IL VANGELO SECONDO GIOVANNI

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi


SECONDA PARTE DEL VANGELO DI GIOVANNI

IL LIBRO DELLA GLORIA


CAP. 17

Una poesia, una lirica spirituale,
una preghiera al Padre
perché tutti siano
uno nell'Uno




Note generali

Una poesia, una lirica di elevata spiritualità, ricca di contenuti teologici e cristologici; una preghiera che svela l'intima e profonda relazione che lega Gesù al Padre. Una sorta di Amarcord1 teologico in cui Gesù ricorda l'evento della salvezza di cui egli è stato il protagonista storico in mezzo agli uomini (vv.1-8) e in mezzo ai suoi (vv.11a.12.14a.22a). Tutto questo, e molto di più, è il cap.17, che personalmente ritengo il vertice non solo del Libro della Gloria (13-17), ma dell'intero vangelo giovanneo, che potremmo definire come un lungo cammino di Gesù, scandito dalla costante presenza, quasi incombente, dell'ora, verso il Padre, da cui è uscito per entrare nel mondo, dove compiere la sua missione, per poi ritornare al Padre (16,28), verso il quale si percepisce una forte e costante tensione e attrazione, quasi da poter dire che il vero protagonista del racconto giovanneo sia il Padre, sempre presente nei discorsi di Gesù e verso il quale Gesù è sempre rivolto fin dall'eternità, quando ancora era solo Logos (1,1-2). Un cammino che è scandito in tre fasi: la prima, capp.1-12, riguarda il compimento dell'opera del Padre in mezzo al mondo; un compimento che verrà ricordato in 17,1-8 e in particolare, espressamente richiamato in 17,4. La seconda fase (capp.13-16) segna il passaggio dall'attività pubblica di Gesù, conclusasi con il cap.12, in cui si fa una valutazione fallimentare della sua missione (12,37.42-43), all'intimo rapporto con i suoi in un contesto di una cena di addio (13,2a), in cui si annuncia la venuta dell'ora e del suo ritorno al Padre (13,1), che ormai si percepisce imminente. È questa la fase in cui Gesù si trova ancora con i suoi, ma il suo sguardo è decisamente rivolto al Padre. La terza fase (cap.17) presuppone un Gesù ancora tra i suoi e sempre nel contesto della cena di addio, tuttavia essi non vengono più menzionati e, quasi per un gioco di prestigio, scompaiono dalla scena per dare spazio soltanto a Gesù, colto in un intimo rapporto con il Padre, ora suo unico ed esclusivo interlocutore. Il passaggio dalla fase precedente a quest'ultima è scandito da 17,1, che, da un lato, conclude i precedenti discorsi con i discepoli (13-16), creando uno stacco netto con la scena antecedente; dall'altro, presentando un Gesù che alza gli occhi al cielo, reinderizza l'attenzione del lettore dai discepoli al Padre, aprendo in tal modo una nuova scena in cui, unici ed esclusivi protagonisti, sono Gesù e il Padre. Un cammino che è segnato da un progressivo restringimento degli interlocutori di Gesù: dal mondo del giudaismo e del paganesimo (1-12) a quello dei suoi intimi (13-16), ed infine, a quello del Padre (17), da cui è uscito, al quale ritorna e verso il quale era stato ed è costantemente teso. Sarà infatti proprio da questa sua ultima posizione che Gesù darà uno sguardo retrospettivo alla sua opera (vv. 1-8), una sorta di sua valutazione positiva che si contrappone a quella apparentemente negativa e fallimentare, data dall'autore in 12,37.

Il genere letterario del cap.172 appartiene a quello dei discorsi di addio in cui un personaggio di rilievo, che, a seconda dei contesti narrativi, può essere il padre, un patriarca, un re o un maestro, avvicinandosi alla morte convoca presso di sé i propri figli, il popolo o i discepoli per dare loro l'estremo saluto e impartire loro le ultime istruzioni, i suoi desideri, le sue direttive dopo la sua dipartita, accompagnate sovente dalla sua benedizione. Gli esempi in tal senso sono numerosi sia in ambiente veterotestamentario che neotestamentario. Quanto al primo si ricorda l'addio e le benedizioni di Giacobbe ai figli (Gen 47,29-49,33); l'addio di Giosuè (Gs 22-24); l'addio di Davide in 1Cr 28-29 e lo stesso Deuteronomio, nella sua interezza, riporta il testamento spirituale di Mosè ad Israele (Dt 1,1-5) prima della sua morte imminente sul monte Nebo, da dove vede quella Terra Promessa che gli è stata interdetta (Dt 34,1-6). Quanto al secondo si pensi al discorso di Paolo agli anziani di Mileto (At 20,17-38); un tipo di discorso che è documentato anche nelle lettere Pastorali come 2Tm 3,1-4,8 e l'intera Seconda lettera di Pietro, che può essere considerata come una sorta di discorso di addio di Pietro ai credenti in genere, benché essa sia pseudonima. Esempi di addio ci provengono anche in epoca intertestamentaria come il discorso di Tobi sul letto di morte al figlio Tobia (Tb 14,3-11); i Testamenti dei Dodici Patriarchi, opera di dubbia produzione: se giudaica con interpolazioni cristiane o se cristiana, che attinge a fonti ebraiche. Essa è composta dai dodici discorsi di addio dei figli di Giacobbe ai loro figli. Vi è poi il Libro dei Giubilei che attribuisce discorsi di addio a Noè, ad Abramo, a Rebecca e Isacco, mentre Giuseppe Flavio ne attribuisce uno a Mosè.

Questi discorsi di addio sono caratterizzati da aspetti comuni che si ritrovano anche nell'ultimo discorso di addio di Giovanni (13,31-17,26). Il contesto che li accomuna tutti, come si è sopra accennato, è la presenza di un uomo importante che, nell'imminenza della sua morte, riunisce attorno a sé i propri figli, i propri discepoli o il popolo per impartire loro le sue ultime disposizioni, che li aiuteranno a proseguire anche dopo la sua morte. Una sorta di testamento spirituale. In Giovanni tutto ciò accade nel contesto dell'ultima cena (13,2a), che noi abbiamo denominato come cena dell'addio3. Il Brown rileva tredici punti che caratterizzano e accomunano questi discorsi di addio e che in qualche modo si ritrovano anche in Gv 13,31-17,26: 1) colui che parla annuncia l'imminenza della sua partenza; 2) talvolta questo annuncio provoca dolore ed è necessaria una qualche forma di rassicurazione; 3) nei discorsi di addio veterotestamentari più antichi colui che parla tende a convalidare le sue istruzioni ricordando quello che Dio ha fatto per Israele; ma negli esempi giudaici più tardi è più frequente che colui che parla ricordi la propria vita passata; 4) la direttiva di osservare i comandamenti di Dio spesso fa parte dei consigli di colui che parla; 5) sovente colui che parla comanda ai suoi figli di amarsi l'un l'altro; 6) il tema dell'unità è più frequente nelle forme più tarde dei discorsi di addio; 7) colui che parla tende a spingere il proprio sguardo nel futuro per vedere il destino che attende i suoi figli; 8) in questo sguardo al futuro colui che parla maledice coloro che perseguitano i giusti e si rallegrano delle loro tribolazioni; 9) colui che parla può talvolta invocare la pace sui suoi figli; 10) colui che parla può promettere ai suoi figli che Dio sarà loro vicino se essi gli saranno fedeli; 11) chi sta per morire si preoccupa anche della durata del suo nome; 12) come parte dell'addio di Mosè a Israele, egli sceglie come suo successore Giosuè, che per molti versi sarà un altro Mosè; 13) infine colui che parla conclude spesso il suo discorso di addio con una preghiera per i suoi figli o per coloro che egli lascia dietro di sé.

La struttura del cap.17 è piuttosto complessa, per questo ci riserviamo di commentarla nel procedere della nostra analisi testuale. Qui ci limitiamo ad indicare lo schema generale che è quadripartito:

  1. vv.1-8: trattasi di una anamnesi dell'opera compiuta da Gesù e i frutti che essa ha portato ed ha il suo vertice al v.4;

  2. vv.9-21: delimitati dall'inclusione posta ai vv.9.20, ha come tema fondamentale quello del custodire e del conservare i credenti, il frutto dell'opera di Gesù, perché non vadano dispersi, ma anzi siano confermati nella parola di verità, così da poterla testimoniare in tutto il mondo;

  1. vv.22-24: si accentrano sul desiderio ardente di Gesù (v.24) che i suoi discepoli e quelli di ogni tempo, frutto della sua opera, siano accorpati a lui così da rimanere sempre con loro e continuare così a vivere in essi ed essi in lui, sullo schema del rapporto che intercorre tra lui e il Padre;

  2. vv.25-26: riprendono e completano i vv.3.7-8, che identificano la conoscenza del Padre con la stessa vita eterna (v.3), conoscenza generata dall'accoglienza della parola (vv.7-8); per cinque volte in questi ultimi due versetti ricorre il verbo conoscere in un continuo gioco di contrapposizioni (Gesù-mondo) e di estensioni (Gesù-discepoli) e di proiezioni (Gesù-futuri credenti).

Commento ai vv. 1-8

Testo a lettura facilitata

Introduzione tematica

1- Queste cose Gesù ha detto e alzati i suoi occhi verso il cielo, disse: <<Padre, è venuta l'ora; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
2- come gli hai dato potere su ogni carne, affinché tutto ciò che gli hai dato, (egli) dia loro la vita eterna.
3- Ora, questa è la vita eterna, che
conoscano te il solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo.

Ripresa di 1b: i contenuti della reciproca glorificazione

4- Io ti ho glorificato sulla terra, avendo portato a termine l'opera che mi hai dato da fare;
5- E adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te.

Ripresa del v.4: i contenuti dell'opera compiuta da Gesù con cui ha glorificato il Padre

6- Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi, gli hai dati a me, e hanno custodito la tua parola.
7- Ora hanno
conosciuto che tutto quanto mi hai dato è da te;
8- poiché le parole che mi hai dato ho dato a loro, ed essi (le) accolsero e hanno
conosciuto veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato.

Già si è detto come i vv.1-8 si presentano come una sorta di “Amarcord”, un ricordo nostalgico del proprio passato, ma i toni, con quel rivolgere gli occhi al cielo e l'intimo dialogo con il Padre, sembrano piuttosto richiamare quelli propri di una anamnesi liturgica, una specie di prece eucaristica, che fa da sfondo e da premessa giustificativa alla vera e propria preghiera di domanda che si apre con il v.9. Ricorrono qui tutti i temi principali dell'intero cap.17 come quelli dell'ora ormai giunta, della gloria, del glorificare, della conoscenza del Mistero manifestato, della vita eterna; temi, peraltro, che hanno percorso l'intero racconto giovanneo; cosa comprensibile quest'ultima se si considera questa pericope come un ricordo dell'intera missione compiuta da Gesù (v.4).

I vv.1-8, infatti, illustrano l'intera dinamica del piano salvifico che si snoda in quattro movimenti:

  1. l'annuncio dell'avvento dell'ora, quale tempo e contesto in cui avviene la reciproca glorificazione: del Figlio da parte del Padre e di questi da parte del Figlio (v.1);

  2. il pieno potere del Padre dato a Gesù, finalizzato a donare la vita eterna (v.2), che è conoscenza del Mistero del Padre e di Gesù (v.3); questi primi due movimenti costituiscono anche l'introduzione tematica dei vv.4-8, che da questi sarà ripresa;

  3. i vv.4-5 riprendono il tema della reciproca glorificazione di 1b e spiegano in che cosa essa consista: Gesù glorifica il Padre compiendo la sua opera (v.4); il Padre glorifica il Figlio ricostituendolo nella gloria originaria per mezzo della risurrezione (v.5);

  4. vv.6-8: il v.6, riprendendo i vv.2.4, definisce i termini del compimento dell'opera per mezzo della quale il Padre è stato glorificato: manifestare ai credenti il “nome del Padre”, cioè il suo Mistero; mentre i vv.7-8 riprendono il tema del conoscere enunciato al v.3, nuovamente ripreso, poi, ai vv.25-26. Una conoscenza che, generata dall'accoglienza della parola di Gesù, diviene lo strumento di accesso al Mistero del Padre.

Il v.1 è scandito in due parti: la prima, enunciativa, è di transizione perché nel chiudere i capp.13-16, in cui gli interlocutori di Gesù erano i soli discepoli, si passa ad un nuovo ed esclusivo interlocutore, il Padre. Il v.1a infatti si apre con l'espressione “Queste cose Gesù ha detto”. Le cose a cui l'autore qui allude sono quelle contenute nei capp.13-16; mentre la seguente “alzati i suoi occhi verso il cielo, disse” introduce il lettore in una nuova scena, che vede Gesù in intimo dialogo con il Padre. Qui la presenza dei discepoli, pur presupposta dai capitoli precedenti, si è infatti sempre nell'ambito della cena dell'addio (13,2), è totalmente ignorata per accentrare l'attenzione del lettore sulla nuova scena. L'alzare gli occhi al cielo è un atteggiamento tipico dell'orante4 e attribuisce al cap.17 la sacralità di una preghiera.

La seconda parte del v.1 apre la preghiera che inizia in duplice modo: l'annuncio dell'avvento dell'ora e il sollecito alla reciproca glorificazione. L'annuncio dell'ora venuta crea il contesto in cui l'intera preghiera è posta e ne fornisce la chiave di lettura. Per tre volte Gesù dichiarò che la sua ora non era ancora giunta5 e per altre tre volte attesta che questa, invece, è venuta6. L'espressione greca che qui annuncia la venuta dell'ora è “™l»luqen ¹ éra” (elélitzen e óra), la stessa che troviamo in 12,23 dove viene definito il senso dell'ora: “affinché (†na, ína) sia glorificato il figlio dell'uomo”. L'ora, dunque, è il luogo della glorificazione del figlio dell'uomo. Ciò spiega perché in 17,1b, l'annuncio della venuta dell'ora è fatto seguire da un verbo all'imperativo esortativo “dÒxasÒn” (dóxason, glorifica), che sollecita l'accadere dell'evento contenuto nell'ora: la reciproca glorificazione del Padre nel Figlio e di questi nel Padre: “Padre, è venuta l'ora; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te”. Si noti l'inversione dei movimenti per cui la glorificazione del Padre da parte del Figlio sembra dipendere dalla glorificazione del Figlio ad opera del Padre. In realtà è il Figlio che compiendo l'opera del Padre lo glorifica e di conseguenza il Padre glorifica suo Figlio (vv.4-5). Un'inversione che verrà corretta ai vv.4-5. Quale sia il motivo di questa inversione è difficile dirlo. Forse l'autore ha voluto porre l'accento sul Padre, quale fonte primaria di ogni processo di santificazione e di glorificazione7; o forse è stata semplicemente una svista.

Il v.2 diviene esplicativo e rafforzativo della parte terminale del v.1b: “affinché il Figlio glorifichi te”. In altri termini la glorificazione del Padre da parte di Gesù, che consiste nel compimento della sua opera (v.4), è stata resa possibile per il potere di cui è stato rivestito Gesù da parte del Padre. Un potere che si estende su tutto in senso lato (3,35; 13,3). Vi è nel v.2 una gradualità di estensione di questo potere, che diviene onnicomprensivo: dapprima su “ogni carne”, che va intesa qui come “ogni essere vivente” e quindi non solo gli uomini; poi un potere che si estende “su tutto ciò che gli hai dato” in cui i due pronomi neutri “p©n Ö” (pân ò, tutto ciò che) diventano, per il loro genere neutro, onnicomprensivi dell'intera creazione. Viene in tal modo delineata la centralità unica ed esclusiva di Gesù nel progetto salvifico del Padre, che l'inno cristologico di Ef 1,1-14 sottolineerà in 1,9-10: “poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”. Giovanni già aveva indicato nel Prologo come il Logos fosse stato il principio creatore di tutte le cose, la cui sussistenza è dovuta esclusivamente a lui (1,3). Ora al Logos Incarnato, di cui sta contemplando la sua gloria (1,14), l'autore attribuisce la pienezza di potere su quell'intera creazione che Egli ha creato. Un potere che il Logos-Gesù non si è arrogato, ma che gli è stato dato, in un certo qual modo, necessariamente dal Padre, poiché questo Logos Incarnato altro non è che l'agire stesso del Padre (14,9-11). I tempi verbali qui sono tutti posti al passato e l'uno, il perfetto indicativo “dšdwkaj” (dédokas, hai dato), è dipendente dall'altro, l'aoristo “œdwkaj” (édokas, desti). Il primo verbo, “édokas”, all'aoristo, designa un'azione puntuale nel tempo, che potremmo far risalire alla stessa incarnazione del Logos, di cui Giovanni nel suo vangelo contempla la sua gloria, cioè il suo disvelarsi storico (1,14); il secondo tempo verbale, “dédokas” è posto al perfetto indicativo, che indica come l'azione del donare da parte del Padre, persistente anche nel presente, sia frutto di un'azione che si radica nel passato, che è di duplice natura: storico, con riferimento all'incarnazione, a cui allude “édokas”; e trascendente con riferimento alla stessa figliolanza divina, che fin dall'eternità gli ha consentito di operare la stessa creazione e di possedere la stessa vita (1,3-4). Ciò che Gesù, il Logos Incarnato, ha ricevuto e continua a ricevere è la “™xous…a8 (exusía) che definisce un'autorità e un'autorevolezza, che sono espressioni di un potere potente e sovrano, che, a sua volta, si esprime nella dignità e nella potestà, proprie della regalità. Il termine “exusía”, pertanto, descrive la persona di Gesù già nella pienezza della sua gloria e che il racconto matteano fa risaltare mettendo sulle labbra del Risorto l'affermazione della sua onnipotenza: “Mi è stato dato ogni potere nel cielo e sulla terra” (Mt 28,18). Anche qui il termine “potere” è reso in greco con “exusía”, mentre il verbo “mi è stato dato” ( 'EdÒqh moi, Edótze moi) è posto al passivo teologico per indicare l'origine divina del potere di cui il Risorto è rivestito. Un simile potere di origine divina, che già colloca in qualche modo Gesù nella sua gloria, è finalizzato al dono della vita eterna, che nel linguaggio giovanneo definisce la vita stessa di Dio: “affinché […] (egli) dia loro la vita eterna”. I soggetti destinatari di tale dono sono “loro”, un pronome indefinito, ma che in qualche modo si riferisce sia alle due espressioni “ogni carne” e “tutto ciò che”, cioè, nel loro insieme, l'intera creazione. Per tre volte nel v.2 compare il verbo “dare o donare”, i cui soggetti sono rispettivamente il Padre per i primi due e Gesù per l'ultimo. Un verbo che si sviluppa a cascata ed è tutto giocato sui tempi verbali: il dono del Padre al Logos-Gesù, unico e irripetibile, ha la sua origine sia storica che trascendentale (tempo all'aoristo); tale dono continua generarsi anche nel presente di Gesù (tempo al perfetto indicativo) perché tale dono del Padre, di cui Gesù è portatore unico ed esclusivo, venga riversato sugli uomini e sull'intera creazione. Il verbo qui è posto al congiuntivo presente per indicare da un lato la finalità di tale dono e nel contempo, in quanto al presente, la sua continuità e persistenza storica.

Il v.3 è alquanto singolare posto sulle labbra di Gesù, che definisce se stesso come “Gesù Cristo”, mentre indica il Padre come “il solo vero Dio”. Sono espressioni queste che hanno il sapore delle primitive formule di fede in uso presso le prime comunità credenti, in cui veniva sintetizzato il contenuto della loro fede, in via di formazione, per renderla facilmente individuabile e trasmettibile9. Il fatto, poi, che il v.3 sia esplicativo dell'espressione “vita eterna”, caratteristica di Giovanni, dà da pensare che si tratti di una glossa, un'annotazione di un anonimo amanuense che ha voluto precisare il significato di “vita eterna” e successivamente recepita all'interno del vangelo. Quanto all'espressione “il solo vero Dio”, questa lascia intravvedere uno sfondo veterotestamentario10, in cui l'unicità di Dio, rafforzata dall'attributo “vero”, era contrapposta al politeismo dei popoli confinanti con Israele e con i quali Israele intratteneva dei rapporti e dal quale si lasciava sovente contaminare, provocando in tal modo duri interventi da parte dei profeti. Del resto una simile attestazione di Dio lascia sempre trasparire un contesto di un paganesimo politeista, al cui interno si collocava anche il culto della persona dell'imperatore, a cui essa intende contrapporsi. Il tono pertanto dell'espressione è velatamente polemico.

La sottolineatura che la vita eterna consista nel “conoscere” ha dato adito a molti di vedere in questo l'indizio di uno strisciante gnosticismo in Giovanni. In realtà, Giovanni usa, e non di rado, un linguaggio gnostico senza tuttavia cedere ai suoi contenuti. Il linguaggio gnostico è, infatti, un linguaggio particolarmente potente per penetrare il Mistero divino. Per questo Giovanni lo usa, perché il suo vangelo è una penetrazione e una contemplazione di questo Mistero (1,14)11. È comunque significativo il definire la vita eterna come conoscenza del Mistero che avvolge il Padre e il Figlio e le loro relazioni. Un conoscere che in greco è qui espresso con il verbo “gignèskw” (ghighnósko) che indica più che una vera e propria conoscenza del Mistero, un processo, un cammino verso tale conoscenza, che una volta raggiunta viene espressa da Giovanni con il verbo “oŒda” (oîda, so). “Ghighnósko” infatti racchiude in sé il concetto di apprendimento. Esso significa, oltre che conoscere, anche prendere conoscenza, osservare, apprendere, discernere. Il verbo “oîda”, invece, quale perfetto di “eŒdon” (eîdon), che supplisce i tempi mancanti di “Ðr£w” (oráo, vedo), indica una conoscenza già acquisita. Esso, infatti, letteralmente significa “ho veduto” e quindi “so”. Si tratta dunque di un sapere che si radica in una precedente esperienza, che ha qui come indicativo quella del vedere, ma similmente si può associare a questo vedere anche quella dell'udire, del toccare, dell'odorare, del gustare, che, passando attraverso il filtro della fede, consente una vera e propria esperienza di Dio. Non è un caso se il conoscere, anche per il mondo veterotestamentario, più che un apprendimento legato a processi cognitivi e intellettuali, è sinonimo di esperire; un conoscere che trae il suo sapere dall'esperienza. Il conoscere Dio e Gesù Cristo per Giovanni pertanto definisce un processo più che intellettuale esistenziale, che basandosi sulla fede, porta alla comunione con il Mistero del Padre, che si rivela tangibilmente nel Figlio-Gesù. Lo stesso concetto di conoscenza-esperienza che apre alla comunione esistenziale con il mondo del divino viene espresso in 1Gv 1,1-3: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”.

I vv.4-5 riprendono il v.1b, in cui, all'interno della cornice dell'ora giunta, viene collocata l'esortazione alla reciproca glorificazione del Padre nel Figlio e di questi nel Padre. Essi hanno la funzione di illustrare in che cosa consistano queste due glorificazioni interdipendenti tra loro. Quanto alla glorificazione del Padre ad opera del Figlio, essa consiste nel compimento dell'opera che Gesù ha ricevuto dal Padre. Un glorificare il cui tempo verbale è posto significativamente all'aoristo (™dÒxasa, edáxasa), per indicare un'azione definitivamente compiuta e che ormai appartiene soltanto al passato; un aoristo il cui senso e significato viene rafforzato e posto in maggiore evidenza dall'altro participio aoristo “teleièsaj” (teleiósas, avendo compiuto), che se da un lato spiega il contenuto e il motivo della glorificazione del Padre da parte di Gesù, dall'altro richiama da vicino 19,30, dove Gesù, sulla croce, esclama la sua ultima parola, che mette un punto fermo all'intera sua missione terrena: “Tetšlestai” (Tetélestai, è compiuto). Il compimento della missione terrena di Gesù, in conformità alla volontà del Padre, è dunque l'azione glorificante ad opera del Figlio, il cui contenuto sarà precisato al v.6. Una missione la cui dinamica e il cui contenuto sono espressi in 14,9-11: “Gli dice Gesù: <<Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere”. Questa perfetta coincidenza e sovrapposizione dell'agire del Padre in quello di Gesù così da poter dire che Gesù è lo spazio storico dell'operare del Padre, il luogo storico della sua manifestazione, tutto questo è glorificazione del Padre nel Figlio e da parte del Figlio. Un'ultima osservazione va posta sul modo con cui termina il v.4, in cui viene messo in rilievo il ruolo del Figlio nei confronti del Padre: “l'opera che mi hai dato da fare”; il testo greco dice letteralmente: “l'opera che mi hai dato affinché (la) faccia”. L'opera che il Padre ha affidato al Figlio è perché questa sia compiuta da lui. Qui non si tratta soltanto di una semplice commissione da eseguire, ma di una modalità di esecuzione, che si radica nell'essere stesso dei Due, che fa parte della loro stessa essenza, mettendo in rilievo la dinamica che intercorre tra loro: il Padre affida e il Figlio compie, così che il Figlio diviene ed è azione stessa del Padre, senza il quale il Padre non potrebbe operare e i suoi progetti, che diverrebbero incomunicabili e irrealizzabili. Il Figlio, da parte sua, non può fare nulla da se stesso, ma il suo agire dipende dal Padre, poiché egli è l'azione stessa del Padre (5,19.30). Quel “affinché (la) faccia” dice proprio il totale affidarsi del Padre al Figlio, il suo totale riversarsi in lui, perché questi renda operativo il suo progetto salvifico. Un Padre dunque che ha bisogno del Figlio per donarsi, comunicarsi e per realizzare il suo progetto; un Figlio che, a sua volta, necessita del Padre per essere ciò che egli è: agire del Padre senza il quale egli non può nulla (5,19.30; 8,28). Un totale affidamento che viene sottolineato ai vv.13,3a; 16,15a; 17,2.4.6.7.8a.9b10a.

Il v.5 è la contropartita del v.4. Se qui Gesù dichiara di aver glorificato il Padre con il compimento della sua opera, ora tocca al Padre contraccambiare la sua glorificazione da parte del Figlio. Ma attenzione, non si tratta di uno scambio di favori, né tantomeno di un “do ut des”, in cui ciascuno cerca il proprio tornaconto e il proprio utile. Si tratta ora di chiudere quel cerchio che si era aperto all'interno della vita Trinitaria da cui era fuoriuscito il Figlio, storicizzandosi in Gesù, il Logos Incarnato (1,14a), per poter così ricondurre in se stesso l'intera umanità che egli ha attirato a sé sulla croce nella prospettiva della sua risurrezione (12,32), riconsegnandola in tal modo, in se stesso e attraverso se stesso, al Padre, così che tutto sia nuovamente in Lui, come lo era nei primordi dell'umanità (1Cor 15,27-28), quando tutto era ancora incandescente di Dio. Un movimento questo che già era stato brillantemente sottolineato dall'autore in 16,28 e dall'inno cristologico di Fil 2,6-11. La glorificazione del Figlio da parte del Padre è un elemento essenziale e fondamentale perché l'opera si compia pienamente, poiché in questa glorificazione viene compiuta anche quella di tutti i credenti, che nel Risorto sono riconsegnati al Padre: “Erano tuoi, li hai dati a me [...]” (v.6b) ed ora egli li riconsegna trasformati al Padre, attraverso il processo della sua glorificazione da parte del Padre stesso.

I vv.6-8, riprendendo il v.4, segnano il terzo passaggio della pericope 1-8 e sono finalizzati ad illustrare il senso e i contenuti dell'opera compiuta da Gesù, con la quale egli ha glorificato il Padre, e gli effetti che essa ha prodotto in mezzo agli uomini. Viene definita in questa breve pericope l'identità dei destinatari della rivelazione per i quali Gesù poi rivolgerà la sua preghiera al Padre (v.9ss).

Il v.6 è introduttivo della pericope 6-8 ed è scandito in tre parti:

  1. v.6a: viene spiegato il senso e il contenuto dell'opera compiuta da Gesù: essa ha una natura rivelativa e un carattere universale: “Ho manifestato il tuo nome agli uomini”. Manifestare il nome, che presso gli antichi esprimeva l'essenza stessa della persona, dice il rivelare la natura del Padre, le sue esigenze nei confronti degli uomini, il suo progetto di salvezza che li riguarda, la sua posizione nei confronti del Figlio e le relazioni che egli intrattiene con Gesù e quindi chi è Gesù. In ultima analisi significa svelare il Mistero di Dio. Vi è qui un salto qualitativo rispetto all'automanifestarsi di Dio a Mosè. Là egli si era presentato come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, legando il suo nome all'esperienza storica dei Padri d'Israele (Es 3,6a); mentre in 3,14 si definisce come l' “Io-sono colui che sono”, cioè l'Essere che si accompagna ad Israele e che di volta in volta si lascerà cogliere da popolo nelle diverse esperienze che gli riveleranno le diverse sfaccettature del suo essere. Ma per tutti egli sarà Jhwh, un tetragramma impronunciabile e incomprensibile, che non consente nessun avvicinamento alla santità e alla trascendenza del suo essere, perché tale è la sua natura. Tra lui ed Israele vi è un limite invalicabile, pena la morte, simboleggiato da quel solco tracciato da Mosè, per ordine dello stesso Jhwh, attorno al monte dove egli scenderà; esso rileva tutta la distanza che intercorre tra lui e il suo popolo, che lo rende irraggiungibile, avvolto e chiuso nel suo mistero. Un Dio che si presenta nella nube tra possenti squilli di tromba, fuoco, fumo, tuoni e gran tremore della montagna, che, se da un lato esprime tutta la sua onnipotenza, dall'altro lancia un avvertimento e una minaccia che incombono pesantemente sul popolo (Es 19,12-21). Un Dio quindi impenetrabile, irraggiungibile, temibile e dal volto tutt'altro che paterno, benevolo e conciliante, che impone la sua volontà nella Torah. Una manifestazione che ora, invece, assume i contorni umani del volto di Gesù ed offre la sua misericordia e il suo perdono non più ad un popolo, ma a tutti gli uomini indistintamente. Tutti, ora, indistintamente possono conoscerlo e raggiungerlo; non c'è più bisogno di mediazione perché egli è il Mediatore per eccellenza, unico ed esclusivo (Mt 23,10), e la sua natura umana parla lo stesso linguaggio degli uomini, rendendosi universalmente raggiungibile e personalmente conoscibile.

  1. v.6b: La manifestazione del nome del Padre era destinata agli uomini, termine reso in greco con il generico “¢nqrèpoij” (antzrópois), che sottolinea maggiormente la natura universale della rivelazione. Uomini la cui origine si contrappone a quella di Gesù e dello stesso Padre: essi sono stati donati dal Padre a Gesù “dal mondo”, qui inteso in senso topografico. La particella “™k” (ek, da), infatti, dice da un lato l'origine terrestre degli uomini, che si contrappone a quella celeste e divina di Gesù, il Logos Incarnato, uscito “da Dio”, verso il quale era proteso fin dall'eternità e verso il quale ora sta ritornando, per essere ricostituito nella sua gloria originale; dall'altro, quel “ek” dice il trarre “da” e porta con sé, implicito, il senso di una elezione divina che si compie in Gesù e che fa di questi uomini una proprietà esclusiva di Dio, così che essi non appartengono più al mondo (vv.14b.16), come Israele ai piedi del Sinai è divenuto esclusiva proprietà di Jhwh a seguito della quale ha ricevuto una nuova identità: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6).

  2. v.6c: Ma di quali uomini qui si parla? L'uso del generico “antzrópos” spinge a ritenere che siano tutti gli uomini indistintamente, ma quest'ultima parte lascia intendere come questa universalità, benché rimanga tale, si riferisca soltanto a quelli che “hanno custodito la tua parola”. Sono questi che appartengono al Padre e sono stati donati a Gesù; quelli “[...] che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo” (Ap 14,1). Sono, quindi, coloro che hanno dato la risposta positiva al manifestarsi del nome del Padre in Gesù, aprendosi esistenzialmente al Lui. Questi uomini sono definiti come coloro che “hanno custodito” (tet»rhkan, tetérekan), cioè come coloro che non solo hanno saputo accogliere in loro stessi la rivelazione, ma hanno saputo anche conservarla fino al presente, lasciando intuire un proseguo di fedeltà anche in mezzo alle tribolazioni. Il tempo verbale qui è infatti il perfetto indicativo, che dice come l'azione presente del conservare abbia avuto la sua origine nell'azione passata del credere, cioè di una parola accolta. Il verbo infatti significa non soltanto custodire, ma anche osservare, mettere in pratica; quindi una custodia che si esprime in una continua testimonianza di fedeltà alla parola rivelatrice accolta e custodita fin da principio del cammino di fede.

Il v.7 specifica gli effetti della parola accolta e custodita: “Ora hanno conosciuto che tutto quanto mi hai dato è da te”. Un'accoglienza testimoniata da una costante fedeltà apre dunque il credente alla conoscenza del Mistero che opera in Gesù, rendendolo in tal modo partecipe a questo Mistero che è comunione di vita di Gesù e del credente nel Padre. Risuona il tema del v.3, qui richiamato dal verbo “ œgnwkan” (égnokan, hanno conosciuto), dove la vita eterna è legata alla conoscenza del Mistero del Padre e di Gesù; conoscenza che è sinonimo di partecipazione e di comunione di vita divina. Ciò che i credenti hanno conosciuto è che tutto quanto Gesù possiede proviene dal Padre. Ci si trova quindi di fronte ad un'attestazione dell'origine divina non solo di Gesù, ma anche della sua rivelazione (“tutto quanto mi hai dato”) e come in quel “tutto quanto” si rifletta lo stesso Padre (14,9-11), che fa di Gesù il luogo storico del suo agire.

Il v.8 funge da sintesi riepilogativa dei due precedenti vv.6.7 con i quali crea un forte parallelismo riprendendoli quasi pedissequamente. Non si tratta tuttavia di un doppione, ma di una ripresa esplicativa dei vv.6.7:

Significativi in questo versetto i tre verbi della fede: accolsero, conobbero e credettero, posti tutti all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, che definisce un'azione puntuale nel tempo, radicando l'esperienza della fede all'incontro con Gesù. Tre verbi che scandiscono il cammino di fede del credente: dapprima c'è l'accoglienza della parola (accolsero); un'accoglienza che apre alla conoscenza, che è esperienza del divino racchiuso nella Parola, per poi accedere alla fede, che colloca il credente nella piena comunione con Dio. Un processo che 5,24 ha così codificato: “In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”.

Commento ai vv. 9-21

Testo a lettura facilitata

L'oggetto della preghiera di Gesù: i credenti

9- Io prego per loro, non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai dato, poiché sono tuoi,
10- e tutte le cose mie sono tue e le tue mie, e sono glorificato in loro.

La primaria finalità della preghiera: conservare l'unità dei credenti che sono nel mondo

11- E (io) non sono più nel mondo, ed essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome che mi hai dato, affinché siano uno come noi.

Gesù ricorda al Padre la sua opera

12- Quando ero con loro, io li conservavo nel tuo nome che mi hai dato, e (li) ho custoditi, e nessuno di loro si è perso se non il figlio della perdizione, affinché fosse compiuta la Scrittura.
13- Ma ora vengo a te, e queste cose dico nel mondo, affinché abbiano in loro stessi la mia gioia piena.

La condizione dei credenti nel mondo

14- Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha disprezzati, poiché non sono dal mondo, come io non sono dal mondo.

Altre finalità della preghiera: protezione (15-16); santificazione per la missione (17-19); futuri credenti (20-21)

15- Non prego affinché (tu) li tolga dal mondo, ma affinché li custodisca dal maligno.
16- (Essi) non sono dal mondo, come io non sono dal mondo.
17- Santificali nella verità; la tua parola è verità.
18- Come hai mandato me al mondo, anch'io ho mandato loro al mondo;
19- e per loro io santifico me stesso, affinché anche loro siano santificati in verità.
20- Ora prego non solo per questi, ma anche per coloro che credono in me per la loro parola,
21- affinché tutti siano uno, come tu, Padre, in me e io in te, affinché anche loro siano in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.

I vv. 9-21 sono delimitati dall'inclusione data dalle espressioni “Io prego per loro, non prego per il mondo” e “Ora prego non solo per questi, ma anche per coloro che credono in me per la loro parola” entrambe poste rispettivamente ai vv.9.20. L'inclusione è definita non solo dal verbo “pregare” a favore dei credenti, presente in entrambi i versetti, ma anche dalla contrapposta estensione dell'oggetto della preghiera: essa non è estesa al mondo (v.9a), ma ai nuovi credenti (v.20b). Questa ampia pericope, posta centralmente nel cap.17, costituisce il corpo vero e proprio della preghiera che ha per oggetto principale l'unità dei credenti, presenti e futuri (vv.9.20), che sono rimasti nel mondo, mentre Gesù è ritornato al Padre (v.11). Una unità parametrata su quella del Padre e del Figlio (vv.11b.21.22), che è profonda comunione di vita. Il termine “mondo” ricorre in questa pericope ben 12 volte sulle 18 presenti nell'intero cap.17 ed è percepito sia come il luogo della dimora di Gesù che dei discepoli (vv.11.13.15), sia come forza avversa a Dio (vv.9.14.16.), che verrà al v.15b identificata nel maligno, sia, infine, come il luogo e l'oggetto della missione sia di Gesù che dei discepoli (vv.18.21).

Lo schema della preghiera si snoda in quattro momenti:

  1. v.9: vengono presentati i destinatari della preghiera: i discepoli;

  2. vv.11-13: prima motivazione che sta alla base di questa preghiera: Gesù torna al Padre e quindi non è più in grado di conservarli come quando egli era sulla terra. Per questo ora li affida al Padre perché li custodisca nell'unità;

  3. vv.14-16: seconda motivazione: i discepoli, che hanno accolto la parola di Gesù, non appartengono più al mondo, per questo il mondo li perseguita e per questo essi necessitano ancor di più di essere preservati dal mondo;

  4. vv.17-21: alla necessità di essere custoditi e preservati dal maligno si aggiungono ora altre due motivazioni complementari: che i discepoli siano santificati nella verità, accolta nella rivelazione e che i frutti della loro missione, i nuovi credenti, siano anch'essi, alla pari dei discepoli, custoditi e preservati dal mondo.

Una preghiera essenziale nelle sue richieste e nel contempo universale: unità dei credenti parametrata su quella che c'è tra Padre e Figlio; santificazione nella verità, che fruttifichi altri credenti e che tutti siano uno nell'Uno. La santificazione nella verità ha proprio questa finalità: ricollocare i credenti nel Padre per mezzo della Parola di Verità.

I vv.9-10 fungono da introduzione e definiscono i destinatari della preghiera: i discepoli, che qui vengono contrapposti al mondo, escluso non solo dalla preghiera, ma dagli interessi stessi di Gesù e di conseguenza del Padre. Non si tratta di una preclusione mentale da parte di Gesù o di una sorta di predestinazione, ma perché il mondo stesso, qui percepito in tutta la sua negatività, come elemento avverso a Dio, ha rifiutato la Parola di Verità, il Logos Incarnato (1,5.10.11). Per questo esso ne resta escluso. Viene dunque implicitamente posto sul mondo un giudizio di condanna per la sua pervicace impermeabilità a Dio (3,18-19), la cui paternità viene attribuita al maligno (vv.15 e 8,44). Questa contrapposizione, qui preannunciata, verrà poi ripresa e motivata nei vv.14.16. I discepoli, a cui la preghiera è riservata, sono definiti come appartenenti al Padre e da questi donati a Gesù. È questo il terzo ed ultimo passaggio in cui si definiscono i credenti quali proprietà del Padre, ma ceduta a Gesù perché su di loro si compia il disegno del Padre. La prima enunciazione di proprietà si trova al v.2 dove Gesù è presentato come un plenipotenziario su ogni essere vivente, qualificandosi in tal modo come il cuore pulsante dell'intero progetto salvifico pensato dal Padre (Ef 1,9-10); il secondo passaggio riprende la plenipotenziarità, riferita in senso universale agli uomini in generale, alludendo alla missione di Gesù e al suo annuncio universale che ha prodotto molti frutti (v.6); ed infine, qui, al v.9b, dove non si parla più di potere su ogni essere vivente (v.2), né sugli uomini (v.6a), ma soltanto su quelli che hanno creduto (v6b), qui indicati con il pronome “loro”. Quel continuo ripetersi dell'espressione “che gli/mi hai dato” dice la sovranità unica ed esclusiva del Padre che viene ceduta al Figlio, di cui è ricoperto non per atto di generosità, ma di necessità poiché funzione primaria del Figlio è quella di essere azione attuativa del Padre.

Il v.10, riprendendo l'espressione conclusiva del v.9, “poiché sono tuoi”, ne approfondisce il senso e ne chiarisce la dinamica sottostante: “e tutte le cose mie sono tue e le tue mie”; un gioco di parole che rivela la intercompenetrazione e interdipendenza dei Due, lasciando trasparire in tal modo la loro profonda comunione di vita, già attestata dai vv.10,38; 14,11.12 e verrà richiamata anche qui dai vv.11b.21-23. La prima parte del v.10 pertanto funge da frase incidentale, sospendendo il discorso iniziato con il v.9, che viene ripreso a conclusione del v.10: “e sono glorificato in essi”. Il verbo posto al perfetto passivo (dedÒxasmai, dedóxasmai, sono glorificato) definisce un'azione presente che ha la sua origine nel passato. La glorificazione di Gesù nei suoi pertanto risale al momento in cui essi hanno accolto la sua parola e hanno creduto in lui; uno stato di cose che ora persiste anche nel presente, che il v.6c rende con “hanno custodito la tua parola”, ma che si estende anche in 20b, dove Gesù prega anche per coloro che hanno creduto in lui “per la loro parola”. La glorificazione di Gesù nei suoi, pertanto, iniziata nel passato con la loro prima adesione di fede, continua anche ora nel presente, benché disprezzati dal mondo (v,14), e si proietta anche nel futuro, manifestando agli uomini il nome di Gesù e in lui quello del Padre, riprendendo e continuando in tal modo la missione di Gesù (vv.4.6.20b). La missione dei discepoli nel periodo postpasquale dunque diviene atto glorificativo, in quanto manifestativo, del nome di Gesù.

I vv.11-13 sono delimitati dall'inclusione data dall'espressione “vengo a te” posta nei vv.11.13 e costituiscono la prima finalità della preghiera: Gesù torna al Padre e, lasciando i suoi nel mondo, ora li affida al Padre, al quale appartengono. Il v.11 è particolarmente significativo perché nell'aprire questa breve pericope rileva tutti gli elementi tematici che percorreranno l'intera preghiera e in un certo qual modo essi sono presenti in tutto il cap.17, così che questo versetto costituisce una sorta di sintesi catalizzatrice dell'intero cap.17. Compare in esso il termine mondo, nelle sue diverse accezioni, presente numerose volte nel cap.17 (18 volte) con una forte concentrazione (12 volte) qui nei vv.9-21; l'essere nel mondo dei discepoli e il non esserlo di Gesù costituisce il leit-motiv che sottende l'intero cap.17 e che in qualche modo lo motiva; così come il “vengo a te” è la ragione che giustifica la preghiera; nel “Padre santo” compare l'elemento della santità e della santificazione che verrà ripreso ai vv. 17.19; l'esortazione a “conservarli nel tuo nome” diviene una diversa forma di santificazione, che dice tutta l'estraneità e tutta la distanza che intercorre tra il mondo di Dio, in cui vivono Gesù e i discepoli, e il mondo, che questo Dio ha rifiutato nel suo Figlio e, ora, negli stessi discepoli (v.14); ed infine il tema dell'unità dei discepoli, che ha come parametro di comparazione e di riproduzione la stessa dinamica comunionale che regola i rapporti Padre-Figlio, e che verrà ripreso nei vv.21.22.23.

Il v.11 è scandito in tre parti: a) il contesto storico che provoca la preghiera: Gesù ormai non è più nel mondo perché sta ritornando al Padre, lasciando qui, invece, i suoi; b) la prima invocazione spesa a favore dei suoi: conservali nel tuo nome; c) la finalità di questa invocazione: affinché siano uno come noi.

Il contesto storico della preghiera (v.11a)

Il v.11 si apre con una contrapposizione tra un Gesù che non è più nel mondo e i discepoli che invece sono ancora nel mondo. Una contrapposizione che lascia trasparire, da un lato, quasi in filigrana, la prospettiva postpasquale di questo versetto in cui i discepoli nel mondo continuano l'opera di un Gesù ormai ritornato al Padre; dall'altro sottolinea come il cap.17, che funge da prodromo ai capp.18-20, costituisca il momento di passaggio di Gesù al Padre e come proprio per questo egli ormai non è più nel mondo, nel senso che ha concluso completamente la sua missione terrena e nulla ha più da dire ai suoi e al mondo (v.4). Il motivo infatti per cui Gesù non è più nel mondo è perché sta andando al Padre, un andare che è ormai è entrato in una fase di attuazione. Tutti i verbi infatti sono qui al presente indicativo, segno che proprio qui si sta compiendo il passaggio che troverà il suo definitivo compimento nei capp.18-20: “non sono più nel mondo” e “vengo a te”; un'espressione, quest'ultima, che dice perché Gesù non è più nel mondo. È in atto, dunque, questo passaggio non ancora concluso, ma in fase di conclusione. Per questo Gesù può ancora dire al v.13 “queste cose dico nel mondo”, senza con ciò creare una contraddizione con il v.11.

La prima invocazione (v.11b)

Inserito in un contesto di addio, Gesù, prima della sua dipartita, affida i suoi al Padre, che egli definisce “santo”, anticipando qui il tema della santificazione dei vv.17.19, indicando fin d'ora la fonte di ogni santità. Lo sfondo qui è veterotestamentario in cui Dio è definito come il Santo per eccellenza12 e tutto ciò che si relaziona a lui viene santificato13, entrando nell'area del Divino. Una santità che dice tutta la distanza che intercorre tra Dio e l'uomo e che pone Dio in una posizione completamente altra dall'uomo (Os 11,9). L'invocazione “conservali nel tuo nome” lascia intuire che questi discepoli, pensati tali dal Padre fin dall'eternità (Ef 1,4), sono stati generati alla sequela attraverso il dono della Parola che essi hanno accolto (v.14a; 1Pt 1,23); e tali, dunque, il Padre è sollecitato da Gesù a conservarli e ad averne cura, poiché essi sono il frutto della santificazione operata da Gesù attraverso la sua morte e risurrezione (v.19; 1Pt 1,3). Il luogo della conservazione e della cura è lo stesso nome del Padre, che dice il suo stesso essere, la sua stessa dimensione divina, a cui essi appartengono e nella quale essi sono stati affidati a Gesù perché fossero confermati nella verità di una rivelazione accolta (vv.17.19). Anche qui lo sfondo è veterotestamentario e richiama il l'immagine di Jhwh che ebbe cura del suo popolo, conservandolo nella sua alea di santità per mezzo del dono dell'Alleanza e della Torah14.

La finalità dell'invocazione (v.11c)

Delineato il contesto storico (v.11a) in cui è sgorgata la prima invocazione al Padre (v.11b) viene precisato ora il senso, la finalità di questa preghiera: “affinché siano uno come noi”. Già si poteva in qualche modo presagire la finalità della preghiera da quel “conservare” i credenti nel nome del Padre, cioè uniti in comunione non solo con lui, ma in lui anche tra di loro. Non può esservi, infatti, spazio in Dio, che è Padre nel Figlio e questi nel Padre, in una sorta di comunione osmotica e intercompenetrativa, in cui vive ed opera un unico Spirito, per coloro che non sono in comunione tra loro, invocando lo stesso e comune nome del Padre. Si verrebbe a creare una inaccettabile e stridente idiosincrasia che porrebbe, ipso facto, il credente fuori dalla stessa dimensione divina e collocato in quella più congeniale del diavolo, che per sua natura e funzione, come dice la stessa etimologia del nome15, è “colui che divide e mette discordia”. Il tema dell'unità dei credenti riparametrata su quella trinitaria, qui soltanto preannunciato, verrà poi ripreso ed approfondito nei vv.21-23.

vv.12-13: il v.11 si era aperto con l'attestazione di Gesù che egli non era più nel mondo, nel senso che egli aveva terminato la sua missione terrena ed ora stava lasciando il mondo per ritornare al Padre (16,28b) in un contesto di “ora già giunta” (v.1b). In questa prospettiva di missione ormai conclusa, anche il v.12 inizia ricordando l'attività educativa di Gesù nei confronti dei suoi, affidatigli dal Padre: “Quando ero con loro, io li conservavo nel tuo nome che mi hai dato, e (li) ho custoditi, e nessuno di loro si è perso se non il figlio della perdizione, affinché fosse compiuta la Scrittura”. Significativi qui i due tempi verbali legati a due diversi verbi entrambi indicanti il custodire. Il primo “™t»roun” (etérun, conservavo) posto all'imperfetto indicativo; il secondo “™fÚlaxa” (efílaxa, custodii) all'aoristo. Quanto al primo verbo (etérun) esso significa conservare, aver cura ed è stato posto all'imperfetto indicativo per indicare un'azione iniziatasi nel passato, ma che prosegue anche nel presente, attribuendo all'azione del conservare e dell'aver cura una incessante continuità nel tempo. Gesù, pertanto, pur ritornato al Padre, non ha abbandonato i suoi (14,18), ma continua ad aver cura di loro, promettendo loro l'invio di un altro Intercessore (14,16), che avrebbe preso da lui (15,26; 16,14) e li avrebbe condotti alla pienezza della verità (14,26; 16,13). Essi, dunque, non sarebbero rimasti orfani (14,18a). In altri termini le attenzioni che Gesù ebbe durante la sua missione terrena continuano in quell'Intercessore che ha preso il suo posto pur non sostituendolo (14,26; 16,14-15). Quanto al secondo verbo “efílaxa” esso significa sempre custodire, ma in senso stretto, con diretta sorveglianza fisica del custodito. Esso significa, infatti, fare la guardia, vigilare, sorvegliare, proteggere. Da questo verbo deriva anche “fulak»” (filaké) che significa, posto di guardia, custodia, prigione, carcere; mentre “fulakj” (filakís), significa guardiano, custode. L'uso del verbo “ful®ssw” (filásso) pertanto indica una stretta custodia fisica, che ha attinenza con l'azione vigilante del Gesù storico, il quale si sceglie i propri discepoli e li istruisce, addentrandoli lentamente e gradualmente nel Mistero della sua persona e in quella del Padre. Per questo il tempo qui usato è l'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, perché qui si parla di un'azione svolta nel passato, ma che non ha più nessun proseguimento nel tempo, poiché la persona di Gesù termina la sua vicenda storica con la sua morte-risurrezione. Ed è proprio sull'onda di quest'ultimo verbo, filásso, che Gesù annota un suo fallimento: egli ha vigilato bene su tutti e tutti sono stati conservati rigorosamente nel nome del Padre, da cui li aveva ricevuti, fuorché “il figlio della perdizione, affinché fosse compiuta la Scrittura”. La colpa dunque non è imputabile alla negligenza di Gesù. Come dunque spiegare il tradimento? La chiesa primitiva ha dato una lettura propria del tradimento di Giuda: esso era previsto dalle Scritture. Come dire che esso non solo rientrava nel progetto salvifico del Padre, ma come anche tutta l'esistenza di Gesù si era mossa all'interno di questo piano e in sua conformità. Del resto è da una rivisitazione delle Scritture che la chiesa della prima ora ha cercato di comprendere e di spiegare l'evento Gesù (20,9; Lc 24,27). Una precisazione questa, che l'autore ha ritenuto necessaria inserire, probabilmente per rispondere a delle accuse o a degli interrogativi che serpeggiavano all'interno della sua comunità e che mettevano in dubbio la piena capacità redentiva di Gesù: se è vero che Gesù ha riscattato tutti, anche il rinnegamento di Pietro e la fragilità dei suoi discepoli, che lo abbandonarono nel Getsemani, perché non ci è riuscito con Giuda?

v.13: Quasi ridestandosi dal ricordo in cui si era immerso con il v.12, ora Gesù torna alla realtà dei fatti: “Ma ora vengo a te, e queste cose dico nel mondo, affinché abbiano in loro stessi la mia gioia piena”. Un passaggio, dai ricordi del passato al presente, che viene sottolineato da quel “Ma ora” (nàn de, nîn de) con cui si apre il v.13, che, contrapponendosi al divagamento del v.12, riconduce il lettore al presente di un'ora che si sta compiendo: “vengo a te”, alludendo al cammino che Gesù sta attuando e che lo sta conducendo alla morte (18-19) e alla risurrezione (20), quali tappe necessarie del ritorno, di cui il cap.17 costituisce il prodromo preparatore.

Il v.13 procede ora con una forzatura redazionale in quel “kaˆ” (kaì, e) per dare un senso di continuità narrativa ai discorsi precedenti: “e queste cose dico nel mondo”. A quali cose Gesù stia alludendo non ci è dato di sapere, anche se molto probabilmente esse riguardano quelle dette ai vv.1-12; ma non è escluso che esse riguardino l'intero cap.17. Se riguardassero infatti soltanto i vv.1-12 il verbo “dico” (lalî, lalô) sarebbe espresso con un tempo verbale al passato, un aoristo o un perfetto indicativo. Ma l'uso del presente indicativo invita a comprendere il dire come “ciò che sta dicendo e che continua dire”. Ritengo, pertanto, contrariamente a quanto afferma il Brown16, che esso riguardi l'intero capitolo. Ora, quasi a puntualizzare il contesto topografico in cui queste cose sono dette, Gesù precisa che esse sono annunciate qui in questo mondo. Una simile precisazione si è resa necessaria per la proiezione in avanti del v.11, in cui Gesù affermava che non era più nel mondo, mentre il v.12 apriva ad una riflessione retrospettiva; ora il v.13 con quel “Ma ora” riconduce Gesù, e con lui il lettore, al presente di un mondo e di una realtà in cui egli ancora si trova e in cui dice “queste cose”. Ma ciò che più interessa del v.13 è la finalità che si propone il dire Gesù: “affinché abbiano in loro stessi la mia gioia piena”. Il “dire” di Gesù è reso in greco con il verbo “lalî” (lalô), che riferito a Gesù acquista in Giovanni una valenza rivelatrice e trasmettitrice di verità. Qui esso trasmette la stessa gioia di Gesù. Si tratta di una gioia che ha una duplice fonte: il ritorno al Padre (“Ma ora vengo a te”) e la rivelazione (“queste cose dico”) donata agli uomini che l'hanno accolta (v.6) e che diventa fonte di glorificazione del Padre, che per questo glorifica a sua volta il Figlio (vv. 4-5). Significativo qui l'uso del pronome “™m¾n(emén, mia) anziché dell'aggettivo possessivo “mou” (mu, di me), per cui letteralmente si ha “la gioia, la mia”. L'uso del pronome “il mio” al posto dell'aggettivo possessivo corrispondente è caratteristico di Giovanni, in cui ricorre ben 36 volte contro le sole 9 volte nei sinottici. Esso quando compare è attribuito soltanto a Gesù, se si eccettua 3,29 dove il pronome è riferito al Battista. La scelta di usare il pronome anziché l'aggettivo possessivo nasce probabilmente dal fatto che l'aggettivo indica soltanto la proprietà di un qualcosa, mentre il pronome inerisce più che alla proprietà all'essere stesso della persona di Gesù; per cui “la mia gioia” dice non soltanto che Gesù possiede la gioia, ma che il suo stesso essere, la sua persona è investita dalla gioia, gli appartiene e che questa gioia in qualche modo fa parte della sua stessa natura, esprimendo, quindi, più che un possesso di qualcosa, uno stato e una condizione di vita, che Gesù trasmette ai suoi con la manifestazione rivelativa del Padre, la cui pienezza essi acquisiranno soltanto dopo il suo ritorno al Padre, allorché lo Spirito di verità li avrà introdotti nella pienezza della verità (16,13a). Si tratta quindi di una gioia che non esprime uno stato emotivo, ma una condizione di vita, che è comunione del Risorto con il Padre, trasfusa nello e con lo Spirito ai credenti. Eloquente infine è il pronome “in loro stessi” (™n ˜auto‹j, en eautoîs), un rafforzativo del semplice “in loro” (en autoîs), quasi a voler evidenziare la forza penetrativa di questa gioia, che permea l'intero essere del credente, collocato per la sua fede nella vita stessa di Gesù e in Gesù nel Padre, in un'unica comunione di vita divina (14,23).

Il v.14 funge da cornice motivazionale e introduttiva ad un secondo gruppo di richieste di Gesù al Padre (vv.15-21) a favore dei suoi: “Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha disprezzati, poiché non sono dal mondo, come io non sono dal mondo”. Il v.14, riprendendo il v.8a, è scandito in due parti: la prima, rilevando una volta di più il contrasto tra Gesù e il mondo, per il quale Gesù non prega (v.9a), annota come le persecuzioni che stanno affliggendo i suoi sono dovute all'accoglienza della sua parola, che essi hanno operato nella loro vita; la seconda parte, che è una ripresa di 15,19, spiega perché l'accoglienza della parola di Gesù provoca il disprezzo del mondo: “poiché non sono dal mondo, come io non sono dal mondo”. L'appartenenza dei discepoli di Gesù, che egli in 13,1 intimamente chiama “i suoi”, nasce dall'associazione e dall'assimilazione dei discepoli ai suoi destini (15,18). Per questo la loro origine, evidenziata dalla particella “™k” (ek, da), ricalca quella stessa del loro maestro, poiché essi sono stati generati al Padre proprio dalla parola del suo Logos eterno (vv.1,4.9.12-13).

Con i vv.15-21 si apre una nuova sequenza di richieste al Padre, raggruppabili in tre parti:

  1. In 15-16 torna il tema della protezione dei vv.11-12; ma se là la protezione e la conservazione dei discepoli riguardava la loro unità e la loro fedeltà alla parola abbracciata con la loro vita, qui la protezione riguarda le persecuzioni, lette come aggressioni del maligno;

  2. In 17-19 vi è la richiesta di una consacrazione dei discepoli nella verità della parola che hanno ricevuto, per la quale sono chiamati ad annunciarla al mondo, così come lo fu per Gesù, inviato dal Padre nel mondo e a favore dei quali Gesù sta offrendo se stesso;

  3. Con i vv.20-21 l'orizzonte della preghiera si allarga alle future generazioni di credenti, perché tutti siano radicati nell'unica verità, che, in una sorta di catena di fedeltà, è donata dal Padre a Gesù, da questi ai suoi e dai suoi a tutti i credenti, perché tutti siano uno nell'Uno.

Il v.15 si apre con una nuova richiesta di preghiera introdotta nuovamente dal verbo “™rwtî” (erotô, prego) e finalizzata non al miracolistico, “togliere i discepoli dal mondo” per sottrarli al disprezzo del mondo (v.14), ma per conservarli nella dura lotta contro il mondo, quale forza avversa a Dio e qui richiamato dal maligno. È lui, per Giovanni, che sottende la lotta contro Dio. Significativa infatti è la particella “™k” (ek, da), che indica nel maligno l'origine di ogni male. Lui, infatti, è il principe di questo mondo, che ora sta per ingaggiare una lotta all'ultimo sangue, ma che nulla può contro Gesù e sarà detronizzato e privato di ogni potere (12,31; 14,30; 16,11). Certo egli combatterà ancora con tutte le sue forze, ma è una lotta che a giochi finiti lo vedrà sconfitto, poiché Gesù ha vinto il mondo (16,33b). Nessun privilegio, dunque, per i suoi discepoli, che sono stati associati ai destini del loro Maestro. Nessuno, infatti, è più grande del suo maestro e se hanno perseguitato lui anche loro saranno perseguitati (13,16; 15,20). Essi, infatti, come il loro Maestro non sono dal mondo, ma sono stati generati da Dio per mezzo della Parola accolta in loro (1,12-13). E come Gesù non ha subito scorciatoie o favori personali dal Padre, assoggettandosi pienamente alla sua volontà fino alla morte di croce, così lo sarà anche per i discepoli. Gesù pertanto prega il Padre non per ottenere particolari favori o facilitazioni per i suoi, ma soltanto la loro preservazione, perché coloro che il Padre gli ha affidato non vadano perduti e, quindi, vanificata la missione redentiva di Gesù.

Con il v.16 viene ripresa la motivazione del v.14b; là finalizzata a motivare il disprezzo del mondo, che non li riconosce come suoi e per questo li disprezza; qui a motivare la richiesta di supporto al Padre. Il v.16, pertanto, pur identico nella sua formulazione a 14b, tuttavia cambia di indirizzo e giustifica la richiesta di protezione da parte del Padre, poiché essi non appartengono al mondo come Gesù, ma allo stesso Padre; per questo si rende necessario l'intervento della protezione divina non per alleviare loro le sferzanti sofferenze che provengono dal maligno, ma perché essi non cedano, rinnegando il nome di Gesù, a motivo del quale sono perseguitati (15,21).

I vv.17-19 introducono un'altra finalità di questa preghiera, che funge da prodromo ai vv.20-21: la santificazione dei discepoli nella verità in quanto inviati nel mondo ad annunciare la Parola.

Il v.17 funge da transizione perché, da un lato, indica in quale modo avviene la custodia dal maligno, invocata da Gesù al v.15; dall'altro definisce la condizione di garanzia per la missione di annuncio dei discepoli (v.18). Esso è scandito in due parti: la prima, “santificali nella verità”, costituisce l'oggetto della preghiera; la seconda parte, “la tua parola è verità”, è, da un lato, esplicativa del termine “verità”, che per Giovanni è sinonimo di rivelazione divina; dall'altro, dice come la parola rivelatrice accolta sia lo strumento stesso della santificazione. Il significato qui di santificazione è duplice: sia consacrazione nella verità; sia salda conferma in quella parola che sono chiamati ad annunciare (v.18). Il v.17 funge dunque anche da premessa al v.18.

La santificazione è un'azione propria ed esclusiva di Dio, che è fonte di ogni santità e che già era stata in qualche modo preannunciata al v.11, dove il Padre era definito “santo”. Una santificazione che dice, da un lato, la separazione del credente dal mondo; dall'altro, la sua attrazione nella stessa dimensione di Dio, così che il credente non è più dal mondo (v.16), ma da Dio (1,12-13) e come tutto ciò avvenga attraverso la parola di verità accolta, che ha consentito al credente di accedere al Mistero di Dio. Già al v.6 l'autore parlava della manifestazione del nome del Padre operata da Gesù e come questa sia stata non solo accolta, ma anche fedelmente conservata e che proprio per questo i credenti hanno compreso non solo l'agire divino di Gesù (v.7), ma anche la sua stessa provenienza divina, sia quale inviato che quale quale generato dal Padre (v.8; 16,30b). Proprio per questo i credenti, che sono entrati nel Mistero di Dio e ora vi appartengono, non sono più da questo mondo pur vivendo in esso; ma da questo mondo sono stati separati attraverso l'azione stessa della Parola rivelatrice da essi accolta e che li ha resi per questo estranei al mondo fino a renderli invisi ad esso: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe il proprio; ma poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (15,19). Ci si trova dunque di fronte ad una elezione (“scelti dal mondo”) avvenuta attraverso la Parola accolta, che ha provocato una separazione dal mondo dei discepoli, sottraendoli nel contempo alla sua appartenenza, assegnando loro una nuova identità caratterizzata dalla Parola, a cui ora appartengono.

Il motivo e la finalità di questa santificazione, che è separazione dal mondo ed attrazione nella stessa dimensione divina, non è solo quella della protezione dal maligno, quale agente primario di ogni divisione e di ogni avversità a Dio (v.15), ma anche predisporre i credenti all'annuncio di quella parola di verità per la quale essi sono stati consacrati, preservati e inviati. La santificazione è dunque in vista di una missione, che possiede le stesse dinamiche divine che hanno operato in Gesù e ne costituiscono pertanto il naturale proseguo: “Come hai mandato me al mondo, anch'io ho mandato loro al mondo” (v.18). Il mandato che Gesù, quale inviato, ha ricevuto dal Padre, ora questo stesso mandato viene affidato da Gesù ai credenti con le stesse modalità che egli ha ricevuto dal Padre: “come tu … anch'io”.

v.19: Se la santificazione è quel processo di separazione dal mondo ed attrazione alla dimensione divina, che diviene comunione di vita con Dio e, quindi, conformazione consacrante alle sue esigenze, allora si comprende il senso di quella santificazione che Gesù ha operato su se stesso: un costante conformarsi alla volontà del Padre,- che ha caratterizzato tutta la sua esistenza (4,34; 5,30; 6,38) e che ha fatto del Padre il suo primario polo di attrazione esistenziale verso il quale l'intero suo essere è rivolto fin dall'eternità (1,1-2). Così che l'agire e il dire di Gesù erano gli stessi agire e dire del Padre (14,9-11) e tale da fare dei Due una cosa sola (10,30). Ma se questo è il primo accesso al concetto di quella santificazione che Gesù ha operato su se stesso, quel “per loro” (Øpšr aÙtîn, ipér autôn), finalizzato alla santificazione dei credenti nella verità, lascia intravvedere un secondo aspetto del processo di autosantificazione che ha qualificato l'esistenza di Gesù e verso il quale egli tendeva: l'aspetto sacrificale17. La particella greca “Øpšr” (ipér, per), infatti, in Giovanni, quando ha attinenza con Gesù, assume sempre un senso sacrificale18, che viene sottolineato anche dall'uso che qui viene fatto del verbo “¡gi£zw” (aghiázo). Esso tra i suoi diversi significati ha anche quello di “offrire, purificare, separare per un uso sacro” ed è strettamente imparentato con “¢gzw” (aghízo) che significa consacrare, immolare, sacrificare. L'autosantificazione di Gesù, in questa prospettiva, allude, quindi, alla sua morte-risurrezione, quale attuazione e conformazione al progetto salvifico del Padre, i cui effetti santificanti nei confronti dei credenti sono significati nel dono dello Spirito (20,22), che conferma e consacra i credenti nella pienezza della verità (16,13). Significativa è qui l'espressione “in verità” (™n ¢lhqe…v, en aletzeía) senza l'articolo determinativo, così che “verità”, presa in senso assoluto, diviene il contesto e il luogo entro cui è operata la santificazione.

Infine, un'ultima considerazione sul processo di autosantificazione di Gesù, colta nel suo senso sacrificale, porta a considerare come solo il Padre, che per definizione è santo (v.11b), possiede la santità ed è fonte primaria di ogni processo di santificazione. Qui Gesù si presenta con le stesse caratteristiche del Padre19: egli ha il potere di santificare se stesso per santificare a sua volta coloro che hanno creduto in lui. Una santificazione, quindi, che da se stesso si estende in modo coinvolgente e assimilante ai suoi. Egli infatti ha ricevuto nelle sue mani ogni potere dal Padre, un potere che non è soltanto sulle cose (13,3) e sugli uomini (17,2a), ma anche su se stesso, quale vertice assoluto di tale potere: “Per questo il Padre mi ama, perché io offro la mia vita, per prenderla di nuovo. Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente; questo mandato ho ricevuto dal Padre mio” (10,17-18). L'autosantificazione di Gesù, generatrice di santità, assume, pertanto, anche i connotati di una piena e libera gestione della propria vita finalizzata ad essere offerta e totalmente spesa secondo il progetto del Padre fino al gesto dell'estremo dono che la vede sacrificata sulla croce, ma nel contempo ricostituita nella pienezza della sua gloria (17,5), attraverso un processo autoreferenziale, in cui, sullo sfondo, quasi in filigrana, appare sempre e comunque il Padre in una profonda intercompenetrazione comunionale con il Figlio. Questo processo di autosantificazione, pertanto, assume anche significati sacrificali.

vv.20-21: l'ultimo passaggio della preghiera è riservata ai futuri credenti, generati alla fede attraverso la parola di verità, in cui i discepoli sono stati consacrati non solo dal Padre per mezzo della rivelazione accolta, attuatasi nel Figlio, Parola di verità del Padre, ma anche per mezzo della stessa morte-risurrezione di Gesù, i cui effetti consacratori sono stati espressi attraverso l'unzione dello Spirito.

Il v.20 si apre con l'espressione “Ora prego” che introduce un'altra finalità e dei nuovi destinatari della preghiera di Gesù al Padre: i futuri credenti. Non si tratta di una nuova preghiera, ma di un'estensione della stessa preghiera, che ora supera i ristretti e relativi spazi della contingenza della storia per accogliere in un unico grande abbraccio il credente di ogni tempo e di ogni latitudine. Tutto è giocato sulla contrapposizione tra “non solo per questi”, verso i quali si è rivolta fin qui l'attenzione di Gesù, e “ma anche per”. Si tratta di una nuova categoria di credenti la cui fede non si radica più nella diretta parola di verità di Gesù, ma in quella mediata dei testimoni, preposti a tale funzione attraverso due passaggi: il mandato divino (v.18) e la loro consacrazione nella verità, attuatasi sia attraverso l'accoglienza della rivelazione, sia dal dono santificante dello Spirito (vv.17.19; 20,22), che rendono certa la loro testimonianza. Si tratta di una preghiera il cui intento è quello di realizzare il sogno di Gesù, quello di un solo gregge sotto un solo pastore (10,16): “affinché tutti siano uno”.

Il v.21 illustra la triplice finalità perseguita da questa preghiera, che ha per destinatari i nuovi credenti, ognuna delle quali è introdotta dalla particella finale“†na” (ína, affinché). La prima finalità, che funge da presupposto alla seconda, ha come obiettivo primario l'unità di tutti i credenti, in cui in quel “tutti” sono racchiusi sia i primi credenti che quelli futuri. Un'unità che ha come parametro di raffronto, fondativo e distintivo della comunità credente, quello della profonda comunione del Padre nel Figlio e di questi nel Padre, che formano tra loro una cosa sola. La seconda finalità, dipendente dalla prima, è tesa a creare una comunità che rifletta nella sua dinamica relazionale tale spirito di comunione e di amore. Solo in tal modo i credenti sono associati e assimilati alla comunità comunionale propria dei Due, così da formare assieme a loro un unico accorpamento: “affinché anche loro siano in noi”. La terza finalità perseguita è che tale comunione di amore, dai tratti squisitamente divini, con cui la comunità credente è caratterizzata, diventi di fronte al mondo testimonianza della Parola di Verità da loro accolta e a cui essi hanno conformato la loro vita.

I vv.20-21, pur nella loro diversa formulazione, sono, di fatto, una ripresa ed un approfondimento dei vv.13,34-35, dove Gesù dava un comandamento nuovo ai suoi quale contrassegno qualificante della loro appartenenza a lui davanti al mondo: “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri. In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni verso gli altri”. Pertanto l'unità e la comunione di vita tra i credenti, fondate e radicate in quelle trinitarie, ne devono esprimere concretamente la dinamica per rendere storicamente raggiungibile al mondo l'amore di Dio, dandone visibilità nella testimonianza.

Commento ai vv. 22-26

Testo

22- E io ho dato a loro la gloria che hai dato a me, affinché siano uno come noi (siamo) uno,
23- io in loro e tu in me, affinché siano perfetti in uno, affinché il mondo
conosca che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.
24- Padre, ciò che mi hai dato, voglio che dove sono io anche quelli siano con me, affinché vedano la mia gloria, che mi hai dato, poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.
25- Padre giusto, e il mondo non ti ha
conosciuto, io invece ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
26- e ho fatto
conoscere loro il tuo nome e (lo) farò conoscere, affinché l'amore con cui mi hai amato sia in loro e io in loro>>.

vv. 22-24: Il v.21, con cui si concludeva l'ampia pericope,+-- che formava il corpo della preghiera (vv.9-21), può considerarsi di transizione perché nel completare il v.20, esplicitandone gli intenti con il suo triplice “affinché”, introduce anche il tema della successiva pericope 22-24. Qui infatti viene ripreso il tema dell'unità dei credenti, parametrata sui rapporti di comunione e di amore che intercorrono tra Padre e Figlio, a testimonianza per il mondo. Ma non si tratta di un semplice ripetizione, ma di una elaborazione di approfondimento sul tema, mettendo in luce altri aspetti di questo processo di unità e di comunione quale partecipazione della gloria, che il Padre ha dato a Gesù. Si tratta di un'unità che esige la perfezione, cioè che necessita di essere portata a compimento; mentre la testimonianza al mondo, che prima doveva semplicemente sollecitare il mondo alla fede (“affinché il mondo creda”), diviene qui una testimonianza che deve favorire la conoscenza del Mistero di Dio da parte del mondo; il v.24 poi apre una nuova prospettiva su questa unità e comunione, colta non più come un riflesso della vita trinitaria su cui la comunità credente deve riparametrarsi, ma come un'attrazione, un'associazione, una assimilazione, una sorta di accorpamento al Risorto, che ora vive nel Padre, in intima comunione con lui, così che anche i credenti possano partecipare della stessa vita divina dei Due (“affinché vedano la mia gloria”), di cui il Risorto godeva ancora prima della creazione del mondo (v.5).

Il v.22 sia apre con un “k¢gë” (kagò, crasi di “kaì egó”, e io) in cui con quel “kaì” l'autore si aggancia al v.21 riprendendolo e quasi riportandolo all'interno della pericope 22-24 per assoggettarlo ad una approfondita rielaborazione: “E io ho dato a loro la gloria che hai dato a me”. Di quale gloria si sta qui parlando? La comprensione del senso di questa gloria si muove su due diversi livelli20: il primo manifestativo e rivelativo; il secondo di comunione di vita divina. Quanto al primo livello, è necessario rifarsi a 1,14 dove l'autore attesta che “la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito da Padre, piena di grazia e di verità”. Similmente in 2,11, dopo il segno di Cana, l'autore commenta che Gesù “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Parimenti in 11,4.40 in riferimento al alla malattia mortale e alla risurrezione di Lazzaro si dice, dapprima, come “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio” e, poi, in risposta all'incredulità di Marta Gesù risponde “<<Non ti dissi che se credi vedrai la gloria di Dio?>>”. Anche qui la gloria di Dio e di Gesù è il manifestarsi della potenza del Padre in lui (11,41-42), che riporta in vita Lazzaro (11,43-44). La gloria che qui si contempla è pertanto il manifestarsi rivelativo del Logos Incarnato nel corso della sua missione, in parole ed opere. Lo stesso concetto di gloria quale manifestazione rivelativa è ripreso qui in 17,4 dove Gesù parla di glorificazione del Padre operata tramite il compimento dell'opera assegnatagli, che è consistita nel manifestare agli uomini il nome del Padre (v.6) consentendo loro l'accesso al suo Mistero (v.7).

Quanto al secondo livello, gloria quale partecipazione della comunità credente alla vita divina, già in 1,14c si precisa come questa gloria, che l'autore contempla nel Logos Incarnato nel suo dispiegarsi storico, sia la “gloria come unigenito da Padre, pieno di grazia e di verità”. Si tratta, dunque, di una gloria che ha una stretta attinenza con la stessa vita di Dio, in quanto “unigenito da Padre”, cioè uscito, generato dal Padre, di cui possiede, quindi, il DNA divino (8,42; 16,28.30; 17,8), per questo è “pieno di grazia e di verità”, pieno cioè della stessa vita di Dio che condivide con il Padre, perché “Come il Padre ha la vita in se stesso, così anche al Figlio ha dato di avere la vita in se stesso” (5,26). Una vita divina che si è manifestata e rivelata storicamente in Gesù, a tutto favore degli uomini (1,4). Similmente si parla di una glorificazione di Gesù, quale Figlio di Dio, che allude alla risurrezione, con cui Gesù, secondo la visione cristologica di Paolo, fu “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,4). Gesù, quindi, fu attratto presso Dio e rivestito della sua stessa vita attraverso un processo di “santificazione” avvenuto con la potenza dello Spirito. In altre parole, Gesù, quale Figlio di Dio incarnato, venne nuovamente ricostituito nella sua figliolanza divina per mezzo della risurrezione. Un processo questo che il Gesù giovanneo in 17,5 invoca dal Padre: “E adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te”. Gloria e glorificazione, quindi, come attribuzione di vita divina per mezzo della risurrezione nella quale essa appare nella sua pienezza.

Il v.22 pertanto attesta che a fondamento di questa unità ci sta il dono che accomuna tutti i credenti nel Risorto: la stessa gloria che Gesù ha ricevuto dal Padre viene ora data da Gesù ai suoi; gloria, come si è visto, che dice manifestazione rivelativa del Padre in Gesù e vita divina che da questa rivelazione, come sorgente di acqua viva, zampilla per la vita eterna (4,14). Questa gloria dunque è una gloria che glorifica, cioè una rivelazione che, se accolta, colloca il credente nella stessa vita di Dio: “In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (5,24). È infatti questa gloria glorificante, questa rivelazione accolta e generatrice di vita divina, che costituisce l'unità e la comunione di vita della comunità, che proprio per questo viene collocata nella vita stessa di Dio, che è vita di comunione e di amore. Una comunione e un amore che dicono la totale apertura e donazione di sé all'altro, la totale e incondizionata accoglienza in sé dell'altro. In ultima analisi, questa gloria glorificante, donata ed accolta, colloca la comunità credente nella stessa Comunità divina e ne condivide la dinamica di vita, che è di comunione e di amore. Un dono che è finalizzato, quindi, a creare l'unità, un'unità che avviene per attrazione e assimilazione: “affinché siano uno come noi (siamo) uno”.

Se il v.22 dice come l'unità comunionale della comunità si fonda su quella divina, il v.23 dice come ciò avviene e perché avviene. Quanto alla modalità: “io in loro e tu in me”. Si parla qui di una doppia compenetrazione, che porta ad un unico accorpamento. La prima compenetrazione avviene attraverso la rivelazione accolta in sé dal credente (“Io in loro”), che verrà confermata e portata a perfezione per mezzo dello Spirito (16,13a), che prenderà da Gesù e lo insegnerà ai credenti, portandolo a pienezza (16,14b); la seconda compenetrazione (“e tu in me”) attesta la condizione stessa di vita e di relazione che intercorrono tra i Due, Padre e Figlio, per cui chi vede Gesù vede il Padre, poiché Gesù è nel Padre e il Padre in Gesù, così che il suo parlare e il suo operare è lo stesso operare e lo stesso dire del Padre (14,9-11.23). Padre e Figlio, pertanto, compenetrati l'uno nell'altro in una profonda comunione di vita e di amore, dimorano nel credente che ha accolto in se stesso la Parola di Verità: “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (14,23). Questa duplice compenetrazione del Padre nel Figlio e di questi nei credenti è finalizzata da un lato a perfezionare l'unità e la comunione intracomunitaria: “affinché siano perfetti in uno”. Il verbo qui usato è “telšw” (teléo), che significa portare a compimento, dare compimento e quindi perfezionare; e, dall'idea del rendere perfetto, deriva quella di “iniziare ai misteri”, “consacrare”21. Il tempo verbale qui è il perfetto indicativo (teteleiwmšnoi, teteleioménoi) che indica come l'azione presente sia l'effetto di una posta nel passato. Il motore quindi che costituisce e porta a compimento la comunione e l'unità della comunità e sul quale la comunità credente fonda, è la stessa dinamica intracomunitaria che opera nei Due. È questa che conduce a perfezione, a compimento l'unità della comunità credente, riproducendosi in essa, e si esprime nell'essere “uno” della comunità stessa. Significativa è la particella di moto a luogo “e„j” (eis, verso), posta dinnanzi e in riferimento ad “›n” (én, uno). Essa dice come l'unità e la comunione, che devono caratterizzare la comunità credente, benché già operanti in essa a livello ontologico, in quanto comunità radicata e collocata in quella del Padre-Figlio, che in essa si riflette, tuttavia a livello storico esse non sono mai definitivamente compiute, ma si esprimono in un cammino di continuo perfezionamento e di continua ricerca a livelli sempre nuovi e diversi; sempre tese a togliere dal proprio cammino di perfezionamento tutti quegli ostacoli che impediscono loro in qualche modo di apparire e di affermarsi all'interno della comunità stessa. “e„j ›n” (eis én), “verso l'uno” diventa così il moto proprio di ogni comunità credente, che nell'unità è introdotta e associata al Mistero della stessa vita trinitaria, che la configura e che è vita essenzialmente di comunione e di amore, in cui essa trova la sua perfezione, il suo compimento e la sua definitiva consacrazione.

La seconda finalità (v.23b), dipendente dalla prima (v.23a), riprende e sviluppa il v.21b, ma il verbo “credere” del v.21b viene qui sostituito con il verbo “conoscere”. Si passa quindi dall'accettazione di una certa verità (credere) alla sua esperienza, qui espressa dal verbo conoscere, che nel linguaggio biblico è sinonimo di sperimentare concretamente. La prima finalità, infatti, vedeva nell'unità, nella comunione e nell'amore della comunità credente l'incarnarsi e il manifestarsi di quelle del Padre-Figlio (“io in loro e tu in me, affinché siano perfetti in uno”), così che essa ne diventava l'espressione storica. Così strutturata e definita, la comunità credente si colloca nel mondo divenendo non solo segno di realtà trascendenti in essa storicizzate, ma anche luogo in cui queste realtà si possono incontrare e conoscere, cioè raggiungere e sperimentare storicamente, divenendo i credenti il segno storico e concreto di un amore divino che non solo si è riversato su di loro, ma in loro vive e dimora e si esprime nella loro unità e nella loro comunione di vita, divenendo in tal modo testimoni di quell'amore divino di cui Gesù era portatore e testimone e da cui è stato generato.

Il v.24 costituisce il vertice di questa unità di comunione e di amore che caratterizza le comunità credenti e in cui si riflette, vive e si esprime, rendendosi storicamente raggiungibile da ogni uomo, quella dei Due. Si è detto vertice, in realtà è una sorta di apoteosi, che vede la comunità credente, e con essa ogni suo componente, assunta, compartecipe e assimilata alla gloria divina di cui era permeato il Figlio fin dall'eternità. Si noti come tutti i verbi che riguardano l'associazione della comunità credente a Gesù siano posti al presente (“voglio, sono, siano, vedano”) obbedendo in tal modo alla visione, tutta giovannea, di una escatologia presenziale o già realizzata. In ultima analisi l'autore qui lascia intravvedere come l'unità di comunione e di amore, che plasma ogni comunità credente, di fatto collochi questa fin d'ora, nell'attesa di un suo definitivo compimento, nella gloria del Risorto, ricostituito per mezzo della risurrezione, in quella gloria che egli godeva, in quanto Figlio generato dal Padre, fin dall'eternità (1,1-2; 17,5). Un simile concetto, benché sotto un diverso profilo teologico e cristologico dal sapore prevalentemente pastorale e in un contesto parenetico (Col 3,3), viene espresso in Col 1,13 e 3,3 dove si parla di come la vita del credente sia ormai nascosta con Cristo in Dio, nel cui regno è già stato trasferito anche se non ancora in modo compiuto e definitivo.

Il v.24 si apre con l'invocazione al Padre, che in questo capitolo introduce per cinque volte altrettante invocazioni22 seguite poi da riflessioni o elaborazioni teologiche sul tema introdotto. Segue poi l'espressione “ciò che mi hai dato” che ritroviamo pressoché identica al v.2. L'oggetto del dono al Figlio è posto al neutro (“p©n Ö dšdwkaj, Ö dšdwk£j moi; tutto ciò che, ciò che) per sottolineare l'onnicomprensività e l'universalità di tale dono, che si estende anche “su ogni carne” e che fa del Figlio-Gesù la pienezza del potere del Padre, in cui il Padre opera e si esprime (14,9-11)23. Il cuore di questa preghiera si apre con l'espressione “qšlw †na” (tzélo ína) tradotto con “voglio che”. Non si tratta tuttavia di un atto di volontà perentorio che tende in qualche modo a prevaricare quella del Padre, per la quale, invece, Gesù è vissuto (5,30) e che ha costituito a fondamento e a senso del suo vivere (4,3; 6,38); un Padre verso il quale è rivolto e teso fin dall'eternità (1,1), ma si tratta di un desiderio. Il verbo infatti significa si “volere”, ma nel senso di bramare, desiderare, amare. Non c'è nulla di impositivo, ma di attesa. Tale senso è rafforzato dalla particella finale “ína”, affinché, che introduce l'oggetto del soddisfacimento del desiderio di Gesù verso cui egli tende: “dove sono io anche quelli siano con me, affinché vedano la mia gloria”. Il desiderio di Gesù è fare si che l'unità dei credenti sia di fatto un accorpamento ed una assimilazione a lui, perché dove è lui anche gli altri siano. Una posizione questa con cui si conclude anche il vangelo di Matteo, dove il Risorto, nel salutare i suoi, annuncia che sarà sempre con loro (Mt 28,20b). Un desiderio che non va letto come quello di chi, lasciando i suoi cari, li vorrebbe avere sempre con sé. Qui, nel contesto della cristologia giovannea, il desiderio di Gesù dice come l'unità e la comunione di amore e di vita della comunità di fatto la collochi già fin d'ora nel Risorto (tutti i verbi sono al presente) ed essa viva della sua stessa vita. Significativo è quel “dove sono io”, che se da un lato esprime il desiderio di Gesù di avere i suoi sempre con sé, dall'altro indica il “luogo” dove Gesù e i suoi si ritrovano: il Padre. Gesù infatti è nel Padre e questi in lui, così che i Due formano una sola cosa. Solo in tal modo l'unità e la comunione dei credenti diviene perfetta (v.23b), poiché partecipa e vive della stessa dinamica comunionale e di amore che scandisce la vita dei Due. L'accorpamento della comunità a Gesù è dunque un accorpamento al Padre, partecipando in tal modo al loro ciclo vitale. Finalità ultima di tale desiderio, infatti, è “affinché vedano la mia gloria”. L'espressione qui è sostanzialmente identica a quella di 1,14 dove l'autore annuncia al suo lettore che il suo vangelo è una contemplazione del dispiegarsi storico del Logos Incarnato, quale Unigenito generato ed uscito dal Padre, nello splendore della sua grazia e della sua verità. Ora, qui in 17,24, al termine di questa contemplazione, iniziata già in 1,1, essa compie un notevole salto di qualità: la comunità viene accorpata nel desiderio di Gesù alla sua stessa vita: “affinché vedano la mia gloria”, letteralmente “affinché contemplino la gloria, la mia” in cui l'aggettivo possessivo è espresso qui con un pronome “la mia”, che dice come questa gloria abbia a che vedere con la persona stessa del Gesù glorificato, ricostituito nella stessa gloria, che gli apparteneva allorché era ancora Figlio (17,5), divenuto poi Gesù, Logos eterno Incarnato del Padre (1,14). L'origine e il senso di questa gloria, che Gesù ha ricevuto dal Padre fin dall'eternità, viene indicata nella parte finale del v.24: “poiché mi hai amato prima della creazione del mondo”. Il tempo verbale qui è un aoristo (ºg£phs£j, egápesas), “mi amasti”, che indica un atto unico e irripetibile da cui il Figlio è stato originato, traendo così la sua esistenza dalla stessa eternità del Padre, rendendosi così a lui coeterno. In questa prospettiva la gloria del Padre, di cui il Figlio è rivestito è la stessa vita del Padre, colta nella sua pienezza, che vive nel Figlio e di cui il Figlio vive parimenti al Padre. Ora in 17,5 Gesù chiede al Padre di glorificarlo con la stessa gloria che egli aveva presso di lui prima ancora che il mondo fosse. Si faccia attenzione, qui chi parla non è il Figlio, ma il Figlio-Gesù, cioè il Logos Incarnato che chiede al Padre di essere ricostituito, in quanto Logos Incarnato, nella sua gloria d'origine, allorché egli era solo Logos rivolto verso il Padre e Dio come il Padre. In altri termini Gesù, quale Figlio incarnato del Padre, chiede che il suo nuovo stato di vita sia riconosciuto e ricostituito nella gloria originale, non più come Figlio, ma come Figlio che ha assunto in sé la natura umana. Paolo sottolineerà questo passaggio in Rm 1,3-4: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”. Entro questo contesto è comprensibile ora il desiderio di Gesù per la comunità credente: che tramite l'unità comunionale di amore rimanga in lui così che essa possa contemplare la gloria del Figlio-Gesù, cioè possa partecipare alla sua sua stessa vita divina. È significativo come qui Giovanni parli di desiderio di Gesù (tzélo ína) di avere sempre con sé i suoi per partecipare loro la sua vita divina. Il desiderio infatti è sempre una volontà incompiuta e condizionata nel suo compiersi da altri fattori esterni al soggetto desiderante, in questo caso dalla capacità di unità comunionale di amore da parte della comunità credente. Solo se questa riesce a realizzare la sua unità sullo stesso parametro della vita di comunione e di amore dei Due, essa ne farà parte e ne condividerà la vita, dando in tal modo consistenza e compimento al desiderio di Gesù.

I vv.25-26, in cui il verbo conoscere ricorre ben cinque volte, concludono il cap.17 riprendendo il tema della conoscenza che ha percorso, direttamente o indirettamente, l'intero capitolo. Si è partiti con l'enunciazione, dal sapore sapienziale e sentenziale, del v.3, identificando la conoscenza del Padre e del Figlio-Gesù, in cui il Padre si riflette e vive (14,9-11), con al stessa vita eterna, che per Giovanni è la vita stessa di Dio. In 7.8 si attesta che questa conoscenza è avvenuta per mezzo della rivelazione, definita come “parole del Padre donate agli uomini per mezzo di Gesù”; una conoscenza che viene donata anche al mondo attraverso la testimonianza di unità e di amore della comunità credente, quale luogo in cui ogni uomo può raggiungere e sperimentare l'amore del Padre e di suo Figlio-Gesù (vv.21.23); ed infine i vv.25-26 in cui si attesta, con una certa amarezza, che il mondo, nonostante la manifestazione rivelativa di Gesù e la testimonianza della comunità credente, ha respinto tale conoscenza, che è dono di vita eterna. In questi versetti infine si crea una sorta di genesi di questa conoscenza che il mondo ha respinto e che pesa su di lui a condanna: Gesù, quale Logos Incarnato, ha conosciuto il Padre; questi è stato rivelato da Gesù ai suoi, che hanno conosciuto sia l'origine divina di Gesù, uscito dal Padre e da lui inviato; ed ora egli continuerà a rivelarlo ai futuri credenti tramite i suoi, in cui e per mezzo dei quali egli continua la sua opera di rivelazione e di testimonianza di amore del Padre per l'intera umanità, affinché tutti possano accedere alla vita eterna, evitando in tal modo una pesante sentenza di condanna senza appello (3,16-19).

Il v.25 si apre con l'invocazione al Padre definito “giusto”, che in questo contesto assume una valenza di retto giudizio di condanna nei confronti di un mondo che ha rifiutato di conoscerlo e di accoglierlo nella persona di suo Figlio. Un giudizio di condanna che in qualche modo già era stato preannunciato in 9a dove Gesù si era rifiutato di pregare il Padre per il mondo, lasciandolo ai suoi destini di inevitabile condanna (3,17-19). Un giudizio che pesa a condanna del mondo e che si esprime in duplice modo: sia nella sua enunciazione diretta “non ti ha conosciuto”, sia per contrapposizione non solo a Gesù che “invece” ha conosciuto il Padre, ma anche a quanti lo hanno conosciuto. Dunque era possibile conoscere il Padre nel suo inviato Gesù; se ciò non è avvenuto è perché vi è stata una colpevole chiusura, che si è tramutata in rifiuto. In questo gioco di conoscere e non conoscere vi è un'implicita denuncia circa l'indisponibilità del mondo nei confronti di Gesù, mentre altri, invece, si sono aperti al manifestarsi rivelativo di Gesù.

Il v.26 conclude il cap.17 mettendo da un lato un punto fermo alla missione storica di Gesù in quel verbo “™gnèrisa” (egnórisa, feci conoscere), posto all'aoristo, un tempo verbale che che parla di un tempo passato e ormai definitivamente concluso; dall'altro aprendo una nuova dimensione che si proietta verso il futuro estendendosi all'intera umanità nel verbo “gnwr…sw” (gnoríso, farò conoscere). Un futuro che non riguarderà più il Gesù storico, che ormai non è più in questo mondo (v.11a) e la cui presenza fisica e la cui missione presso i suoi sono percepite come ormai definitivamente trascorse (v.12). Un futuro che ora riguarda i suoi e la comunità credente, nata dal loro annuncio in cui risuona ancora la sua voce, realizzandosi così la preghiera di Gesù a favore non solo di “questi, ma anche per coloro che credono in me per la loro parola”. Una conoscenza che ha quale agente primario anche lo Spirito Santo, che prenderà dall'insegnamento di Gesù facendolo non solo ricordare, ma anche conducendo i credenti alla sua piena comprensione (14,26; 16,13-15). La finalità di questo “far conoscere”, che è vita eterna (v.3), è far si che “l'amore con cui mi hai amato sia in loro e io in loro”. L'amore come l'amare sono qui espressi con il sostantivo “¢g£ph” (agápe) e il verbo “¢gap£w” (agapáo), che in Giovanni sono usati per indicare la dinamica relazionale che intercorre tra Gesù e il Padre e ne esprime l'intima e profonda comunione di vita che vede i Due intercompenetrati l'uno nell'altro in una sorta di osmosi che ne fa, pur distinti nelle persone e nei rispettivi ruoli, senza ombra di confusione o mescolanza, una cosa sola (10,30). Questa è vita eterna, vita di comunione e di amore al massimo livello, dove l'amore dei Due si definisce per il loro reciproco atteggiamento di totale apertura l'uno verso l'altro; di totale donazione di se stessi l'uno per l'altro; di totale accoglienza in sé l'uno nell'altro, in un ciclo vitale che ha le stesse dimensioni dell'eternità. Questo è l'amore e l'amare a cui fa riferimento il Gesù giovanneo e che invoca dal Padre perché questo sia “in loro”, dove quel “in” esprime il luogo di dimora di questo amore, che è vita eterna. In tal modo i credenti raggiungeranno la perfezione della loro unità perché inserite nello stesso ciclo vitale dei Due, realizzando in tal modo il desiderio di Gesù (vv.23.24): “e io in loro”.


Giovanni Lonardi

NOTE

1“Amarcord” è il noto film di Federico Fellini prodotto nel 1973. Il titolo deriva dal dialetto romagnolo “a m'arcord”, “io mi ricordo”. La notorietà del film ha fatto si che il suo titolo divenisse un neologismo della lingua italiana il cui significato è quello di una rievocazione nostalgica degli eventi del proprio passato.

2Lo studio sul genere letterario del cap.17 è stato tratto da R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1999 – 5^ edizione – pagg. 717-720

3Vedi sopra e il commento al cap.13 pagg.3.4.22

4Cfr. Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16; 18,13

5Cfr. Gv 2,4; 7,30; 8,20

6Cfr. Gv 12,23; 13,1; 17,1

7Cfr. Gv 5,19.26.30a; 6,57a;

8Il termine greco “™xous…a” letteralmente significa facoltà, libertà, arbitrio, potere, potenza, autorità, forza, dignità, potestà.

9Sul tema delle formule di fede cfr. la mia opera “Credo” pagg.4-7, reperibile sul mio sito “Teologia per Tutti” al seguente indirizzo: http://digilander.libero.it/longi48/credo.html

10Cfr Es 22,19; 2Cr 15,3; 2Re 19,19; Sap 12,27; Is 37,30; Ger 10,10; Dn 3,45; Mal 2,10;

11Sul tema dello gnosticismo in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva di questa opera: pagg. 15-19

12Cfr. Gs 24,19; 1Sam 2,2; 2Re 19,22; Sal 77,41; Sir 47,8; 48,20; Is 1,4; 6,3;12,6; 29,3; 30,11.12.15; 27,23; 40,25; Ab 3,3; 2Mac 145,36

13Cfr. Lv 20,26; 21,8; Nm 6,5; 16,5; 16,7;

14Cfr. Dt 11,12; 32,10; Sal 39,18; Sap 5,15; 6,7; 12,13; Ez 16,1-14; 34,11-16; Os 11,3

15Il termine “diavolo” deriva dal verbo “diab£llw”, che significa, con riguardo alle persone, “mettere male tra due, disunire; avere animosità, avversione per qualcuno; accusare, calunniare, screditare, rendere odioso”

16Cfr. R.E. Brown, Giovanni, op. cit.- pag. 927- nota di commento al v.13

17Sul concetto di autosantificazione in senso sacrificale cfr. R.E. Brown, Giovanni, op. cit. - pagg.934-9356.

18Cfr. Gv 6,51; 10,11.15; 11,50.51.52; 13,37.38; 15,13; 18,14

19Cfr. anche 5,21.26 in cui Padre e Figlio possiedono parimenti la vita e parimenti la donano a chi vogliono.

20Circa i significati di gloria e glorificare in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 64-65

21Su quest'ultima parte cfr. il vocabolo “telšw” in L.Rocci, Vocabolario greco-italiano, Editrice Dante, Roma

22Cfr. 17,1.5.11.24.25. Il vocativo Padre del v.21 non introduce nessuna invocazione, ma è da considerarsi una semplice interiezione.

23Cfr. Gv 3,35; 5,27; 10,18; 13,3; 17,2;