IL
VANGELO SECONDO GIOVANNI
Commento
esegetico e teologico
a cura di
Giovanni Lonardi
SECONDA
PARTE DEL VANGELO DI GIOVANNI
IL LIBRO
DELLA GLORIA
CAP. 16,4b-33
Una
riflessione intraecclesiale
in un
contesto di persecuzioni
Note
generali
Si è visto come il cap.15, che si allunga fino a 16,4a, costituisce un'aggiunta al discorso originario (13,31-14,31), operata in un contesto di persecuzione, quella di Domiziano (95-96), la prima che, a differenza di quella locale ed occasionale di Nerone (64), interessò diverse regioni dell'impero romano. Il cap.16,4b-33, aggiunto in concomitanza al cap.15, risente di questo contesto di persecuzione e di sofferenza a cui erano sottoposte le comunità credenti del I sec. e costituisce una sorta di prolungamento del cap.15 sotto forma di riflessione intracomunitaria finalizzata a rafforzare la fede dei discepoli, offrendo loro una lettura dei tempi così tristi, che erano chiamati a vivere, a motivo della loro fede. Lo si arguisce già al v.4b dove si accenna a “queste cose” (Taàta, Taûta), cioè alle cose appena dette nella sezione 15,18-16,4a, che alludono alle persecuzioni sia da parte dei pagani (15,18-27) che del giudaismo (16,1-4a); al v.20 si parla di pianto, lamento, afflizione dei discepoli, le cui sofferenze sono paragonate a quelle della donna partoriente (vv.21-22); ma nel contempo lascia intendere come per le loro sofferenze, a motivo della testimonianza della fede, i discepoli sono associati a quelle del loro Maestro; una sofferenza ed una morte che qui vengono viste nella prospettiva di risurrezione, così come i dolori di una partoriente preannunciano la nascita di una nuova vita. Una sofferenza dunque che non si consuma in se stessa, ma è finalizzata ad aprire il credente, che soffre per la sua fede, ad una nuova vita. Il v.31, poi, parla dell'ora, qui riferita non solo a Gesù, ma anche a quella dei discepoli; anzi proprio perché c'è stata l'ora di Gesù c'è anche quella dei discepoli, al quale essi sono stati assimilati (15,18-20). Ed infine il v.33, che nel sollecitare i discepoli a rimanere in Gesù, la loro vera pace e forza, prospetta loro una vita di sofferenza per la loro incompatibilità con il mondo, poiché essi, pur scelti dal mondo, non vi appartengono (15,19) e il mondo, che non li riconosce come suoi, tende ad emarginarli e a sopprimerli. Tuttavia essi non devono abbattersi perché il loro Maestro ha vinto il mondo ed essi sono associati a questa vittoria. Il clima, dunque, del cap.16 è lo stesso di quello del cap.15.
Il cap.16 si presenta come una ripresa quasi pedissequa del cap.14, le cui tematiche qui sono approfondite e adattate ad una nuova situazione venutasi a creare verso la fine del I sec. (95-96 d.C.). Una ripresa che viene in qualche modo sottolineata dai vv.14,31b, con cui si chiude il cap.14, e il 16,5 con cui si apre il cap.16. Il primo, infatti, si conclude con l'esortazione “Alzatevi, andiamo (via) da qui”; il secondo si apre con il “Dove vai”, che richiama il tema del ritorno di Gesù al Padre. Ma al di là di questo collegamento tematico, che fa da ponte tra i due capitoli, vi è indubbiamente tra questi una stretta parentela e vi circola sostanzialmente lo stesso DNA. Il Brown, in merito, nella sua opera “Giovanni”, apre un serrato confronto, versetto per versetto, tra i due capitoli, dimostrando come il cap.16 sia sostanzialmente una sorta di fotocopia del cap.141. Tuttavia, il Léon-Dufour, con il quale ci troviamo d'accordo, attenua questo eccessivo accademismo del Brown, asserendo come il cap.16,4b-33 non sia “una semplice ripresa del discorso fondamentale, ma una sua <<rilettura>> in funzione di una situazione nuova”2.
L'intero cap.16 è incluso tematicamente dai vv.5.28 in cui da un lato (v.5) si pone l'accento sul “dove” Gesù sta andando; dall'altro (v.28), viene rilevato il movimento pendolare entro cui non solo si colloca, si completa e trova il suo senso il “Dove vai”, ma si racchiude anche l'intera missione di Gesù, che uscito dal Padre ed entrato nel mondo, lascia ora il mondo per ritornare al Padre (v.28). Tutto ciò che ci sta di mezzo ai due versetti riguarda il tempo della chiesa, quello postpasquale, che vede un Gesù già glorificato, assiso alla destra di Dio3. Un tempo al cui interno viene accentrata ora l'attenzione su tre temi già presenti al cap.14 e qui ripresi ed approfonditi a favore di una comunità vessata e turbata dalle persecuzioni.
Viene mutuato da 14,16-17.26 il tema dello Spirito in 16,5-15, qui colto sia come elemento di giudizio sul mondo (vv.7-11), sia quale sostegno dei credenti, da lui guidati alla pienezza della verità (vv.12-15); in 16,16-22 viene ripreso il tema dell' “ancora un poco”, già presente in 14,19 e non solo4, riferito ora alla morte e risurrezione di Gesù in relazione ai discepoli rimasti soli dopo la dipartita del loro Maestro, ma a lui associati nel mistero della sua morte e risurrezione; una sofferenza quindi che prelude alla vita nuova. Ed infine in 16,23-27 vi è la ripresa di 14,13-14 del tema del chiedere, che consente ai credenti di accedere alla ricchezza di Dio. Tutte tre le tematiche sono legate tra loro e in funzione di una comunità che sta soffrendo per la sua testimonianza.
Appare qui, insistente, per ben cinque volte5, il termine “ora” (éra, óra)6, che assume nel cap.16 un significato non identico, ma parallelo all'ora di Gesù e a questa in qualche modo agganciato. L'ora di Gesù è il tempo del suo passaggio dal mondo al Padre attraverso la morte-risurrezione; essa è il luogo non solo della reciproca glorificazione Padre-Figlio (17,1), ma anche il momento in cui si attua il progetto salvifico del Padre. Vi è nel corso del vangelo giovanneo un progressivo intensificarsi di questa ora incombente su Gesù: dapprima si attesta che l'ora non è ancora giunta (2,4; 7,30; 8,20); poi, in 12,23.27, in un contesto di chiusura dell'attività pubblica di Gesù, si annuncia che l'ora è ormai giunta, lasciando trasparire in 12,27 il tormento interiore di Gesù; mentre in 13,1 e 17,1 si attesta che l'ora è, infine, giunta. Con il v.13,1 infatti si apre la cena dell'addio, che coinvolge non soltanto Gesù, ma anche i suoi discepoli, che in tal modo vengono associati alla sua sorte; mentre con 17,1, che apre la preghiera sacerdotale, si parla dell'ora, che si sta compiendo, come il luogo della glorificazione del Figlio ad opera del Padre e del Padre ad opera del Figlio. Attore principale di quest'ora è dunque Gesù nel suo rapporto con il Padre. Il cap.16 parla sempre dell'ora, ma cambiano i soggetti e le relazioni, assumendo tuttavia significati che l'agganciano saldamente all'ora di Gesù. Se nell'ora di Gesù, come si è detto poc'anzi, soggetto principale era Gesù nel suo rapporto con il Padre, qui i soggetti principali sono i discepoli nei loro rapporti con il mondo, che, similmente a Gesù, li sta perseguitando e uccidendo, associandoli in tal modo ai destini del loro Maestro (15,20). Così l'ora del Maestro si riproduce in quella dei discepoli, che in tal modo sono chiamati a vivere quella del loro Maestro, al quale sono stati non solo associati, ma attraverso questa testimonianza di sofferenza e di sangue, anche assimilati. In tal modo Gesù nell'ora dei discepoli rivive la propria ora, mentre i discepoli nella loro ora sono vissuti, per assimilazione, da quella di Gesù (12,32). Vi è in tal modo una intercompenetrazione tra le due diverse tipologie di ora. Evento questo, del resto, già preannunciato in 15,20: “Ricordatevi la parola che io vi dissi: “non c'è servo più grande del suo signore”. Se perseguitarono me, perseguiteranno anche voi; se osservarono la mia parola, osserveranno anche la vostra”.
Il cap.16 presenta un Gesù ormai decisamente rivolto verso il Padre: per ben cinque volte l'autore sottolinea l'andare di Gesù al Padre7. Tutti i verbi dell'andare sono posti al presente indicativo, sottolineando in tal modo l'imminenza di questo ritorno, che si sta già compiendo. Esso creerà storicamente un vuoto, che sarà riempito tuttavia da un nuovo Intercessore (v.7), che non sostituirà Gesù, ma continuerà la sua opera, portandola a compimento nei discepoli: “ma allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità intera; infatti, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono” (v.13). Significativo in questo contesto è il v.4b in cui Gesù parla della sua presenza storica in mezzo ai discepoli come un fatto che ormai si è già compiuto ed è già in qualche modo superato, una sorta di ricordo del passato: “Non vi ho detto queste cose fin da principio, poiché ero con voi”; ma ora si sta generando una nuova situazione che produce sofferenza e angustia che si tramuteranno in gioia. Sofferenza e gioia è un altro binomio che caratterizza non solo il cap.16, ma la vita di ogni credente. Sofferenza non solo per il vuoto storico lasciato da Gesù, ma anche per le persecuzioni a cui sono soggetti i suoi discepoli da parte del mondo. Ma questa sofferenza non è mai disgiunta dalla gioia, che sgorga dalla coscienza di essere stati associati a Gesù non solo nella sua morte, ma anche nella gioia della sua risurrezione, che la sofferenza e la morte preludono. Da dopo Gesù, infatti, la morte non è mai disgiunta dalla risurrezione, ma costituiscono entrambe la doppia faccia della vita del discepolo, che per sua natura possiede una vita pasquale; una vita in cui morte e vita si coniugano in ogni suo atto; un continuo passaggio da morte a vita.
La struttura del cap.16,4b-33 si articola in cinque parti:
vv.4b-7: pericope introduttiva, che richiamando alcuni spunti offerti da 13,36 e 14,28b, riprende il tema della dipartita di Gesù al Padre, fornendo la chiave di lettura dell'intero capitolo;
vv.8-15: ripresa da 14,16-18.26 e 7,39 del tema dello Spirito Santo qui colto non solo come guida dei credenti alla pienezza della verità, introducendoli nelle profondità dell'evento Gesù (vv.12-15), ma anche nella sua nuova e inedita veste di giudice nei confronti del mondo (vv.8-11);
vv.16-22: ripresa del tema di “ancora un poco”, che alludendo alla dipartita di Gesù e alla sua risurrezione, associa i discepoli ai destini del loro Maestro;
vv.23-27a: questa pericope porta a completamento il tema del chiedere da parte dei discepoli, già introdotto da 14,13-14 e 15,7.16. Un chiedere, come vedremo, che non va inteso come domanda di soddisfacimento di proprie necessità, ma come accesso alla ricchezza di Dio da parte del credente, reso ad essa partecipe per il suo essere associato alla morte e risurrezione di Gesù.
vv.27b-33: pericope conclusiva che da un lato evidenzia il mistero che lega Gesù al Padre e il senso della sua missione (vv.27b-30); dall'altro riconduce i discepoli alla fragilità della loro fede di fronte all'imperversare delle persecuzioni. Il v.33 conclude il cap.16 richiamandosi da vicino a 14,1.27.
Commento a vv. 4b-7
Testo
4b- Non vi ho detto queste cose fin da principio, poiché
ero con voi.
5- Ma ora vado da colui che mi ha mandato, e nessuno di
voi mi chiede: <<Dove vai?>>.
6- Ma poiché vi ho detto queste cose, la tristezza ha
riempito il vostro cuore.
7- Ma io vi dico la verità, vi giova che io me ne vada.
Infatti, se non me ne vado, l'Intercessore non verrà a voi; ma se
parto, ve lo manderò.
I vv.4b-7 fungono da introduzione alla pericope vv.8-15 riguardante lo Spirito Santo, il cui dono è dato ai credenti soltanto dopo la dipartita di Gesù (v.7). Si giunge a questa conclusione attraverso un progressivo annuncio. Già in 7,39, per la prima volta, si era lasciato intendere come lo Spirito non fosse ancora presente nei discepoli perché Gesù non era ancora stato glorificato. In 14,16-19.25-26.28 si intuisce come tale dono sia in qualche modo legato alla dipartita di Gesù, anche se in termini non ancora espliciti e diretti, che ricorrono invece al v.7, che annuncia come il ritorno di Gesù al Padre sia la condizione necessaria per l'invio dello Spirito. L'accento in questa pericope (vv.4b-7) va a cadere su tale ritorno richiamato in modo imperativo da quel “Dove vai?” e dai tempi verbali del v.4b, posti al passato, in cui si parla di una presenza storica di Gesù come già superata: “poiché ero con voi”; mentre i tempi verbali del ritorno al Padre sono posti tutti al presente indicativo, per indicare un evento in atto. Il richiamo alla tristezza che avvolge i cuori dei discepoli (v.6b) costituisce il contesto emotivo e spirituale di questa dipartita, che si sta compiendo. Una tristezza che già in qualche modo era stata preannunciata in 14,28, sotto forma di esortazione a rallegrarsi del ritorno al Padre di Gesù: “Avete sentito che io vi dissi: “Vado e vengo da voi”. Se mi amaste vi rallegrereste perché vado al Padre, poiché il Padre è più grande di me”.
Il v.4b apre il cap.16 alludendo a “queste cose”: “Non vi ho detto queste cose fin da principio”. Le cose a cui il Gesù giovanneo qui si riferisce sono quelle della sezione 15,18-16,4a, riguardanti la persecuzione da parte del mondo (15,18-25) e del giudaismo (16,1-4a) contro i discepoli. Sono cose che Gesù dice solo ora, il tempo della sua dipartita, perché anche l'accadere di tali cose, quasi obbedendo ad un piano prestabilito, hanno un loro tempo (v.4a), che coincide con il tempo dell'ora di Gesù, a cui anche l'ora dei discepoli è associata e i discepoli assimilati ai destini del loro Maestro (15,20). Ecco, dunque, perché tali cose non sono state dette “fin da principio”, cioè fin dall'inizio della loro sequela e della loro avventura con Gesù, poiché “non era ancora giunta l'ora” (2,4; 7,30b; 8,20b). Il v.4b si conclude con l'espressione “poiché ero con voi”. Significativo questo verbo posto all'imperfetto indicativo perché da un lato dice che egli continuava ad essere con loro durante il suo soggiorno qui nella storia, mentre ora non lo è più. Ora che il Gesù della storia ha concluso la sua missione ed è ritornato al Padre i discepoli si trovano a dover digiunare della sua presenza e sono posti in una condizione di tristezza (v.6); mentre allorché Gesù era con loro gioivano della sua presenza, come gli invitati a nozze gioiscono per la presenza dello sposo. Vi è una forte somiglianza del v.4b con Mt 9,15 e Mc 2,19-20, tutti richiamantisi alla situazione postpasquale delle primissime comunità credenti: “ disse loro Gesù: <<Possono gli invitati a nozze piangere, mentre è con loro lo sposo? Ma verranno giorno, quando lo sposo sarà tolto da loro, e allora digiuneranno>>”.
La netta contrapposizione dei due tempi, del prima e del dopo, che distinguono e separano i due momenti della presenza di Gesù nel mondo e la sua uscita verso il Padre, da cui proviene ed ora ritorna (v.28), è sottolineata da quel “Ma ora” (nàn dš, nîn dé) che dà l'intonazione all'intero v.5. Al “ero con voi”, con cui si chiudeva il v.4b, contrasta ora l'annuncio del ritorno al Padre con cui si apre il v.5: “Ma ora vado da colui che mi ha mandato”. Il Padre è qui definito, non a caso, con una perifrasi, che nel racconto giovanneo ricorre una ventina di volte: “colui che mi ha mandato”; un'espressione questa che qui, più che un concetto teologico di rapporto tra Gesù e il Padre, tende a sottolineare nei due verbi, ritornare da colui che mi ha mandato, il movimento pendolare conclusivo che dice come la missione terrena di Gesù sia completamente finita. Egli, infatti, era uscito dal Padre ed entrato nel mondo, e questo era il tempo della presenza del Gesù storico in mezzo ai suoi; ora, invece, lascia il mondo e ritorna al Padre (v.28), che inaugura e caratterizza il tempo postpasquale, in cui la presenza del Risorto è garantita dallo Spirito e percepita ormai soltanto attraverso la fede nella sua Parola e nello spezzare il pane (Lc 24,15-32; At 2,42). E che l'intenzione dell'autore sia proprio quella di indirizzare l'attenzione del suo lettore sul ritorno di Gesù al Padre più che sui suoi rapporti con lui, lo dice la seconda parte del v.5: “e nessuno di voi mi chiede: <<Dove vai?>>”. Un'espressione questa che gli esegeti ritengono incongruente con 13,36a, dove Pietro chiede a Gesù dove stesse andando, non ottenendo nessuna risposta. Tuttavia è da chiedersi se si tratta effettivamente di un'incongruenza, ascrivibile alla disattenzione del redattore finale, o se invece con quel rimprovero “nessuno di voi mi chiede: <<Dove vai?>>” abbia voluto riproporre il tema del ritorno di Gesù al Padre, che non solo è dominante in questo cap.16, ma ne funge anche da chiave di lettura. Il “dove” Gesù stia ora andando pone sul tavolo alcune questioni fondamentali che interpellano l'intero discepolato e la nascente chiesa: cosa significa ritornare al Padre, quali sono le conseguenze di questo ritorno, quale nuovo ruolo ora i discepoli sono chiamati ad assumere all'interno delle proprie comunità e nei rapporti con il mondo; come rispondere all'apparente vittoria del mondo su Gesù e sui suoi discepoli, schiacciati dalle persecuzioni? In quale modo ora ci si relazione con il Risorto, dove lo si può nuovamente riconoscere e incontrare? Come sapere se Gesù ha veramente vinto il mondo, considerato che il mondo sembra prevalere e prevaricare le promesse del Maestro? È necessario pertanto che la comunità credente, afflitta dalle persecuzioni e dall'assenza storica di Gesù, si interroghi sul “dove” egli sia finito, per potersi dare una risposta che riorienti e rifondi la propria fede in un Gesù che ora ha acquisito una nuova identità. Si tratta in definitiva di rifondare i propri rapporti con il Risorto, ricomprendendolo nella sua nuova dimensione. Da qui il sollecito a darsi una risposta: “e nessuno di voi mi chiede: <<Dove vai?>>”, poiché è proprio sul “Dove” che ora si gioca l'intera partita del discepolo: comprendere il “Dove” Gesù è andato significa coglierne l'intero Mistero, perché ora Gesù si trova, si muove e vive in questo “Dove”, che dice il suo nuovo stato di vita, che chiede al credente un nuovo modo di relazionarsi a lui. Il v.28 riprenderà il tema del “Dove” e ne darà completezza e pienezza, delineando e indicando nella pendolarità del movimento salvifico di Gesù l'essenza del disegno salvifico del Padre, che proprio in questo movimento pendolare si compie e si attua.
Il v.6, nel riprendere il v.14,28b, si dilungherà e si completerà nei vv.20.22 in un gioco di accostamenti di tristezza, pianto, sofferenza che si tramuterà in gioia, lasciando trasparire il tema della morte e risurrezione; una sofferenza, che per il discepolo del tempo postpasquale, a cui il cap.16 si rivolge, significa patire le persecuzioni per la testimonianza data al nome di Gesù, che ha tuttavia come contropartita la gioia di sapere che Gesù ha vinto il mondo (v.33b). In tal modo il nuovo credente viene associato ai destini del proprio Maestro.
Il v.7 potremmo considerarlo di transizione poiché traghetta il lettore dal tema del ritorno di Gesù al Padre (v.7a), quale premessa e condizione necessaria per ricevere lo Spirito (v.7b). Il versetto strutturalmente è diviso in tre parti: 7a riprende il tema dell'andarsene di Gesù; 7b vede questo andarsene in funzione del dono dello Spirito; come dire che il Gesù storico sgombera il campo per lasciare spazio ad un altro Intercessore, che accompagnerà lungo i secoli l'intero movimento dei credenti di ogni latitudine (v.14,16), cosa che sarebbe stata impossibile per il Gesù della storia. Ed infine il v.7c che costituisce la sintesi delle prime due parti. La sua stringatezza e la sua essenzialità rasenta l'efficacia di un detto sapienziale: “ma se parto, ve lo manderò”. Risalta qui evidente il contrasto dei due tempi verbali: l'andarsene di Gesù, posto al presente indicativo che dice l'attuarsi di tale evento, che sta per compiersi attraverso la morte-risurrezione, a cui i discepoli sono associati e assimilati; e l'invio dello Spirito posto al futuro, quasi a dire come quest'ultimo evento sia susseguente soltanto al primo e come da questo esso dipenda.
Commento ai vv.8-15: le due azioni dello Spirito
Testo a lettura facilitata
Il giudizio dello Spirito
8- E quello, quando sarà venuto, convincerà il mondo
quanto al peccato e alla giustizia e al giudizio;
9- quanto al peccato, poiché non credono in me;
10- quanto invece alla giustizia, poiché vado al Padre
e non mi vedrete più;
11- quanto poi al giudizio, poiché il principe di
questo mondo è stato giudicato.
La Guida magistrale
12- Ho da dirvi ancora molte cose, ma ora non potete
sopportar(le);
13- ma allorché sia venuto quello, lo Spirito della
verità, vi guiderà alla verità intera; infatti, non parlerà da se
stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che
vengono.
14- Quello mi glorificherà, poiché prenderà dal mio e
ve (lo) annuncerà.
15- Tutto quanto il Padre ha, è mio; per questo ho
detto che prende dal mio e ve (lo) annuncerà.
Il tema dello Spirito, quale dono ai credenti, fa la sua prima comparsa in tale veste con 7,39 dove l'autore considera come i discepoli ancora non avevano lo Spirito perché Gesù non era stato ancora glorificato, preannunciando in tal modo come tale dono sarebbe stato effuso su di loro soltanto in seguito alla dipartita di Gesù. Dopo tale versetto il tema dello Spirito verrà ripreso soltanto a partire da 14,16; in 14,17.26; 15,26 e in 16,7-8.13-15, dove lo Spirito diviene l'oggetto sia di una promessa insistente sia di una approfondita analisi della sua missione nei confronti dei credenti che dei suoi rapporti con il Padre e Gesù, fino a giungere al v.20,22 dove la promessa diviene, infine, dono. La pericope in analisi (vv.8-15) affronta questo ultimo scorcio sullo Spirito, che viene presentato sia come giudice nei confronti del mondo (vv.8-11) sia come fonte d'insegnamento, ma soprattutto di guida nei confronti dei discepoli (vv.12-15).
Il giudizio dello Spirito
La pericope 8-11 presenta un tratto del tutto inedito, unico ed esclusivo, dello Spirito, colto qui come giudice accusatore nei confronti dell'incredulità del mondo. Una posizione simile, ma in un contesto diverso e a parti invertite, dove lo Spirito è la parte lesa, ma non giudicante, riguarda Mt 12,31-32 e il parallelo Mc 3,29, dove il Gesù sinottico, con un linguaggio giudiziale, minaccia l'incredulità, definita peccato e bestemmia contro lo Spirito, poiché essa preclude ogni possibilità di salvezza. Il compito del giudicare, infatti, è stato delegato dal Padre al Figlio, il quale, tuttavia non è venuto nel mondo per giudicare, cioè per condannare, ma per salvare (3,17; 5,22.27). Qui, invece, il soggetto del potere giudiziale è lo Spirito Santo, che “convincerà il mondo quanto al peccato e alla giustizia e al giudizio”. La pericope è introdotta dal verbo “™lšgxei” (elénxei), che appartiene al linguaggio processuale. Esso assume una pluralità di significati, che fanno emergere il senso dell'azione dello Spirito: far vergognare, disprezzare, respingere, biasimare, convincere di un delitto, di un torto o di un errore, indagare, mettere alla prova, sporgere accusa. Tutte azioni queste attribuibili, in un contesto giudiziale, alla pubblica accusa o, in fase preliminare, all'istruzione di un processo. Il verbo è qui posto al futuro non solo perché lo Spirito verrà dopo la dipartita di Gesù, e quindi il futuro rispetta una successione di tempi e di eventi, ma anche perché questo Spirito con la sua presenza inaugura i tempi escatologici, gli ultimi tempi, al cui interno è posto il giudizio finale del mondo, la resa dei conti tra Dio e gli uomini, chiamati, fin d'ora, a prendere esistenzialmente posizione nei confronti del Padre rivelatosi nel suo Figlio. Qualsiasi sia la loro risposta costituirà per loro un giudizio che li porrà, loro malgrado, per o contro Dio. La loro risposta, pertanto, qualsiasi essa sia, è gravida di conseguenze. Il tempo della discriminazione e del giudizio è quindi già incominciato con l'evento Gesù e la venuta dello Spirito lo renderà evidente attraverso la testimonianza dei credenti, che da Lui permeati, metteranno in evidenza con il loro vivere e la loro testimonianza le contraddizioni di un mondo che ha respinto la Luce. “Infatti, chiunque compie cose malvagie odia la luce e non va verso la luce, affinché le sue opere non siano biasimate; colui che, invece, fa la verità va verso la luce, affinché le sue opere siano manifestate, poiché sono state compiute in Dio” (3,20-21). È dunque proprio in questo gioco di contrasto tra luce e tenebre che viene posto in evidenza il comportamento colpevole del mondo.
Il giudizio che lo Spirito inaugurerà con la sua venuta riguarda tre ambiti strettamente legati tra loro: il peccato, la giustizia e il giudizio; tre sono i soggetti coinvolti in questo processo: il mondo, i discepoli e il principe del mondo. Il “convincere” dello Spirito allude non ad un semplice ragionamento, bensì ad un dibattito processuale dove la pubblica accusa dimostrerà la colpevolezza dei convenuti.
Il primo capo d'accusa: “quanto al peccato, poiché non credono in me”. Per Giovanni il peccato che Gesù è venuto a togliere è l'incredulità (1,29; 8,24; 15,22.24); il persistere nell'incredulità infatti preclude ogni possibilità di accesso alla salvezza (9,41). Non a caso il sollecitare alla fede è il fine primario del vangelo giovanneo stesso: “ma questi (segni) sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (20,31b). L'accusatore di un tempo (8,46), il giudaismo nei confronti di Gesù, diviene ora l'accusato. Le parti si sono invertite perché i tempi sono mutati: il tempo dell'attesa, il tempo dell'uomo, durante il quale egli può agire liberamente sia nel bene che nel male, è finito; ora con la venuta dello Spirito è iniziato il tempo escatologico, il tempo di Dio, quello del dibattimento processuale, durante il quale l'uomo, suo malgrado, è chiamato a prendere posizione nei suoi confronti; nei confronti del suo manifestarsi e rivelarsi nel Figlio, che con la sua parola ora lo interpella, costringendolo a confrontarsi con questa nuova e inattesa realtà: il Dio che lo ha raggiunto nel suo habitat naturale, la storia, e qui apre un dialogo serrato con lui, costringendolo a rivedere le proprie posizioni e prospettandogli i destini di eternità che egli liberamente si sceglie fin d'ora. Si tratta certamente di una realtà di natura spirituale, ma non per questo meno reale e meno vera; una realtà che costituisce il destino stesso dell'uomo, verso cui egli è incamminato fin dal suo nascere.
Il secondo capo d'accusa: “quanto invece alla giustizia, poiché vado al Padre e non mi vedrete più”. Per poter comprendere il termine “giustizia” è necessario riferirsi sia al contesto processuale, che caratterizza i vv.8-11, sia al v.9 dove si indica l'incredulità quale peccato per eccellenza. L'incredulità, denunciata al v.9, poneva sia il giudaismo che il mondo in uno stato di netta chiusura nei confronti di Gesù, così che dal rifiuto iniziale si passò ben presto ad una manifesta ostilità fino a giungere alla soppressione fisica di Gesù. L'opposizione a Gesù verteva principalmente sulle sue pretese di divinità, di sua figliolanza divina, intesa non in senso metaforico, bensì reale e di essere il diretto inviato di Dio8. Affermazioni per le quali Gesù era considerato un posseduto e uno fuori di testa9. Questo discredito, frutto primario dell'incredulità, verrà rintuzzato dal suo ritorno al Padre, con allusione, qui, alla sua risurrezione, grazie alla quale apparirà manifesto come le sue pretese fossero giustificate e l'intera sua missione terrena, in parole ed opere, verrà ricostituita nella pienezza della verità. A Gesù, dunque, così denigrato e disconosciuto, sarà in tal modo resa giustizia. Tutto ciò si mostrerà evidente dalla testimonianza dei suoi discepoli, che in questo processo diventeranno gli indiscussi testimoni dei fatti e degli avvenimenti10.
Sempre quanto alla giustizia, la ripercussione del ritorno di Gesù al Padre ha come effetto secondario quello di sottrarre definitivamente Gesù alla vista dei suoi. Questa affermazione apparentemente evidente, quasi da essere banale, acquista in realtà, posta in questo contesto giudiziale, un significato del tutto particolare se si analizza attentamente la sua costruzione e il verbo che qui l'autore usa nell'espressione “e non mi vedrete più”. Questa espressione si apre con la congiunzione “kaˆ” (kaì, e) che la lega strettamente, rendendola conseguente, all'affermazione del ritorno al Padre. L'avverbio qui preposto al verbo “oÙkšti” (ukéti, non più, non più oltre) è un rafforzativo del semplice e più comune “oØ o oÙk” (u, uk), accentuando in tal modo la negazione, che va a cadere sul verbo, rendendo tale azione, quella del non vedere più, definitiva. Il verbo qui usato è “qewršw” (tzeoréo), che significa non solo guardare, osservare, contemplare, ma anche investigare, esaminare, giudicare, valutare. Il verbo quindi dice un guardare attentamente, un osservare finalizzato ad esaminare per poter poi soppesare, valutare ed infine giudicare ciò che si è osservato. Il verbo quindi descrive l'atteggiamento di chi si accosta all'oggetto delle proprie attenzioni con fare sospetto e certamente non ancora pienamente convinto. Ed è proprio questo l'atteggiamento dei discepoli prima e dopo la risurrezione di Gesù. Da un lato, è lo stesso Giovanni che ci informa come molti dei discepoli di Gesù, durante la sua missione terrena, lo abbandonarono perché non credevano più in lui (6,60-66), mentre i sinottici ci attestano che i discepoli difronte all'apparire del Risorto dubitavano di lui (Mt 28,17; Lc 24,25.36-38; Gv 20,25). Anche per questa categoria di discepoli, i dubbiosi, i critici, gli incerti la risurrezione di Gesù, quale suo ritorno al Padre, gli renderà giustizia, rivelandolo a loro come il Signore (20,28).
Ed infine, il terzo capo d'accusa: “quanto poi al giudizio, poiché il principe di questo mondo è stato giudicato”. Non è un caso se questo capo d'accusa viene posto per ultimo. I primi due elementi di giudizio, infatti, sono sottesi e riconducibili a questo terzo. È infatti il principe di questo mondo che muove le fila dell'offensiva contro Gesù (8,44; 13,22); è lui che sta alla base di ogni forma di incredulità, ponendo in discussione ogni certezza e insinuando i dubbi tra i credenti.
Per tre volte, in 12,31; 14,30 e 16,11 compare l'espressione “principe di questo mondo” collocata sempre in un contesto che richiama la sua sconfitta e i limiti del suo potere: in 12,31, il giudizio sul mondo è associato all'estromissione del suo principe; in 14,30 si dichiara come questo principe non ha nessun potere su Gesù; questi, infatti, ha ricevuto il potere dal Padre di offrire e di riprendersi liberamente la sua vita e nessuno gliela toglie senza il suo consenso (10,18); ed infine, 16,11 attesta che su questo principe è stato posto il giudizio di Dio, che in Giovanni è sinonimo di condanna, cioè di un giudizio già compiuto e attuato. Non a caso qui il verbo è posto al perfetto (kškritai, kékritai), un tempo verbale che per sua natura dice un'azione presente che ha la sua origine nel passato. La prospettiva di questo verbo spinge pertanto il lettore a leggere nel suo oggi la condanna di questo principe, che di fatto ne decreta la sconfitta, come il frutto maturato nella morte-risurrezione di Gesù e la cui eco si sentirà al v.33: “Vi ho detto queste cose affinché in me abbiate pace. Nel mondo avete afflizione, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo”. Giovanni qui sta parlando alla sua comunità vessata dalle persecuzioni provenienti sia dal mondo pagano che da quello giudaico e la sta incoraggiando a sostenere la lotta per il nome di Gesù, che non solo ha vinto il mondo, ma nella sua morte e risurrezione, alle quali il credente è associato fin d'ora, trova origine la definitiva condanna del suo principe, che non ha nessun potere su di loro, come non lo ha avuto sul loro Maestro.
La Guida magistrale
Questa seconda pericope (vv.12-15) è una ripresa ed uno sviluppo di 14,26, il quale ricorda come “l'Intercessore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi”. Qui lo Spirito è definito con l'appellativo di “Santo” sia per indicare la sua natura che la sua provenienza divine. La santità infatti attiene soltanto a Dio11. Nella sua seconda parte 14,26 precisa la funzione dello Spirito: “quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi”. La funzione dunque di questo Spirito è magistrale (vi insegnerà), ma viene precisato come questo suo insegnamento non si pone in parallelo o in aggiunta a quello di Gesù, ma si limita a ricordare tutte le cose da lui dette. Dunque la funzione primaria dello Spirito è quello di attingere da Gesù, il Logos Incarnato del Padre, e riproporlo ai discepoli. 14,26 mette le basi fondamentali per la pericope in esame, così che essa approfondirà ulteriormente il senso di quel “insegnare” e “ricordare”, facendo emergere la vera natura di questo Spirito, che qui non è più definito “Santo”, ma “di Verità”, evidenziando fin da subito la sua vera funzione di guida verso la pienezza della Verità, non della sua Verità, ma quella da cui egli ha attinto.
All'interno della pericope 8-15, riguardante la duplice funzione dello Spirito, il v.12 funge da stacco e da transizione, traghettando il lettore da 8-11 (lo Spirito quale giudice) a 13-15 (lo Spirito quale maestro e guida). Nella sua formulazione il v.12a lascia alquanto interdetti perché sembra insinuare che Gesù, quale pienezza della rivelazione (3,35; 14,6; 15,15), le cose che ci doveva dire non le ha dette proprio tutte, per cui l'avvento dello Spirito avrebbe la funzione di colmare questa carenza rivelativa. Un versetto questo che, peraltro, si pone in netto contrasto con 15,15, in cui Gesù attestava: “Non vi chiamo più servi, poiché il servo non sa che cosa fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, poiché tutte le cose che ho udito dal Padre mio ve (le) ho rese note”. Come dunque conciliare le due cose? In realtà il contrasto è solo apparente, poiché le molte cose ancora “da dire”, fanno rima con molte cosa da “approfondire”. 12a pertanto ha a che fare non con l'incompletezza rivelativa, bensì con la penetrazione di quelle già dette e per il momento irraggiungibili con la sola mente umana, poiché le cose dette da Gesù hanno a che vedere con il Mistero di Dio, impenetrabile dall'uomo con le sue sole forze. Il motivo di questa apparente reticenza, infatti, risiede nell'incapacità dei discepoli di comprenderle (v.12b). Un'allusione dunque alla loro inintelligenza di fronte al disvelarsi del Mistero. 12b pertanto lascia intendere che la vera carenza rivelativa non sta in Gesù, ma nei limiti dei discepoli. Per questo ora serve non un altro rivelatore, ma uno che, riprendendo l'originario insegnamento, lo approfondisca con loro, introducendoli in quel Mistero rimasto fino a questo momento incomprensibile o quanto meno non pienamente raggiungibile. Lo Spirito, dunque, in questo contesto funge da trait-d'union tra il credente e il Risorto, conducendolo dalla sua connaturata inintelligenza del Divino alla pienezza del suo Mistero. I vv.13-14 infatti si premureranno di precisare che lo Spirito “non parlerà da se stesso”, cioè non fungerà da fonte autonoma, “ma prenderà dal mio e ve (lo) annuncerà”. 12a pertanto va inteso nel senso non del “dire”, ma dell' “approfondire”, rendendo intelligibile ai credenti il Mistero nella sua pienezza (“vi guiderà alla verità intera”).
Al v.12b, che dichiarava l'inintelligenza dei discepoli circa le cose più profonde, quelle dell'accesso al Mistero, si contrappone ora il v.13, che si apre con un “dš” (dé, ma) avversativo, che illustrerà in quale modo verrà posto rimedio a tale inintelligenza: “ma allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità intera; infatti, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono”. Il v.13 è scandito in due parti: la prima annuncia la natura di guida dello Spirito; la seconda ne illustra la dinamica con riguardo ai suoi contenuti, mentre il v.14 dettaglierà l'origine di tali contenuti, da cui lo Spirito attingerà. Il v.15, riprendendo il v.14, funge da vertice di convergenza dell'intera azione salvifica operata in Gesù, che qui compare nella sua veste di plenipotenziario, avendo ricevuto, da un lato, tutto dal Padre e quindi tutto gli appartiene; dall'altro lo Spirito attinge da questa pienezza di Dio per donarla ai credenti. Gesù dunque pienezza di Dio che si dona ai credenti per mezzo dello Spirito.
Il v.13 si apre con uno specifico richiamo allo Spirito di verità, indicandolo con il pronome “quello” (™ke‹noj, ekeînos), così che l'espressione che segue, “Spirito di verità”, diviene specificativa di quel pronome anonimo: “ma allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità”. Già in 14,17 e 15,26, infatti, era comparsa la qualificazione dello Spirito quale Spirito della Verità. Con il pronome “quello” l'autore intende ora richiamare quella qualificazione, che in qualche modo anticipava la natura e la missione di questo Spirito, la cui funzione primaria ora è qui illustrata: quella di essere guida nella verità tutta. Il tema di Dio, guida del suo popolo, non è nuovo. Già in Es 13,18.21 e 15,13 Dio è indicato in tale veste: Egli è colui che si pone a capo del suo popolo e lo conduce attraverso il deserto indicandogli la via da percorre. Similmente in Gv 10,4.16 compare la figura di un nuovo pastore, preannunciato in qualche modo in Ez 34,11-25, che si pone a capo delle sue pecore e le conduce fuori: “Quando ha fatto uscire tutte le sue (pecore), cammina davanti a loro e le pecore lo seguono, poiché conoscono la sua voce” (10,4); ed infine, qui, in 16,13 si giunge ad un altro Pastore, la cui missione è guidare tutti i credenti nella pienezza della Verità. Tre diversi Pastori, che si sono fatti guida dapprima di Israele, poi dei primi seguaci ed infine dei credenti di ogni epoca e latitudine. Una storia della salvezza scandita in termini trinitari, che abbraccia l'intera umanità e tenta di ricondurla in seno a quel Dio da cui era tragicamente e drammaticamente fuoriuscita (Gen 3,16-24).
Significativo è qui il verbo “Ðdhg»sei” (odeghései), composto dai termini “ÐdÒj” (odós, strada, via, cammino) ed “¥gw” (ágo, condurre, sospingere, muovere, guidare, accompagnare). Il verbo definisce dunque l'azione dello Spirito come colui che conduce, sospinge, muove, accompagna e guida i credenti per la via o sul cammino. Dopo questo verbo di movimento ci si sarebbe aspettati di trovare la particella di moto verso luogo “eij” (eis, verso), invece compare inaspettatamente la particela di stato in luogo “™n” seguita dal dativo, che lascia intendere come questa Guida non porta verso la Verità, ma guida il credente all'interno della Verità, definita con l'attributo “tutta” (p£sV, páse) e quindi una Verità piena in cui il credente, in virtù della sua fede, già vive e si muove. Il compito dello Spirito dunque non è missionario, condurre i non credenti alla pienezza della Verità, ma magistrale: aiutare i credenti nel loro cammino nella Verità piena, verso una sua sempre maggiore comprensione. Il suo compito, infatti, viene subito delineato da 13b in cui si precisa che “non parlerà da se stesso”; in altri termini, lo Spirito non è una fonte autonoma e originaria, che aggiunge delle novità taciute da Gesù, come sembrava dire il v.12a; ma egli annuncerà ciò che ha udito. La sua funzione dunque è innanzitutto testimoniale (15,26); una testimonianza i cui contenuti riguardano “t¦ ™rcÒmena” (tà ercómena), cioè “le cose che vengono”, verbo al participio presente, che lega il loro accadere al presente della chiesa postpasquale. Non si tratta quindi di cose future, benché il “tà ercómena” sia preceduta da tre verbi al futuro (parlerà, dirà, avrà udito), in quanto azioni colte in una prospettiva postpasquale, dopo la dipartita del Gesù storico, di cui l'Intercessore prenderà il posto. Si tratta dunque di accadimenti riguardanti il presente, di cui i credenti non solo sono testimoni, ma ne sono anche pienamente coinvolti. Compito dello Spirito è quello di far comprendere il significato e il senso di tali avvenimenti (14,26). Non si tratta, pertanto, di cose arcane che saranno svelate in futuro, ma di quelle che stanno accadendo. Il verbo, infatti, come si è detto, è un participio presente che definisce la natura di tali cose, legate strettamente nel loro accadere all'oggi del credente.
Il v.13b asseriva che lo Spirito non avrebbe parlato da se stesso, ma avrebbe riferito tutto ciò che avesse udito. Se non è lui la fonte originaria, dunque, da dove egli attingerà? Sarà compito del v.14, che qui riprende e sviluppa 14,26 e 15,26, definire la fonte informativa dello Spirito: “Quello mi glorificherà, poiché prenderà dal mio e ve (lo) annuncerà”. La fonte dello Spirito è dunque il Logos, da cui egli attinge per annunciarlo ai credenti, in tal modo lo Spirito compirà un'azione di glorificazione, cioè di manifestazione e rivelazione, nei confronti del Logos Incarnato e Risorto (1,14). Così come il Logos Incarnato ha glorificato il Padre rivelandolo (17,4), così ora lo Spirito glorificherà il Logos rivelandolo nelle sue profondità e nella sua pienezza ai credenti. Il compito dello Spirito pertanto non è condurre il credente verso la Verità, a cui egli già appartiene in virtù della sua fede, ma verso la pienezza di questa Verità, che prima dello Spirito egli non era in grado di raggiungere (v.12b).
Con il v.15 l'autore compie un ulteriore approfondimento sui contenuti del Logos, fonte primaria dello Spirito, da cui egli attinge per riproporli ai credenti: “Tutto quanto il Padre ha, è mio; per questo ho detto che prende dal mio e ve (lo) annuncerà”. L'attenzione ora viene incentrata sulla fonte dello Spirito: “™k toà ™moà” (ek tû emû, dal mio), espressione questa che verrà ripresa nella seconda parte del v.15, mentre la prima parte ne specifica la natura: “Tutto quanto il Padre ha, è mio”. Ciò che Gesù ha, pertanto, proviene dal Padre e quel “tutto quanto” (p£nta Ósa, pánta ósa) dice come Gesù sia la pienezza del Padre e il suo dire e il suo operare non sono originariamente suoi, ma del Padre, che in lui dice ed opera (14,9-11). Ciò che lo Spirito pertanto attingerà da Gesù, di fatto, attingerà dal Padre, di cui Gesù non solo è la pienezza, ma anche la sua manifestazione, il luogo storico del suo agire. La catena trinitaria, pertanto, opera a partire dal Padre, che si è fatto dono totale al Figlio, che, a sua volta, nello Spirito si offre totalmente ad ogni credente (3,16), così che ogni credente nello Spirito, ritrova la pienezza del Risorto, che lo riconduce al Padre, la fonte primaria da cui egli è uscito quale sua immagine e somiglianza (Gen 1,26).
Commento ai vv.16-22
Testo a lettura facilitata
L'interrogarsi della comunità giovannea in mezzo alle persecuzioni
16- Un poco
e non mi vedrete più, e di nuovo un poco
e mi vedrete>>.
17- Dissero dunque gli uni agli altri (alcuni) dei suoi
discepoli: <<Che cos'è questo che ci dice: “Un poco
e non mi vedrete, e di nuovo un poco
e mi vedrete?” e “poiché vado al Padre?”>>.
18-
Dicevano dunque: <<Che cos'è questo che dice: “un poco”?
Non sappiamo
[che cosa dice]>>.
19- Gesù conobbe che volevano interrogarlo, e disse
loro: <<(Voi) cercate di questo tra gli uni e gli altri, perché
dissi: “Un poco e non
mi vedrete, e di nuovo un poco
e mi vedrete”?
La risposta che motiva la sopportazione delle sofferenze causate dalle persecuzioni
20- In verità, in verità vi dico che voi piangerete e
vi lamenterete, ma il mondo si rallegrerà; voi sarete afflitti, ma
la vostra afflizione diventerà gioia.
21- La donna quando partorisce ha dolore, poiché è
venuta la sua ora; ma quando il bambino è nato, non si ricorda più
della sofferenza per la gioia, perché un uomo fu generato al mondo.
22- Anche voi, dunque, adesso avete afflizione; ma di
nuovo vi vedrò, e gioirà il vostro cuore, e nessuno toglierà da
voi la vostra gioia.
Note introduttive
La pericope 8-15 presentava lo Spirito, da un lato, nella sua veste di giudice del mondo (vv.8-11); dall'altro (vv.12-15), quale Guida sia alla piena comprensione del Mistero in cui i credenti sono già immersi in virtù della loro fede, che degli eventi dolorosi in cui essi sono coinvolti a motivo della loro testimonianza del nome di Gesù. Ed è quest'ultimo aspetto che viene ora ripreso e approfondito dalla successiva pericope 16-22, scandita in due parti: la prima (vv.16-19), disseminata da punti interrogativi presenta l'interrogarsi della comunità giovannea in un contesto di sofferenza e di persecuzione, che sembra chiedersi a quando la vittoria finale promessa dal Maestro? La risposta viene da quel ripetuto “un poco” di tempo ancora, associato alla morte-risurrezione di Gesù, a cui sono assimilati i credenti nella loro sofferenza, che li apre alla vita. La seconda parte (vv.20-22) dà una lettura metaforica di tali sofferenze, richiamandosi ad immagini veterotestamentarie, lasciando intuire come queste siano proprie degli ultimi tempi, che preannunciano il trionfo finale promesso, ormai imminente, proprio come le doglie del parto preannunciano l'imminenza di una vita nuova.
Commento di 16-22
L'interrogarsi della comunità giovannea in mezzo alle persecuzioni (vv.16-19)
Questa prima parte (vv.16-19) è formata da quattro versetti che, quasi come un'eco, riprendono e ripetono di continuo il v.16. È difficile vedere in tutto questo continuo ripetersi della stessa espressione un semplice ebraismo; vi è invece, a nostro avviso, il chiaro intento dell'autore di richiamare l'attenzione del suo lettore su di una situazione difficile che sta vivendo la sua comunità, a cui offre una chiave di lettura degli accadimenti dolorosi che è chiamata a vivere, invitandola a resistere, poiché i tempi ultimi sono giunti ormai a maturazione. Un aspetto questo che verrà sottolineato con la successiva pericope (vv.20-22). Una comunità che qui viene richiamata con l'entrata in scena dei discepoli, dopo un lungo silenzio che durava da 14,22, in cui essa è raffigurata. Tre sono gli elementi rilevanti: l'avverbio quantitativo “mikrÕn” (mikròn, un poco), che qui compare per sette volte; l'insistente presenza di quattro punti interrogativi; ed infine il verbo vedere, qui espresso con due diverse forme verbali, significativamente accostate tra loro e poste a confronto l'una con l'altra: “qewršw” (tzeoréo), al negativo, e “Ðr£w” (oráo), al positivo.
Il v.16 funge da titolatura tematica della pericope in esame e contiene tutti gli elementi fondamentali che la caratterizzano: l'avverbio temporale “mikròn” e le due forme verbali qui sopra menzionate. L'espressione “mikròn”ricorre in Giovanni undici volte; le prime tre in 7,33; 12,35 e 13,33 dove l'avverbio scandisce il residuo spazio temporale del rimanere di Gesù in mezzo ai suoi. Significativi sono i capitoli in cui esso compare: il cap.7 segna una svolta decisiva di Gesù verso il Golgota; il cap.12 riguarda la fine della sua attività pubblica e il cap.13 segna l'inizio della fine della sua missione storica. In questo contesto, dunque, “mikròn” tende ad orientare, con accurata azione pedagogica sempre più incalzante, i discepoli e il lettore verso la conclusione dell'attività terrena di Gesù e il suo ritorno al Padre. I rimanenti otto “mikròn”, dislocati, uno in 14,19 e i restanti sette qui, in 16,16-19, pur non disgiunti da quelli precedenti, anzi conseguenti a quelli, riguardano esclusivamente i discepoli nei confronti della dipartita del loro Maestro. L'avverbio “mikròn” definisce un piccolo spazio temporale, che va dalla dipartita di Gesù al suo ritorno, sentito nella chiesa del I sec. imminente, quasi incombente; esso possiede, quindi, in se stesso delle connotazioni escatologiche ed apocalittiche entro le quali si collocano le due espressioni verbali “oÙkšti qewre‹tš me” (ukéti tzeoreîté me) e “Ôyesqš me” (ópsesté me): “non mi vedrete più” e “mi vedrete”. Tutto si compie, dunque, nel ristretto spazio circoscritto da quel “mikròn”. E ciò che si compie in esso è il cammino di fede e di evoluzione spirituale che segnerà profondamente la chiesa dei primi tempi, ed ha due poli: uno di partenza “non mi vedrete più” (ukéti tzeoreîté me) e uno di arrivo “e mi vedrete” (ópsesté me). Il gioco del “non vedere” e del “vedere” con l'uso di due diverse forme verbali e per certi aspetti tra loro contrapposte, allude alla morte di Gesù, che lo toglierà alla sensibilità visiva e alla percezione umana dei suoi discepoli (ukéti tzeoreîté me), per poi restituirlo loro attraverso una nuova visione con la risurrezione (ópsesté me); una nuova visione che non attiene più ad un vedere fisico o intellettivo, ma interpella il mondo dello spirito e del credere. L'uso di “ukéti” (non più), rafforzativo della semplice negazione “oÙk” o “oÙ” posto davanti al verbo “tzeoreîté me” dice come questa visione terrena di Gesù non ci sarà più in senso assoluto. Il Risorto, infatti, non è più accessibile con la semplice strumentazione dei sensi o del razionale, serve un salto di qualità, che può provenire soltanto dalla fede. I discepoli, quindi, per cogliere nuovamente Gesù devono aprirsi ad un nuovo modo di percepire, che soltanto una lenta e non sempre facile maturazione spirituale potrà nuovamente restituire loro: quella del credere, che li aprirà ad una nuova visione delle cose, dischiudendo loro l'accesso alla vita stessa di Dio.
I vv.17-19 riprendono il v.16 e come un ritornello continuamente lo ripetono, creando una sorta di effetto eco, incentrando in tal modo l'attenzione del lettore sul suo significato, preparatorio alla seconda parte (vv.20-22) di questa pericope (vv.16-22), in cui si spiegherà il senso degli accadimenti che stanno affliggendo la comunità giovannea. Dopo un lungo silenzio, che durava da 14,22, l'ultima volta in cui Giuda, non l'Iscariota, interrogava Gesù, ricompaiono nuovamente i discepoli che hanno qui una duplice funzione narrativa: da un lato fungono da spalla a Gesù, riprendendo e amplificando il suo annuncio (v.16); dall'altro essi richiamano con la loro presenza la comunità giovannea stessa, che si riflette nel loro interrogarsi sul significato di quel “poco”, su cui si accentrerà il v.18. L'attesa infatti del ritorno glorioso di Gesù nella nascente chiesa del I sec. era sentito come imminente e diventava sempre più urgente, in mezzo alla sofferenza della persecuzione, sapere quando ciò sarebbe avvenuto, ponendo in tal modo fine a tale sofferenza e inaugurando il regno di Dio (Ap 21,3-5). Un'eco in tal senso si sente in Ap 7,13-17: “Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?">>. E lui: <<Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione12 e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello13. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l'Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi>>”.
Il v.19 si apre con l'affermazione che “Gesù conobbe che volevano interrogarlo”, lasciando intravvedere in quel “conobbe”, posto all'aoristo (œgnw, éghno), come Gesù sapeva già prima quello che stava succedendo tra i suoi e come tale sua conoscenza non gli derivava dal suo aver sentito qualche voce o dall'aver ricevuto una qualche delazione, ma è una conoscenza superiore, che gli nasce dal di dentro (6,61), sottolineando la sua superiorità e la sua divinità. Soltanto Dio, infatti, è colui che sa leggere nel cuore dell'uomo (2,24-25)14.
La risposta che motiva la sopportazione delle sofferenze causate dalle persecuzioni
Introdotta dal tema del “poco” (mikròn) che delimitava il tempo in cui si compiva il passaggio da un certo modo di percepire Gesù, attraverso i sensi e l'intelletto, ma ormai superato e non più accessibile (ukéti tzeoreîté me, non mi vedrete più), ad un nuovo modo di raggiungerlo, per mezzo della fede (ópsesté me, mi vedrete), la pericope in esame (vv.20-22) prospetta le modalità di questo passaggio, da cui traspare la sofferenza quale suo elemento caratterizzante. Questa pericope è scandita in tre parti: la prima (v.20) costituisce l'annuncio delle sofferenze che preludono alla gioia; la seconda (v.21) metaforizza il v.20, prendendo l'immagine della partoriente; ed infine l'ultima parte (v.22) è l'applicazione della metafora ai discepoli. L'intera tematica della sofferenza colta nella prospettiva della gioia finale e il comparire della metafora della donna partoriente creano qui il contesto escatologico in cui i discepoli sono collocati e chiamati a leggere e a comprendere il loro attuale stato di sofferenza generato dalla persecuzione, quale loro associazione e assimilazione alla morte e risurrezione di Gesù.
Il v.20 si apre con la formula caratteristica di Giovanni “In verità, in verità vi dico”, che compare venticinque volte nel suo vangelo ed imprime a quanto segue il marchio della solennità e della veridicità, con cui Gesù impegna la sua parola e se stesso. Un versetto dai toni contrastanti che contrappongono la sofferenza dei discepoli alla gioia del mondo. Un contrasto che ha le sue radici profonde in quello tra luce e tenebre: una luce che non è stata accolta dalle tenebre (1,5), alle quali gli uomini hanno accordato la loro preferenza per la malvagità delle loro opere, che rifuggono la luce nella quale vedono inscritta la loro condanna (3,19-20). Un contrasto che già era stato in qualche modo preannunciato al v.2 dove la persecuzione dei credenti e la loro soppressione da parte del giudaismo erano ritenute non solo volontà di Dio, ma anche un atto di culto a Lui gradito. A tanta perversione può giungere la cecità provocata dalle tenebre, in cui il male è scambiato per il bene, e il bene ritenuto male. Ma questa è l'ora delle tenebre. Per due volte, vv.2.4, si parla dell'ora in cui queste perversità delle tenebre si compiranno contro i discepoli. Questa è l'ora della sofferenza dei discepoli, che in quest'ora sono associati a quella del loro Maestro, che a sua volta rivive nell'ora dei discepoli la sua ora. Ma questa sofferenza si tramuterà per i discepoli in gioia, così come la passione e morte del loro Maestro fu il doloroso preludio alla sua risurrezione, a cui anche i discepoli sono ora assimilati. Vi è dunque un intrecciarsi di destini, quello di Gesù a quello dei suoi discepoli, così che negli uni si riflette quello dell'altro. Vi è un parallelismo, dice Giovanni alla sua comunità sofferente, tra il vostro soffrire e quello di Gesù; e come il soffrire e il morire di Gesù fu la via maestra per accedere alla novità di vita, così lo è anche per voi. Una sofferenza che viene letta qui non come segno di impotenza e di sconfitta, ma quale via maestra per raggiungere la pienezza della Vita. Come sia possibile che dalla sofferenza possa nascere la gioia di una vita nuova sarà la metafora del v.21 a spiegarlo, che collocherà questa sofferenza, letta nella prospettiva di una gioia che sta per nascere, in un contesto escatologico. Tanta attenzione al tema della persecuzione e ai diversi tentativi di dare giustificazione alle conseguenti sofferenze nascono tutti da un contesto storico e sociale fortemente avverso ai nuovi credenti. Non è un caso, infatti, se da tutti gli scritti neotestamentari traspare il tema della sofferenza associata alla persecuzione15.
Il v.21 riprende l'annuncio del v.20 e lo traduce in un'immagine molto conosciuta nell'ambito sapienziale e profetico, in cui per definire l'intensità o l'improvvisa comparsa di situazioni di dolore e di sofferenza che colpivano il popolo o le singole persone si ricorreva all'immagine delle sofferenze e dei dolori del parto16. Immagine a cui il N.T. attinge soltanto quattro volte: in Rm 8,22; 1Ts 5,3; Gal 4,19 e il testo in esame di Gv 16,21. Ma è soltanto Rm 8,19-23 che usa l'immagine in prospettiva escatologica, cogliendo le sofferenze del momento presente come le sofferenze della partoriente che sta per generare una nuova vita (Rm 8,19-23); prospettiva questa che ritroviamo qui al v.21. L'ora del parto, l'ora della vita nuova è segnata dunque dalla sofferenza; fa parte della condizione propria della partoriente. Il travaglio, pertanto, preannuncia l'avvento della vita nuova, alla quale i credenti già appartengono proprio in virtù della sofferenza che li assimila al loro Maestro. Paolo sottolinea questo passaggio alla comunità di Roma: “Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,5). La morte, dunque, nella prospettiva della vita; la sofferenza in quella della gioia.
Il v.22, riprendendo i vv.20-21, ne dà applicazione pratica: “Anche voi, dunque, adesso avete afflizione; ma di nuovo vi vedrò, e gioirà il vostro cuore, e nessuno toglierà da voi la vostra gioia”. Il versetto effettua tre passaggi:
“Anche voi, dunque, adesso avete afflizione”. Con quel “anche voi” (kaˆ Øme‹j, kaì imeîs) l'autore crea un parallelismo e un trasferimento della condizione di Gesù morto-risorto sui credenti, che in tal modo sono a lui assimilati; mentre con quel “adesso avete afflizione” opera un forte aggancio alla situazione presente di sofferenza, a motivo della loro testimonianza al nome di Gesù. L'avverbio temporale “nàn” (nîn, adesso, ora) e il verbo “œcete” (échete, avete), posto al presente indicativo, creano tale aggancio.
“ma di nuovo vi vedrò”. Questo secondo passaggio si apre con un preposizione avversativa che contrappone il vedere di Gesù allo stato di sofferenza in cui i credenti si trovano. È quanto mai singolare questa affermazione, poiché non è mai Gesù che vede i discepoli, ma sono questi che vedono di nuovo lui dopo la sua dipartita da loro, in cui l'uso del verbo “oráo” dice il loro vedere nella fede e non più in modo diretto. Vi sono tre elementi che qui aiutano a comprendere questa singolare espressione: a) l'attore qui è Gesù, mentre i discepoli sono l'oggetto passivo di questo vedere di Gesù; b) l'espressione “ma di nuovo” (p£lin de, pálin de) che indica il ripetersi di una situazione precedente, ma collocata in una nuova dimensione, richiamata sia da quel “de” (ma) associato a “pálin”, che contrappone quel “di nuovo” allo stato di sofferenza in cui versano i credenti; sia c) dal verbo “vedere” espresso qui con “oráo”posto al futuro (Ôyomai, ópsomai, vedrò), che parla di un vedere qualitativo e superiore, che oltrepassa la contingenza e l'effimera condizione temporale in cui sono posti i credenti. Il tempo verbale al futuro parla della nuova condizione postpasquale in cui viene a trovarsi ora Gesù che con il suo vedere di nuovo i suoi discepoli dice come egli sia ancora presente in mezzo a loro e lo sarà per sempre, sia pur in uno stato e condizione di vita completamente diversi da prima; e come il suo nuovo vederli li assimili in qualche modo al suo nuovo stato di vita verso il quale anche loro, i discepoli e i nuovi credenti, sono in cammino, segnato dalla sofferenza; quel cammino che anch'egli, prima di loro, ha percorso per raggiungere lo stato di beatitudine e di gioia in cui egli ora si trova.
“e gioirà il vostro cuore, e nessuno toglierà da voi la vostra gioia”. La parte conclusiva del v.22 si apre con un “kaˆ” (kaì, e) che lega il futuro stato di felicità e di gioia dei discepoli, alla nuova condizione di Gesù e ad essa conseguente. La gioia per il credente va oltre il semplice sentimento e non necessita di condizioni esistenziali a lui favorevoli. Essa, infatti, definisce la sua nuova condizione di vita, che nasce dalla certezza di condividere nella sofferenza la sorte del proprio Maestro in cui è racchiusa la promessa di una piena condivisione della vita divina, che definisce il nuovo stato di vita di Gesù, a cui essi sono già associati e assimilati, sia pur nella speranza, che tuttavia è certezza di vita eterna. Per questo “gioirà il vostro cuore, e nessuno toglierà da voi la vostra gioia”, poiché tale gioia appartiene già all'eternità di Dio, a cui il credente partecipa fin d'ora nel suo vivere la sofferenza per Gesù. La sofferenza del credente, pertanto, non è antitetica alla gioia, ma ne è la premessa indispensabile, anzi essa è già in qualche modo racchiusa nel suo stesso soffrire, aprendolo alla prospettiva dei cieli nuovi e della terra nuova, così come il travaglio della partoriente preannuncia il nascere di una vita nuova. Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinti, sottolinea questa compatibilità tra sofferenza e gioia, che è un paradosso tutto cristiano: “Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2Cor 7,4)
Commento dei vv.23-26
Testo
23- E in quel giorno non mi chiederete nulla. In verità,
in verità vi dico, se chiederete qualcosa al Padre, ve (la) darà
nel mio nome.
24- Fino ad ora non avete chiesto niente nel mio nome;
chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia piena.
25- Vi ho detto queste cose in parabole; viene l'ora
quando non vi parlerò più in parabole, ma vi annuncerò con libertà
di parola riguardo al Padre.
26- In quel giorno
chiederete nel mio nome, e non vi dico che io pregherò il Padre per
voi;
La pericope in esame (vv.23-26) riprende il tema del chiedere nel nome di Gesù già introdotto dai vv.14,13-14 e 15,7.16. Essa è delimitata dall'inclusione data dall'espressione “in quel giorno” posta ai vv.23.26 e dalla presenza negli stessi versetti dei due verbi di domanda “™rwt£w” (erotáo) e “a„tšw” (aitéo) posti tra loro a chiasmo. La pericope è caratterizzata infatti dalla ricorrente presenza di questi due verbi (2 volte erotáo e 4 volte aitéo) solo in apparenza simili, ma in realtà descrivono due diverse forme di domanda: il verbo “erotáo” significa domandare, ma nel senso di interrogare per sapere; il secondo, “aitéo”, significa sempre “domandare”, ma nel senso di chiedere per ottenere un qualcosa. Quest'ultimo infatti annovera tra i suoi significati anche quello di bramare, desiderare; mentre “erotáo” dice anche investigare, ricercare. Saranno proprio i loro diversi significati a determinare il diverso senso delle due identiche espressioni “in quel giorno” (™n ™ke…nV tÍ ¹mšrv, en ekeíne tê eméra). In entrambi i casi l'espressione “in quel giorno” allude al periodo postpasquale, ma come vedremo, il primo (v.23a) riguarda la venuta dello Spirito, il cui intento è quello di condurre il credente alla pienezza della verità; mentre il secondo (v.26a) riguarda la risurrezione di Gesù, che lo colloca in seno al Padre, aprendo al credente l'accesso, significato dal verbo “aitéo”, alla ricchezza della vita stessa di Dio. I due verbi pertanto si integrano tra loro e questo loro intrecciarsi in forma chiasmica (vv.23.26) evidenzia la loro complementarietà.
Il v.23, che funge da premessa al v.24, è scandito in due parti che introducono un duplice tema: quello della domanda finalizzata alla conoscenza e quella riguardante l'ottenimento di un qualcosa. Il primo tema (v.23a) è caratterizzato dalla presenza del verbo “erotáo”, che riguarda il conoscere dei discepoli. Al v.12 Gesù lamentava che aveva ancora molte cose da dire, la cui portata però i discepoli non erano ancora in grado di supportarla. Per questo si doveva attendere la venuta dello Spirito della verità, che li avrebbe guidati alla pienezza della verità, cioè alla piena comprensione delle cose dette da Gesù e del suo Mistero (v.13). E la loro inintelligenza, la loro incapacità di comprendere sarà dimostrata tangibilmente dalla pericope immediatamente successiva (vv.16-22) dove i discepoli si interrogavano, ma inutilmente, sul significato di quel “Un poco e non mi vedrete, e di nuovo un poco e mi vedrete” e sul senso di quel “vado al Padre”. Questo, dunque, l'oggetto della ricerca e della richiesta che i discepoli stavano per rivolgere a Gesù (v.19). Compare anche in questo v.19 il verbo “erotáo” (™rwt©n, erotân, interrogare), che troverà la sua eco qui al v.23a, dove tornerà nuovamente: “In quel giorno non mi chiederete nulla”. Il giorno a cui l'autore qui allude è quello del dono dello Spirito di cui al v.13. In quel giorno ogni inintelligenza scomparirà e quindi non ci sarà più bisogno di chiedere, come è avvenuto al v.19, perché “allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità intera; infatti, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono. Quello mi glorificherà, poiché prenderà dal mio e ve (lo) annuncerà” (vv.13-14).
Con il v.23b si introduce una nuova tipologia del chiedere significata non più dal verbo “erotáo”, bensì “aitéo” (a„t»sesqe, aitéseste, chiederete), in cui il chiedere è finalizzato ad ottenere un qualcosa. Il versetto infatti si apre con la caratteristica formula giovannea “In verità, in verità vi dico”, che nello staccare 23b da 23a imprime il sigillo della veridicità a quanto segue, segnalando nel contempo al lettore che ora si sta parlando di un altro “chiedere”, che i vv.24-26 specificheranno, aprendolo ad un nuovo significato del chiedere, quello dell'accesso del credente alla ricchezza della stessa vita divina, in cui già egli è collocato fin d'ora in virtù del suo credere (3,16; 5,24). Il soddisfacimento del chiedere qui non è più legato allo Spirito, ma al Padre e non riguarda più una conoscenza, ma un “qualcosa” (ti, ti) che il Padre darà al credente “nel nome” di Gesù, che qui l'autore indica come l'intermediario tra il Padre e i credenti; è dunque nel nome di Gesù, cioè per il suo tramite che il Padre dona la sua vita al credente e questi vi ha pieno accesso, un accesso qui espresso e significato dal verbo “aitéo”, così che Gesù diviene il luogo d'incontro tra il Padre e i credenti.
Il v.24, introdotto dal v.23b, ne riprende il tema in forma esortativa e sospinge i credenti a rivolgersi al Padre per il tramite di Gesù, “nel mio nome”, espressione questa che lascia intravedere come ormai il sollecito sia rivolto alla comunità postpasquale, il tempo questo in cui la chiesa, priva della presenza fisica del suo Maestro, prega ed opera nel suo nome, dandone testimonianza. Il v.24 scandisce i due tempi della vita dei credenti: quello in cui Gesù era ancora fisicamente presente in mezzo ad essi, significato dall'espressione “Fino ad ora”, un tempo questo in cui non si chiedeva nel nome di Gesù, poiché egli era ancora presente in mezzo a loro; e quello successivo alla sua dipartita dalla storia. È questo il tempo in cui la chiesa nascente è esortata a rivolgersi, si badi bene, non più a Gesù, ma al Padre, a cui ora hanno pieno accesso grazie al Risorto. È infatti per il suo tramite, “nel mio nome”, che il Padre elargirà le ricchezze della propria vita, rendendole disponibili ai credenti e condividendole con loro. Significativo in tal senso è quanto il Risorto dice alla piangente Maria presso la tomba vuota: “va dai miei fratelli e dì loro: <<Salgo al Padre mio e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro>>” (20,17b). Gesù non è più il maestro dei suoi discepoli, ma soltanto un loro fratello, perché ormai tutti, Gesù e i discepoli, hanno un comune Padre ed un unico Dio, che il Risorto ha condiviso con loro. L'accesso dei credenti alla pienezza della vita divina, reso possibile dalla loro comune paternità con il Risorto, è qui significato dall'accesso alla pienezza della gioia, espresso da quel “chiedere” che ha come contropartita il “ricevere”. Questi due verbi, chiedere e ricevere, esprimono il ritrovato dialogo tra l'uomo e Dio, ricostituitosi nel Risorto, qui richiamato dall'espressione “nel mio nome”.
Il v.25, similmente al v.24, scandisce la rivelazione in due tempi: quello della presenza storica di Gesù, al v.24 significato dall'espressione “Fino ad ora” e qui dalla descrizione delle modalità con cui Gesù parlava ai suoi: tramite parabole, proverbi, massime, similitudini, detti sapienziali (v.25a). Tutti significati questi riconducibili al termine greco “paroim…ai” (paroimíai). L'espressione “™n paroim…aij” (en paroimíais) dice come il parlare e l'operare di Gesù, il suo rivelare fossero contenuti (en, in, dentro) entro questo modo di esprimersi metaforico e simbolico e quindi come il suo dire e il suo agire non fossero liberi e diretti, ma mediati (Mc 4,2). Questo suo modo criptato di operare, da un lato, era finalizzato ad evitare che l'annuncio venisse respinto da chi non era ben disposto verso di esso (Mc 4,11-12); dall'altro era dettato da una necessità contingente che si impone a chi deve parlare delle realtà divine a persone che di queste non hanno alcuna esperienza e conoscenza poiché vivono in una dimensione, quella spazio-temporale, completamente diversa da quella trascendentale dove tali realtà sono collocate e da dove Gesù, quale Figlio di Dio e Dio lui stesso17, proviene. Da qui la necessità di un parlare mediato in cui le immagini e i simboli sono gli strumenti che meglio si addicono per avvicinare le due dimensioni così diverse, creando tra esse una sorta di ponte psicologico e spirituale, poiché esse parlano non in modo diretto, ma stimolando l'intuizione dell'ascoltatore sospingendolo alla ricerca di una comprensione. Significativo in tal senso è il modo di esprimersi di Gesù attraverso similitudini allorché parla del Regno di Dio o dei cieli18.
La seconda parte della rivelazione (v.25b) avviene in epoca postpasquale, dopo la dipartita di Gesù ed è introdotta dall'espressione “viene l'ora”, in cui il verbo è al presente indicativo, poiché questa ora è già iniziata (13,1) ed è in corso di attuazione. Questa ora, tuttavia, non dice soltanto il ritorno di Gesù al Padre, attraverso il percorso della sua passione-morte-risurrezione, ma anche il tempo, l'ultimo atto di questa ora in fase di compimento, in cui la dipartita di Gesù lascerà spazio ad un altro Intercessore, che rimarrà sempre con i discepoli (14,16). Un Intercessore con il quale Gesù in qualche modo si identifica quando in 14,18 attesta: “Non vi lascerò orfani, vengo a voi”, in cui con quel “vengo a voi” allude al dono dello Spirito, che non parlerà per conto proprio, né si presenterà come una fonte rivelativa autonoma, diversa o aggiuntiva rispetto a Gesù, che rimane fonte primaria ed unica in quanto Logos del Padre (1,1-2). Lo Spirito infatti attingerà dal Rivelatore e riproporrà in approfondimento non solo quanto egli ha già udito da lui (vv.14,26; 15,26; 16,13-14), ma anche quanto è intercorso tra Gesù e il Padre, in quanto è uno Spirito che sonda le profondità di Dio e ne conosce i segreti (1Cor 2,10-11). Per questo in 25b il Risorto continua a parlare in prima persona, poiché egli continua la sua opera e il suo annuncio attraverso e nello Spirito: “non vi parlerò più in parabole, ma vi annuncerò con libertà di parola riguardo al Padre”.
Il v.26 si apre riproponendo l'espressione “In quel giorno” che si contrappone a quella del v.23a. In 23a, infatti, si dice che i discepoli non chiederanno nulla, perché “quel giorno” del v.23a è quello dello Spirito che toglierà ogni inintelligenza donando una piena comprensione del Mistero; mentre qui in 26a, “in quel giorno” si dice che i discepoli chiederanno non per sapere, ma per ottenere. Il verbo qui infatti non è più “erotáo” come in 23a, ma “aitéo”, il verbo del domandare per ottenere. È quest'ultima la posizione della chiesa postpasquale, quella che ha preso il cammino dalla risurrezione di Gesù. E che così sia lo si arguisce dal v.26b, in cui Gesù non fungerà più da intercessore presso il Padre: “non vi dico che io pregherò il Padre per voi”. Lo strano comportamento di Gesù, che non si pone più come mediatore tra i suoi e il Padre nasce dal fatto che egli nella sua risurrezione ha assunto e assimilato in se stesso i suoi (12,32), condividendo con loro la sua paternità (20,17). Non c'è più dunque bisogno ora che egli interceda presso il Padre per loro, perché quel Padre di Gesù ora, per adozione19, è anche il loro. I credenti sono dunque divenuti luogo della dimora di Gesù e del Padre, che li ama perché vede in essi riflessa l'immagine del suo Figlio (14,21.23; 16,27), così che essi sono divenuti figli nel Figlio, mentre Gesù è divenuto per loro non più il maestro (13,13), non più l'amico (15,15), bensì il loro fratello (20,17). Vi è in tutto questo, ma mano che l'ora si va sempre più compiendo, un progressivo cambiamento di rapporti tra Gesù e i suoi; una sempre maggiore loro intimizzazione, che porta i credenti da semplici discepoli ad essere suoi fratelli, condividendo così con loro la sua stessa paternità divina. Non è più necessario dunque che Gesù interceda per loro presso il Padre, perché ora i credenti possono rivolgersi direttamente al Padre di Gesù, divenuto anche loro Padre.
Commento dei vv. 27-33
Testo a lettura facilitata
La transizione
27- Egli, infatti, il Padre vi ama, poiché voi mi avete amato e avete creduto che io sono uscito da Dio.
L'origine di Gesù e la fede dei discepoli
28- Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di
nuovo lascio il mondo e vado al Padre>>.
29- Dicono i suoi discepoli: <<Ecco, adesso parli
liberamente e non dici nessuna parabola.
30-
Adesso sappiamo
che sai tutto e non hai bisogno che qualcuno ti interroghi; per
questo crediamo che sei uscito da Dio>>.
L'ironia di Gesù sulla fragile fede dei discepoli
31- Rispose loro Gesù: <<Ora credete?
32- Ecco viene l'ora ed è (già) venuta in cui sarete
dispersi, ciascuno verso le proprie cose, e mi lascerete solo; e non
sono solo, poiché il Padre è con me.
33- Vi ho detto
queste cose affinché in me abbiate pace. Nel mondo avete afflizione,
ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo>>.
La
transizione e l'origine della fede dei discepoli
(vv.27-30)
La pericope 27-30 è delimitata dall'inclusione data dall'espressione “uscito da Dio” posta in chiusura dei vv.27.30 che ne definisce il tema: l'origine divina di Gesù. Un tema che già era risuonato in 8,42; 13,3 e troverà ancora una volta, l'ultima, la sua eco in 17,8.
Il v.27 è di transizione perché nel chiudere la pericope precedente (vv.23-26) traghetta il lettore verso un nuovo tema. Il versetto è scandito in due parti: la prima, introdotta dalla parola aggancio “Padre”, dà continuità al v.26, che con tale parola si concludeva; mentre la particella dichiarativa “g¦r” (gàr, infatti) introduce le ragioni per cui Gesù, dopo la sua dipartita, non fungerà più da intercessore presso il Padre a favore dei discepoli: “infatti, il Padre vi ama, poiché voi mi avete amato e avete creduto”. I discepoli dunque possono rivolgersi al Padre, ora divenuto comune, direttamente; il motivo è l'amore che il Padre riserva loro e che trova la sua giustificazione nell'amore e nella fede dei discepoli verso Gesù. Il Padre dunque riconosce ed ama come suoi coloro che hanno pienamente accolto nella loro vita suo Figlio. Significativo è qui il verbo usato per indicare questo amore: “filšw” (filéo), che esprime una particolare tipologia di amore, quello affettuoso e attento: voler bene, aver cura o prendersi cura, trattare o accogliere amorevolmente, assistere, esprimere amicizia. Un tipo di amore quindi che dice il livello di rapporto che si è instaurato tra i discepoli e il Padre dopo la dipartita di Gesù. Significativo è anche il tempo verbale, il perfetto indicativo, con cui sia il verbo amare che credere, con riguardo ai discepoli, è posto. Esso definisce come l'azione presente, cioè l'amare e il credere dei discepoli nei confronti di Gesù, abbia origine lontane, che l'autore della lettera agli Efesini colloca nella stessa eternità di Dio, ancor prima della creazione: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5). Vi è dunque in questo rapporto di amore e di fede che lega i discepoli a Gesù e al Padre un progetto divino coeterno a Dio stesso, così che tale amore e tale fede sono l'attuazione e la manifestazione di quel disegno divino, che ha come obiettivo finale quello di ricondurre per Cristo e in Cristo tutte le cose al Padre, così come era nei primordi della creazione (1Cor 15,28).
La seconda parte del v.27 pone l'accento sull'aver creduto da parte dei discepoli che Gesù è uscito da Dio e introduce il tema della pericope in esame (vv.27-30), mentre il credere attraverserà l'intera pericope 27-33 e assumerà una duplice valenza: nella pericope 27-30 esso riguarderà il credere teologico e dottrinale e, quindi, fondativo della comunità giovannea; il secondo aspetto, introdotto in modo ironico dal v.31, riguarda la consistenza e l'incidenza di questo credere posto alla prova della testimonianza, che ne dimostrerà tutta la fragilità (vv.32-33).
Il v.27 terminava con l'espressione “sono uscito da Dio”, che funge da aggancio al successivo v.28 che si apre con l'identica espressione: “sono uscito dal Padre”, in cui il nome “Dio” è sostituito da quello di “Padre”. In tal modo i due nomi vengono non solo accostati tra loro, la quale cosa non è nuova in Giovanni20, ma anche solidamente saldati assieme dall'unico verbo che li accomuna: “sono uscito”. Ne nasce in tal modo una nuova associazione, quella di “Dio Padre” o Dio che è Padre, sottolineando, da un lato, la natura divina del Padre; dall'altro la paternità di Dio, di cui Gesù è Figlio, rimarcandone una volta di più la sua origine divina. Il v.28 descrive un movimento pendolare che vede Gesù uscire dal Padre ed entrare nel mondo e dal mondo ritornare al Padre. Un movimento che caratterizza l'intero vangelo giovanneo e che contiene e descrive schematicamente l'intero mistero della salvezza; mentre in quel suo entrare nel mondo e uscirne definisce i confini della sua missione storica, iniziata con la sua incarnazione e terminata con la sua morte-risurrezione. Il v.28 pertanto descrive il duplice movimento di discesa e di risalita, che trova la sua eco in 3,13 e in 13,3b, ma che compare anche nell'inno cristologico di Fil 2,6-11, che Paolo riporta nella sua lettera. Lo sfondo veterotestamentario di questo duplice movimento sembra essere Is 55,10-11, dove il Deutero-Isaia, parlando dell'efficacia della parola uscita da Dio, dice: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”21
Il v.28b inizia con l'avverbio “di nuovo” (p£lin, pálin) che introduce il ripetersi del movimento uguale contrario a quello di 28a. L'accento quindi cade sul movimento, quasi a voler significare la dinamicità dell'intero disegno di salvezza divenuto in Gesù azione salvifica del Padre.
I vv.29-30 concludono questa breve pericope (vv.27-30) con l'ultimo intervento dei discepoli, che dichiarano la loro fede nella divinità di Gesù, che qui è espressa non solo nell'attestazione della provenienza divina di Gesù, “uscito da Dio”, ma evidenziata anche dalla sua onniscienza, definita in quel “sai tutto” (oŒdaj p£nta, oîdas panta). È questa la voce della comunità giovannea, il cui processo di fede è significato dall'accostamento dei due verbi alla seconda persona plurale: “o‡damen … pisteÚomen” (oídamen … pisteúomen, sappiamo … crediamo), che già compare anche nella professione di fede di 6,69: “e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio”. La prospettiva qui è postpasquale in cui il verbo “sappiamo”, che in Giovanni compare nella sua formula “oídamen” quindici volte, indica la raggiunta conoscenza del Mistero da parte della comunità giovannea e sovente esso si contrappone polemicamente e talvolta ironicamente al presunto sapere delle autorità giudaiche22, anche questo espresso con il verbo “oídamen”, a cui l'autore tuttavia attribuisce un senso negativo. La vera conoscenza di Dio e la vera salvezza, infatti, per l'autore non provengono da Mosè, ma da Gesù (1,17; 6,32). L'essere entrati nella comprensione del Mistero ha come conseguenza il credere. La fede dunque della comunità giovannea si fonda sulla conoscenza del Mistero in cui essa si è già addentrata, anzi ne è la risposta, che si esprime esistenzialmente nella testimonianza (3,11), legata dai due “nàn” (nîn, adesso), all'oggi della comunità giovannea stessa e di ogni credente: “Ecco, adesso parli liberamente …. Adesso sappiamo che sai tutto”. Un sapere che non si muove più per immagini e per parabole, ma in modo diretto, grazie ad una fede ormai definitivamente raggiunta, che le consente già fin d'ora (adesso) l'esperienza di Dio nel Risorto. Il verbo credere, infatti, che in Giovanni è molto spesso (36 volte) fatto seguire dalla particella di moto verso luogo “eis” per indicare il cammino di fede, che ha per meta esclusiva Gesù, qui, eccezionalmente, è fatto seguire dalla particella di stato in luogo “en” che indica il cammino ormai compiuto e la meta ormai saldamente raggiunta; il luogo dove adesso la comunità giovannea può ritrovare il suo Signore e Maestro: “™n toÚtJ pisteÚomen” (en túto pisteúomen), “in questo noi crediamo”23. Gesù dunque diviene qui il luogo del vivere credente.
Il v.30a si apre con una attestazione di fede della comunità giovannea: “Adesso sappiamo che sai tutto e non hai bisogno che qualcuno ti interroghi”, che diviene la risposta al v.19a dove l'autore racconta come “Gesù conobbe che volevano interrogarlo, e disse loro”, in cui veniva espressa l'onniscienza di Gesù e quindi la sua divinità, poiché solo Dio sa tutto24. Quel “Adesso sappiamo”, invece, dice il cammino di fede percorso dalla comunità giovannea dal v.19a in poi per raggiungere il Mistero della divinità di Gesù, attestato definitivamente qui al v.30, in cui il sapere sfocia nel credere, dove ora essa si trova saldamente. Il cammino inizia con l'avverbio “un poco” (vv.16-20); esso infatti dice il tratto che separa il non credere dal credere, che ha per estremi la morte e la risurrezione di Gesù; una morte in cui il Gesù della storia non solo è stato sottratto per sempre dall'esperienza tangibile dei discepoli, ma ha provocato anche uno stato di delusione, di turbamento e di disorientamento dei discepoli, la cui fede, qui smarrita, verrà invece ritrovata nella scoperta della risurrezione di Gesù (20,1-10). Il secondo passo verso verso una fede definitiva è dato dal verbo “chiedere” disseminato nella pericope 23-26; esso parla sia dell'accesso alla ricchezza della vita divina che ora, dopo la risurrezione di Gesù, i discepoli hanno, sia dello strumento, quello del chiedere, che li apre ad un nuovo modo di relazionarsi e di comprendere. Al chiedere infatti corrisponde sempre un “ricevere” (vv.23-24). Il terzo passo è la parabola della partoriente per indicare non solo il passaggio dalla morte alla vita di Gesù, ma anche il cammino che i discepoli devono percorrere per raggiungere la novità di vita, un nuovo modo di essere e di relazionarsi non solo tra loro, ma anche con Gesù e in lui con il Padre. Tutto cambia e tutto diviene, ma tutto passa attraverso il gioco del dolore, della sofferenza e della morte, che divengono il preludio ad una nuova vita, la cui promessa è nel Risorto. Soltanto attraverso questa triplice tappa la comunità giovannea può finalmente proclamare: “Adesso sappiamo … adesso crediamo”.
L'ironia di Gesù sulla fragile fede dei discepoli (vv.31-33)
Alla certezza di una fede ormai raggiunta (“Adesso sappiamo … adesso crediamo”), manca per renderla definitiva la prova della testimonianza, senza la quale ogni fede rimane teoria (Gc 2,17-26). La pericope in esame (vv.31-33) affronterà la questione mettendo in rilievo la fragilità di questa fede, che sembrava ormai assodata e solleciterà i credenti a fidarsi del Risorto, che, proprio passando attraverso la sofferenza e la morte, ha vinto il mondo. A questi essi sono stati associati.
Il v.30 si concludeva con una solenne attestazione di fede nell'origine divina di Gesù, che in qualche modo richiama quella solenne di Pietro in 6,69: “noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio”. Un'attestazione che il v.31 riprende in forma ironica, mettendola duramente in discussione: “Ora credete?”. Il v.31 quindi apre il dibattito sulla consistenza della fede dei discepoli, che il v.32 porrà a confronto con i fatti: “Ecco viene l'ora ed è (già) venuta in cui sarete dispersi, ciascuno verso le proprie cose, e mi lascerete solo; e non sono solo, poiché il Padre è con me”. Benché Giovanni nel suo racconto della passione non accenni, se non in modo indiretto e molto velato, quasi impercettibile, alla dispersione dei discepoli durante la sua cattura nel Getsemani, invitando i suoi aguzzini a lasciar andare i suoi discepoli (18,8), tuttavia qui, in modo più esplicito e diretto, sembra riprendere la tradizione sinottica e Zc 13,7b25. Una fedeltà quella dei discepoli che già aveva mostrato delle crepe in 13,37-38, dove Pietro si dichiarava pronto a dare la propria vita per Gesù, che invece, ironicamente, gli predice il suo tradimento; una dispersione che verrà in qualche modo richiamata sul Golgota, dove, secondo la tradizione giovannea, vi erano soltanto la madre di Gesù, alcune altre donne e il discepolo prediletto (19,25-27). Nessun accenno agli altri discepoli.
Il v.32a si apre con l'annuncio dell'ora che viene („doÝ œrcetai éra, idù érchetai óra); una venuta che però è prontamente corretta, affermando che essa è, in verità, già venuta. Una correzione non casuale poiché essa si richiama sia ai vv.1-4, posti in apertura del cap.16, sia all'ora della comunità giovannea, che sta soffrendo l'esilio, l'isolamento e le persecuzioni. Il verbo “è (già) venuta” (™l»luqen, elélitzen) è posto infatti al perfetto indicativo, un tempo verbale che definisce un'azione presente quale effetto di una posta nel passato, quello dell'ora già annunciata ai vv.1-4. La dispersione avrà come effetto quello di far ritornare i discepoli alle proprie cose, e quindi l'abbandono totale di Gesù e in qualche modo il rinnegamento della loro sequela. Un ripensamento che anche Lc 24,13-14 ricorderà nel suo racconto dei due discepoli di Emmaus, che si allontanavano da Gerusalemme, e che in qualche modo lo stesso Giovanni accennerà nel suo racconto della scoperta della tomba vuota: “infatti non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti. I discepoli dunque se ne tornarono di nuovo presso di loro” (20,9-10). Un abbandono che sancisce un fallimento e che le continue persecuzioni a cui sono sottoposti i credenti rendono ancora più acuto. Suona dunque ironico e aggressivo quel “Ora credete?”. Come dire “Dov'è la vostra fede cosi solennemente attestata?”. Tuttavia l'abbandono dei discepoli fino alla loro totale diserzione di fatto non lasciano solo Gesù, poiché Gesù è con il Padre e nel Padre (14,9-11). Già l'autore lo aveva ricordato in 8,29: “E colui che mi ha mandato è con me; non mi ha lasciato solo, poiché io faccio sempre le cose a lui gradite”. Sembrerebbe apparentemente quasi un attenuare l'abbandono dei discepoli, ma in realtà è un rinfacciare loro come essi non siano poi così necessari per il compimento della missione salvifica di Gesù, la cui efficacia risiede tutta nell'azione del Padre che opera in lui. Del resto Gesù, nel corso della sua missione, già aveva subito numerose defezioni (6,66) e proprio in quell'occasione non esitò a rivolgersi ai suoi, quasi sfidandoli, se intendevano andarsene anche loro (6,67). Gesù ha una missione da compiere per la quale è stato inviato dal Padre ed egli è venuto per compierla, indipendentemente dall'approvazione o meno degli uomini, che comunque sono chiamati, loro malgrado, a prendere posizione.
Il v.33 chiude il cap.16 e forma inclusione con il v.1 sia per identità di espressione “Vi ho detto queste cose”; sia per complementarietà: “affinché non siate scandalizzati” (v.1) e “affinché in me abbiate pace” (v.33). Il verbo qui usato è “lel£lhka” (leláleka) che nel vocabolario giovanneo, qualora riferito a Gesù, allude ad un dire rivelativo. Il contenuto di questo dire infatti è anticipativo di eventi dolorosi ai quali però è associata la prospettiva di una nuova vita, che è vittoria sul mondo. Una chiave di lettura, dunque, che l'autore offre alla sua comunità oppressa dalla persecuzione.
Il versetto, nel riprendere il tema di 14,27, forma in qualche modo da preludio a 20,19-20 in cui si parla del dono della pace offerto dal Risorto ai suoi, che, nel vederlo, gioiscono. Il versetto è costruito strutturalmente così da mostrare la duplice dimensione in cui i credenti vivono: in Gesù e nel mondo; due realtà tra loro incompatibili e contrastanti per questo il rimanere in Gesù ha come contropartita le afflizioni che provengono dal loro essere nel mondo, che tuttavia non riusciranno a togliere la pace e la gioia del soffrire per Gesù. Paolo esprimerà questa sua gioia incontenibile attraverso un paradosso: “Ed egli mi ha detto: <<Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza>>. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10); e similmente in Rm 8,35-37: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati”; mentre Mt 5,10-12 trasforma in beatitudine il soffrire per il Regno dei cieli: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi”. E similmente Lc 6,22-23.
Il v.33 si chiude con un'esortazione che invita ad aver coraggio, in cui il verbo “qarse‹te” (tzarseîte) significa anche “essere fidenti, avere fiducia”. Un'esortazione quindi che tende a rianimare la comunità giovannea e ogni credente che soffre per il nome di Gesù. Un'esortazione che trova la sua forza e la sua giustificazione nella certezza che Gesù “ha vinto il mondo”. Anche qui il verbo è posto al perfetto indicativo, “nen…khka” (neníkeka), che dice come questa vittoria di Gesù viene da lontano e si radica nello stesso progetto salvifico del Padre. Con la morte e risurrezione di Gesù, infatti, il principe di questo mondo è stato giudicato, condannato e gettato fuori. Il suo regno e il suo potere sono dunque finiti (12,31; 14,30; 16,11).
Giovanni
Lonardi
N O T E
1Cfr. R.E. Brown, Giovanni, edizioni Cittadella Editrice, Assisi, 1999, quinta edizione; pagg.704-715
2Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1990; seconda edizione 2007; pag.922
3Cfr. Mt 26,64; Mc 16,19; At 2,33; 7,56; Rm 8,34; Col 3,1; Eb 10,12; 1Pt 3,22
4Cfr. Gv 7,33; 12,35; 13,33; 14,19; 16,16-19
5Cfr. Gv 16,2.4.21.25.32
6Sul tema dell'ora in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.69-71
7Cfr. Gv 16,5.7.10.17.28
8Cfr. Gv 5,18; 8,28.42.58; 10,33; 13,19; 14,9-11; 16,28.30; 18,8
9Cfr. Gv 7,20; 8,48.49.52; 10,20;
10Cfr. 1Gv 1-3; At 1,8; 2,32; 3,15; 5,32; 10,39.41; 13,31
11Cfr. Lv 11,44.45; 19,2;21,8; Gs 24,19a; 1Sam 2,2; 6,20; Sal 77,41; 98,9; Is 30,15a;
12“La grande tribolazione” a cui il testo allude è quella dell'imperatore Domiziano, la stessa che la comunità giovannea sta patendo. Sulla questione cfr. la nota 2 del cap.15
13“Lavare le proprie vesti nel sangue dell'Agnello” significa patire la persecuzione e il martirio.
14Sul tema del “conoscere” di Gesù cfr. il commento al cap. 2, pagg. 33-34.
15Cfr. a titolo esemplificativo, ma non completo Mt 13,21; 24,8; Mc 4,17; 13,8; Lc 24,26; Rm 8,18.35; 2Cor 1,5; 12,10; Gal 4,19; Fil 1,29; 2,27; 3,10; Col 1,24; 1Ts 1,6; 2Ts 1,5; 1Tm 6,10; 2Tm 1,8; 2,3; 3,11; 4,5; Eb 10,34; 1Pt 4,12; 4,13; 5,9; 5,10; Ap 7,14
16Cfr. Sal 47,7; Sir 19,11; Is 13,8; 21,3; 26,17-18; 42,14; 66,6-9; Ger 4,31; 6,24; 13,21; 22,23; 30,6; 48,41; 49,22.24; 50,43; Os 13,13; Mi 4,9.10
17Cfr. Gv 3,13; 7,29; 8,42; 16,28.30; 17,8
18Cfr. Mt 7,24.26; 11,16; 13,44.45.47.52; 18,23; 20,1; 22,2; 25,1; Mc 4,26.31; Lc 6,48.49; 13,18.19.21
19Cfr. Rm 8,15.23; Gal 4,4-6; Ef 1,4-5
20Cfr. Gv 1,18; 5,18; 6,27.45.46; 8,42.54; 13,3; 16,27; 20,17
21Cfr. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1999 – 5^ edizione – pag.894
22Cfr. Gv 3,2.11; 4,42; 7,27; 8,52; 9,20; 21.24.29.31; 14,5; 20,2; 21,24
23Sul tema del “credere” cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 60-61. Qui ho tradotto “per questo crediamo” perché ho voluto sottolineare la motivazione su cui fonda la fede della comunità giovannea; ma il senso non cambia, poiché la motivazione dice anche il luogo grazie al quale Gesù non solo è finalmente ritrovato e raggiunto nel suo Mistero, ma anche il luogo del vivere credente.
241Sam 2,3; Gb 37,16; Bar 3,32
25Cfr. Mt 26,31-32; Mc 14,27-27; Lc 22,31