'efficacia duratura di questo risanamento.
La
questione sul sabato (v.9b-18)
Testo (vv.9b-18) a lettura facilitata
Cornice temporale
9b- Ora, era sabato in quel giorno.
La questione del sabato: Gesù cambia le regole
10-
Dicevano, dunque, i Giudei a quello che era guarito: <<È
sabato, e non ti è permesso di prendere il tuo lettuccio.
11-
Ma egli rispose loro: <<Chi
mi ha fatto
sano, quello mi
disse:
“Prendi
il tuo lettuccio e cammina”.
L'identità di Gesù è sconosciuta presso il giudaismo
12-
Lo interrogarono: <<Chi è l'uomo che ti disse: “Prendi e
cammina?”>>.
13-
Ma quello che era stato guarito non sapeva
chi è, infatti Gesù si ritirò, essendoci folla in quel luogo.
L'identità Gesù scoperta nel Tempio non è compresa
14- Dopo queste cose, Gesù lo trova nel tempio e gli disse: <<Ecco, sei diventato sano; non peccare più affinché no ti accada qualcosa di peggio>>.
L'annuncio incompreso di Gesù presso il giudaismo
15-
L'uomo se ne andò e riferì ai Giudei che è Gesù colui che lo ha
fatto sano.
16- E per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché
faceva queste cose di sabato.
La vera identità di Gesù
17-
Ma Gesù rispose loro: <<Il Padre mio fino ad ora opera,
anch'io opero>>.
18-
Per questo, dunque, i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo,
poiché non solo violava il sabato, ma anche diceva proprio padre
Dio, facendo se stesso eguale a Dio.
Commento ai vv.9b-18
Contrariamente ai Sinottici che reinterpretando il sabato alla luce del Risorto ne rilevano un nuovo significato tutto a favore dell'uomo (Mt 12,8; Mc 2,27), Giovanni, senza trascurare quest'ultimo aspetto (due guarigioni sono poste in giorno di sabato29), accentra la sua attenzione sugli aspetti rivelativi dell'operare di Gesù in giorno di sabato. Il leit motiv del vangelo giovanneo infatti è la contemplazione del Logos Incarnato (1,14), colto nel suo operare, e finalizzata a smuovere o a rafforzare i propri lettori nella fede così che credendo nel nome di Gesù abbiano la vita eterna (20,31). La stessa struttura della seconda parte del racconto della guarigione dell'infermo (vv.9b-18) indica come la questione del sabato sia solo strumentale rispetto alla questione dell'identità di Gesù; infatti la diatriba sul sabato non si sviluppa tra Gesù e i Giudei, ma soltanto tra questi ultimi e l'infermo guarito e passa in second'ordine rispetto al vero tema: l'identità divina di Gesù e il suo rapporto con il Padre. Un tema che, man mano che la narrazione procede, acquista sempre più rilevanza fino alla scandalizzata constatazione finale da parte del Giudaismo, che costituisce, assieme al v.17, da un lato il vertice di questa seconda parte; dall'altro diventa il tema del lungo discorso di approfondimento sull'identità di Gesù: “Per questo, dunque, i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, poiché non solo violava il sabato, ma anche diceva proprio padre Dio, facendo se stesso eguale a Dio” (vv.17-18). La questione della legittimità dell'operare di sabato, invece, Giovanni l'affronterà fuori da questo contesto, riportandola ai vv.7,21-23, che richiamandosi proprio a questa seconda parte, rilevano la contraddittorietà della legislazione che regolamenta il sabato.
Questa seconda parte costituisce un'unità narrativa compatta, delimitata dall'inclusione data dal termine “sabato” (vv.9b.18) che apre e chiude questa pericope. Narrativamente e tematicamente la struttura può scandirsi nel seguente modo:
vv.9b-11: riposo sabbatico, una nuova legge si contrappone a quella antica: “Non ti è permesso”, ma “Quello mi ha detto: prendi e cammina”;
vv.12-13: l'identità di Gesù è sconosciuta presso i Giudei ...
v.14-15: … ma è riconosciuta nel Tempio e testimoniato presso i Giudei;
Il v.9b inaugura la seconda parte del racconto dell'infermo risanato, apparentemente incentrata sulla diatriba sabbatica, ma in realtà punta al disvelamento dell'identità di Gesù, che troverà un suo ampio approfondimento nel terzo discorso di Gesù (vv.19-47), di cui questa seconda parte costituisce una sorta di preambolo introduttivo.
Il v.9b si apre con un'espressione temporale, che introduce, ma, come si è detto, solo in apparenza, la questione sul riposo sabbatico: “Ora, era sabato in quel giorno”. Soltanto ora il lettore sa che la guarigione dell'infermo è avvenuta in giorno di sabato, per cui si comprende il richiamo delle autorità giudaiche nei confronti dell'infermo risanato (v.10), il quale, contrariamente alle disposizioni mosaiche sul riposo sabbatico, stava trasportando il suo lettuccio30.
vv.10-11: gli attori che animano questi due versetti sono le autorità giudaiche e l'infermo risanato. Sono due posizione contrapposte e poste a confronto tra loro. Da una parte, le autorità giudaiche, ligie all'osservanza della legge mosaica, significata dal tempo verbale posto all'imperfetto indicativo (œlegon, élegon, dicevano), che dice la persistenza e la continuità dell'azione indicata dal verbo, che evidenzia il loro attaccamento alla Legge. Dall'altra, vi è l'infermo risanato, definito al v.10 come “come colui che era guarito” (teqerapeumšnJ, tetzerapeuméno). La diatriba, quindi, avviene tra “colui che era guarito” e che da quel momento continua ad esserlo (verbo al piuccheperfetto), sottolineando l'efficacia dell'azione redentiva di Gesù, e quelli che invece continuano ad essere ligi alla Legge e chiusi a qualsiasi altro diverso approccio. Ci si trova, dunque, difronte a posizioni completamente diverse e tra loro contrapposte: da un lato il giudaismo, chiuso nelle sue certezze (v.10); dall'altro, il risanato, cioè colui che si è reso disponibile all'azione salvifica di Gesù (v.7), pur non conoscendolo ancora pienamente (v.13a). Il livello di contrapposizione apparirà più evidente nel racconto del cieco nato, al termine del quale le autorità giudaiche sfidano Gesù chiedendogli se anche loro, che si ritenevano illuminate e luce delle genti (Rm 2,17-20), fossero cieche. E Gesù risponderà loro che è proprio questa loro presunzione di sapere, questa loro arroganza che le condanna alla cecità, che verrà loro imputata a condanna (9,39-41).
Al rimprovero di aver violato il commando mosaico sul riposo sabbatico, “colui che era guarito” contrappone un altro commando: “Chi mi ha fatto sano, quello mi disse: “Prendi il tuo lettuccio e cammina”. Il confronto ora viene spostato dai due protagonisti, attori primi di questa scena, ad altri due attori, qui non presenti, ma che qui vengono richiamati: Mosè e Gesù, simboleggiati nei due comandi, anche questi, come si vedrà subito, contrapposti e irriducibili l'uno all'altro: “non ti è lecito portare pesi di sabato” - “mi ha detto: prendi e cammina”. Ci si trova di fronte ad un Gesù che reinterpreta la Legge a favore dell'uomo e che lo invita a riprendere il suo cammino verso Dio. La Legge divina infatti non può essere per sua natura contro l'uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, e se ciò avviene significa che essa ha subito una qualche distorsione da parte degli uomini. Significativo è come Gesù viene definito: “Chi mi ha fatto sano”, una sorta di perifrasi del nome di Gesù (Yĕhošūa‘) che significa “Dio è salvezza” o “Dio salva”. Il comando, dunque, è pronunciato da “Chi fa sano” e che quindi possiede in se stesso una forza rigeneratrice capace di risanare, cioè di restituire all'uomo degradato dal peccato la sua originaria dignità perduta. Una forza rigeneratrice che è strettamente legata alla parola di “Chi risana”, la quale è parola capace di generarlo alla vita eterna, che possiede in se stessa. Infatti alla perifrasi “Chi mi ha guarito” segue il verbo “mi disse”, un verbo che contiene in se stesso quella forza creatrice primordiale: “E Dio disse” (Gen 1,3) e che risuonerà ancora nell'Apocalisse: “E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>” (Ap 21,5a). Il principio e la fine, quasi che tutto ciò che ci sta di mezzo, la storia dell'uomo, altro non sia che un atto creativo che continua rigenerare alla vita eterna e che trasforma la storia umana in storia di salvezza. È la rigenerazione cosmica che avviene per mezzo della Parola, di quel Logos eterno che tutto ha creato e senza del quale nulla sussiste (1,3).
I vv.12-13 aprono la questione sull'identità di Gesù: “chi è l'uomo” (T…j ™stin Ð ¥nqrwpoj, Tís estin o ántzropos). L'uso del sostantivo “¥nqrwpoj” (ántzropos, uomo), che indica l'uomo in senso generale, l'uomo comune31, accentua maggiormente l'anonimia e quindi la non conoscenza di Gesù, che è noto solo per il suo comando dato, “Prendi e cammina”, di cui i Giudei si scandalizzano, perché è un'istigazione a violare il sabato. Gesù, dunque, non solo non è conosciuto dalle autorità giudaiche, ma la sua figura di taumaturgo è percepita negativamente perché si pone contro le disposizioni mosaiche, così come avviene nel racconto con il cieco nato (9,16). Similmente anche per l'infermo risanato Gesù è uno sconosciuto: “Ma quello che era stato guarito non sapeva chi è”. L'uso dell'imperfetto indicativo (“non sapeva”) sottolinea come questa sua ignoranza su Gesù, benché sia stato da lui risanato e rigenerato a nuova vita, sia persistente finché egli rimane in mezzo alla folla. Annota infatti l'autore che l'ignoranza del risanato circa l'identità di Gesù era dovuta al fatto che Gesù si era allontanato dalla folla presente in quel luogo: “infatti Gesù si ritirò, essendoci folla in quel luogo”. Il ritirarsi di Gesù da quel luogo dove c'era molta folla, che certamente era di Giudei, parla di un Gesù che esce dal giudaismo e dalle sue logiche mosaiche. Il verbo greco usato per indicare il ritirarsi di Gesù infatti è “™xšneusen” (exéneusen), composto da “ek+neuo”, che letteralmente significa uscire dall'acconsentire. Gesù, dunque, non dà più il suo consenso al giudaismo, simboleggiato dalla folla dei Giudei. Il termine folla assume in Giovanni quasi sempre dei connotati negativi ed è espressione di un anonimato religioso e di una debolezza e superficialità di fede che impediscono una vera e propria scelta di vita a favore di Gesù e tale da aprire alla sequela, quando la folla non assume atteggiamenti ostili o di ostinata incredulità nei suoi confronti32. In altri termini i vv.11-12 attestano l'inconoscibilità e l'irraggiungibilità di Gesù se si rimane nel giudaismo. Il racconto dell'infermo risanato e le conseguenti considerazioni dei vv.9b-18 probabilmente sono un ammonimento da parte di Giovanni a quei giudeocristiani della propria comunità, che, abbracciata la fede in Gesù, continuavano a praticare la fede giudaica. Un fenomeno questo molto diffuso presso i giudeocristiani giudaizzanti, di cui Paolo ci dà testimonianza nelle sue lettere33.
I vv.14-15 potremmo sintetizzarli in due parole: conoscenza di Gesù (v.14) e sua testimonianza (v.15). Il v.14 si apre con una nota redazionale caratteristica di Giovanni, che crea uno stacco netto con la narrazione precedente e apre un nuovo momento narrativo: “Dopo queste cose”34. Narrativamente si è reso necessario questo stacco perché l'infermo risanato, che si era lasciato nella disputa con i Giudei, si ritrova ora improvvisamente nel tempio a faccia faccia con Gesù. Ma l'espressione “Dopo queste cose” imprime anche uno stacco temporale ponendo un ampio spazio tra il prima e il dopo dell'infermo, tra il suo appartenere prima al giudaismo e il suo ritrovarsi ora in un nuovo tempio, come vedremo subito. Quel “Dopo queste cose”, quindi, allude anche ad una evoluzione interiore dell'infermo risanato che dal giudaismo è passato ora a Gesù. Il risanato, dunque, ha lasciato la folla dei Giudei e si è recato al tempio ed è proprio qui che egli incontra Gesù. Per trovare Gesù pertanto si rende necessario l'uscire dal giudaismo. L'entrare nel tempio dice come la guarigione dell'infermità, metafora dell'incapacità di rapportarsi a Dio, consenta ora una ripresa del rapporto con Lui e quindi il riattivarsi della vita spirituale. Ed è nel tempio, ma non più il Tempio del giudaismo, dove si celebra l'antico culto mosaico, ma quello che Gesù ha dichiarato essere la casa del Padre suo (2,16b), quel tempio che è stato ricostruito da Lui in tre giorni (2,20.21), è qui che egli trova Gesù e ne conosce l'identità; si tratta tuttavia di una conoscenza ancora imperfetta, non vi è infatti nessuna professione di fede come nel racconto del cieco nato (9,38), ma soltanto un incontro in cui Gesù lo esorta duramente a rimanere sano e a non peccare più perché non gli accada qualcosa di più grave. Un'ammonizione insolita per il linguaggio giovanneo, che ritroviamo molto simile soltanto in 8,11, il racconto dell'adultera, che però non sembra per stile e linguaggio appartenere a Giovanni. Così posto il v.14 appare più una sorta di anatèma che Giovanni lancia contro i giudei giudaizzanti della propria comunità. Infatti, l'infermo, come si è sopra detto (pagg. 11-12), è figura di un Israele ingessato da una Legge e da un culto che gli impediscono un suo rapporto con Dio nella sincerità di cuore. L'avere ora incontrato Gesù, che lo ha liberato da tutta questa pesantezza giuridica, che lo soffocava (Mt 23,4) diventa per il giudeo che ha scelto Gesù un impegno di libertà dal giudaismo. Similmente Paolo, rivolgendosi ai Galati, che dopo aver abbracciato entusiasticamente Cristo, sospinti dai giudaizzanti, erano ritornati ad abbracciare la Legge mosaica, li esorta rimproverandoli: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,1-4).
Il v.15 sembra riferire un triste episodio di delazione e di grave ingratitudine: l'infermo risanato ora va a denunciare Gesù presso le autorità giudaiche che gli avevano chiesto chi fosse l'uomo che lo aveva spinto a violare il sabato (“Prendi e cammina” v.12). In realtà le cose stanno ben diversamente. Tutto si gioca su due elementi: sul verbo “¢n»ggeilen” (anéngheilen), che nel linguaggio neotestamentario significa riferire ed è posto quasi sempre in stretta relazione ad un evento salvifico, di cui si dà testimonianza con il riferirne l'accadimento35. Il secondo elemento è il contenuto di questa testimonianza: “è Gesù colui che lo ha fatto sano”. I Giudei gli avevano chiesto il nome di chi lo aveva sospinto a violare il sabato; l'infermo risanato lega il nome di Gesù non ad una violazione del sabato, ma alla suo risanamento, parafrasando il nome di Gesù stesso. Non quindi una denuncia, ma una testimonianza di un evento salvifico di cui l'infermo è stato testimone in prima persona e in cui è stato coinvolto. Si noti che la testimonianza non è una professione di fede in Gesù salvatore, ma l'annuncio di un evento di salvezza.
I vv.16-18 costituiscono da un lato la motivazione che sottende l'atteggiamento ostile del giudaismo nei confronti di Gesù; dall'altro introducono il tema che sarà ripreso dal terzo discorso (vv.19-47), che occupa l'ultima parte del cap.5 e lo conclude.
La struttura di questa breve pericope si sviluppa su di un parallelismo concentrico in B) e che si snoda su un abbozzo di pensiero a spirale; per cui si avrà:
A') v.18:
seconda
motivazione che riprendendo i vv.16.17 completa la precedente
motivazione.
Il
v.16 fornisce la
prima motivazione per cui Gesù è perseguitato: “perché
faceva queste cose di sabato”.
Non ci è dato di sapere nello specifico che cosa facesse e
certamente qui non ci si riferisce unicamente all'episodio di
guarigione dell'infermo. Nessuno perseguitava una persona perché ha
commesso una piccola violazione del sabato. Tuttalpiù lo si
riprendeva, magari duramente, ma non lo si perseguitava. Da come è
posto il v.16, in particolar modo la sua seconda parte, si tratta
probabilmente di una sorta di sommario, che dipinge Gesù come un
sistematico violatore del sabato. L'uso dell'imperfetto nei verbi
“perseguitare” e “fare” sta ad indicare come la violazione
del sabato da parte di Gesù non fosse saltuaria ed occasionale, ma
reiterata.
Il
v.17 riporta sotto
forma di discorso diretto la risposta di Gesù all'accusa di
violazione del sabato. Tuttavia non si capisce a chi Gesù risponda,
considerato che in tutto il racconto egli non è mai stato coinvolto
direttamente nella disputa sul sabato. Certamente è l'autore che
sente da un lato la necessità narrativa di introdurre
un'attestazione diretta di Gesù, che fa da titolo e da argomento al
terzo discorso (vv.19-47); dall'altro essa forma la giustificazione
di fondo del suo operare di sabato e, infine, mette i presupposti al
v.18, che a sua volta suggerisce come vada compresa l'affermazione di
Gesù del v.17.
Il
motivo, dunque, per cui Gesù opera anche in giorno di sabato è
perché “Il
Padre mio fino ad ora opera, anch'io opero”.
Parlare di Dio come proprio padre e quindi considerarsi suo figlio
non è certo uno scandalo presso Israele, che si considerava figlio
di Dio e che riteneva Dio suo padre. Ogni israelita era considerato
figlio di Dio36.
Perché allora l'affermazione di Gesù di chiamare Dio suo padre crea
scandalo e fa scattare la molla della persecuzione? Tre sono gli
elementi che fanno capire come Gesù stesse riferendosi alla sua
figliolanza divina non in senso metaforico o teologico, ma reale; due
sono di ordine letterario e uno di ordine teologico. Il primo
elemento letterario è la stessa costruzione della frase, che crea un
parallelismo tra l'operare del Padre e quello di Gesù “Il Padre
mio opera” - “anch'io opero”, significando che l'operare di
Gesù e quello del Padre si equivalgono, sono tra loro posti in
parallelo, un parallelismo che quel “fino ad ora” sembra far
coincidere; l'operare del Padre infatti arriva fino lì al presente
(›wj
¥rti, éos
árti)
dove c'è quello del Figlio. Il secondo elemento letterario è quel
“kaˆ+™gë”
(kaì+egò),
che è stato tradotto con “anch'io”, rafforzando in tal modo il
parallelismo dei due operare. Ma quel “kaì”
può essere parimenti tradotto con la congiunzione “e”, per cui
si avrà che “Il Padre mio fino ad ora opera e io opero”, che
favorisce la comprensione come l'operare del Padre scivoli e si
rifletta in quello di Gesù. In altri termini, proprio perché il
Padre opera Gesù opera, così che l'operare del Padre diventa
giustificativo di quello di Gesù. Se così è, allora Gesù è
espressione storica dello stesso agire del Padre; quell'agire che fa
la sua prima apparizione nella creazione genesiaca, dove il “Dire”
del Padre è anche sua Azione creatrice (Gen 1,3ss). Non a caso il
grande discorso di Gesù (vv.19-47), che segue immediatamente, si
apre sottolineando proprio questo concetto: “In
verità, in verità vi dico, il Figlio non può fare da se stesso
niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che
quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa.”
(v.19); e similmente, rivolto a Filippo, Gesù ribadisce: “Non
credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io
vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me
compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è)
in me; se no, credete(lo) per le stesse opere.”
(14,10-11). L'operare di Gesù, dunque, è lo stesso operare del
Padre, così che Gesù diventa non solo lo spazio storico in cui il
Padre opera, ma egli stesso è l'agire storico del Padre.
Ma
è soprattutto il terzo elemento di natura teologica che fa capire ai
Giudei come egli, Gesù, si ponga alla pari di Dio, creatore e
provvido sostentatore di tutte le cose. Gen 2,3 racconta come “Dio
benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva
cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto”.
Anzi il fondamento del riposo sabbatico è proprio questo riposarsi
di Dio nel settimo giorno (Es 20,10-11). Tuttavia i maestri del
pensiero giudaico si rendevano ben conto che l'operare di Dio non
poteva conoscere soste, perché tutto dipendeva da Lui e dal suo
incessante agire creativo, pena la fine di tutte le cose37.
La Provvidenza pertanto doveva rimanere necessariamente attiva anche
di sabato. Del resto il Dio di Israele non è mai stato concepito
come un Dio statico, una sorta di aristotelico motore immobile, ma il
suo operare, il suo agire creativo è insito nella sua stessa natura,
così che egli non può fare a meno di operare e di creare. Filone
infatti afferma che “Come il bruciare appartiene all'essenza del
fuoco e il raffreddarsi a quello della neve, così il creare
all'essenza della divinità, tanto più sicuramente in quanto essa
offre la fonte dell'attività a tutti gli esseri” (Allegoriæ,
1,5-6)38.
Dio quindi si qualifica per questo suo connaturato agire continuo e
inarrestabile, superando ogni divieto sabbatico e ogni settimo
giorno. È molto probabile che il Gesù giovanneo nell'affermare che
“Il Padre mio opera fino ad ora” avesse presente questo dato
teologico del giudaismo, che fa proprio, scandalizzando le autorità
giudaiche.
Il v.18
costituisce il vertice della pericope vv.16-18; esso infatti
riprendendo i vv.16.17 ne sviluppa il significato esplicitandolo
senza più giri di parole: “Per questo, dunque, i Giudei cercavano
ancor più di ucciderlo, poiché non solo violava il sabato, ma anche
diceva proprio padre Dio, facendo se stesso eguale a Dio”. In altri
termini, Gesù viola ripetutamente il sabato e giustifica questo suo
comportamento adducendo che egli è Dio come suo Padre, da cui
proviene ed è stato generato39.
È questa sua affermazione scandalosamente inaudita che costituisce
il motivo di persecuzione. Il v.18 infatti inizia con “di¦
toàto oân” (dià tûto ûn, per questo dunque), in
cui il “per questo” aggancia il v.18 ai vv.16.17, mentre il
“dunque” ne trae le conclusioni. La persecuzione dei giudei nei
confronti di Gesù, pertanto, dipende da questo suo comportamento
dissacratore e dalle sue blasfeme affermazioni, che vanno ben al di
là della semplice occasionalità momentanea. Significativi infatti
sono i verbi di questo versetto, tutti posti all'imperfetto
indicativo per indicare come il tentativo di uccidere Gesù non fu
soltanto un fatto saltuario e occasionale, ma persistente nel tempo
(“cercavano ancor più di ucciderlo”), proprio come il violare e
il dire di Gesù erano persistenti e continuativi e tali da
caratterizzarlo (“violava” e “diceva”). La gravità del
comportamento di Gesù nei confronti del sabato non consiste soltanto
nella sua formale violazione, ma nel suo tentativo di destituirlo
dalla sua sacralità ingessante e paralizzante. Il verbo “violare”
infatti è reso in greco con “luw”
che significa “sciogliere, rompere, spezzare violare, porre fine”.
Il tentativo di Gesù dunque è quello di riformare in profondità il
significato del sabato, sciogliendolo da una rigidità rituale e
cultuale che aveva ingessato l’uomo nel suo rapporto con Dio,
riducendolo di fatto ad una sorta di schiavitù religiosa, in cui la
dignità della persona e la sua evoluzione umana e spirituale era
posposta all'osservanza legalistica della Torah. Matteo nel suo duro
attacco al giudaismo del cap. 23 al v.3a accusa le autorità
religiose di legare pesanti fardelli e di imporli sulle spalle della
gente, riducendo tutta la religiosità e il rapporto con Dio ad una
mera formalità di osservanza legalistica. Gesù ne ha invertito
l’orientamento: non più l’uomo in funzione del sabato, bensì
questo in funzione dell’uomo (Mc 2,27-28). Come sempre tutte le
norme sia morali che religiose e sociali in genere devono porre
sempre al centro l’uomo e rispettarlo nella sua dignità cercando
di elevarlo e non di umiliarlo con continui divieti o minacce di
dannazione, scambiando spesso la propria volontà con quella divina,
creando delle inutili torah orali, che Gesù ha già definito,
squalificandole, come dottrine che sono solo precetti di uomini (Mt
15,9; Mc 7,7)40.
Non si tratta qui di creare una religione antropologica, ma di
seguire soltanto il movimento di Dio che va da se stesso verso
l’uomo. Non è l’uomo infatti che è andato da Dio, ma Dio che si
muove a favore dell’uomo e gli tende la mano nel suo Cristo.
L’intera storia della salvezza infatti mostra l'interesse di Dio
per l’uomo al punto tale da mandare suo Figlio (Gv 3,16).
Un ultimo appunto infine va riservato a quel “m©llon” (mâllon, ancor di più), che dice come vi erano altri motivi per cui le autorità giudaiche perseguitavano Gesù, ma che questi (v.18) li superavano tutti. Davanti a Pilato infatti le autorità giudaiche attestano come la condanna a morte di Gesù sia dipesa proprio da questo suo dichiararsi figlio di Dio e quindi Dio lui stesso: “Noi abbiamo una legge e secondo la legge costui deve morire, poiché fece se stesso figlio di Dio” (19,7). La reazione di Pilato sarà quella di una grande paura (19,8), proprio come avviene nelle teofanie, dove alla manifestazione della divinità l'uomo si annichilisce nella paura e nel timore.
L'identità di Gesù e i suoi rapporti con il Padre (vv.19-47)
Testo (vv.19-47) a lettura facilitata
19-
Rispose, dunque, Gesù e diceva loro: <<In verità, in verità
vi dico, il Figlio non può fare da se stesso niente, se non ciò che
vede fare il Padre; infatti, quelle cose che quello fa anche il
Figlio ugualmente queste fa.
20-
Il Padre, infatti, vuole bene al Figlio e gli mostra tutto ciò che
egli fa, e gli mostrerà opere maggiori di queste, affinché voi
stupiate.
21-
Come il Padre, infatti, fa risorgere i morti e vivifica, così anche
il Figlio vivifica quelli che vuole.
22-Il
Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato al Figlio ogni
giudizio,
23-
affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Colui che
non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato.
24-
In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede
a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in giudizio, ma
è passato dalla morte alla vita.
25-
In verità, in verità vi dico che viene l'ora, ed è adesso, quando
i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che hanno
ascoltato vivranno.
26-
Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così anche al Figlio
ha dato di avere la vita in se stesso.
27-
E gli diede potere di fare giudizio, poiché è Figlio dell'uomo.
28-
Non stupite di questo, poiché giunge l'ora in cui tutti quelli che
(sono) nei sepolcri ascolteranno la sua voce,
29-
e quelli che hanno fatto cose buone usciranno per una risurrezione di
vita, ma quelli che hanno fatto cose cattive per una risurrezione di
giudizio.
30-
Io non posso fare niente da me stesso; come ascolto giudico, e il mio
giudizio è giusto, poiché non cerco la mia volontà, ma la volontà
di colui che mi ha mandato.
Quattro testimonianze attestano la veridicità su Gesù
31-
Se io testimonio di me stesso, la mia testimonianza non è vera;
32-
un altro è colui che testimonia di me e so che è vera la
testimonianza che (egli) testimonia di me.
33-
Voi avete mandato a (interrogare) Giovanni,
e ha dato testimonianza alla verità;
34-
ma io non ricevo la testimonianza da un uomo, ma dico queste cose
perché voi siate salvi.
35-
Quello era la lampada, che brucia e sparge luce; ora voi desideraste
esultare per un'ora nella sua luce.
36-
Ma io ho una testimonianza più grande (di quella) di Giovanni;
infatti le
opere che il Padre mi ha dato
perché le porti a compimento, queste opere che faccio testimoniano
su di me che il Padre mi ha inviato.
37-
E il Padre
che mi ha mandato, quello testimoniò di me. Né voi mai ascoltaste
la sua voce, né vedeste il suo aspetto,
38-
e non avete la sua parola che rimane in voi, poiché quegli lo mandò,
a questo voi non credete.
39-
Indagate le Scritture
perché voi credete di avere in esse la vita eterna; e sono (proprio)
quelle che testimoniano su di me;
40-
e non volete venire da me per avere la vita.
Requisitoria contro il Giudaismo
41-
Non prendo gloria dagi uomini,
42-
ma so che voi non avete l'amore di Dio in voi stessi.
43-
Io sono venuto nel nome del Padre mio, e non mi accogliete; se un
altro venisse nel proprio nome, quello (lo) accogliereste.
44-
Come potete credere voi, che ricevete gloria gli uni dagli altri e
non cercate la gloria, quella (che viene) dall'unico Dio?
45-
Non crediate che io vi accusi presso il Padre; è Mosè che vi
accusa, nel quale voi avete sperato.
46-
Se infatti credeste a Mosè, credereste (anche) a me; poiché quello
scrisse di me.
47-
Ma se non credete agli scritti di quello, come crederete alle mie
parole?
Note generali alla sezione 5,19-47
Questa
ampia sezione è dottrinalmente molto densa perché rivelativa del
Mistero che opera in Gesù, cioè della sua identità, del suo potere
e dei suoi rapporti con il Padre. Essa si snoda sulla falsa riga di
un processo scandito in tre parti, che costituiscono la
macrostruttura di questa sezione:
vv.19-30: le affermazioni di Gesù (parte propriamente dottrinale e rivelativa);
vv.31-40: le quattro testimonianze che supportano le affermazioni di Gesù rendendole credibili: Giovanni (vv.33-35), le opere (v.36-), il Padre (vv.37-38) e le Scritture (v.39-40);
vv.41-47: il giudizio posto sull'incredulità dei Giudei è insito nelle Scritture stesse, nelle quali di fatto i Giudei non credono.
Una particolare attenzione va posta sulla prima parte (vv.19-30), quella rivelativa, narrativamente molto curata, ma nel contempo strutturalmente piuttosto complessa. Essa costituisce un'unità narrativa a se stante, delimitata dall'inclusione data dalle due espressioni “il Figlio non può fare da se stesso niente” e “Io non posso far niente da me stesso”, poste rispettivamente nei vv.19 e 30. Essa è caratterizzata da un continuo rincorrersi di stessi pensieri che si riprendono l'un l'altro come in una sorta di vortice a spirale, caratteristico modo di esprimersi di Giovanni.
A sua volta questa unità narrativa (vv.19-30) si suddivide in tre sottoparti:
vv.19-21: questa prima parte è caratterizzata dalla presenza del verbo “fare”, che si ripete sette volte in tre versetti41 e costituisce la risposta diretta all'affermazione del v.17: “Il Padre mio fino ad ora opera, anch'io opero” (operare = fare), che qui viene ripreso e sviluppato tematicamente. I tre versetti sono collegati tra loro da una continua ripresa di tre termini: Padre, Figlio e fare, in un costante crescendo che porta ad un continuo approfondimento. Siamo in presenza del pensiero a spirale, caratteristico modo, tutto giovanneo, di condurre le riflessioni. Infatti nel v.19, che riprende il v.17, ci si sofferma sull'operare del Padre che è riflesso in quello del Figlio; nel v.20 si precisa che l'operare del Padre è rivelato in pienezza al Figlio; nel terzo passaggio, v.21, si attesta che questo operare del Padre consiste nel far risorgere i morti e nel vivificare e che questo si riflette nel Figlio. Quest'ultimo versetto verrà ripreso successivamente dai vv.24-26.
vv.22-27: questa seconda parte è delimitata dall'inclusione data dalle espressioni “ha dato al Figlio ogni giudizio” e “gli diede potere di fare giudizio”, rispettivamente poste nei vv. 22 e 27. L'inclusione oltre che delimitare una unità narrativa crea il contesto tematico del giudizio, il cui esercizio è assegnato dal Padre a Gesù. All'interno di questo contesto il precedente v.21 viene ripreso, sviluppato e approfondito dai vv.24-26, che a loro volta sono ripresi e portati a conclusione dai vv.28-30. Il tutto è inserito, come si è detto, in un contesto di giudizio, la cui titolarità è stata assegnata dal Padre a Gesù; la sua presenza infatti si pone come atto discriminante tra chi gli crede e chi, invece, lo rifiuta (v.25), preludio ai vv.41-47, che sviluppano il tema del giudizio posto sull'incredulità di Israele.
vv.28-30: il v.28 si aggancia al v.25, lo riprende e lo approfondisce nel v.29, che proietta il lettore in un contesto escatologico universale (verbo principale al futuro), mentre con il v.30 si ribadisce definitivamente come il giudizio posto sul mondo riflette in sé quello del Padre, che opera nel Figlio.
La seconda parte (vv.31-40) di questa ampia sezione (vv.19-47) riporta una quadruplice testimonianza la cui finalità è attestare la veridicità di quanto affermato ai vv.19-30, che va a toccare il Mistero di relazione tra Gesù e il Padre e che funge da sua chiave di lettura interpretativa. Questa pericope (vv.31-40) è caratterizzata dalla molteplice presenza dei termini testimoniare e testimonianza, che ricorrono per ben undici volte. L'insistenza del testimoniare posto sul Mistero di Gesù e il chiamare al banco dei testimoni il Battista (vv.33-35), le opere (v.36), il Padre (vv.37-38) e le Scritture (v.39) ci dice il livello di importanza che riveste questa parte dottrinale (vv.19-30), che appare qui per la prima volta trattata in modo così sistematico e complesso e che non avrà altri paragoni in tutto il racconto giovanneo.
La terza e ultima parte (vv.41-47), che ha il suo preludio nel tema del giudizio (vv.22-30), si incentra ora interamente sull'incredulità dei Giudei, il cui interesse più che a Dio è rivolto verso gli uomini di cui cercano il consenso. Il motivo di fondo è che essi non amano Dio e pertanto neppure la Scrittura, di cui si vantano, ma che non ascoltano. Per questo essa si ergerà a loro giudice.
Commento alla sezione 5,19-47
vv.19-21: il discorso di Gesù è introdotto da una nota redazionale di tipo narrativo: “Rispose, dunque, Gesù e diceva loro”. In realtà, già lo si è visto al v.17, Gesù non è mai stato direttamente coinvolto nella diatriba con i Giudei in questo racconto di guarigione, per cui questo rispondere a loro assume il significato di una presa di posizione ufficiale, teologicamente e dottrinalmente motivata, da parte della comunità giovannea a tutte le critiche che Gesù subiva dalle autorità religiose per il suo comportamento libero nelle osservanze non solo del riposo sabbatico, ma anche per ciò che concerneva il mancato rispetto dei digiuni42 e della purità rituale43. Da dove dunque gli veniva una simile libertà o, meglio, una simile autorità, che gli consentiva non solo di violare, ma anche di giustificare con autorevolezza la violazione stessa?44. L'occasione in questo contesto non è tanto il suo operare di sabato, che qui non è sotto accusa, ma il comandare che altri lo facessero (“alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina” vv.8-12), cioè la sua autorità e autorevolezza in materia di riposo sabbatico, che si ponevano in contrasto con quelle mosaiche. Da dove dunque tanta autorità e tanta impertinenza? Il Gesù giovanneo risponderà con questo discorso (vv.19-30), che sonderà il Mistero di Dio stesso, a cui è rimandata la sua autorità.
I vv.19-21 si richiamano a cascata l'uno l'altro, seguendo i movimenti del pensiero a spirale caratteristico di Giovanni. In ogni passaggio, da un versetto all'altro, si aggiunge un tassello rivelativo del rapporto che intercorre tra i Due. Il v.19, infatti, attesta la stretta comunione e interdipendenza tra Gesù e il Padre, tra l'operare del primo e quello del secondo; il v.20 spiega in quale modo ciò sia possibile; infine il v.21 rivela il contenuto dell'operare del Padre nell'operare del Figlio, così che quest'ultimo diventa manifestativo e rivelativo del primo. Come già si è sopra accennato (pag.23), i tre termini ricorrenti in questi tre versetti sono “Padre, Figlio e fare”, che riprendendo il v.17 ne danno spiegazione.
L'importanza di questa breve pericope (vv.19-21) è sottolineata dall'aprirsi del discorso di Gesù con una formula cara a Giovanni, ricorrente 25 volte nel suo vangelo, e che suona come una sorta di giuramento solenne: “In verità in verità vi dico”45. Questa formula viene ripetuta tre volte nella pericope 5,19-30 e viene anteposta ad affermazioni dottrinalmente e teologicamente rilevanti (vv.19.24.25).
La
risposta contenuta nel v.19 è scandita in due parti: affermazione e
giustificazione. La parte affermativa, che forma inclusione con il
v.30a, facendone il leit
motiv
della pericope (vv.19-30), attesta che “il Figlio non può fare da
se stesso niente, se non
ciò che vede fare il Padre”; in altri termini, il fare del Figlio
è compreso da Giovanni come un fare dipendente da quello del Padre,
creando una interconnessione tra i due fare, che è resa maggiormente
vincolante, unica ed esclusiva da quel “se non” (™¦n
m»,
eàn
mé).
In tal modo il Figlio diventa espressione fedele, unica e
irripetibile del Padre, così che il fare del Figlio è lo stesso
fare del Padre; ma nel contempo dice come il Padre senza il fare del
Figlio non può esprimere il proprio fare, che opera solo ed
esclusivamente nel e per mezzo del Figlio (1,3), il quale,
riproducendo in se stesso il fare del Padre, ben si può definire
come Azione del Padre; non solo, ma anche Comunicazione
manifestatrice e rivelatrice del Padre, che perciò stesso diventa
anche Estrinsecazione unica e irripetibile del Padre. Tutto ciò il
Gesù giovanneo lo dice con un'espressione molto significativa: “Io
e il Padre siamo una cosa sola”
(v.10,30). Non si tratta di un semplice modo di dire per affermare
che vanno d'amore e d'accordo, ma rivela un loro modo di essere, che
dice una piena, perfetta e profonda comunione intercompenetrativa di
tipo osmotico. Il rapporto, pertanto, che intercorre tra Padre e
Figlio non è un rapporto di obbedienza o di sottomissione, non nel
senso in cui la intendiamo noi, ma un rapporto di necessità,
dipendente dalla loro stessa natura, dal loro stesso modo di essere,
che genera questo loro esclusivo e irripetibile modus
operandi,
che non ha riscontri o termini di paragone all'interno della nostra
esperienza. Posta la cosa in questi termini, il Figlio ha come
funzione primaria, unica ed esclusiva quella di essere l'attuazione
del Padre, che è la conditio
sine qua non
del suo essere Figlio. Non è un caso se il Gesù giovanneo afferma
che “il Figlio non può fare da se stesso niente”, non perché il
Figlio sia un inetto per cui ha sempre bisogno della direttiva del
Padre perché combini qualcosa di buono, ma perché il Figlio è in
funzione del Padre ed è suo fondamentale e essenziale Strumento
attuativo, senza il quale il Padre, da un lato, non può né
esprimersi in modo comunicativo né operare in modo attuativo;
dall'altro, il Figlio perderebbe il senso del suo essere Figlio. In
altri termini la natura del Figlio non è quella di operare
parallelamente al Padre, ma per
il Padre, recependo in se stesso l'attività paterna. È
significativo come Giovanni presenta il Logos al v.1,1: “In
principio era la Parola e la Parola era presso Dio, e Dio era la
Parola”. La Parola, dunque, è posta al principio di tutto, perché
essa è l'Azione attuatrice e rivelatrice del Padre, attraverso la
quale il Padre opera e manifesta se stesso così che “Tutto avvenne
per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna cosa” (1,3). È
significativa l'espressione che indica la posizione della Parola nei
confronti del Padre: “Ð
lÒgoj Ãn prÕj tÕn qeÒn”
(o
lógos
ên
pròs tòn tzeón),
cioè la Parola era rivolta
verso
Dio (pròs),
che esprime da un lato l'orientamento connaturato della Parola verso
il Padre, quasi in un atteggiamento aperto e accogliente in se stessa
il Padre; dall'altro dice come questa Parola sia in funzione del
Padre, senza la quale il Padre risulterebbe incomunicante e
irraggiungibile e il suo operare diverrebbe inattuabile, venendo
frustrato nella sua natura di Amore, che è essenzialmente donativa e
creativa.
La
particolare relazione che lega il Figlio al Padre, in via del tutto
unica ed esclusiva e che fa sì che l'operare del Figlio sia quello
del Padre e che diversamente non può essere, è data, come sopra
accennato, dall'espressione “se non” (™¦n
m»,
eàn
mé)
che va a cadere sul verbo vedere, indicando sia l'esclusività che la
fondamentalità di questo vedere: “se non ciò che vede fare il
Padre”. Il verbo vedere è qui reso con il verbo greco “blšpw”
(blépo),
che indica un vedere fisico, materiale, quasi un toccare
concretamente con lo sguardo. Apparentemente qui non sembra esserci
niente della sublimità e della qualità del verbo “oráo”,
il vedere proprio di Dio; in realtà con questo verbo l'autore vuole
sottolineare la visione diretta, quasi fisica, che il Figlio ha del
Padre e, quindi, la sua conoscenza unica ed esclusiva del Padre e del
suo operare, della sua stessa vita. È l'unico, in altri termini, che
può accedere direttamente e in modo del tutto privilegiato al Padre,
sondandone il Mistero, di cui il Figlio è portatore e rivelatore. Si
tratta, dunque di un operare che è reso possibile da una visione
diretta, che il Figlio ha del Padre; un vedere che esprime il flusso
di vita divina che scorre dal Padre verso il Figlio e che il Figlio,
accogliendolo in se stesso, attua e manifesta, rendendolo
raggiungibile agli uomini per mezzo della fede.
Introdotta
da un “g¦r”
(gàr,
infatti) dichiarativo la seconda parte della risposta riportata al
v.19 diventa esplicatrice e giustificatrice della prima: “infatti,
quelle cose che quello fa anche
il Figlio ugualmente queste fa”.
Un'espressione questa che sottolinea una volta di più come l'operare
del Figlio sia lo stesso operare del Padre, creandone una
identificazione. A Filippo che gli chiedeva di mostrargli il Padre,
Gesù risponde: “Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come
tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e
il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me
stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi
che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per
le stesse opere” (14,9b-11).
A
tal punto va riservata un'attenzione sull'espressione “il Figlio
ugualmente fa” (Ð
uƒÕj Ðmo…wj poie‹,
o
iiòs omoíos
poieî).
Sembra quasi che il Figlio guardi il Padre e in qualche modo lo
scimmiotti o cerchi di interpretarne i desideri o l'agire, dandone
risonanza per proprio conto. Il Figlio non è un mimo del Padre, la
quale cosa lo renderebbe del tutto inutile, ma è il Padre che
riversa il suo operare nel Figlio, che ne dà attuazione; ecco perché
l'operare del Figlio è identico all'operare del Padre. L'operare del
Figlio rende possibile quello del Padre, ne dà concretezza e
attuazione, rendendolo manifesto. Da parte sua il Figlio non ha un
operare suo personale, che si ponga in parallelo a quello del Padre,
quasi venendogli in soccorso o completandone l'opera, giusto per
dargli una mano, ma è l'operare del Padre che sostanzia quello del
Figlio, così che il Figlio da se stesso non può fare niente
(vv.19.30a). La funzione primaria del Figlio è dunque quella di dare
concretezza all'agire del Padre, ma non nel senso di un'esecuzione
scrupolosa dell'agire del Padre, bensì di sostanziare il proprio
agire con quello del Padre.
Il
v.20
si snoda attorno al verbo mostrare che ha il suo preambolo, a cui si
aggancia, nel verbo “vedere” del v.19. In altri termini il Figlio
vede ciò che il Padre opera (v.19) perché il Padre glielo mostra
(v.20). Non ci si deve lasciar ingannare dalla semplicità, quasi
banale, dell'affermazione del v.20, che sembra una mera
specificazione del v.19. In realtà esso introduce, in modo molto
sottile, un approfondimento del mistero che regola il rapporto tra i
Due, sottolineando la grande diversità che esiste tra il Padre e il
Figlio, pur nell'uguaglianza dell'identica natura divina.
Il v.20 si struttura su tre parti: la prima riguarda il rapporto di amore tra il Padre e il Figlio; la seconda, quasi come conseguenza di questo amore, parla del manifestarsi del Padre al Figlio; la terza riguarda il fine di questo disvelarsi del Padre al Figlio. Quanto alla prima parte Gesù afferma che “Il Padre, infatti, vuole bene al Figlio”. Quel “vuole bene” è reso in greco con il verbo “file‹” (fileî) anziché “¢gap´” (agapâ), verbo quest'ultimo che Giovanni usa rigorosamente quando parla dell'amore del Padre nei confronti del Figlio46. Questo del v.5,20a è l'unico caso in cui l'autore usa il verbo “filéo” per indicare l'amore del Padre verso il Figlio. Per poterne cogliere il senso è necessario capire la differenza tra i due verbi: “agapáo” parla di un amore spirituale e qualitativamente superiore, un amore che unisce i membri di una comunità credente e nel N.T. è prevalentemente usato, in particolar modo in Giovanni, per indicare l'amore di Dio nei confronti del Figlio e degli uomini; il verbo “filéo”, pur trattandosi sempre di un amore depurato dalla carnalità della passione, per il quale il greco usa il verbo “eráo”, tuttavia, a differenza di “agapáo” indica un rapporto affettivo e di amicizia, esprimendo il voler bene, il senso di compiacimento verso la persona; un legame affettuoso che lega due persone47. Il fatto che Giovanni in questo unico caso e in questo contesto dottrinale usi il verbo “filéo” anziché “agapáo” per indicare la relazione di amore tra il Padre e il Figlio sta ad indicare che il Figlio, pur uguale al Padre nella sua natura divina, tuttavia differisce notevolmente da Lui nella relazionalità tra persone. In altri termini, il Figlio non può come persona porsi alla pari del Padre, ma da Lui è dipendente, così che “il Figlio non può fare da se stesso niente”. Per dire questo Giovanni usa il verbo “filéo” che indica una relazionalità di amore che non pone i Due sullo stesso piano.
Quanto
alla seconda
parte
del v.20, Gesù attesta che il Padre “gli mostra
tutto ciò che egli fa, e gli mostrerà
opere maggiori di queste”. Quel “mostrare tutto” dice la
pienezza di comunicazione che intercorre tra i Due; non vi sono
segreti custoditi gelosamente dal parte del Padre, ma tutto ciò che
il Padre possiede viene consegnato al Figlio, per la sua natura di
amore donativo che lo qualifica (3,35; 13,3; 17,2.7). Un'affermazione
questa che si rende necessaria perché il v.20 pone il Padre e il
Figlio su due diversi piani, di certo tra loro pienamente
comunicanti, ma non alla pari. Il fatto che il Padre “mostri” al
Figlio significa che il Figlio non è a piena conoscenza del Mistero
che avvolge il Padre, per cui si rende necessaria un'apposita
rivelazione che va dal Padre al Figlio. Il verbo “mostrerà”,
posto al futuro, convalida questa ipotesi, poiché inerisce a cose
che ancora non sono a conoscenza del Figlio, per cui si rendono
necessarie ulteriori rivelazioni da parte del Padre. È questo un
secondo passo che attesta la diversa posizione tra il Padre e il
Figlio, ripeto, non quanto a natura divina, in cui sono parimenti
accomunati, ma quanto a persona, che implica in se stessa precise
funzioni e propri attribuiti, che differiscono, ma nel contempo si
completano l'uno nell'altro48.
La posizione di Gesù nei confronti del Padre è accogliente i doni
che da Lui provengono e che il Figlio non possiede come doni propri,
ma che riceve dal Padre49.
La posizione, quindi, del Figlio è discendente rispetto a quella del
Padre, che invece possiede e dona tutto. Ciò che il Figlio ha non
gli appartiene come dote sua personale, ma come acquisizione dal
Padre.
Un
appunto va fatto sui tempi verbali relativi al verbo “mostrare”,
che viene posto al presente indicativo il primo e al futuro il
secondo. Il primo verbo al presente indicativo è associato
all'espressione “tutto ciò che egli fa”, sottolineando la
pienezza della comunicazione che defluisce dal Padre al Figlio e ha
attinenza con la presenza di Gesù, colto nella sua dimensione
storica. Come dire che in Gesù c'è la pienezza di Dio che opera,
hinc
et nunc.
Il secondo verbo al futuro parla di eventi che ancora non sono
accaduti, ma che accadranno; eventi che trascendono il presente
storico di Gesù e che sono posti in comparazione con quelli
presenti, superati di gran lunga: “opere maggiori di queste”, in
cui il “queste” sta per la guarigione dell'infermo (vv.1-9), che
simbolicamente rappresenta l'attività redentiva e rigeneratrice di
Gesù. Quali, dunque, queste opere maggiori? Un'espressione questa
che richiama da vicino quanto Gesù disse a Natanale: “Vedrai cose
più grandi di queste” (1,50) e le cose a cui Gesù alludeva erano
le nozze di Cana con tutto il carico di significato che esse
simboleggiavano e prima fra tutte la risurrezione: “E al terzo
giorno … manifestò la sua gloria” (2,1a.11b), espressione che
verrà richiamata quando egli parlerà del suo corpo di Risorto,
quale nuovo Tempio (vv 2,19.21). Anche qui le “opere maggiori” di
quelle che Gesù sta compiendo durante la sua vita storica (“queste”)
sono la sua risurrezione, il dono dello Spirito e l'ampio spazio
assegnato alla Chiesa, che dal dono dello Spirito del Risorto
(v.20,22) prende vita e inizia il suo cammino lungo la storia.
Quanto alla terza parte del v.20, questa da un lato si aggancia al tempo proprio della Chiesa, dall'altro indica il fine ultimo per cui il Padre si dona totalmente al Figlio, perché questi si manifesti agli uomini e perché vedendo le sue opere, questi credano in lui: “affinché voi stupiate”. Non si tratta di conquistare gli uomini con giochi di prestigio o con miracoli che hanno del sensazionale, sprigionando reazioni emotive o fanatismi religiosi negli uomini. Una simile fede già è stata duramente ripresa da Gesù (2,23b-24). Lo stupore di cui qui si parla ha origini diverse: esso è la reazione propria dell'uomo alla teofania, al manifestarsi del divino qui nella storia, un manifestarsi che ha la sua pienezza in Gesù, il cui mistero è significato nei segni, la cui finalità è smuovere alla fede: “questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (20,31). La finalità dunque del segno è quello di stimolare il credente a trascendere le apparenze del segno stesso per coglierne il significato. Per questo i segni sono talvolta accompagnati da lunghi discorsi,50 la cui finalità è quella di stimolare il credente alla riflessione, aprendolo in tal modo al mondo del divino significato nel segno e in qualche modo reso raggiungibile in esso.
Il
v.21
si muove in modo parallelo al v.19b, in qualche modo lo riprende,
indicando il contenuto di questo fare del Padre, che si riflette e si
attua in quello di Gesù: “Come
il Padre, infatti, fa risorgere i morti e vivifica, così
anche
il Figlio vivifica quelli che vuole”. Il v.21 in buona sostanza è
una sorta di applicazione del principio dottrinale enunciato in
5,19b, in cui l'avverbio “ugualmente” (Ðmo…wj,
omoíos)
è qui sviluppato in un confronto che si gioca attorno alle
particelle comparative “ésper”
(ósper,
come) e “oÛtwj”
(útos,
così), rafforzata quest'ultima dalla particella “kaˆ”
(kaì,
anche), che l'accompagna (útos
kaì,
così anche), legando solidalmente tra loro l'operare del Padre e
quello del Figlio, così che il potere del Padre, Signore
incontrastato della vita, defluisce senza interruzione di continuità
nell'operare del Figlio (“così anche”), il cui potere, ricevuto
dal Padre, si esprime in quel “vivifica quelli che vuole”.
Il
contenuto teologico e dottrinale di questo versetto è giocato tutto
attorno a due verbi riferiti al Padre e che lo qualificano nella sua
natura più vera e più autentica non solo come primaria sorgente di
vita (egheírei),
ma anche come conservatore e sostenitore della stessa (zoopoieî):
“™ge…rei
toÝj nekroÝj”
(egheírei
tùs nekrùs,
risveglia i morti) e “zJopoie‹”
(zoopoieî,
vivifica).
Entrambi i tempi verbali sono posti al presente indicativo per
indicare come questo agire del Padre non conosca né passato né
futuro, ma un costante presente di eternità, che rimanda a quella
dimensione di vita che gli è propria.
Il
verbo “™ge…rw”
(egheíro)
possiede una pluralità di significati, come destare, svegliare,
risvegliare, eccitare, stimolare, suscitare, risuscitare, elevare,
innalzare, sollevare. Sono tutti verbi assimilati tra loro da un
comune denominatore: un forte impulso alla vita e che in qualche modo
ne riproduce la dinamica stessa, colta come spinta evolutiva verso
l'alto, verso la perfezione del compimento. Il verbo nella chiesa
primitiva era usato, in senso tecnico, per indicare la risurrezione
di Gesù, questo passaggio da morte a vita. Non a caso esso è qui
associato al sostantivo “i morti”, che in qualche modo la
richiama, rimandando il potere di ridestare da morte al Padre stesso,
unica fonte di vita e che ha capacità di infonderla, dando questo
potere a suo Figlio (vv.26; 10,17-18), divenuto primizia e modello di
coloro che risorgeranno (1Cor 15,20.23).
Accostato
al verbo “egheíro”
vi è il verbo “zJopoišw”
(zoopoiéo)
che lo completa: il Padre non solo sa risvegliare i morti, ma è
anche generatore e sostentatore della vita che egli dona. Il verbo,
infatti, significa non solo vivificare, dare la vita, ma anche
conservare la vita, aprendo alla figura del Padre provvido, che
associa ad ogni cosa delle leggi naturali proprie che non solo la
rendono capace di autogenerarsi, ma anche di conservare la propria
esistenza e di condurla al suo compimento. Una stupenda definizione
di “zoopoiéo”
ci viene dall'autore della Sapienza, che di fronte alla grandezza
della creazione, canta con tratti poetici, che sfiorano il lirismo,
la Sapienza divina, creatrice e provvida sostentatrice della
creazione stessa, definendo il suo Creatore “Signore,
amante della vita”:
“Poiché
tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai
creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata. Come
potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non
l'avessi chiamata all'esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché
tutte son tue, Signore, amante della vita, poiché il tuo spirito
incorruttibile è in tutte le cose” (Sap 11,24-12,1).
Il v.21, nel delineare i contenuti dell'operare del Padre nel Figlio, costituisce anche il fondamento teologico e dottrinale alla capacità di donare la vita da parte di Gesù, per cui il suo operare, come quello del Padre, è generatore di vita, che ha come presupposto soltanto il credere. Il v.21, quindi, funge anche da preambolo introduttivo e dottrinalmente fondativo dei vv.24-26.28-29, che saranno inclusi in un contesto di giudizio. Chi siano poi questi morti che il Padre risveglia, donando loro la vita e sostenendoli, questi saranno disvelati nel loro duplice significato ai vv.25.28.
I vv.22-27 formano un'unità letteraria a se stante delimitata dall'inclusione data dalle espressioni “ha dato al Figlio ogni giudizio” (v.22) e “gli diede potere di fare giudizio” (v.27). Il contesto entro cui si colloca il contenuto di questa perifrasi è pertanto profondamente segnato dal tema del giudizio che, seguendo le identiche logiche dell'operare, dal Padre defluisce nel Figlio. Non si tratta di uno scaricabarile, di un Padre che non vuole avere seccature di giudizio e lo delega al proprio Figlio; ma di un Padre che opera il proprio giudizio attuandolo nel Figlio, così che il Figlio diviene il luogo attuatore del giudizio del Padre, così come Gesù, Azione del Padre, è il luogo dell'operare del Padre, e a questo giudizio del Padre Gesù è pienamente conformato (v.30). I vv.22 e 27, infatti, vanno letti e compresi all'interno dell'altra inclusione onnicomprensiva, data dai vv.19 e 30, dai quali, letterariamente e teologicamente, i vv.22 e 27 dipendono e sono condizionati.
Il tema di fondo, che si muove all'interno della cornice giudiziale, è quello della vita eterna che si acquisisce attraverso la fede ottenuta per mezzo dell'ascolto della parola di Gesù (v.24). Questa infatti ha un suo intrinseco potere di donare la vita divina, poiché la sua sorgente è Gesù stesso, che ha in sé la vita stessa del Padre (v.26); questa viene generata nell'uomo attraverso la Parola. Essa infatti , se accolta, ha il potere di generare l'uomo alla vita stessa di Dio, come sottolinea 1Pt 1,23: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna”. Ed è proprio qui che entra in funzione il giudizio, che opera una discriminazione tra chi onora e non onora, tra chi accoglie e non accoglie questa vita divina offerta all'uomo attraverso la Parola generatrice di vita (v.24).
Il v.22 apre con un'attestazione teologica e dottrinale nel contempo: “Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato al Figlio ogni giudizio”; un'attestazione che sarà ripresa sostanzialmente identica dal v.27 e si pone in parallelo a quella dei vv.19.30. Il fatto che il Padre non giudichi nessuno non significa che egli è il buono della famiglia, mentre il Figlio è il duro della famiglia. Infatti, se il Figlio da se stesso non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre (v.19), ciò significa che il potere ricevuto dal Padre è sotteso da una sua volontà di giudizio, che si è incarnata in Gesù e alla quale Gesù si è conformato (v.30), divenendo per ciò stesso il luogo non solo dell'agire del Padre, ma anche del suo giudizio; cosicché ben si può dire anche che Gesù non solo è Azione del Padre, ma anche Giudizio del Padre posto sull'umanità. In altri termini, Gesù è la discriminate giudiziale che opera in mezzo agli uomini. L'attestazione quindi che “Il Padre non giudica nessuno” significa soltanto che il suo giudicare come il suo operare trovano attuazione solo ed unicamente nel Figlio e per suo mezzo, così che il Figlio diviene il luogo sia dell'agire che del giudicare del Padre.
Il v.23 introduce i criteri del giudizio, operando una discriminazione tra chi “onora” e chi “non onora”. Quando si parla di onorare non ha da intendersi lo sciorinare preghiere, offerte, accensioni di candele votive, fare fioretti o sacrifici personali o digiuni, ascoltare messe, fare comunioni, perfetta esecuzione dei comandamenti divini e giù per lì; di queste cose, pur di per se stesse rispettabili nella loro sacralità e santità, Dio non sa proprio cosa farsene. Se qualche dubbio su ciò persistesse o si ritenesse blasfema la mia asserzione si legga attentamente Is 1,10-17 o Ger 6,19-20 o Am 4,4-5; 5,21-23, per rendersi conto quali sono gli interessi di Dio e le sue pretese nei nostri confronti. Tutte queste cose, seppur sante, hanno un grosso limite: quello di farci sentire a posto con Dio.
In che cosa dunque consiste questo onorare, che discrimina gli uomini nei confronti del Figlio e di conseguenza nei confronti del Padre, che nel Figlio si rispecchia, così che il Figlio è il riflesso del Padre e vedere il Figlio è vedere il Padre, poiché i Due, compenetrandosi osmoticamente l'un nell'altro, formano una cosa sola (14,9-11), sarà il v.24 a definirne il senso.
Il v.24 potremmo considerarlo come il vertice teologico e dottrinale della sezione 5,19-30. Esso si apre con l'espressione cara a Giovanni “In verità, in verità vi dico” che imprime solennità e veridicità a quanto segue (cfr. pag. 24 e nota 45). L'importanza di questo versetto consiste non solo nello stabilire i termini dell'onorare il Figlio, in cui opera il Padre che lo ha inviato e, in quanto inviato, possiede in se stesso le stesse qualità e lo stesso potere operante e giudicante di chi lo ha mandato, ma questi termini dell'onorare costituiscono anche gli elementi discriminanti, e quindi di giudizio, posti sugli uomini. Ecco dunque l'onorare gradito a Dio, che funge anche da parametro di giudizio: “In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”.
Il v.24 è scandito in tre parti, le prime due caratterizzate da verbi al presente indicativo, per indicare come legati all'ascoltare, al credere e all'avere la vita eterna vi sia non solo l'onorare il Padre nel Figlio, accolto nella sua Parola, rendendo loro in tal modo un culto esistenziale, ma anche, hinc et nunc, vi è il giudizio, caratteristico questo dell'escatologia presenziale o realizzata di Giovanni; nella terza parte il verbo è posto al perfetto indicativo (metabšbhken, metabébeken, è passato), sottolineando come questo passaggio, che si attua nell'oggi, sia conseguente ai verbi precedenti, collocando di conseguenza il credente in una nuova dimensione esistenziale, qualificata dalla vita eterna, che nel linguaggio giovanneo indica la vita stessa di Dio. La prima parte del versetto costituisce l'enunciato principale: “chi ascolta la mia parola e crede”. L'ascolto accogliente della Parola, incarnata nella propria vita, trasforma l'uomo in credente; che cosa ciò significhi verrà detto nella terza parte del versetto. Significativi sono i due verbi dell'ascoltare e del credere, posti qui al participio presente (¢koÚwn e pisteÚwn, akúon e pisteúon) per indicare come questo ascolto e questo credere conseguente si radicano nella vita dell'uomo qualificandolo come ascoltante e credente, designando in lui un atteggiamento di vita e un orientamento esistenziale di apertura accogliente della Parola che dà forma alla sua vita. Il participio presente infatti indica la natura propria del soggetto che compie l'azione, per cui letteralmente si ha: “l'ascoltante e il credente la mia parola”, rilevando come questo ascoltare e credere formino i due elementi fondamentali della vita del credente.
La seconda parte del versetto apre alle conseguenze dell'ascolto accogliente, che trasforma la vita in credente: “ha la vita eterna e non va in giudizio”. Ascoltare e credere causano l'immediata conseguenza (e qui sta il giudizio) di possedere la vita eterna, che nel linguaggio giovanneo indica la vita stessa di Dio, in cui il credente è collocato fin d'ora e ne è reso partecipe, anche se non ancora in modo pieno e definitivo. Questa seconda parte poteva concludersi qui, ma l'autore accosta alla conclusione positiva anche una minaccia incombente: “e non va in giudizio”. L'espressione in greco rende più comprensibile il senso di questo accostamento: “kaˆ e„j kr…sin oÙk œrcetai” (kaì eis krísin uk érchetai). La particella “eis” indica un moto verso luogo, esprimendo in tal modo un movimento che possiede gli stessi ritmi della vita, in quanto chi crede, e fintantoché crede, non sta andando verso il giudizio (eis krísin uk érchetai), che qui assume i connotati negativi di una condanna, ma potrebbe anche succedere che la sua vita prenda la strada “verso il giudizio”. In altri termini, il credere non è un dato di fatto definitivo, ma va sempre alimentato da un ascolto accogliente della Parola.
La terza parte del versetto la potremmo definire come esplicativa di ciò che significa credere: “ma è passato dalla morte alla vita”. Questo passare da uno stato esistenziale ad un altro è espresso da due particelle alquanto significative: “™k – e„j” (ek – eis, da - a): la prima indica lo stato esistenziale originario dell'uomo, che è lo stato di morte, cioè di esclusione dalla vita stessa di Dio, che per antonomasia è vita eterna e che il racconto genesiaco metaforizza nella cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre (Gen 3,23-24) e che Paolo dogmatizza in quel pesante “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). Ed è proprio quel “privi della gloria di Dio” che esprime il senso del peccato originale: l'uomo non è più rivestito dello Spirito di Dio, che lo rendeva partecipe della sua stessa vita divina, cadendo in uno stato di morte esistenziale, significata nella sofferenza, nel dolore e in un continuo degrado e sfinimento esistenziale che culminerà con la morte fisica. Non a caso la condanna che pesa sull'uomo espulso dal Paradiso terrestre consiste in quel pesante “morirete di morte” (qan£tJ ¢poqane‹sqe, tzanáto apotzaneîste - Gen 2,17), in cui il sostantivo morte indica lo stato di despiritualizzazione, cioè di privazione della vita divina che permeava e compenetrava l'uomo nel suo splendore originale; mentre il “morirete” dice la conseguenza della nuova condizione degradata in cui l'uomo è venuto a trovarsi dopo la colpa originale. Ma è proprio qui che subentra la Parola di vita del Logos Incarnato capace di ridare quella vita divina originariamente perduta, poiché essa è una Parola pregna della stessa vita divina, che se accolta è capace di ridare la vita. Ma non si tratta di un colpo di bacchetta magica, bensì di un cammino esistenziale che lentamente e gradualmente trasforma l'uomo, che accetta di conformarsi esistenzialmente a questa Parola di vita, così che la vita credente si presenta come un cammino di trasformazione, un continuo passaggio da morte a vita che viene giocato tutto in questa dimensione spazio-temporale, e che riporta l'uomo accogliente la Parola nella stessa vita divina da cui proviene: “chi ascolta … e crede … è passato dalla morte alla vita”, per questo “ha la vita eterna” ed è escluso dal giudizio.
v.25: era nell'aria. Preannunciato dal v.21 in cui si attesta il potere del Padre di far rivivere i morti (chi siano questi morti viene detto ora), potere che si riflette nel Figlio; introdotto da quel passaggio da “morte a vita” per mezzo dell'ascolto accogliente della Parola (v.24), il v.25 si apre con un'altra attestazione di verità dottrinale, la terza, la cui importanza anche qui è sottolineata dall'espressione introduttiva, cara a Giovanni: “In verità, in verità vi dico che viene l'ora, ed è adesso, quando i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che hanno ascoltato vivranno”. Esso è la conclusione applicativa dei vv.21.24: il potere del Padre opera nel Figlio (v.21) per mezzo della potenza della sua Parola, capace, se accolta, di trasfondere la vita, evitando in tal modo un giudizio di condanna (v.24).
I verbi del v.24, come già si è rilevato sopra (pag.30), sono posti tutti al presente indicativo, sottolineando in tal modo come l'ascolto accogliente collochi fin da subito il nuovo credente nella vita stessa di Dio, senza attendere gli ultimi tempi. Si tratta, quindi, di un'escatologia che si attua già qui nel presente del nostro vivere e che ci interpella esistenzialmente: accogliere o rifiutare; credere o non credere, accogliere o rifiutare che fin da subito ci inserisce o ci esclude dalla vita divina, attraverso un giudizio operato dalla nostra stessa scelta: aut aut. Ora, lo schema del v.24 è sostanzialmente riprodotto nel v.25, ma significativamente cambiano i tempi verbali: i primi sono posti al presente indicativo: “viene ... ed è...”; gli altri due sono posti al futuro: “udranno ... vivranno”. Questi ultimi due verbi dipendono dai primi, che delimitano una situazione temporale: “viene l'ora, ed è adesso”. L'ora di cui si parla qui non è quella di Gesù, quella della sua glorificazione, che troverà il suo vertice sulla croce e nella risurrezione51. L'espressione “viene l'ora” si ripete nel racconto giovanneo sei volte52 e indica sempre il compiersi di un tempo, che si radica nel presente. Per tre volte questa espressione viene rafforzata dall'accostamento di un'altra espressione simile: “ed è adesso” o “ed è venuta”, indicando in modo più marcato la persona di Gesù, letta come il compimento dei tempi, a cui si rimanda. Ed è proprio a questo rimando che i due verbi, posti al futuro, sono conseguenti e si rifanno. Quindi l'udire e il vivere dipende da un evento storico, che si è attuato nella presenza di Gesù, ma che continua attuarsi nella sua Parola. I verbi al futuro, quindi, aprono ad un nuovo tempo, che non è quello escatologico, visto come l'autore consideri l'escatologia non come un compiersi futuro, ma già in atto. I tempi di cui questi verbi parlano sono quelli della chiesa, in cui “i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che hanno ascoltato vivranno”. I morti di cui qui si parla sono la metafora del mondo pagano53, spiritualmente morto, perché non ancora raggiunto dalla vita che defluisce dalla Parola; ma allorché i pagani l'accolgono, sono anch'essi introdotti nella vita divina, espressa dal verbo “vivranno”, cioè continueranno a vivere. Si parla quindi di una vita continuativa e duratura, cioè di vita eterna, in cui essi sono posti a seguito di un ascolto accogliente54 (verbo all'aoristo, ¢koÚsantej) di questa voce che “udranno”, con riferimento all'annuncio del Vangelo, che li ha raggiunti.
Il v.26 si aggancia al v.21 e diventa giustificativo sia dello stesso che dei vv.24.25. Al v.21 infatti si attestava il potere del Padre di dare la vita ai morti, un potere che si rifletteva nel Figlio; i vv.24.25, affermavano come questa vita viene inoculata nel nuovo credente mediante l'ascolto accogliente della Parola del Figlio. Ora, dopo queste dichiarazioni teologiche di rilevanza dottrinale, si tratta di chiarire come ciò sia possibile e perché Padre e Figlio abbiano questo potere proprio, il primo, derivato, il secondo. Il v.26 risponde a questi quesiti ed è chiamato a giustificare le asserzioni dei vv. 21.24.25, costituendo il vertice del pensiero a spirale iniziato con il v.21.
Il v.26 è costruito in modo parallelo al v.21 e in qualche modo forma con esso una sorta di inclusione, anche se non in senso propriamente tecnico. Forse è meglio dire che il v.21 riecheggia nel v.26 e trova in esso il suo fondamento. Di mezzo, poi, ci sono i vv.24.25 che, come si è detto sopra, sono lo sviluppo l'uno dell'altro. Tutti, comunque, trovano il loro vertice giustificativo nel v.26, che alla pari del v.21 si gioca attorno alle due particelle comparative “ésper … oÛtwj”, “come … così”, che lo dividono in due parti, in cui la seconda riflette in se stessa la prima. Esso è introdotto dalla particella dichiarativa “g¦r” (gàr, infatti), il cui senso è quello di spiegare e giustificare la capacità del Padre e del Figlio di donare la vita (vv.21.24.25). La prima parte del versetto attesta che il Padre possiede in se stesso la vita, qualificandosi in tal modo come la sorgente primaria, unica ed esclusiva della vita, che lo definisce come fonte stessa della vita e datrice di vita. Quel “™n ˜autù” (en eautô, in se stesso) dice come il Padre sia il luogo della vita stessa e come questa gli sia connaturata, per questo egli può vivificare, poiché egli è “il Signore, Dio della vita” (Nm 27,16; 2Mc 14,46b), da cui defluisce la creazione, di cui è Padre, generata55 per mezzo della sua Parola (Gen 1,1; Sap 9,1). Questa sua condizione ontologica viene meglio evidenziata nella seconda parte del versetto, che si apre con le particelle comparative “oÛtwj kaˆ” (útos kaì, così anche): “così anche al Figlio ha dato di avere la vita in se stesso”. Anche il Figlio dunque possiede in se stesso la vita, ma non per la sua connaturata condizione ontologica, ma perché la vita che egli ha in se stesso proviene quale dono che defluisce dal Padre. Infatti il Padre “possiede in se stesso la vita”, mentre non si dice che il Figlio la possiede in se stesso, ma che “gli è stato dato di possederla”. Ciò di cui si sta parlando non va ad intaccare la comune natura divina, che favorisce questa comunione di vita che defluisce necessariamente dall'uno all'altro, ma soltanto gli aspetti ontologici delle singole persone di Padre e di Figlio, per cui il Padre è tale perché possiede determinate caratteristiche personali proprie che lo differenziano dal Figlio e che fanno si che il Padre sia tale e il Figlio sia Figlio, il quale conferma questa sostanziale differenza tra lui e il Padre, affermando che egli “non può fare da se stesso niente” (5,19.30a). La vita che pulsa nel Figlio, pertanto, riflette quella del Padre, ne possiede le caratteristiche ed è per definizione donativa come quella del Padre. Ma tutto ciò non fa di Gesù la fonte primaria della vita, la cui titolarità spetta esclusivamente al Padre. Concetto questo che viene rimarcato in10,18: “Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente; questo mandato ho ricevuto dal Padre mio”. Un potere dunque che Gesù possiede, ma non gli è proprio, poiché egli stesso lo rimanda al Padre, da cui l'ha ricevuto. Tuttavia, in quanto Azione attuatrice e rivelatrice del Padre, egli è anche Vita del Padre, che non solo rivela in se stesso, ma, in quanto Azione, anche la dona.
Il v.27 chiude il ciclo inclusivo iniziatosi con il v.22 e che qui viene ripreso, ma viene rilanciato in una nuova prospettiva non più di un'escatologia presenziale, cioè di un giudizio che si attua hinc et nunc, ma in una prospettiva di escatologia reale. Il potere di giudizio infatti non è più dato al Figlio, come nel v.22, bensì al “Figlio dell'uomo”, che richiama la figura misteriosa di Dn 7,13-14 in cui questo “figlio dell'uomo” è inserito in un contesto di escatologia tradizionale: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”. Il v.27, pertanto, diventa preambolo introduttivo alla perifrasi successiva (vv.28-30), in cui l'accento viene posto sul giudizio finale.
La pericope vv.28-30 si apre con il v.28 che riprende il v.25 parafrasandolo, ma con un gioco di parole cambia di fatto la prospettiva: l'espressione “viene l'ora, ed è adesso” del v.25 si cambia in “giunge l'ora”; mentre il termine “morti” viene parafrasato in “quelli che sono nei sepolcri”. Anche se apparentemente i cambiamenti sembrano di poco conto, tuttavia nel v.28 vi è una notevole sterzata. Infatti se con l'espressione “viene l'ora, ed è adesso” si radicava l'evento annunciato nel v.25 al presente senza possibilità di andare oltre (“ed è adesso” e verbi tutti al presente indicativo); con l'espressione “giunge l'ora”, pur con il verbo al presente indicativo, viene meno quel forte radicamento degli eventi annunciati nei vv.28-29 nel presente, lasciando spazio ad una lettura più ampia, capace di andare oltre il presente. La venuta di questa ora, infatti, lascia intendere che essa sta per venire, ma comunque essa va colta nella prospettiva degli eventi stessi, che sono posti al futuro (ascolteranno, usciranno).
Il termine “morti” (v.25), poi, viene trasformato in “quelli che sono nei sepolcri” (v.28). Il localizzare questi morti nei sepolcri, legandoli quindi ad essi, si intende definire questi morti come dei veri e propri cadaveri. Viene meno qui il senso metaforico che il termine “morti” aveva nel v.25. Il v.28 pertanto trasporta il lettore in un contesto di vera e propria escatologia tradizionale, in uno scenario di giudizio universale finale, che verrà inscenato al v.29. Questo riprende la terminologia caratteristica delle visioni escatologiche proprie dell'epoca e che sono disseminate, qua e là, nel N.T.56
L'inserimento di questo spaccato di escatologia tradizionale, che si contrappone a quella presenziale del v.25, ma forse è meglio dire che la completa o forse in qualche modo ne ridimensiona la portata, probabilmente serve all'autore per ammonire quella parte della sua comunità che si riteneva in virtù della propria fede, ma con tendenze spiccatamente gnosticheggianti, già definitivamente salvata e, quindi, non più soggetta alle leggi divine (1Gv 2,4), in particolar modo quella dell'amore fraterno (1Gv 2,9), comportandosi in modo scandalosamente dissoluto, perché pretendevano di essere senza peccato (1Gv 1,8.10). I vv.28.29 pertanto sembrano voler rettificare o aggiustare in qualche modo il tiro del v.25, per togliere ogni presunzione di salvezza definitiva, prospettando soltanto alla fine dei tempi il saldo del conto conclusivo.
v.30: Giovanni aveva precisato ai vv.22b.27b come il potere di giudicare fosse demandato al Figlio, poiché il Padre non giudica nessuno (v.22a). Ora si tratta di dimostrare come questo potere giudicante sia gestito da Gesù e quale sia la sua linea di condotta nel giudicare. Sarà pertanto compito del v.30 rivelare ciò che sottende il giudicare del Figlio, dimostrandone la correttezza e la rettitudine. Potremmo definire questo versetto come una sorta di autodifesa di Gesù.
Il v.30 si apre con un'attestazione che riprende quella del v.19, formando inclusione con questa: “ Io non posso fare niente da me stesso”; ma mentre l'impossibilità di Gesù di operare per proprio conto lo portava al v.19 a fare ciò che “vede fare” dal Padre, qui al v.30 questa impossibilità, riferita in questo contesto non più al fare, ma al giudicare, è supportata dall'ascoltare. Vedere e ascoltare sono i due verbi che relazionano Gesù al Padre, sottolineandone un'unica ed esclusiva comunione; sono i due canali attraverso i quali fluisce tra i Due la loro comunicazione, che si radica nella loro comunione. Il v.30, pertanto, rettifica in qualche modo il v.22 in cui si affermava che il Padre non giudica nessuno. In realtà il Padre costituisce lo specchio del giudizio stesso, in cui Gesù si riflette: “come ascolto giudico”, per questo Gesù da se stesso non può fare niente; il suo operare come il suo giudicare si fonda sull'operare e sui parametri di giudizio del Padre, che da questo vengono attuati per mezzo del Figlio, qui Azione giudicante del Padre. Un concetto questo che viene ribadito anche dal v.8,28b: “Disse, dunque, loro Gesù: <<[...] da me stesso non faccio niente, ma come il Padre mi ha insegnato, queste cose dico”. L'operare di Gesù, pertanto, è l'operare del Padre, così come il giudicare di Gesù è quello del Padre.
Nella seconda parte del v.30 il Gesù giovanneo attesta che “il mio giudizio è giusto, poiché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”. Si noti come la giustezza del giudizio non consiste nel dare a ciascuno il suo, ma nel realizzare in questo giudizio la volontà del Padre, che Gesù persegue nella sua vita al punto da farne un elemento di sostentamento di se stesso (4,32.34); una volontà senza la quale Gesù non può fare niente, perché per sua natura egli è l'attuatore del Padre, la sua stessa manifestazione e la sua rivelazione, fino a giungere ad una sorta di identificazione con il Padre, che fa dei Due una cosa sola (10,30; 17,11.21.22): “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse” (14,9-11). Se Gesù, dunque, è l'immagine del Padre, in cui è attuata la volontà stessa del Padre, cioè il suo progetto salvifico speso a favore degli uomini, egli diventa anche il parametro con cui ogni credente è chiamato a misurarsi e a conformarsi. Ed è proprio in questo confronto e in questo conformarsi esistenzialmente o meno alla sua proposta salvifica manifestatasi nel suo Figlio che si attua il giudizio. Ed ecco perché il giudizio di Gesù è giusto, perché riflette in se stesso il Padre, per cui l'accogliere o meno Gesù, la sua Parola significa accogliere o meno il Padre, attuando, ipso facto, un giudizio su se stessi. In altri termini, se Gesù non rispecchiasse in se stesso il Padre, non ne fosse la sua immagine, la sua attuazione, l'impronta della sua sostanza (Eb 1,3), ma operasse per proprio conto o secondo ciò che egli ritiene giusto o meno fare o dire, l'uomo non potrebbe essere ritenuto colpevole se rifiutasse Gesù e nessun giudizio, comunque, si compirebbe su di lui, poiché rifiutare o accettare Gesù non comporta nessun rifiuto nei confronti del Padre, che in Gesù non è più rappresentato. Ma poiché i Due sono una cosa sola e l'uno si riflette nell'altro in una sorta di compenetrazione divina così che onorare il Figlio è onorare il Padre stesso, non in senso metaforico, ma reale, allora qualsiasi posizione che l'uomo prenda nei confronti di Gesù, inviato del Padre, comporta per lui un immediato giudizio sulla sua scelta.
La quadruplice testimonianza (vv.31-40)
Testo a lettura facilitata
Preambolo alla testimonianza del Padre
31-
Se io testimonio di me stesso, la mia testimonianza non è vera;
32-
un altro è colui che testimonia di me e so che è vera la
testimonianza che (egli) testimonia di me.
La testimonianza di Giovanni
33-
Voi avete mandato a (interrogare) Giovanni,
e ha dato testimonianza alla verità;
34-
ma io non ricevo la testimonianza da un uomo, ma dico queste cose
perché voi siate salvi.
35-
Quello era la lampada, che brucia e sparge luce; ora voi desideraste
esultare per un'ora nella sua luce.
La testimonianza delle opere
36- Ma io ho una testimonianza più grande (di quella) di Giovanni; infatti le opere che il Padre mi ha dato perché le porti a compimento, queste opere che faccio testimoniano su di me che il Padre mi ha inviato.
La testimonianza del Padre
37-
E il Padre
che mi ha mandato, quello testimoniò di me. Né voi mai ascoltaste
la sua voce, né vedeste il suo aspetto,
38-
e non avete la sua parola che rimane in voi, poiché quegli lo mandò,
a questo voi non credete.
La
testimonianza delle Scritture
39-
Indagate le Scritture
perché voi credete di avere in esse la vita eterna; e sono (proprio)
quelle che testimoniano su di me;
40-
e non volete venire da me per avere la vita.
I vv.19-30, ad alto contenuto teologico e dottrinale, hanno in qualche modo rivelato, o quanto meno fatto intuire, lo stretto rapporto di interdipendenza che intercorre tra il Padre e il Figlio così che il Figlio da solo non può fare nulla, ma opera ciò che vede fare dal Padre (vv.19.30); ma nel contempo il Padre opera e si manifesta solo per mezzo del Figlio, così che il Figlio è azione e manifestazione del Padre. Una profonda unità di comunione e di reciproca compenetrazione lega i Due così che entrambi sono una cosa sola (vv.10,30; 17,11.21.22) e vedere il Figlio significa vedere il Padre, che nel Figlio si riflette e si manifesta (14,9-11). Una simile attestazione, che va a cogliere l'intima natura dei Due e di conseguenza quella di Gesù, manifestazione storica del Padre, abbisogna necessariamente di una testimonianza che la renda invincibile. Sarà dunque questo il compito dei vv.31-40, qualificati dall'insistente presenza, quasi ossessiva, dei termini testimonianza e testimoniare che vi ricorrono ben 11 volte, di cui quasi la metà, cinque volte, nei versetti introduttivi 31-32.
La testimonianza si snoda in quattro momenti e si riferisce a quella di Giovanni, testimone della verità (33-35); a quella delle opere di Gesù (v.36); a quella del Padre (v.37a) e, infine, a quella delle Scritture (v.39). Ma non si venga tratti in inganno, poiché in ultima analisi le quattro testimonianze sono diverse espressioni di un unico testimone d'eccellenza: il Padre. Giovanni infatti è l'uomo mandato da Dio per rendere testimonianza alla luce (vv.1,6-7); le opere che Gesù compie, poi, sono quelle che il Padre opera in lui e lo manifestano (14,10), poiché il Figlio da solo non può fare nulla (vv.19.30); e infine, le stesse Scritture, Torah e Profeti, in cui risuona la voce di Jhwh ed esprimono la sua volontà. In ultima analisi è dunque il Padre l'autore della testimonianza a cui l'autore rimanda; una testimonianza che ha avuto nel tempo molteplici forme, ma un'unica voce. Non è un caso infatti che i versetti di apertura di questa sezione della testimonianza indirizzino il lettore verso un anonimo testimone, che verrà lentamente scoperto nella sua molteplicità di testimonianze nei versetti successivi: “un altro è colui che testimonia di me so che è vera la testimonianza che (egli) testimonia di me” (v.32).
Benché siano quattro i poli della testimonianza, tuttavia quelli privilegiati sono soltanto tre: le opere che Gesù compie, il Padre stesso e le Scritture, mentre Giovanni viene in qualche modo isolato dal gruppo, sia per l'immancabile nota polemica contro i giovanniti (“io non ricevo la testimonianza da un uomo”), sia perché l'oggetto della testimonianza, i rapporti tra il Padre e il Figlio, non sono materia propria della speculazione umana, ma soltanto della divinità. L'espressione “testimonia di me”, introdotta dal v.32, funge da chiave di lettura della vera testimonianza a cui bisogna prestare attenzione. La formula infatti viene ripresa per altre tre volte ai vv.36.37.39 in relazione rispettivamente ai tre poli testimoniali delle opere, del Padre e delle Scritture, gli unici in grado di sondare in profondità il mistero che permea Gesù. Di Giovanni non viene detto che egli “testimonia su di me”, ma che egli “ha dato testimonianza alla verità” (v.33).
Lo sfondo storico entro cui si muove questa pericope, posta a difesa e a giustificazione della sezione teologica e dottrinale dei vv.19-30, doveva essere la polemica che muoveva la comunità giovannea nei confronti del giudaismo e dei giovanniti, che disconoscevano le pretese dei nuovi credenti circa la divinità del loro maestro, la cui eco si sente nel v.18 e ha un suo parallelo in At 18,28. Le testimonianze quindi vanno lette in questo contesto come prove portate a difesa della fede della comunità giovannea contro i suoi avversari e nel contempo come fondamento della fede stessa che la sosteneva e la animava. Storicamente sono sostanzialmente due i punti attorno ai quali si agglomerarono le prime comunità credenti: le Scritture, rivisitate in chiave cristologica57; e la parola di Gesù, validata dalla sua risurrezione58.
Commento ai vv. 31-40
I vv.31-32 costituiscono la parte introduttiva della sezione sulla testimonianza e si richiamano alle disposizioni di Dt 19,15: “Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”59; una disposizione questa che vigeva anche presso la comunità matteana e che regolava i rapporti nei confronti dei suoi membri deviati (Mt 18,15-17). Il Gesù giovanneo pertanto entra nelle logiche della Torah e si appella alla testimonianza di un diverso testimone, che apparentemente non sembra ancora sufficiente per poter soddisfare i requisiti di Dt 19,15, che richiede almeno due o tre testimoni. Ma come si è visto nelle note generali, quest'Unico Testimone assume variegate forme storiche di testimonianza; ma ciò che più importa è l'attestazione di Gesù, dietro la quale si maschera l'autore stesso, probabilmente il Discepolo Prediletto o la sua comunità: “so che è vera la testimonianza che (egli) testimonia di me”; un'espressione questa che viene ripresa sostanzialmente identica alla fine del vangelo con riferimento proprio al suo autore (21,24b). Quel “oŒda” (oîda, so) parla di un sapere misterioso che confina con quello divino; è il sapere di chi si è addentrato nel mistero e conosce le cose di Dio e di esse parla con certezza e cognizione di causa. Già lo si è visto nel commento ai vv.3,2.11 in cui si sono posti a confronto i due saperi (o‡damen, oídamen, sappiamo), quello del giudaismo, fondato sulle elaborazioni della Tradizione, e quello della comunità giovannea, fondato sulla rivelazione proveniente dalla illuminazione del suo credere. La comunità giovannea quindi rimanda il suo incredulo interlocutore alle quattro forme storiche che testimoniano sia la messianicità che la divinità di Gesù: il Battista, le opere, il Padre e le Scritture. Ma come ogni testimonianza essa va accolta con disponibilità interiore e deve spingere a riflettere e a riconsiderare le proprie posizioni per non renderla vana. E sarà proprio questa l'accusa che risuonerà nei versetti successivi (vv.37b.38.40.42.43a.47). Ci si rende ben presto conto come siano proprio queste testimonianze inascoltate o abilmente eluse a costituirsi in giudizio contro il giudaismo e gli stessi giovanniti.
I vv.33-36a sono strutturalmente sviluppati ad intreccio, in cui il v.33 si completa nel v.35, mentre il v.34 si integra con il v.36a. Essi presentano due figure: Giovanni, il testimone della verità (v.33b) nel suo rapporto con i Giudei (v.35); e Gesù, il testimoniato, ma che in realtà disdegna la sua testimonianza (v.34a), rimandando la certificazione di se stesso ad altri testimoni più qualificati (v.36a). Due figure che la storia della salvezza ha intrecciato tra loro, ma qui contrapposte da quel “ma” avversativo e polemico con cui sono introdotti i vv.34.36. Ed è proprio l' ”Io” di Gesù che si contrappone a Giovanni: “™gë de” (egò dè, ma io) e che rileva tutta la distanza che intercorre tra i due, poiché l'Io di Giovanni ha una dimensione umana, contrariamente all'Io di Gesù, che pur nella sua umanità, acquista sconcertanti dimensioni divine, che lo stesso Giovanni gli riconosce: “Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; colui che è dalla terra è dalla terra e parla dalla terra. Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti” (3,31). Ed è proprio perché Giovanni, pur inviato da Dio (1,6), appartiene alla terra, non può essere addentro al Mistero di Dio, che permea Gesù e in lui si muove e vive; un Mistero che solo testimoni qualificati come le opere di Gesù, generate in lui dal Padre (v.36a; 14,10c), lo stesso Padre e le Scritture, generate dal dito di Dio sul Sinai (Es 31,18; Dt 9,10), possono sondare e manifestare adeguatamente, poiché frutto stesso dell'operare del Padre nel Figlio e per suo mezzo60. Queste tre realtà infatti posseggono in loro stesse contenuti rivelativi che trascendono l'uomo, provenendo direttamente da Dio, di cui rivelano la natura. Giovanni, infatti, può indicare Gesù come superiore a sé (1,27.30); può dire che Gesù proviene dal cielo (3,31); attestare che il suo battesimo è operato per mezzo dello Spirito Santo (1,33), ma che cosa significhi tutto questo, il capirne le dinamiche profonde non gli è dato di sapere, poiché tutto ciò appartiene a Dio e al suo Mistero; per questo Giovanni è confinato a testimone della verità, ma non di Gesù, colto qui non come uomo mandato da Dio, ma come Dio stesso (v.18). La sua origine primordiale infatti è collocata nella stessa eternità di Dio, da cui è generato (1,1-2) e da cui proviene (8,42; 13,3; 16,28.30; 17,8) e verso il quale si muove (13,3; 16,28). Solo lui vede il Padre direttamente (5,9), solo lui sente il Respiro di Dio alitargli dentro (1,33b); solo lui è uscito dal Padre (8,42) e per questo solo lui ha un rapporto unico , diretto ed esclusivo con il Padre e il suo Mistero (14,9-11; 17,21). Per tutto questo Giovanni non può essere catalogato assieme agli altri tre testimoni, che sondano la natura di Dio e la rivelano, poiché in diversi modi generati da Dio.
I vv.33.35 colgono da un lato il Battista come testimone della verità (v.33), dall'altro l'entusiastica eco che la sua figura e la sua predicazione suscitarono presso i Giudei (v.35). Il v.33a allude al v.1,19 dove si narra che “[...] questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei inviarono a lui da Gerusalemme sacerdoti e Leviti affinché lo interrogassero [...]”; mentre la seconda parte del v.33 si richiama ai contenuti della testimonianza che egli dette alla commissione d'inchiesta venuta da Gerusalemme e allude ai vv.1,20-28. Ora questa testimonianza non riguardava la divinità di Gesù colta nelle sue dinamiche di relazione con il Padre, ma si limitava semplicemente, da un lato, a precisare la propria identità nei confronti dei Sacerdoti, Leviti e Farisei, che nel loro insieme formavano la commissione d'inchiesta (v.1,19.24); dall'altro, testimoniava la presenza di uno sconosciuto tra di loro, la cui grandezza lo superava di molto (vv.1,26-27). Una testimonianza, come si vede, piuttosto limitata e vaga, benché nei versetti successivi (1,29-34) darà maggiori delucidazioni sull'anonimo personaggio, arrivando a definirlo “Agnello di Dio” (1,29.36) e “Figlio di Dio” (1,34). Una testimonianza che aiutava a dare una lettura e una comprensione della figura di quell'uomo di nome Gesù, ma certamente non ne trascendeva l'umanità fino a coglierne in pienezza il Mistero. Per questo l'autore non lo associa alle altre tre testimonianze di ben diversa levatura. Benché uomo ispirato da Dio alla pari degli antichi profeti, dei quali egli era l'ultima voce; benché fosse il più grande tra i nati di donna, tuttavia rimaneva un semplice uomo così che il più piccolo nel regno dei cieli era più grande di lui (Mt 11,11). Giovanni quindi testimone si della verità della persona di Gesù (non è un semplice uomo), ma non certo rivelatore e manifestatore della sua vita divina e di relazione con il Padre. Una testimonianza che il verbo al perfetto indicativo (memartÚrhken, memartíreken, ha testimoniato) lascia intendere che è ancora al presente valida, così come lasciano a loro volta comprendere i due verbi al participio presente del v.35a e che gli si riferiscono: “Quello era la lampada, che brucia e sparge luce”. L'attualità del Battista viene maggiormente sottolineata dai verbi di questa prima parte del v.35: il primo posto all'imperfetto indicativo, che indica un evento che ha la sua origine nel passato, ma i cui effetti sono perduranti: Giovanni era una lampada e continua ad esserlo. Questa persistente efficacia della missione del Battista viene sottolineata dai due verbi al participio presente che indicano non solo la natura e il senso della missione di quella lampada ma anche come questa continui nel presente a bruciare e ad illuminare i Giudei.
Il v.35a, in cui sembra risuonare l'eco di Sir 48,1, che definisce Elia un fuoco, la cui parola brucia come una fiaccola illuminante, è una sorta di parafrasi di 1,7-8, che definiscono la natura della missione di Giovanni: “questi venne per testimonianza, per testimoniare sulla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. Non era quello la luce, ma (venne) per testimoniare sulla luce”. Giovanni dunque non era la luce, quella vera, ma soltanto una lampada, che nel linguaggio sapienziale allude alla luce divina che splende e illumina l'uomo per mezzo della sua parola61. Per questo Giovanni è definito come l'uomo venuto da Dio (1,6). Questa prima parte del v.35 sta preparando l'accusa che verrà mossa nella sua seconda parte: “ora voi desideraste esultare per un'ora nella sua luce”. Il v.35b infatti inizia con “Øme‹j de” (imeîs dè), che ho tradotto con “ora voi”, ma che possiede un senso avversativo, che meglio sarebbe reso con “ma voi”, che si contrappone alla testimonianza del Battista, che era ed è tuttora una luce illuminante, gettata sull'evento Gesù, ma inutilmente a motivo della superficialità e dell'invincibile incredulità dei Giudei, che per un breve periodo gioirono ed esultarono alla luce della sua predicazione62, ma ben presto desistettero, mentre le autorità religiose diffidarono e si chiusero nei suoi confronti63. Il verbo all'aoristo “ºqel»sate” (etzelésate, desideraste) infatti indica un evento puntuale nel tempo e circoscritto nel passato, mentre la luce di Giovanni brilla ancora e possiede in se stessa, ancora viva, la forza della sua testimonianza. Significativo, poi, è il verbo retto da “etzelésate”: “¢galliaqÁnai” (agalliatzênai, essere rallegrati). Un verbo posto al passivo che indica l'atteggiamento dello spettatore che va a godersi uno spettacolo desiderando di esserne rallegrato. Un comportamento questo molto superficiale che l'autore ha già denunciato e stigmatizzato in 2,23-25, in cui molti credettero nel vedere i miracoli operati da Gesù, che tuttavia, ben lungi dal rallegrarsene, non si fidava di loro, perché ben conosceva il cuore dell'uomo.
I vv.34.36a sono posti tra loro in parallelo e tra loro sono complementari; entrambi si aprono con l'identica espressione che contrappone l'Io di Gesù a quello di Giovanni: “™gë de” (egò dè, ma io). Questa contrapposizione verte tutta sulla testimonianza di cui Gesù si serve per rendersi comprensibile e raggiungibile nel suo Mistero: questa non è quella di Giovanni, perché del tutto inadeguata per raggiungere il Mistero divino che vive e opera in lui: “ma io non ricevo la testimonianza da un uomo” (v.34a); alla negazione ora si affianca l'affermazione, che funge da reindirizzamento dell'attenzione dei Giudei: “Ma io ho una testimonianza più grande (di quella) di Giovanni” (v.36a). L'attenzione va quindi spostata dalla testimonianza di Giovanni a quelle che ora Gesù indicherà. La finalità di questo spostamento di attenzione sta nella salvezza dei Giudei stessi: “ma dico queste cose perché voi siate salvi” (v.34b). Le cose che Gesù dice riguardano proprio le fonti testimoniali attendibili a cui i Giudei devono attingere per poter raggiungere Gesù nel suo Mistero, ottenendo in tal modo la salvezza: le opere di Gesù, il Padre e le Scritture stesse; da queste esce la rivelazione della Verità che è in Gesù, che consentirà ai Giudei che vi attingono di accedere alla salvezza per mezzo della fede.
vv.36b-38: diversamente dal v.39 che riguarda la testimonianza delle Scritture, le quali pur avendo come origine implicita il Padre, sono tuttavia le protagoniste esplicite della testimonianza su Gesù, lasciandosi ricomprendere in chiave cristologica dalla chiesa primitiva, i vv.36b-38 sono invece caratterizzati da una duplice testimonianza che ha come unica fonte esplicita e diretta il Padre: le opere che Gesù compie gli sono state affidate dal Padre e da lui provengono (v.36b); e la testimonianza stessa del Padre (v.37a). Le due testimonianze sono strettamente agganciate tra loro dall'espressione che in qualche modo le salda assieme, facendone due aspetti di un'unica realtà, l'operare del Padre: “il Padre mi ha inviato” con cui termina il v.36 sulla testimonianza delle opere; e “E il Padre che mi ha mandato” con cui si apre il v.37 sulla testimonianza del Padre.
Il legame tra le prime due testimonianze e la terza, quella delle le Scritture, sono i vv.37b-38, che formulano un atto di accusa contro il giudaismo, destinatario privilegiato delle Scritture stesse (Sal 147,8-9), ma disattese e inascoltate (vv.37b-38).
Preceduto dal v.36a che attesta come Gesù possieda una testimonianza superiore a quella di Giovanni, il v.36b presenta il primo testimone attendibile, capace di rivelare il Mistero di Gesù: le opere che il Padre ha affidato a Gesù e che Gesù sta compiendo. Il termine “opera/opere” ricorre nel racconto giovanneo 27 volte e assume di volta in volta significati diversi a seconda del contesto in cui viene a trovarsi. Il termine si presenta sotto due forme:
6 volte al singolare (œrgon, érgon): in 4,34 e 17,4 il termine indica la missione di Gesù, presa nel suo insieme; in 6,29 indica la volontà di Dio, mentre in 6,30 designa un segno, nel senso di una prova da dare; in 7,21 si richiama alla guarigione dell'infermo (5,5-9) e in 10,33 assume il significato di azione benevola compiuta da Gesù.
21 volte si presenta al plurale (œrga, érga): qui le cose sono meno complicate. Il termine può essere catalogato in due aree: nella prima area il termine compare 8 volte e indica delle azioni che hanno attinenza con un proprio modo di comportarsi; sono azioni che entrano nell'alea dell'agire personale64. Nella seconda area il termine si presenta 13 volte e ha attinenza con i contenuti della missione di Gesù e ne diventa espressione e attuazione di valenza sia rivelatrice che salvifica: la predicazione, i segni, il relazionarsi con i suoi e con le folle, il suo nascere, il suo vivere, soffrire, morire, risorgere e ascendere e quant'altro possa contenere il suo vivere, tutto diviene opera che attua la volontà salvifica del Padre che si compie nel Figlio65.
Il v.36b si apre con un “g¦r” (gàr, infatti) dichiarativo che introduce il primo testimone: “ infatti le opere che il Padre mi ha dato perché le porti a compimento, queste opere che faccio testimoniano su di me che il Padre mi ha inviato”. Questo versetto è scandito in due parti: nella prima si attesta che il Padre ha dato delle opere perché siano portate a compimento dal Figlio. Il verbo “dšdwkšn moi” (dédokén moi, mi ha dato) è un perfetto indicativo che parla degli effetti presenti di un'azione che ha la sua origine nel passato, un passato che qui si colloca nell'eternità stessa di Dio, con cui Giovanni ha aperto la sua contemplazione del Logos Incarnato (1,1-2). Un richiamo a questo stato di cose lo offre l'inno cristologico di Ef 1,4-5, in cui si afferma che il Padre ha compiuto la sua opera salvifica ancora prima della creazione del mondo, affidandola poi al suo Cristo perché ne desse compimento storico: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”. Le opere che Gesù compie, dunque, provengono dall'eternità di Dio e sono opere operate dal Padre che lui, in quanto Logos Incarnato, riceve per darne attuazione storica e, quindi, portarle a pieno compimento. Ho preferito tradurre quel “teleièsw” (teleióso) con “portare a compimento” perché le opere che Gesù compie non sono sue, ma sono quelle operate dal Padre le quali egli deve portare a pienezza nel loro compimento storico, dando piena attuazione all'azione salvifica del Padre, che si attua nel Figlio. Gesù infatti da se stesso non può fare niente se non ciò che vede fare dal Padre (v.19). Il fare di Gesù dipende da quello del Padre, che egli riprende e porta a compimento. Questa è la sua missione, la sua opera. La seconda parte del v.36b si apre con una ripresa di quelle opere che provengono dal Padre (dédokén moi), ma che vengono collocate ora nel presente di Gesù (poiî, poiô, faccio; verbo al presente indicativo) dando una sorta di continuità logica tra eternità e storia, che dall'eternità è riempita delle opere salvifiche del Padre, manifestatesi e attuatesi in Gesù, azione storica del Padre. La finalità di queste opere è attestare che Gesù è stato inviato dal Padre. Anche qui l'invio è affidato ad un verbo posto al perfetto indicativo “me ¢pšstalken” (me apéstalken, mi ha inviato) per indicare come l'invio si è prodotto nel passato dell'eternità stessa di Dio, ma continua ancora nel presente. Il mandato di Gesù dunque ha radici divine e rimanda l'origine missionaria di Gesù al Padre stesso: egli è uscito dal Padre ed è entrato nel mondo per compiere l'opera del Padre (8,42; 16,28a; 16,30b; 17,8).
Il v.37 si apre agganciandosi al tema dell'invio con cui terminava il v.36: il Padre viene definito qui come “colui che ha inviato” (pšmyaj, pémpsas), con un participio aoristo che colloca l'azione del Padre nella sua stessa eternità, radicando l'inviato all'Inviante. In altri termini, l'uso del participio aoristo descrive la natura del Padre, evidenziando come l'inviare faccia parte della sua stessa natura. L'intera storia della salvezza è costellata di invii: Abramo, Mosè, Aronne, i Profeti, Giovanni, l'angelo Gabriele, Maria, Giuseppe e infine Gesù, che si pone al vertice conclusivo di questa storia della salvezza e da cui si diparte una nuova realtà, la Chiesa, anch'essa inviata tra le genti (Mt 28,18-20) con lo stesso mandato che discende dal Padre per mezzo di Gesù: “Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi” (20,21).
Il v.37a attesta come il Padre “testimoniò di me” (memartÚrhken perˆ ™moà, memartíreken perì emû). Anche qui il tempo usato per indicare la testimonianza è un perfetto, che esprime uno stato presente quale conseguenza di un'azione posta nel passato. A che cosa allude qui Giovanni con questo perfetto? Quale evento prodottosi nel passato porta in se stesso ancor viva nell'oggi di Gesù la testimonianza su di lui? E a chi si riferisce l'autore? La risposta viene dal v.37b: “Né voi mai ascoltaste la sua voce, né vedeste il suo aspetto”. Non è un atto di accusa contro Israele, ma allude quasi certamente all'episodio del Sinai dove Jhwh scese sul monte in modo terrificante (Es 19,16-20) così che il popolo chiese a Mosè di farsi suo mediatore presso Dio (Es 20,19.21; Dt 5,25-27). Probabilmente Giovanni nello stendere il v.37b aveva presente Dt 18,16: “Avrai così quanto hai chiesto al Signore tuo Dio, sull'Oreb, il giorno dell'assemblea, dicendo: Che io non oda più la voce del Signore mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Nessuno infatti poteva accostarsi a Jhwh pena la morte (Es 19,12-13.21-25) né vedere il suo volto e rimanere in vita (Es 33,20.23)66. La scelta di Dt 18,16 doveva poi tornare utile a Giovanni poiché tale passo era inserito nel contesto in cui Jhwh annunciava la venuta di un Profeta, che avrebbe parlato in suo nome: “Il Signore mi rispose: Quello che hanno detto va bene; io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto” (Dt 18,17-19). Ed è l'eco di questo passo che si sente nel v.38b: “poiché quegli lo mandò, a questo voi non credete”. Se con il v.37b l'autore si riferiva all'episodio del Sinai e in particolare a Dt 18,16 e quindi apparentemente senza voler lanciare nessuna accusa contro i Giudei, tuttavia il tempo verbale usato, il perfetto indicativo, sottende una dura accusa contro la cecità e la sordità dei Giudei, che allora non vollero ascoltare la parola e non vollero vedere l'immagine di Jhwh così come oggi non vogliono ascoltare la parola di Gesù né vogliono vedere l'immagine di Dio riflessa in lui (Eb 1,3a), così che essi non gli credono. Il tempo perfetto infatti, come si è detto sopra, indica uno stato di cose presenti come conseguenza di un'azione passata. Non hanno udito la parola di Jhwh allora né riescono a sentirla oggi; non hanno visto l'immagine di Jhwh allora né riescono a vederla oggi. L'accusa larvata di 37b viene formulata in modo esplicito nel v.38a: “e non avete la sua parola che rimane in voi”, cioè la parola delle Scritture nelle quali in qualche modo si parlava dell'evento Gesù (Lc 24,27.44). Certo la Torah era scrupolosamente osservata, ma tutto si riduceva ad una formale esecuzione di quanto essa disponeva. In quanto ritenuta volontà di Dio essa veniva osservata con accuratezza quasi ossessiva e asfissiante, divenendo a lungo andare un peso insopportabile (Mt 23,4). Circa la comprensione che Israele ebbe della Torah è significativo Es 24,7: “Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: "Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”. Quindi la Torah era un testo da mettere in pratica, nel senso di eseguire ciò che essa disponeva; non importava comprendere il significato di quanto essa comandava; anzi meno si indagava, meno si comprendeva, più perfetta e meritevole risultava l'obbedienza. Nella classificazione che i rabbini cercarono di dare ai numerosi comandamenti che popolavano la Torah orale vi sono anche gli “huqim” o decreti. Questi sono norme prive di motivazione, che in qualche modo servono a misurare la capacità di obbedire a Dio, accettando anche comandi che possono sembrare privi di logica67. Non è un caso se la religione ebraica è considerata un'ortoprassi più che una vera e propria religione. In tal senso il Carmona afferma: “Senza dubbio, nell'ebraismo la prassi occupa un posto centrale, in quanto atto di obbedienza a Dio che ha manifestato il suo volere nella Torah. Perciò pratica la religione ebraica colui che obbedisce e opera, non colui che sa e accetta un credo”68. Tutto ciò condusse ad una cura eccessiva della lettera così da perderne lo spirito e che portò Isaia a lamentarsi di questo rapporto superficiale e ottuso con Jhwh: “Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13); un lamento che verrà ripreso circa sette secoli dopo da Gesù (Mt 15,8; Mc 7,6) e che giustifica il lamento di Gv 5,38a: “e non avete la sua parola che rimane in voi”. Quel “™n Øm‹n” (en imîn, in voi) dice come la Parola di Jhwh non fosse passata nella loro vita, trasformando il loro cuore, e denuncia tutta la loro incapacità di comprenderla nel suo significato più vero e profondo, riducendola soltanto ad una mera esecuzione di comandi, rendendosi in tal modo incapaci di coglierne il messaggio profondo che conteneva. Ecco perché il Logos Incarnato venne respinto proprio da coloro che lo possedevano (1,11).
vv.39-40: per poter meglio comprendere la rilevanza del v.37b, con il richiamo al monte Sinai sul quale Israele ricevette il dono della Torah, così come per il rimprovero del v.38 circa l'impermeabilità del giudaismo alla Parola e infine per capire la citazione del quarto teste, le Scritture (vv.39-40), è necessario inquadrare questi versetti nel contesto della festa in cui si colloca l'intero cap.5: “Dopo queste cose c'era una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme” (v.1). La festa in questione si è detto che era la Pentecoste (cfr. pag.6), il cinquantesimo giorno dopo la pasqua che concludeva la festa delle sette settimane (Shavu'oth) e in cui si commemorava il dono della Torah ad Israele, che suggellava l'Alleanza tra Jhwh e il suo popolo. I vv.37b-40 quindi si muovono all'interno di questa cornice religiosa, divenendo un forte richiamo a questo dono di fatto disatteso e rivelatosi inutile perché esso doveva portare ad accogliere il Messia, che invece non solo non è stato riconosciuto, mentre le Scritture lo indicavano (v.39b), ma è stato anche respinto (1,11), vanificando da un lato il progetto di salvezza che le Scritture e l'Alleanza avevano codificato in vista della sua venuta; dall'altro disattendendo il loro valore propedeutico.
I vv.39-40 innescano tra loro un confronto tra le Scritture in cui i Giudei ritengono che ci sia la vita eterna (v.39) e Gesù, che questa vita eterna possiede (v.40); tra il loro indagare nelle Scritture e il loro non andare da Gesù. Il trait-d'union che lega i due parametri di confronto e forma il cuore dei due versetti è la seconda parte del v.39: “e sono (proprio) quelle che testimoniano su di me”, che forma il contenuto delle Scritture stesse.
Il vv.39 apre con un'esortazione a indagare, a scrutare attentamente le Scritture, alludendo al comportamento proprio dei rabbini che dedicavano la loro vita allo studio della Torah in una persistente rilettura attualizzante, così da poter continuamente illuminare e comprendere le nuove situazioni che la vita, nella sua dinamica quotidiana, presentava. In ultima analisi si trattava di leggere di continuo la vita attraverso la Torah. Questa continua ricerca era sottesa dal metodo derasico (ebr. Darash=cercare, scrutare, studiare, analizzare), che ha costituito una formidabile spinta nella formazione e nello sviluppo della Bibbia69. Questo studio e questa ricerca che puntavano all'inculturazione delle Scritture nella quotidianità della vita si radicava anche nella convinzione che le Scritture contenessero la chiave della vita eterna. Secondo il pensiero ebraico infatti la Torah era la fonte della vita stessa. Il Pirqe Aboth, II,8 attesta: “Colui che ha acquistato le parole della Legge ha acquistato per sé la vita del mondo avvenire”; mentre VI, 7 dice: “Grande è la Legge perché dà a quelli che la mettono in pratica la vita in questo mondo e nel mondo a venire”70.
Richiamandosi dunque a questa continua e costante ricerca delle Scritture che caratterizzava il comportamento dei maestri e dottori della Legge, il Gesù giovanneo con fine ironia li sollecita a scrutarle meglio, perché proprio queste parlano di lui. Nel v.39 si sente l'eco della comunità giovannea e delle prime comunità credenti, che proprio attraverso una rilettura delle Scritture in chiave cristologica, non più legata alla formalità avvilente della lettera, ma allo Spirito che l'animava e l'esprimeva, riuscirono a trovare l'annuncio dell'evento Gesù71. Quasi certamente il v.39 costituisce storicamente un invito al Giudaismo a cercare nelle Scritture, partendo da un'angolatura diversa, che non fosse una pedestre applicazione della lettera.
Il v.40 costituisce un atto di accusa verso il giudaismo così sollecito a scrutare le Scritture alla ricerca della vita eterna in essa contenuta, senza rendersi conto che oggetto di questa vita eterna è lo stesso Logos Incarnato, che la possiede. Ma l'atto di accusa più pesante sta in quel “non volet e venire da me”, che indica una volontà e una determinazione, che porta alla chiusura nei confronti proprio di quella vita eterna che essi sembrano cercare nelle Scritture. Un “non volete” in cui risuona in qualche modo quello matteano di 23,37, anch'esso conclusosi con una decretazione di condanna (Mt 23,38).
La requisitoria contro il Giudaismo
Testo
a lettura facilitata di 5,41-47
La ricerca della vera gloria
41-
Non prendo gloria dagli uomini,
42-
ma so che voi non avete l'amore di Dio in voi stessi.
43-
Io sono venuto nel nome del Padre mio, e non mi accogliete; se un
altro venisse nel proprio nome, quello (lo) accogliereste.
44-
Come potete credere voi, che ricevete gloria gli uni dagli altri e
non cercate la gloria, quella (che viene) dall'unico Dio?
Il giudizio di Mosè sull'incredulità dei Giudei
45-
Non crediate che io vi accusi presso il Padre; è Mosè che vi
accusa, nel quale voi avete sperato.
46-
Se infatti credeste a Mosè, credereste (anche) a me; poiché quello
scrisse di me.
47- Ma se non
credete agli scritti di quello, come crederete alle mie parole?
Note generali a 5,41-47
Con
il v.18 i Giudei avevano deciso di sopprimere Gesù per blasfemia,
perché non solo violava sistematicamente il sabato inducendo anche
altri a farlo (5,8-9), per la quale cosa era prevista la pena di
morte72,
ma peggio ancora si faceva pari a Dio. Ora Gesù passa al
contrattacco e da accusato diventa accusatore. Con questa
requisitoria Giovanni si pone in linea sia con i Sinottici che con
Paolo stesso, i quali puntavano il dito contro l'orgoglio smisurato
di questi dottori della Legge, che amavano i primi posti nelle
sinagoghe e nei banchetti; amavano passeggiare in pubblico con lunghe
vesti raccogliendo i saluti deferenziali della gente, ostentando
filatteri e frange73,
facendosi chiamare rabbì da loro e ostentando di fare lunghe
preghiere negli angoli delle piazze o delle vie, per essere meglio
veduti da ogni lato o sfigurandosi il volto quando digiunavano;
amavano far risuonare il bronzo delle elemosine quando facevano la
loro offerta per attrarre l'attenzione della gente sul loro gesto
caritatevole74.
Insomma, sintetizza Matteo, tutte le opere buone le fanno solo per
essere ammirati e lodati (Mt 23,5a). Anche Paolo nella sua lettera ai
Romani rileva alcuni tratti significativi di questo volto giudaico
così prepotentemente perbenista e sfacciatamente orgoglioso: “Ora,
se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla
legge, e ti glori di Dio, del
quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai
discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei
ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore
degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge
l'espressione della sapienza e della verità...”
(Rm 2,17-20). Questa dunque la cornice storica entro cui si colloca
la pericope in questione e a cui riferisce il tema della ricerca
della gloria (vv.41-44).
Si tratta di una requisitoria che già si era in qualche modo preannunciata nella precedente sezione sulla testimonianza (vv.31-40) ai vv.34a, 38a, 39b, che trovano ora la loro eco rispettivamente nei vv.41, 42, 46b. Gesù non prende la testimonianza da un uomo (v.34a), così come non prende gloria dagli uomini (v.41), perché molto diversi sono gli interessi e gli orientamenti di vita che li muovono e li contrappongono; i Giudei non hanno in loro la parola di Dio (v.38a), così come in loro non hanno l'amore di Dio (v.42); e infine, le Scritture rendono testimonianza Gesù (v.39b), come gliela rende lo stesso Mosè nei suoi scritti (v.46b). Questi parallelismi sono i capisaldi su cui fonda l'accusa del Gesù giovanneo al giudaismo, svuotandolo di fatto di ogni contenuto religioso, annullando il suo preteso rapporto di eccellenza con Dio. Gesù infatti cerca la gloria di Dio, mentre loro cercano la propria gloria; Scritture e Mosè hanno parlato di lui e gli rendono testimonianza, ma i Giudei non riescono a coglierne il vero senso, perché in loro non dimora la Parola di Dio né il suo amore; ed è proprio quest'ultima accusa che maggiormente grava sul giudaismo, squalificandolo definitivamente dal ciclo vitale e salvifico in cui inizialmente era stato collocato da Dio, facendolo sua proprietà in mezzo a tutti i popoli, un regno di sacerdoti e una nazione santa (Es 19,5b-6a).
La struttura di questa pericope è scandita in due parti, la prima (vv.41-44) delimitata dall'inclusione data dall'espressione “prendere/ricevere gloria”; la seconda (vv.45-47) caratterizzata dalla presenza di due termini che si rincorrono nei tre versetti: accusare/accusa e incredulità, che costituisce il vertice di questa ultima parte del discorso di Gesù.
Commento ai vv. 41-47
I vv.41-44 sono delimitati dall'inclusione data dall'espressione “prendere/ricevere gloria” presente nei vv.41.44, che caratterizza il tema di questa pericope e che nel contempo qualifica i due diversi e contrapposti orientamenti di vita di Gesù e del giudaismo, qui posti a confronto. I vv.42-43, collocati nel cuore di questa inclusione forniscono la motivazione di questa antitesi e, quindi, del diverso senso che Gesù e le autorità giudaiche attribuiscono al termine gloria, che li muove nella loro vita: il primo cerca la gloria di Dio; i secondi quella degli uomini.
Il v.41 attesta che Gesù come non prende la sua testimonianza dagli uomini (v.34a), così non prende neppure gloria da loro, poiché come un Altro gli rende testimonianza (v.32a), così sempre questi sarà la fonte della sua gloria. Il fatto che la sua gloria, cioè il riconoscimento e il successo della sua missione (13,31b-32a; 17,4) non dipenda dagli uomini, ma da un Altro, significa che in Gesù sta operando una forza che è estranea agli uomini e che porterà a termine il proprio progetto a prescindere da questi. Il termine “dÒxa” (dóxa, gloria) ha il suo corrispondente ebraico in “kābōd”, che ha la sua radice, comune nelle lingue semitiche, in “kdb”, che significa “essere pesante o importante”, “essere uno che conferisce autorità”, per cui il termine può significare anche “onore, onorare”, riconoscere d'importanza o di autorità una persona. Nell'A.T. l'espressione è sovente rivolta a Jhwh e ne esprime l'onnipotenza non solo con riferimento alla sua presenza, ma anche ai suoi interventi, che trovano la loro manifestazione più spettacolare nelle teofanie (Es 13,21.22; 19,18-19; 20,18). Così la gloria di Gesù diviene la manifestazione della potenza del Padre, che opera in lui e si rivela nell'operare stesso di Gesù (v.36b; 14,10-11). La radice della gloria di Gesù dunque è nel Padre stesso, da cui trae il suo beneplacito, il suo compiacimento e la sua glorificazione (Mt 3,17; 12,18), cioè il successo pieno della sua missione che avrà il suo vertice e il suo compimento nell'accadere dell'ora della sua passione, morte e risurrezione (12,3; 13,1). Ma in ultima analisi questa gloria di cui Gesù si ricopre e che l'uomo non gli può dare è la vita stessa del Padre, che in lui condivide e che reclamerà per se stesso nel momento supremo del compiersi della sua missione: “E adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te” (17,5). La gloria dunque che Gesù cerca, ma non presso gli uomini, è la volontà di Dio di cui si nutre e a cui dà attuazione nella sua missione (17,4); in essa si manifesta la potenza di Dio che è vita eterna. L'autorità e l'autorevolezza di Gesù non dipendono dai consensi umani, ma dalla sua conformità alla volontà del Padre di cui è azione e compimento.
I vv.42-43 sono in buona sostanza la ripresa e lo sviluppo del v.38, che riporta l'accusa lamento di Gesù: “e non avete la sua parola che rimane in voi, poiché quegli lo mandò, a questo voi non credete”. L'israelita non poteva farsi nessuna immagine di Dio, né poteva in qualche modo pensare ad una sua raffigurazione (Es 20,4-6), poiché Jhwh era soltanto un suono, una voce, che si diffonde nell'aria, ma non la puoi cogliere, né imbrigliare o racchiudere in qualche contenitore. Essa può essere conservata soltanto nella mente e nel cuore per essere fatta risuonare nella propria vita. E Israele fu per antonomasia il popolo della Parola, una Parola che tuttavia ha vanificato sterilizzandola e disperdendola in una infinità di rivoli normativi e tali da renderla irraggiungibile e impraticabile (Mt 15,4-6). Per questo la Parola di Jhwh non rimase in loro. Ma tale esclusione comportò anche che, allorché questa venne in mezzo alla sua proprietà, da questa non venne riconosciuta ne venne accolta (1,11). Di conseguenza “l'amore di Dio” non può dimorare in loro. Il genitivo “amore di Dio” (t¾n ¢g£phn toà qeoà, tèn agápen tû tzeû) può assumere un duplice significato: “amore per Dio” che qualificherebbe la vita di Israele come orientata a Dio in un atteggiamento di attento discernimento e di sua pronta accoglienza, capace di superare gli angusti spazi di un legalismo asfissiante e accecante e tale da togliere a Dio stesso ogni possibilità di dialogo con il suo popolo, schiavizzato dalla lettera che uccide lo spirito (2Cor 3,6). Ma l'espressione “amore di Dio” può significare anche l'azione di Dio stesso, uscito dal suo Mistero per aprirsi e donarsi all'uomo, perché questi possa accedere alla sua stessa vita: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (3,16). Questo amore di Dio quindi diventa una mano tesa verso l'uomo, che deve porre attenzione a questa mano tesa perché non sia tesa invano. Ciò è reso possibile se la Parola di Dio alberga nel cuore dell'uomo, rendendolo sensibile alle sue esigenze, così che la sua vita diventi un atto di amore verso il suo Signore, attenta e capace di accoglierlo nello spirito della sua Parola. Ad Israele mancò proprio questo slancio evolutivo, che è proprio dello Spirito che anima la Parola, a favore della conservazione di una lettera che porta ad una involuzione spirituale senza prospettive se non quella della morte.
Ma il Gesù giovanneo “sa” che nel cuore di Israele non dimora né l'amore di Dio né per Dio. È un rovente atto di accusa che squalifica Israele estromettendolo dal circuito della storia della salvezza. Un'affermazione che a modo suo anche il Gesù matteano fa pesare sul giudaismo: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43). Un pensiero questo che inquieterà non poco lo stesso Paolo (Rm 9,1-3), che alla questione della salvezza di Israele dedicherà i capp.9-11 della sua lettera ai Romani. Dietro questo sapere del Gesù giovanneo si intravede la posizione della stessa comunità che formula la sua accusa e la sua condanna nei confronti di un Giudaismo che non solo si è reso impermeabile all'evento Gesù, ma gli si è rovesciato contro: “Io sono venuto nel nome del Padre mio, e non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, quello (lo) accogliereste”. L'accusa mossa qui riguarda la pronta disponibilità dei Giudei a rincorrere i numerosi falsi profeti o sedicenti messia, che sorgevano all'epoca e la cui sequela da parte del popolo provocava la dura reazione di Roma che quasi sempre si concludeva in un bagno di sangue75. Ma la venuta del Logos Incarnato che aveva fatto della gloria di Dio la sostanza della sua missione, si è scontrata con un Giudaismo che aveva ridotto il suo approccio con Dio ad una mera formalità legalistica, rendendosi incapace di coglierlo nell'evento Gesù.
Il v.44 è scandito in tre parti, la prima denuncia l'incapacità di credere (“Come potete credere voi”),, mentre la seconda e terza parte, tra loro contrapposte, fungono da spiegazione: “ricevete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria, quella (che viene) dall'unico Dio?”. Il versetto si apre ponendo un interrogativo non tanto sull'incredulità dei Giudei quanto sulla loro capacità di credere, poiché il credere comporta una capacità ad aprirsi all'insondabile, una capacità ad accogliere l'ignoto, comporta fare un salto di qualità che ti proietta nell'infinito dell'eternità divina dove non c'è più spazio per l'umano, ma dove l'umano trova la sua pienezza nel divino. Il proprio Io trova la sua affermazione e la sua giustificazione non in se stesso, ma nell'Altro. Paolo scrivendo ai Romani sottolinea come “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini” (Rm 14,17-18). Ecco che cosa significa credere, porsi esistenzialmente a disposizione dello Spirito, lasciando plasmare la propria umanità dalla divinità. Ma il problema per il giudaismo sta proprio qui. Non è lo Spirito che opera nei Giudei, ma essi si servono delle cose di Dio per vantarsi davanti agli uomini, asservendo Dio alle proprie esigenze. Le attenzioni dei Giudei sono rivolte a se stessi e non a Dio, così che la gloria qui viene attinta non da Dio, ma dagli uomini e punta all'esaltazione di se stessi, pensando in tal modo di essere grandi anche davanti a Dio. Luca narra di quel pubblicano e di quel fariseo saliti al tempio a pregare e subito balza all'occhio le lodi che il fariseo intesse su se stesso davanti a Dio: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo” (Lc 18,11-12). Pur nella sua origine greca Luca ha saputo tipizzare bene lo spirito con cui si muoveva il giudaismo nei suoi rapporti con Dio. Uno spirito che cerca la gloria degli uomini e non quella che viene da Dio. Sono due tipi di gloria sostanzialmente diversi che denunciano un orientamento di vita che non è rivolto verso Dio, ma verso gli uomini. Per questo Gesù e i Giudei non si intendevano e neppure c'era la possibilità che ciò avvenisse (“Come potete credere”), perché diversi erano gli interessi, diversi i propri orientamenti spirituali ed esistenziali, diversi erano i linguaggi che parlavano.
Il v.44 quindi va al nocciolo della questione puntando il dito non contro l'incredulità dei Giudei, ma contro la loro ben più grave incapacità a credere, legata ad un comportamento che li precludeva ad ogni possibilità di comprensione e di fede, perché della Parola e di tutto l'apparato cultuale e religioso, che le ruotava attorno, avevano fatto un motivo ornamentale a proprio uso e consumo, uno strumento di potere in cui affermarsi, riponendo tutte le loro sicurezze nel Tempio e nel suo culto, nell'Alleanza, nell'essere figli di Abramo, nel ritenersi figli di Dio, quasi che tutto ciò fosse diventato una sorta di amuleto porta fortuna che li doveva preservare da ogni disgrazia76. La sfarzosità del culto di Israele, a cui non corrispondeva un adeguato tenore di vita spirituale e morale, venne da Matteo e Marco paragonato ad un fico a cui Gesù si accostò per raccoglierne dei frutti, ma invano; c'erano soltanto foglie. E su questo fico Gesù lanciò il suo anatema e il fico seccò (Mt 21,19; Mc 11,12-20). Un racconto-parabola in cui si sente l'invettiva escatologica del Battista: “Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10). Era una dura denuncia della sterilità spirituale di Israele, che lo portava ad una ipocrisia spirituale, ritenendosi salvo perché eseguiva scrupolosamente alla lettera ciò che la Torah prescriveva (Mt 23,23; Lc 11,42; 18,11-14).
vv.45-47: se i vv.41-44 si sono occupati, come in una sorta di dibattito giudiziale, della radice dell'incredulità, che denunciava l'orientamento spirituale sbagliato del giudaismo, tutto intento a procurarsi la gloria degli uomini anziché quella di Dio, rendendosi in tal modo spiritualmente sterile e impermeabile a Dio stesso, questi ultimi versetti (vv.45-47) formulano l'accusa: i Giudei non solo non credono in Gesù, ma di fatto non hanno mai creduto neppure a Mosè. Sarà dunque quest'ultimo a giudicarli. Paolo nella sua arringa contro il perbenismo giudaico e le sue pretese di superiorità spirituale e morale, sottolineerà proprio questo aspetto: “Tutti quelli che hanno peccato senza la legge, periranno anche senza la legge; quanti invece hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati con la legge” (Rm 2,12). Sarà dunque Mosè il loro giudice. Ma il giudizio non verterà sul pagamento della decima o sulla scrupolosa osservanza del sabato o delle rigorose regole sulla purità; ma sotto giudizio sarà proprio la loro incredulità, che li ha resi ciechi, non rendendosi conto come proprio la parola di Mosè fosse in funzione dell'evento Gesù. Non c'è dunque speranza per il giudaismo: non hanno creduto a Mosè, per questo non hanno creduto neppure a Gesù, che da Mosè fu annunciato (vv.39b.46b). Non fu colta dunque dal giudaismo la valenza propedeutica del Primo Testamento, assolutizzando come fine ultimo ciò che invece fu soltanto un mezzo per giungere al fine.
La durezza di questa terza parte del discorso di Gesù (vv.41-47), che esclude di fatto il giudaismo dal ciclo vitale della salvezza, accusandolo di incapacità a credere, se da un lato va condivisa per quanto riguarda le modalità di approccio alla Torah e della sua inculturazione da parte del giudaismo, dall'altro va detto che la comunità giovannea ha avanzato qui delle pretese fuori luogo, accusando il giudaismo di un'incapacità di lettura cristologica delle Scritture. Da un punto di vista storico dire che Mosè e i Profeti hanno parlato di Gesù è quanto mai azzardato. La chiesa primitiva fu in un certo qual modo costretta a questa rilettura in chiave cristologica delle Scritture, per poter darsi una nuova identità e giustificare la fondazione di una nuova fede in modo dogmatico. Accusare il giudaismo di non aver fatto altrettanto è comprensibile, ma non giustificabile, soltanto nel clima di rovente polemica che caratterizzò i rapporti tra giudaismo e cristianesimo nascente del primo secolo77.
1Cfr. il commento ai vv.2,14-22 – pagg.18ss
2Sulla questione delle Festività giudaiche in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva pagg.89-92
3Sulla questione delle festività ebraiche cfr. Yitzchaq Leib Peretz, Sholem Aleichem raccontano Le Feste ebraiche, saggio introduttivo alle feste, di Daniel Lifschitz, Paoline Editoriale Libri – Figlie di San Paolo, Milano, 2001.
4 Il primo anno di attività va relazionato alla prima pasqua (2,13); il secondo anno comprende le quattro festività di seconda Pasqua (6,4); Pentecoste (5,1); Capanne (7,2) + il giorno successivo, che abbraccia i capp. 8 e 9; e, infine, la Dedicazione (10,22); il terzo anno va riferito alla terza pasqua (11,55), quella fatale per Gesù e attorno alla quale ruota l'intero Libro della Gloria (capp.13-20)
5Sulla questione dell'inversione dei due capitoli (6-5, anziché 5-6) cfr. la Parte Introduttiva, pagg.89-92.
6Il v.5,1 parla di un'anonima festa dei Giudei, che ritengo si tratti della Pentecoste, come vedremo di seguito nel commento.
7Cfr. Mt 12,8.12; Mc 2,27.28; Lc 6,5.9; 13,14-16; 14,1-6
8Cfr. la Parte Introduttiva, pagg. 88-89 e nota 245
9In Ef 5,14 viene riportata la citazione di un testo innico liturgico che sembra essere stato usato nelle liturgie battesimali, concepite come illuminazioni (Eb 6,4; 10,32). Una conferma in tal senso ci viene da Clemente Alessandrino (150-215 d.C.), che cita il versetto di Ef 5,14 facendolo seguire da un'altra strofa, che si riferisce al battesimo. Cfr. R. Fabris, Le lettere di Paolo, Edizioni Borla srl, Roma 1990 – Seconda edizione rivista e aggiornata – Vol. 3, pag.279 – nota 8
10Cfr. Mt 9,2-8; Mc 2,3-12; Lc 5,18-26
11Sulla questione cfr. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi, 1999; pag.270
12Sulla questione cfr. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi, 1999; pagg.434-436
13L'espressione “Met¦ taàta” ricorre nei vangeli complessivamente dieci volte, di cui tre in Luca e sette in Giovanni.
14 Sulla questione dell'anonimato, cfr. Xavier Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, pagg.377-388 op. cit.
15Cfr. Gv 2,6.13; 5,1; 6,4; 7,2; 11,55; 19,42
16Sul significato del termine Giudei in Giovanni cfr la Parte Introduttiva alla voce “Giudei ('Iouda‹oi; Iudaîoi)”, pag.61
17Cfr. Gv 1,48-50; 2,11b.23; 4,53; 6,14.68-69; 7,31; 9,38; 11,27;
18La piscina era un quadrilatero a forma trapezoidale. Al suo interno, per ogni lato, vi era un porticato sorretto da un colonnato, costruito probabilmente da Erode il Grande, cultore maniacale di monumenti e di costruzioni finalizzati a celebrare la sua magnificenza e quella di Roma (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, I,400-422). Un quinto porticato, posto trasversalmente, divideva la piscina in due bacini profondi circa 7-8 mt. Questo poggiava su di un muro divisorio spesso di 6,5 mt. La piscina settentrionale, più piccola, misurava 40x50 mt.; mentre quella meridionale, più grande, misurava 48x57,50. La piscina era alimentata sia da acqua piovana che da una sorgente sotterranea ad acqua intermittente e gorgogliante, che muoveva l'acqua della piscina, movimento attribuito dalla gente ad un angelo. La piscina venne trovata durante un restauro sulla chiesa di Sant'Anna a Gerusalemme nel 1888, presso la proprietà dei padri Bianchi. Cfr. Y. Simoens, Secondo Giovanni, una traduzione e una interpretazione, op. cit.- pag.294; R.E. Brown, Giovanni, op. cit.
19Così il Brown nella sua opera Giovanni, pag.268, nota di commento al v.4
20Sulla questione dei vv.3.4 cfr. Y. Simoens, Secondo Giovanni, una traduzione e un'interpretazione, op. cit. - pag. 295; R.E. Brown, Giovanni, op. cit. - pag.268
21Cfr. M. DEL VERME, La piscina probatica: Gv. 5, 1-9. Un problema di critica testuale e di esegesi di fronte ai risultati degli ultimi scavi‟, in Bibbia e Oriente 18 (1976), pp. 109-119.
22A titolo esemplificativo cfr. Mt 7,24; 13,44.45; 13,52; 18,23; 20,1; 22,2; 25,1; Lc 6,47-49; 13,18-21
23Cfr. Lc 2,25.38
24Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, seconda edizione 2007; R.E. Brown, Giovanni, op. cit.- pag.273
25Sull'universalità dell'Ebraismo cfr. P. De Benedetti, Introduzione al Giudaismo, Editrice Morcellania, Brescia 2001; A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, 2005 – pagg. 354-355; voce “Proseliti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
26Cfr. R.E. Brown, Giovanni, op. cit.- pag. 273
27L'espressione ricorre in tutto l'A.T. venti volte.
28Cfr. il commento ai vv. 2,24-25
29Cfr. Gv 5,1-9; 9,14
30La
Torah scritta prevedeva in Es 20,10-11, ripreso anche in Lv 23,3 e
Dt 5,14, il riposo assoluto da ogni lavoro, perché il sabato era
considerato giorno consacrato al Signore. Tuttavia la Torah scritta
non dava una definizione di lavoro. Sarà questo il compito della
Torah orale, cioè il commento orale alla Torah scritta, confluita
sul finire del II sec. d.C. nella Mishnah (ripetizione) ad opera di
rabbi Yeudah ha-Nasi. A sua volta essa fu commentata e tra il II e V
sec. d.C. il commento andò a formare la Ghemarah (integrazione o
completamento). L'insieme della Mishnah e della Ghemarah nei secoli
successivi dettero alla luce una doppia edizione del Talmud, quella
minore di Gerusalemme intorno al IV sec. d.C., e quella più ampia
babilonese intorno al VI sec. d.C. - La Mishnah individua al suo
interno 39 categorie di attività vietate in giorno di sabato, il
cui elenco è il seguente: Arare, Seminare, Mietere, Formare covoni,
Trebbiare, Ventilare, Selezionare, Setacciare, Macinare, Impastare,
Cuocere, Tosare, Lavare, Cardare, Tingere, Filare, Tendere,
Costruire un setaccio, Tessere, Dividere due fili, Legare, Slegare,
Cucire, Strappare, Cacciare, Macellare, Scuoiare, Salare la carne,
Disegnare, Lisciare, Tagliare, Scrivere, Cancellare, Costruire,
Demolire, Spegnere un fuoco, Accendere un fuoco, Dare l'ultima mano
per terminare un lavoro, Trasportare
al di fuori della propria abitazione. Quest'ultima è
l'attività che è stata contestata all'infermo risanato.
31Il sostantivo “uomo” è reso in greco con due termini “¢n»r” (anér), corrispondente al latino “vir” che significa l'uomo in senso nobile del termine, a cui è associata l'idea di virilità, di valore, di nobiltà. Si tratta di un uomo particolare, conosciuto, un uomo speciale. Il secondo termine è “¥nqrwpoj” (ántzropos), corrispondente al latino “homo”, che significa uomo in senso generale, l'uomo comune, quello della strada, l'uomo anonimo.
32La folla che si muove nel cap. 6 assume connotati decisamente negativi e viene redarguita da Gesù per la sua inintelligenza e la sua superficialità: “In verità, in verità vi dico, mi cercate non perché vedeste dei segni, ma perché mangiaste dai pani e foste saziati” (6,26); così in Gv 7,12.20.40-44.49; 12,9.34;
33Sulla questione cfr. la voce “Giudaizzanti” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, seconda edizione 2000
34Cfr. nota 13 del presente commento al cap.5 – pag.6
35Cfr. 1Gv 1,5; At 14,27; 15,4; Rm 15,21; 1Pt 1,12;
36Cfr. Gb 31,18; Tb 13,4; Sal 2,7; 28,1; 67,6; 88,27; 109,3; Sap 2,13.16b.18; 5,5; 12,5-7; 18,13; Prv 3,12; Sir 23,1.4; 51,10; Is 63,16; 64,7; Os 11,1; Ml 1,6; 2,10; 3,17.-
37Cfr. Sal 118,91 ;Sap 9,3a; 12,13; Col 1,17; Eb 1,3; Ap 4,11
38Cfr. S. Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commentario esegetico e teologico, op. cit.; R.E. Brown, Giovanni, op. cit.
39Cfr. Gv 8,42; 16,28.30; 17,8
40Per San Tommaso d'Aquino la ragionevolezza è un attributo fondante della legge umana, per cui “quando un precetto nella sua applicazione cessa di essere ragionevole e di servire al bene dell'uomo, sia individualmente sia socialmente, cessa pure di essere un precetto morale”. - Cfr. Summa Theologiae I-II, q. 90, a.1 – In tal senso cfr. J. Silvio Botero G., Etica coniugale, per un rinnovamento della morale matrimoniale, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo, 1994 – pag. 118
41Il verbo “fare” si presenta cinque volte nella forma semplice di “poišw” (poiéo) nei vv.19-20 e due volte nella forma composta di “zJo+poišw” (zoo+poiéo) nel v.21, che significa letteralmente “far vivere” e, quindi, “vivificare”
42Cfr. Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33
43Cfr. Mt 15,2.20; Mc 7,2-4
44Cfr. Mt 7,29; 21,23; Mc 1,22; Lc 4,32
45“In verità, in verità vi/ti dico”, l'espressione ricorre 78 volte nei vangeli, di cui 53 volte nei Sinottici e 25 volte in Giovanni; ma soltanto in quest'ultimo presenta questa forma rafforzata con la ripetizione dell'espressione “In verità”. Essa traduce quella greca “'Am¾n” (Amen), ereditata, a sua volta, dalla forma ebraica “ 'mn ” che contiene in sé il senso di fermezza, di solidità, di sicurezza, per cui pronunciare “Amen” significa affermare che ciò che si è detto è vero. Esso significa “certamente, veramente, sicuramente, così è”. Il suo raddoppio, posto su di un verbo dicendi, oltre che dare solennità, dà valore dogmatico all'enunciato su cui grava. - Cfr. la voce “Amen” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
46Cfr. GV 3,35; 10,17; 15,9; 17,23.24.26
47Per una più approfondita trattazione sui diversi significati del verbo amare, reso in greco con “eráo/erámai”, “filéo” e “agapáo” cfr. la Parte Introduttiva, pag.56.
48Il completarsi a vicenda delle funzioni specifiche e proprie di ciascuno dei Due non significa presupporre dei limiti nel Padre e/o nel Figlio così che si renda necessario un'integrazione di funzioni, che uno ha e l'altro non ha; ma più semplicemente ci si riferisce alla dinamica dei rapporti che relazionano i Due e che sono propri delle singole persone, che sebbene accomunate dall'identica natura divina, differiscono tra loro, per cui il Padre non è il Figlio e questi non è il Padre.
49Cfr. Gv 3,27; 3,35; 5,27.36; 13,3; 17,2.6.7.8a.9.11.12a.22a.24; 18,11.
50Dei sette segni riportati da Giovanni tre sono privi di commento (Nozze di Cana / 2,1-11; la guarigione del figlio del funzionario regio / 4,46-54; la deambulazione di Gesù sulle acque / 6,16-21), mentre gli altri quattro sono inseriti in un contesto di riflessione sotto forma di lunghi discorsi (Guarigione del paralitico in giorno di sabato/ 5,1-9; La moltiplicazione dei pani e dei pesci/ 6,1-15; Guarigione del cieco dalla nascita/ 9,1-38; La risurrezione di Lazzaro/ 11,1-46)
51Sul tema dell' “Ora” in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva, pagg. 69-71
52Cfr. Gv 4,21.23; 5,25; 16,2.25.32
53Sul significato metaforico del termine “morti” o “morto” cfr. Mt 8,22; Lc 9,60; 15,24.32; Rm 6,11.13; 7,6; Ef 2,1.5; 5,14; Col 2,13.20; 3,3; Ap 3,1. - In tal senso cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni, op. cit.- pag.403. - Similmente il Brown in Giovanni, op. cit.
54Il verbo qui è posto al participio aoristo: “¢koÚsantej” (akúsantes, quelli che ascoltarono), ponendo come pregiudiziale alla vita eterna l'ascolto della Parola: “quelli che hanno ascoltato vivranno”.
55Va precisato che le espressioni “defluire” e “generata” non vanno intese né in senso teologico né tanto meno dottrinale, bensì vogliono indicare come Dio sia all'origine di tutte le cose (Gen 1,1) e come tale Egli sia la fonte primaria della creazione, che ha attuato per mezzo della sua Parola (Gv 1,3).
56In tal senso cfr. Mt 25,31-46; Rm 2,6-8; Ap 11,18; 20,4-5
57Cfr. Mt 21,42; 26,54-56; Mc 14,49; Lc 4,21; 22,37; 24,27.45-46; Gv 2,22; 5,39; 7,38.42; 13,18; 17,12; 19,24.28.36.37; 20,9; At 1,16; 8,32; 10,11; 18,28; 1Cor 15,3-4;
58Cfr. Lc 24,32; 1Cor 15,14
59Dt 19,15 ha i suoi paralleli in Nm 35,30 e Dt 17,6
60Cfr. 5,17.36; 10,25.32.37; 14,10; 17,4
61Cfr. Sal 17,29; 118,105; Prv 6,23; Is 62,1; 2Pt 1,19; Ap 21,23
62Cfr. Mt 3,5-7a; 11,7b.9a; Mc 1,5-7a; Lc 3,7-15; cfr. anche Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche XVIII, 116-118
63Cfr. Mt 17,12-13; 21,25; Mc 9,13; 11,30-31; Lc 7,33; 20,4-5
64Cfr. Gv 3,19.20.21; 5,36; 7,7; 8,39; 8,41; 14,12
65Cfr. Gv 5,20.36; 6,28; 7,3; 9,3.4; 10,25.32.37; 14,10.11;15,24
66Questo specifico episodio del monte Sinai viene riportato anche da Eb 12,18-21
67Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica – Storia e teologia, edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo (MI), 2005 – pag. 374.
68Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica – Storia e teologia, edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo (MI), 2005 – pag. 259
69Cfr. A.R. Carmona, La Religione ebraica – Storia e teologia pagg.68-70; 116-117 op. cit.
70Cfr. R.E. Brown Giovanni, pag. 291 – op. cit.
71Nel Vangelo di Matteo sono presenti circa una quarantina di citazioni scritturistiche dirette e molte altre indirette, che riguardano la persona di Gesù; Lc in 24,27.44 attesta che le Scritture parlano di Gesù, in cui esse si sono compiute; lo stesso vangelo di Giovanni, alla pari di Lc, attesta che Gesù è “colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth” (Gv 1,45), mentre numerose altre volte ricorre alle Scritture per leggere la persona di Gesù. Ma è l'intero N.T. che è pervaso da citazioni scritturistiche riferite alla persona di Gesù.
72Cfr. Es 31,14.15; Nm 15,32-36
73 I filatteri erano piccole scatolette cubiche che contenevano dei testi della Legge e, durante la preghiera, venivano legate al braccio sinistro o alla fronte con delle strisce di cuoio. Un simile comportamento curioso nasceva dall'applicazione letterale di Dt 6,6-9 che dettava letteralmente: “Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”. Le frange avevano una funzione simile ai filatteri. Esse erano quattro fiocchi posti ai quattro angoli del mantello la cui funzione era quello di ricordare i comandamenti della Legge, così da non deviare mai da essi. La disposizione giuridica è in Nm 15,37-40: “Il Signore aggiunse a Mosè: Parla agli Israeliti e ordina loro che si facciano, di generazione in generazione, fiocchi agli angoli delle loro vesti e che mettano al fiocco di ogni angolo un cordone di porpora viola. Avrete tali fiocchi e, quando li guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore per metterli in pratica; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituite. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio”.
74Cfr. Mt 6,2.16; 23,5-7; Mc 12,38-450; Lc 11,43; 20,46-47
75Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 3-7
76Cfr. Is 1,10-17; Ger 7,1-10; Mt 3,8-10; Gv 8,39-41; Rm 2,17-29
77Sul tema dei rapporti tra giudaismo e Gesù si cfr. il mio articolo “Ma veramente i giudei furono perfidi?”, pubblicato sul mio sito internet “Teologia per tutti”, nella Sezione esegetica, Area “Altri Scritti”.