IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
Commento
esegetico e teologico
a cura di
Giovanni Lonardi
L'APPENDICE AL LIBRO DELLA GLORIA
CAP. 21
La
riconciliazione tra la comunità giovannea
e quelle
palestinesi
Note
generali
Pensare di leggere il cap.21 come il seguito del cap.20 o un suo naturale sviluppo solo perché racconta di un'altra apparizione del Risorto è, a nostro avviso, fuorviante. Il contesto qui cambia completamente e uno stacco netto viene a crearsi tra i due capitoli: il racconto delle apparizione di Gesù ai discepoli (20,19-29) si chiude con quella di Tommaso, in cui, in modo sentenziale, si dichiarano beati coloro che hanno creduto senza aver visto. Ciò lascia intendere che non vi sarà più nessun'altra apparizione e che pertanto si rende necessaria la fede per cogliere il Risorto; mentre i vv.30-31 si pongono a definitiva chiusura dell'intero vangelo giovanneo. Diverrebbe, poi, difficilmente comprensibile come dei discepoli che hanno beneficiato della presenza del Risorto per ben due volte, riconoscendolo immediatamente e senza difficoltà alcuna, qui al cap.21 nessuno più lo riconosce, se non l'intuitivo Discepolo Prediletto (v.7). Cambia poi il contesto topografico dell'apparizione: non più Gerusalemme, bensì il lago di Tiberiade, probabilmente a Cafarnao o Betsaida, il luogo di abitazione di Pietro, Andrea e Filippo (Gv 1,44), le quali distano tra loro 4 Km e, in linea d'aria, circa 150 Km da Gerusalemme. Qui vediamo i discepoli intenti alla loro precedente attività di pesca (Mt 4,18-21; Mc 1,16-20), la quale cosa presuppone che tra le due apparizioni del cap.20 e questa sia intercorso un notevole lasso di tempo, tale da togliere ogni speranza ai discepoli e consigliarli di archiviare l'esperienza storica di Gesù, guardando concretamente al loro oggi. Forse un tenue legame tra il cap.21 e il cap. 20 si potrebbe ravvisare in 20,9-10, là dove, dopo la deludente corsa alla tomba vuota, “non avevano infatti ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti”, “I discepoli se ne tornarono di nuovo presso di loro”. Quest'ultima espressione potrebbe alludere in senso lato al ritorno dei discepoli alle loro abitazioni e alla loro precedente attività di pesca. Del resto era ciò che avevano già fatto anche gli stessi discepoli di Emmaus, che, delusi, si stavano allontanando da Gerusalemme verso Emmaus, dopo i drammatici eventi del Golgota (Lc 24,13-31). Ognuno dunque fa ritorno alle proprie case e ai propri affari con dentro tanta amarezza e tanta delusione.
Ma al di là di queste prime osservazioni, le più appariscenti e le più immediate, un'attenta lettura di questo cap.21 genera un certo sconcerto. I conti qui non tornano: certamente i contenuti e le espressioni sono riconducibili sostanzialmente alla scuola giovannea, anche se, qua e là, con qualche riserva; ma il modo di narrare se ne distacca nettamente. Esso si avvicina di molto al raccontare dei sinottici, ma qui, in senso peggiorativo: il narrare è piuttosto goffo, direi quasi infantile; assomiglia molto a quello di una madre che racconta una storia al suo bambino; questo almeno fino al v.17; poi il modo di fraseggiare diventa più complicato, certamente più contorto se non oscuro. L'idea che ne nasce è che questo capitolo sia stato scritto a due mani: quella della scuola giovannea e quella di provenienza sinottica in genere e, più in particolare, lucana, dalla quale è stato mutuato il racconto della pesca miracolosa. Questa appendice fu certamente aggiunta al vangelo in un tempo abbastanza tardo, forse tra il 110 e il 115, quando l'eco dei primi estensori dei vangeli e dei loro seguaci andava affievolendosi sempre più con il passare del tempo. Il modo di raccontare, infatti, è cambiato, certamente meno curato. Qui l'apparizione di Gesù, inoltre, non è più legata al vedere, verbo molto caro a Giovanni per esprimere la pienezza della fede o il suo cammino evolutivo, verbo qui completamente scomparso, ma al suo manifestarsi (vv. 1.14); un verbo quest'ultimo, che in Giovanni compare 9 volte1 ed è legato principalmente al “manifestarsi” del Mistero di Dio e del Logos. Qui, invece, il verbo “manifestarsi” perde questo senso e si lega più all'apparire del Risorto che alla comprensione del suo Mistero. Probabilmente chi ha riportato questo verbo lo ha rilevato dal vangelo giovanneo, ma non ne ha colto appieno il senso. Il racconto della pesca miracolosa compare soltanto in Luca 5,1-11 e qui è stato ripreso e riadattato allo scopo dell'autore, ma certamente questo modo di raccontare aneddoti esce dagli schemi giovannei; compare qui per la prima volta il termine “fratelli” (v.23), per designare i componenti delle comunità credenti; espressione questa del tutto sconosciuta in Giovanni, ma molto comune nei lucani Atti degli Apostoli, dove con questo senso compare 56 volte. Quanto al termine “fratelli” in 20,17, questo va a sottolineare più che la fratellanza che unisce nell'unica fede i credenti, la conseguenza della comune paternità, che lega Gesù ai credenti. Al v.25, infine, viene ripreso in qualche modo 20,30, ma deformandolo in modo iperbolico.
Compaiono, tuttavia, anche espressioni caratteristiche di Giovanni, come quella con cui si apre il cap. 21 e che ricorre nel suo vangelo sette volte2: “Met¦ taàta” (Metà taûta. Dopo queste cose); l'avverbio “p£lin” (pálin, di nuovo), che compare in tutti i vangeli 93 volte, di cui ben 45 soltanto nel vangelo giovanneo; il singolare modo di chiamare Pietro: “Simon Pietro”; l'anonimato dei due discepoli già comparso in 1,35.37 riappare qui al v.2; il tema eucaristico (vv.12-13), che richiama da vicino quello del cap.6 e ad esso agganciato dallo stesso termine con cui qui viene definito il “pesce”: “Ñy£rion” (opsárion)3; c'è poi quel “non sapevano che è Gesù”, che riproduce sostanzialmente 20,14b. Ai vv.15-17 Pietro, poi, è insignito della carica di “pascere il gregge”, in cui si richiama il tema del Buon Pastore (10); è ripresa l'espressione “il discepolo che Gesù amava” (vv.7.20) con cui la comunità giovannea designava il suo maestro carismatico.
Quanto al contenuto e al senso di questo cap.21, questo va colto, a nostro avviso, come una sorta di atto di riconciliazione tra le comunità palestinesi, già istituzionalizzate e che riconoscevano come loro punto di riferimento Pietro, e quella giovannea, che invece assegnava tale primato al Discepolo Prediletto. Si è già più volte accennato nel corso dei nostri commenti ad una rivalità tra queste due aree ecclesiali e come la figura di Pietro uscisse sempre piuttosto malconcia dal confronto con il Discepolo prediletto4. Si tratta di una conflittualità che si assopirà per poi scomparire molti anni dopo la morte del Discepolo Prediletto, avvenuta verso la fine del I sec., dopo la quale si era resa necessaria anche per la comunità giovannea una sua istituzionalizzazione. Un segnale di questa rappacificazione tra la comunità giovannea e quelle palestinesi è, come si è detto poc'anzi, il cap.21, una sorta di appendice integrata dal redattore finale probabilmente intorno agli anni 110/115 circa5. Un capitolo quest'ultimo che vede l'affermarsi della figura di Pietro e la sua definitiva consacrazione a Pastore universale della nascente chiesa, a cui si associa finalmente, sia pur senza grandi entusiasmi, anche la comunità giovannea. Qui Pietro è il protagonista principale: è lui infatti che invita gli altri ad uscire a pescare e gli altri si associano a lui; tra questi vi è, sia pur avvolto nel suo caratteristico anonimato (v.2b) anche il Discepolo Prediletto (21,3), che comparirà assieme a Pietro al v.7; è Pietro, poi, che porta a Gesù la grande e fruttuosa pesca e non gli altri (21,11); Pietro qui è costituito da Gesù stesso quale Pastore universale del suo gregge (21,15-17) ed è invitato da Gesù a seguirlo non soltanto sulla via della croce, ma anche a succedergli (21,19). Scompare qui quasi del tutto la figura del Discepolo Prediletto, non senza, però, lanciare le ultime stoccate a Pietro. È il Discepolo Prediletto, infatti, che riconosce il Risorto e lo indica a Pietro (21,7); Pietro nell'assumere l'eredità lasciata da Gesù dovrà per tre volte fare pubblica ammenda a riparazione del suo triplice rinnegamento; al “mi ami” di Gesù, Pietro risponderà con il più flebile e scolorito “ti voglio bene”. Ma, ora, quale sarà il destino del Discepolo Prediletto dopo che Pietro è divenuto il punto di riferimento universale delle nuove comunità credenti? La questione è posta al v.21,21: il Discepolo Prediletto, da questo momento in poi, non è più preso in considerazione, ma a lui è riservata una sorta di apoteosi finale (21,22-23a). Questo clima di rappacificazione, fatta a denti stretti, tra la comunità giovannea e quelle palestinesi, si riflette in qualche modo anche nel racconto della scoperta della tomba vuota (20,2-10) dove la Maddalena si rivolge sia a Pietro che al Discepolo Prediletto, i due capi, le cui comunità avocavano per loro il primato; compare tuttavia per primo Pietro e poi l'altro discepolo; entrambi vanno alla tomba, ma qui il Discepolo Prediletto sembra seguire Pietro; l'altro discepolo corre più veloce di Pietro, ma poi gli cede il passo; è Pietro che entra per primo e soltanto successivamente il Discepolo Prediletto, anche se sarà il Discepolo Prediletto a comprendere cosa è realmente successo (20,8), così come qui in 21,7, dove per primo riconosce Gesù e lo indica a Pietro. Una pericope questa che riflette i tratti della rappacificazione tra i due gruppi comunitari, giovanneo e palestinese, e probabilmente inserita nel cap.20 contestualmente a questo cap.21, di cui risente in qualche modo l'influenza.
Come definire, infine, questo cap.21? Il Brown come il Léon-Dufour pongono la questione se questo cap.21 sia da considerarsi un epilogo o un'appendice. Entrambi si mostrano favorevoli per l'epilogo6. Il motivo prevalente che li spinge a questa conclusione è il vedere in questo capitolo un evidente sfondo ecclesiologico, che porta a sua naturale conclusione il racconto giovanneo, prolungando l'avventura del Logos Incarnato nel tempo successivo alla sua passione, morte e risurrezione, il tempo della chiesa, che lo vede operante in essa. Del resto la conclusione dei vangeli in prospettiva ecclesiologica è comune anche ai Sinottici, in Mt 28,19-20; Mc 16,15-18 e lo stesso Luca con i suoi Atti degli Apostoli; conclusione alla quale ora, con questo cap.21, sembra essere associato anche Giovanni. Personalmente propendo per definire il cap.21 come un'appendice al racconto giovanneo, anche se lo sfondo è ecclesiologico, ma come vedremo, solo apparentemente tale. Si tratta infatti di un capitolo che non porta a nessuna conclusione ecclesiologica e non guarda agli sviluppi e al futuro della chiesa, o quanto meno non è questo l'interesse primario dei loro autori, ma porta, come si è visto qui sopra, soltanto all'affermazione del primato petrino su quello giovanneo. Per questo lo definisco appendice, perché nulla ha a che vedere con la naturale conclusione di questo vangelo, che trova, invece, la sua vera conclusione ecclesiologica in 20,19-23. Il cap.21 è soltanto un racconto “appiccicato” qui, un'appendice per l'appunto, per sancire la rappacificazione tra due aree ecclesiali, che si contendevano il primato a favore dei loro rispettivi rappresentanti, in cui si riconoscevano: Pietro, per l'area palestinese; Giovanni per quella giovannea.
Quanto alla struttura del cap.21, questa si può scandire in quattro parti: a) il racconto della pesca miracolosa (vv.1-14); b) l'investitura ufficiale di Pietro a pastore del gregge; affermazione del primato petrino su quello giovanneo (vv.15-17); c) il destino dei due capi: Pietro seguirà Gesù anche nella passione e morte (vv.18-19); il Discepolo Prediletto è avvolto in una sorta di eternità, anche se poi seguirà una rettifica, definendola una diceria (vv.20-23); d) seconda conclusione del vangelo giovanneo (vv.24-25).
La pesca miracolosa (vv.1-14)
Testo
1- Dopo queste cose, Gesù manifestò di nuovo se stesso
ai discepoli sul mare di Tiberiade; ora, si manifestò così.
2- Erano insieme Simon Pietro e Tommaso, detto Didimo, e
Natanaele da Cana della Galilea e i (figli) di Zebedeo e altri due
dei suoi discepoli.
3- Dice loro Simon Pietro: <<Vado a pescare>>.
Gli dicono: <<Veniamo anche noi con te>>. Uscirono e
salirono sulla barca, e in quella notte non presero niente.
4-
Ora, facendosi già mattina, Gesù stette sulla spiaggia; tuttavia i
discepoli non sapevano
che è Gesù.
5- Dice dunque loro Gesù: <<Ragazzi, avete
qualcosa da mangiare?>>. Gli risposero: <<No>>.
6- Ma egli disse loro: <<Gettate sul lato destro
della barca la rete, e troverete>>. Gettarono dunque, e non
erano più capaci di trarla per la moltitudine dei pesci.
7- Dice dunque il discepolo, quello che Gesù amava, a
Pietro: << È il Signore>>. Simon Pietro dunque, avendo
udito che è il Signore, si cinse la sopravveste, era infatti nudo, e
si gettò nel mare;
8- Gli altri discepoli, invece, vennero con la barca,
infatti non erano distanti dalla terra, ma a circa duecento cubiti,
trascinando la rete dei pesci.
9- Quando dunque scesero a terra, vedono della bragia
che stava (lì) e del pesce posto sopra e del pane.
10- Dice loro Gesù: <<Portate dei pesci che avete
preso ora>>.
11- Salì dunque Simon Pietro e tirò a terra la rete
piena di centocinquantatré grossi pesci; e pur essendo così tanti
la rete non si ruppe.
12-
Dice loro Gesù: <<Orsù, mangiate>>. Ma nessuno dei
discepoli osava chiedergli: <<Chi
sei tu?>>,
sapendo
che è il Signore.
13- Gesù viene e prende il pane e (lo) dà a loro, e
similmente il pesce.
14- Questa (era) già la terza volta (che) Gesù si
manifestò ai discepoli, risuscitato dai morti.
Il racconto della pesca miracolosa è delimitato dall'inclusione data dall'espressione del “manifestarsi di Gesù ai discepoli”, posta ai vv.1.14. L'intera unità narrativa, pertanto, è sotto l'egida non di una apparizione, ma di una manifestazione. La differenza dei termini è essenziale per comprendere il contesto in cui si svolge il racconto. Nell'apparizione è Gesù che si rende direttamente riconoscibile, come nel caso della Maddalena, chiamata per nome, o dei discepoli, che a porte chiuse “vedono” Gesù, la cui presenza si impone a loro: “stette nel mezzo”, evidenziando la centralità del Risorto all'interno della comunità credente (20,19b.26b). Nella manifestazione, per contro, la sua presenza non è colta direttamente e immediatamente; infatti qui non compare mai il verbo “vedere”, che invece è prevalente nel cap.20, ma è mediata da un segno, da cui traspare e si manifesta e in cui egli si rende percepibile e raggiungibile, come nel caso dei discepoli di Emmaus, che lo riconoscono nel segno eucaristico (Lc 24,30-31). Non si può dire, infatti, che Gesù appare loro, ma che nel segno si è manifestato, cioè si è disvelato, a loro. Ed anche qui, in 21,1-14, il segno è chiaramente eucaristico. Si ha, infatti, non un'apparizione, bensì un disvelamento, una manifestazione, che si attua in un contesto eucaristico. Il racconto, difatti, si apre con un evidente richiamo al cap.6, di cui, in apertura, ricrea il contesto topografico: “Dopo queste cose, Gesù manifestò di nuovo se stesso ai discepoli sul mare di Tiberiade” (v.1), e similmente in 6,1: “Dopo queste cose Gesù se ne andò al di là del mare della Galilea, quello di Tiberiade”. Se, dunque, 6,1 crea il contesto del segno e del grande discorso eucaristico, in cui Gesù, pane di vita disceso dal cielo (6,51a), si offre alle folle (6,1-5.11), qui in 21,1 tale contesto vede il manifestarsi di Gesù ai soli discepoli nel segno del pane eucaristico, qui alluso non solo dal richiamo al cap.6,1, come poc'anzi detto, ma anche dalla presenza del pane e dei pesci, qui definiti (vv.9.10.13) con lo stesso termine di 6,9.11: “Ñy£rion” (opsárion); un termine questo particolarmente significativo, perché in tutta la Bibbia, esso compare soltanto qui in Giovanni in questi due capitoli; così come il termine pane in Giovanni è presente soltanto nel cap. 6 e qui ai vv.9.13. Sarebbero pertanto sufficienti questi due elementi così esclusivi, che si richiamano l'un l'altro, per accomunare i due racconti (capp.6.21) nel medesimo contesto eucaristico. Ma vi è anche il gesto dell'offrire, là alle folle (6,11) e qui ai discepoli (v.13), questo pane e questi pesci, che richiama il contesto eucaristico. Tuttavia, a differenza del cap.6, dove Gesù, pane di vita si offre alle folle, qui Gesù non si offre, ma si manifesta in un contesto eucaristico esclusivamente al collegio apostolico, che simbolicamente è richiamato al v.2 nella sua pienezza con il numero sette e con la preminenza di Pietro, che apre l'elenco dei discepoli. L'intera questione qui, pertanto, non riguarda più il mondo dei credenti in genere, ma dei loro vertici apostolici, collocati all'interno di uno scenario eucaristico, quasi a dire che l'unità di tale collegio, a cui ora è associato anche il Discepolo Prediletto, e di conseguenza di tutte le comunità credenti, deve ritrovarsi all'interno di tale contesto. È questo che crea l'unità: l'unico Pane di vita. Similmente Paolo rivolgendosi alla sua comunità di Corinto, lacerata da divisioni interne (1Cor 1,10-13), la sollecitava all'unità attorno al banchetto eucaristico: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane” (1Cor 10,16-17). E qui il richiamo alle divisioni ricomposte è dato dal v.11 dove compare il verbo “sc…zw” (schízo), posto all'aoristo passivo nell'espressione “oÙk ™sc…sqh tÕ d…ktuon” (uk eschíste tò díktion), letteralmente “la rete non venne divisa”, alludendo alla ricomposizione della carismatica comunità giovannea con quelle istituzionalizzate della Palestina. Anche Paolo, infatti, userà lo stesso termine per indicare le divisioni interne alla comunità di Corinto “sc…smata” (schísmata; 1Cor 1,10.18). Lo stesso Giovanni userà tale termine per indicare le divisioni che la persona di Gesù e il suo insegnamento producevano all'interno della comunità giudaica (7,43; 9,16; 10,19). L'uso qui, al v.11, del verbo “schízo” è, pertanto, intenzionale ed allude all'inscindibile unità ricomposta tra le due aree giovannea e palestinese, che vede l'affermarsi del primato petrino.
Il v.1 si apre con un'espressione caratteristica di Giovanni “Met¦ taàta” (Metà taûta), il cui intento è quello di creare una continuità narrativa con il cap.20; similmente l'avverbio “p£lin” (pálin, di nuovo), una peculiarità giovannea, tende a rafforzare la saldatura tra i due capitoli. La stessa funzione espleta il v.14 dove si parla di una “terza volta (che) Gesù si manifestò ai discepoli”, richiamandosi alle due precedenti apparizioni di 20,19-29, riservate ai discepoli. Tuttavia, nonostante questi tentativi di aggancio al cap.20, come si è visto sopra, il cap.21 ha una diversa origine, postuma, rispetto all'ultima stesura del vangelo giovanneo, chiusosi con 20,30-31. Queste particolari attenzioni denotano la preoccupazione dell'ultimo redattore di non creare dei traumi narrativi, ma di inserirsi, quasi in punta di piedi, nel racconto giovanneo, facendo passare il cap.21 come una sorta di naturale sviluppo del cap.20. Vedremo inoltre come anche le due conclusioni del vangelo giovanneo (20,30-31; 21,24-25) sono state studiate attentamente dall'ultimo redattore così che la seconda conclusione (21,24-25) va a completare la prima (vv.20,30-31).
La cornice geografica entro cui è collocato il racconto della pesca miracolosa è il “mare di Tiberiade”7, espressione questa usata da Giovanni soltanto qui e in 6,1, creando in tal modo un forte richiamo a quel contesto geografico, dove Gesù operò il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci, posto all'interno di una cornice eucaristica (6,11) e tenne il discorso sul pane vivente disceso dal cielo (6,51). Un aggancio, che richiama anche qui il tema eucaristico, non più esteso alle folle, ma ristretto al collegio apostolico, elencato al v.2, di cui si sottolinea la profonda unità: “Erano insieme” (Ãsan Ðmoà, êsan omû), in cui l'imperfetto indicativo evidenzia la persistenza di tale unità, a cui partecipa, questa volta, anche il Discepolo Prediletto (vv.7.20). Un elenco apostolico che si apre con Pietro. Il redattore giovanneo, quindi, rispetta qui la tradizione sinottica, secondo la quale il nome di Pietro apre gli elenchi degli apostoli, riservandogli in tal modo una sorta di primato all'interno del collegio stesso (Mt 10,2-4; Mc 3,16-19; Lc 6,13-16). Anche Giovanni, quindi, a modo suo, ci fornisce un suo elenco apostolico, ristretto a sette discepoli per indicare l'insieme di tale collegio. È significativo che qui in Giovanni compaia per primo Pietro. È questo il primo segnale di riconoscimento del primato petrino da parte della carismatica comunità giovannea e quindi il primo passo della sua istituzionalizzazione, che lascia intendere come qui il Discepolo Prediletto, il maestro carismatico di tale comunità, sia ormai da tempo deceduto. L'elenco prosegue con nomi di discepoli che già si sono incontrati nel racconto giovanneo: Tommaso, rinominato con il nome greco di Didimo8; Natanaele, a cui l'evangelista aveva già riservato la pericope 1,45-49, ma qui ci informa anche che è originario di Cana di Galilea; prosegue l'elenco con una novità assoluta: la citazione dei figli di Zebedeo, che compaiono negli elenchi tradizionali degli apostoli e nei racconti sinottici, ma mai in Giovanni, se non qui. Forse un compromesso tra la comunità giovannea e quella palestinese; un altro segnale che questo capitolo è stato scritto a due mani. L'elenco si conclude con la citazione anonima di “altri due dei suoi discepoli”, a cui l'autore giovanneo aveva già dedicato i vv.1,35-40. Uno di questi due era Andrea, fratello di Simon Pietro (1,40), mentre l'altro discepolo rimane chiuso nel suo anonimato, che lo caratterizza. Ma certamente qui egli è il Discepolo Prediletto, poiché esso compare al v.7, nella stessa barca di Pietro, dove è definito come “il discepolo, quello che Gesù amava”; una presenza che verrà richiamata anche al v.20. Un collegio apostolico che viene presentato come “insieme” (v.2), sottolineandone l'unità e la comunione.
Preceduti dall'introduzione dei vv.1-2, che fungono da contesto entro cui si colloca il racconto della pesca miracolosa, i vv.3-4 mettono in evidenza la fragilità e il sostanziale fallimento delle iniziative umane senza la determinante presenza di Gesù. Qui Pietro, capo del collegio apostolico, prende l'iniziativa su tutti a cui si associano anche gli altri. Tutti salgono su di un'unica barca, metafora della comunità credente. Vi è dunque una profonda unità e comunione d'intenti, a cui, si badi bene, partecipa anche il Discepolo Prediletto. Una nota questa che non va trascurata per comprendere di quale pesca qui si tratti. La pesca, il pescare, l'essere pescatore di uomini sono tutte metafore evangeliche che ineriscono in senso generale alla missione della chiesa nel tempo post-pasquale, ma la presenza del Discepolo Prediletto, che partecipa a questa pesca, la quantità così precisa di 153 grossi pesci, pescati sul lato destro della barca, il lato privilegiato della comunità credente, dicono nel loro insieme che qui ci troviamo di fronte ad una pesca del tutto particolare; una pesca il cui intento è portare questi 153 grossi pesci a riva, dove c'era Gesù (vv.10-11). Non è stata, nel suo insieme, una pesca facile, infatti “non erano più capaci di trarla per la moltitudine dei pesci” (v.6b). Fu una pesca preceduta anche da un tentativo fallito, il cui fallimento è da attribuirsi all'iniziativa umana, che esclude Gesù. È Pietro, infatti, che decide univocamente di tentare la pesca, a cui si associa l'intero collegio apostolico; una decisione presa tra uomini e secondo le regole umane: l'uscire di notte per pescare rientra in tali logiche. Ma sulle sole logiche umane non si giunge che al fallimento: “in quella notte non presero niente”. È la notte del decidere e del darsi da fare senza il riferimento a Gesù: solo lui è la vera luce che illumina l'attività della chiesa e soltanto attorno a lui si costituisce la vera unità e la comunione ecclesiali. A questa notte fallimentare dello sforzo umano, infatti, si contrappone, ora, il “mattino” di Gesù, che poi si scoprirà essere un Gesù eucaristico (vv.12a.13).
Il v.4 si apre con una nota temporale: “Ora, facendosi già mattina”, che richiama da vicino gli albori della risurrezione9. Non a caso compare qui un Gesù che “stette sulla spiaggia”. Quel “stette” (œsth, éste) richiama la posizione del Risorto: lo stare diritto in piedi, rialzato, eretto; una posizione che s'impone nuovamente con forza e fermezza in mezzo ai suoi (20,19b.26b). È questo, infatti, il significato del verbo “†sthmi” (ístemi). Un verbo qui posto all'aoristo, che potremmo definire come iterativo, poiché si richiama ad un evento compiutosi nel tempo, ma che il tempo non ha saputo fermare e che s'impone di continuo nella vita della comunità credente. Una presenza di cui sovente la comunità credente dimentica o non sa riconoscere: “non sapevano che è Gesù”. Un'espressione questa che richiama da vicino quella della stessa Maddalena, che nel cap.20 era metafora della stessa comunità giovannea: “non sapeva che è Gesù” (20,14). Quel “non sapeva/non sapevano” posto all'imperfetto indicativo dice il persistere di questa incapacità di riconoscere la forza della presenza di Gesù all'interno della comunità credente e dello stesso collegio apostolico: ciò che infatti non sapevano è che “Gesù è” ('Ihsoàj ™stin, Iesûs estin). Per questo i discepoli si perdono nella notte dei ragionamenti umani e dei tentativi di ricondurre nella grande comunità ecclesiale i 153 grossi pesci, finché la comunità credente e qui lo stesso collegio apostolico non si lasciano illuminare dalla luce del Risorto, che è in mezzo a loro in modo del tutto particolare, che vedremo essere quello eucaristico.
I vv.5-9 sono il cuore del racconto della pesca miracolosa e la loro importanza è sottolineata dalla particolare costruzione di questa pericope a parallelismi concentrici in C), in cui il collegio apostolico riconosce la presenza del Risorto in mezzo a loro: “ È il Signore”. La struttura di questa pericope pertanto si snoda nel seguente modo:
A) Gesù chiede ai discepoli se hanno qualcosa da mangiare; la risposta è negativa (v.5);
B) la pesca miracolosa è tale da essere incapaci da trarre le reti a terra per la moltitudine dei pesci (v.6);
C) Il Risorto è riconosciuto e Pietro si ricongiunge al Signore (v.7)
B1) Dopo il riconoscimento del Risorto (v.7) i discepoli riescono a trascinare a terra le reti con l'abbondante pesca (v.8), portando a termine i loro sforzi, ora divenuti proficui;
A1) Quando scendono a terra i discepoli trovano che Gesù ha preparato per loro il cibo che essi non hanno: pesce e pane (v.9)
A e A1) si pongo tra loro in parallelismo complementare: in A) i discepoli constatano la loro incapacità di cibo; in A1) Gesù lo procura loro. In B) si constata la pesca miracolosa, ma i discepoli non sono in grado, a motivo di tale abbondanza, di portare a termine il lavoro; in B1) i discepoli portano a compimento la loro missione soltanto dopo il riconoscimento della presenza del Risorto in mezzo a loro. La lettera C) è posta centralmente per indicare come il riconoscimento del Risorto quale Signore in mezzo al collegio apostolico sia la chiave solutiva non solo della sua azione missionaria, ma di ogni altra sua attività.
Il v.5 riporta un conciso dialogo tra Gesù e i discepoli, con il quale Gesù mette in qualche modo alla prova i discepoli, chiamati qui in modo insolito “Paid…a” (Paidía, Ragazzi), che richiama da vicino il termine “paid£rion” (paidárion, ragazzino) di 6,9a. Il v.5, infatti, sembra qui sintetizzare il dialogo tra Gesù e Filippo di 6,5b-9, in cui si metteva in evidenza l'incapacità dei discepoli a sfamare la moltitudine, così come qui viene rilevata l'incapacità dei discepoli di avere del cibo; sarà, pertanto, ancora una volta Gesù a preparare loro un cibo particolare al v.9, posto in parallelo a questo e ne costituirà la risposta. Un cibo, come vedremo, che è caratterizzato da tre elementi particolari: delle brace su cui è posto del pesce e del pane. Il v.5 pertanto costituisce una sorta di premessa al v.9: il v.5 pone la questione e il v.9 dà la risposta, che verrà data tuttavia soltanto dopo il v.7a dove vi è il riconoscimento all'interno del collegio apostolico della presenza del Risorto. Pertanto ora la questione posta dal v.5 viene momentaneamente sospesa per dare spazio al segno attraverso il quale Gesù manifesterà se stesso. Prima di giungere al v.9, infatti, si tratta di compiere un cammino di riconoscimento e di comprensione dell'evento Risorto all'interno della comunità credente, che avrà il suo vertice al v.7a.
Il v.6 è spettacolare ed è scandito in due parti: un comando (v.6a) e il suo effetto (v.6b). Un versetto che mostra l'efficacia della parola del Risorto, capace di produrre ciò che dice (Eb 4,12). È sufficiente darle spazio all'interno della comunità credente, farla risuonare all'interno del collegio apostolico e porla a suo fondamento perché essa produca i suoi abbondanti effetti: si tratta, infatti, di una parola creatrice, generatrice e rigeneratrice (1,12-13; Gc 1,18; 1Pt 1,23), che funge da collante all'interno della comunità e del suo collegio apostolico.
Il comando di Gesù (v.6a) è scandito qui da due verbi tra loro strettamente correlati da quel “kaˆ” (kaì, e) posto davanti al verbo “troverete”, che lo lega in un rapporto di causa-effetto al verbo “gettare”, quest'ultimo posto al presente indicativo, l'altro al futuro. Un'azione presente, dunque, che ha i suoi effetti nel futuro e che guarda al futuro ed è aperta ad esso. Questo presente, dunque, coniugato con il futuro, funge da azione benaugurale, che apre alla speranza. E ciò che qui si deve “gettare” è la rete, uno strumento che è finalizzato a prendere i pesci o forse, qui, è meglio dire a raccogliere dei pesci dal mare; pesci che si trovano sul lato destro della barca, che nel linguaggio evangelico è la metafora della chiesa; mentre il lato destro della barca, dove si trovano i pesci da raccogliere, dice il lato privilegiato di questa chiesa, il lato che appartiene a Dio e in qualche modo ne esprime la fecondità, che proviene dalla vita stessa di Dio10. Anche i pesci, pertanto, trovandosi sul lato destro della barca, occupano una posizione privilegiata all'interno della chiesa. Chi siano questi pesci raccolti nella rete e provenienti dal lato destro della chiesa, il lato della fecondità di Dio, avremo modo di vedere nel commento del v.11, dove si parla di “centocinquantatré grossi pesci”.
Il v.6b illustra gli effetti strabilianti della potenza della parola del Risorto, allorché essa si incarni nell'operare stesso della chiesa: “Gettarono dunque, e non erano più capaci di trarla per la moltitudine dei pesci”. Viene quindi qui sottolineata la primarietà della parola, che deve informare e sostanziare l'azione missionaria e pastorale della chiesa, sugli sforzi umani. Questi tendono a dividere, ad ostacolare, mentre la parola, per contro, diviene il punto accentratore dei credenti e, in quanto una, crea unità, generando in se stessa uno spazio comunionale per tutti i credenti, che in essa si riconoscono e vivono. Ma il v.6b sottolinea, al di là della strabiliante pesca generata dalla parola, anche l'incapacità dei discepoli di trarla a riva. L'incapacità di gestire una simile pesca. Se, quindi, la parola genera l'abbondanza, il saper gestire tale abbondanza comporta un diverso e maggiore livello di fede. Sarà il v.7 ad indicare la strada.
Il v.7, per la sua importanza cristologica, è posto centralmente a questa pericope e vede in azione nuovamente e per l'ultima volta il Discepolo Prediletto, che indica a Pietro la via: “Dice dunque il discepolo, quello che Gesù amava, a Pietro: <<È il Signore>>”, espressione quest'ultima con cui nella chiesa primitiva si definiva il Risorto. Un Gesù, dunque, che non appare, ma che si manifesta nel segno della pesca miracolosa. Non tutti, infatti, lo riconoscono, ma soltanto il Discepolo Prediletto. È lui che lo addita a Pietro e con lui a tutti gli altri, che con Pietro “erano assieme” (v.2a). Serve dunque l'intuizione dell'amore, che compenetra l'amante all'amato, per riconoscerlo ovunque e in qualsiasi forma e modo esso si presenti. Soltanto riconoscendo Gesù come il Signore, ponendolo dunque centralmente nella vita della chiesa si può giungere a completare con pienezza e successo l'azione missionaria e pastorale della stessa, liberandola da tutte le sue presunzioni. Non è dunque la capacità organizzativa e gli sforzi umani del collegio apostolico e dei credenti che creano unità e comunione, ma il riconoscere la potenza del Risorto, che deve essere lasciata fluire dall'agire stesso della chiesa, liberata e libera dalle sue presunzioni. Vediamo, infatti, come soltanto dopo questo riconoscimento (v.7), soltanto dopo aver accettato il Risorto quale fondamento del proprio agire, l'incapacità dei discepoli a gestire la rete piena di pesci (v.6b), cioè l'unità della comunità e del collegio apostolico, si dissolverà nel successivo v.8, in cui i discepoli saranno in grado, ora, di trascinare la rete ricolma di pesci.
Il v.7b costituisce la risposta di Pietro all'indicazione del Discepolo Prediletto, che ancora una volta viene indicato, lui e non Pietro, come il maestro spirituale, che addita alla comunità dei credenti, la via da seguire. Non si dice, infatti, che Pietro ha riconosciuto il Risorto, come anche nel racconto della tomba vuota si lascia intendere come non avesse compreso gli eventi, diversamente dal Discepolo Prediletto che “vide e credette”. Ma nonostante questa sua limitatezza spirituale, che non riesce a farlo andare oltre, viene infatti sottolineata la sua nudità11, egli, sull'indicazione del Discepolo Prediletto, decide la sua vita in favore del Risorto, rompendo ogni indugio. La fede del resto non è mai la conclusione di un bel ragionamento, ma una decisione esistenziale operata sulla parola accolta nella sincerità del proprio cuore. Pietro, infatti, si getterà in acqua, cioè farà la sua scelta definitiva, soltanto dopo “aver udito”. Si tratta, dopo l'esperienza negativa del rinnegamento, di una scelta traumatica, che verrà poi confortata e irrobustita dalla sua triplice confessione di amore al Risorto, da cui riceverà l'investitura ufficiale a pastore e guida del gregge.
Il v.8 sposta nuovamente l'attenzione del lettore sulla barca dove il resto dei discepoli, lasciati in difficoltà al v.6b, ora, dopo il riconoscimento di Gesù quale Signore (v.7), riescono a portare a compimento la loro missione, trascinare la rete dei pesci, cioè ricostituire e conservare l'unità e la comunione tra le comunità palestinesi e quella giovannea. Anche per questi, similmente a Pietro, non si dice che hanno riconosciuto il Risorto, ma soltanto che sanno nel loro intimo che quello è Gesù, ora, il Signore. Il v.12, infatti, sottolineerà questo loro stato di scienza, ma non di conoscenza: “nessuno dei discepoli osava chiedergli: <<Chi sei tu?>>, sapendo che è il Signore”. Torna, infatti, qui il caratteristico verbo “sapere”, proprio di Giovanni, con cui si indica la penetrazione del Mistero. È un Gesù, dunque, riconosciuto nell'intimo del proprio cuore; un Gesù, ora, creduto, anche se non riconosciuto e non più percepito nel suo aspetto storico, che rimane irraggiungibile (“Chi sei tu?”); un Risorto che non appare loro, ma si manifesta a loro come il Signore attraverso il segno della pesca e dell'eucarestia. Ed è proprio su questa loro intima convinzione, divenuta ormai fede certa, che il collegio apostolico riesce ora a “trascinare a terra la rete dei pesci”, cioè a ricondurre in unità e comunione con il resto della chiesa istituzionalizzata anche la ormai non più carismatica comunità giovannea, privata della presenza del Discepolo Prediletto.
Il v.9 da un lato costituisce una sorta di risposta al v.5, dove l'autore aveva rilevato che i discepoli non avevano cibo; dall'altro esso funge, come vedremo, da elemento inclusivo con il v.13. Potremmo pertanto definirlo come un versetto di transizione, che crea una sorta di saldatura tra la pericope 5-9 e 9-13. Ora, ciò che i discepoli, rientrati sulla terra ferma, portando con sé la rete piena di pesci, trovano è un fuoco con sopra del pesce e del pane. Un cibo che non avevano preparato loro, ma verosimilmente, anche se non detto esplicitamente, Gesù, per colmare la loro carenza di cibo. È dunque Gesù e non i discepoli ad imbandire il pasto eucaristico, a cui viene qui aggiunta una nota del tutto inedita: quella sacrificale. Infatti, se il pane e il pesce evocano da vicino il segno eucaristico, accompagnato dal lungo discorso del pane vivente disceso dal cielo, del cap.6, il fuoco, su cui tale pane e pesce sono posti, richiamano da vicino l'olocausto, il sacrificio. Pane e pesce quindi che sono associati al sacrificio. Ci si trova, pertanto, di fronte ad una sorta di banchetto eucaristico attorno al quale viene portata la rete dell'unità e della comunione. Questo è il vero cibo che il Gesù, morto e risorto, ha lasciato ai suoi, attorno al quale si deve ricostituire ed alimentare l'unità e la comunione dei credenti. Un tema quest'ultimo che sarà ripreso e approfondito dalla pericope seguente, circoscritta dai vv.9-13.
Tale pericope è delimitata dall'inclusione data per complementarietà di movimenti: al v.9 i discepoli, scesi dalla barca, trovano preparati per loro delle brace con sopra dei pani e dei pesci; al v.13 Gesù prende questo pane e questo pesce e lo dà loro. Il contenuto di questi due versetti è chiaramente eucaristico. Già nel commento del v.9 abbiamo sottolineato l'aspetto eucaristico-sacrificale simboleggiato nei tre elementi delle braci con sopra il pane e i pesci; elemento eucaristico che viene qui completato al v.13, dove Gesù prende questo pane e questo pesce e lo distribuisce ai suoi, creando un stretto legame con l'eucaristico v.6,11: “Gesù, dunque, prese i pani e, dopo aver reso grazie, (li) distribuì a quelli che stavano sdraiati; similmente (fece) anche dei pesciolini, quanto volevano”. Lo sfondo chiaramente eucaristico dei vv.9.13 associano, pertanto, a tale tema il racconto da essi incluso.
I vv.10-11 lasciano alquanto perplessi: Gesù ordina ai discepoli di portare dei pesci appena presi. Il senso di tale comando sembrerebbe finalizzato ad aggiungere alcuni altri pesci a quelli che già stavano abbrustolendo sulle braci per rendere più abbondante il pasto. Ma con stupore nulla avviene in tal senso: Pietro porta i pesci a Gesù e ci si sofferma sul fatto che erano “centocinquantatré grossi pesci” e che la rete non si ruppe. Dopo di che Gesù sollecita i suoi a mangiare e così dicendo distribuisce i pesci e il pane posti sulle braci. Perché dunque non si dice che questi pesci sono stati messi ad abbrustolire con gli altri? Perché Gesù ordina di portare a sé questi pesci ai discepoli (“portate”), ma soltanto Pietro si muove in tal senso e con stupore, quella rete colma di pesci, che a gran fatica riuscivano a muovere in sei persone (v.6b) ora Pietro, tutto solo, tira a terra la rete gonfia di ben centocinquantatré grossi pesci. Probabilmente Pietro si sarà fatto aiutare dagli altri, ma questo non viene detto, mentre si sottolinea come sia soltanto Pietro a portare a Gesù la rete colma di pesci e non gli altri. Per poter rispondere a questi interrogativi e sciogliere delle evidenti incongruenze narrative è necessario accentrare la nostra attenzione sul significato che l'autore attribuisce a questi pesci.
Non si tratta in realtà di pesci comuni, ma essi sono definiti come pesci che si trovano sul lato destro della barca (v.6), appartengono quindi in modo privilegiato alla chiesa, benché essi si trovino fuori dalla barca dove c'è Pietro e il collegio apostolico; fuori cioè dalla chiesa istituzionalizzata. Essi sono in numero di centocinquantatré e sono tutti quanti grossi. Non c'è dubbio, ormai, che questi pesci alludono agli stessi componenti della comunità giovannea, che abbiamo definita dalle piccole dimensioni e costituita da membri socialmente elitari e che dovevano godere di una qualche posizione privilegiata nella società12, per questo sono definiti “grossi”, mentre il 153 ne definisce, quasi certamente, la quantità all'epoca della stesura del presente cap.21. Il numero così preciso si colloca fuori da ogni metafora e da ogni simbolismo, benché molto si sia speso in tal senso, ma inutilmente non giungendo a nessuna conclusione ragionevole e convincente, nonostante complesse elaborazioni operate su tale numero. Se si tratta di una qualche metafora o di un qualche simbolismo questo deve essere facilmente raggiungibile, considerato che il vangelo è rivolto alla comunità, la quale deve saperne cogliere immediatamente il significato, affinché questo non vada perduto, perché eccessivamente criptato. Il numero, pertanto, non ha un valore simbolico o metaforico, ma storico e reale. Su quest'ultima posizione si trova d'accordo anche il Brown13, benché non sappia fornire un significato al numero.
Al comando di Gesù di portargli i pesci (v.10), risponde qui soltanto Pietro, che sale sulla barca e trascina a terra, da solo, la rete piena di 153 grossi pesci, che in precedenza gli altri sei discepoli con lui avevano faticato a trascinare (v.6b.8). È dunque Pietro a porsi a capo di questi questa comunità di 153 pesci e condurli al Risorto (v.11) e non più il Discepolo Prediletto, che ormai è qui posto, assieme al collegio apostolico (vv.2.7), sulla stessa barca dove c'è anche Pietro, benché continui a svolgere la sua funzione di Discepolo Prediletto, intuendo per primo ed indicando a Pietro e al collegio apostolico il Risorto e la strada da seguire per raggiungerlo (v.7). L'autore osserva come Pietro trascini questi 153 grossi pesci dentro ad una rete che non si rompe (v.11b); l'esatto contrario del racconto lucano dove i pesci erano talmente tanti che “le reti si rompevano” (Lc 5,6). Perché questo scostamento tra i due racconti? In Luca il racconto della pesca miracolosa, da cui è stato tratto quello giovanneo, ha un taglio squisitamente ecclesiologico ed allude ai frutti abbondanti dell'azione della chiesa fondata sulla Parola di Gesù (Lc 5,5b); mentre in Giovanni la rete che non si rompe nonostante il suo carico allude a ben altro. È una rete che è la metafora dell'unità ormai raggiunta tra la carismatica comunità giovannea e quelle istituzionalizzate della Palestina. Infatti l'autore precisa che “la rete non si ruppe” dove il verbo rompere, a differenza di Lc 5,6 che usa il verbo “dierr»sseto” (dierrésseto, si rompevano), è qui reso in greco con “™sc…sqh” (eschíste) che significa letteralmente spaccare, scindere, lacerare, separare, dividere. Ed è lo stesso verbo, ma reso con il suo sostantivo corrispondente “sc…smata”(schísmata, divisioni), che Paolo usa per indicare le divisioni che si erano prodotte all'interno della comunità di Corinto, a cui indirizza la sua prima lettera (1Cor 1,10; 11,18). Il verbo è qui posto al passivo “non fu rotta” per significare come nonostante il ricongiungimento della comunità giovannea con le altre comunità non si produsse nessuna divisione tra di loro, ma la rete dell'unità e della comunione tenne bene, poiché “non fu rotta”.
I vv.12-13 racchiudono in loro stessi la simbologia eucaristica, che si richiama e in qualche modo qui riproduce 6,11. In quel “Orsù mangiate”, fatto seguire dal Gesù che dà loro il pane e il pesce vi è una sorta di eco della formula eucaristica del “Prendete e mangiate” (Mt 26,26), che in vario modo risuona anche in Mc 14,22-25, in Lc 22,15-21 e in 1Cor 11,23-27. Significativi sono i verbi del v.13, “viene e prende e dà loro”, tutti posti al presente indicativo, che sottolinea sia l'attualità nell'oggi e del suo perpetuarsi nel tempo, come in un continuo presente. Ed è attorno a questo banchetto eucaristico, dove centrale è la figura del Risorto nei segni del pane e dei pesci, del prendere e del mangiare, che si colloca la rete incorrotta e incorruttibile dell'unità e della comunione, che dà forma e sostanzia la nuova ed allargata comunità credente, che vede ora come unico pastore Pietro, che sarà ufficialmente insignito della sua pastoralità da parte di Gesù ai vv.15-17.
Il v.14, richiamandosi al v.1 e formando con esso inclusione, conclude il racconto della pesca miracolosa mettendola sotto il segno non dell'apparizione, ma della manifestazione del Risorto, la cui presenza è qui significata sia nel segno della pesca miracolosa che nell'eucarestia, quale elemento amalgamante la comunità credente. Viene specificato come questa sia la terza volta che Gesù si manifesta dopo la sua risurrezione dai morti, con l'evidente richiamo alle due precedenti apparizioni di 20,19-29. Un tentativo letterario, come si è già detto sopra, che assieme alle espressioni “Dopo queste cose” e “di nuovo” (v.1), cerca di dare una sorta di continuità narrativa e tematica al cap.21, benché il linguaggio, il modo di narrare e la tematica stessa lo collochino molto lontano dal cap.20.
L'investitura di Pietro e il suo primato (vv. 15-17)
Testo
15- Quando dunque ebbero fatto colazione, Gesù dice a
Simon Pietro: <<Simone di Giovanni, mi ami più di costoro?>>.
Gli dice Pietro: <<Si, Signore, tu sai che ti voglio bene>>.
Gli dice: <<Pasci i miei agnelli>>.
16- Gli dice di nuovo per la seconda volta: <<Simone
di Giovanni, mi ami?>>. Gli dice: <<Si, Signore, tu sai
che ti voglio bene>>. Gli dice: <<Pasci le mie pecore>>.
17- Gli dice per la terza volta: <<Simone di
Giovanni, mi vuoi bene?>>. Pietro fu addolorato perché gli
disse per la terza volta: “Mi vuoi bene?”. E [gli] dice:
<<Signore, tu sai tutto, tu conosci
che ti voglio bene>>. Gli dice Gesù: <<Pasci le mie
pecore>>.
Commento ai vv.15-17
Già lo si era capito che la figura di Pietro in questo cap.21 giganteggia ed è sempre più in forte espansione fino ad oscurare quella del Discepolo Prediletto, che sembra scomparire completamente per fargli spazio. Ora si apre con questa breve pericope (vv.15-17) una scena parallela e contrapposta a quella di 19,26-27, dove la comunità giovannea aveva assegnato l'eredità spirituale di Gesù e quindi il primato apostolico al Discepolo Prediletto. Qui emerge ora, in modo diretto, senza simbolismi e metafore, il primato di Pietro, che eredita da Gesù la sua stessa pastoralità, quella del Buon Pastore che offre la sua vita a favore delle sue pecore (10,11.15b). Una pastoralità quindi che è segnata dalla croce e dal dono estremo di sé. Un aspetto questo che sarà evidenziato dal v.18, dove si prospetta il destino di sofferenza e di morte di Pietro. Pastoralità quindi come servizio, che si fa dono pieno e totale di sé. Una pastoralità che lega l'erede del Buon Pastore ad uno stretto vincolo di amore, tale da renderlo simbiotico con lui; un vincolo che deve superare quello normale che lega il discepolo al suo maestro (v.15a); un amore totale ed esclusivo, che deve riprodurre quello stesso vincolo e quello stesso rapporto che lega Gesù al Padre, in cui e da cui ha origine la stessa pastoralità di Gesù (10,29-30). Per due volte, infatti, Gesù si rivolge a Pietro interpellandolo sull'amore usando il verbo “¢gap£w” (agapáo), che in Giovanna designa il rapporto di amore che intercorre tra il Padre e Gesù. Ma Pietro non sembra cogliere il senso di questo amore e risponde per tre volte che gli vuole bene, usando il più scialbo verbo “filšw” (filéo), che più che amore designa un semplice rapporto affettivo, che può legare due amici, ma che è ben lungi da quel amore sublime che ha gli stessi connotati divini e che lo lega a Gesù come questi è legato al Padre, inserendolo nel suo stesso ciclo vitale. Forse una dichiarazione implicita della fragilità di Pietro, che qui sembra aver perso tutta la sua baldanza, con cui si era dichiarato pronto a dare la sua vita per Gesù (13,37), riducendosi poi ad un vergognoso rinnegamento; un triplice rinnegamento che qui Pietro sembra in qualche modo scontare con una triplice affermazione di amore, che rivela, invece, ancora una volta, in quel “filéo” tutta la sua debolezza. Una gracilità di rapporto che viene sottolineata da come Gesù qui si rivolge a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni”; un'espressione che richiama da vicino il primo incontro che Pietro ebbe con Gesù e dove egli ricevette il titolo di “Cefa”: “[...] Osservatolo, Gesù disse: <<Tu sei Simone, il figlio di Giovanni, tu sarai chiamato Cefa>> [...]” (1,42). Ma qui scompare il titolo di “Cefa” assegnatogli agli inizi della sequela, perché Pietro ha saputo dimostrare tutta la sua irresolutezza fino al rinnegamento, che forse in quel filéo denuncia di non avere ancora superato. Per questo Gesù sembra ora ridurre le sue pretese di amore da parte di Pietro, adeguandosi alle sue limitate capacità, così che alla terza volta egli gli si rivolge non più con l'impegnativo verbo “agapáo”, ma con il più semplice e abbordabile “filéo” (v.17). Ancora una volta Pietro viene in qualche modo sminuito proprio nel suo ministero, che non lo vede all'altezza. Forse tutto questo è opera dell'autore giovanneo, che ha voluto dare l'ultima stoccata a Pietro, dimostrando nuovamente tutta la sua inadeguatezza al ministero di cui è insignito e la sua incomparabilità con il Discepolo Prediletto, il cui destino sarà invece la glorificazione (v.23a).
Il racconto inizia con un richiamo ai vv.12-13: “Quando dunque ebbero fatto colazione”, dando in tal modo una continuità narrativa al tema dell'eucaristia, attorno alla quale si gioca non soltanto l'intera unità e comunione della comunità giovannea con quelle palestinesi, ma ora anche la stessa pastoralità petrina. Sarà, infatti, compito di Pietro, investito della pastoralità propria del Buon Pastore, conservare questa unità e questa comunione attraverso una sua piena dedizione, che possiede gli stessi aspetti sacrificali di quella di Gesù (vv.18-19), fattosi pane che si spezza per i suoi. Suo è infatti il compito di “pascere le pecore”, che qui viene sottolineato per tre volte usando due verbi simili, ma tra loro complementari: “bÒskw” (bósko), che significa pascolare, condurre al pascolo, alimentare, nutrire, mantenere; e “poima…nw” (poimaíno) che significa sono pastore, pascolo, sto alla custodia del gregge, nutro allevo, curo, guido, conduco. In entrambi i verbi si sottolinea la pastoralità del pastore, ma mentre nel primo si evidenzia il senso del nutrire e dell'allevare le pecore (10,9); nel secondo si rileva l'essenza stessa del pastore che è quella che della custodia, dell'aver cura e del guidare il gregge (10,3-4). Due verbi, quindi, che si completano tra loro delineando l'ampia area di azione del pastore, che definiamo come pastoralità; così come l'uso dei due sostantivi per indicare le pecore, “¢rn…a” (arnía, agnelli) e “prÒbata” (próbata, pecore) comprendono sia le pecore adulte che i loro nati, per indicare come al pastore e alla sua pastoralità è affidata la totalità del gregge.
Il destino di Pietro e del Discepolo Prediletto (vv.18-23)
Testo a lettura facilitata
Il destino di Pietro
18- In verità, in verità ti dico, quando eri più
giovane, cingevi te stesso e andavi dove volevi; ma allorché sarai
vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà e (ti) porterà
dove non vuoi>>.
19- Ora questo disse, annunciando con quale morte
avrebbe glorificato Dio. E dopo aver detto questo, gli dice:
<<Seguimi>>.
L'identità certa del Discepolo Prediletto
20- Voltatosi, Pietro vede il discepolo, che Gesù amava, che seguiva, colui che a cena si stese anche sul suo petto e disse: “Signore, chi è colui che ti consegna?”.
Il destino del Discepolo Prediletto
21- Avendo dunque visto costui, Pietro dice a Gesù:
<<Signore, ma costui che (destino avrà)?>>.
22- Gli dice Gesù: <<Se voglio che costui rimanga
finché vengo, che cosa ti (importa)? Tu seguimi>>.
23- Uscì dunque questa diceria tra i fratelli, che quel
discepolo non sarebbe morto; ma Gesù non gli disse che non sarebbe
morto, ma “se voglio che quello rimanga finché vengo, che cosa ti
(importa)?”.
Commento ai vv.18-23
Il cap.21 si chiude mettendo in evidenza il destino dei due capi delle due aree ecclesiali, che si contendevano il primato: Pietro, per quella palestinese (vv.18-19), e il Discepolo Prediletto, per quella giovannea (21-23). Due destini contrapposti: di sofferenza e di morte per Pietro, chiamato a seguire la sorte del Buon Pastore (v.19b), da cui ha ereditato l'onere della sua pastoralità (vv.15-17), che include il dono della propria vita (10,11.15b), perché le pecore affidategli abbiano la vita (10,10b.28); di glorificazione per il Discepolo che Gesù amava, anche se l'autore attenuerà questa affermazione (v.23b) per non renderla eccessivamente pesante nei confronti di Pietro. Forse un compromesso raggiunto tra i due coautori che hanno steso il cap.21.
Il destino di Pietro (vv.18-19)
Il destino di Pietro è tutto racchiuso nel v.18, la cui chiave di lettura è fornita dal successivo v.19. Si tratta del martirio di Pietro delineato dall'espressione “con quale morte avrebbe glorificato Dio”, espressione questa con cui si designava nella chiesa primitiva il martirio, rafforzata ora dall'esortazione imperativa “Seguimi”. Essa definisce la tipologia di martirio, che dovrà subire Pietro, il cui destino è assimilato a quello stesso di Gesù, il Buon Pastore che dà la sua vita per le sue pecore, perché abbiano la vita in abbondanza; ma che nel contempo richiama anche il destino di ogni discepolo: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34).
Entro questa cornice viene collocato il v.18, un po' sibillino e contorto nel suo modo di porsi al lettore. Esso si apre con l'espressione caratteristica di Giovanni: “In verità, in verità ti dico”, che imprime i tratti della solennità e della veridicità a quanto segue. Un versetto che è scandito su tre livelli di tempo: il passato (“quando eri più giovane”); il futuro (“allorché sarai vecchio”) e un presente sottinteso, in quanto il discorso è rivolto immaginariamente a Pietro, che all'epoca della composizione del cap.21 (circa110-115 d.C.) aveva già subito il martirio, verosimilmente intorno all'anno 64 d.C., ma che qui è considerato di mezza età poiché si parla “di quando eri più giovane” che si contrappone al “quando sarai più vecchio”. Un Pietro, quindi, che potremmo definire ancora in piena carriera. La contrapposizione tra l'età giovane di Pietro e quella della sua vecchiaia è finalizzata a mettere a raffronto due epoche: quella della piena libertà, in cui il giovane Simone, figlio di Giovanni, aveva piena disposizione su se stesso e un futuro tutto da disegnare e progettare; e quella della costrizione e dell'oppressione, in cui il vecchio Pietro, ormai non più “Simone, figlio di Giovanni”, ha potuto finalmente riscattare il suo rinnegamento e il suo tiepido amore per Gesù (filéo). Questa è la vera glorificazione di “Simon Pietro”, ora divenuto a pieno titolo soltanto Pietro.
L'identità certa del Discepolo Prediletto (v.20)
Il v.20 potremmo definirlo come una sorta di attestazione notarile che certifica, da un lato, la rinuncia del Discepolo Prediletto al suo primato spirituale, venendo evidenziato il suo porsi al seguito di Pietro; dall'altro, viene attestata in modo inequivocabile la sua identità. L'intero versetto sembra narrativamente costruito per togliere ogni possibile fraintendimento da parte di qualche frangia resistente della comunità giovannea.
La struttura del v.20 è stata particolarmente curata dall'autore perché è di specifico rilievo ecclesiologico. Essa è costituita da tre elementi che pongono al centro il participio presente “¢kolouqoànta” (akolutzûnta):
Voltatosi, Pietro vede il discepolo, che Gesù amava,
che seguiva, (¢kolouqoànta, akolutzûnta)
colui che a cena si stese anche sul suo petto e disse: “Signore, chi è colui che ti consegna?
Nella prima parte del versetto (a) vi sono due elementi che determinano in modo inequivocabile sia la nuova posizione del Discepolo Prediletto che la sua identificazione. Innanzitutto il v.20 si apre precisando che Pietro si “volta indietro” ('Epistrafeˆj, Epistrafeìs), indicando in tal modo come il Discepolo Prediletto fosse posizionato dietro di lui. Infatti soltanto in questo modo egli ha modo di vederlo. Il verbo qui usato per indicare il “vedere” di Pietro è particolarmente significativo: “blšpei” (blépei), che indica un vedere fisico, un vedere concreto, che non lascia dubbi sull'entità di ciò o di chi si vede. E ciò che Pietro vede dietro di sé è “il discepolo che Gesù amava”. Una simile affermazione potrebbe risultare equivoca, visto che Gesù, di fatto amava tutti i suoi (13,1b). In tal modo l'identificazione del Discepolo Prediletto sarebbe potuta risultare equivoca. Si rende quindi necessaria una determinazione ulteriore, che renda inequivocabile e incontestabile l'identificazione del Discepolo Prediletto. Ecco, dunque, l'esplicito riferimento al v.13,25, che richiama qui, quale elemento identificatore, l'episodio del Discepolo Prediletto nella cena di addio (v.2): “colui che a cena si stese anche sul suo petto e disse: <<Signore, chi è colui che ti consegna?>>” (b). Dopo questa meticolosa e inequivocabile identificazione del Discepolo Prediletto e dopo aver fin da subito accennato che questi si trovava dietro a Pietro, tant'è che Pietro ha dovuto “voltarsi indietro”, ecco giungere in posizione centrale, la più importante e la più in vista, l'affermazione che il Discepolo Prediletto “seguiva” (c). Il verbo qui usato è particolarmente significativo, poiché nei vangeli è usato per significare la sequela di Gesù da parte dei discepoli, il porsi al suo servizio: “¢kolouqoànta” (akolutzûnta), letteralmente: “colui che seguiva” o “colui che segue”, in entrambi i casi i tempi verbali indicano rispettivamente la persistenza e/o la reiterazione nel tempo dell'azione verbale, quella del seguire, per indicare la definitività di questa sequela. Ora qui l'autore usa questo verbo riferito al Discepolo Prediletto in rapporto, si badi bene, non più a Gesù, ma a Pietro, che da Gesù è stato rivestito della sua autorità pastorale (vv.15-17).
Il destino del Discepolo Prediletto (vv.21-23)
Il v.21 va letto in stretta relazione al v.20, dove si è determinata definitivamente la nuova posizione del Discepolo Prediletto, non più antagonista di Pietro nel primato apostolico, ma ora “normalizzato” all'interno della chiesa istituzionalizzata, che riconosce in Pietro l'erede spirituale della pastoralità di Gesù e, quindi, capo della chiesa. Persa pertanto la sua posizione antagonista, sorge ora all'interno della comunità giovannea quale sarà il destino del loro maestro e guida, ora “spodestato”. Vi è, infatti, qui una nuova comprensione circa il Discepolo Prediletto da parte di Pietro, che dopo averlo visto, con riferimento al v.20, ora si chiede quale sarà il suo destino; quale la sua nuova posizione. Il verbo vedere, infatti, qui, al v.21, cambia completamente: da “blépo” del v.20, per indicare un vedere fisico e concreto, atto a identificare, si passa ora ad “oráo”, il vedere che esprime sempre un livello di comprensione superiore. Ora ciò che Pietro qui vede, infatti, non è più il capo della comunità giovannea, ma un membro del collegio apostolico (v.2.7), che occupa una nuova posizione all'interno della chiesa istituzionalizzata. Il v.21 pertanto pone la questione del destino del Discepolo Prediletto. La risposta alla questione, posta probabilmente dalla stessa comunità giovannea, è data da Gesù stesso: “Se voglio che costui rimanga finché vengo, che cosa ti (importa)? Tu seguimi”. Si tratta di una risposta alquanto sibillina atta a generare dei fraintendimenti, come testimonierà lo stesso v.23. Tutto si gioca attorno a due verbi: “voglio” e “rimanere”. La domanda che Pietro pone a Gesù non esprime una fraterna preoccupazione nei confronti del Discepolo Prediletto “detronizzato”, ma una preoccupazione per la sua posizione, ora di primate assoluto, che se la deve giocare in casa con la scomoda presenza del Discepolo Prediletto, che come tale “rimane” e pertanto conserva la sua posizione di privilegio nei confronti di Gesù: egli era ed è tuttora “il discepolo che Gesù amava” e in tale posizione rimarrà fino al ritorno di Gesù. Un messaggio duro che la comunità giovannea manda al suo nuovo primate: il primato di Pietro finirà ed un altro prenderà il suo posto, ma quello speciale e privilegiato del Discepolo Prediletto rimarrà per sempre. Un rimanere che si fonda sulla stessa volontà di Gesù: “Se voglio”. Una sorta di apoteosi, dunque, che consacra la memoria di questo grande personaggio che ha fondato e retto per circa settantanni la comunità giovannea, ora istituzionalizzata dopo la morte del suo maestro. A Pietro, pertanto, non rimane che seguire Gesù sulla strada della sofferenza fino al dono estremo della sua vita: “Tu seguimi”.
Il v.23 attesta di una diceria formatasi a seguito del detto di Gesù e diffusasi “tra i fratelli”, qui da intendersi come i componenti stessi della comunità giovannea, che fraintendendo le parole di Gesù cercarono di assegnare al loro maestro un'eternità di gloria; una sorta di premio consolatorio per la perdita del primato. Varianti di simile diceria si trovano in S. Agostino, nella 124a omelia, § 2, del suo commento al vangelo di Giovanni, probabilmente ancora diffuse tra il IV e V sec. e alle quali il vescovo d'Ippona non dà particolare rilievo (124,3). Dicerie e fraintendimenti probabilmente prodotti dagli irriducibili della stessa comunità giovannea, che non si rassegnavano a pensare il loro venerato maestro messo da parte a favore di Pietro. La correzione apportata alla cattiva interpretazione data al detto di Gesù forse è conseguente alla morte del Discepolo Prediletto e alla delusione che essa deve aver portato all'interno dei fedelissimi dell'antico loro maestro e padre.
La seconda chiusura del vangelo giovanneo
Testo
24-
Questi è il discepolo che dà testimonianza su queste cose e che ha
scritto queste cose, e sappiamo
che la sua testimonianza è vera.
25-
Ma ci sono anche molte altre cose che Gesù fece, se queste fossero
scritte una per una, credo che lo stesso mondo non conterrebbe i
libri scritti.
Commento ai vv.24-25
I vv.24-25 formano la seconda chiusura del vangelo di Giovanni; una chiusura che tuttavia non è stata costruita in dissonanza con la prima, ma a complemento della prima. Infatti, se prendiamo le due chiusure, mettendole in sequenza tra loro ne viene fuori che la pericope 20,30-31.21,24-25 costituisce una sorta di unità narrativa a se stante, delimitata dall'inclusione data dai vv.20,30.21,25, in cui quest'ultimo versetto riprende, sia pur in modo iperbolico, il primo; mentre i due versetti 20,31.21,24, posti centralmente per la loro importanza, sono complementari e rafforzativi tra loro, poiché se 20,31 attesta la finalità del racconto giovanneo, 21,24 rimanda l'intera opera al Discepolo Prediletto, quel Discepolo di cui si era parlato poc'anzi ai vv.21,20-23, definendolo non solo testimone attendibile, ma anche autore ed estensore di quelle cose che sono state narrate e contemplate nell'opera.
Pertanto le due conclusioni si pongo secondo tale sequenza:
20,30- Dunque Gesù in presenza dei [suoi] discepoli fece certamente molti e altri segni, che non sono stati scritti in questo libro;
20,31- ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome.
21,24- Questi è il discepolo che dà testimonianza su queste cose e che ha scritto queste cose, e sappiamo che la sua testimonianza è vera.
21,25- Ma ci sono anche molte altre cose che Gesù fece, se queste fossero scritte una per una, credo che lo stesso mondo non conterrebbe i libri scritti.
Quanto
all'espressione “e sappiamo
che la sua testimonianza è vera” con cui si chiude l'intero
vangelo giovanneo, essa rassomiglia ad una sorta di annotazione
notarile, la cui firma di autenticità è significata in quel
“sappiamo”, caratteristico di Giovanni, dietro al quale si cela
la stessa comunità giovannea, che qui si fa garante dell'intero
scritto.
NOTE
1Cfr. Gv 1,31; 2,11; 3,21; 7,4; 9,3; 17,6; 21,1.14
2Cfr. Gv 3,22; 5,1.14; 6,1; 7,1; 13,7; 21,1. L'espressione ricorre altre tre volte soltanto in Lc 5,27; 12,4; 17,8
3Il termine “Ñy£rion” compare in Gv 6,9.11 e qui in 21,9.10.13
4Per una maggiore trattazione sulla questione si cfr. il commento al cap.20, pagg.3-4 della presente opera.
5Sulla questione della datazione del vangelo giovanneo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.39-41
6 Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag. 1362s; X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, pag. 1211
7L'espressione “mare di Tiberiade” deriva direttamente dall'ebraico dove il sostantivo mare in ebraico è reso con il termine “yam”, che significa sia il mare che una grande estensione di acque interne, come il lago. Per un più ampio commento sulla città di Tiberiade e il suo lago cfr. le note 5 e 6 del commento al cap.6.
8Didimo è la forma greca dell'aramaico Tĕ'ōmā, che significa il Gemello
9Cfr. Mt 28,1; Mc 16,2a; Lc 24,1; Gv 20,1
10Cfr. la voce “Destra e Sinistra” in Manfred Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990. Cfr. anche Sal 15,11; 16,7; 17,36; 19,7; 44,10; 59,7; 62,9; 79,18; 107,7; 117,15-16;
11Da un punto di vista narrativo, quando qui si parla della nudità di Pietro, essa non va intesa come se Pietro fosse completamente nudo. L'autore, infatti, sottolinea come Pietro “si cinse la sopravveste”, che era una tunica che si metteva addosso, a diretto contatto con la pelle. Non si dice infatti che Pietro si mise la sopravveste, ma che si cinse. Quindi è da pensare che Pietro, pur in abbigliamento succinto, avesse addosso un qualche abito.
12Sulla composizione e formazione della comunità giovannea cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 30-37
13Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pagg.1355-1358; X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, pag. 1219; opp. cit.