IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
Da Cana a Cana:
la
risposta del giudaismo,
dei
Samaritani e dei pagani
al
manifestarsi di Gesù
Commento
esegetico e teologico
ai
Capp.
2,1-4,54
a cura di Giovanni Lonardi
Capitolo Terzo
La fede
incipiente dell'autentico Giudaismo
e
la sua
necessità di rinascere dall'alto.
Note
generali al cap. 3
Il
cap.2, dopo aver presentato la triplice risposta (2,11b.18.23b-24)
del Giudaismo al manifestarsi di Gesù, si concludeva con
l'annotazione dell'autore che “molti credettero nel suo nome,
osservando i suoi segni che faceva. Ma egli, Gesù, non si fidava di
loro poiché egli conosceva tutti” (vv.23b-24). La diffidenza di
Gesù nei confronti di questa fede, legata allo spettacolare e al
miracolistico, ne denunciava tutta la fragilità, poiché era una
fede superficiale, radicata nei sentimenti e nelle emozioni, ma non
riusciva ad andare oltre1.
Ora, i capp. 3 e 4 presentano tre categorie di persone, appartenenti
al mondo del giudaismo, dei Samaritani e dei pagani. Tutte tre le
categorie hanno in comune una disponibilità alla fede, ma ancora non
attecchita; o forse una fede incipiente, ma bisognosa di una radicale
evoluzione, che la porti ad un livello di maturità e di comprensione
superiori. La prima figura, infatti, è quella di Nicodemo, un capo
dei Giudei, che si avvicina a Gesù, ne riconosce le qualità divine,
ma è ancora avvolto nella notte di una fede molto acerba e
scarsamente illuminante (3,1-2), che gli richiederà un lungo cammino
di conversione. Soltanto alla fine del racconto giovanneo lo
ritroveremo, per l'ultima volta, ormai divenuto anche lui discepolo
di Gesù, mentre lo sta inumando assieme ad un altro discepolo,
Giuseppe di Arimatea (19,38-40). Una seconda figura è quella della
Samaritana. Anche questa lontana dalla comprensione della vera natura
di Gesù, che definisce, con ostilità e disprezzo, “Giudeo”
(4,9); ma attraverso un dialogo serrato, persistente e costante,
attraverso, quindi, la Parola, questo Giudeo le si disvelerà
lentamente e progressivamente (4,10-26), fino a farne un'autentica
testimone presso i suoi connazionali (4,28-30), guadagnandoli alla
fede in Gesù (4,39.41-42). Infine, la terza figura, rappresentativa
del mondo pagano, il funzionario del re, che si accosta a Gesù come
ad un taumaturgo, per trarne un immediato beneficio: la guarigione
del figlio (4,46-47), grazie alla quale, però, egli scoprirà la
potenza della Parola (4,53a), in cui si è imbattuto casualmente, che
lo aprirà, assieme alla sua famiglia, alla fede in Gesù (4,53b). Si
tratta, quindi, di tre tipi di fede, molto acerbe, che ancora non
sono in grado di riconoscere la vera natura di Gesù, ma che
l'incontro con la Parola, riusciranno a far sbocciare. I tre
personaggi sono chiaramente simbolici e rappresentano le rispettive
realtà storico-culturali e religiose da cui provengono. Ciò che li
accomuna è la loro disponibilità a confrontarsi con la Parola e ad
accoglierla in loro stessi. È inutile, quindi, a mio avviso, cercare
di dare un radicamento storico al loro incontro con Gesù. L'intero
contesto entro cui si muovono, infatti, è pregno di simbolismo, in
particolar modo quello del racconto della Samaritana, che spinge a
vedere in loro, più che delle persone reali, delle tipizzazioni di
fede incipiente.
Ed
è proprio all'interno di questo contesto di fede incipiente o di
disponibilità all'ascolto, che emergono i due elementi fondamentali
per poter accedere ad un tipo di fede matura e compiuta: un radicale
cambio di mentalità e di stile di vita, significati nell'espressione
“essere generati dall'alto”, poiché “Ciò che è nato dalla
carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (3,6).
Il mezzo per operare questa trasformazione di tipo ontologico e
spirituale, che devono riflettersi anche nell'esistenziale, è l'
“acqua e lo Spirito” (3,5). L'intero cap.3 sarà giocato
all'interno di questa fondamentale esigenza, in cui espressioni come
“da Dio” (3,2), “dall'alto” (3,3.31a), “dall'acqua e dallo
Spirito” (3,5.6.8), “dal cielo” (3,13.27.31b), si rincorrono
ripetutamente in tutto il capitolo. Tutto ciò crea un forte
dinamismo e una forte tensione, che pone al centro di tutto
l'importanza del nascere dall'alto, cioè di operare un radicale
mutamento esistenziale, ponendosi non solo dalla parte di Dio, ma
anche dalla sua prospettiva, configurando la propria vita alle sue
esigenze, poiché senza questa metamorfosi è impossibile non solo
vedere il Regno di Dio (3,3b), ma anche entraci (3,5b). Questo
mutamento ontologico-esistenziale, infatti, si rende necessario anche
per poter cogliere in Gesù sia la sua divinità che la sua
provenienza divina (3,2a.13.32). Il rinascere dall'alto, quindi,
consente di trascendere gli aspetti effimeri dell'umanità di Gesù,
per poter accedere, in tal modo, al mistero in lui racchiuso e che
lentamente si disvela alla disponibilità di accoglierlo da parte del
credente. La necessità di questa trasformazione interiore nasce
proprio dal fatto che “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò
che è nato dallo Spirito è spirito” (3,6). Si tratta, dunque, di
operare un passaggio radicale da due diverse e opposte dimensioni: da
quella umana (carne) a quella divina (spirito). Se non si effettua
questo passaggio la fede è destinata o a morire o a rimanere
immatura, legata a parametri emozionali, del tutto insufficienti per
potere accedere alla vita eterna (3,16b).
Il secondo elemento fondamentale per poter abbracciare, crescere ed evolvere verso una fede autentica e dinamica, e al quale l'autore dedica l'intero cap.4, è la parola stessa di Gesù (4,41.42.50b). Come si vedrà, si tratta di una Parola capace di interloquire e interagire con le persone, illuminandole e portandole gradualmente alla comprensione del mistero che vive in Gesù, fino alla sua testimonianza, come nel racconto della della Samaritana (4,39); o alla sua piena e sincera adesione, dopo averla incontrata e sperimentata nella sua potenza guaritrice e salvifica, come nel caso del funzionario del re (4,42).
Lo
snodarsi dei capp. 3 e 4 se, da un lato, come si è sopra illustrato,
indicano un percorso di crescita verso un'autentica fede, per mezzo
della rinascita dall'alto (acqua e Spirito) e l'incontro dialogante
con la Parola; dall'altro, attraverso la tecnica narrativa di
dialoghi e discorsi, sviluppano una profonda teologia sulla figura
del Logos, finalizzata a mettere in luce sempre più la sua vera
natura, il senso della sua missione e i suoi rapporti con il Padre.
Tutte realtà queste, che, per poter essere colte, necessitano di una
capacità di comprensione completamente nuova e superiore, generata
dallo Spirito, poiché “Ciò che è nato dalla carne è carne, e
ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (v.3,6).
Ma
nel contempo, Giovanni nei capp. 3 e 4 presenta al mondo dei giudei,
dei samaritani e dei pagani anche i contenuti di fede che animano la
sua comunità. Si trattava, ovviamente, di persone che, pur
appartenendo a diverse confessioni religiose, tuttavia erano ben
disposte o disponibili o, quanto meno, curiose circa la nuova fede,
che si andava formando e affermando attorno a loro e con la quale si
erano imbattute, probabilmente, in modo occasionale e che da questa
si sentivano, in qualche modo, interpellate.
Il
cap.3 presenta una struttura molto semplice, che è scandita in due
parti:
a)
vv.1-21: il
racconto del dialogo tra Nicodemo e Gesù;
b) vv.22-36: il racconto dell'attività battezzatoria di Gesù e di Giovanni, che provocherà la gelosia dei discepoli di quest'ultimo. Il racconto diviene l'occasione, per l'autore, di presentare la vera natura di Gesù, indicando, al di là della sua natura umana, la sua provenienza divina.
Le
due parti sono tra loro complementari, poiché se la prima insiste
sulla necessità di una rinascita dall'alto per poter accedere al
mistero (vv.3.5), la seconda attesta che si tratta di un mistero che
proviene dall'alto e quindi di origine divina (vv.27.31.); per questo
è necessario sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda per poterlo
intercettare, accogliere e averne accesso.
Commento ai vv. 1-21: il dialogo di Nicodemo con Gesù
Il testo
1-
Ora, c'era un uomo tra i Farisei, egli (aveva) nome Nicodemo, un capo
dei Giudei;
2-
Questi andò da lui di notte e gli disse: <<Rabbi, sappiamo che
sei venuto da Dio (come) maestro; infatti, nessuno può fare questi
segni, che tu fai, se Dio non fosse con lui>>.
3-
Rispose Gesù e gli disse: <<In verità, in verità ti dico,
chi non è generato dall'alto, non può vedere il regno di Dio.>>.
4-
Dice, verso di lui, Nicodemo: <<Come può un uomo essere
generato quando è vecchio? Può forse entrare nell'utero di sua
madre una seconda volta ed essere generato?>>.
5-
Rispose Gesù: <<In verità, in verità ti dico, se uno non è
generato da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio.
6-
Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo
Spirito è spirito.
7-
Non stupirti perché ti ho detto: bisogna che voi nasciate dall'alto.
8-
Il vento soffia dove vuole e ascolti la sua voce, ma non sai da dove
viene e dove va; così è ognuno che è nato dallo Spirito>>.
9-
Rispose Nicodemo e gli disse: <<Come possono accadere queste
cose?>>.
10-
Rispose Gesù e gli disse: <<Tu sei maestro d'Israele e non
conosci queste cose?
11-
In verità, in verità ti dico che (noi) diciamo ciò che conosciamo
e testimoniamo ciò che abbiamo visto, e (voi) non accogliete la
nostra testimonianza.
12-
Se vi ho detto le cose terrene e non credete, come crederete qualora
vi dicessi quelle celesti?
13-
E nessuno è salito al cielo se non colui che dal cielo è disceso,
il Figlio dell'uomo.
14-
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia
innalzato il figlio dell'uomo, 15- affinché ognuno che crede in lui
abbia la vita eterna.
16-
Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito,
affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita
eterna.
17-
Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo,
ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
18-
Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato
giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di
Dio.
19-
Ora questo è il giudizio, che la luce è venuta nel mondo e gli
uomini amarono più la tenebra che la luce; poiché le loro opere
erano malvagie.
20-
Infatti, chiunque compie cose malvagie odia la luce e non va verso la
luce, affinché le sue opere non siano biasimate;
21-
colui che, invece, fa la verità va verso la luce, affinché le sue
opere siano manifestate, poiché sono state compiute in Dio>>.
22-
Dopo queste cose Gesù andò nella terra di Giudea e i suoi discepoli
(con lui) e là soggiornava con loro e battezzava.
Note generali
Questa
ampia pericope (vv.1-21) è delimitata dall'inclusione per
contrapposizione, data dai termini “notte” (v.2a) e “luce”
(v.21a) e dai due movimenti che li accompagnano: in 3,2a si ha
Nicodemo che va da Gesù, ma è avvolto nella notte; in 3,21a si
attesta come la sincerità di cuore indirizzi il vero credente verso
la Luce: “colui che, invece, fa la verità, va verso la luce”. I
vv. 3,2a e 3,21a, pertanto, sono tra loro complementari e evidenziano
il cammino di conversione dell'autentico giudaismo (“colui che fa
la verità”) nei confronti di Gesù; esso, pur essendo inizialmente
avvolto dalla notte, si rende disponibile a Gesù, uscendo in tal
modo dalla sua notte verso la vera Luce.
Il
racconto è, a sua volta, scandito in due parti, in cui la
prima (vv.1-10)
è delimitata dal termine “maestro” (vv.2.10), che forma
inclusione, ed è caratterizzata dai pronomi singolari “io”,
“tu”, “chi”. Il dialogo, infatti è condotto tra Gesù e
Nicodemo (io-tu) e ha come oggetto il “chi o colui che”; la
seconda parte (vv.11-21),
invece, è quella che rimane fuori dalla precedente inclusione, ma è,
a sua volta, caratterizzata da un cambio di soggetti, passando dai
pronomi al singolare (io-tu) a quelli al plurale: “noi”, “voi”.
Questo cambio di soggetti si colloca all'inizio della seconda parte
(vv.11-12) e costituisce il segnale di una sorta di presa di
posizione ufficiale, in cui il “noi” si contrappone al “voi”,
di cui si denuncia l'inintelligenza e l'incredulità (v.12). I
vv.13-21, infine, costituiscono la parte dottrinale e teologica, su
cui si fonda la fede della comunità giovannea, che viene qui
esposta, come in una sorta di bando, indirizzato all'autentico
giudaismo, raffigurato in Nicodemo. Si tratta di un'esposizione, che
si muove sul filo della polemica, dettata non solo dalla
contrapposizione del “noi” al “voi” del v.11, ma anche dalla
contrapposizione di quest'ultimo al v.2, che, a sua volta, si apre
con un'affermazione categorica: “noi sappiamo”, pronunciata da
Nicodemo. Un “sappiamo” a cui la comunità giovannea controbatte,
mettendo in rilievo la fragilità del loro sapere, perché
l'autentico sapere nasce dall'alto e soltanto chi rinasce dall'alto
può accedere all'autentica conoscenza, che Giovanni riserva alla sua
comunità: “noi diciamo ciò che conosciamo e testimoniamo ciò che
abbiamo visto” (v.11a). Vi è, dunque, tra la prima e seconda parte
una contrapposizione di conoscenze: la prima nata dalla Legge
mosaica; la seconda “dall'alto” per mezzo “dell'acqua e dello
Spirito”, ponendo una netta spaccatura e contrapposizione tra i due
saperi, poiché “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che
è nato dallo Spirito è spirito” (v.6). E ciò che la comunità
giovannea conosce viene formulato nei successivi vv.13-21, in cui
sono racchiusi e sinteticamente proposti al giudaismo, dal cuore
sincero, quello che “fa la verità” (v.21a), i contenuti
dell'autentica conoscenza proveniente dall'alto, che sostanzia il
credere della comunità giovannea.
Questa
ampia pericope, quindi, intende presentare al mondo giudaico o almeno
a quella parte del giudaismo, che, meglio interpretando le Scritture,
era in attesa della venuta del Messia (Lc 2,25-27a.38), non solo i
tratti essenziali della fede della comunità giovannea, ma anche le
condizioni per potervi accedere (acqua e Spirito), che spingono a
superare gli schemi mosaici: Torah, Alleanza, circoncisione, Tempio,
sacrifici. A Gesù, infatti, non ci si può avvicinare con schemi e
logiche veterotestamentarie, poiché non si può versare vino nuovo
in otri vecchi, così come non si può cucire una pezza nuova su di
un abito vecchio (Mt 9,16-17). La questione, qui affrontata da
Giovanni, era alquanto rilevante all'interno del mondo
giudeocristiano del primo secolo. Vi era, infatti, il problema di
quei cristiani provenienti dal giudaismo, che leggevano la persona di
Gesù e il suo messaggio, attraverso il filtro della Legge mosaica,
subordinando il suo insegnamento e la sua persona a quello di Mosè,
vanificando in tal modo la novità dell'evento Gesù (Gal 5,2). Il
problema era presente sicuramente nella comunità matteana, formata
prevalentemente da giudeocristiani; i citati vv. 9,16-17 rilevano
questo problema. Lo stesso Paolo si scontrerà duramente con questa
categoria di giudeocristiani giudaizzanti, i quali alla novità di
Cristo contrapponevano la Legge mosaica2.
Per questo Giovanni sottolinea che per accedere al Regno è
necessario essere rigenerati dall'alto per mezzo dell'acqua e dello
Spirito, poiché la sola Legge e la sola Alleanza erano del tutto
insufficienti per aprire alla comprensione della novità dell'evento
Gesù; per questo motivo Giovanni sottolinea come Nicodemo si
avvicinò a Gesù avvolto nella notte, metafora dell'inintelligenza
del mistero racchiuso in Gesù. Solo, dunque, abbandonando
definitivamente il giudaismo, ed entrando nella nuova comunità
messianica, qui rappresentata da quella giovannea (v.11), per mezzo
dell'acqua e dello Spirito, si poteva accedere anche al mistero con
piena intelligenza.
Posta
questa premessa, con i vv.11-21 Giovanni passa ad esporre per sommi
capi l'autentica conoscenza, proveniente dall'alto, che costituisce i
principi fondanti della fede della sua comunità e li propone
all'intelligenza spirituale del giudaismo ben disposto verso Gesù.
Una proposta che si snoda in cinque punti e ha il suo vertice nel
v.16 (lettera c), collocato al centro, ed è introdotta dal v.11, in
cui la comunità giovannea, quale depositaria dell'autentica
conoscenza dall'alto, testimonia e attesta la divinità di Gesù,
che, a motivo dell'incredulità e dell'inintelligenza del mondo
giudaico, viene da questo rifiutata:
v.13:
Gesù disceso dal cielo, vi è ritornato, sottolineando la sua
dimensione divina3;
vv.14-15:
morte e
risurrezione di Gesù, già in qualche modo preannunciata
dall'episodio del serpente innalzato da Mosè nel deserto, sono il
fondamento che rende salvifica la fede in Gesù;
v.16:
al
centro della fede, che sottende la comunità giovannea, l'autore
presenta Gesù come dono di amore offerto all'umanità da parte di
Dio, perché, attraverso la fede in lui, il credente possa accedere
alla stessa vita divina. In buona sostanza, Gesù è la mano tesa di
Dio verso l'umanità; l'ultima chance offertale.
v.17:
la venuta di Gesù si qualifica come il ritorno di Dio in mezzo agli
uomini; ma la sua venuta, che i profeti definivano come “il giorno
del Signore”, giorno di fuoco, pieno d'ira, in cui Dio avrebbe
giustiziato gli iniqui, in Gesù si rivela come il giorno della
grande misericordia di un Dio, che nel suo Messia, tende la mano
amichevolmente all'uomo, sollecitandolo a credere nel suo Figlio. È
proprio questo atteggiamento amichevole di Dio verso gli uomini, che
fa sorgere dei dubbi nel Battista, il predicatore escatologico
dell'ira divina; pertanto, questi manda i suoi discepoli ad
interrogare Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo
aspettarne un altro?” (Mt 11,3)
vv.18-21: la venuta di Gesù, tuttavia, non è indifferente, poiché si pone come un atto discriminante in mezzo agli uomini; infatti, dalla loro accettazione o meno del Figlio, benché dono di amore del Padre, si compie su di loro un giudizio definitivo, che avrà come elemento discriminante la fede o l'incredulità, l'accettazione o il rifiuto della proposta salvifica del Padre, manifestatasi nel Figlio. Non sarà, più Dio, quindi, a giudicare l'uomo, ma sarà l'uomo stesso, che in base alla sua disponibilità o meno nei confronti dell'evento salvifico Gesù, decreterà la propria salvezza o la propria perdizione.
Il commento
vv.1-2a:
Il racconto di Nicodemo si colloca nello stesso contesto pasquale dei
vv.2,23-25 e ne diventa una sorta di continuazione, benché su
livelli diversi di fede. Gesù, a Gerusalemme, compie numerosi segni,
che suscitano curiosità e attenzione tra la gente, la cui fede,
tuttavia, non riesce ad andare oltre alla loro spettacolarità, così
che Gesù non si fida di loro. Tre gli elementi, che determinano uno
stretto legame tra i vv. 2,23-25 e il racconto di Nicodemo.
Innanzitutto, il v.2,25, con cui si chiude il cap.2, termina con
l'espressione “cosa c'era nell'uomo”, che funge da aggancio al
v.3,1, che si apre con la pressoché identica espressione “Ora,
c'era un uomo”. Vi è, poi, l'avverbio “Ora” (dš,
dé),
posto in apertura del cap. 3,1, che rafforza il legame tra la
pericope 2,23-25 e il successivo cap.3, dandone continuità
narrativa. Infine, il sostantivo “segni”, intesi nella loro
spettacolarità, accomuna sia la gente dei vv.2,23-25 che Nicodemo.
Ma mentre con la pericope 2,23-25 si parla di una fede immatura, con
Nicodemo, la Samaritana e il funzionario regio, invece, si sottolinea
l'apparire di una fede incipiente, che presuppone un inizio di
cammino, che porterà il neo-credente alla pienezza di una fede
matura; un cammino che bene viene espresso dal v. 3,21a: “colui
che, invece, fa la verità, va
verso
la luce”, che si aggancia a quell'andare
verso
Gesù di Nicodemo; l'espressione, infatti, è identica: œrcomai
prÕj.(ércomai
pròs).
La
figura di Nicodemo è caratterizzata da quattro elementi:
Egli
è un uomo tra i Farisei; letteralmente un uomo dai Farisei. La
particella “™k”
(ek,
da) dice l'origine, la provenienza. Nicodemo, dunque, appartiene al
mondo dei Farisei, rigorosi e scrupolosi osservanti della Legge, che
si ponevano in mezzo alla gente come maestri (Mt 23,2; Gv 3,10).
Essi furono anche i grandi oppositori di Gesù e, nel solo Giovanni,
i fautori della sua morte (18,3). Saranno loro, dopo la guerra
giudaica (70 d.C.) a fondare il nuovo giudaismo rabbinico, dandogli
un nuovo impulso e una nuova impronta, caratterizzati dallo studio
della Torah.
“Egli
aveva nome Nicodemo”. Il nome, che troviamo solo qui in Giovanni,
è di evidente origine greca e significa “vittoria del popolo” o
“popolo vittorioso”. A parte Andrea e Filippo è l'unico nome
greco che compare nei Vangeli. Considerata la simbolicità della
figura di questo fariseo, che rappresenta quel mondo giudaico aperto
al messaggio di Gesù e che un po' alla volta emerge dalla sua notte
(v.2a) fino a trovare la pienezza della luce (v21), è possibile,
forse, che anche il suo nome sia simbolico e designi quella parte
del giudaismo, che ha avuto la forza di abbandonare le proprie
radici mosaiche, per affermarsi nella nuova fede emergente. Il suo
nome ricorre cinque volte in tre diversi contesti, che segnano un
progressivo avvicinamento a Gesù, fino alla suo discepolato. Lo
troviamo qui, citato tre volte, nel suo gesto di avvicinamento a
Gesù, ma ancora immerso nel buio della notte giudaica (3,1-10);
ricompare una seconda volta in 7,50-53, dove, già in
contrapposizione al giudaismo e per questo redarguito dai suoi
colleghi, si erge a difesa di Gesù; e, infine, si ritrova in
19,38-40 mentre, assieme a Giuseppe di Arimatea, discepolo di Gesù,
ma di nascosto per paura dei Giudei (19,38a), dà pietosa sepoltura
a Gesù, portando con sé una mistura di mirra e aloe di cento
libbre.
Egli
è un capo (¥rcwn,
árcon4)
dei Giudei. Questa definizione evidenzia la rilevante posizione
sociale ricoperta da Nicodemo, quasi certamente facente parte del
Sinedrio, l'organismo religioso e politico, che governava sul popolo
ed era composto da settanta membri, provenienti dalla classe
aristocratica dei sacerdoti (Sadducei), dei Farisei e degli Anziani,
laici appartenenti all'aristocrazia. A capo del Sinedrio vi era il
Sommo Sacerdote, che formava il settantunesimo membro, il più
autorevole.
“Questi andò da lui di notte”. L'espressione assegna a Nicodemo una posizione dinamica: egli è colto nel suo andare verso Gesù (Ãlqen prÕj aÙtÕn, êltzen pròs autòn). Quel “pròs” dice che ancora non è giunto definitivamente a Gesù, ma è in cammino verso di lui. Nicodemo, dunque, è presentato nella sua iniziale evoluzione interiore, e nel suo lento, ma progressivo distaccamento dal giudaismo. Per questo il suo andare verso Gesù è ancora avvolto nella notte. Un'espressione questa che assume una pluralità di significati. L'accostarsi a Gesù di notte ha una sua logica storica: egli è un capo dei Giudei ed è fariseo. Per la sua posizione sociale non può esporsi. Anche Giuseppe d'Arimatea, di ricca famiglia e aristocratico, viene presentato come discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei (19,38). Il motivo ce lo ricorda lo stesso Giovanni: “[...]; infatti i Giudei già si accordarono che se qualcuno lo avesse confessato Cristo, fosse escluso dalla sinagoga” (9,22b)5. Un secondo significato del termine notte si richiama ad un'usanza rabbinica di rimanere svegli la notte per dedicarsi allo studio della Torah. In questo secondo caso Giovanni presenta, sempre all'interno del dinamismo generato da quel “êltzen pròs”, il passaggio di Nicodemo dal giudaismo al cristianesimo, dall'incontro con la Legge mosaica a quello con Gesù, il Logos incarnato e, quindi, dallo studio della Torah allo studio della Parola. Infine, un terzo significato dell'espressione “notte” assume contorni metaforici e simbolici propri della inintelligenza, che verrà evidenziata durante il dialogo con Gesù, attraverso la tecnica del fraintendimento, cara a Giovanni. Nicodemo, dunque, si avvicina a Gesù, ma ancora non ne sa cogliere il mistero, che lo anima e lo pervade. Un lungo cammino ancora lo aspetta e che lo porterà ai piedi della croce, dove egli, finalmente, compare tra i discepoli di Gesù (19,39-40).
Questo
primo intervento di Nicodemo, colto nel suo insieme, dà l'idea di
una professione di fede matura, giunta alla sua pienezza; ma
un'attenta analisi consente di evidenziarne tutta la fragilità, che
sarà subito smascherata dal suo fraintendimento (v.4). Questo primo
intervento è un'attestazione posta su Gesù ed è scandita in due
parti: la prima riguarda la provenienza di Gesù; la seconda la
motiva. Nicodemo si rivolge a Gesù con l'appellativo di “Rabbi”6,
un'espressione certamente di rispetto, ma che nulla ha a che vedere
con la divinità di Gesù o il suo messianismo. Così l'affermazione
seguente, “sei venuto da Dio (come) maestro”, non va intesa come
un riconoscimento della divinità di Gesù da parte di Nicodemo.
L'espressione, infatti, è ricorrente nel giudaismo per definire lo
statuto del profeta o dell'inviato da Dio, scelto per una qualche
missione7.
La seconda parte dell'intervento di Nicodemo costituisce, come si è
detto, la motivazione ed è introdotta dalla congiunzione
dichiarativa “g¦r”
(gàr,
infatti): “infatti, nessuno può fare questi segni, che tu fai, se
Dio non fosse con lui”. Anche i segni portentosi, ai quali qui si
fa riferimento, facevano parte del corredo dell'inviato divino; lo
accompagnavano nella sua missione e ne costituivano la prova di
autenticità; erano una sorta di cartina di tornasole8.
Anche i racconti evangelici riportano questo particolare tipo di
mentalità propria del giudaismo: la richiesta a Gesù di uno o più
segni per dimostrare la sua autorità9.
Il Gesù giovanneo stigmatizzerà questo comportamento: “Se non
vedete segni e prodigi, non credete” (Gv 4,48). Lo stesso Paolo,
rivolgendosi alla sua comunità di Corinto, lamenterà proprio questo
atteggiamento mentale dei suoi connazionali, i quali di fronte a
Cristo chiedono segni; segni che non sono mai sufficienti e sempre
incomprensibili, poiché non c'era in loro la disponibilità ad
accoglierli: “giacché i Giudei chiedono segni e i Greci cercano la
sapienza” (1Cor 1,22).
Benché
la dichiarazione di Nicodemo lasci trasparire, come si è visto,
tutta la sua inintelligenza sull'evento Gesù, tuttavia, non si deve
sottovalutare quanto egli dice, poiché, colto da una diversa
prospettiva di autentica fede, la sua dichiarazione acquista per il
lettore credente tutto il peso teologico e dottrinale dovuto,
lasciando filtrare, quasi in filigrana, la divinità di Gesù, che si
riflette nei suoi segni. L'attestazione di Nicodemo, infatti, ha il
suo parallelo nell'ironico ammaestramento, che il cieco nato
impartisce ai farisei, la cui finalità è quella di evidenziare lo
stretto legame che intercorre tra segni e divinità: “ Rispose
l'uomo e disse loro: <<In questo, infatti, sta lo stupendo che
voi non sapete da dov'è e aprì i miei occhi. Sappiamo che Dio non
ascolta dei peccatori, ma se uno è pio e fa la sua volontà, questo
(lo) ascolta. Da sempre non fu (mai) udito che qualcuno aprisse gli
occhi di un cieco nato. Se questi non fosse da Dio, non avrebbe
potuto fare niente>>” (9,30-33). Questa doppia e contrapposta
comprensione della medesima affermazione risente dello stile
letterario giovanneo, che non di rado gioca sull'equivocità dei
termini e delle espressioni per approfondire il mistero dell'evento
Gesù. Un esempio lo avremo subito nell'avverbio “¥nwqen”
(ánotzen),
che significa sia “di nuovo” come “dall'alto”. Su questo
doppio significato si giocherà il fraintendimento di Nicodemo
(v.4)10.
Una particolare attenzione, infine, va riservata alla forma verbale “o‡damen” (oídamen, sappiamo), con cui si apre l'apprezzamento di Nicodemo nei confronti di Gesù. Si tratta di una caratteristica espressione giovannea, che ricorre nel suo racconto 18 volte11, contro le sole cinque dei Sinottici12. Un verbo che risente di una forte influenza gnostica13, benché i contenuti di questo sapere e di questo conoscere nulla abbiano a che vedere con il mondo della gnosi, ma che Giovanni usa per indicare l'accesso al Mistero da parte della sua comunità e dell'autentico credente, gli unici capaci di detenere questo tipo esclusivo di conoscenza, quella vera. Quando esso compare con riferimento al “credere” o al discepolato ha sempre attinenza con il mistero divino di Gesù, velato dalla sua umanità, ma nel contempo anche tralucente da esso14. Il tempo verbale è quello del perfetto indicativo, che indica uno stato presente, quale effetto di un'azione passata. L'azione passata, che ha provocato questa profonda e grande illuminazione, che viene testimoniata, ma non accolta (3,11), fu la riflessione che la comunità giovannea ha sviluppato sulla tomba ritrovata vuota e su quelle bende e quel sudario ripiegato a parte (20,1-11) e che portò l'intuitivo discepolo prediletto a “vedere e a credere” (20,8) e, in seguito, rivisitando le Scritture alla luce di quell'esperienza (20,9), a contemplare la gloria del Risorto (1,14b). È il sapere nato dall'esperienza del divino e che ha introdotto il credente nel Mistero del Dio fatto uomo (1,14). Questa è la sublimità e la grandezza di quel “sappiamo”, che, posto a confronto con l'arrogante “sappiamo” delle autorità religiose15, che si vantano del loro sapere mosaico, con il quale vogliono misurare la grandezza del mistero divino in Gesù, precludendosi in tal modo ogni comprensione, suona sottilmente ironico. Il vero sapere è della comunità giovannea e non del giudaismo mosaico. Ed è proprio questo il confronto, che qui si innesca, quello tra il “sappiamo” di Nicodemo (v.2b), avvolto ancora nella notte della sua fragilità presuntuosa, che dà una testimonianza secondo la comprensione dei parametri mosaici; e l'autentico “sappiamo” della comunità giovannea (v.11), che testimonia la sua esperienza del divino: “testimoniamo ciò che abbiamo visto” (v.11a). Ed è proprio questa incompatibilità dei due “sappiamo”, che porta a concludere amaramente l'autore: “e (voi) non accogliete la nostra testimonianza” (3,11b). Il verbo “oídamen”, infine, compare cinque volte anche nella sua forma negativa “uk oídamen” (oÙk o‡damen) ed esprime sempre, in modo diretto o allusivo, tutta la fragilità umana o di una fede ancora imperfetta di fronte al Mistero di Gesù16, al quale soltanto un credere autentico e compiuto può accedere.
I vv. 3-7 costituiscono un'unità narrativa a se stante ed è delimitata e caratterizzata letterariamente da tre elementi:
un'inclusione,
data dall'espressione “dall'alto”
(¥nwqen,
ánotzen),
presente in 3,3.7, che, nel delimitare la pericope, ne fornisce il
tema fondamentale: la rigenerazione divina per mezzo non più della
Legge mosaica e dall'Alleanza sinaitica, ma dello Spirito;
uno sviluppo del pensiero a parallelismi concentrici in C) (v.5), per cui si avrà il seguente schema parallelo:
A) v.3, l'enunciato: chi non è generato dall'alto non può vedere il Regno di Dio;
B) v.4, la questione: come si può ritornare nel seno materno per essere rigenerati?
C) v.5,
la definizione dottrinale:
la rinascita avviene per mezzo dell'acqua e dello Spirito, che
consentono l'accesso al Regno di Dio;
B') v.6, la spiegazione, che forma da risposta al v.4: è necessario tenere distinte le logiche della Carne da quelle dello Spirito;
A') v.7, la conclusione: è necessario, quindi, rinascere dall'alto, cioè per mezzo dell'acqua e dello Spirito.
L'associazione tra i vari versetti è sufficientemente chiara: A) e A') si corrispondono tra loro, poiché il primo enuncia la necessità della rinascita dall'alto (A); mentre il secondo ne è la conseguenza: è, quindi, necessario che voi (i Giudei) rinasciate dall'alto (A').
B) e B') costituiscono la seconda coppia di versetti, posti in parallelo tra loro, nell'ordine di questione e soluzione: B) pone il problema di come poter essere generati nuovamente dalla propria madre; B') risponde che la generazione per madre è cosa completamente diversa da quella operata per mezzo dello Spirito, essendo Carne e Spirito due realtà non solo diverse, ma anche contrapposte, per cui bisogna tener distinte anche le rispettive generazioni; l'una non ha niente a che vedere con l'altra.
Al centro si colloca l'assunto dottrinale C), proprio della comunità giovannea: la generazione per mezzo dell'acqua e dello Spirito è la “conditio sine qua non” per poter accedere al Regno di Dio, che per Giovanni è la stessa vita divina (zoè aiónios).
La terza caratteristica della pericope 3,3-7 è il pensiero a spirale o a chiocciola, caratteristico di Giovanni, che si forma all'interno della stessa struttura parallela, qui sopra analizzata17.
Il v.3 attesta la necessità di essere generato “dall'alto” per poter “vedere” il Regno di Dio;
il v.5 riprende integralmente il v.3 specificando il senso delle due espressioni “dall'alto” e “vedere”: dall'alto significa “dall'acqua e dallo Spirito”, che fungono non solo da sorgenti di nascita, ma anche da strumenti per accedere al Regno di Dio; mentre il “vedere”, che ha attinenza con l'intelligenza delle cose spirituali, si traduce qui in “entrare”, cioè accedere al Regno di Dio e, quindi, partecipare della stessa vita divina.
Il v.6 riprende il tema della rinascita per mezzo dello Spirito del v.5, contrapponendo le due realtà, Carne e Spirito, irriducibili l'una all'altra, poiché Carne e Spirito definiscono due principi, due origini da cui defluiscono due dimensioni completamente diverse tra loro: l'Uomo e Dio.
Il v.7 costituisce il vertice conclusivo del pensiero a spirale iniziatosi con il v.3 ed esprime la necessità per il mondo giudaico di dover accedere a Dio non più attraverso Mosè, ma attraverso lo Spirito, che viene dato da Cristo. Un tema questo che già era stato affrontato dall'autore in 1,13 e 1,17.
Le tre risposte date da Gesù a Nicodemo si aprono tutte con
l'espressione “In verità, in verità ti dico”, che dà un peso
dottrinale alla frase che segue. Tutte tre le risposte si riprendono
l'una a seguito dell'altra, come in una sorta di concatenazione
logica di pensiero, fino a formare un unico grande discorso, in cui
la narrativamente fragile e pressoché inconsistente figura di
Nicodemo quasi scompare del tutto, assumendo i contorni di una
semplice spalla, che fornisce, in un crescendo continuo, l'occasione
di rilancio all'attore principale. La prima risposta, infatti, ha il
suo identico parallelo nella seconda, che riprendendo la prima, ne
sviluppa il senso; mentre la terza, preceduta, a mo' di premessa,
dalle altre due, sviluppa il tema dottrinale caro a Giovanni: il
significato della persona di Gesù e questa nei confronti dell'uomo.
Le
prime due risposte di Gesù possiedono un ritmo sapienziale e
cattedratico insieme, preannunciato e rafforzato dall'espressione “In
verità, in verità ti dico”, che ne riveste di solennità il
contenuto. Ci troviamo di fronte ad una sorta di enunciato dogmatico,
in cui la genericità del soggetto della frase, “chi non è
generato”, gli imprime una valenza universale. Tutto ciò lascia
intendere come Giovanni voglia assegnare al contenuto della frase
un'importanza indiscutibile e determinante, una sorta di “conditio
sine qua non”,
per poter accedere al Mistero.
L'enunciato posto sulle
labbra di Gesù è scandito in tre parti:
“In verità, in verità ti dico”, l'espressione ricorre 78 volte nei vangeli19, di cui 53 volte nei Sinottici e 25 volte in Giovanni; ma soltanto in quest'ultimo presenta questa forma rafforzata con la ripetizione dell'espressione “In verità”. Essa traduce quella greca “'Am¾n” (Amen), ereditata, a sua volta, dalla forma ebraica “ 'mn ” che contiene in sé il senso di fermezza, di solidità, di sicurezza, per cui pronunciare “Amen” significa affermare che ciò che si è detto è vero. Esso significa “certamente, veramente, sicuramente, così è”. Il suo raddoppio, posto su di un verbo dicendi, oltre che dare solennità, dà valore dogmatico all'enunciato su cui grava.
“chi non è generato dall'alto”, l'espressione presenta tre aspetti:
a) l'anonimato del soggetto e la sua genericità (“chi” - tij, tis), come si è detto poc'anzi, imprime alla frase un senso di universalità e di oggettività, propria del dogma, a cui tutti devono sottostare;
b) il verbo “gennhqÍ”
(ghennetzê)
è posto all'aoristo congiuntivo passivo, retto dalla congiunzione
ipotetica “™¦n”
(eàn).
Anche questa ipotetica sottolinea la natura dogmatica
dell'espressione, che nell'affermare la verità, sanziona chi non
l'ottempera. Ci troviamo di fronte ad un aoristo assoluto, che, in
quanto tale, non delimita cronologicamente l'azione. Questa forma è
caratteristica degli enunciati, che sono vincolati all'accadere
dell'evento, ma non al tempo del suo compiersi, che invece, si
estende senza limiti. Il verbo, infine, è posto al passivo, che nel
linguaggio neotestamentario rimanda l'azione propria del verbo a Dio
stesso20.
Esso è qualificato dall'avverbio “¥nwqen”
(ánotzen),
che specifica le modalità di questa generazione, che il verbo al
passivo, tuttavia, già ci indica come di natura divina. L'avverbio
ricorre in Giovanni cinque volte21,
quattro delle quali fanno espresso riferimento alla divinità, mentre
la quinta indica soltanto una posizione fisica (Gv 19,23). L'uso di
questo avverbio in questo contesto non è casuale, poiché esso
presenta un'ambivalenza di significati, che aiuta a comprendere la
risposta di Nicodemo: “dall'alto”, ma anche “di nuovo, da
principio, daccapo”. Che Gesù si riferisca alla generazione divina
è indubbio, sia per il verbo al passivo (ghennetzê),
sia per gli effetti negativi che produce il non essere generati
dall'alto. Alla base di questa affermazione, che definisce lo statuto
del nuovo credente, ci sta l'A.T., in cui la voce dei profeti
annunciano l'Alleanza come una nuova generazione per mezzo dell'acqua
e dello Spirito22,
cosa che apparirà più evidente nella seconda risposta di Gesù, la
quale, riprendendo la prima, dettaglia il significato di “ánotzen”,
scemando ogni dubbio (3,5).
3. “non può vedere il Regno di Dio”. È la conseguenza del non essere generati dall'alto. L'espressione “vedere o non vedere” il Regno è un semitismo, che si ritrova prevalentemente in Giovanni (3,36; 8,51; 11,40) e tra i Sinottici soltanto in Lc 3,6. Questo “vedere” è reso in greco con il verbo “Óraw” (órao), il verbo della fede matura ed evoluta, che consente di cogliere le realtà spirituali come il Regno di Dio (3,3), la vita (3,36), la morte (8,51) o la gloria di Dio (1,14b; 11,40). Pertanto il “vedere o non vedere” inerisce alla capacità o meno di intelligenza delle realtà spirituali. La mancata rinascita dall'alto, quindi, ha come conseguenza quella di “non poter vedere”, che ha la sua metafora nella notte, in cui è avvolto Nicodemo. Quel “non poter” (oÙ dÚnatai, u dínatai), infatti, esprime l'incapacità di accedere alla comprensione del Mistero con le sole proprie forze, rendendo, quindi, necessaria la rinascita dall'alto, che diviene, pertanto, la “conditio sine qua non”; una sorta di spartiacque tra l'antico e il nuovo credente, tra Mosè e Cristo (1,17). Insolita, invece, è l'espressione “Regno di Dio” in Giovanni, che troviamo soltanto qui e in 3,5, contrariamente ai Sinottici in cui ricorre complessivamente 82 volte. Giovanni preferisce usare, al suo posto, l'espressione “zw»” (zoé, vita) o “zw¾ a„ènioj” (zoè aiónios, vita eterna), che indica la vita stessa di Dio o la sua dimensione divina. Forse si tratta di un'aggiunta posteriore. Tuttavia il concetto di Regno e di regalità non è assente in Giovanni. Esso verrà approfondito nel racconto della passione e morte (18-19), che l'autore vede come una sorta di intronizzazione regale di Gesù. Del resto, già in apertura del suo vangelo Giovanni mette sulle labbra di Natanaele il titolo della regalità di Gesù, “re d'Israele”, che verrà ripreso in 12,13.15, a chiusura della vita pubblica di Gesù, e concluderà il racconto giovanneo in 19,19.21, formando in tal modo una sorta di grande inclusione, in cui il tema della regalità sottende l'intero vangelo e troverà il suo vertice nel dialogo tra Gesù e Pilato (18,33-37).
Il
v.4
si apre con Nicodemo che si rivolge a Gesù. Questo rivolgersi a Gesù
è reso in greco con l'espressione “prÕj
aÙtÕn”
(pròs
autòn,
verso di lui),
la stessa che vede al v.2a Nicodemo in movimento verso Gesù, un suo
accostarsi a lui, metafora di quel giudaismo disponibile a lui.
Giovanni, dunque, riprende quell'espressione per indicare come il
processo di avvicinamento di Nicodemo a Gesù continui anche nel
fraintendimento; ed è all'interno di questo quadro che va colta la
questione posta qui dal v.4. Essa nasce dal malinteso causato
dall'avverbio “¥nwqen”
(ánotzen),
che, come si è visto sopra, può significare sia “dall'alto” che
“di nuovo, da principio, daccapo”. Saranno, pertanto, le due
diverse e contrapposte prospettive, le due diverse visioni delle
cose, che spingeranno a dare diverse e contrapposte interpretazioni a
quel “ánotzen”;
ma questo non dipende dall'equivocità dell'avverbio; l'essere
generati dall'alto o l'essere generati di nuovo, infatti, non sono in
contrapposizione tra loro, ma complementari, poiché l'essere
generati dall'alto implica, di fatto, una nuova generazione, o forse
è meglio dire, una rigenerazione. Il peso di questo malinteso di
Nicodemo, certamente stimolato dall'equivocità dell'avverbio, va a
gravare quasi interamente sul suo appartenere al giudaismo, che
concepiva l'appartenenza al popolo eletto attraverso una discendenza
carnale da Abramo, garantita da lunghe genealogie, che trovarono
ampia diffusione nel periodo postesilico ad opera di Esdra23,
il cui intento era quello di ricostituire nella sua autentica
identità il popolo ebraico. E sarà proprio questo modo di sentire
l'appartenenza al popolo eletto che, per contro, vedrà Paolo
impegnato a dimostrare ai Galati come la vera discendenza da Abramo
non fosse quella secondo la carne, ma quella data dalla fede:
“Sappiate
dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede”
(Gal 3,7); mentre il Battista, nel suo duro linguaggio escatologico,
redarguiva i farisei e i Sadducei: “fate
dunque frutti degni di conversione,
e
non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico
che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”
(Mt 3, 8-9). E qui, lo stesso v.6 porrà una netta distinzione tra i
due tipi di generazione, quella che garantisce la discendenza da
Abramo, certificata dalle genealogie e dalla circoncisione e che
rende eredi della Promessa e membri dell'Alleanza; e quella, invece,
operata dallo Spirito, che ha come garante Dio stesso ed è proposta
a tutti gli uomini per mezzo della fede in Cristo (1,12-13): “Ciò
che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è
spirito”.
Il
fraintendimento di Nicodemo, dunque, è comprensibile sia per
l'ambiguità dell'avverbio (ánotzen),
che ha favorito l'equivoco, ma non lo ha determinato; sia per
l'assetto culturale e religioso, di cui egli faceva parte e che ha
giocato un ruolo determinante; sia, infine, perché egli continua a
muoversi verso Gesù (pròs
autòn,
verso di lui),
ma è ancora avvolto nella notte dell'inintelligenza.
Il v.5
costituisce il secondo passaggio nello sviluppo del pensiero a
spirale (cfr. pag.10), caratteristico di Giovanni. I passi successivi
saranno i vv. 6.7. Viene ripreso, qui, pari pari, il v.3, in cui
l'espressione “dall'alto” viene spiegata nella forma estesa “da
acqua e Spirito”; mentre il verbo “vedere
il Regno di Dio” è sostituito con “entrare
nel Regno di Dio”. Anche qui, come per il v.3, il tono è
sentenziale e dogmatico e, come si è visto sopra, è posto al centro
della struttura parallela (cfr. pagg. 9-10), caricandolo, quindi, di
una particolare rilevanza. Quale significato, dunque, attribuire a
quel “da acqua e Spirito”? All'interno di una visione cristiana e
cattolica, il binomio “acqua-Spirito” richiama direttamente il
battesimo. Una visione, quindi, sacramentale dell'espressione; così
come il cap.6 richiama l'eucarestia. Il sacramentalismo in Giovanni è
un elemento costitutivo del suo vangelo, poiché una parte rilevante
del suo racconto (Gv 2-12) è imperniato attorno a sette segni, che
in loro contengono ed esprimono il Mistero di Gesù, quale Cristo e
Figlio di Dio (20,31). Il tema dell'acqua, poi, percorre l'intero
racconto giovanneo, mentre quello del pane di vita si incentra quasi
esclusivamente nel cap. 6. Essi sono indubbiamente segni, simboli di
realtà spirituali, che in essi sono richiamate e significate. Questo
aiuta a comprendere il mistero che opera nell'acqua battesimale e nel
pane eucaristico. Tuttavia, a nostro avviso, non è sufficiente per
ravvisare in tutto questo simbolismo giovanneo un espresso
riferimento al sacramentalismo, così come lo si intende in senso
dottrinale24.
Voler dare ai segni e ai simboli giovannei significati sacramentali,
giustificanti o fondanti in qualche modo i sacramenti stessi, ci
sembra una forzatura ingiustificata e ingiustificabile, poiché si
tratterebbe di proiettare nel vangelo sviluppi teologici e prassi
liturgiche posteriori25.
La chiave interpretativa di quel “da acqua e Spirito” sta, a
nostro parere, nel v.10, che segue immediatamente la seconda risposta
di Gesù a Nicodemo (vv.5-8), in cui si trova l'espressione in esame:
“Tu
sei maestro d'Israele e non conosci queste cose?”.
Gesù, dunque, redarguisce Nicodemo perché non conosce queste cose,
cioè quelle dette da Gesù stesso ai vv.5-8; segno questo che Gesù
con il suo discorso faceva riferimento alle Scritture, di cui
Nicodemo, in quanto capo dei Giudei e Fariseo, avrebbe dovuto
conoscere molto bene, esserne un esperto e, pertanto, doveva
comprendere ciò che Gesù intendeva. Il significato dell'espressione
“da acque e Spirito”, quindi, va ricercato nelle Scritture, cioè
nella Torah, nei Profeti e nei Libri sapienziali. Non va dimenticato
che il dialogo tra Nicodemo e Gesù è, in realtà, un dialogo tra il
giudaismo ben disposto e la comunità giovannea, la quale doveva
necessariamente confrontarsi con questo sulle Scritture, recuperando
in esse tutti quei testi che in qualche modo fossero riferibili a
Gesù, in un'ottica post-pasquale.
Nell'espressione “da
acqua e Spirito”26
(™x
Ûdatoj kaˆ
pneÚmatoj, ex ídatos
kaì pneúmatos)
vi sono due elementi che legano e identificano, in un certo qual
modo, l'acqua con lo Spirito: il primo elemento è la particella
“ex”, che compare soltanto davanti al sostantivo
“acqua”, ma non davanti a “Spirito”; questo sta a significare
che “acqua e Spirito” non sono due termini disgiunti, ma
coincidenti, poiché la particella, posta davanti ad “acqua”,
vale in egual modo anche per “Spirito”, indicando così un'unica
origine. Diverso sarebbe stato se la particella si fosse ripetuta due
volte: “da acqua e da Spirito”, poiché in tal modo avrebbe
indicato due fonti diverse, una riguardante l'acqua e l'altra lo
Spirito. Il secondo elemento è la congiunzione “kaì”,
che lega i due termini tra loro, rimarcando una volta di più ciò
che già la particella “ex” suggeriva: l'acqua e lo
Spirito sono l'identica cosa. Diverso significato avrebbe assunto la
congiunzione “kaì” se la particella “ex” si
fosse ripetuta davanti ai due termini; in questo caso “kaì”
avrebbe assunto un senso correttivo, disgiungendo anziché unire i
due sostantivi, assumendo il significato di “anche”, per cui si
avrebbe avuto “da acqua anche da Spirito”. Nel nostro contesto,
invece, la particella “kaì” favorisce la sua comprensione
come epesegesi27,
assumendo il significato esplicativo di “cioè”,
per cui l'espressione “da acqua e Spirito” va letta: “da acqua
cioè lo Spirito” oppure “da acqua che è lo
Spirito” o, se “kaì” è colto come endiadi28,
anche come “da acqua che è Spirito”, nel senso di “acqua
spirituale”29.
Poste queste doverose
premesse, perché Nicodemo avrebbe dovuto capire ciò che Gesù
intendeva dire quando parlava di generazione da acqua e Spirito?
Innanzitutto perché il verbo “gennhqÍ”
(ghennetzê,
è
generato) è posto al
passivo, che nel linguaggio dei racconti neotestamentari rimanda
sovente l'azione a Dio e, poi, perché il rapporto
acqua-spirito nell'A.T. non è inconsueto e si muove sempre
nell'ambito di un potere divino, che punta alla rigenerazione
dell'uomo.
Il primo binomio
“acqua-Spirito” compare in apertura della Genesi, là dove lo
Spirito di Dio è colto nel suo aleggiare sulle acque primordiali. Ed
è da questo connubio acqua-Spirito che ha inizio la creazione (Gen
1,2). Un'acqua strana compare nel racconto di Sansone, il quale, dopo
la battaglia contro i Filistei, condotta con una mascella d'asino,
invoca dell'acqua da Dio, che gliela farà scaturire da una roccia.
Si trattava di un'acqua particolare, capace di infondere la vita e di
rigenerare lo spirito di Sansone (Gdc 15,15-20). Ci troviamo, di
fatto, di fronte ad una sorta di nuova creazione dell'uomo, in cui
Dio soffiò nelle nari di Adamo e lo rese un essere
vivente (Gen 2,7); qui lo Spirito di Dio è sostituito dall'acqua
sgorgata dalla roccia: “Allora
Dio spaccò la roccia concava che è a Lechi e ne scaturì acqua.
Sansone bevve, il suo spirito si rianimò ed egli riprese vita”
(Gdc 15,19a). Un'altra acqua associata allo Spirito si trova
nell'annuncio del deutero-Isaia al popolo deportato a Babilonia
(593-538 a.C.), raffigurato in una terra riarsa: “poiché
io farò scorrere acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno
arido. Spanderò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia
benedizione sui tuoi posteri; cresceranno come erba in mezzo
all'acqua, come salici lungo acque correnti”
(Is 44,3-4). Ancora una volta gli effetti di questa acqua-Spirito
sono quelli propri di una nuova generazione, di una rivitalizzazione
capace di estendersi anche alle generazioni future, che verranno rese
feconde per mezzo della benedizione divina30;
una fecondità che ancora una volta è espressa attraverso le
immagini dell'acqua. Torna ancora il binomio acqua-Spirito nei
ricordi di Israele delle gesta gloriose di Jhwh: “Allora
si ricordarono dei giorni antichi, di Mosè suo servo. Dov'è colui
che fece uscire dall'acqua del Nilo il pastore del suo gregge? Dov'è
colui che gli pose nell'intimo il suo santo spirito”
(Is 63,11). L'uscita di Mosè dalle acque del Nilo viene colta come
una nuova nascita31
a cui si associa lo Spirito di Dio, che dimora su Mosè. Ma è
soprattutto Ezechiele che prospetta al popolo, in cattività
babilonese, tempi nuovi, caratterizzati dalla presenza dell'acqua
purificatrice e dello Spirito rigenerante, che sarà effuso su
Israele: “Vi
aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da
tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore
nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il
cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito
dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò
osservare e mettere in pratica le mie leggi”
(Ez 36,25-27).
Ecco perché Nicodemo
doveva intendere che cosa Gesù stava dicendo, quando parlava di una
rigenerazione dall'acqua e dallo Spirito. Ci troviamo, in realtà, di
fronte ad una rilettura dei testi veterotestamentari alla luce del
Risorto; una sorta di catechesi, che la comunità giovannea sta
compiendo nei confronti del giudaismo disponibile all'annuncio,
aiutandolo a ricomprendere le Scritture, introducendolo così,
lentamente e gradualmente, all'interno del Mistero.
Il v.6
costituisce, da un lato, una sorta di chiave di lettura dei vv.3,2.4
e della pericope 3,12-21, in cui si confrontano due visioni su Gesù:
quella del giudaismo disponibile all'ascolto, che vede in Gesù un
profeta, un maestro, un inviato di Dio, muovendosi il tutto secondo
le logiche elaborate dalla Tradizione giudaica; e quella della
comunità giovannea, che comprende Gesù, invece, come Figlio di Dio,
venuto per la salvezza dell'uomo, ottenibile per mezzo della sola
fede (3,16-17), e in cui si compie un giudizio divino (3,18-19);
dall'altro, spiega il motivo di questo diverso approccio a Gesù.
L'espressione
“Ciò
che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è
spirito”
mette a confronto, infatti, due linee di pensiero, che hanno radici
completamente opposte e irriducibili l'una all'altra: la carne e lo
Spirito. E che qui si stia andando alla radice della questione lo si
evince dalla preposizione “™k”
(ek,
da), posta davanti al termine “sarkÕj”
(sarkòs,
carne) e “pneÚmatoj”
(pneúmatos,
Spirito). La particella “ek”,
infatti, dice moto da luogo e indica l'origine, la fonte primaria da
cui prendono le mosse le due diverse comprensioni di Gesù. Il
sostantivo carne per Giovanni non ha, come per Paolo, una valenza
morale32,
ma designa soltanto l'uomo colto nella sua fragilità esistenziale e
di comprensione delle cose33
e, in senso lato, le creature di ogni specie vivente34.
Con il termine Spirito, invece, l'autore designa la dimensione
divina, ed in particolar modo esprime l'azione di Dio in mezzo ai
credenti ed ha come epicentro Dio stesso35.
Carne e Spirito, dunque, dicono due diversi approcci all'evento Gesù:
quello del giudaismo disponibile, che cerca la comprensione di Gesù
attraverso le Scritture così come elaborata dalla Tradizione
giudaica; e quello della comunità giovannea, che pur riferendosi
alla Scritture, le rivisita ad un diverso livello, generato dal
Risorto e per mezzo del suo Spirito, che condurrà il credente alla
comprensione della verità tutta intera (14,26; 16,13). La
comprensione di Gesù attraverso la Tradizione giudaica, comporta un
approccio fondato su sforzi umani, che non possono raggiungere la
pienezza della comprensione del Mistero: Gesù è recepito come un
profeta, un inviato da Dio36,
una persona che ha autorità37,
che possiede un insegnamento sorprendente e che non ha equivalente
neppure tra gli scribi e i farisei, ma non si va oltre e non si
riesce a comprendere ciò che sta al di là, poiché la prospettiva
da cui si guarda questo Evento è squisitamente umana. Diversamente,
lo stesso Evento, colto dalla prospettiva di Dio, che illumina per
mezzo del suo Spirito, appare in tutta la sua pienezza: “E
la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua
gloria, gloria come unigenito da Padre, piena di grazia e di verità”
(1,14). Per poter accedere, dunque, a questa contemplazione di questo
Evento e del suo Mistero si rende necessario un radicale passaggio
dalla Carne allo Spirito, da Mosè a Cristo. Infatti i veri credenti
sono coloro “i
quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di
uomo, ma da Dio vennero generati”
(1,13).
v.7:
Fatta questa necessaria premessa, che pone una radicale distinzione
tra due diversi tipi di conoscenza, che affondano le loro radici in
terreni completamente diversi, se ne trae, ora, la conseguenza, che
costituisce la conclusione e il vertice del pensiero a spirale,
iniziatosi con il v.3: “Non
stupirti perché ti ho detto: bisogna che voi nasciate dall'alto”.
Un versetto questo in cui risuona la voce della comunità giovannea,
che nel suo serrato confronto con il mondo giudaico, lo sollecita ad
un radicale cambiamento, per poter accedere alla pienezza
dell'intelligenza del Mistero. Vi è, infatti, un cambio di persona:
si passa dalla seconda persona singolare (“Non stupirti
perché ti
ho detto”) alla seconda persona plurale (“bisogna che voi
nasciate
dall'alto”). Nicodemo confluisce in ciò di cui egli è sempre
stato la metafora: il mondo giudaico, che ha mostrato, pur nei suoi
comprensibili limiti (“di notte”, 3,2a), interesse e una buona
disponibilità verso l'evento Gesù.
Il
v.7 è composto di due parti, la prima è rivolta a Nicodemo ed è un
sollecito a non stupire (“m¾
qaum£sVj”
mè
tzaumáses),
con riferimento al v.4, che descrive un Nicodemo disorientato, per la
sua inintelligenza, poiché la sua capacità di comprensione è
ancora legata alla notte di un giudaismo, che fonda i suoi sforzi su
ragionamenti umani (Tradizione giudaica o Torah orale), che Gesù
definì dottrine di uomini (Mt 15,9; Mc 7,7). Essa è del tutto
insufficiente per raggiungere il Mistero di Dio. La seconda parte è
una sorta di sentenza dal sapore dogmatico: “bisogna
che voi nasciate dall'alto”,
che stabilisce, da un lato, la necessità di una rinascita
spirituale, cioè un passaggio da Mosè a Cristo; dall'altro, decreta
la sostanziale insufficienza e incapacità del Giudaismo di poter
accedere alla Verità ultima, che non può essere raggiunta con
sforzi umani (“carne”), ma serve una superiore rivelazione divina
(“Spirito”), attuatasi in Gesù, che si muove sotto l'azione
dello Spirito38.
La necessità del passaggio è sottolineata da quel “De‹”
(Deî,
è necessario, bisogna, si deve), che dà un tono imperativo e
intransigente all'intera espressione, che diventa in tal modo la
“conditio
sine qua non”.
Il verbo impersonale “de‹”
si ripete nel racconto giovanneo nove volte39
e, quando compare, ha sempre attinenza con il disegno divino, che
Gesù è venuto ad attuare in obbedienza alla volontà del Padre. La
necessità di rinascere dall'alto, quindi, non è un optional,
un mero fatto culturale, ma rientra in un progetto divino, che
proprio attraverso il dono dello Spirito, condurrà il nuovo credente
alla Verità tutta intera (16,13); lo porrà esistenzialmente e,
ancor prima, ontologicamente su di un piano spirituale,
sintonizzandolo sulla stessa lunghezza d'onda di Dio, rendendolo
capace di parlarne lo stesso linguaggio, di comprenderne la volontà
e di accoglierla nella propria vita40.
Il v.8 potremmo ritenerlo come una sorta di riflessione conclusiva, che l'autore fa a commento della rigenerazione dall'alto; una specie di chiosa su quanto egli è venuto fin qui considerando sul nascere dallo Spirito e sulla sua necessità. L'argomentazione si sviluppa sotto forma di similitudine, che si gioca attorno all'ambiguità della parola “pneàma” (pneûma), che significa sia soffio, vento che spirito. Il termine vento in Giovanni ricorre due volte: in questo v.8 e in 6,18, dove si afferma che “il mare, soffiando un grande vento, si sollevava”. In quest'ultimo versetto il termine “vento” è reso in greco con “¥nemoj” (ánemos), riferendosi chiaramente ad un fenomeno meteorologico e, quindi, meramente fisico. Diversamente, nel nostro versetto il sostantivo “vento” viene reso in greco con “pneûma”. Questo sostantivo compare in Giovanni altre 23 volte con riferimento, pressoché esclusivo, allo Spirito Santo. È evidente, quindi, che l'uso che l'autore fa di questo termine, qui, in 3,8 per indicare il vento non è soltanto per sfruttare l'ambiguità del termine “pneûma”, ma anche per suggerire al suo lettore di quale “Vento” qui si sta parlando. Giovanni, nel descrivere la dinamica del vento, in realtà parla di quella dello Spirito, irraggiungibile e inafferrabile, impossibile da localizzare, impossibile da circoscrivere, impossibile da conoscere nei suoi dinamismi, poiché non si sa da dove venga e dove vada. L'unica cosa che ci consente di individuarlo è la sua voce. Esso, quindi, si può localizzare e si può trovare nella sua voce, che ne esprime la potenza vivificatrice. Suono, voce, ma anche parola, questo dice il termine “fwn»” (foné)41, richiamando da vicino l'annuncio della Parola, in cui dimora ed opera la potenza dello Spirito: “[...] le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita” (6,63b). La sua accoglienza genera a nuova vita, quella che proviene dall'alto: “In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico che viene l'ora, ed è adesso, quando i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che hanno ascoltato vivranno” (5,24-25). L'ascolto di questa voce che si diffonde e che permea ogni cosa ha capacità rigeneratrici e, avvolgendo chi l'ascolta. lo vivifica.
Con
v.8b si conclude la similitudine: “così
è ognuno che è nato dallo Spirito”.
Vi è, quindi, una sorta di parallelismo, di allineamento, quasi una
sovrapposizione tra le dinamiche dello Spirito e quella del nuovo
credente. Se da un lato, l'espressione dice l'universalità della
rinascita, accessibile a tutti (“così è ognuno”), ed opera su
chiunque ascolti la voce dello Spirito, che, a sua volta, è presente
e operante nella Parola, colta qui nella dinamica del suo annuncio
(“da dove viene e da dove va”); dall'altro, sembra esserci un
riferimento alla comunità giovannea, in dialogo con il giudaismo.
Per poter comprendere la nuova fede e potervi accedere è necessario
ascoltarne la voce dell'annuncio, diversamente essa diventa
inafferrabile e impenetrabile; sfugge ad ogni comprensione. Forse un
invito al giudaismo disponibile a fare il passo decisivo e ad
accogliere il suono del Vento, che proviene dalla comunità
giovannea, sperimentandone nella propria vita la potenza della sua
voce; ma nel contempo è anche una premessa ai vv.13-21, in cui
risuona questa voce, con cui la comunità giovannea annuncia i
contenuti della propria fede, per poter accedere ai quali è
necessario essere rigenerati dall'alto attraverso l'ascolto della
voce dello Spirito: la Parola, la cui potenza rigeneratrice è
attestata dall'autore della Prima Lettera di Pietro: “essendo
stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè
dalla parola di Dio viva ed eterna”
(1Pt 1,23); gli fa eco Paolo, che afferma come “La
fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta
si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17);
e similmente, l'autore della Lettera agli Efesini illustra la
dinamica della nascita alla fede del nuovo credente per mezzo della
Parola, che lo rigenera nello Spirito e lo rende suo erede: “In
lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il
vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto
il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è
caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di
coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria.”
(Ef 1,13-14).
I vv.9-12 costituiscono l'introduzione al proclama dottrinale (vv.13-21), su cui fonda la fede della comunità giovannea, e sono distribuiti su due livelli:
a)
i vv. 9-10
fungono da rilancio narrativo e consentono all'autore di passare al
discorso che gli sta a cuore: la presentazione dei contenuti di fede,
su cui poggia la comunità giovannea, che si contrappone al sapere
umano e alle attese tradizionali di Nicodemo su Gesù (v.2). L'ultimo
rilancio di Nicodemo si apre con un interrogativo, introdotto
dall'avverbio “pîj”
(pôs,
come?). Questo avverbio ricorre significativamente in Giovanni venti
volte e ha a che fare sempre con il Mistero, che avvolge l'evento
Gesù, e con la sua inintelligenza da parte dei Giudei e dei
discepoli, rimproverata da Gesù, che, a sua volta, si interroga come
la gente non riesca a cogliere il suo manifestarsi (3,12; 5,44.47;
14,9). Ma l'avverbio “pôs”
ricorre sovente (12 volte) tra la gente, che, di fronte a Gesù e al
suo manifestarsi, si interroga, ma non sa darsi una risposta. Del
resto questa non è possibile se non si è generati dall'alto
(vv.3.5), se non vi è un'azione illuminante da parte del Padre, che
sospinge il credente verso suo Figlio (6,44) e per mezzo del suo
Spirito lo conduce alla pienezza della Verità (14,26; 16,13).
Pertanto, fatti salvi i due casi di 4,9 e 11,36, in cui il “pôs”
ha valenza soltanto narrativa, si tratta, da parte della gente, di un
interrogarsi che ha attinenza con la rivelazione; mentre da parte di
Gesù sottende un'accusa per l'inintelligenza.
Il
v.10 riporta la risposta di Gesù a Nicodemo: “Tu
sei maestro d'Israele e non conosci queste cose?”.
Il solenne “noi sappiamo” con cui Nicodemo sciorinava il suo
sapere su Gesù (v.2), dopo sole due battute (vv.3-8) si rivela un
sostanziale bluff.
Nicodemo è indicato qui come maestro d'Israele e, quindi, come il
vertice del sapere teologico di Israele, che qui appare del tutto
inconsistente e inadeguato a cogliere la Verità, che si cela in
Gesù, perché si muove attraverso ragionamenti umani, attraverso
tutte quelle riflessioni e considerazioni elaborate nella Torah orale
e che Gesù stesso ha definito, squalificandola, come “dottrine che
sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7). La grande Tradizione
giudaica, che ha elaborato la sapienza della Torah orale, avrebbe
dovuto riconoscere in Gesù quell'inviato di Dio, che Mosè stesso
aveva in qualche modo predetto (Gv 5,46; Lc 24,27), ma che il
giudaismo, alla prova dei fatti, non ha saputo riconoscere (5,45.46),
per la sua pervicace incredulità. Solo il vero Israele, quello dal
cuore sincero e disponibile a Dio (Gv 1,47; Lc 2,25-32.38), ha saputo
cogliere la verità del messaggio di Mosè e riconoscere in esso
l'atteso dalle genti: “Filippo
trova Natanaele e gli dice: <<Abbiamo trovato colui del quale
Mosè scrisse nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe,
quello da Nazareth>>”
(1,45). Dunque, era possibile cogliere l'evento Gesù nella Torah. Ma
chi è il vero israelita? Paolo ce ne dà un abbozzo nella sua
Lettera ai Romani: “Infatti,
Giudeo non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è
quella visibile nella carne; ma
Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella
del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene
dagli uomini ma da Dio”
(Rm 2,28-29). In altri termini, vero Giudeo non è colui che ha fatto
della Torah un testo di Legge da eseguire pedissequamente e
formalisticamente, ma un messaggio di vita, di un Dio che lo
interpellava e gli chiedeva l'adesione del cuore. Questo mancò al
giudaismo per essere autentico, il cuore: “Dice
il Signore: "Poiché questo popolo si avvicina a me solo a
parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me
e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani”
(Is 29,13; cfr. anche Mt 15,8; Mc 7,6). La risposta di Gesù, quindi,
suona ironica e beffarda nei confronti della tracotanza del sapere
giudaico (“noi sappiamo”), che riteneva di possedere i misteri di
Dio, ma che di fronte al loro manifestarsi non ha saputo coglierli
(1,11), poiché esso aveva scambiato il proprio sapere umano,
sviluppato nella Torah orale, come rivelazione divina, pretendendo di
imporre a Dio il proprio schema di logiche umane, rendendosi, in tal
modo, indisponibile a quelle divine. Sul carattere orgoglioso del
giudaismo, Paolo dà uno spaccato, che ci permette di intuire in
quale modo come esso si approcciava al mondo esterno e quali erano i
criteri su cui si muoveva: “Sei
dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché
mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che
giudichi, fai le medesime cose. […] Ora, se tu ti vanti di portare
il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio,
del
quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai
discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei
ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli
ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge
l'espressione della sapienza e della verità... ebbene, come mai tu,
che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di
non rubare, rubi? Tu che proibisci l'adulterio, sei adultero? Tu che
detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti glori della legge,
offendi Dio trasgredendo la legge? Infatti il nome di Dio è
bestemmiato per causa vostra tra i pagani, come sta scritto.”
(Rm 2,1.17-24). A fronte di questo orgoglio intellettuale e religioso
ostentato non senza una certa tracotanza, vi era poco spazio per il
rivelarsi di Dio nel suo Cristo.
b) I vv.11-12 costituiscono rispettivamente l'attestazione di testimonianza della comunità giovannea nei confronti del giudaismo (v.11a), ma nel contempo diventano anche un atto di accusa nei suoi confronti a motivo della sua incredulità (v.11b); mentre il v.12 fornisce la motivazione, che sottende l'incredulità del giudaismo: la sua inintelligenza per le cose dello Spirito.
Anche
il v.11 si apre con la formula “In verità, in verità vi dico”,
che, come si è visto sopra (pag. 11), è una sorta di giuramento,
che fornisce un'attestazione di veridicità a quanto segue. I due
versetti formano da introduzione solenne alla dichiarazione di fede
dei vv.13-21, imprimendo loro il marchio di autenticità. I due
versetti sono sottesi da una pressoché impercettibile polemica nei
confronti del sapere di Nicodemo. Si contrappongono, infatti, tra
loro i due “o‡damen”
(oídamen,
noi sappiamo; cfr. pag.9), quello pronunciato da Nicodemo e con cui
si apre il dibattito sulla figura di Gesù tra il Giudaismo e la
comunità giovannea (v.2); e quello qui attestato dalla comunità
giovannea stessa, su cui grava l'autenticità della testimonianza.
Il
v.11a è contraddistinto dalla presenza di quattro verbi,
caratteristici di Giovanni, tutti posti alla prima persona plurale,
che rimanda, pertanto, alla stessa comunità giovannea: “laloàmen”
(lalûmen,
diciamo),
“o‡damen”
(oídamen,
sappiamo), “marturoàmen”
(martirûmen,
testimoniamo), “˜wr£kamen”
(eorákamen,
abbiamo visto). Dei quattro verbi, tre sono posti all'indicativo
presente e uno (eorákamen)
al perfetto indicativo. Quest'ultimo è fondativo e giustificativo
degli altri tre. Il verbo al perfetto, infatti, indica uno stato
presente, che è conseguenza di un'azione passata. In altri termini,
è proprio perché la comunità giovannea “ha visto”, che può
dare con veridicità e autenticità la sua testimonianza. Il verbo
eorákamen,
in questa forma, ricorre in tutto il racconto giovanneo due sole
volte: qui e al v. 20,25, in cui i discepoli dicono all'incredulo
Tommaso: “Abbiamo visto il Signore”. Ecco, dove affonda la radice
della fede e della testimonianza della comunità giovannea:
sull'esperienza del Risorto e non, come per Nicodemo, su contorti e
arzigogolati ragionamenti prodotti dalla Tradizione giudaica, che si
poneva in attesa, ma con logiche tutte proprie, della venuta di un
messia, di un profeta, di un salvatore, ma che una volta giunto, non
è stata in grado di riconoscerlo, perché usciva dagli schemi
mentali da essa elaborati (6,42; 7,27; 9,24.29.31; ) e per questo non
è stato accolto (v.1,11).
I
quattro verbi sono posti in parallelo tra loro e sono tutti verbi che
ineriscono alla testimonianza e attestano un contenuto di fede, che
fonda sull'esperienza: diciamo/conosciamo, testimoniamo/abbiamo
visto. Sono verbi che si concatenano tra loro, a mo' di spirale, e
diventano esplicativi l'uno dell'altro: il “diciamo” si associa
al “testimoniamo”; il “conosciamo” al “abbiamo visto”. Si
noti l'accostamento che Giovanni fa tra “oídamen”
(sappiamo) e “eorákamen”
(abbiamo visto): entrambi hanno un comune rimando al verbo “Ðr£w”42
(oráo,
vedere), che nel linguaggio dei vangeli e in particolare in quello
giovanneo è il verbo della fede autentica, di quella che ha saputo
penetrare il mistero e coglierlo nella sua autenticità. Non a caso i
due verbi “vedere” e “credere” in Giovanni sono stati tra
loro associati proprio nel racconto della tomba vuota, dove il
discepolo “vide e credette” (20,8b). Il sapere della comunità
giovannea, pertanto, è strettamente imparentato con il vedere, anzi,
dipende proprio da questo; un verbo che dice l'esperienza del
contenuto della sua fede. La concretezza dell'esperienza dell'oggetto
della fede della comunità giovannea viene maggiormente evidenziata
nella Prima Lettera di Giovanni, in cui l'autore sottolinea tale
concretezza, richiamandosi più volte all'esperienza dei sensi: “Ciò
che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto
con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato
e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita
(poiché
la
vita si è fatta visibile,
noi l'abbiamo veduta
e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che
era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo
veduto
e udito,
noi lo annunziamo anche a voi”
(1Gv 1,1-3a). All'origine della fede cristiana, dunque, non ci sta
una speranza, un'illusione, una filosofia, una teologia o un qualche
bel ragionamento, ma un fatto concreto, un evento storicamente
circoscrivibile: “Ciò che era fin da principio”, cioè Gesù,
detto il Cristo, il Verbo della Vita, resosi visibile e storicamente
raggiungibile dagli uomini. Questo il senso di quel “oídamen”
e quel “eorákamen”,
che sono posti a fondamento della fede della comunità giovannea:
essa sa, perché ha visto. A questa testimonianza, radicata nella
storia, si contrappone il rifiuto del giudaismo. Una contrapposizione
rimarcata non soltanto dalla testimonianza e dal rifiuto, ma anche da
quel “noi e voi”, che ineriscono a due comunità e a due scuole
di pensiero: quella giovannea, radicata nell'esperienza del Risorto
(“oídamen”/
“eorákamen”);
quella del giudaismo radicata a Mosè, che si esprimeva in una
osservanza e in un legalismo esasperanti (Mt 23,2-4) e in un culto
ridotto a mera ritualità ripetitiva, ma ormai priva di ogni
significato, così che lo stesso Isaia, ripreso poi anche da Gesù
(Mt 15,8; Mc 7,6), esclamerà: “Poiché
questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le
labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi
rendono è un imparaticcio di usi umani, ….”
(Is 29,13). Ed è proprio questo rapportarsi legalistico a Dio e la
celebrazione di un culto ridotto a ritualismo, svuotato della vita43,
che impediranno al giudaismo di cogliere la novità dell'evento
accaduto davanti ai loro occhi: “..... perciò,
eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo;
perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l'intelligenza
dei suoi intelligenti”
(Is 29,14). In altri termini, tutte le elaborazioni teologiche del
giudaismo non sapranno cogliere l'accadere degli eventi nuovi, perché
chiusi nell'inintelligenza della lettera, che li tiene prigionieri,
impedendo loro di aprirsi alla novità dello Spirito. Paolo,
scrivendo alla sua comunità di Corinto, sottolinea proprio questo
aspetto del giudaismo, rimasto accecato nella mente e resosi,
pertanto, incapace di leggere le Scritture, non sapendo cogliere la
verità dello Spirito, che le animava: “Ma
le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo
velo rimane, non rimosso, alla lettura dell'Antico Testamento, perché
è in Cristo che esso viene eliminato. Fino
ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma
quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”
(2Cor 3,14-16). Egli, a differenza del giudaismo, affermerà che il
suo ministero è quello dello Spirito e non della lettera “
perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita”
(2Cor 3,6b).
Il v.12 riporta, sostanzialmente identico, Sap 9,16, che è inserito in un contesto in cui si evidenzia la fragilità del sapere e del ragionare umano di fronte alle cose divine, che divengono per questo irraggiungibili e richiedono, per contro una rinascita dall'alto, sotto l'egida dello Spirito: “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri. A stento ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo? Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall'alto?” (Sap 9,14-17). Un tema, quello della fragilità umana, che ricorre sovente nei Libri Sapienziali. Un intero libro, Qoelet, vi è dedicato, ma non mancano i salmi, che la ricordano: “Tu fai ritornare l'uomo in polvere e dici: <<Ritornate, figli dell'uomo>>. Ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte. Li annienti: li sommergi nel sonno; sono come l'erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca. [..] Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira, finiamo i nostri anni come un soffio. Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo” (Sal 89,3-6.9-10). Proprio per questa sua fragilità l'uomo stenta a capire le cose umane e a maggior ragione quelle divine, che di gran lunga lo trascendono, rendendosi a lui irraggiungibili. Il v.12 è sotteso da una lieve ironia, che stigmatizza l'incapacità di comprendere di Nicodemo, che di fronte al linguaggio del nascere e del rinascere non sa coglierne il senso metaforico, che parlava di una rinascita spirituale, richiamandosi a quella carnale. Nicodemo, qui, è vittima dello spirito proprio del giudaismo, che non riesce ad andare oltre alla lettera della Legge, mancando di coglierne lo spirito.
vv.13-21:
introdotti dalla premessa che per accedere al Mistero, in cui la
comunità giovannea crede e di cui sta per dare testimonianza, si
rende necessario il rinascere dall'alto (acqua/Spirito), i vv.13-21,
attraverso un dinamico e avvolgente concatenamento discendente di
pensieri, dal cielo alla comunità credente e da questa a tutti gli
uomini fino a raggiungerne il cuore (vv.20-21), presentano al
giudaismo e, in particolare, a quello maggiormente disponibile,
metaforizzato in Nicodemo, l'essenza del credo della comunità
giovannea.
Una particolare attenzione va data alla struttura di questa ampia pericope, al cui contenuto è impresso un forte dinamismo attraverso una tecnica caratteristica di Giovanni: il pensiero a spirale o a chiocciola44. Si viene creare, in tal modo, una concatenazione di pensieri, che, pur singolarmente completi e a se stanti45, vengono incastrati l'uno nell'altro, attraverso il richiamo di parole o di espressioni aggancio, che si sviluppano man mano che procedono di versetto in versetto. In tal modo, essi formano nell'insieme un quadro completo e molto potente, in cui il Mistero del Verbo fatto carne viene colto nel suo rapportarsi con gli uomini, dai quali si attende una risposta esistenziale, in base alla quale essi sono giudicati.
Il movimento, come si è detto sopra, è discendente:
Il v.12b
termina ponendo il dubbio sulla capacità di comprensione delle cose
celesti
(t¦
™pour£nia,
tà
epuránia)
da parte del giudaismo. Le cose celesti
di cui sta parlando sono quelle che seguiranno nei vv.13-21;
Il
v.13
si aggancia all'espressione “cose celesti”
e le sviluppa in due movimenti: uno ascendente, “è
salito al cielo”
(v.13a); l'altro discendente, “dal cielo è
disceso”
(v.13b). Queste due espressioni, come già si è intuito, dividono
il v.13 in due parti, preparando, in tal modo, la strada ai vv.14-15
e al v.16.
I
vv.14-15,
agganciandosi al v.13a
(“è salito al cielo”),
parla di innalzamento (Ûywsen
e ØywqÁnai,
ípsosen/ipsotzênai)
del Figlio dell'uomo, che spiega in quale modo questi è salito al
cielo: attraverso la croce e la risurrezione. Il verbo “ØyÒw”
(ipsóo),
infatti, ha un doppio significato: “innalzare, sollevare” e
“glorificare, esaltare”46;
con il primo significato si allude all'innalzamento di Gesù sulla
croce47;
con il secondo significato si allude alla sua risurrezione. - Il
v.15,
a sua volta, introduce e anticipa un tema, che verrà ripreso e
sviluppato in modo articolato e sempre più approfondito nei
successivi vv.16-21: la salvezza acquisita attraverso la fede in
Gesù, morto, risorto e salito al cielo.
Il
v.16,
riprendendo il v.13b
(“dal cielo è disceso”),
spiega come questa discesa del Figlio sia un dono di amore del Padre
per gli uomini (v.16a), la cui finalità è la salvezza degli uomini
per mezzo della fede nel suo Figlio, evitando, in tal modo, la loro
perdizione (v.16b). Questo versetto, scandito in due parti,
costituisce il cuore dell'intera pericope, perché da un lato
sintetizza i contenuti dei vv.12b-15, dall'altro li rilancia ai
versetti successivi (vv.17-21), che costituiscono una ripresa e uno
sviluppo del tema sintetizzato e annunciato nel v.16.
Il
v.17,
riprendendo il v.16, accentra la sua attenzione sul v.16b, spiegando
il senso del “non perire”, ma di “avere la vita eterna” per
mezzo della fede. Esso, infatti, attesta che la venuta del Figlio
nel mondo non è finalizzata al giudizio,
ma alla salvezza
per mezzo della fede. Con questa nuova tornata Giovanni introduce,
quasi di soppiatto, un'altra parola chiave: il giudizio,
a cui si agganceranno i successivi vv.18-21, che ne svilupperanno il
tema e il significato in riferimento al credere o al non credere.
Il
v.18,
agganciandosi al termine “giudizio”
del v.17, afferma che esso è evitato o è eseguito a seconda del
“credere” o “non credere”, definendo, in tal modo due
categorie di persone in base al loro comportamento nei confronti di
Gesù. Queste due categorie di persone verranno riprese, a loro
volta dai vv.20 e 21, che spiegano ciò che sottende tale
comportamento. Si tratta, dunque, di un'analisi sia psicologica che
spirituale, che va a colpire, a giochi finiti, l'uomo nella sua
individualità e nell'intimità del suo cuore.
Il
v.19,
riprendendo il verbo giudicare
del v.18, posto in relazione al credere e al non credere, definisce,
da un lato, il contenuto di questo giudizio: la venuta della luce
nel mondo e il suo rifiuto, a motivo della malvagità degli uomini;
dall'altro, introduce un nuovo elemento, che verrà ripreso nei
successivi vv.20-21: la venuta della luce
nel mondo,
a fronte della quale gli uomini sono discriminati in due
contrapposte categorie: chi compie cose malvagie non va verso la
luce (v.20); e chi, invece, fa la verità va verso la luce (v.21).
I vv.20-21 concludono questa lunga discesa, che, dalle cose del cielo, passando attraverso la venuta nel mondo del Figlio, dono di amore del Padre e luce degli uomini, si colloca di fronte a loro, interpellandoli con la sua venuta e spingendoli a prendere esistenzialmente posizione nei suoi confronti, creando tra loro, di fatto, una separazione, un giudizio, che si compie, qui e ora (verbi al presente indicativo), in relazione alla loro risposta esistenziale.
I vv.13-15,
come già si è detto, costituiscono il nucleo fondante del credo
giovanneo. Si tratta di un enunciato dottrinale, che troverà il suo
sviluppo (aspetti teologici) e le sue applicazioni (aspetti morali),
nei successivi vv.16-21.
I
vv.13.14 iniziano entrambi con un “kaˆ”
(kaì,
“e”), di chiara marca redazionale, il cui intento è quello di
dare ai due versetti una sorta di compattezza e continuità narrativa
logica con quelli precedenti. Un tentativo mal riuscito, a nostro
avviso, perché come si è visto sopra (pag.22
e nota n.45),
tutti i discorsi di Giovanni, dai ritmi sapienziali e sentenziali,
sono composti da frasi a se stanti con senso compiuto, legati l'uno
all'altro non da logiche ragionative, ma attraverso espressioni o
parole aggancio. I discorsi in Giovanni, quindi, non sviluppano
ragionamenti, ma immagini, che stimolano la riflessione del lettore.
Il
v.13 è suddiviso in due parti contraddistinte da due verbi di
movimento, caratteristici di Giovanni: “¢naba…nw”
(anabaíno,
salire) e “kataba…nw”
(katabaíno,
discendere). Sono due verbi molto frequenti nel vangelo giovanneo48
e catalizzano attorno a loro altri verbi di movimento simili, che
esprimono il discendere o il salire; espressioni come “io sono
venuto”, spesso coniugate con la formula “colui che mi ha
mandato”, lasciano intravvedere il luogo della provenienza divina
di Gesù e la missione per cui è venuto; esso ha come matrice il
verbo “discendere”49;
oppure, “vado al Padre”, per esprimerne il ritorno, parafrasando
in tal mondo il verbo “salire”50.
Sono verbi che esprimono la dinamica che muove il Gesù giovanneo;
quella dinamica, propria del mediatore, che tende a collegare,
congiungere, unire, fare da interprete, manifestare, rivelare,
costituendo un ponte tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5); sono verbi che
creano una sorta di moto pendolare, che trova il suo vertice più
significativo in 16,28: “Sono
uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e
vado al Padre”.
Il
v.13 si apre con il verbo “¢nabšbhken”
(anabébeken,
è salito); si tratta di un perfetto indicativo, che per la sua
natura indica uno stato presente, quale conseguenza di un'azione
passata, che qui Giovanni pone come esclusiva caratterizzante la
condizione propria del Figlio dell'uomo: “nessuno
è salito al cielo se non ...”;
quel “nessuno” (oÙdeˆj,
udeìs)
toglie di mezzo ogni possibile concorrenza o confronto con il Figlio
dell'uomo, assegnandogli una posizione unica, esclusiva ed
escludente; mentre il “se non” (e„
m¾,
ei
mè)
pone a suo totale carico questa esclusività escludente, che è
unicità. Il Figlio dell'uomo, dunque, è colto nel suo stato di
glorificazione definitiva, come colui che è già salito al cielo e
lo è in modo definitivo e permanente a seguito di un evento passato,
accaduto qui nella storia e che verrà specificato nel seguente v.14,
attraverso il verbo “ipsóo”
(cfr.
lett. c, pag.22).
Se
la prima parte del v.13 contempla l'evento unico ed esclusivo della
definitiva glorificazione del Figlio dell'uomo, esaltandone in tal
modo la divinità, la seconda parte lo coglie agli inizi della sua
avventura terrena, cioè nel suo discendere, con chiaro riferimento
alla sua incarnazione. Il verbo “katab£j”
(katabás,
disceso), infatti, è un participio passato aoristo di tipo
ingressivo, che dice l'accadere di un evento colto nel suo iniziale
apparire temporale. Un discendere che dà l'orientamento all'intera
pericope (vv.13-21), che abbiamo definito come discendente (pag.
22).
Si tratta di un versetto che, in qualche modo, riproduce in se
stesso, anche se con sfumature diverse51,
lo schema del Prologo, che si apre con la contemplazione della
divinità del Logos (1,1-2), colto nella sua coeternità con il
Padre, per poi accedere, con il v.1,14, alla sua incarnazione. Con il
v.13 si ha il processo inverso: si parte dall'ultimo atto, che
dogmatizza la divinità di Gesù, a seguito della sua ascensione al
cielo (6,62; 12,23), intesa come l'entrata definitiva di Gesù in
quella gloria che egli aveva “prima che il mondo fosse” (Gv
17,5), per poi procedere a presentare gli altri tre processi
fondamentali, che costituiscono la struttura fondante della fede
della comunità giovannea: l'incarnazione (v.13b), la morte e la
risurrezione (v.14), quali premesse alla sua ascensione a quella
gloria da cui era venuto (13,3; 16,27.28). E che qui non si parli del
Logos preesistente (1,1-2), ma di quello “Incarnato” (1,14), lo
si deduce dall'espressione “Figlio dell'uomo”52.
Questa espressione ricorre in Giovanni 13 volte53
ed assume un particolare significato: essa esprime l'umanità di
Gesù, posta in stretta relazione con il mondo divino, che si rivela
ed opera attraverso questa umanità. Per Giovanni, dunque,
l'espressione “Figlio dell'uomo” indica un'umanità, da cui
traspare e si attua il divino qui nella storia, distendendo su di
essa la propria efficacia salvifica. È
significativo, infatti, come l'espressione compaia per la prima volta
in 1,51, in cui si attesta: “vedrete il cielo
aperto
e gli
angeli di Dio salire e scendere
sul
Figlio dell'uomo”. Il punto di convergenza dell'aprirsi del cielo e
del salire e scendere degli angeli è proprio il Figlio dell'uomo,
che diviene, pertanto, il punto catalizzatore non soltanto
dell'azione rivelatrice di Dio (cieli aperti), ma anche il luogo
storico in cui si incentra e si attua il dinamismo salvifico divino
(angeli che scendono e salgono).
Il
v.14 si struttura su due parti: la prima richiama l'episodio di Nm
21,6-9 (v.14a), a cui viene associato il destino del Figlio dell'uomo
(v.14b). Si tratta, dunque di un confronto tra due eventi salvifici,
che si richiamano tra loro, in cui l'uno diviene immagine dell'altro
ed entrambi avvenuti per mezzo di un innalzamento, che costituisce il
tema di questo versetto, caratterizzato dalla presenza del verbo
“ÙyÒw”
(ipsóo,
innalzare), ripetuto due volte.
Il
v.14 si apre con un “kaì”
(e), che lo aggancia al v.13 e ne dà continuità di significato. Se
il v.13, infatti, presentava i due estremi dell'azione salvifica di
Dio, l'incarnazione (13b) e l'ascensione (13a) del Figlio dell'uomo,
il v.14 colloca tra i due eventi quelli intermedi della morte e della
risurrezione di Gesù e lo fa partendo da un'immagine significativa,
tratta da Nm 21,6-9: “Allora
il Signore mandò fra il popolo serpenti velenosi i quali mordevano
la gente e un gran numero di Israeliti morì. Allora
il popolo venne a Mosè e disse: <<Abbiamo peccato, perché
abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; prega il Signore
che allontani da noi questi serpenti>>. Mosè pregò per il
popolo. Il Signore disse a Mosè: <<Fatti
un serpente e mettilo sopra un'asta; chiunque,
dopo essere stato morso, lo
guarderà resterà in vita>>.
Mosè allora fece
un serpente di rame e lo mise sopra l'asta;
quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il
serpente di rame, restava in vita”.
Il contesto in cui è inserita l'immagine veterotestamentaria è
quello di una rivolta del popolo contro Mosè e contro Dio, il quale
mandò dei serpenti velenosi a punire con la morte gli Israeliti.
Solo la misericordia divina consentì la salvezza a tutti coloro che
guardavano il serpente di rame, innalzato su di un'asta. Il racconto
richiama da vicino la caduta di Adamo ed Eva: anche là vi fu una
rivolta contro Dio; anche là vi fu un serpente che inoculò in loro
il veleno mortale della ribellione a Dio, così che i due si
accorsero di essere nudi, cioè spogliati della vita divina
(3,3,1-7a), di cui erano permeati, allorché Dio soffiò nelle loro
nari l'alito della sua stessa vita (Gen 2,7); anche là vi fu un atto
di misericordia divina, che prospettò all'uomo, mortalmente
decaduto, la vittoria della Donna e della sua Stirpe sul Serpente
(Gen 3,15). Il richiamo dell'innalzamento del serpente da parte di
Mosè evoca questo insieme di racconti antichi, così che la figura
del Figlio dell'uomo innalzato diviene la definitiva attuazione di
quelle immagini e la risposta alle attese e alle speranze
dell'umanità decaduta e corrotta dal peccato. Il v.14, infatti,
innesca un confronto (oÛtwj,
útos,
così) tra l'innalzamento del serpente da parte di Mosè e quello
avvenuto per Gesù; ma mentre l'innalzamento mosaico è espresso con
un aoristo terminativo (Ûywsen,
ípsosen,
innalzò), che circoscrive l'evento salvifico nel tempo e glielo
rende invalicabile, l'innalzamento di Gesù presenta tre
particolarità, che gli assegnano un senso unico ed esclusivo, che
travalica il tempo: “ØywqÁnai
de‹”
(ipsotzênai
deî),
“bisogna che sia innalzato”. Due verbi, l'uno posto all'aoristo
infinito passivo (ipsotzênai)
“essere innalzato”, che nel linguaggio neotestamentario rimanda
l'azione a Dio stesso; l'altro al presente indicativo nella forma
impersonale (deî),
“bisogna” ed esprime uno stato di necessità, che lascia
sottintendere come l'innalzamento di Gesù, nel suo duplice
significato di morte-risurrezione (cfr.
pag.22),
rientra in un prestabilito piano divino, che si attua nel
innalzamento di Gesù stesso. Ma se l'innalzamento mosaico era
racchiuso nel tempo, rendendo i suoi effetti salvifici relativi alla
circostanza, quello di Gesù travalica i limiti spazio-temporali,
rendendo gli effetti salvifici del suo innalzamento universali. Ciò
che li rende tali è il duplice significato che Giovanni assegna al
verbo “ipsotzênai”,
morte e risurrezione; ed è proprio quest'ultimo significato, che
pone al di là dello spazio e del tempo, imprimendo all'azione
salvifica di Gesù una valenza universale, gli effetti salvifici
dell'innalzamento di Gesù, poiché vengono sottratti alla relatività
della storia.
Il
v.15 riporta per la prima volta nel racconto giovanneo l'attestazione
che il credere in Gesù consente di accedere alla vita eterna. Un
concetto questo che risuonerà in modi molto simili al v.15 per altre
sette volte54,
ponendo a fondamento della vita in Dio la sola fede in Cristo. Anzi è
proprio per questo fine, che il vangelo giovanneo è stato scritto:
“[...] affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio,
e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (20,31) Una fede
che per Giovanni non è un concetto astratto, ma un'azione, che si
radica nella vita e la qualifica come vita credente, nella quale,
proprio perché credente, si rispecchia la vita di Dio, che è
essenzialmente vita di amore. Il credente, pertanto, diviene una
sorta di riflesso di Dio in mezzo agli uomini, testimone della sua
vita divina, in cui è collocato e vive proprio per il suo credere.
Non è un caso che il termine “fede” non ricorra mai, neppure una
volta, in Giovanni, ma esso è sempre sostituito dal verbo “credere”.
Il verbo, infatti, esprime sempre un'azione ed è, quindi, più
confacente alla dinamica stessa della vita.
Il
v.15 rivela l'obiettivo del progetto divino (deî,
bisogna),
attuatosi nell'incarnazione, morte, risurrezione e ascensione del
Figlio dell'uomo: “affinché ognuno che crede in lui abbia la vita
eterna”. La finalità di questo progetto è reso con la particella
“†na”
(ína,
affinché). L'innalzamento, dunque, punta al recupero di ogni uomo
alla vita divina per mezzo della fede nell'Innalzato. Il senso
dell'universalità del progetto divino è reso con quel “p©j”
(pâs,
ognuno, chiunque), che coinvolge l'uomo di ogni tempo e di ogni
latitudine. Si tratta, dunque, di un'azione salvifica universale,
rivolta indistintamente a tutti e che ha come presupposto il “credere
in lui”. Significativa è l'espressione greca “Ð
pisteÚwn ™n aÙtù”
(o
pisteúon
en autô),
“il credente
in lui”. Il verbo al participio presente indica come l'azione del
credere diventi una costante, che qualifica la vita dell'uomo e ne
determini l'orientamento esistenziale. Il verbo credere è qui
seguito dall'espressione “en
autô”55,
che indica uno stato in luogo: “in
lui”. La finalità del credere, dunque, è quella di collocare il
credente “in
lui” e per per mezzo suo ottenere la “vita eterna”;
un'espressione questa caratteristica di Giovanni e che nel suo
racconto ricorre 17 volte; essa non indica l'aldilà, bensì la vita
stessa di Dio.
vv.16-21 : dopo l'attestazione dottrinale dei vv.13-15, con cui presenta al giudaismo il credo della comunità giovannea, ora l'autore si accinge a svilupparne la teologia. È proprio con questi vv.16-21 che egli esporrà il vero “sapere” circa l'evento Gesù e del Mistero in esso racchiuso. Il confronto tra i due “o‡damen” (oídamen, noi sappiamo: vv. 2b.11a), pertanto, si avrà qui, in questo sviluppo teologico e morale; è proprio qui che si avrà la comprensione del Mistero, il vero e autentico “oídamen” della comunità giovannea, su cui essa fonda la propria fede.
Come già si è detto (pagg.22-23), la struttura della pericope in esame si sviluppa in un avvolgente pensiero discendente, che dal cielo, muovendosi attraverso molteplici passaggi, si collocherà nel cuore di ogni uomo, interpellandolo nella sua intimità e spingendolo a prendere esistenzialmente posizione nei confronti del dono celeste (v.16).
Il
v.16
costituisce il centro dell'intera pericope 3,10-21 non solo perché è
ad alto contenuto teologico, ma anche perché, sintetizzando i
vv.13-15, costituisce il fondamento sul quale poggeranno e troveranno
il loro slancio e il loro senso anche i vv.17-21. Esso, infatti,
costituisce il vertice del pensiero giovanneo su Gesù; il cuore di
quel “oídamen”
giovanneo, che viene contrapposto al sapere del giudaismo,
raffigurato in Nicodemo.
Il
v.16 si apre con un “g¦r”
(gàr,
infatti) che dà al versetto un senso dichiarativo, con riferimento
ai vv.13b-15, di cui diviene la spiegazione. Quel “gàr”,
dunque, aggancia il v.16 ai vv.13b-15 e ne costituisce
l'approfondimento teologico. Esso è scandito in due parti, la prima
è una frase consecutiva: “Così,
infatti, Dio amò il mondo, che
diede il Figlio, l'Unigenito,”; la seconda ha valore finale:
“affinché
ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”. Il
senso consecutivo della prima parte viene dato dagli avverbi, tra
loro correlati, “OÛtwj”
(ûtos,
così, in questo modo) e “éste”
(óste,
che). Questo tipo di costruzione sintattica supporta un profondo
concetto teologico che vede la discesa dal cielo del Figlio dell'uomo
(v.13b) come la conseguenza di un atto di amore del Padre, così che
il Figlio diviene il dono di amore che il Padre ha riservato
all'umanità56;
la risposta di amore ad un'umanità degradata dal peccato e nemica di
Dio. Un concetto questo che verrà ripreso sostanzialmente identico
in 1Gv 4,9-10: “In
questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il
suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.
In
questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che
ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione
per i nostri peccati”.
Similmente, anche Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, sottolinea
come: “mentre
noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo
stabilito. […] Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché,
mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”
(Rm 5,6.8).
I
due verbi “ºg£phsen”
(egápesen,
amò) e “œdwken”
(édoken,
diede) sono due verbi posti all'aoristo, un tempo verbale che colloca
nella storia le due azioni dell'amare e del donare, rivestendole di
concretezza storica, l'una conseguente l'altra; un amore che si fa
dono e un dono che si fa salvezza per il credente. Non si tratta,
dunque, di un amore etereo o mistico, ma concreto, che assume
storicamente il volto di Cristo. Una concretezza che Giovanni
celebrerà in 1Gv 1,1-3, i cui i verbi di senso si rincorreranno
senza sosta: “Ciò
che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto
con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato
e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita (poiché
la vita si
è fatta visibile,
noi l'abbiamo veduta
e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che
era presso il Padre e si è resa visibile
a noi), quello che abbiamo veduto
e udito,
noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione
con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù
Cristo”.
Un'attenzione
va riservata al verbo “d…dwmi”
(dídomi,
dare, donare, consegnare): se da un lato esso esprime l'amore
incondizionato del Padre per gli uomini, dall'altro non viene
indicato il destinatario di questo dono; non si dice che Dio amò il
mondo e gli
diede, ma che amò il mondo e diede. Si tratta, dunque, di un donare
libero e assoluto, non destinato a qualcuno in particolare, ma messo
lì a disposizione di tutti e che di fatto esprime il vero dinamismo
della natura di Dio. “Dio è amore” (1Gv 4,8.16), attesta
Giovanni, indicando in tal modo l'essenza stessa di Dio, che nulla ha
a che vedere con il nostro sentimento, ma che piuttosto delinea il
modo di essere di Dio; un amore che è essenzialmente totale apertura
di sé verso l'altro, totale dono di sé all'altro, totale
accoglienza dell'altro in sé. Un amore, dunque, che si fa dono e si
comunica nel dono e in esso si rende visibile e raggiungibile da
tutti; e il dono è la vita stessa di Dio, colta da Giovanni nel suo
defluire da Dio verso l'uomo attraverso il filtro del Figlio e che
nel Figlio condivide con noi. L'assolutezza e l'esclusività di
questo donare viene rimarcata una volta di più nell'attributo con
cui viene qualificato il Figlio: Unigenito; un'espressione
caratteristica di Giovanni e che compare soltanto nei suoi scritti57
ed esprime l'unicità esclusiva ed escludente non soltanto del Figlio
nei confronti del Padre, ma anche del rapporto che li lega in una
stretta comunione di amore. Dio è amore, per questo è donativo e
generativo, perché è la natura stessa dell'amore che è tale.
Il
verbo “dídomi”,
tuttavia, non significa soltanto donare, ma anche consegnare,
affidare ed è strettamente imparentato con il verbo “parad…dwmi”
(paradídomi),
che significa consegnare, dare in mano, dare in potere, dare in
balìa; un verbo che percorre l'intero vangelo giovanneo ed ha sempre
attinenza con la passione e morte di Gesù58.
Il dono, quindi, che il Padre fa del proprio Figlio non esprime
soltanto la sua natura di amore donativo e generante, ma è anche un
consegnarlo agli uomini, un consegnarlo che possiede in se stesso una
valenza sacrificale e redentiva nel contempo.
Il v.16b si apre con la congiunzione “†na” (ína, affinché), che dà un senso finale alla seconda parte del v.16, fornendo la motivazione che sottende questo dono del Padre: “affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”. Questa seconda parte viene ripresa dal v.15 e sdoppiata in una frase al negativo (non perisca) e una al positivo (abbia la vita eterna). Se, da un lato, questo sdoppiamento è caratteristico della retorica ebraica59, che ama definire una stessa cosa con due diverse espressioni al positivo e al negativo o con espressioni tra loro in vario modo parallele o più semplicemente giustapposte l'una accanto all'altra; dall'altro, consente all'autore di predisporre il campo per un ulteriore sviluppo tematico, che verrà elaborato nei successivi vv.17-21, e riguarderà il giudizio e la condanna per chi non crede.
Il “non perdersi” ma l' “avere la vita eterna” ha come soggetto “p©j Ð pisteÚwn e„j aÙtÕn” (pâs o piseúon eis autòn), “ognuno che crede in lui”. La frase viene ripresa sostanzialmente identica dal v.15, a cui rimandiamo per il commento, ma qui viene apportata una piccola variante, molto significativa: la particella “in” resa al v.15 con “™n” (en), viene qui sostituita dalla particella “e„j” (eis). La prima (en) indica uno stato in luogo, sottolineando come il credere collochi il credente, per il suo credere, nella stessa vita divina (vita eterna); la seconda (eis) esprime un moto a luogo ed imprime al credere del credente un forte dinamismo, che lo rimanda al suo modo di vivere e lo orienta esistenzialmente verso Cristo. Si tratta di una fede, quindi, dinamicamente collegata alla vita e tale da caratterizzarla. La particella “eis” evidenzia, pertanto, una fede in cammino verso la salvezza, che non ha ancora definitivamente acquisita, poiché appare, come in filigrana, anche la prospettiva della perdizione, sia pur espressa in forma negativa (non perisca) e che formerà oggetto di specifica trattazione nei successivi vv.17-21.
Con il v.17 si ha un cambio di linguaggio e di prospettiva. Se i vv.13-15 enunciavano le verità fondamentali e fondanti la fede della comunità giovannea, lette in una prospettiva dottrinale (incarnazione [“disceso dal cielo”]), morte, risurrezione [“bisogna che sia innalzato”] e ascensione del Figlio dell'uomo [“salito al cielo”]); se con il v.16 si apriva una riflessione teologica sull'incarnazione/discesa dal cielo del Figlio Unigenito, ricompresa come dono di amore del Padre per la vita eterna; con il v.17 cambia sia il linguaggio che la prospettiva: da dottrinale-teologica a pastorale-catechetica: l'incarnazione/dono di amore è letta qui come l'invio del Figlio nel mondo da parte del Padre per compiere un giudizio sull'umanità, che ha come base discriminante il credere o il non credere, con esiti ovviamente contrapposti (v.18). L'espressione teologica “vita eterna” del v.16 diventa qui “sia salvato”. Il “non perisca” del v.16 diventa al v.17 “non per giudicare”, che assume un senso negativo di condanna. Il linguaggio, quindi, qui, da un lato, si fa più chiaro e più accessibile; dall'altro più direttamente coinvolgente e interpellante, poiché si parla chiaramente di un Figlio che è stato inviato per compiere una missione (“apestéilen”), i cui intenti sono quelli di salvare e non di giudicare/condannare, anche se si prospetta quest'ultima soluzione, che verrà ripresa e approfondita dai vv.18-21. I vv.17-21, pertanto, si muovono su di uno sfondo squisitamente pastorale e catechetico, che implica, come vedremo, anche risvolti morali (vv.19-21), in quanto che il credente è chiamato a dare la sua risposta esistenziale al Figlio, che è stato inviato dal Padre appositamente per lui e, quindi, egli deve sentirsi direttamente ed esistenzialmente interpellato.
Il v.17, pertanto, riprendendo la teologia del v.16, che ha le sue fondamenta in quella dottrinale dei vv.13-15, ne sviluppa la parte applicativa. Esso si incentra esclusivamente sul senso della missione del Figlio e metterà le basi per lo sviluppo dei vv.18-21, che riprendendosi l'un l'altro, arriveranno a formulare dei principi morali del vivere credente (vv.20-21).
Il v.17 gioca il suo messaggio attorno ad un contrasto di chiari-scuri, per renderlo più efficace e più penetrante. Esso si apre con una particella negativa (oÙ, u, non) per mettere in rilievo fin da subito che cosa non è la missione del Figlio, per poi contrapporle la seconda parte, espressa in forma positiva, su cui si accentra l'attenzione. Essa è introdotta da una particella avversativa “ma” (¢ll¦, allà), che mette in risalto ciò che è effettivamente la missione del Figlio. Alla particella negativa segue immediatamente quella dichiarativa “g¦r” (gàr, infatti), che dà un senso esplicativo al v.17. Così strutturato, il v.17 ruota attorno al verbo “¢pšsteilen” (apestéilen, mandò, inviò). Si tratta di un verbo molto caro a Giovanni, che ricorre 27 volte nel suo racconto e che spesso è alternato al verbo “pšmpw” (pémpo, inviare, mandare, spedire), di pari valore e identico significato, che ricorre 32 volte; soltanto una volta i due verbi sono combinati assieme, al v.20,21, in cui il Risorto, apparendo in mezzo ai suoi, li saluta: “<<Pace a voi! Come il Padre ha mandato (“¢pšstalkšn”, apéstalken) me, anch'io mando (pšmpw, pémpo) voi>>”. Il fatto che entrambi i verbi siano usati in quantità pressoché uguale, sta ad indicare che l'autore non attribuisce loro alcun significato particolare, se non quello che essi esprimono. Del resto, anche un'analisi da me condotta su i 59 casi complessivi, in cui essi compaiono, dà l'identico risultato60.
Al centro di tutto, dunque, ci sta il verbo “inviare” (apestéilen), posto all'aoristo di tipo ingressivo o incipiente, che indica il momento storico dell'incarnazione, qui colta come l'inizio di questo invio e, quindi, l'inizio della missione. Il verbo è seguito dalla particella “e„j” (eis, in), che se, da un lato, esprime il moto a luogo (l'invio nel mondo come luogo fisico e spazio-temporale), dall'altro evidenzia anche lo scopo, la finalità di questo invio, che viene posto a favore del mondo. La particella “eis”, infatti, racchiude in se stessa questo duplice significato: destinazione e finalità. Ed è su quest'ultimo significato, che si incentra la seconda parte del v.17, caratterizzata dalla presenza di due “†na” (ína, affinché), entrambi dipendenti dal verbo “apestéilen”. L'invio del Figlio, la sua incarnazione ha come finalità non il giudizio, bensì la salvezza del mondo. Un termine quest'ultimo, che, in questo versetto, ricorre tre volte: la prima, preceduta dalla particella “eis”, dice la realtà fisica e spazio-temporale entro cui si attua e prende forma l'invio/incarnazione; le altre due volte il termine indica l'umanità o gli uomini in senso generale, dando in tal modo una valenza universale alla missione del Figlio. Questa missione assume un significato essenzialmente ed assolutamente benefico per l'uomo, dalla quale viene escluso ogni forma di giudizio nel senso negativo di condanna. Scompare anche il verbo credere come risposta esistenziale, a cui gli uomini sono chiamati dalla presenza storica del Figlio e da cui dipende la loro salvezza o meno. Tutto, invece, è qui incentrato sull'invio del Figlio da parte del Padre, suo dono di amore per gli uomini (v.16), la cui finalità è soltanto salvifica. Il verbo salvare, infatti, è qui posto al passivo (“swqÍ”, sotzê, sia salvato), che, come già più volte si è detto, nel linguaggio neotestamentario rimanda l'azione significata a Dio. Dio, dunque, è l'autore primo della salvezza dell'uomo, da cui egli esclude ogni sua condanna. Non è nelle sue logiche condannare l'uomo, perché per sua natura Dio è amore, cioè totale accoglienza e pienezza di benevolenza nei confronti degli uomini; nessuno viene respinto da Dio; nessuna condanna per l'uomo da parte di Dio, poiché egli vuole soltanto una cosa che “tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). Paolo lo sottoscriverà con fermezza alla comunità di Roma: “Non c'è più, dunque, nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Per contro, è soltanto l'uomo il fautore dei suoi destini, della sua salvezza o della sua perdizione. Sarà, infatti, questo il tema drammatico che verrà sviluppato nei successivi vv.18-21.
vv.18-21: già con i vv.16 e 17, benché in forma negativa, era apparso sullo sfondo, quasi in filigrana, il tema della perdizione (“non perisca” - v.16) e quello del giudizio (“non per giudicare” - v.17). Ora, i versetti in esame, riprendendo il tema, là preannunciato, accentrano la loro attenzione su di esso, facendone una dettagliata e sistematica trattazione.
Già la struttura del v.18, suddivisa in due parti contrapposte, introduce al tema del giudizio. Il verbo “kr…nw” (kríno), infatti, che qui compare due volte, significa, in prima istanza, “distinguere, sceverare, separare, secernere, dividere” e, quindi, “giudicare”. Il tema di fondo è il giudizio, che qui assume una connotazione negativa di condanna. Esso è strettamente legato e conseguente al credere e al non credere: il credere sottrae il credente al giudizio di condanna; il non credere sottopone il non credente al giudizio di condanna a motivo della sua incredulità. Va subito evidenziato il significato del credere e del non credere, in che cosa esso consista e perché, quindi, vi siano destini così drammaticamente opposti. Vi sono due elementi che definiscono il senso del credere: a) il verbo “Ð pisteÚwn” (o pisteúon, lett. “il credente”), dapprima posto in senso positivo (v.18a), poi, in senso negativo (v.18b); b) la particella “e„j” (eis), dipendente da “o pisteúon”. Il verbo “o pisteúon” è un participio presente sostantivato; in quanto tale, esso indica non solo il protrarsi costante nel tempo del credere, evidenziando in tal modo la fedeltà al credere e, quindi, l'orientamento esistenziale del credente, ma indica anche la natura propria della persona che compie tale azione: essa non è una persona che ha la fede, ma che ha fatto della propria vita un atto credente; una vita che è qualificata dal credere. L'uso del verbo (credere), anziché del sostantivo (fede), indica come la fede non sia un concetto astratto, religioso o teologico, ma possiede in se stessa l'identica dinamica della vita. La particella “eis”, inoltre, esprime un moto a luogo, sottolineando una volta di più la dinamicità della fede, che permea la vita del credente. L' “eis” indica, pertanto, come questa vita credente sia orientata verso l'oggetto del suo credere, che diviene, pertanto, il centro del proprio interesse esistenziale. Un credere così definito parla di un radicato orientamento esistenziale verso Cristo e tale da qualificare e sostanziare ogni atto del proprio vivere. Non si tratta più di credere o non credere in qualcosa o a qualcosa, ma di vivere o non vivere in e per Cristo. È importante comprendere questo, poiché i vv.19-21 sottenderanno questo concetto di credente.
Se colui che crede non è soggetto al giudizio di condanna, lo stesso destino non è riservato a colui che non crede, che per questo “è già stato giudicato”. Quest'ultima espressione verbale è resa in greco con un perfetto, “kškritai” (kékritai, è stato giudicato), che indica come uno stato presente sia conseguente ad un'azione passata, a cui rimanda quel “già” (½dh, éde). Questo significa che la condizione di condanna, in cui “già” vive il non credente, proviene dal suo passato ed è concomitante ad un evento precedente: il suo non credere. Il v.18 termina, infatti, con la motivazione della condanna, che diviene, di fatto, uno stato di vita (“già”): “poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio”. Anche qui il verbo “pisteÚw” (pisteúo, credere) è posto, come per il verbo giudicare, al prefetto (pep…steuken, pepisteuken), esprimendo in tal modo come il non credere sia la condizione presente, che deriva da una decisione passata e che a tutt'oggi perdura. Ciò significa che il giudizio di condanna è insito nello stesso non credere. Infatti, “chi non crede è già stato giudicato”, ed è proprio quel “già” che lega il giudizio di condanna al non credere, creando una sorta di automatismo e di identificazione. Per Giovanni, infatti, il giudizio non è rimandato ai tempi escatologici, ma si compie “hic et nunc” e dipende dalla risposta esistenziale che l'uomo dà alla proposta salvifica, offertagli in Cristo.
vv.19-21: il v.18 attestava che “chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto”, da cui si evince come il giudizio sia strettamente legato al non credere. Il discorso poteva chiudersi qui, poiché risulta evidente l'importanza del credere per evitare il giudizio di condanna. Ma cosa significa credere o non credere? Da che cosa sono sottesi questi due comportamenti contrapposti? È sufficiente credere in qualcosa o fare qualcosa di buono, in conformità a quello che la nostra fede ci detta, per evitare il giudizio di condanna? E di conseguenza: qual è, in termini espliciti, il contenuto del giudizio? Sarà il compito di questi ultimi tre versetti a risolvere gli interrogativi e ad accendere una nuova luce sul senso del credere, andando ad interpellare l'intimità del cuore dell'uomo, la profondità e il segreto del suo essere.
Il v.19, agganciandosi al verbo giudicare, che compare due volte, sia in forma positiva che negativa, nel v.18, riprende il tema del giudizio: “Ora questo è il giudizio, che la luce è venuta nel mondo e gli uomini amarono più la tenebra che la luce; poiché le loro opere erano malvagie”. Si tratta di una sorta di enunciato morale, che troverà, poi, nei vv.20.21 la sua applicazione concreta. Due versetti questi che analizzeranno nelle sue pieghe più intime il comportamento dei credenti e dei non credenti.
Il v.19 si apre con un'espressione imperativa, che introduce il tema della pericope vv.19-21: “Ora questo è il giudizio”. Il termine giudizio è reso in greco con “kr…sij” (krísis), che significa anche sentenza, separazione, scelta, elezione, spiegazione, interpretazione. Sono tutti significati che completano, approfondendolo, il significato del giudizio. Ci si trova, dunque, di fronte ad una sentenza, che se, da un lato, fornisce una spiegazione sul contenuto del giudizio, dall'altro, instaura un principio discriminante, che opererà una scelta, creando una inevitabile separazione, che verrà illustrata dai vv.20.21.
La spiegazione del significato del giudizio di condanna si apre con un “Óti” (óti, che) dichiarativo, dando all'intero versetto il senso di una sentenza, che costituisce un principio di riferimento nella valutazione del comportamento degli uomini. La dichiarazione è scandita in tre parti:
la
prima è data da una constatazione di un evento storico, che
costituisce anche l'elemento discriminante: “la
luce è venuta nel mondo”.
Un'espressione questa che richiama da vicino, anche per il contesto
in cui è inserita, i vv.1,4-5 e 12,46. La luce, a cui qui si
allude, è Gesù, che in 8,12; 9,5 e 12,46 si autodefinisce luce del
mondo, mentre altri versetti si riferiscono a lui in modo
inequivocabile come “la luce” (1,7.8.9;12,35.36 ). Il verbo “è
venuta” (™l»luqen,
elélitzen)
è un perfetto, che indica un'azione passata, che produce i suoi
effetti nel presente e continua a produrli. Quel “è venuta nel
mondo” allude chiaramente all'incarnazione del Logos di Luce, che
pur transitato nella storia, per un breve spazio di circa 37 anni,
sta producendo ancora nel presente i suoi effetti per mezzo della
sua Parola rivelatrice e illuminante, che egli ha lasciato ai suoi.
Si tratta, quindi, di una presenza, che sotto forma di Parola,
rivela, illumina e interpella gli uomini. Solo per il suo esserci
essa si impone ad ogni uomo e lo spinge a prendere esistenzialmente
posizione nei suoi confronti. La reazione da parte dell'interpellato
può essere di accettazione/accoglienza o di indifferenza/rifiuto;
proprio per questo, per il suo semplice porsi in mezzo agli uomini
diventa un elemento discriminante.
La seconda parte del v.19 è strettamente collegata alla prima dalla congiunzione “kaˆ” (kaì, e), ed è posta in sua dipendenza: “e gli uomini amarono più la tenebra che la luce”. Il soggetto di questa espressione sono gli uomini, che proprio per la loro genericità, danno alla frase un tono di universalità. Si tratta di quegli uomini, che il v.1,4 definisce tenebre, per cui “la luce apparve nelle tenebre, e le tenebre non la colsero”; tenebre che, a loro volta, sono definite dai vv.1,10-11: il mondo dei pagani, che non conobbe la luce; e quello del giudaismo, che, invece, non l'accolse: “Era nel mondo, e il mondo avvenne per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero”. Entrambe le categorie sono significate nell'universalità del sostantivo “uomini”. Ora, questa seconda parte introduce un elemento molto importante, che aiuta a capire di che cosa qui si sta parlando e che cosa si intende quando si parla di giudizio e di tenebre, fornendo la chiave di lettura dei due versetti successivi, 20.21: “amarono più la tenebra che la luce”. Due qui gli elementi importanti: il verbo “amarono” e le due particelle, “più … che”, le quali innescano la comparazione tra “tenebre” e “luce”, mettendole in concorrenza tra loro. Il verbo qui usato per indicare l' “amare” è, a sorpresa, “¢gap£w” (agapáo)61. Un verbo inaspettato, poiché l'espressione verbale “agapáo”, nel linguaggio giovanneo, è riservata esclusivamente per indicare il rapporto tra Gesù e il Padre, tra Gesù e i suoi e i discepoli tra loro. Si tratta, dunque, di un amore squisitamente spirituale, che va a toccare le profondità dell'essere e che lega esistenzialmente i due amanti, creando un'affinità di vite, al cui interno circola la linfa vitale dell'amore, che è apertura esistenziale all'altro, donazione di sé e accoglienza dell'altro in sé. Anziché questo verbo così impegnativo, ci si aspetterebbe fƒlšw (filéo), che circoscrive l'area dei sentimenti e degli interessi. La scelta di “agapáo” anziché di “filéo” non è casuale, poiché tale verbo descrive meglio lo stato di vita degli uomini, che sono proiettati esistenzialmente verso le tenebre, che li pervadano, qualificando non solo il loro modo di essere, ma anche il loro stile di vita. L'uso di “agapáo”, quindi, dice quanto sia radicato nell'essere degli uomini il male, di cui sono compenetrati nelle profondità del loro essere. Vi è ancora un'altra volta soltanto, in cui il verbo “agapáo” viene usato per descrivere la distorsione spirituale degli uomini, là dove molti capi, che credevano in Gesù, non lo confessavano per timore dei farisei, perché “amarono, infatti, la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (v.12,43).
Vi
sono, poi, le due particelle “più
… che”
(“m©llon
... À”,
mâllon
… è),
le quali innescano un confronto tra le tenebre e la luce, aprendo di
fronte agli uomini un bivio, costringendoli in tal modo ad una
scelta, che, qui, è caduta sulle tenebre. Il motivo di tale scelta è
racchiuso in quel “amarono” (ºg£phsan,
egápesan),
che svela la tenebrosità del loro essere. Lo stesso identico
confronto compare nel già citato v.12,43, in cui ricorrono tutti tre
gli elementi del v.3,19 con l'identico schema: “egápesan
… mâllon
… è”. Anche
gli elementi di confronto sono sostanzialmente simili tra loro: in
3,19 il confronto è tra le tenebre e la luce; in 12,43 tra la
ricerca della gloria degli uomini e quella di Dio. Anche qui,
vincente sarà la ricerca della gloria degli uomini, perché permea
le profondità del loro essere (egápesan).
La terza parte del v.19 porta la prova testimoniale della tenebrosità, che permea le profondità dell'essere di questi uomini e che altrimenti non sarebbe visibile: “poiché le loro opere erano malvagie”. Quest'ultima parte del versetto è introdotta da un “g¦r” (gàr), che dà un senso dichiarativo e dimostrativo alla frase. L'espressione ha il suo parallelo nella riflessione matteana, dal sapore sapienziale: “Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere” (Mt 7,16-20). L'opera e l'operare sono espressioni caratteristiche della mentalità ebraica, che tende a legare il bene e il male, la religione e il culto al fare o al non fare, così che la religione stessa ne risulta una sorta di ortoprassi, che la fa scivolare in un asfissiante legalismo. Per questo le opere sono sempre dimostrative della bontà o malvagità di chi le compie e ne esprimono in se stesse il giudizio. Questo tipo di mentalità si ripercuoterà anche nei vv.20.21 in cui saranno dominanti due verbi del fare: “pr£ssw” (prásso, v.20) e “poišw” (poiéo, v.21), che esprimeranno, più che una valutazione morale sul fare o non fare, l'orientamento esistenziale di colui che opera e nel suo operare si riflette, qualificandone la vita.
I vv.20-21 costituiscono la conclusione e il vertice di quel“o‡damen” (oídamen, sappiamo, v.11) della comunità giovannea con il quale essa, da un lato, si contrapponeva all' “oídamen” di Nicodemo (v.2); dall'altro, presentava al giudaismo i fondamenti del proprio credere: dapprima la parte dottrinale (vv.13-15), poi quella teologica (v.16), infine quella teologico-morale (vv.17-21). L'aspetto morale, evidenziato in senso negativo, è stato definito dal v.19 come un orientamento esistenziale contro Dio, che intacca l'uomo nella profondità del suo essere ed ha come unica matrice il “non credere” (v.18), che si manifesta nella “malvagità delle opere”. Ed è a quest'ultima espressione che si aggancia il v.20, che inizia in forma sentenziale: “chiunque compie cose malvagie”, a cui si contrappone, per completezza di trattazione, l'espressione che apre il v.21 “colui che, invece, fa la verità”. I due versetti, strutturalmente posti in parallelo tra loro, delineano due comportamenti contrapposti, caratterizzati dal “non andare” o “andare” verso la luce. Il tema qui è squisitamente morale, perché propri del linguaggio morale sono i termini che vi ricorrono come i due verbi, che definiscono dei comportamenti, dei modi di agire: “prásso” e “poiéo”; come il cammino di vita, definito dall'andare o non andare verso. Non si tratta, ovviamente, di casistica morale, poiché il tema qui dissertato possiede i tratti dell'universalità (“chiunque compie”; “colui che fa”); inoltre l'attenzione è incentrata sull'orientamento esistenziale, che caratterizza e distingue il credente dal non credente (“non va verso la luce” e “va verso la luce”); e, infine, il tema del fare è preso in senso generico e non specifico (“cose malvagie” e “la verità”). E sono proprio questa universalità e questa atemporalità, che caricano di significato e di perenne validità i due versetti e aprono a nuove prospettive morali, concepite non più come violazioni di comandamenti divini, ma come orientamenti esistenziali, che pongono l'uomo contro Dio o a suo favore ed hanno ciascuno una propria matrice: il credere o il non credere, intesi come qualificati e qualificanti orientamenti di vita, che determinano l'apertura e l'accoglienza di Dio nel proprio vivere o, per contro, la chiusura e il rifiuto. Per definire questi due comportamenti Giovanni usa due espressioni, sue caratteristiche: “compie (“pr£sswn”, prásson) cose malvagie” e “fa (poiîn, poiôn) la verità”. È significativo come Giovanni per esprimere lo stesso concetto, “compiere, fare”, usi, a distanza ravvicinata e in confronto tra loro, due verbi diversi, entrambi appartenenti all'area del “fare”: “prásso” e “poiéo”. Il primo verbo, associato a “cose malvagie”, ha una significativa pluralità di accezioni oltre al “compiere”, che meglio definiscono il comportamento morale, inteso qui come orientamento di vita: “agisco, mi occupo di, attendo a, mi do pensiero per, lavoro per, opero per”. Come si può rilevare, il verbo “prásso” definisce non tanto una qualche trasgressione moralmente riprovevole, ma una forte tensione esistenziale verso il male in se e per sé, che qualifica come malvagio il vivere del non credente. È significativo, infatti, come il termine “faàla”, al neutro plurale, non è preceduto dall'articolo determinativo, ma viene preso in senso assoluto, attribuendogli il significato di malvagità. Il riferimento, quindi, qui, non è rivolto verso al compiere delle cose malvagie, bensì esprime la tensione esistenziale verso il male.
Il
verbo “poiéo”,
che qui è associato al termine “la verità”, pur significando
alla pari di “prásso”,
“fare, compiere”, tuttavia prende sfumature decisamente diverse
da “prásso”.
Il verbo “poiéo”
ha un significato di un fare più attivo e creativo, che rivela una
particolare propensione e inclinazione verso un qualcosa e che ha
attinenza con le parti più elettive della persona. Esso ha a che
fare con le attitudini e con le parti più creative e più nobili
dell'uomo. È un fare in cui si esprime al meglio lo spirito e genera
spiritualità; si tratta di un fare elettivo. Tra le numerose
accezioni di “poiéo”
riporto quelle più significative, come “costruire, dare forma,
generare, comporre, causare, suscitare, far sorgere, favorire, essere
inclini a, rappresentare, tenere in conto, considerare”. Il “fare
la verità”, quindi, ha a che vedere con il mondo dello spirito e
della spiritualità e rivela una persona disponibile a Dio, sensibile
ai suoi valori, tendente a porsi dalla sua parte e a cogliere le cose
dalla sua prospettiva; si tratta di una persona che, in modo attivo e
creativo, realizza in se stessa quella Verità a cui si è lasciata
informare, rendendosene, poi, testimone in mezzo agli altri. In altri
termini, è l'uomo nuovo, che, sensibile ai valori dello Spirito, a
cui si è conformato esistenzialmente, diviene collaboratore di Dio
nel suo piano di salvezza. “Fare la verità” significa dare
spazio alla verità, nella propria vita; una verità, la quale ha a
che fare con la rivelazione e la manifestazione attuatesi in Cristo
ed è espressione della luce divina apparsa in lui (1,14.17; 8,40.45;
17,17). Una Verità e una Luce che è Cristo stesso, colto come
rivelazione e manifestazione del Padre e del suo progetto di
salvezza, che opera in lui (1,4.5; 3,19; 8,12; 9,5; 12,46; 14,6).
Un ultimo appunto va
fatto sulla forma verbale dei due verbi: si tratta di due participi
presenti sostantivati (“p©j ... pr£sswn”
e “Ð de� poiîn”), che
indicano non solo un fare persistente e continuativo, ma esprime
anche la natura e, quindi, l'essere di compie e di chi fa.
Il “fare malvagità”
porta a due conseguenze: l'odio verso la luce, per cui il suo
muoversi non è verso la luce. L'odiare, espresso con il verbo
“mise‹” (miseî),
indica un atteggiamento di disprezzo nei confronti della luce, tale
da deviarlo dalla luce stessa, quasi per un senso di ripulsa. Il
motivo viene definito dall'ultima parte del v.20, introdotto dalla
particella “†na” (ína),
che dà un senso finale all'intera frase: “affinché
le sue opere non siano biasimate”. Il verbo biasimare
è posto al passivo (legcqÍ,
lenktzê) ed
indica l'intervento divino, che esprime il suo giudizio sulle azioni
stesse. Il verbo, infatti, non significa soltanto biasimare, ma anche
far vergognare, convincere del delitto, dell'errore. In altri
termini, “lenktzê”
lascia trasparire un giudizio in atto e che si compie nel momento in
cui l'operatore di iniquità si espone alla luce della verità
rivelativa, manifestatasi nel Logos Incarnato (1,5.10-11). Per questo
la rifugge. Un rifuggire che richiama da vicino gli eventi, che si
compiono al suono della sesta tromba dell'Apocalisse: “Allora
i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e
infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne
e fra le rupi dei monti; e
dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci
dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello,
perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può
resistere?” (Ap 6,15-17)
Diverso destino è
riservato, invece, per chi opera la verità: questi cammina verso la
luce ed è ad essa orientato, “affinché
le sue opere siano manifestate, poiché
sono
state compiute in
Dio”. L'andare verso la luce si riflette, dunque,
nelle opere stesse, che sono così rivelate come opere compiutesi in
Dio. Sono opere da cui traluce l'impronta della divinità. La
particella “™n
qeù” (en tzeô,
in Dio) indica uno stato in luogo, che colloca
il credente in Dio stesso, rendendolo partecipe della sua vita
divina. Egli, dunque, non solo va verso la luce, ma si muove nella
luce, che traspare dalle sue opere. Anche qui il verbo “manifestare”
è posto al passivo teologico (“fanerwqÍ”
fanerotzê),
per indicare come sia Dio l'autore del manifestare. Anche qui,
quindi, si sta compiendo il giudizio, che rende nota la gloria divina
che avvolge il vivere del credente, chiamato a lasciarla tralucere
nella testimonianza.
Il v.22
è di transizione, perché concludendo il racconto del dialogo
Gesù-Nicodemo, traghetta il lettore al racconto successivo, in cui
il Battista farà la sua ultima comparsa e darà la sua testimonianza
sulla provenienza divina di Gesù. Comparirà anche nei capitoli
successivi, ma sarà soltanto un ricordo e un richiamo62.
Il
v.22 si apre con un'espressione di tipo redazionale, che crea uno
stacco netto con il racconto precedente, ponendovi un punto fermo:
“Dopo queste cose”. Gesù è qui descritto mentre sta andando
nella terra di Giudea assieme ai suoi discepoli. Si tratta
probabilmente di una incongruenza, poiché Gesù, nel racconto di
Nicodemo, si trovava già a Gerusalemme durante la prima pasqua
(2,13.23) e, quindi, in Giudea. Forse l'autore intendeva dire che
Gesù, uscito da Gerusalemme, stava percorrendo la Giudea. Tuttavia,
in questo caso davanti all'espressione “t¾n'Iouda…an
gÁn”
(tèn
Iudaían
ghên,
regione giudaica) non doveva esserci la particella “e„j”
(eis),
che indica un moto a luogo, una specifica direzione verso cui si sta
andando, bensì la particella “di£”
(diá).
Probabilmente quel eis
sottintende una località precisa della Galilea, che viene indicata
subito, di seguito, al v. 3,22b, sotto forma di avverbio “e là
(™ke‹,
ekeî)
soggiornava con loro e battezzava”.
Se così è, a quale località della regione giudaica Giovanni faceva
riferimento? Essendo in Giudea, è probabile che Gesù si sia recato
dov'era prima Giovanni, a
Betania di Perea
(1,28),
dove egli era già stato e dove aveva raccolto i suoi primi discepoli
e dove vi ritornerà (10,40). Betania, infatti, è l'unica località
vicina al Giordano e, quindi, confinante con la Giudea.
Probabilmente, la vicinanza delle due regioni ha determinato lo
scambio di nomi: Giudea per Perea. Del resto il contesto geografico,
qui, è sostanzialmente irrilevante rispetto ai movimenti di Gesù.
Ma assume significatività con quanto viene detto al successivo
v.3,23. Infatti, il soggiornare e il battezzare con i propri
discepoli là dove Giovanni battezzava (1,28) significa averne preso
il posto e, quindi, in qualche modo, averlo sostituito. Un pensiero
questo, che verrà confermato dallo stesso Battista in 3,30: “Bisogna
che quello aumenti, che io invece sia diminuito”.
Gesù,
dunque, “là
soggiornava con loro e battezzava”
(3,22b), cioè in Betania di Perea. Il
termine da me tradotto come “soggiornava”, in greco è reso con
“dištriben”
(diétriben),
che letteralmente significa, con riguardo al tempo: indugiare,
ritardare, differire, mettere del tempo in mezzo. Questo verbo sembra
voler creare uno spazio temporale in cui Gesù viene collocato e
colto mentre battezzava. Un'attività che non gli era propria, ma di
Giovanni. È lui, infatti, che è definito dai Sinottici come il
Battista, cioè il Battezzatore per eccellenza. Questa allusione
all'attività battezzatoria di Gesù, posto a fianco e, poi, in
concorrenza con lo stesso Battista (3,26; 4,1), sembra indicare come
Gesù, agli inizi della sua attività, si sia associato al seguito di
Giovanni, divenendone discepolo e probabilmente condividendo, in un
primo tempo, la sua predicazione escatologica, anche se,
successivamente, se ne distaccherà (4,1-3) e l'autore del quarto
vangelo si affretterà a precisare che non era proprio lui a
battezzare, ma i suoi discepoli (4,2). Tuttavia, anche se l'autore si
affretta a negare l'attività battezzatoria di Gesù, assegnandola ai
suoi discepoli, quasi certamente per sottrarre Gesù dalla dipendenza
del Battista e dalle pretese del suo gruppo, nulla cambia in merito
al fatto che se essi battezzavano ed erano discepoli di Gesù, questo
significa che tutto il gruppo, Gesù in testa, era inserito nella
setta escatologica battista e ad essa apparteneva. Del resto, anche i
due verbi, dimorava e battezzava, posti all'imperfetto indicativo,
lasciano intendere che l'attività battezzatoria di Gesù assieme al
suo gruppo di discepoli non fu un episodio accidentale, ma
significativo. L'imperfetto indicativo, infatti, indica un'attività
ricorrente e persistente nel tempo; un'attività che si dilunga nel
tempo.
Il v.22 termina con il verbo “battezzava”, che forma da parola aggancio al racconto del Battista (vv.23-36) e in qualche modo lo introduce.
Commento ai vv. 23-36: l'ultima testimonianza di Giovanni: Gesù proviene dall'alto
Testo
23-
Ora, vi era anche Giovanni che battezzava in Enon vicino a Salim,
poiché là vi erano molte acque, e giungevano e si facevano
battezzare;
24-
infatti, Giovanni non era ancora stato gettato in carcere.
25-
Avvenne, pertanto, una discussione sulla purificazione da parte dei
discepoli di Giovanni con un Giudeo.
26-
E vennero da Giovanni e gli dissero: <<Rabbi, quello che era
con te al di là del Giordano, al quale tu hai dato testimonianza,
ecco, questo battezza e tutti vanno da lui>>.
27-
Rispose Giovanni e disse: <<Non può un uomo prendere in alcun
modo una cosa se non gli viene data dal cielo.
28-
Voi stessi mi date testimonianza che dissi che non sono io il Cristo,
ma che sono stato mandato davanti a quello.
29-
Chi ha la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che sta (là) e
lo ascolta, con gioia esulta per la voce dello sposo, pertanto,
questa mia gioia è compiuta.
30-
Bisogna che quello aumenti, che io invece sia diminuito.
31-
Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; colui che è dalla terra
è dalla terra e parla dalla terra. Colui che viene dal cielo è al
di sopra di tutti;
32-
ciò che ha visto e udito, questo testimonia, e nessuno accoglie la
sua testimonianza.
33-
Colui che accolse la sua testimonianza attestò che Dio è veritiero.
34-
Infatti, colui che Dio ha inviato dice le parole di Dio, poiché non
con misura dà lo Spirito.
35-
Il Padre ama il Figlio e tutto ha dato nella sua mano.
36-
Colui che crede nel Figlio ha la vita eterna; ma chi non obbedisce al
Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio rimane su di lui>>.
Note generali
La seconda parte del cap.3 è caratterizzata dalla testimonianza di Giovanni, l'ultima, che innesca un confronto tra se stesso e Gesù. Il v.23, infatti, inizia con l'espressione “Ora vi era anche (kaˆ, kaì, anche) Giovanni che battezzava”. Quel “anche” e “battezzava” legano la figura di Giovanni a quella di Gesù e le pongono tra loro a confronto. La testimonianza ha come cornice l'attività battezzatoria dei due (vv.22.23), che, in qualche modo, richiama la pericope 1,25-33, a cui, questa seconda parte, si lega anche per il richiamo ad essa del v.28; ma mentre in quest'ultima il confronto si svolgeva attorno al significato e alla qualità dei due battesimi, di acqua (vv.1,26a.31.33a) e di Spirito (v.1,33b), da cui si intuiva, come in filigrana, la distanza che intercorreva tra i due battezzatori (v.1,27), qui, in questa seconda parte del cap.3, il confronto avviene direttamente tra il significato, dal un punto di vista storico ed ontologico, delle due persone di Giovanni e di Gesù e il rapporto che intercorre tra loro.
Lo schema narrativo di questa seconda parte riprende sostanzialmente la prima: dialogo Nicodemo-Gesù, che sfocia in un lungo discorso di Gesù, in cui Nicodemo scompare nel nulla; qui, nella seconda parte, si ha il dialogo tra Giovanni e i suoi discepoli, che sfocia in un discorso del Battista, in cui i suoi discepoli scompaiono anch'essi nel nulla.
La struttura di questa
seconda parte si snoda in quattro momenti, i primi due (vv.23-26)
costituiscono una sorta di introduzione, finalizzata a dare un
contesto storico al discorso del Battista; i secondi due (vv.27-36),
riportando l'ultima testimonianza di Giovanni, sono incentrati sul
confronto tra lo stesso e Gesù:
I vv.23-24
introducono il contesto storico:
Giovanni battezzava in Enon, vicino a Salim e la gente accorreva a
lui per farsi battezzare (v.23). Viene precisato che il Battista non
era ancora stato incarcerato da Erode (v.24).
I
vv.25-26
forniscono il contesto immediato,
parallelamente a quello storico, si sviluppa in due momenti: a)
una disputa dei discepoli di Giovanni con un giudeo circa la
purificazione (v.25); b)
la segnalazione di questi a Giovanni che Gesù battezzava e la gente
accorreva da lui (v.26).
I
vv.27-30
riportano la prima parte della testimonianza di Giovanni, che
chiarisce i rapporti tra lui e Gesù e, quindi, implicitamente il
senso dei due battesimi, legati alle diverse dimensioni ontologiche
dei due, quella di Giovanni definita dai vv.28.29 e quella di Gesù
dai vv.31-36.
I vv.31-36 sono inseriti nel discorso, che Giovanni sta facendo ai suoi, ma in realtà, a motivo dell'alto contenuto teologico e cristologico, totalmente estraneo a Giovanni, sono da considerarsi la testimonianza dello stesso autore o della comunità giovannea, che riprendendo quella del Battista, sviluppa una densa riflessione cristologica, che soltanto il tempo post-pasquale poteva consentire.
Il commento
I
vv.23-24
ci passano un'informazione storica inedita di esclusiva fonte
giovannea: Gesù aveva iniziato la sua missione all'interno del
gruppo battista di Giovanni. Un gruppo, come appare dalla
predicazione del Battista, dalle spiccate tinte escatologiche ed
apocalittiche, il cui intento era preparare la venuta di Jhwh e il
suo giudizio finale, che egli portava con sé, spingendo gli uomini
alla conversione63.
Segno di questa conversione era il battesimo di acqua (Mc 1,4; At
13,24; 19,4). Molto probabilmente Giovanni64
proveniva dal mondo di Qumran, il suo abbigliamento essenziale, il
suo condurre la vita nel deserto fin dalla sua più tenera età (Lc
1,80), e il tenore della sua predicazione e i luoghi, in cui svolgeva
la sua attività predicatoria e battezzatoria, stigmatizzando anche
le immoralità del pubblico potere65,
fanno pensare a questa sua origine. La nota, inoltre, del v.24, il
quale attesta che “Giovanni non era ancora stato gettato in
carcere”, segna un limite di demarcazione tra l'attività pubblica
di Gesù, così come la apprendiamo dai Sinottici, e quella iniziata
all'interno del gruppo battista, come ci suggerisce il racconto
giovanneo. Questo sta a significare che Gesù ebbe a che fare con il
Battista e con lui operò attivamente fino all'incarcerazione e alla
morte di quest'ultimo. Il fatto che l'autore sottolinei questo
particolare dell'incarcerazione sembra voler precisare come
l'attività pubblica di Gesù fosse iniziata prima
dell'incarcerazione di Giovanni e come Gesù operò a suo fianco,
probabilmente come suo discepolo. Contrariamente, i Sinottici fanno
iniziare l'attività pubblica di Gesù dopo l'incarcerazione del
Battista, probabilmente per creare uno stacco netto tra Giovanni e
Gesù, preoccupati di rimarcare l'assoluta originalità della figura
di Gesù e della sua attività missionaria, salvaguardandolo dalle
pretese di superiorità dei battisti, che volevano anteporre il loro
maestro a Gesù e al suo discepolato. Gesù, quindi, ebbe un periodo
battista, che fu, probabilmente, un periodo di ricerca della propria
identità e della propria missione. Gesù, infatti, non è spuntato
dal nulla, ma, come ci suggerisce Luca, è cresciuto e “cresceva
in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”
(Lc 2,52). Quell'imperfetto indicativo, “cresceva” (proškopten,
proékopten,
progrediva, avanzava, andava avanti), parla di una crescita costante,
di uno sviluppo e di una maturità crescente ad ogni livello della
sua personalità. Gesù, del resto, pur essendo Dio, non ha fatto
finta di essere uomo, ma si assoggettò a tutti i ritmi e a tutti i
limiti propri della natura umana, fino a morire tragicamente sulla
croce. Gesù, dunque, inizialmente si mosse attorno al Battista e si
trovò spesso con lui prima ancora di aver costituito il suo gruppo
(1,29.35-36). Anzi, i suoi primi discepoli provengono proprio dal
gruppo di Giovanni (vv.1,35.37-39), mentre Gesù era ancora con lui.
Saranno probabilmente gli eventi che suggeriranno a Gesù di mettersi
per conto proprio e di proseguire la sua missione in modo
indipendente, staccandosi definitivamente dal Battista. Gli eventi
che determinarono il distacco definitivo da Giovanni furono
probabilmente due: da un lato, la sua incarcerazione e, poi, la sua
morte66,
con cui i Sinottici, narrativamente tolgono di mezzo una figura
ingombrante e danno il via all'attività pubblica di Gesù;
dall'altro, la crescente fama di Gesù che andava ad oscurare quella
del Battista, mettendo i rispettivi discepolati in antagonismo tra
loro67.
Un
ultimo appunto circa il contesto storico, che accomunò il Battista e
Gesù, va fatto sul battesimo di Gesù, esplicito nei Sinottici,
sottaciuto in Giovanni. Forse per non legare con nesso di dipendenza
Gesù a Giovanni, l'autore non parla in alcun modo del battesimo di
Gesù, anche se, pensando ai Sinottici68,
in qualche modo lo si potrebbe evincere dai vv.1,32.33; mentre per
attenuare i precedenti battezzatòri di Gesù con il Battista e,
quindi, la sua appartenenza al gruppo di Giovanni, l'autore precisa
“sebbene Gesù stesso non battezzasse, ma i suoi discepoli”
(4,2). Queste sottigliezze narrative vanno ricomprese all'interno di
una forte tensione tra cristianesimo e giudaismo e, in particolare,
tra i primi discepoli di Gesù e i battisti.
Il v.23 prosegue affermando che Giovanni “battezzava in Ennon vicino a Salim, poiché là vi erano molte acque”. Seguendo le indicazioni geografiche proposte dagli autori Galbiati e Aletti69, a cui qui ci atteniamo, individuiamo le due località nella Decapoli, nei pressi del Giordano e tra loro distanti circa 4 Km, pressapoco la stessa distanza che separa Ennon dal Giordano, la quale cosa renderebbe comprensibile perché Giovanni non battezzi nel Giordano, ma ad Ennon, il cui nome ebraico 'ēnōn significa fonte. Già il nome della località, quindi, dice come quel luogo fosse ricco di acque, confermato dalla stessa nota dall'autore: “poiché là vi erano molte acque”; una nota che forse intende spiegare il nome Ennon. Una località questa che, rispetto a Betania di Perea, dove Gesù si trovava a battezzare (cfr. sopra, pagg.35-36), dista circa 55 Km in linea d'aria. Anche se i due versetti sono posti l'uno di seguito all'altro (vv.22-23), dando l'impressione di una contiguità di luoghi, tuttavia, le località citate, dove Gesù e Giovanni battezzavano, erano a notevole distanza tra loro. Pertanto, la rivalità che sorse tra il discepolato di Gesù e quello di Giovanni (3,24) e che costrinse Gesù ad andarsene in Galilea (4,1-3) al fine di evitare spiacevoli confronti, anche se qui è riportata in forma episodica e contestualizzata, doveva essere, in realtà, una situazione che si era venuta a creare nel tempo, quando Gesù, inizialmente seguace di Giovanni e del gruppo dei battisti, se ne staccò formando una propria cellula con discepoli, distaccatisi dal gruppo dei giovanniti (1,35-37) e la sua fama incominciava a diffondersi, così che “tutti vanno da lui” (v.26c).
Il v.23 termina con
l'annotazione che “giungevano
e si facevano battezzare”. Il soggetto, anche se
sottinteso, è evidente: si tratta delle persone che accorrevano dal
Battista per farsi battezzare. L'annotazione non è casuale né
tantomeno innocua, ma costituisce un elemento di raffronto con quanto
viene detto al v.26c. Infatti, mentre nel v.23c il soggetto è
lasciato volutamente sottinteso e non è enunciato in termini
quantitativi, il v.26c, in riferimento a Gesù, attesta “ecco,
questo battezza e tutti vanno da
lui”. Vi è, dunque, un intenzionale spostamento
di baricentro da Giovanni a Gesù, che si opera sulla quantità delle
persone che accorrono verso i due battezzatori: tutti convergono
verso Gesù e non più su Giovanni, così che gli stessi suoi
discepoli ne fanno lagnanza con il proprio maestro (v.26). Viene qui
preannunciato l'accrescere di Gesù e il diminuire di Giovanni
(v.30). Contrariamente nei Sinottici l'attività battezzatoria di
Giovanni è sempre accompagnata da un grande afflusso di folle di
ogni strato sociale (cfr. Lc 3,7ss), provenienti da ogni parte della
Giudea verso Giovanni, dando in tal modo centralità e rilevanza alla
sua figura, che diviene il loro comune punto di convergenza e di
incontro70.
Tuttavia, i Sinottici sapranno ricondurre le cose al loro giusto
verso, spostando l'attenzione di tutti dal Battista a Gesù e lo
faranno in due modi: da un lato, liberando la scena dall'ingombrante
figura di Giovanni, attraverso la sua incarcerazione e la sua morte;
dall'altro, incentrando l'attenzione sugli inizi dell'attività di
Gesù, con dei sommari, che ne esaltano la figura, come avviene in Mt
4,23-25: “Gesù
percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e
predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di
malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si sparse per tutta
la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie
malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li
guariva. E grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla
Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano”;
e similmente in Luca, anche se in modo meno sontuoso di Matteo, ma
non meno significativo ed efficace: “Gesù
ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama
si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e
tutti ne facevano grandi lodi” (Lc 4,14-15).
I vv.25-26
formano il contesto immediato al discorso di Giovanni. Sono due
versetti narrativamente incomprensibili, perché privi tra loro di un
legame logico e, comunque, dai rispettivi contenuti molto diversi e
non collegabili tra loro, non almeno immediatamente. L'unica voce che
potrebbe in qualche modo fungere da tenue collegamento tra i due
versetti, dandone una sorta di giustificazione logica, anche se molto
spinta, è la discussione sulla purificazione; ma cosa centri questa
con il fatto che Gesù battezza più di Giovanni non ci è dato di
comprendere. Lo stesso Brown in una nota di commento al v.25 rileva
che “Il rapporto tra la discussione e ciò che segue nel v.26 non è
chiaro. Dobbiamo forse pensare che essa fosse sul rispettivo valore
dei battesimi di Giovanni il Battista e di Gesù? ”71.
In effetti, qui ci troviamo di fronte a due versetti narrativamente
inconciliabili tra loro e irriducibili l'uno all'altro. Il sospetto
che sorge è che il v.25 sia spurio rispetto al contesto in cui si
trova inserito e che sia un probabile residuo di un precedente
racconto, in cui si doveva porre a confronto il valore dei due
battesimi, poi successivamente soppresso, per lasciare spazio al
testo attuale. Diverso discorso va fatto, invece, per il v.26 il
quale si inserisce perfettamente nel contesto ed è legato con filo
logico e narrativo al resto della pericope 3,27-30. Infatti, le
rimostranze che i discepoli fanno al loro maestro circa il crescente
numero di persone che vanno da Gesù, lasciando sottintendere un
certo deflusso da loro maestro, la lagnanza altrimenti non avrebbe
senso, si lega molto bene al v.30 e ne costituisce, in un certo qual
modo il preambolo: “Bisogna
che quello aumenti, che io invece sia diminuito”.
Inoltre, come già si è visto sopra nel commentare l'ultima parte
del v.23 (pag.
39),
il v.26 funge da confronto tra l'accorrere della gente da Giovanni,
quantitativamente non evidenziato (v.23c), e l'accorrere delle folle
da Gesù, quantitativamente sottolineato: “tutti
vanno da lui”. Il v.26, pertanto, lega con tutto il contesto in cui
è inserito, contrariamente al v.25, che rimane totalmente isolato ed
estraneo all'intero contesto. Di certo non si può parlare di una
interpolazione, quindi, si deve concludere che esso rappresenta
soltanto un residuo di un precedente racconto, poi soppresso.
Benché
il v.26 sia compatibile con il resto del testo e venga promosso
rispetto al v.25, tuttavia, presenta un'incongruenza narrativa. I
discepoli di Giovanni si lamentano che colui al quale egli aveva reso
testimonianza, sta battezzando anche lui e tutti accorrono a lui. Si
tratta ovviamente degli stessi discepoli, che erano presenti al
momento della testimonianza, considerato che la citano. Ma se così è
perché si lamentano che tutti accorrono a lui? In quell'occasione il
loro maestro aveva indicato Gesù come l'Agnello di Dio che toglie il
peccato del mondo (1,29.36); come colui sul quale si era posato lo
Spirito Santo e che avrebbe battezzato in Spirito Santo (1,33b); in
quell'occasione almeno due dei discepoli di Giovanni lasciarono il
loro maestro per seguire Gesù, avendone compreso il valore (1,37) e
se ne fanno testimoni. Nessuno, per questo si è stracciato le vesti
o li ha accusati di tradimento. Fu Giovanni stesso a indicarlo loro
perché lo seguissero. Perché, dunque, ora si lamentano perché
tutti vanno da Gesù? Anzi, ci si dovrebbe chiedere perché loro
siano rimasti con Giovanni. Non deve stupire questa incongruenza, una
tra le numerose che percorrono il racconto giovanneo72,
considerata la sua lunga e tribolata gestazione e le sue numerose
redazioni73.
Ciò che, invece, interessa è il suo messaggio. Il v.26 è scandito
in tre parti:
I discepoli vanno da Giovanni, un movimento che viene espresso dal verbo “œrcomai” (ércomai, andare, venire) seguito dalla particella “prÕj”, che dice l'andare verso, indicando la direzione, l'orientamento. Erano, dunque, discepoli ancora legati al loro maestro; non hanno saputo cogliere la pienezza del suo messaggio, che indicava loro la luce (1,15.29-34), che si stava profilando all'orizzonte e che ha spinto, invece, altri, Andrea e il discepolo innominato (1,40), a dare una svolta alla loro vita con la sequela. Essi furono indicati come due discepoli alla ricerca, evidenziando in tal modo la loro spinta spirituale evolutiva. A loro, infatti, Gesù si rivolge, chiedendo “Che cosa cercate?” (1,38) e li invita alla sequela: “Venite e vedrete” (1,39a) ed essi andarono e videro (1,39b). Essi si rivolsero a Gesù definendolo “Rabbi”74, un titolo questo che in Giovanni ricorre 8 volte, 7 delle quali è rivolto a Gesù e soltanto una, qui, in 3,26, è attribuito al Battista dai propri discepoli. Un segnale in più che indica come questi discepoli consideravano Giovanni come il vero maestro, non avendo ancora colto la grandezza spirituale e ontologica dell'altro Rabbì. Sono discepoli che hanno fatto la loro scelta esistenziale, quella di rimanere nel loro mondo antico, che precluse loro ogni comprensione del nuovo mondo, che si stava aprendo davanti a loro. Per questo essi vedono in Gesù un rivale, che può nuocere al loro maestro e, in ultima analisi, al loro orgoglio di discepoli battisti.
La seconda parte del v.26 richiama la testimonianza di Giovanni, data in 1,26-34. Gesù, qui, non è nominato, ma definito solo attraverso un richiamo alla testimonianza del Battista. Il nome nel mondo antico e in quello semitico in particolare esprime l'identità e l'essenza stessa della persona. Chiamare per nome, quindi, significa entrare in una stretta relazione con la persona nominata, instaurare un rapporto e una comunione. Ma qui Gesù non è raggiunto dai discepoli del Battista attraverso il nome, ma soltanto in modo anonimo, attraverso la testimonianza del loro Rabbì. Essi, quindi, guardano a Gesù in modo distaccato, come ad uno sconosciuto. La frattura, quindi, tra il gruppo battista e quello di Gesù è messo ulteriormente in evidenza.
3. La
terza parte del v.26 riporta il vero problema: “questo
battezza e tutti vanno da lui”.
Ancora una volta Gesù è definito in modo anonimo dal discepolato
di Giovanni: “questo” (oátoj,
ûtos).
Ancora nessun legame con il nuovo Rabbì, nessuna comunicazione e
tantomeno nessuna comunione. Per loro Gesù è ancora un estraneo;
eppure loro stessi danno testimonianza che un nuovo evento è
apparso, verso il quale tutto si sta orientando: “tutti vanno da
lui”. La loro incapacità di leggere il nuovo evento li rende
ostili ad esso, muovendosi nei suoi confronti soltanto con
sentimenti umani di gelosia e di rivalità. Forse per questo Gesù è
indicato dai discepoli del Battista soltanto con dei pronomi:
“quello”, “questo, “lui”.
Va
rilevato, infine, come il v.26 si apra con l'identica espressione con
cui si chiude, ma indicando contrapposte direzioni: in apertura
abbiamo i discepoli battisti che “andarono da Giovanni” (Ãlqon
prÕj tÕn 'Iw£nnhn,
êltzon
pròs tòn Ioánnen);
in chiusura, invece, si rileva che “tutti vanno da lui (Gesù)”
(p£ntej
œrcontai
prÕj aÙtÒn,
pántes
ércontai
pròs autón).
Forse una nota polemica dell'evangelista nei confronti del gruppo
battista: loro sono ancora orientati e legati alla realtà
veterotestamentaria, mentre ormai tutti si stanno orientando verso la
vera luce. Un nuovo battesimo si è profilato all'orizzonte: quello
dello Spirito, che inaugura i tempi nuovi, sognati dai profeti75,
mentre loro sono ancora vincolati a quello dell'acqua (1,26.33).
vv.27-30: se con la pericope 1,19-28 Giovanni ha delineato alla commissione d'inchiesta, proveniente da Gerusalemme, la sua identità, indicando il senso del suo battezzare e, quindi, della sua missione (1,31), con questi versetti egli definisce se stesso in rapporto a Gesù. Per farlo ricorrerà, da un lato, alla sua precedente testimonianza (v.28); dall'altro, introdurrà un significativo elemento di paragone tra l'amico dello sposo e lo sposo (v.29), per giungere, infine, alla conclusione che Gesù deve affermarsi, mentre lui deve cedergli il passo (v.30). Il cuore della testimonianza, rafforzata dal rimando del v.28 ad una sua precedente testimonianza (1,20.27.30), è incentrata sul v.29. A loro volta i vv.28.29 sono inclusi da due sentenze (vv.27.30), che evidenziano come il rapporto Gesù/Giovanni faccia parte di un piano divino.
Il v.26 terminava con il
motivo della doglianza dei discepoli giovanniti: “ecco,
questo battezza e tutti vanno da lui”. Il v.27,
tacitamente riferendosi alla rimostranza, ne inquadra la risposta
all'interno di una sentenza dai ritmi sapienziali: “Non
può un uomo prendere in alcun modo una cosa se non gli viene data
dal cielo”. L'attestazione è generica e assume toni
di universalità. Viene stabilito una specie di principio generale,
che vale per tutti e, quindi, anche per Gesù. Viene, dunque, fornita
una sorta di chiave di lettura degli eventi della storia della
salvezza, che, pur popolata dagli uomini, viene condotta da Dio. Lo
stesso principio viene applicato a Pilato, il quale si arrogava il
potere di decidere sulla vita o sulla morte di Gesù. A tale pretesa
il Gesù giovanneo applicherà questo stesso principio: “Non
avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato dall'alto”
(19,11a). Un principio questo che traspare anche dai vv.1,12-13: “Ma
quanti lo accolsero, diede
loro potere
di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali
non
da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo,
ma da
Dio vennero generati”. La salvezza dipende da
Dio, non dall'uomo. Il sottofondo di questa sentenza risente del
pensiero sapienziale, che tutto fa dipendere da Dio, al di là delle
pretese umane: “All'uomo
appartengono i progetti della mente, ma dal Signore viene la
risposta” (Prv 16,1); “Nel
grembo si getta la sorte, ma la decisione dipende tutta dal Signore”
(Prv 16,33); “La
vostra sovranità proviene dal Signore; la vostra potenza
dall'Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i
vostri propositi” (Sap 6,3); “Bene
e male, vita e morte, povertà e ricchezza, tutto proviene dal
Signore” (Sir 11,14). Similmente Giobbe fa di
Dio la fonte unica e assoluta, da cui sgorga sia il bene che il male
(Gb 1,21; 2,10). Il battezzare di Gesù, verso cui tutti vanno, va,
dunque, letto come il realizzarsi e il manifestarsi di un progetto
divino. In questa stessa ottica va compreso il v.30, che si lega al
v.27, diventandone consequenziale e complementare: “Bisogna
che quello aumenti, che io invece sia diminuito”.
L'intero versetto è posto sotto l'egida di quel “de‹”
(deî,
bisogna), che lascia trasparire come il crescere di Gesù e il
diminuire di Giovanni obbediscano ad un piano salvifico, che proviene
da Dio stesso. Un piano che traspare anche dal verbo diminuire, posto
al passivo76
(™lattoàsqai, elattûstai,
sia diminuito), che lascia intendere come l'azione del diminuire
proviene da Dio stesso. Quindi, se la popolarità di Giovanni sta
scemando, poiché “tutti
vanno da lui”, significa che questo rientra in un
piano divino. La motivazione di questo travaso di notorietà e di
affermazione viene fornita dai vv.28.29, con i quali si definisce
l'identità di Giovanni nel suo rapporto con Gesù.
Il v.28, chiamando in
causa come testimoni proprio quegli stessi discepoli, che si stanno
lagnando della crescente notorietà di Gesù, rimanda alla prima
testimonianza, che Giovanni ha dato di sé, a cui essi stessi avevano
assistito (1,19-27.30.31). Il richiamo alla prima testimonianza
costituisce, qui, una sorta di premessa introduttiva e complementare
al v.29, così che quest'ultimo versetto va legato alla precedente
testimonianza e, a sua volta, la completa. Per il commento al v.28,
pertanto, essendo un richiamo a 1,19-27.30.31, rimando a quello qui
richiamato.
Il v.29 costituisce una novità rispetto all'intera testimonianza, poiché oltre a specificare la posizione di Giovanni nei confronti di Gesù, introduce anche il tema dello sposo, richiamandosi ad una tradizione ebraica77. L'amico dello sposo era una figura caratteristica dello sposalizio ebraico. Questi fungeva da cerimoniere e doveva occuparsi della buona riuscita della festa. Tra i suoi compiti vi era anche quello di essere testimone della verginità della sposa, annunciandola ai commensali in attesa. La sera del primo giorno di festa i due sposi si appartavano in una stanza, separata dal resto da una tenda, dietro la quale vi era l'amico intimo dello sposo, che assisteva, standosene fuori, al primo rapporto tra gli sposi. Allorché lo sposo riscontrava che la sposa era vergine, lanciava un grido di gioia. Avvenuta la deflorazione, lo sposo consegnava all'amico il telo macchiato di sangue della sposa, prova della sua verginità. Con questo l'amico ritornava dai commensali ad annunciare che lo sposo ha gridato e mostrava loro il telo macchiato di sangue, tra le urla di gioia e gli applausi dei presenti. L'amico, poi, ripiegato il telo, lo consegnava ai genitori della sposa, al fine di evitare contestazioni future o calunnie da parte dello sposo. Qualora, invece, la sposa non fosse stata trovata vergine, allora, veniva ripudiata dal marito e denunciata al tribunale, che poteva condannarla alla lapidazione. La questione della verginità della sposa era regolamentata da Dt 22,13-21.
Questo il contesto storico e culturale in cui si colloca il v.29, che viene scandito in tre parti:
il versetto si apre richiamando un'immagine sponsale, che nell'A.T. definiva il rapporto di alleanza tra Jhwh e il suo popolo e che qui funge da premessa al versetto: “Chi ha la sposa è lo sposo”. Il verbo “œcwn” (écon, colui che ha) ha il significato di possedere, nel senso di avere la proprietà. La sposa, infatti, era considerata di proprietà dello sposo alla stessa stregua delle altre sue proprietà. Significativo, in tal senso, è Dt 20,17: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”. Il marito è chiamato il ba' al della sua donna, cioè il suo padrone, come egli è il ba' al di una casa, di un campo o di un qualsiasi animale. La donna sposata, quindi, era proprietà del suo ba' al. Non a caso il verbo sposare in ebraico ha la stessa radice di “divenire padrone”. La moglie, infatti, veniva acquistata attraverso il mohar, una somma di denaro, che il marito era tenuto a versare al padre della sposa78. Per questo la verginità della sposa aveva notevole rilevanza, poiché verginità era sinonimo di proprietà esclusiva. Ed è attorno a questo tema della proprietà della sposa, che si forma la teologia sponsale del rapporto tra Jhwh, lo sposo, e Israele, la sposa. Ai piedi del Sinai Dio si rivolge a Israele, definendolo “sua proprietà tra tutti i popoli” (Es 19,5); Is 62,3-5 canterà il rapporto del nuovo Israele, ritornato dall'esilio babilonese (597-538 a.C.), con Jhwh come un rinnovato rapporto tra sposi: “Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”79. Per questo Jhwh è anche un Dio geloso, che non ammette altre divinità concorrenti, pretendendo dal suo popolo l'esclusiva (Es 20,3-6) e punendo “la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi” (Es 20,5-6). Il tema dell'Alleanza tra Jhwh e il suo popolo è letto in termini di rapporto sponsale, per questo Israele è considerato di esclusiva proprietà di Jhwh, a Lui consacrato. Similmente, in Gv 1,11, si attesta che il Logos “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero”. Un versetto significativo questo, perché costituisce il ponte di passaggio da Jhwh al Logos; il momento in cui Gesù, nei suoi rapporti con Israele, prende il posto di Jhwh. Per questo Gesù è letto come lo sposo e la chiesa, il nuovo Israele, che gli corre incontro per farsi battezzare da lui, come la sposa80.
Richiamato il principio che Gesù è lo sposo e che Israele è la sposa, ora Giovanni passa a definire il suo rapporto nei confronti dello sposo: egli è l'amico dello sposo, che ha il compito di condurre a lui la sposa, ma non può possederla. Egli, quindi, non può comportarsi come uno sposo, accaparrando per sé quell'Israele, che i profeti vedevano come la sposa di Jhwh. Non ha, dunque, senso la lagnanza dei suoi discepoli che “tutti vanno da lui”, poiché è la sposa che sta accorrendo dal suo sposo. Quale dunque la posizione di Giovanni nei confronti di Gesù? Essa è definita da tre verbi: “Egli è colui che sta là” (Ð ˜sthkëj, o estekòs); “egli è colui che ascolta” (¢koÚwn, akúon) lo sposo; “egli è colui che esulta di gioia” (car´ ca…rei, carâ caírei) all'udire la voce dello sposo. Come l'amico dello sposo non entra nella stanza nuziale, ma se ne sta fuori, così anche Giovanni viene definito come “colui che sta là”. Un'espressione questa che già abbiamo trovato in 1,35, dove ricorre lo stesso verbo “eƒst»kei” (eistékei, stava là), posto all'imperfetto indicativo, per indicare la persistenza della sua posizione: egli è relegato al mondo della Promessa, al mondo dei Profeti, per questo egli rimane fuori dalla stanza nuziale, cioè non fa parte della nuova realtà, che invece è chiamato ad indicare al nuovo Israele, a quell'Israele che ha saputo riconoscere in Gesù il suo sposo. “Egli è colui che ascolta” lo sposo. Ascoltare. Un verbo che dice la tensione interiore dell'ascoltatore, che tende l'orecchio per cogliere la voce dello sposo e crea dentro di sé lo spazio per accoglierlo, ma non per trattenerlo, ma per donarlo. Ascoltare, infatti, significa creare il vuoto dentro di sé per accogliere l'altro; creare il silenzio in se stessi per lasciar risuonare la voce dell'altro. È la posizione di chi indaga per capire, per cogliere il senso degli eventi, che si stanno compiendo, e, soprattutto, per cogliere l'evento che sta accadendo: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3). Giovanni sente dal carcere, ode le gesta di questo nuovo evento, ascolta e si va interrogando. È questa la posizione del profeta, chiamato a leggere i segni dei tempi per indicarli agli altri. Se il profeta è la voce di Dio in mezzo al suo popolo, vero è che questa voce non è nata dal nulla, ma ha risuonato prima nell'ascolto del profeta. “Egli è colui che esulta di gioia” alla voce dello sposo. Non si tratta di una semplice gioia, ma di un'esultanza nella gioia; una sorta di stato di esaltazione gioiosa, che nasce all'interno del contesto dello sposalizio tra lo sposo Gesù e il nuovo Israele, quello fedele, la sposa vergine, che sta correndo verso il suo sposo. Per questo Giovanni sente il grido di gioia dello sposo e, a sua volta, esulta e gioisce con lo sposo, perché esso ha trovato la sua sposa vergine. Si tratta, dunque, non dell'Israele veterotestamentario, ma di quello che si è mantenuto fedele a Dio; di quell'Israele, giusto e timorato di Dio, che aspettava il suo conforto (Lc 2,25); di quell'Israele che attendeva la sua redenzione, il suo riscatto (Lc 2,38); di quell'Israele, che ha saputo riconoscere in Gesù il suo sposo e corrergli incontro (1,12-13; 3,26c), come le vergini prudenti, che all'arrivo del loro sposo furono trovate pronte ed entrarono con lui nella gioia (Mt 25,10); mentre i discepoli giovanniti, legati ancora alla legge mosaica81, non hanno saputo cogliere la novità testimoniata e annunciata dal loro maestro (1,23-35) e “sono rimasti là” (1,35) con lui. Il contesto, dunque, parla di nozze messianiche, il cui banchetto già è stato celebrato nelle nozze di Cana (2,1-11). L'esultanza e la gioia di Giovanni, dunque, si inserisce nel contesto dei tempi messianici, che Giovanni vede compiersi in Gesù. È la stessa esultanza e la stessa gioia che ha avvolto il padre Abramo nel vedere il giorno del compimento: “Il vostro padre Abramo esultò nel vedere il mio giorno, e vide e gioì” (8,56). È quella stessa esultanza gioiosa, che canta l'Apocalisse, perché sono giunte le nozze dell'Agnello e la sua sposa è pronta: “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze dell'Agnello; la sua sposa è pronta” (Ap 19,7). Si tratta di una gioia che nasce da un'attesa compiuta.
Il v.29 termina con la constatazione di Giovanni: “pertanto questa mia gioia è compiuta”. Tutto il peso di questa espressione va a cadere sul verbo “pepl»rwtai” (peplérotai, è compiuta), un piuccheperfetto, che indica uno stato presente, conseguente ad un'azione passata. Questo tempo verbale, pertanto, lega la gioia di Giovanni all'evento Gesù, che dà compimento alle attese dei profeti e attua le promesse che Jhwh aveva fatto ai Padri. La compiutezza di questa gioia dice che il tempo dell'attesa è terminato e come Gesù ne sia la pienezza. Marco, significativamente, fa iniziare l'attività missionaria di Gesù con l'annuncio del compimento dei tempi: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Anche qui compare lo stesso verbo posto al piuccheperfetto, che lega il compimento al compiersi dell'evento Gesù: “peplérotai”, lo stesso verbo e lo stesso tempo verbale usato da Giovanni per annunciare la compiutezza della sua gioia, legata al compiersi dei tempi messianici. Lo stesso Paolo, rivolto alle sue comunità della Galazia, attesta loro: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.” (Gal 4,4-5); e così l'autore della lettera agli Efesini, nello stupendo inno cristologico (Ef 1,3-14), ricorda alla sua comunità come “egli (Dio) ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,9-10); e similmente la Lettera agli Ebrei evidenzia come la venuta di Gesù abbia dato compimento al tempo delle attese e della salvezza: “E ora, invece una volta sola, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9,26b). La venuta di Cristo, dunque, decreta il tempo della pienezza, in cui tutte le promesse e tutte le attese hanno trovato in lui la loro piena realizzazione. Tutto ciò fa di Cristo il cuore del mondo, che nella risurrezione ha assunto la dimensione del il Cristo cosmico (Ef 1,4.10), quel punto Omega, elaborato da Teilhard de Chardin, verso cui si evolve, dal meno al più, l'intera creazione.
vv.31-36:
questa pericope è stata inserita nel contesto del discorso di
Giovanni ai suoi discepoli, ma i suoi contenuti cristologici sono
decisamente molto elevati per poter pensare che il Battista possa
averli pronunciati. Qui non si riflette il pensiero del Battista, ma
quello dell'autore. Basti confrontare i vv.27-30 con questi per
rendersi conto della notevole differenza. La sua provenienza, quindi,
è chiaramente di marca giovannea. Questa pericope costituisce il
secondo discorso dei diciotto82,
che popolano il racconto giovanneo ed è stata inserita qui
dall'autore molto probabilmente per completare e rafforzare la
risposta che il Battista ha dato ai suoi (vv.27-30), sostanziandola
con contenuti teologici e cristologici, che la comunità giovannea
aveva sviluppato, contrapponendoli, quindi, alle pretese del gruppo
dei giovanniti. Si tratta di una pericope, che potremmo definire di
sintesi mirata, che di fatto non dice niente di nuovo, ma raccoglie,
qua e là, in modo sparso, temi teologici e cristologici contenuti
nei capp. 1 e 3, ma che risuoneranno, quasi come un'eco, anche in
tutto lo scritto giovanneo, riproponendoli qui con funzione di
risposta ai discepoli di Giovanni, che si lagnavano del deflusso
della gente dal loro maestro verso Gesù (“tutti vanno da lui”).
Giovanni si era limitato a richiamare la propria testimonianza (v.28)
e a presentare se stesso come l'amico dello sposo (v.29), concludendo
che, in quanto tale, egli doveva diminuire e Gesù aumentare (v.30).
L'attenzione, quindi, doveva spostarsi da lui a Gesù. Ma per
sostenere questo passaggio non vi era nessuna motivazione teologica o
cristologica, se si esclude il v.27, che potremmo definire di
teosofia. La pericope vv.31-36 integra, pertanto, la parte mancate di
cristologia e di teologia, che delinea maggiormente la figura di
Gesù, assegnandole e giustificandone il peso dato.
La pericope dei vv.31-36 è scandita in due parti:
un'attestazione di cristologia discendente, che fornisce la motivazione sia teologica che cristologica della superiorità di Gesù rispetto a Giovanni (vv.31-34);
e un'attestazione di cristocentrismo, che giustifica l'accorrere delle genti da Giovanni a Gesù (vv.35-36).
Tutti i versetti di questa pericope, come vedremo subito, sono una sorta di ripescaggio tematico dai capp. 1 e 3 e ne fungono da sintesi conclusiva, che l'autore qui attribuisce all'autorità di Giovanni. Si noti come tutti i soggetti della pericope 3,31-36 non sono nominati, ma sostituiti da pronomi, dando in tal modo spazio a diverse possibili interpretazioni. Ad es. il v.32a dice “ciò che ha visto e udito, questo testimonia e nessuno accoglie la sua testimonianza”; ma chi è il soggetto? Può essere il Logos incarnato, quasi certamente; ma non è da escludere Giovanni, venuto per dare testimonianza alla luce e non è stato creduto83; ma potrebbe essere lo stesso discepolo prediletto, che, quale testimone diretto, dà la sua testimonianza (1Gv 1,1-4), ma non è creduto dai Giudei e dal gruppo dei giovanniti. Similmente il v.34 dice: “Infatti, colui che Dio ha inviato dice le parole di Dio”, qui il soggetto sembra essere Gesù, visto che si attesta che “non con misura dà lo Spirito”; ma potrebbe essere anche Giovanni, di cui si dice che “Venne un uomo, inviato da Dio, egli (aveva) nome Giovanni; questi venne per testimonianza, per testimoniare sulla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui”. E così potremmo continuare per gli altri versetti. Sorge, pertanto, il sospetto che qui l'autore abbia volutamente puntato sull'anonimato dei soggetti, per condensare attorno a questi versetti le diverse tematiche dei capp. 1 e 3, che in qualche modo li richiamano, ed hanno per soggetti in chiaro il Logos, Gesù e Giovanni, cioè i fulcri sorgivi della rivelazione e dell'iniziale storia della salvezza neotestamentaria.
Fatta questa debita premessa e seguendone la logica, si avrà:
v.31: “Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; colui che è dalla terra è dalla terra e parla dalla terra. Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti” riflette in se stesso: il v.3: “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito”; il v.13: “E nessuno è salito al cielo se non colui che dal cielo è disceso, il Figlio dell'uomo”; il v.1,14a: “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi”;
v.32-33: “ciò che ha visto e udito, questo testimonia, e nessuno accoglie la sua testimonianza. Colui che accolse la sua testimonianza attestò che Dio è veritiero” richiama in se stesso il v.11: “In verità, in verità ti dico che (noi) diciamo ciò che conosciamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto, e (voi) non accogliete la nostra testimonianza”; il v.1,18: “Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò”; i vv.1,9-13: “Era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che viene nel mondo. Era nel mondo, e il mondo avvenne per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero. Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati.”
v.34: “Infatti, colui che Dio ha inviato dice le parole di Dio, poiché non con misura dà lo Spirito” ha la sua risonanza in 1,6-8: “Venne un uomo, inviato da Dio, egli (aveva) nome Giovanni; questi venne per testimonianza, per testimoniare sulla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. Non era quello la luce, ma (venne) per testimoniare sulla luce”; e ancora in 1,18: “Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò”
v.35: “Il Padre ama il Figlio e tutto ha dato nella sua mano”, un versetto fortemente cristocentrico, che trova la sua eco nei vv.16-18, da cui si evince la centralità di Cristo nell'opera salvifica del Padre: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio”; così come nei vv.1,16-17: “Poiché dalla sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su grazia; poiché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità avvenne per mezzo di Gesù Cristo.”
v.36: “Colui che crede nel Figlio ha la vita eterna; ma chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio rimane su di lui” richiama i temi dei vv.1,10-13 e quelli degli appena citati vv.16-18.
Il v.31, similmente al v.27 con cui si apre il discorso di Giovanni, introduce una riflessione cristologica e teologica in forma sentenziale. Esso è caratterizzato da una sorta di inclusione data dalle due espressioni sostanzialmente identiche con cui il v.31 si apre e si chiude: “Colui che viene dall'alto/dal cielo è al di sopra di tutti”. I soggetti, indicati in forma anonima con dei pronomi “colui che”, sono espressi con dei verbi sostantivati, posti al participio presente “`O [...] ™rcÒmenoj” (O […] ercómenos, colui che viene o il veniente) e “Ð ín” (o òn, colui che è). Essi indicano la natura dei soggetti, dalla quale i soggetti sono contraddistinti. Il soggetto espresso con il verbo “O […] ercómenos” nel linguaggio biblico indica il messia atteso e che “doveva venire”, così che quest'ultima espressione (“doveva venire”), nel tempo, ha preso il posto del nome. In tal senso è significativa la domanda che i discepoli di Giovanni pongono al Gesù matteano: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3), in cui “colui che deve venire” (o ercómenos) sta per “il messia”. Nel racconto giovanneo l'espressione “o ercómenos” ricorre 14 volte, delle quali 10 sono riferite a Gesù84, in vari modi designato come “colui che deve venire o colui che viene”. Vi è poi l'altro soggetto designato con “o òn” (colui che è), seguito da un gioco di parole, che indicano la sua condizione esistenziale: “colui che è dalla terra dalla terra è e dalla terra parla”. Entrambi i soggetti sono agganciati ad una particella, che ricorre ben quattro volte in questo versetto, “™k” (ek, da); essa indica la provenienza, l'origine originante, la fonte prima, da cui questi soggetti sono originati, da cui provengono e a cui sono anche legati ontologicamente. I soggetti, quindi, sono qui definiti nella loro natura e nella loro essenza da ciò che sostengono le quattro particelle: “™k toà oÙranoà” (ek tû uranû, dal cielo), che ha il suo equivalente significato in “¥nwqen” (ánotzen, dall'alto); e “™k tÁj gÁj” (ek tês ghês, dalla terra), che, quasi con un gioco di parole, si ripete tre volte di seguito, dando l'idea di un forte e inequivocabile radicamento alla terra del soggetto a cui si riferisce (“o òn”). La contrapposizione delle espressioni “dall'alto/dal cielo” e “dalla terra” evidenziano la contrapposizione dei due soggetti, che animano il v.31 e quelli seguenti. Il ripetersi due volte “dal cielo” e tre volte “dalla terra” sottolineano, da un lato, la radicalmente diversa origine dei soggetti; dall'altro, la loro inconciliabilità: l'uno non è l'altro; l'uno non può ridursi all'altro, poiché diversa è la loro origine e la loro natura, e, quindi, la loro funzione. In diverso modo, quindi, va letta anche la loro apparentemente simile missione (battezzare) e lo stesso battesimo acquista valenze diverse, legate ai rispettivi battezzatori. Viene, quindi, rimarcata, una volta di più, la sostanziale differenza che lega, ma anche separa, le due figure, che si pongono all'origine della storia della salvezza: Giovanni e Gesù. Benché entrambi siano mandati da Dio a compiere una missione, tuttavia la loro genesi è completamente diversa: l'uno proviene dall'alto, dal cielo e, quindi, ha origini divine, così come la sua natura85; l'altro ha origini terrene, la sua provenienza è meramente terrena. Esso è stato generato dalla terra a diversità di Gesù, generato dal cielo; l'uno proviene dalla terra, l'altro dal cielo. Anche il loro linguaggio e il loro messaggio si esprime in modo sostanzialmente diverso, poiché colui che proviene dalla terra, parla con un linguaggio che è terreno, benché ispirato; ma chi proviene dal Cielo e da questo è stato generato, parla con un linguaggio divino, che qualificherà la sua testimonianza, come testimonianza delle cose divine, da cui proviene. Ed è questo il significato espresso dal successivo v.32.
Il v.32a ha come soggetto quello delineato nel v.31c, “colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti”86. La sua provenienza e, ancor prima, la sua origine originante (Ð ™k toà oÙranoà ™rcÒmenoj, o ek tû uranû ercómenos, il veniente dal cielo) qualifica la sua testimonianza. La sua testimonianza, infatti, afferma che egli conosce molto bene il Padre, perché proviene da Lui , che lo ha inviato (7,29). Egli non è un testimone per sentito dire, poiché “Io dico quelle cose che ho visto presso il Padre” (8,38a). La sua conoscenza, dunque, è diretta ed è anche esclusiva, infatti “Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò” (1,18); così come “nessuno è salito al cielo se non colui che dal cielo è disceso, il Figlio dell'uomo” (3,13) e similmente “Non che qualcuno ha visto il Padre se non colui che è da Dio, questi ha visto il Padre” (6,46). La sua testimonianza, infatti, verte su ciò che egli “ha visto e udì” (“˜èraken kaˆ ½kousen”, eóraken kaì ékusen) in prima persona. Uno strano connubio di tempi verbali: “eóraken” (ha visto) è un perfetto ed indica la continuazione nel presente di un'azione che ha avuto la sua origine nel passato o, quanto meno, in precedenza; l'altro tempo verbale, “ékusen” (udì), è un aoristo, che indica un'azione puntuale nel tempo o avvenuta in precedenza. Difficile dire cosa sia successo e ciò che abbia consentito questo accostamento, se una svista letteraria (il vangelo giovanneo ne è ricco87) o un sottile intento teologico. Dire che colui che ha origine celeste “ha visto” e continua a vedere (questo dice il perfetto), significa evidenziare una stretta relazione tra Gesù e il Padre, che ha la sua origine nella stessa eternità di Dio e tale da giungere ad una reciproca compenetrazione. Ai Giudei, che complottavano contro di lui perché rivendicava per sé la figliolanza divina, nonché la stessa divinità (5,18), Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico, il Figlio non può fare da se stesso niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa. Il Padre, infatti, vuole bene al Figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa, e gli mostrerà opere maggiori di queste, affinché voi stupiate” (5,19-20); e similmente “da me stesso non faccio niente, ma come il Padre mi ha insegnato, queste cose dico. E colui che mi ha mandato è con me; non mi ha lasciato solo, poiché io faccio sempre le cose a lui gradite” (8,28b-29); fino ad arrivare ad una perfetta identità tra i due: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere” (14,9-11). Il vedere di Gesù, dunque, trova la sua origine nel Padre e si colloca nel Padre.
Diverso è l'aoristo “ékusen” (udì), che colloca l'azione dell'udire di Gesù in uno stato precedente, un'azione puntuale, racchiusa in se stessa. Ciò che Gesù udì, dunque, si colloca in seno al Padre e sottolinea il suo stato di preesistenza e, quindi, in quanto tale, coeterno al Padre, evidenziando in tal modo la sua stessa divinità88.
Bastano questi due tempi verbali, dunque, per collocare Gesù in una posizione privilegiata, quale diretto testimone di Dio.
I vv.32b-33, facendo risuonare in loro stessi i vv.1,5.10-14, riportano la reazione degli uomini alla testimonianza di Gesù: da un lato “nessuno accoglie la sua testimonianza” (v.32b); dall'altro, chi l'ha accolta ne dà testimonianza, attestando che “Dio è veritiero”. Il termine “¢lhq»j” (aletzés, veritiero), con cui si qualifica Dio, in Giovanni non ha certo il significato di uno che non mentisce o che, per contro, dice sempre la verità; non si tratta, dunque, di una qualità morale, ma ha stretta attinenza con la rivelazione89. Affermare, quindi, che Dio è veritiero significa riconoscere in Lui la fonte della rivelazione, a cui Gesù ha attinto (v.32a): “Il Padre, infatti, vuole bene al Figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa, e gli mostrerà opere maggiori di queste” (5,20), così che “il Figlio non può fare da se stesso niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa” (5,19). Ciò che Gesù, dunque, dice non è frutto della sua fantasia, ma è voce stessa del Padre, che risuona in lui: “Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere” (14,10bc).
Il v.34 si apre con un “g¦r” (gàr, infatti), che dà un senso dichiarativo a quanto segue, facendolo esplicativo della precedente espressione, con cui terminava il v.33, “Dio è veritiero”, a cui si aggancia attraverso la stessa particella “gàr”. Il versetto è scandito in tre parti:
“Infatti, colui che Dio ha inviato”, si tratta di una circonlocuzione che va a completare il senso delle due identiche espressioni con cui si era aperto e chiuso il v.31: “Chi viene dall'alto/dal cielo”. Il venire di “colui che viene”, dunque, non è legato alla sua volontà, né è dipeso da lui, ma egli si configura come l'inviato del Padre (7,28b; 8,42). Egli, pertanto, è l'Apostolo per eccellenza, da cui ogni apostolato dipende (20,21), il cui mandato proviene dal Padre. Si tratta di un invio che è legato strettamente ad una missione da compiere90. Egli, pertanto, porta in se stesso l'impronta del Padre e si identifica con lui, così che chi accoglie lui, Gesù, accoglie colui che lo ha mandato (13,20) e chi non onora lui non onora neppure chi lo ha inviato (5,23). Un'identità che è rafforzata dal fatto che l'inviato si nutre della volontà del suo mandante (4,34) e la ricerca costantemente (5,30cd; 6,38), poiché in questo compiere la sua volontà non solo lo onora, ma anche lo glorifica, ricevendone, a sua volta, glorificazione (13,31-32; 17,1.4.5).
“... dice le parole di Dio”, proprio perché il Logos, che era fin dall'eternità presso il Padre (1,1-2) e da Lui proviene ed da Lui è uscito (8,42; 16,28a16,30b;17,8) e verso il quale tende (16,28), egli lo conosce in profondità, essendo con Lui una cosa sola, in una reciproca compenetrazione (10,30; 17,11.21.22). Egli è il Logos del Padre, la sua Parola per eccellenza, che nel dire si rivela e nel rivelarsi si dona, prendendo dimora stabile in chi l'accoglie (14,23). Dire le parole di Dio significa rivelare Dio, renderlo manifesto nel suo mistero, poiché “Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò” (1,18). Gesù, dunque, per la sua natura di Logos incarnato (1,14) è rivelazione del Padre, lo spazio storico in cui Dio si manifesta, opera e si propone agli uomini, tendendo loro la mano.
“poiché non con misura dà lo Spirito”. Si era detto che il v.34 era esplicativo dell'espressione “Dio è veritiero”, cioè è rivelazione, che si compie; e qui subentra il v.34, attraverso l'invio del Figlio di Dio, designato in due modi: come “colui che dice le parole di Dio” e che “dà lo Spirito in abbondanza”. Vi è una stretta associazione tra le parole che rivelano e lo Spirito che viene donato senza misura. È significativo, infatti, quel “gàr”, che compare per la seconda volta nel v.34 e introduce l'espressione “non con misura dà lo Spirito”. Questa congiunzione assume qui il senso causale di “poiché”, facendo dipendere il dono della Parola rivelativa dal dono dello Spirito, quasi che la prima non possa esserci senza il secondo e come il secondo sia in funzione della prima. Vi è, infatti, una forte compenetrazione tra Spirito e Parola, che dallo Spirito è permeata e da questo resa efficace nel suo compito, non solo rivelativo, ma anche rigenerativo. È lo Spirito, infatti, che condurrà il credente alla pienezza della verità, cioè alla pienezza della comprensione della rivelazione, attuata dal Dio veritiero per mezzo di suo Figlio, Parola di verità nello Spirito, così che “allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità intera; infatti, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono” (16,13). Quest'ultimo versetto precisa che lo Spirito non parlerà da se stesso, ma dirà quanto avrà udito; udito che cosa e da chi? Sarà il versetto successivo, 16,14, a precisarlo: “Quello mi glorificherà, poiché prenderà dal mio e ve (lo) annuncerà”. Dunque lo Spirito attingerà la sua materia d'insegnamento dal Logos Incarnato e la trasformerà in luce di verità per il credente, che dallo Spirito, che penetra in lui attraverso la Parola, viene generato alla vita divina. L'autore della prima lettera di Pietro, rivolgendosi alle chiese dell'Asia Minore, ricorda proprio questo, che loro sono “stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna”. La Parola di Dio, quindi, ha un potere generativo e rigenerante, perché essa è permeata e compenetrata dallo Spirito, che la rende viva ed efficace (Eb 4,12), rendendola capace di produrre ciò che dice, trasformando l'uomo in credente e introducendo il credente nella vita stessa di Dio. Similmente l'autore della lettera agli Efesini, in conclusione dell'inno cristologico (Ef 1,1-14), rivolgendosi alla sua comunità attesta: “In lui (Cristo) anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria” (Ef 1,13-14). Attraverso, dunque, l'ascolto accogliente della Parola di verità, cioè la rivelazione offerta dal Padre nel Figlio, riceviamo il dono dello Spirito, che ci trasforma in credenti e ci rigenera alla stessa vita divina, ponendoci in uno stato di grazia: “voi siete già mondi per la parola che vi ho detto” (Gv 15,3).
I vv.35-36 costituiscono, come già si è detto sopra (pag. 46), un'attestazione di cristocentrismo, che giustificano l'accorrere delle genti verso il Gesù battezzante (3,26). La breve pericope è composta da un enunciato cristocentrico (v.35) e dalla conseguente necessità del convergere a Cristo, quale unica ed esclusiva fonte di salvezza (v.36).
Il v.35 è scandito in due parti:
Si attesta che “Il Padre ama il Figlio”. Si tratta di un amore che delinea più che un sentimento, inesistente in Dio91, una condizione ontologica divina, che vede fluire il Padre nel Figlio e il Figlio nel Padre, in una reciproca compenetrazione divina, che li rende una cosa sola (10,30; 14,9-1; 17,21b); uno stato di vita che definisce il rapporto tra i due come un reciproco e permanente atto donativo, che li caratterizza fin dall'eternità. Proprio per questo, tale amore, che il Padre rivolge verso e nel Figlio, ha il tratto della coeternità: “poiché mi hai amato prima della creazione del mondo” (17,24e). Il verbo “ºg£phs£j”(egápesas, mi amasti) è un aoristo ingressivo o incipiente, che colloca l'amore del Padre per il Figlio all'origine stessa del Padre, rendendo tale amore coesistente a se stesso e pertanto a lui connaturato. Si tratta di un amore che permea il Figlio e, nel Figlio, coloro che nel Figlio suo credono (15,9; 17,26). L'amore del Padre per il Figlio diviene, pertanto, transitivo ed estensivo: non più soltanto dal Padre al Figlio, ma anche dal Figlio agli uomini. Anche questo amore per gli uomini, filtrato attraverso il Figlio, possiede i caratteri della coeternità, che si è espressa in una elezione divina dei credenti ancor prima della creazione del mondo, rendendo l'uomo, in un certo qual senso, “coeterno” con Dio in Cristo: “In lui (in Cristo) (il Padre) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5). Un amore, dunque, che fin da subito si traduce in un progetto salvifico, che ha come fulcro vitale Cristo e prevede l'accorpamento dei credenti alla stessa vita divina in e per Cristo.
Proprio
perché l'amore è per sua natura donativo, e non può essere
diversamente, il Padre “tutto
ha dato nella sua mano”.Un'espressione
che risuonerà sostanzialmente identica in 13,3a e in 16,5a e che
mette in evidenza un cristocentrismo, che in Matteo diviene
plenipotenziario ed attribuito al Risorto: “Mi
è stato dato ogni potere in cielo e in terra”
(Mt 28,18b) e che Paolo, in una grandiosa visione escatologica,
attribuisce a Cristo, come strumento per la realizzazione di un
disegno divino di salvezza: “perché
ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni
cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che
gli ha sottomesso ogni cosa. E
quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà
sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia
tutto in tutti”
(1Cor 15,27-28). Quel donare tutte le cose al Figlio, tuttavia, non
va letto come un atto di generosità del Padre, che si priva di
tutto per darlo al Figlio, ma come uno stato di vita e una
condizione ontologica, che legano il rapporto tra i due, così che
il Figlio diviene l'attuatore del Padre e il Padre opera nel Figlio
e per suo mezzo. Essi sono una cosa sola, senza confusione di ruoli
o di persone, ma nella distinzione dei rispettivi ruoli personali,
determinati dalla loro stessa natura, e che fanno sì che quello lì
sia il Padre o il Figlio o lo Spirito Santo. In tal senso vanno
comprese le affermazioni di Gesù a Filippo: “Gli
dice Gesù: <<Sono con voi da tanto tempo e non mi hai
conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu
dici: “mostraci il Padre”? Non
credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io
vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me
compie le sue opere.
Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no,
credete(lo) per le stesse opere”
(14,9-11) e similmente “[...] In
verità, in verità vi dico, il Figlio non può fare da se stesso
niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che
quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa. Il Padre, infatti,
vuole bene al Figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa, e gli
mostrerà opere maggiori di queste, affinché voi stupiate”
(5,19-20). Gesù, dunque, è l'attuatore della volontà del Padre e,
per questo, egli è anche il volto storico del Padre: “Chi
ha visto me ha visto il Padre”
(14,9b). Si tratta di un potere che proviene dal Padre, ma che fa
parte di un progetto divino di salvezza universale: “poiché
egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo
quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per
realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di
ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle
della terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati
predestinati secondo il piano di colui che tutto opera
efficacemente, conforme alla sua volontà”
(Ef 1,9-11). Si tratta di un cristocentrismo che risuona già agli
inizi del prologo, là dove la Parola viene posta al principio di
tutto (1,1-2) e da cui tutto discende e per mezzo della quale ogni
cosa diviene; infatti “
Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna
cosa”
(1,3ab), anche se qui si parla del Logos, ma è pur sempre quella
Parola che diverrà carne e che apparirà come la pienezza della
rivelazione e della vita divina: “piena
di grazia e di verità”
(1,14d), così che “[...] dalla
sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su grazia;”
(1,16).
Il v.36, seguendo le logiche del pensiero a spirale92, che caratterizza il vangelo giovanneo, riprende il tema dei vv.16.18, ne fa una sintesi e un rilancio ad un livello superiore: “Colui che crede nel Figlio ha la vita eterna; ma chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio rimane su di lui”. Il versetto si apre con un'affermazione conclusiva e definitiva. Infatti, al v.16 l'avere la vita eterna per mezzo del credere era visto come la conseguenza dell'invio del Figlio, il cui compito era quello di suscitare un'adesione a se stesso in funzione della salvezza, evitando così la perdizione dell'uomo; al v.18 il credente era sottratto al giudizio di condanna a motivo del suo credere; ma è soltanto qui, al v.36a, che si attesta, in modo sentenziale, che “Colui che crede nel Figlio ha la vita eterna”, in cui il “credere nel” è espresso con la particella “e„j” (eis), che indica un moto a luogo, esprimendo con questa il cammino del credente verso Cristo, in cui il credere è assimilato al vivere per Cristo. I verbi del v.36a sono posti al presente indicativo, per cui il “credere ora” colloca fin da subito nella vita eterna, che per Giovanni è la vita stessa di Dio. Il credente, pertanto, apparitene a Dio ed è collocato nella sua vita, fin da subito, a motivo del suo credere. Per Giovanni, infatti, il giudizio divino non avviene dopo la morte, ma si attua ora, hic et nunc, qui nel presente e dipende dalla scelta stessa del credere o non credere, dell'aderire o non aderire all'evento Gesù. È ciò che gli studiosi chiamano l'escatologia presenziale o realizzata di Giovanni, secondo il quale l'evento Gesù, ponendosi di fronte agli uomini, li spinge e li costringe, loro malgrado, a prendere esistenzialmente posizione nei suoi confronti. La venuta di Gesù, pertanto, si costituisce in mezzo agli uomini come un atto di discriminazione e, quindi, di giudizio nei loro confronti, che avviene fin d'ora. L'evento Gesù, infatti, per Giovanni ha dato il via ai tempi escatologici, i tempi in cui si compie il giudizio divino sugli uomini, che saranno valutati sull'unico parametro del loro credere o non credere; del loro aderire o non aderire al Figlio.
Il v.36b introduce una novità sia rispetto al v.36a che ai vv.16.18: “ma chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita”. Chi crede ha la vita eterna, si diceva, e, quindi, a rigor di logica ci si aspetterebbe di sentirsi dire qui che “chi non crede non ha la vita eterna” o, comunque, “è condannato”. Con sorpresa compare un nuovo verbo, che non ha nulla a che vedere, se non in modo indiretto, con il credere: “¢peiqîn” (apeitzôn), “colui che non obbedisce”, “colui che non dà retta” o “non dà ascolto”. L'uso di questo verbo presuppone che vi sia già una fede a cui obbedire; che si abbia già operato una certa scelta esistenziale, poiché non si può imputare una disobbedienza a chi ha deciso di non accogliere l'evento Gesù e di accollarsi i suoi comandamenti. È probabile, quindi, che qui Giovanni stia rivolgendosi a quelli della sua comunità, che pur avendo fatto la loro scelta esistenziale del credere, non diano seguito a tale scelta, creando turbamenti all'interno della sua comunità credente93. Non è tuttavia escluso che qui Giovanni si rivolga polemicamente ai Giudei, i quali, già addentro alle cose di Dio non hanno saputo riconoscere e accogliere suo Figlio: “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero” (1,11). L'uso del verbo obbedire al posto di credere potrebbe riferirsi, infatti, ad Israele, spesso rimproverato e punito da Dio per non aver obbedito ai suoi comandi, violando l'Alleanza, tanto da essere definito un popolo dalla dura cervice94 e prendendosi il rimprovero del profeta per la sua superficialità nell'osservare la Torah, spesso disattendendola : “Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13). Con questo “non obbedire”, pertanto, Giovanni potrebbe rinfacciare ad Israele il suo tradizionale atteggiamento di disobbedienza, prima a Dio, ora a suo Figlio. Per questo Giovanni afferma che chi non obbedisce, cioè chi non crede con la propria vita, conformandosi esistenzialmente alle esigenze del credere “non vedrà la vita”. Il non vedere la vita, intesa come vita divina, esprime l'esito finale di una vita condotta nella disobbedienza al Figlio; si tratta di un giudizio di condanna definitivo, che non può essere tale finché il cammino della propria vita non si è compiuto definitivamente. Ecco perché il verbo “non vedrà” è posto al futuro, mentre è posto al presente l'espressione conclusiva del v.36: “ma l'ira di Dio rimane su di lui”. Anche quest'ultima espressione “l'ira di Dio” è ricorrente nell'A.T. (44 volte) ed esprime l'atteggiamento di Jhwh nei confronti delle ripetute violazioni dell'Alleanza o contro chi resiste alla sua voce95; ma nel linguaggio profetico essa si riferisce talvolta al “giorno del Signore”, in cui la sua ira si riversa sul suo popolo o sui popoli ed esprime il giudizio finale di condanna sulle genti, che hanno disatteso la sua voce o violato i suoi comandi96. Si tratta di un'ira che esprime la condanna divina di chi non accoglie suo Figlio; una condanna che non dà scampo perché “rimane su di lui”. Si tratta, dunque, di un'ira persistente, che perdura nel tempo e che prelude a quel “non vedrà la vita”.
Giovanni Lonardi
N O T E
1Cfr. il commento al cap.2, pagg. 32-34
2La questione è piuttosto ampia e complessa. Per un suo approfondimento si cfr. la voce “Giudaizzanti” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne – R.P. Martin, D.G. Reid, edizione italiana a cura di Romano Penna, Edizioni San Paolo srl 1999, Cinisello Balsamo (MI), 1999. - Cfr. anche 2Cor 11,4-5.13.22-23a; Gal 1,6-7; 3,1-7; 4,21a; 5,1-7.10b;
3Cfr. anche 16,28
4Il termine greco “¥rcwn” significa letteralmente signore, capo, comandante, condottiero, principe, re; tutte espressioni queste che collocano la figura di Nicodemo in posizione sociale molto elevata. Pensarlo, quindi, tra i membri del Sinedrio non è fuori luogo.
5Cfr. anche Gv 12,42 e 16,2.
6Il termine “Rabbi” deriva dall'ebraico “rab”, che significa “grande” e con l'aggiunta della desinenza “i” diventa “Mio grande”. Si tratta soltanto di un titolo di rispetto o reverenziale, corrispondente all'incirca al nostro “Signore” o “Signora”, allorché ci rivolgiamo ad un uomo o ad una donna. Il termine, quindi, non designa nessun titolo accademico o formale, cosa che, invece, avverrà nel passaggio tra il I e il II secolo d.C., allorché con la fondazione della scuola di Iamnia (70 d.C.) si è dato vita al nuovo giudaismo di tipo rabbinico. - Sulla questione cfr. la voce “Rabbi, Rabbuni” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
7Cfr. Gen 45,5.7; Es 3,13.14.15; 7,16; Nm 16,28; 2Sam 24,13; 1Cr 21,11-12; Tb 12,13-15.20; Is 61,1; Ger 26,12; 42,21; Zc 2,13.15; 4,9; 6,15. Cfr. anche Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico – pagg. 147-148; op. cit.
8Cfr. Es 4,1-9; 7,8-10; 1Re 17,23-24;
9Cfr. Mt 12,38-39; 16,1; Mc 8,11-12; 13,22; Lc 11,16; Gv 2,18; 4,48
10Sulla questione del doppio senso e dell'equivoco in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva dell'opera, pag.54
11Cfr. Gv 3,2.11; 4,22.42; 6,42; 7,27; 9,20.21.24.29.31; 14,5; 16,18.30; 20,2; 21,24.-
12Cfr. Mt 21,27; 22,16; Mc 11,33; 12,14; Lc 20,21.
13Cfr. la voce “Lo Gnosticismo”, pagg. 15-19, della Parte Introduttiva.
14Cfr. Gv 3,11; 4,22.42; 14,5; 16,18.30; 21,24
15Cfr. Gv 3,2b; 4,22a; 6,42; 7,27; 9,24.29;
16Cfr. Gv 4,22a; 9,21; 14,5; 16,18; 20,2.
17Sulla questione del pensiero a spirale o a chiocciola, caratteristico di Giovanni, cfr. le pagg.49 e 89 della Parte Introduttiva.
18Cfr. Mt 16,31; Mc 8,27-31; Lc 9,18-22
19In Matteo ricorre 31 volte, in Marco 13 volte e in Luca 9 volte.
20Tecnicamente il verbo al passivo viene indicato come “passivo teologico o divino”.
21 Cfr. Gv 3,3.7.31; 19,11.23
22Cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, - pag. 150; op. cit.
23Cfr. Esd 2,62; 8,1; Ne 7,5.64
24Il § 1131 del Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che “I sacramenti sono segni efficaci della grazia, istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa, attraverso i quali ci viene elargita la vita divina. I riti visibili con i quali i sacramenti sono celebrati significano e realizzano le grazie proprie di ciascun sacramento. Essi portano frutto in coloro che li ricevono con le disposizioni richieste” - Il Catechismo di S.Pio X definisce i sacramenti, alle questioni 267 e 268, nel seguente modo: “267. Che cosa sono i sacramenti? I sacramenti sono segni efficaci della grazia, istituiti da Gesù Cristo per santificarci. 268. Perché i sacramenti sono segni efficaci della grazia? I sacramenti sono segni della grazia, perché con la parte sensibile che hanno, significano o indicano quella grazia invisibile che conferiscono; e ne sono segni efficaci, perché significando la grazia realmente la conferiscono.”
25Sulla questione cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, nota 27, pag. 151; R.E. Brown, Giovanni, parte introduttiva, pagg. CXXXIV-CXXXVIII; Xavier Léon-Dufour , Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni, pagg. 262-263. Tutte le opere citate.
26Sul rapporto Acqua-Spirito in Giovanni cfr. il commento al cap.1 pag.39.-
27Così viene compresa da Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, pag.152; op. cit.
28L'endiadi è una figura retorica e consiste nell'utilizzo di due termini, tra loro coordinati, per esprime il medesimo concetto.
29In tal senso viene letta da Xavier Léon-Dufour, Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni, pag.262; op. cit.
30Il termine benedizione è reso in ebraico con berakah, che ha la sua origine in berek, che significa “ginocchio”, un eufemismo per indicare gli organi genitali, simbolo di fecondità. Non a caso alla benedizione di Dio, posta su Adamo ed Eva, segue sempre il comando divino del siate fecondi“ (Gen 1,22.28; 9,1).
31Mosè si trova in un cesto di papiro, che viene aperto dalla figlia del faraone e tratto fuori dalle acque. La scena simboleggia una nuova nascita: il cestello aperto è la metafora dell'utero materno, che si apre per lasciare uscire il bambino; mentre le acque del Nilo da cui il bambino è tratto dalla figlia del faraone, sono la metafora delle acque materne da cui il bambino esce (Es 2,2-6). Non a caso il commento dell'agiografo sarà che la figlia del faraone ritenne Mosè suo figlio: “Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: "Io l'ho salvato dalle acque!” (Es 2,10b).
32Cfr. Rm 8,5-9; Gal 5,16.19; Ef 2,3 – Cfr. anche 1Pt 2,11; 1Gv 2,16
33Cfr. Gb 34,15; Sal 55,5; 64,3; 77,39; 108,24; Prv 26,10; Sir 13,16; 44,18; Is 40,5.6; 66,16.23; Ez 21,4.10
34Cfr. Gen 6,12.19; 7,15.16; 9,11.15
35Cfr. Gv 1,32.33; 3,34; 4,24; 6,63; 4,26;15,26; 16,13.
36Cfr. Mt 16,4; Mc 8,28; Lc 9,19; Gv 4,19; 6,14; 7,40; 9,17;
37Cfr. Mt 7,29; 9,8; 21,23; Mc 1,27; Lc 4,32.36;
38Cfr. Gv 1,32; 3,34; Lc 4,1.14.18-21; 10,21.
39Cfr. Gv 3,7.14.30; 4,20.24; 9,4; 10,16; 12,34; 20,9
40Cfr. Gv 14,23; 15,14; 17,6-8.17.22
41Il termine “fwn»” possiede una pluralità di significati, tra i quali “voce, suono, grido, potenza del parlare, massima, parola, espressione”.
42Il verbo “oídamen” (sappiamo) è il perfetto di e‹don (eîdon), che a sua volta supplisce il verbo “oráo” (vedere) nelle sue forme mancanti. Il verbo “eîdon” significa, pertanto sia “vedere” che “sapere”. Il doppio senso nasce da un ragionamento che lo sottende: “ho visto”, quindi, “so”. Giovanni, dunque, lega tra loro questi due verbi, volendo con ciò sottolineare come il sapere, il conoscere della sua comunità nasce dall'esperienza del vedere ed è strettamente legato ad essa.
43Cfr. Is 1,10-17; Am 5,21-24
44Cfr. pag. 89 della Parte Introduttiva
45Una caratteristica dei discorsi del Quarto Vangelo è quella di essere composti da singoli versetti di senso compiuto, che non abbisognano di altri sviluppi ragionativi per essere compresi. Ognuno di essi ha il ritmo proprio dei detti sapienziali, finalizzati a sviluppare una riflessione o una contemplazione sul tema, che ogni versetto presenta in via esclusiva. Il discorso in Giovanni nasce non per sviluppo ragionativo, ma per agganci a parole o a frasi, che formano una sorta di incastro tra i vari versetti, che richiama molto da vicino il puzzle. - Sulla questione cfr. la voce “I Discorsi”, pagg.88-89 della Parte Introduttiva.
46Altra caratteristica di Giovanni è quella di usare parole dal doppio senso.
47Lo stesso verbo (Øywqî, ipsotzô) viene usato in Gv 12,32-33, in cui si parla di innalzamento di Gesù, spiegando che con questo si intendeva la sua morte di croce: “<<.... e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso>> Ora diceva questo per indicare con quale morte stava per morire”.
48Cfr. Gv 1,32.33.51; 3,13; 6,33.38.41.42.50.51.58.62; 20,17
49Cfr. Gv 5,43; 7,28.29; 8,14.42; 9,39; 10,10b; 12,46.47; 16,27.28; 18,37
50Cfr. Gv 7,33; 8,14.21; 13,33.36; 14,2.4.12.28; 16,5.7.10.17.28; 17,11.33
51Il Prologo presenta il Logos nella sua preesistenza divina, mentre il v.13a presenta il Figlio dell'uomo già glorificato, quindi in una fase successiva alla sua incarnazione, passione, morte e risurrezione.
52L'espressione “figlio dell'uomo” è un semitismo per indicare l'uomo e, fatto salvo qualche raro caso, non ha mai avuto altro senso che questo. Esso ricorre con la formula “figlio dell'uomo” 100 volte in tutto l'A.T. e ulteriori 6 volte con la formula “figlio d'uomo”. Ma è in Ezechiele che questa espressione compare più frequentemente, 94 volte, ed indica la condizione di fragilità dell'uomo nel suo rapporto con Jhwh, tutta la distanza che intercorre tra il profeta e Dio. Quanto alla rilevanza messianica di quest'espressione, questa sembra radicarsi nella visione notturna di Daniele: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14). Nelle testimonianze extrabibliche va ricordato il “Figlio dell'uomo” menzionato nel “Libro delle Parabole”, datato intorno al 30 a.C., esso ha caratteri personali, possiede una natura sovrumana; in quanto creato prima del tempo, esso è vivente; egli conosce tutti i segreti della Torah ed è per questo preposto al giudizio, che avverrà alla fine dei tempi. L'immagine del Figlio dell'uomo, dai tratti messianici, doveva essere molto conosciuta tra il giudaismo del I sec. se Gesù la usa frequentemente senza mai spiegarla.
53Cfr. Gv 1,51; 3,13.14; 5,27; 6,27.53.62; 8,28; 9,35; 12,23.34; 13,31
54Cfr. Gv 3,15.16.36; 5,24; 6,40.47; 11,25; 20,31
55Il verbo credere in Giovanni ricorre 99 volte ed è seguito da particelle come eis, en, dia o da un sostantivo posto in dativo; ed è proprio ciò che segue il verbo credere che gli dà un particolare significato. Per una più ampia trattazione del verbo “credere” in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva alle pagg. 60-61.
56Ho reso il termine “mondo” con “umanità” perché questo è il senso che qui Giovanni attribuisce al termine “kÒsmoj” (kósmos). Per una migliore e più ampia trattazione sull'uso giovanneo del termine “mondo” cfr. la Parte Introduttiva alle pagg.67-69.
57Cfr. Gv 1,14.18; 3,16.18; 1Gv 4,9
58Cfr. Gv 6,64.71; 12,4; 13,2.11.21; 18,2.5.30.35.36; 19,11.16.30; 21,20
59Roland Meynet nella sua opera “Leggere la Bibbia – un'introduzione all'esegesi”, ed. Grafiche Dehoniane, Bologna 2004- pagg. 77-103 e 128-130 - rileva tre fondamentali forme letterarie a cui attinge la retorica biblica: la Binarietà o Ripetizione di una parola o di un'espressione o di una frase, da cui sovente si genera il Parallelismo; Paratassi o accostamento di frasi giustapposte l'una accanto all'altra senza esplicitarne il legame; il Parallelismo, che può essere simmetrico quando gli elementi sono ripresi nello stesso ordine, per cui si avrà: A, B, C e A', B', C' ; oppure può essere concentrico, quando gli elementi sono posti tra loro in parallelo, ma in modo inverso o speculare e vanno verso il punto centrale, che denominiamo “D”, per cui si avrà: A, B, C – D – C', B', A'.
60Sulla questione cfr. anche R.E. Brown, Giovanni, pag.176; Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, nota 63, pagg.164-165. Tutte le opere citate.
61Sulla terminologia dell'amore in Giovanni cfr. la voce “Amare”, pag.56 della Parte Introduttiva.
62Cfr. Gv 4,1; 5,33.36; 10,40.41;
63Cfr. Mt 3,1-12; Mc 1,3-8; Lc 3,1-18.19-20
64Sulla figura del Battista cfr. il mio scritto “Il racconto di Matteo”, pagg. 30-33, scaricabile dal mio sito “Teologia per tutti”, Sezione esegetica, nell'area “Matteo”.
65Gv Mt 14,3-5; Mc 6,17-18; Lc 3,19-20
66Cfr. Mt 4,12-13; 11,2; Mc 1,14; Lc 3,20.23
67Cfr. Gv 4,1-3; Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33; 11,1.
68Cfr. Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22.
69Cfr. Enrico Rodolfo Galbiati e Aldo Aletti, Atlante storico della Bibbia e dell'Antico oriente, Editrice Massimo, Milano 1983 – Tavola 57, pag. 187
70Cfr. Mt 3,5-6; Mc 1,5; Lc 3,7a.10a.12.14a.15.21a
71Cfr. R. E. Brown, Giovanni, pag.200, note di commento al v.25 – op. cit.
72Sulla questione delle incongruenze, molto diffuse nel Quarto Vangelo, cfr. la Parte Introduttiva alle pagg. 44-47
73Sulla questione della formazione del vangelo di Giovanni cfr. il titolo “La formazione del Vangelo e la sua unità letteraria”, pagg. 41-44 della Parte Introduttiva.
74Rabbì, cfr. nota 6 di pag.8
75Prv 1,23; Gl 3,1.2; Ez 36, 25-28; 37,10-14; 39,29.
76Nel linguaggio evangelico il verbo posto al passivo rimanda quasi sempre l'azione a Dio stesso. Con termine tecnico viene definito passivo teologico o divino.
77Le nozze, sia nell'A.T. che nel N.T., non avevano connotazioni religiose, ma si esprimevano in una ritualità civile e popolare, che sanciva l'unione dei due fidanzati. La formula del matrimonio, come risulta dai contratti di Elefantina, in Egitto, dove viveva una colonia giudaica (V sec. a.C.), era molto semplice: “Essa è mia moglie e io sono suo marito da oggi e per sempre”. Altra formula, molto sintetica, trovata nel deserto di Giuda e risalente al II sec. d.C. attesta “Tu sarai mia moglie”. Quanto alla cerimonia, alla vigilia del matrimonio, il fidanzato, accompagnato dagli amici al suono di tamburelli e musiche, canti ed inni (2Mac 9,39), si recava alla casa della fidanzata, ornato con un diadema (Is 61,10; Ct 3,11). Si formava così un corteo sotto la direzione dell'amico dello sposo (Gv 3,29), che era una sorta di cerimoniere, che stava sempre al fianco dello sposo e badava al buon svolgimento della festa. La fidanzata, con i capelli sciolti sotto il velo (Ct 4,1.3; 6,7), che si toglieva solo nella camera nuziale, era riccamente vestita e ornata di gioielli (Sal 45,14-15; Is 61,10). Essa, accompagnata dalle amiche (Sal 45,15), era portata in casa dello sposo, dove i genitori pronunciavano una formula di benedizione. Si cantavano canti d'amore (Ger 16,9), che celebravano le doti e le virtù dei due sposi, dei quali abbiamo delle testimonianze nel Sal 45 e nel Cantico dei Cantici. Il tutto era accompagnato da un festoso banchetto nuziale (Gen 29,22; Gdc 14,10; Tb 7,14), che durava normalmente sette giorni (Gen 29,27; Gdc 14,12), ma poteva anche prolungarsi a due settimane (Tb 8,20; 10,8) e si dava normalmente presso i genitori dello sposo. Il matrimonio, tuttavia, si consumava fin dalla prima notte (Gen 29,23; Tb 8,1). Di quella notte si conservava il panno macchiato di sangue, quale prova inconfutabile della verginità della sposa e serviva a testimonianza in caso di calunnia da parte del marito (Dt 22,13-21). - Per questa nota cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Ed. Casa Editrice Marietti, Genova 2002; H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, Ed. Arnoldo Mondadori Editore Spa,Cles (TN) 1999.
78Cfr. Gen 34,11-12; Es 22,15-16; 1Sam 18,25 – Cfr. anche Rroland De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Editrice Marietti, ristampa della III edizione, Genova 2002.
79Sul tema del rapporto di Alleanza tra Jhwh e il suo popolo, letto in chiave sponsale, cfr. anche Is 54,5; Os 2, 1-25; Ger 2,1-3; 3,1-4; 31,31-34; Is 49,18; Ez 16,3-15; 23,1-22
80Cfr. Mt 9,15; 25,1-12; Mc 2,19-20; Lc 5,34-35; 2Cor 11,2; Ap 19,7; 21,2.9; 22,17.
81Cfr. Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33
82Sul tema dei Discorsi in Giovanni cfr. pagg.88-89 e nota 245 della Parte Introduttiva.
83Cfr. Mt 21,25.32; Mc 11,31; Lc 20,5
84Cfr. Gv 1,9.15.27.29.47; 3,31; 6,14.35; 11,27; 12,13
85Cfr. Gv 8,42; 16,28.30; 17,8
86La preferenza che ho accordato a questo soggetto, non ne esclude altri possibili, come il discepolo prediletto, che in 1Gv 1,1-4 appare come il testimone diretto dell'evento Gesù e, proponendosi come testimone veritiero, condivide questo evento di salvezza con i credenti in comunione con lui e, assieme a lui, con il Padre.
87 Sulla questione delle incongruenze nel vangelo di Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva, pagg. 44-47.
88Cfr. 5,18c; 6,69; 8,42.58; 10,33; 17,5
89Cfr. il termine “Verità” sotto il titolo “Il vocabolario giovanneo”, pagg.83-84 della Parte Introduttiva.
90Il verbo mandare/inviare in Giovanni è espresso ugualmente sia con il verbo “¢postšllw” (apostéllo) che con il verbo “pšmpw” (pémpo) senza alcuna particolare differenza di significato.
91Sentimenti, emozioni, attrazioni, erotismi e simili presuppongono sempre una base biologica, cioè un corpo, che Dio non ha.
92Cfr. sul pensiero a spirale o a chiocciola cfr. la Parte Introduttiva alle pagg. 49 e 89
93Sulla questione si cfr. 1Gv 1,4.8.10; 2,4.9.11.18.19.23.26; 3,7; 4,1.3.4.5.20. I versetti qui citati fanno riferimento ad espressioni che denunciano dei problemi all'interno della comunità giovannea. Di che cosa si tratta e chi sono questi personaggi contro cui Giovanni si scaglia? Sono quasi certamente dei predicatori, che si sono presentati presso le comunità e diffondono strane dottrine dal sapore gnosticheggiante. Essi pretendono di conoscere Dio e di vivere in comunione con lui e di essere nella luce, ma in realtà negano che Gesù sia il Messia e il Figlio di Dio e non ammettono l'incarnazione. Inoltre, presumono di essere senza peccato e non si preoccupano di osservare i comandamenti, in particolare quello dell'amore fraterno. Contro questi personaggi, l'autore si scaglia con durezza incredibile e con una notevole carica di aggressività, definendoli anticristi, mentitori, seduttori e profeti di menzogna. Tuttavia lo scritto non vuole combattere gli eretici, ma mettere in guardia i credenti. Il tutto sotteso da un'unica tesi: non c'è comunione con il Padre senza il riconoscimento e l'accettazione dell'azione mediatrice del Figlio, incarnatosi e testimoniato dai primi testimoni.
94Cfr. Es 32,9; 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; Bar 9,30; Ez 3,7.
95Cfr. Nm 12,9; 17,11; 22,22; 25,3; 32,10.13.14; Dt 6,15;7,4 ; 11,17; Gs 23,16; Gdc 2,14; 10,7; 2Sam 6,7; 2Cr 36,16; Is 9,18; 42,25; 51,20; Ger 23,20; 25,37; 50,13; 52,3.
96Cfr. Lam 2,22; Sof 1,18; 2,3; Is 13,9; Ez 30,3; Gl 1,15; 2,11; Am 5,18.