IL VANGELO SECONDO GIOVANNI

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi


SECONDA PARTE DEL VANGELO DI GIOVANNI


IL LIBRO DELLA GLORIA

CAPITOLO 14



Preceduto dall'introduzione al discorso di addio (13,31-38) in cui si preannunciavano i temi della gloria (13,31-32), quello dell'amore (13,34.35) e dell'andare di Gesù (13,33.36), il cap.14 riprende sostanzialmente tali temi e li approfondisce nelle loro diverse sfaccettature. Quanto al tema dell'andare di Gesù, questo percorre direttamente (vv.1-5.12.18.28) ed implicitamente (vv.16-18.19a.25.26.27.30a) l'intero cap.14; quanto al tema dell'amore vicendevole, questo viene ripreso nel suo altro aspetto complementare e inscindibile di amore accogliente del discepolo verso la parola di Gesù, che innescherà in lui tutta una serie di eventi spirituali, che vanno dall'amore del Padre e di Gesù per lui alla comprensione che egli avrà del Mistero che vive ed opera in Gesù (v.21) fino a diventare egli stesso stabile dimora dei Due, venendo in tal modo coinvolto nella loro stessa vita (v.23). Quanto al tema della gloria, intesa qui come disvelamento e manifestazione del Mistero, che opera in Gesù, esso percorre i vv.4-11.13.31.

Il cap.14, contenutisticamente molto ricco e denso, ad una prima lettura, si presenta nel suo dispiegarsi strutturale, eufemisticamente parlando, molto complesso e problematico al punto tale da sembrare, in particolar modo nella sua seconda parte (vv.15-31), un disordinato e indistricabile accatastamento di temi, senza capo e senza coda, rendendo la lettura molto dispersiva e difficile. Tuttavia da un'attenta analisi si rileva come il cap.14, incluso dall'espressione “Il vostro cuore non si turbi” in 1a e 27b, si suddivide strutturalmente in due sezioni, contraddistinte sia tematicamente che da due diversi modi di procedere narrativo. Quanto al tema, la prima sezione (vv.1-14) riguarda, da un lato, il senso della missione di Gesù e gli effetti che essa produce sui discepoli (vv.1-7); dall'altro il Mistero che informa e sostanzia i rapporti di Gesù con il Padre (vv.8-11), mentre i vv.12-14 sono di transizione, perché nel concludere la prima sezione, traghetta il lettore al tema della seconda sezione (vv.15-31), il cui contesto è quello proprio della chiesa postpasquale. Non è un caso, infatti, che nei vv.12-14 vengano riepilogati sinteticamente i tre pilastri fondamentali su cui si strutturavano le prime comunità credenti e come tali le qualificavano: il credere nel nome di Gesù, l'operare nel suo nome (v.12) e il domandare nel suo nome (vv.13-14). In questa seconda sezione la tematica è triplice: a) la fedeltà del credente alla parola di Gesù, b) il dono dello Spirito, c) fede e comprensione dell'evento salvifico Gesù. Questa sezione si chiude con i vv.28-31 che riprende il tema del ritorno di Gesù al Padre in un contesto di addio.

Il cap.14 presenta una duplice struttura, che caratterizza le due sezioni. È strano come uno stesso capitolo venga strutturato in due modi radicalmente diversi e giustapposti l'uno di seguito all'altro e come questi due modi di procedere narrativamente trattino, come si è visto poco sopra, tematiche tra loro diverse. Tutto questo fa sorgere il sospetto che il materiale che compone questo variegato capitolo provenga da due diverse fonti, successivamente assemblate e tenute assieme da inclusioni, che ritroviamo nei vv.1a.27b e in 1b.11a e dai verbi di movimento andare, venire, ritornare che, pur percorrendo l'intero capitolo sono concentrati nei primi cinque versetti e poi ripresi sinteticamente al v.28 (“Vado e vengo da voi”), formando con questo una sorta di inclusione tematica.

La struttura, quanto alla prima parte (vv.1-14), procede per parole aggancio e tematiche (andare, strada/via e Padre), che danno scorrevolezza al discorso, anche se non si tratta mai di un discorso sotteso da ragionamenti dimostrativi, ma si muove per immagini finalizzate a creare impressioni e sensazioni nel lettore, spingendolo alla contemplazione di quanto viene enunciato. Quanto alla seconda parte (vv.15-31), essa è caratterizzata dal dispiegarsi parallelo di tre pensieri a spirale, tematicamente qualificati dall'amore del discepolo per la parola di Gesù (vv.15.21.23.24); dal dono dello Spirito, il nuovo Intercessore che prenderà il posto di Gesù (vv.16-18.26) e, infine, dall'imminente dipartita di Gesù (vv.4.12b.18.19-20), sulla quale viene posto un interrogativo (v.22), la cui risposta viene data al v.26.

La struttura del cap.14, pertanto, avrà il seguente andamento:

Parte prima (vv.1-14)

I primi 14 versetti si snodano a cascata, attraverso parole aggancio-tematiche, generando in cinque diversi passaggi altrettante riflessioni a tema:

  1. vv.1-4: parole tematica “andare-tornare”, che percorrono, come si è visto sopra, l'intero cap.14. Il v.4 termina con la parola aggancio-tematica “strada”;

  2. vv.5-6: tema della “strada”, introdotto in chiusura del v.4 e qui ripreso, porta alla scoperta della vera “Strada” che conduce al “Padre”. Quest'ultima parola funge da aggancio-tema ai successivi vv.7-11;

  3. vv.7-11: introdotti dalla parola Padre, questi versetti sviluppano la riflessione sui rapporti tra Gesù e il Padre. I vv.10.11 introducono un'altra parola aggancio-tematica: “credere;

  1. v.12: preannunciato dalla parola aggancio-tematica “credere”, il v.12 sviluppa una breve riflessione sulla necessità di credere in Gesù, a cui il discepolo viene assimilato dal proprio credere in lui;

  2. vv.13-14: questi due versetti non sono direttamente agganciati al v.12 da nessun termine tematico, benché in qualche modo vi siano associati dall'esigenza che il “chiedere nel nome” di Gesù comporti necessariamente il credere in lui.

Seconda parte (vv.15-27)

Con questa seconda parte si apre un nuovo modo di procedere nella riflessione: non più per parole aggancio-tematiche, ma per pensieri a spirale posti in parallelo tra loro, così che leggendoli di seguito, versetto dopo versetto, risulta un intreccio tematico indistricabile, che dà l'idea di un accatastamento di temi privi di logica nel loro procedere. Si rende pertanto necessario individuare i tre pensieri a tema che compongono questa seconda parte del cap.14, per poterne comprendere il significato nel suo svolgersi logico:

  1. vv.15.21.23.24: il v.15 enuncia il tema, che verrà in vario modo ripreso e sviluppato in quelli successivi: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”. Il tema dell'amore a Gesù è legato all'accoglienza della sua parola da parte del discepolo (v.15), che sarà a sua volta riamato sia dal Padre che da Gesù stesso, che gli si manifesterà nel suo Mistero (v.21); un amore che farà del discepolo la dimora stessa dei Due (v.23). Il vertice del pensiero, che spiega anche il motivo dell'amore e delle attenzioni del Padre verso il discepolo accogliente, è il v.24 in cui, con un modo di procedere al negativo, caratteristico della retorica ebraica, si attesta che la parola di Gesù è in realtà quella del Padre, creando in tal modo una identità, pur nella diversità di persone e ruoli, tra Gesù e il Padre, già preannunciata ai vv.9-11.

  2. vv.16-18.26: viene introdotto il secondo tema, quello dello Spirito, indicato come il nuovo Intercessore presso il Padre, che prende il posto di Gesù in mezzo ai discepoli (vv.16-18); il suo compito è quello di insegnare con verità ogni cosa ai credenti e farà ricordare anche quelle che Gesù ha detto (v.26). Il tema dello Spirito verrà poi ripreso dai vv. 15,26; 16,7.13-14 e si concluderà definitivamente in 20,22 con il dono dello Spirito da parte del Risorto. Questi ultimi versetti, tuttavia, non aggiungono nulla di nuovo a quelli in analisi, ma fungono da cassa di risonanza.

  3. I vv.12b.18.19-20.22 parlano dell'imminente dipartita di Gesù dal mondo, che non lo vedrà più, mentre i credenti continueranno a vederlo e a rapportarsi a lui nella fede dopo la sua ascesa al Padre (vv.19-20). La questione di come ciò sia possibile viene posta al v.22, la cui risposta viene offerta dal v.26: è lo Spirito che farà comprendere ogni cosa.

La pericope 28-31 tira un po' le fila di tutti i numerosi temi affrontati nel cap.14, portandoli a conclusione. In quel “Vado e vengo da voi” si richiama sia il ritorno al Padre che, in quel “vengo a voi”, il dono dello Spirito; il tema dell'amore autentico verso Gesù compare in quel “se mi amaste vi rallegrereste”. Una pericope questa in cui si respira forte l'aria dell'imminente dipartita e della fine del rapporto storico con Gesù, che si sta ora aprendo ad un livello superiore: quello della fede vissuta nell'amore per il Maestro.


Commento ai vv.1-14 (Parte prima)


Testo

1- <<Il vostro cuore non si turbi; credete in Dio e credete in me.
2- Nella casa di mio Padre vi sono molte dimore; se no, vi avrei detto che vado a prepararvi un posto?
3- E quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, torno di nuovo e vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi.
4- E dove io vado
conoscete la strada>>.
5- Gli dice Tommaso: <<Signore, non
sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la strada?>>.
6- Gli dice Gesù: <<Io sono la via e la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
7- Se mi aveste
conosciuto, avreste conosciuto anche il Padre mio. [E] fin d'ora lo conoscete e [lo] avete veduto>>.
8- Gli dice Filippo: <<Signore, mostraci il Padre e ci basta>>.
9- Gli dice Gesù: <<Sono con voi da tanto tempo e non mi hai
conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”?
10- Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere.
11- Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere.
12- In verità, in verità vi dico, chi crede in me anche lui compirà le opere che io faccio e (ne) farà di più grandi di queste, poiché io vado al Padre;
13- e ciò che chiederete nel mio nome questo farò, affinché sia glorificato il Padre nel Figlio.
14- Se mi chiederete qualcosa nel mio nome io (la) farò.

vv.1-6a: Questa pericope è caratterizzata dalla presenza di verbi di movimento (andare, tornare) e del sostantivo “ÐdÕj” (odòs, strada, via), che si ripete tre volte.

Il v.1 costituisce una sorta di titolatura dell'intero cap.14 e definisce le modalità con cui il credente deve affrontarne il contenuto: da un lato egli non deve turbarsi per quanto qui viene annunciato; dall'altro deve accoglierlo riponendo la propria fede in Dio e in Gesù. Compare ancora una volta il verbo “tar£ssw” (tarásso, turbare, agitare), un verbo che nei vangeli si presenta undici volte. Ma mentre nei Sinottici esso descrive lo stato d'animo dei discepoli di fronte all'irrompere del numinoso1, in Giovanni il verbo è usato prevalentemente per indicare lo stato d'animo di Gesù di fronte all'ora (12,27; 13,21) o a ciò che a questa allude, come la morte di Lazzaro (11,33); compare, poi, qui, ai vv.1a.27 sotto forma esortativa e al negativo, in un contesto di un'ora che ormai si è già attivata e si sta compiendo (13,1.31); ed infine viene utilizzato, ancora una volta, per definire l'agitarsi dell'acqua della piscina di Bethzatà ad opera dell'angelo nel racconto dell'infermo, quasi ad indicare l'azione rinnovatrice e rigeneratrice dello Spirito (5,7).

L'esortazione a non turbarsi, che qui si ripete due volte ai vv.1a.27, forma inclusione, mettendo tutto ciò che sta dimezzo sotto il segno del turbamento, e riguarda non soltanto gli eventi che da lì a poche ore travolgeranno Gesù, ma anche allo sconcerto che tali eventi devono aver causato nei discepoli. Essi si aspettavano un messia vincente e trionfante, mentre quello che hanno davanti e che per almeno due o tre anni hanno seguito credendo in lui, è uno sconfitto, un perdente in cui nessuno più credeva (12,37); ed ora li stava anche per lasciare, promettendo cose pressoché incomprensibili e difficilmente credibili. Come spiegare dunque tutto ciò a se stessi e poi a quanti li contestavano o li deridevano o chiedevano giustificazioni della loro fede in un crocifisso? Si sente qui il turbamento della comunità giovannea e del primo nucleo di discepoli di fronte agli eventi sconvolgenti che li ha messi a dura prova. Ecco dunque la seconda esortazione: “credete in Dio e credete in me”. Un'esortazione quanto mai necessaria per sostenere dei cuori titubanti, incerti e travolti dal dubbio2. Il verbo qui usato è al presente indicativo che dice la continuità e la persistenza del credere e, in quanto di natura parenetica, esso parla di un'esortazione a continuare a credere nonostante tutto. Il verbo credere, qui, è ripetuto due volte ed è riferito sia a Dio che a Gesù, un binomio e un parallelismo che legano strettamente i due nomi tra loro. Il nome Dio qui non va inteso come sinonimo di Padre, concetto sostanzialmente estraneo sia al mondo ebraico che a quello pagano, ma come il Dio dei Padri, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio della Promessa. Il sollecito a credere in questo Dio è seguito dal credere in Gesù ed è congiunto ad esso da un “kaˆ” (kaì, e), che non solo lo lega ad esso, ma il credere in Gesù diviene conseguente e conseguenza dell'aver creduto in Dio, poiché egli è la realizzazione di quella Promessa fatta ad Abramo e ai Padri (8,56; Mt 5,17). Vi è dunque una sovrapposizione o forse è meglio dire un trasferimento di fede, un confluire della fede in Jhwh in quella nel Gesù di Nazareth. Due tipologie di fede che tuttavia non sono tra loro in concorrenza e tanto meno l'una contrapposta all'altra, bensì la prima che si evolve nella seconda. Quale sia poi il rapporto che intercorre tra Gesù e il Dio della Promessa, che egli chiama Padre, tra lo stupore scandalizzato dei Giudei (5,18; 10,30-33), verrà definito ai successivi vv.9-11: Gesù e il Padre di fatto sono, pur nella distinzione delle persone e dei ruoli, una cosa sola (10,30). Si noti come in entrambi i casi il verbo credere è qui seguito dalla particella di moto a luogo “e„j” (eis, in, verso), che coglie la fede nel suo formarsi, richiamando sia il cammino di Israele nel deserto che quello delle prime comunità credenti nel loro costituirsi nel nome di Gesù, tra dubbi e incertezze. Ciò che qui sembra sottostare al v.1 e ai due seguenti è Dt 1,29-33 in cui Jhwh esorta il suo popolo a non temere (v.1), perché Lui lo precede nel cammino per preparargli un luogo dove accamparsi (vv.2-3): “Allora dissi a voi: Non spaventatevi e non abbiate paura di loro. Il Signore stesso vostro Dio, che vi precede, combatterà per voi, come ha fatto tante volte sotto gli occhi vostri in Egitto e come ha fatto nel deserto, dove hai visto come il Signore tuo Dio ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino che avete fatto, finché siete arrivati qui. Nonostante questo, non aveste fiducia nel Signore vostro Dio che andava innanzi a voi nel cammino per cercarvi un luogo dove porre l'accampamento: di notte nel fuoco, per mostrarvi la via dove andare, e di giorno nella nube3.

I vv.2-3, in cui i Padri della Chiesa, a partire da Ireneo (130-202 d.C.), videro una sorta di svelamento della vita nell'aldilà, identificando le “molte dimore” con i diversi gradi di beatitudine, contati in numero di sette dai rabbini, vanno ricompresi nel loro linguaggio simbolico e metaforico. Si tratta di un modo di esprimersi inusitato questo, che ha degli echi in Lc 16,9 che parla di “tende eterne” e Paolo di “dimora eterna non costruita da mani di uomo, nei cieli” (2Cor 5,1); ma, al di là di questi casi, non si trovano altri riscontri né nell'A.T. né nel N.T. anche se un qualche esempio lo si ha nella letteratura apocrifa come nel secondo libro di Enoch (I sec. d.C.), detto anche Enoch slavo, dove si parla del mondo futuro in cui ci sono molte dimore preparate per gli uomini buoni e cattivi4.

Il v.2 è scandito in due parti: la prima è un'affermazione con cui si attesta che nella casa del Padre ci sono molte dimore; la seconda è una sorta di prova che dovrebbe confermare la veridicità di 2a: “se no, vi avrei detto che vado a prepararvi un posto?”. Sennonché non risulta da nessuna parte che Gesù abbia mai detto una simile cosa o forse era stata affermata in precedenti edizioni del vangelo giovanneo, nella sua fase di formazione5, ma poi soppressa e qui non più corretta. La seconda parte del v.2 pertanto va ascritta alle numerose incongruenze letterarie che popolano il racconto giovanneo, dovute alla sua lunga gestazione e alle diverse mani che l'hanno elaborato6.

La casa del Padre, dove vi sono molte dimore, è una parafrasi per indicare il cielo, il luogo dove Dio abita. Un'immagine questa comune nel pensiero veterotestamentario, che si riscontra 11 volte7, mentre il tempio o il luogo del sacrificio è considerato come la porta del cielo (Gen 28,17). In questa dimora divina “vi sono molte dimore”. Non si tratta certamente di luoghi così come li intendiamo noi, né di dimensioni celesti o gradi di diversa partecipazione alla vita divina; certamente qui l'evangelista non vuole darci la mappa dell'aldilà, ma con linguaggio metaforico, in quel “molte dimore”, egli intende dire come la dimensione divina, propria del Padre, è aperta a tutti i credenti ed è raggiungibile da tutti; in altri termini i credenti, coloro che aderiscono esistenzialmente al messaggio del Padre manifestatosi in Gesù, sono resi partecipi della vita stessa di Dio (1,12-13). Quel “molte”, pertanto, è un ebraismo che sta per “tutti”. Un simile caso si presenta in Mt 20,28 in cui si dice che il Figlio dell'uomo è venuto “per dare la sua vita in riscatto per molti”, e parimenti in 26,28 in cui il sangue è “versato per molti”. La questione che si pone ora è come queste “molte dimore” siano raggiungibili dai credenti. Sarà compito del v.3 illustrarlo: “E quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, torno di nuovo e vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi”. Il linguaggio, come si è detto, è metaforico e in tal senso va compreso. Quando si parla di realtà trascendenti la metafora, il simbolo, la similitudine e l'immagine sono d'obbligo poiché essi forniscono una comprensione intuitiva di realtà che escono dalla nostra comune esperienza. Il v.3 si apre con un “kaˆ” (kaì, e) che lo lega al v.2 e lo prosegue completandolo, spiegando qui le dinamiche e il senso delle dimore e dell'andarle a preparare da parte di Gesù. Un versetto che presenta tutti i verbi al futuro, diversamente dal v.2, tutti al presente perché indicano una realtà in atto e che si perpetua nel tempo e quindi una realtà consolidata. I verbi al futuro, invece, qui indicano realtà che devono ancora accadere ponendo il lettore e il credente in un atteggiamento di attesa e di attenzione su questi accadimenti, che sono scanditi in tre espressioni significative, che vanno lette e comprese metaforicamente:

  1. Quando sarò andato”, l'espressione, caratteristica di Giovanni, non è nuova, ma ricorre numerose volte nel suo vangelo8 e indica il suo andare al Padre, mentre l'ora definisce lo spazio temporale entro cui Gesù opererà tale ritorno (13,1); un'ora scandita dalla sua passione, morte e risurrezione, cioè il processo della sua glorificazione (13,31). Il “Quando sarò andato” allude pertanto al “come” Gesù farà il suo ritorno al Padre: attraverso la sua morte e risurrezione;

  2. e vi avrò preparato un posto”, il posto di cui qui si parla, ormai lo si è capito, non è un luogo fisico o una qualche dimensione celeste in cui Gesù poi alloggia i suoi, ma l'espressione indica la disponibilità di accesso che i suoi hanno alla dimensione divina grazie al “suo essere andato”, cioè grazie alla sua morte-risurrezione, la chiave di volta dell'intera storia della salvezza, la conditio sine qua non. È significativo, infatti come le due espressioni, “Quando sarò andato” e “vi avrò preparato un posto”, siano non solo consequenziali l'una all'altra, ma siano strettamente legate l'una all'altra dalla particella “kaˆ” (kaì, e). In altri termini, l'accessibilità del credente alla vita divina e, quindi, la sua salvezza, dipende ed è strettamente conseguente alla sua morte e risurrezione, alluse dai verbi posti al futuro.

  3. torno di nuovo”, l'unico verbo al presente indicativo in mezzo a verbi al futuro. Non si tratta di una svista da parte dell'autore, poiché il presente indicativo dice una realtà già realizzata in un presente continuativo. Si ricade quindi nell'escatologia realizzata di marca giovannea; gli eventi che devono ancora accadere, infatti, sono vincolati non ai tempi spirituali già realizzati, ma a quelli storici e, di conseguenza, i verbi sono posti al futuro. Si rende tuttavia necessario comprendere cosa significa quel “torno di nuovo” reso in greco con un'espressione che può significare anche “vengo di nuovo” (“p£lin œrcomai”, pálin ércomai), poiché da questa espressione dipende anche il “vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi”. Gli eventi della morte-risurrezione inaugurano i tempi escatologici, poiché tali eventi sono gli ultimi, definitivi e, in quanto tali, irripetibili; tempi entro cui gli uomini sono, loro malgrado, collocati e coinvolti e chiamati a dare la loro risposta, sulla quale pesa già fin d'ora il giudizio divino. Questo contesto escatologico la chiesa del I sec. lo vedeva concluso con il ritorno glorioso di Gesù, che sentiva imminente e verso il quale era tutta protesa. Non è un caso, infatti, se l'Apocalisse, l'ultimo libro della Rivelazione, termina con l'invocazione “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). In questo contesto di attesa escatologica di un ritorno imminente “quel torno/vengo di nuovo” va saldato assieme al “vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi”. Ma una simile comprensione svaluta notevolmente la promessa di Gesù, poiché i fatti della storia l'hanno smentita seccamente e senza appello. La comprensione di quel “torno/vengo di nuovo” va definita non nel contesto dell'attesa escatologica, ma nel contesto di una escatologia qualificata dalla presenza non più del Gesù storico, bensì dello Spirito, colto come una emanazione del Risorto. Il “tornare/venire di nuovo” allude quindi al dono dello Spirito. È significativo, infatti, il v.18 dove Gesù, rivolto ai suoi, li avverte: “Non vi lascerò orfani, vengo a voi”, un versetto questo che conclude la promessa di Gesù, che pregherà il Padre perché mandi al suo posto un altro Intercessore, affinché sia sempre con loro; un Intercessore che Gesù indica come lo Spirito di verità (vv.16-17). Un Intercessore che il Padre manderà nel nome di Gesù, identificandosi in tal modo con Gesù stesso. Secondo lo schema culturale degli antichi, infatti, non vi è differenza tra mandante e mandato e l'operare nel nome rinsalda l'identità dell'uno nell'altro. Gesù, dunque, lega la sua presenza o, meglio, il suo nuovo modo di essere presente e, pertanto, il suo “venire di nuovo”, allo Spirito Santo, che egli effonderà sui discepoli il giorno stesso della sua risurrezione (20,22).

  4. e vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi”, letta in termini escatologici, resi definitivi dal ritorno glorioso di Gesù, che segna la fine dei tempi e della storia, fatta confluire ormai nell'eternità di Dio, dove troverà ogni suo compimento, l'espressione acquista il senso di un “trasferimento fisico” dei discepoli, in attesa dell'evento, dalla storia alla dimensione divina. Una simile comprensione delle cose all'interno della chiesa del I sec. ci viene testimoniata dallo stesso Paolo nella sua 1Ts 4,13-18: “Non vogliamo poi lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi, per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole”. Ma poiché siamo ancora qui a parlarne, ciò significa che anche questa comprensione di Paolo, formulata tra la fine dell'anno 50 e primi 51, tempo in cui egli scrisse la sua prima lettera ai Tessalonicesi, lo scritto cristiano più antico, non era quella esatta, almeno non nei termini descritti. Tuttavia, l'espressione in analisi parla del discepolo che Gesù, dopo la sua dipartita presso il Padre, quindi già nella pienezza della sua gloria, prenderà presso di sé per essere con lui, e, come lui, anch'egli sia presso il Padre in una profonda comunione osmotica di vita: lui con e in Gesù, che è con e nel Padre; uno stato di vita che Gesù stesso invoca dal Padre in 17,23-24: “io in loro e tu in me, [...]. Padre, ciò che mi hai dato, voglio che dove sono io anche quelli siano con me, affinché vedano la mia gloria, che mi hai dato, poiché mi hai amato prima della creazione del mondo”. Si noti qui il contrasto dei tempi verbali, tra li “prenderò presso di me”, futuro, e i verbi tutti al presente di 17,23-24, che indicano uno stato di vita già realizzato. Il senso di quel “prenderò” non riguarda i tempi escatologici, ma una successione di eventi che si compiono qui nella storia: morte, risurrezione e dono dello Spirito. Il futuro riguarda dunque la successione storica di questi eventi e non l'escatologia, che, invece, 17,23-24 vedono già realizzata qui e ora, sia pur in uno stato di vita non ancora definitivo e compiuto. Quel “prenderò presso di me” allude dunque ad uno stato di vita che si compirà soltanto con il dono dello Spirito, che assimila il credente a quello del Risorto, condividendone già fin d'ora la sorte. Paolo alluderà a questo stato di cose in Rm 6,3-6 in cui vede il credente unito già fin d'ora, per mezzo del battesimo, alla morte e sepoltura di Gesù in prospettiva della sua risurrezione, che già fin d'ora si manifesta con il “camminare in una vita nuova”. Sulla stessa linea, ma in modo più esplicito, è l'autore della lettera ai Colossesi, che vede nella morte e risurrezione di Gesù l'azione potente del Padre che “ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto” (Col 1,13b). La conseguenza di questo nuovo stato di vita viene indicata dall'esortazione di Col 3,1-4: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria”. Per l'autore, dunque, siamo già con-risorti con Cristo e se ciò ancora non appare è perché la nostra vita, rigenerata dalla potenza della risurrezione per mezzo dello Spirito, è nascosta assieme a Cristo in Dio. Ma, prosegue l'autore, questo nostro nuovo stato di vita si renderà pienamente manifesto alla fine dei tempi, quando egli si manifesterà nella sua gloria. In altri termini, i credenti vivono già immersi in queste nuove realtà spirituali, di cui sono permeati; realtà che palpitano nel credente e che lo impegnano ad uno stile di vita che consenta loro di manifestarsi. Il credente, pertanto, è chiamato, già da subito, a conformare la propria vita a queste realtà divine in cui è immerso e già fin d'ora ne fa parte, anche se non in modo definitivo e manifesto. Tutto ciò dipende dal dono dello Spirito, che Ef 1,13-14 vede quale caparra, cioè anticipazione, qui e ora, delle realtà spirituali inaugurate dalla morte-risurrezione di Gesù: “In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria”. Quel “vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi” dice pertanto l'azione dello Spirito che mette il credente fin da subito in una stretta comunione con il Risorto e già fin d'ora egli vive in Cristo in seno al Padre, divenuto anche Padre suo (20,17). Lo Spirito, infatti, è potenza di Dio che opera ogni rigenerazione, ogni trasformazione e rende possibile la filiazione divina del credente in e con Cristo, imprimendo in lui il DNA di Dio (1,12-13).

I vv.4-6 sono caratterizzati sia dalla presenza del termine “ÐdÒj” (odós, via, strada), che si ripete tre volte e funge da tema ed ha il suo vertice nel v.6, dove Gesù dichiarerà di essere lui la Via che conduce al Padre; sia dal verbo “oŒda” (oîda, conoscere, sapere), che fa emergere la discrepanza tra il conoscere che Gesù attribuisce ai discepoli circa la via (v.4) e il loro, invece, non poter conoscere (v.5). Sarà soltanto il dono dello Spirito, come vedremo, che colmerà questo divario.

Il v.4 è un versetto di transizione che dal tema dell'andare e del ritornare, i movimenti di Gesù nei confronti del Padre e dei credenti, in cui essi sono coinvolti, transita il lettore a quello della via, quale sbocco naturale e conseguente a questi verbi di movimento. La strada, infatti, è il luogo dell'andare e del ritornare; il luogo della transizione, che consente di raggiungere la destinazione desiderata. Temi questi legati tra loro non soltanto per immagini, ma anche per parole aggancio come l'avverbio di luogo “dove”, con cui si chiude il v.3 e si apre il v.4 e poi il termine “strada, via”, il quale oltre che fungere da tema lega tra loro i vv.4-6. Si rileva qui lo sforzo dell'autore di dare compattezza e unità ad un discorso che è formato da un assemblaggio di tante unità narrative, tematicamente diverse tra loro, cosa che apparirà più evidente nella seconda parte del cap.14 (vv.15-31).

Il v.4, pur nella sua brevità, è scandito in due parti: la prima contiene la meta verso la quale Gesù sta andando: “Dove io vado”. Si tratta di una meta volutamente oscura, che spingerà Tommaso a riprendere la questione (v.5) e, tramite la tecnica del fraintendimento, rilanciare il tema portandolo a conclusione (v.6). Tecnica che verrà ripresa subito dopo al v.8, dove Filippo chiede a Gesù di mostrargli il Padre e che consentirà all'autore di approfondire il tema dei rapporti tra Gesù e il Padre (vv.9-11). Il verbo qui usato per indicare l'andare di Gesù è “Øp£gw” (ipágo,), un verbo che ricorre 32 volte in Giovanni e che molto spesso ha a che vedere con l'andare di Gesù verso il Padre. La comparsa di questo verbo in questo contesto, se da un lato obbedisce alla tendenza dell'autore, dall'altro dispiega una pluralità di significati che arricchiscono il senso dell'andare di Gesù. Il verbo, infatti, oltre che andare o recarsi, significa anche mettere in potere di qualcuno, sottoporre, condurre, ritirarsi, trarre dalla propria parte, attrarre. Il dove Gesù va pertanto non dice un semplice movimento verso un luogo, ma è un andare che vede un Gesù che “si ritira”, cioè pone termine alla sua missione terrena; un andare che dice il sottoporre al Padre non soltanto se stesso, ma anche tutti quelli che egli, elevato sulla croce ha attratto a sé (12,32); il Padre, infatti, gli ha dato potere su ogni essere umano, perché questi abbia la vita (17,2); un andare che diviene sinonimo anche di condurre al Padre tutti quelli che il Padre gli aveva affidato (17,12; 18,9). Una visione questa che riprende quella di Paolo in 1Cor 15,27-28 dove il Padre ha sottomesso tutto a Gesù e questi, una volta che tutto ha sottomesso a sé, sottomette anche se stesso al Padre, riconducendo il tutto in seno a Dio, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti com'era nei primordi della creazione e dell'umanità.

La seconda parte del v.4 attesta la conoscenza dei discepoli circa la strada che conduce al “Dove” Gesù è diretto. Il verbo che qui è usato è “oŒda” (oîda), il verbo della conoscenza che ha raggiunto il Mistero e che caratterizza il conoscere del credente e della stessa comunità giovannea, che nel vangelo compare come il soggetto sottinteso di “o‡damen” (oídamen, sappiamo) e non di rado si contrappone al presunto sapere del giudaismo9. Ciò che i discepoli conoscono è la strada dove Gesù è diretto. Strada, via, conoscenza, verità, vita, tutti termini mutuati dal linguaggio gnostico, un linguaggio molto potente ed efficace per penetrare il Mistero, poiché si muove attraverso immagini, che facilmente si prestano alla metafora e al simbolismo; un linguaggio di cui Giovanni si serve, senza indulgere, tuttavia, al pensiero gnostico, ma attribuendo ad esso significati e contenuti nuovi, che hanno come sfondo il Mistero di Gesù sia come persona che nei rapporti con il Padre10. Ma quello della “via”, termine che in Giovanni ricorre soltanto tre volte e soltanto qui, ai vv.4-6, se si eccettua la citazione isaiana di 1,23, non è patrimonio esclusivo della Gnosi, ma anche dell'A.T., che Giovanni nella sua opera sta rileggendo in chiave cristologica. La via, termine che ricorre una sessantina di volte nel Primo Testamento, dove compare nelle diverse forme di “Via del Signore”, “Via di Dio” o “mie vie”, “sue vie” e definisce in genere la volontà divina, il cammino che rende graditi a Dio e in particolare la stessa Torah in tutte le sue espressioni. Tutto ciò, ora, sta per ricevere una nuova ridefinizione risignificazione in termini cristologici.

La certezza che Gesù ha manifestato al v.4, cioè che i discepoli conoscono la via, viene subito smentita, al v.5, da Tommaso, che qui con il suo fraintendimento funge da spalla a Gesù, consentendogli il rilancio della sua affermazione, che giungerà a compimento al v.6. All' “o‡date” (oídate, conoscete, sapete) di Gesù, si contrappone, dunque, l' “oÙk o‡damen” (uk oídamen, non conosciamo, non sappiamo) di Tommaso, che lascia intendere come all'interno della comunità giovannea non tutti erano giunti ad intuire il Mistero che si agitava in Gesù. Tommaso, infatti, è figura di questo tipo di comunità. Non è un caso se il suo nome compare sei volte nel racconto giovanneo e sempre in contesti dove egli assume il ruolo di chi ha difficoltà a comprendere le cose ed è diffidente nei confronti del soprannaturale11. Il non sapere di Tommaso denuncia dunque non solo la difficoltà del comprendere, manche del credere. Ecco dunque in 5b la questione di fondo che Tommaso pone a Gesù: “come possiamo conoscere la strada?”. Un'espressione questa che se letta all'interno dell'economia narrativa del v.5 acquista il significato di un fraintendimento con uno sfondo leggermente ironico da parte di Tommaso; ma nel contempo, secondo la tecnica dei doppi sensi che Giovanni attribuisce talvolta a certe parole o espressioni12, essa lascia intendere anche una reale richiesta di conoscenza. Colta da questa prospettiva, la domanda di Tommaso acquista un significato di ricerca metafisica del sapere e cioè in quale modo essi possono addentrasi nella conoscenza del Mistero. È ciò che dicono i due verbi: “dun£meqa [...] e„dšnai” (dinamétza … eidénai, possiamo … conoscere). La risposta che Gesù dà al v.6 sembrerebbe soddisfare la richiesta di Tommaso, ma in realtà, Gesù si limita ad indicare se stesso come la Via; ma questo non spiega come ciò sia possibile. Gesù, infatti, è il Mistero da chiarire e da comprendere. Non si può spiegare il Mistero con il Mistero stesso. Il Mistero rimane tale finché qualcuno non lo spiega. La richiesta di Tommaso è ben chiara: “come possiamo … conoscere”. La risposta che Gesù dà, invece, risponde alla domanda “che cos'è o chi è questa strada” e non come loro possano conoscerla. La risposta che soddisferà la richiesta di Tommaso, dunque, non viene da Gesù, ma da un'altra fonte che darà ai credenti il potere di conoscere, cioè di penetrare il Mistero: “Vi ho detto queste cose mentre sto con voi; ma l'Intercessore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi” (vv.25-26); un'attestazione che verrà ripresa e approfondita in 16,12-13: “Ho da dirvi ancora molte cose, ma ora non potete sopportar(le); ma allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità intera; infatti, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono”. Solo il dono e l'azione dello Spirito, dunque, possono consentire al credente di superare i limiti della sua comprensione umana per accedere alle profondità del Mistero divino di fronte al quale Tommaso si è sempre fermato e che l'autore indica in quel “vi guiderà alla verità intera ”. Vi è dunque un contrasto tra il dire di Gesù e la comprensione del suo dire, il cui senso profondo, quello che svela il Mistero che è in lui, può essere raggiunto soltanto attraverso l'azione dello Spirito. È dunque lo Spirito che colma il divario tra il dire di Gesù e la sua comprensione da parte dei discepoli. Quei “ma” che ho messo in evidenza nelle citazioni qui sopra dicono proprio questa discrepanza tra il dire e la comprensione del dire, indicando nello Spirito l'agente che colmerà questa carenza.

I vv.6.9-11 costituiscono il cuore dell'intero cap.14 in quanto di natura rivelativa e dottrinale. Infatti, mentre il v.6 rivela la vera identità di Gesù nei confronti dei credenti, i vv.9-11 rivelano la dinamica relazionale che anima i rapporti tra Gesù e il Padre, ma nel contempo svelano la vera identità e natura di Gesù nella sua relazione con il Padre. In questi pochi versetti tutto si gioca a livello ontologico e quindi sulla Verità del Mistero che vive ed opera in Gesù. Sarebbero sufficienti questi versetti, a mio avviso, per giustificare l'intero vangelo giovanneo, così come l'intero vangelo giovanneo potrebbe essere ricondotto a questi quattro versetti, che ne costituiscono il fondamento e la chiave di lettura.

Il v.6 riporta la risposta di Gesù a Tommaso (“Gli dice Gesù”), che è scandita in due tempi: il primo è di ordine assertivo: “Io sono la via e la verità e la vita”; il secondo di ordine specificativo: “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. L'accento qui cade sul sostantivo “ÐdÕj” (odòs, via), poiché esso non solo è il tema centrale dei vv.4-6, ma è anche ciò che spiega la seconda parte del v.6, mentre gli altri due termini, verità e vita, si accodano senza trovare sviluppo successivo. L'osservazione ci aiuterà a comprendere il v.6a in cui si pongono in sequenza “via, verità e vita”. Osserva in proposito il Brown, come “Il problema più difficile riguarda il rapporto di questi tre sostantivi l'uno con l'altro” e di seguito propone un sommario di opinioni riportate da De La Potterie13. Similmente il Léon-Dufour propone tre letture diverse del v.6a14. Per quanto mi riguarda mi atterrò al testo senza volerlo parafrasare, poiché esso si presenta sufficientemente chiaro da non dover essere manipolato per poterne trarre un qualche significato.

La parte assertiva si apre con la nota espressione giovannea “Io sono”, che richiama il nome di Jhwh con cui Dio si è presentato a Mosè sul monte Oreb (Es 3,14). Questa espressione è seguita da tre predicati nominali, tre sostantivi cioè che dicono che cos'è quel “Io sono” e ne definiscono in qualche modo la natura, rendendolo così maggiormente accessibile all'uomo15. I tre predicati sono strettamente legati tra loro dalla congiunzione “kaˆ” (kaì, e) così da presentare tre sfaccettature diverse della stessa realtà, non contrapposte o alternative l'una all'altra, ma l'una che si integra nell'altra. Esse si presentano come una sorta di sintesi formidabile dei temi variamente trattati nel vangelo giovanneo riguardanti la verità e la vita16 e che qui convergono tutti nell' “Io sono”, cioè nella divinità stessa di Gesù, l' “Io sono” giovanneo per eccellenza. Il tema della verità ricorre espressamente 25 volte in tutto il vangelo e con i suoi derivati di “vero”, “veritiero” e “veramente” assomma per un totale di 55 volte. Un tema, quello della verità, da cui Giovanni sembra particolarmente affascinato; una verità che per l'evangelista è essenzialmente “rivelazione”, così che Gesù è per eccellenza il luogo della rivelazione del Padre e il suo operare è manifestativo di quello del Padre (vv.9-11); e il senso del suo essere nato e venuto in questo mondo è proprio quello di rendere testimonianza alla verità (18,37). Similmente e non da meno il tema della vita permea l'intera contemplazione giovannea e l'abbraccia in una grande inclusione, i cui limiti sono segnato dai vv. 3,15 e 20,31. Un termine quello di “vita” e dei suoi derivati “vivificare” e “vivere” che ricorrono 64 volte. Fin dalle prime battute del racconto giovanneo la vita viene identificata con il Logos eterno del Padre, una vita che diviene luce per gli uomini (1,4) così che chiunque crede in lui abbia in dono tale vita e in essa sia accorpato (3,15). Anche questo tema, ampiamente ricorrente nel vangelo giovanneo, trova il suo momento di sintesi nell' “Io sono”, vita donata dal Padre a favore degli uomini (3,16a); e vita offerta da Gesù (10,18.28). Già dunque nel corso del racconto Gesù è stato ampiamente contemplato come verità e vita. Non c'è dunque ulteriore bisogno di aggiungere altro ai due predicati nominali dell' “Io sono” se non che egli è anche “Via”, una novità assoluta che si presenta soltanto qui e il cui senso è spiegato in 6b: “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. L'espressione qui assume i ritmi di una sentenza che in quel “nessuno” acquista una valenza di universalità. Tutto è giocato sulle preposizioni “prÒj” (prós, verso), che indica la meta raggiungibile grazie al “di£” (diá, per mezzo, attraverso), la preposizione che fa di Gesù la Via, mentre il verbo di movimento “œrcetai” (érchetai, viene) indica la necessità di muoversi su questa Via, che conduce alla meta, il Padre. L'unicità e l'esclusività di tale Via è espressa non solo dall'articolo determinativo (“Io sono la via”) con cui è definita, ma anche dal pronome “nessuno”, per cui non esistono altre vie simili o parallele attraverso le quali qualcuno possa raggiungere il Padre. Altrove, in 6,44.45.65, si dirà che nessuno può raggiungere Gesù se non è attirato dal Padre verso di lui, creando in tal modo un circolo virtuoso, vitale e dinamico che dice la reciprocità e la compenetrazione dei Due (v.11) e che fa di loro una cosa sola (10,30). È dunque il Padre che spinge il credente nel Figlio, perché in lui trovi la Via che lo porti verso di sé; così che Gesù diviene il cuore del progetto salvifico del Padre, in cui egli ci ha scelti ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e in cui tutto è stato ricapitolato (Ef 1,10), perché tutto a lui sottomesso fosse ricondotto in Lui (1Cor 15,28). Compare qui, al v.6b, la parola Padre, un altro termine che funge da aggancio e da tema, che verrà ripreso dal v.7 e rilanciato e approfondito dai vv.9-11.

Il v.7 è un versetto di transizione, perché nel riepilogare quanto fin qui detto ai vv.4-6 (tema della conoscenza di Gesù quale Via esclusiva per raggiungere il Padre) introduce il lettore ad un nuovo tema o forse è meglio dire ad un tema integrativo a quello precedente e lo va a completare: i rapporti di Gesù con il Padre. Gesù, dunque, non solo Via per raggiungere il Padre, ma anche Verità che illumina il Mistero di Vita che lega lui al Padre e il Padre a lui. Siamo quindi qui giunti nel cuore del Mistero e della Rivelazione. Si tratta di un versetto tematico, poiché anticipa sinteticamente quello che verrà sviluppato ai successivi vv.9-11. Gesù, infatti, afferma che conoscere lui è conoscere il Padre, lasciando in tal modo intravvedere una sorta di identità tra lui e il Padre; identità che viene confermata in 7b, dove si attesta che di fatto i discepoli già conoscono questo Padre e già lo hanno veduto; l'allusione qui è chiaramente riferita alla persona di Gesù, in cui si riflette l'agire del Padre. Come ciò sia possibile saranno i vv.9-11 a precisarlo. Significativo è qui il cambio dei verbi: dall' “oîda” dei vv.4.5, con cui si definiva una conoscenza già raggiunta (“dove io vado conoscete la strada”), al “gignèskw” (ghighnósko) dei vv.7.9, il verbo del conoscere nella sua fase di accesso al Mistero. Infatti, Gesù, a differenza dal v.4, qui, di fatto nega la conoscenza dei discepoli per quanto riguarda i suoi rapporti con il Padre e quindi la realtà del Mistero che in lui vive: “Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche il Padre mio” (v.7a) e parimenti in 9a: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo?”. Il tema, dunque, della conoscenza del Padre in Gesù, quale sua espressione manifestatrice e rivelatrice, e la dinamica che regola i loro rapporti sono una verità ancora del tutto sconosciuta e che deve essere ancora raggiunta, cosa che avverrà attraverso la successiva dichiarazione di Gesù ai vv.9-11. Il verbo, quindi, qui non poteva che essere “gignèskw”(ghighnósko), il verbo della conoscenza in cammino verso la pienezza dell' “oîda”.

vv.8-11: il tema dei rapporti tra Gesù e il Padre, introdotto dal v.7, viene qui ripreso e rilanciato attraverso la tecnica del fraintendimento, caratteristica di Giovanni, che vede qui come protagonista Filippo: “Gli dice Filippo: <<Signore, mostraci il Padre e ci basta>>”. Se attore del primo fraintendimento era Tommaso (v.5), il discepolo caratterizzato dalla sua difficoltà a credere e dalla sua scarsa dimestichezza con il soprannaturale, incapace, proprio per questo, di accedere al senso arcano delle parole di Gesù, che nell'annunciare il suo ritorno al Padre (“dove io vado”), indicava se stesso come via che conduce a lui (“conoscete la strada”), qui, al v.8, protagonista è Filippo, un nome che compare nel vangelo giovanneo 12 volte ed è sempre legato ad un contesto rivelativo, di cui egli non di rado, ricopre il ruolo principale17. Non fa dunque eccezione neppure qui al v.8, allorché egli sollecita Gesù a “mostrar loro” il Padre. Si noti come qui Filippo non pone un interrogativo su ciò che Gesù sta dicendo, la quale cosa lascerebbe supporre l'ignoranza di ciò che si chiede, come avvenne per Tommaso (v.5), ma esorta Gesù a “mostrare” il Padre. Significativo è il verbo greco qui usato per definire il “mostrare”: “deknumi” (deíknimi), un verbo che compare nei vangeli 17 volte, di cui 10 volte nei Sinottici con il significato di mostrare un qualcosa nel senso comune del termine; soltanto in Mt 16,21 “deíknimi” assume un significato rivelativo: “Da allora Gesù incominciò a rendere noto ai suoi discepoli che lui bisogna che vada a Gerusalemme e che patisca molte cose dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi e che sia ucciso e al terzo giorno sia risuscitato”. Vi è qui, infatti, l'annuncio rivelativo del mistero della salvezza, di cui è protagonista Gesù, e che assieme a quel “bisogna” lascia intendere come tutto sia inscritto nel piano salvifico del Padre, che Gesù sta attuando. Quanto a Giovanni il verbo “deíknimi” compare sette volte e in tutti i casi è associato a contesti rivelativi o ha a che fare con il manifestarsi del Mistero che opera in Gesù18. L'insieme dei due elementi narrativi, il nome Filippo, legato ad eventi rivelativi, e il verbo “deíknimi”, avvertono il lettore che egli qui sta per accedere ad una rivelazione (vv.9-11). Quel “mostraci il Padre”, infatti, richiama da vicino Es 33,18, in cui Mosè chiede a Dio di mostrargli la sua gloria. Anche qui compare lo stesso verbo esortativo: “De‹xÒn” (Deîxon, mostra).

All'esortazione di Tommaso fa seguito la risposta di Gesù, che viene scandita in tre parti e nel suo dispiegarsi rassomiglia ad una sorta di sillogismo, caratterizzato da una concatenazione di enunciazioni consequenziali tra loro:

  1. v.9: l'enunciato: “chi ha visto me ha visto il Padre”. È questo il cuore della questione, per la cui comprensione l'autore, attraverso l'espressione “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo?”, rimanda il suo lettore a rileggersi e a ricomprendere i primi 12 capitoli, il Libro dei Segni, da cui si può evincere il profondo rapporto di comunione simbiotica che lega Gesù al Padre e tale da farne una cosa sola (10,30). Vi è infatti un forte parallelismo e un'armonica consonanza nel fare e nel dire tra Gesù e il Padre (5,17), così che Gesù senza il Padre non può fare nulla, lasciando intuire come nell'agire di Gesù si rifletta quello del Padre (5,19.30); così come è vero che il Padre rimane irraggiungibile e chiuso nel suo Arcano senza il Logos attraverso cui si manifesta, rendendosi raggiungibile dagli uomini e ad essi si rivela. Un'intima e reciproca compenetrazione, quasi osmotica, infatti, lega i Due, così che Gesù attesta pubblicamente che egli e il Padre sono una cosa sola (10,30); del resto già lo aveva lasciato intuire in 8,19 dove vengono anticipati in qualche modo i vv. 14,8-9: “Gli dicevano, dunque: <<Dov'è tuo padre?>>. Rispose Gesù: <<Non conoscete me né mio Padre; se conosceste me, conoscereste anche mio Padre>>”, quasi che i Due posseggano la stessa identità; per questo onorare e rispettare Gesù significa parimenti onorare e rispettare il Padre, che in Gesù si riflette (5,23). Questo profondo legame di conoscenza reciproca e intercompenetrativa si origina dal fatto che Gesù viene dal Padre, è uscito da lui, anzi da lui è stato mandato (7,29;8,42;10,15a). Non si tratta infatti di una conoscenza intellettuale o di apprendimento accademico, ma di esperienza reciproca, che qualifica simbiotica la vita dei Due. Ma è in particolare nell'ultimo proclama conclusivo e riepilogativo della predicazione di Gesù (12,44-50) che vengono in qualche modo prefigurati i vv. 14,9-11: “Ora Gesù gridò e disse: <<Chi crede in me non crede in me, ma in colui che mi ha mandato, e chi vede me, vede colui che mi ha mandato […] Poiché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre che mi ha mandato, egli mi diede istruzione (di) che cosa dirò e (di) che cosa parlerò. E so che la sua disposizione è vita eterna. Quelle cose, dunque, di cui io parlo, come il Padre me (le) ha dette, così parlo” (12,44-45.49-50). Ecco dunque perché Filippo avrebbe dovuto conoscere come in Gesù si riflette il Padre, perché nei primi 12 capitoli vi è stato un cammino di conoscenza, qui espressa dal verbo “gignèskw”, che avrebbe dovuto portare Filippo all'assodamento della conoscenza definitiva, quella dell' “oŒda”. Per questo Gesù ironicamente stupisce di fronte alla sollecitazione di Filippo, che, a buon mercato, vorrebbe, quasi per miracolo, che Gesù facesse loro comparire lì il Padre e farglielo conoscere. Ma nella grande visione e comprensione della fede, che apre e introduce nel Mistero, non c'è nulla di miracoloso, ma essa è la conclusione di un lungo cammino di conoscenza, che ha la sua origine nell'incontro e nella sequela di Gesù, che ai suoi primi due discepoli sollecita: “Venite e vedrete” (1,39a), come dire: per mezzo della sequela (venite), che è esperienza di Gesù, giungerete alla comprensione del mio Mistero (vedrete). Ed è proprio questo verbo al futuro che dice come attraverso un cammino di evoluzione spirituale e di conoscenza, caratterizzato dallo stare insieme a Gesù, che si giunge alla conoscenza del suo Mistero, a vedere in lui il Padre; un vedere qui espresso con il verbo “Ðr£w” (oráo), il verbo della fede compiuta. Un vedere che qui è posto al perfetto indicativo, un tempo che esprime uno stato presente che proviene e dipende da un'azione passata, quella dell'incontro che si fa sequela, sequela che diviene esperienza, esperienza che è conoscenza, conoscenza che introduce nel Mistero.

  2. v.10: l'asserzione dimostrativa: “Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere”. Il v. 10 è scandito in due parti: a) l'enunciazione rivelativa che Gesù e il Padre sono reciprocamente compenetrati l'uno nell'altro, così che l'uno (Gesù) è la naturale espressione dell'altro (il Padre); questa prima parte forma inclusione con il v.11a, che si apre riprendendo in forma esortativa il v.10a; b) vengono indicate le conseguenze di questa forma simbiotica e osmotica di questo modo di essere dei Due, che li porta ad esprimersi necessariamente all'unisono. Siamo giunti qui nella profondità del cuore del Mistero, per questo il v.10 si apre con un “non credi …?” interrogativo, poiché per accedervi è necessario il credere, che apre alla visione del Mistero stesso, consegnandolo al credente e rendendolo partecipe. Siamo qui trasportati nell'ontologia stessa di Dio e ci viene rivelata l'architettura del suo modo di essere, che regola i rapporti tra i Due, che si esprimono in una profonda comunione che è reciproca compenetrazione espressa con quel “™gë ™n tù patrˆ” (egò en tô patrì), “io nel Padre”, e la formula complementare “Ð pat¾r ™n ™mo…” (o patèr en emoí), “il Padre in me”; entrambi dunque sono l'uno nell'altro, la cui profondità è espressa da quel “kaˆ” (kaì, e) che salda tra loro le due formule, facendo di questo modo di essere, di vivere e di esprimersi dei Due una realtà inscindibile e tale da farli una cosa sola (10,30). Come ciò sia possibile non ci è dato di sapere. Tuttavia conosciamo ciò che produce una simile compenetrazione osmotica e simbiotica: l'amore, che riferito a Dio non va inteso come un sentimento, ma come una potente dinamica che regola i rapporti dell'essere dei Due, per cui esso si configura come una totale e piena apertura dell'uno nei confronti dell'altro; una piena e totale donazione dell'uno all'altro; una piena e totale accoglienza dell'uno nell'altro. Ma qui si ferma la nostra conoscenza del Mistero, che tuttavia ci consente di comprendere le conseguenze di questo loro modo di essere: “Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere”. Un modo strano di esprimersi: si inizia con le “parole” e si termina con le “opere”. Ci saremmo aspettati: “ma il Padre che rimane in me le dice”. Invece qui le “parole” sono sostituite dal termine “opere” quasi a dire che non vi è differenza tra il dire e l'operare, poiché di fatto Gesù è il Dabar del Padre, cioè la parola che è azione, una parola che nell'esprimersi diventa azione e come tale si qualifica come parola stessa di Dio, poiché il dire in Dio coincide con il fare. L'atto creativo infatti si compie attraverso la parola: “E Dio disse … e fu” (Gen 1,3); lo stesso Giovanni nel suo prologo afferma che tutto è stato creato per mezzo della Parola, che è Azione del Padre, verso il quale essa è costantemente rivolta (1,1): “Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna cosa” (1,3). Gesù, dunque, è voce e azione del Padre, suo luogo storico di manifestazione e di rivelazione. Questo è possibile poiché “il Padre rimane in me”, un'espressione che riprende la formula “il Padre è in me”, di cui viene qui sottolineata la costante permanenza, che esprime lo stato di vita dei Due.

  3. v.11: la conclusione esortativa: “Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere”. Questo versetto si costituisce come la parte conclusiva di questa potente rivelazione che ci ha introdotti nello stesso Mistero di Dio. Esso non aggiunge nulla di nuovo a quanto fin qui detto, ma si limita a riprendere, sintetizzandolo, il v.10. Una nota va spesa sull'insistenza del credere, verbo presente tre volte nei vv.10.11, la prima volta in forma dubitativa, la seconda volta in forma esortativa, quasi un sollecito a passare da una fede fragile, assalita dal dubbio ad una solida e decisa, l'unica che consenta di penetrare nel Mistero e farne in qualche modo parte. Ma questa insistenza sul credere predispone il lettore al v.12.

I vv.12-14 potremmo considerarli come il passaggio dal rapporto Gesù-Padre (vv.8-11) a quello Gesù-discepolo; un rapporto che ha come fondamento primario e imprescindibile quello del credere (v.12), da cui dipende poi anche la capacità di un chiedere efficace, finalizzato alla glorificazione del Padre nel Figlio (vv.13-14). È dunque questo rapporto, fondato sul credere, che orienta il credente in Gesù, quale sorgente primaria di soddisfazione dei propri bisogni spirituali, che diviene atto celebrativo e glorificativo del Padre. Un concetto questo che verrà ripreso in 15,8: “In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”; discepoli che diventeranno oggetto della preghiera sacerdotale di Gesù nel cap.17.

L'esortazione a credere del v.11 sfocia al v.12 in una sentenza che ha per tema il credere in Gesù e si apre con la nota formula giovannea che imprime alla sentenza stessa il carattere della veridicità, dandole un tono di solennità ed evidenziandone l'importanza: “In verità, in verità vi dico”. L'uso poi dell'anonimo e generico pronome relativo “chi”, quale soggetto del credere in Gesù, attribuisce alla sentenza un tono di universalità. Un credere fatto seguire dalla particella di moto verso luogo “e„j” (eis, in, verso) designa questo credere come un cammino esistenziale orientato verso Gesù, proprio del discepolo, che ha fatto della sua vita un atto di fede nel suo Maestro. Il credere in lui comporta di fatto una assimilazione del credente a Gesù, sottolineata dall'espressione “anche lui”, che lo vede operare parimenti al suo Maestro. Il rapporto che Gesù tiene con il Padre viene qui esteso anche a quello che Gesù tiene con il credente. Se Gesù è il luogo del manifestarsi e dell'operare del Padre, il discepolo diviene con quel “anche lui”, che lo associa a Gesù, il luogo del manifestarsi e dell'operare di Gesù. Paolo esprimerà questo concetto in Gal 2,20a: “[...] non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. I tempi verbali, che hanno per soggetto il credente, sono posti al presente indicativo per quanto riguarda il suo credere (“chi crede”), per esprimerne una continuità nel tempo; un credere che si origina in Gesù e in lui si incardina; mentre per ciò che concerne il suo operare il tempo verbale è posto al futuro (compirà, farà), che è il tempo proprio della chiesa; un operare che in essa si perpetua lungo i secoli, ma che ha sempre la sua origine in Gesù e in lui si mantiene sempre vivo nel tempo. Ciò che il credente compirà sono le opere stesse di Gesù, anzi ne farà di maggiori. Di quali opere si parla qui? Per poterne cogliere l'identità si rende necessario comprenderne il significato che a queste opere l'autore attribuisce. Il termine opere (t¦ œrga, tà érga) ricorre in Giovanni ventisette volte ed assume tre diversi significati: a) opere come attuazione della volontà del Padre e del suo piano salvifico. In questo caso le opere hanno stretta attinenza con la missione di Gesù e la esprimono. Il termine in questo senso è il più consistente e ricorre 14 volte19; b) opere intese come “segni”, con riferimento ai miracoli di Gesù e, quindi, hanno a che fare con la sua missioni, ne sono degli aspetti importanti. Il termine con questo significato ricorre 6 volte20; c) ed infine, opere nel senso di “modo di comportarsi” o come esito di un certo comportamento ricorre 5 volte21. Le opere, pertanto, di cui il credente è protagonista nel tempo successivo alla dipartita di Gesù, quello postpasquale, il tempo del kerigma, dell'annuncio e della testimonianza, il tempo della chiesa, sono quelle dell'eredità spirituale e morale che Gesù ha lasciato ai suoi; quelle opere di cui si prenderà cura lo stesso Spirito Santo, il nuovo Intercessore, che prenderà il posto di Gesù e che proseguirà il suo insegnamento da cui attinge (v.26; 16,13b.15), conducendo i discepoli alla pienezza della verità (16,13a). Sono quelle opere che essi compiono nel suo nome e per suo conto e che fondano non solo sulla loro fede, ma anche su di uno specifico mandato che dal Padre si riflette in Gesù e da questi rimbalza ai discepoli: “Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi” (20,21). Un mandato dunque che ha le sue origini nel Padre e che attraverso Gesù investe e coinvolge tutti i credenti. Saranno opere più grandi di quelle compiute da Gesù. L'attributo “me…zona” (meízona, più grandi) non ha un senso di spiritualmente, moralmente o comunque qualitativamente superiori a quelle di Gesù, quasi che il discepolo abbia qui superato il Maestro o sia con lui in concorrenza. L'attributo “più grandi” dipendente dal verbo “fare” posto al futuro (poi»sei, poiései, farà) è una grandezza che riguarda i tempi postpasquali e attiene all'espandersi della chiesa in mezzo agli uomini nel corso del tempo. L'espressione “ne farà di più grandi”, pertanto, riflette in se stessa il tempo della chiesa del I sec. che aveva già assunto una configurazione istituzionalizzata, una propria identità e autonomia e che già entrava in conflitto con il giudaismo, subendo le prime persecuzioni; una chiesa, che grazie all'azione incisiva dei predicatori itineranti, di cui un esempio significativo e rilevante si ha in Paolo, stava espandendosi efficacemente in tutto il mondo allora conosciuto con grandi successi22. Non si tratta dunque di segni o prodigi eclatanti, mai visti prima o di poteri particolari e tali da soggiogare e dominare le genti. Non rientrava tutto questo nel curriculum missionario di Gesù e tanto meno in quello dei suoi discepoli, visto che “non vi è servo più grande del suo signore, né inviato più grande di colui che lo ha mandato” (13,16; 15,20). L'accento pertanto va posto su di una diversa comprensione, considerato anche che il senso di opere in Giovanni, come si è visto sopra, riguarda l'azione missionaria di Gesù, di cui fanno parte anche i segni.

Il v.12 si chiude con l'espressione: “poiché vado al Padre”. Quel “Óti” (óti, poiché) causale sembra spiegare perché i discepoli faranno cose più grandi di Gesù. Il ritorno di Gesù al Padre, infatti, produrrà un triplice beneficio: a) scioglierà i discepoli dalla sua presenza fisica, che per quanto importante era comunque molto limitante, sia perché creava dipendenza nei discepoli, sia perché Gesù non sarebbe stato raggiungibile da tutti gli uomini; b) anche lo Spirito, così vitale e fondamentale nella costituzione delle prime comunità credenti, non avrebbe potuto compiere la sua opera creatrice di un'umanità nuova posta sotto la sua egida, poiché esso era legato alla presenza di Gesù (1,32-33; 7,38-39); c) sia, infine, perché i discepoli, liberi dalla presenza storica del loro Maestro, si sono sentiti responsabili della sua eredità spirituale, espandendola e facendone partecipe l'intera umanità. Il ritorno di Gesù al Padre, dunque, inaugura tempi nuovi in cui i veri protagonisti sono lo Spirito e i credenti (At 15,28). In tal modo l'azione missionaria di Gesù non solo trova un suo proseguimento nel credente, ma, sotto l'azione dello Spirito, acquista anche una dimensione universale.

I vv.13-14 sembrano apparentemente cambiare di tema: dal credere del v.12 si passa a quello del chiedere. In realtà quello del chiedere nel nome di Gesù diviene una naturale conseguenza del credere e dell'operare nel suo nome e fa parte del patrimonio spirituale della vita stessa della chiesa primitiva e di quella di ogni tempo. Anche qui, infatti, i verbi sono tutti posti al futuro (chiederete, farò) e guardano al tempo postpasquale, quello proprio delle prime comunità credenti e della chiesa. Con il credere in Gesù, l'operare nel suo nome e il chiedere nel suo nome l'autore qui tratteggia i tre elementi fondamentali su cui era incardinata la vita della chiesa primitiva. Il contesto è quello proprio di un Gesù, la cui presenza storica è già finita da tempo, per questo si crede, si opera e si chiede nel suo nome. Ed è proprio per questo che Gesù promette che il chiedere nel suo nome sarà da lui accolto, perché sia glorificato il Padre nel Figlio. Quando qui si parla di “chiedere nel nome di Gesù” la nostra formazione religiosa ci spinge a pensare alla preghiera di domanda per ottenere un qualche beneficio, che vada a compensare la nostra necessità di quel momento. Un tipo di preghiera molto diffusa e che ha trasformato il Dio dei cristiani, come ricorda il Bonhoeffer, in un Dio tappabuchi. Gesù del resto non è venuto per sopperire alle nostre deficienze a buon mercato. La questione che qui si pone è se sia proprio questo il senso del chiedere di cui Giovanni e non da meno i Sinottici parlano. L'idea che ne nasce, leggendo attentamente i passi che riguardano il domandare, è che il domandare abbia a che fare con le esigenze spirituali proprie del credente, che trovano il loro pieno soddisfacimento in Dio, che è Spirito e Verità (4,23.24). È significativo quanto viene detto in 15,7-8: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi accadrà. In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. Qui il chiedere ha come presupposto il rimanere in Gesù e nella sua parola; il contesto quindi qui è spirituale, mentre il contenuto, la glorificazione del Padre, consiste nell'essere esistenzialmente conformi a Gesù. Similmente Gv 16,24 sollecita i discepoli a chiedere nel nome di Gesù “perché la vostra gioia sia piena”. L'esito di questo chiedere è dunque la gioia, che caratterizza il vivere cristiano ed anticipa quella che scaturisce dalla pienezza delle vita eterna. Un termine questo che parla di pienezza spirituale e non di pancia piena. È lo stesso Paolo, del resto, che rivolgendosi alla comunità di Roma ricorda che “Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Nel N.T. infatti la gioia acquista quasi sempre un significato spirituale ed escatologico ed ha come sfondo la speranza e l'incontro salvifico dell'uomo con Dio23; mentre nell'A.T. nella voce dei profeti acquista prevalentemente un significato messianico, e nasce dall'attesa dei cieli nuovi e di una terra nuova. Similmente Lc 11,1-13, parlando del modo di pregare e del chiedere al Padre, conclude la sua trattazione sulla preghiera di domanda sollecitando la sua comunità a chiedere il dono dello Spirito (Lc11,13b). La stessa preghiera del Padre nostro, riportata sia da Matteo (Mt 6,7-13), in forma estesa, e da Luca, in forma più concisa (Lc 11,2-4), elenca i contenuti che devono animare la preghiera dei credenti ed essi sono di ordine squisitamente spirituale. Anche l'espressione “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, secondo la formula matteana, nella sua enunciazione greca, acquista un senso spirituale che potremmo rendere con “dài a noi oggi il nostro pane, quello del giorno che verrà”24. Si tratta quindi di un pane escatologico, che richiama da vicino Mt 26,29: “Vi dico, non berrò più da ora, da questo frutto della vigna fino a quel giorno, quando lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”; mentre in Luca il dono del pane sembra acquistare più un significato di contingenza quotidiana. Matteo, poi, invita la sua benestante comunità a cercare e a chiedere le cose che contano per la vita eterna: il regno di Dio e la sua giustizia (6,33a). Il v.13 pertanto parla di un chiedere che orienta il credente verso Dio, da cui riceve la pienezza della sua vita, e lo innesta in Lui. È questo tipo e modo di domandare che qualifica il credente quale vero figlio di Dio (1,12-13), da lui generato per mezzo della Parola, glorificando in tal modo il Padre, poiché in ciò che chiede il suo interesse non è per la propria pancia, ma per Dio.

Similmente al v.11 anche il v.14, nel chiudere la prima sezione di questo capitolo (vv.1-14), riprende il v.13 e lo sintetizza: “Se mi chiederete qualcosa nel mio nome io (la)” farò”, sottolineando in questa sintesi uno dei fondamenti del vivere cristiano.

Commento ai vv.15-27 (Seconda parte)

Testo a lettura facilitata

(le evidenziazioni cromatiche associano tra loro i versetti; il v.26 assume una duplice posizione cromatica: azzurro e verde. I vv.25.27 acromatici sono conclusivi)

15- Se mi amate, osserverete i miei comandamenti;
16- e io pregherò il Padre e vi darà un altro intercessore, affinché sia sempre con voi,

17- lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né (lo) conosce; voi lo conoscete, poiché rimane presso di voi e sarà in voi.
18- Non vi lascerò orfani, vengo a voi.

19- Ancora un poco e il mondo non mi vede più, ma voi mi vedete, poiché io vivo e voi vivrete.
20- In quel giorno voi
conoscerete che che io (sono) nel Padre mio e voi in me e io in voi.
21- Chi possiede i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama; ma colui che mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e manifesterò me stesso a lui>>.
22- Gli dice Giuda, non l'Iscariota: <<Signore, [e] che cosa è accaduto che stai per manifestarti a noi e non al mondo?>>.
23- Rispose Gesù e gli disse: <<Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui.
24- Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato
.
25- Vi ho detto queste cose mentre sto con voi;
26- ma l'Intercessore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi.
27- Vi lascio (la) pace, vi do la mia pace; non come il mondo (la) da io (la) do a voi. Non si turbi il vostro cuore né si spaventi.

Note generali

Se nella prima parte di questo capitolo (vv.1-14) gli attori principali erano Gesù nei suoi rapporti con il Padre; un Gesù che si qualificava come colui che ritorna al Padre (vv.2-4), di cui egli è la Via (vv.5-6) e in cui il Padre opera, divenendone manifestazione e rivelazione (vv.7-11), in questa seconda parte (vv.15-27) gli attori principali sono Gesù nei suoi rapporti con i discepoli. Questa seconda sezione, che introduce il lettore in un contesto ecclesiale postpasquale (numerosi infatti sono i verbi al futuro), è preceduta dai vv.12-14 che ne fungono da introduzione, rilevando i tre elementi costitutivi della chiesa primitiva: il credere in Gesù, l'operare e il domandare nel suo nome; una chiesa da cui traspare come essa sia in quel essere e in quel vivere in lui, “nel suo nome”, e in quel “anche lui compirà” del v.12, la prosecuzione dell'attività missionaria e salvifica del Risorto.

Già lo si è visto sopra come questa seconda parte è costituita da tre pensieri a spirale che si intrecciano tra loro, quasi a volerne significare l'inscindibilità, ma nel contempo, narrativamente, danno l'idea di un affastellamento tematico indistricabile. Il commento, pertanto, verrà condotto seguendo non lo svolgersi del testo versetto dopo versetto, ma i singoli pensieri a spirale tematici, individuati dai versetti che li compongono singolarmente, per cui si avrà:

  1. vv.15.21.23-24: la fedeltà che qualifica il discepolo si manifesta nell'amore che questi porta alla parola di Gesù;

  2. vv.16-18.26: il dono dello Spirito, nuovo Intercessore dei credenti presso il Padre, prenderà il posto di Gesù dopo la sua dipartita, inaugurando i tempi della fede;

  3. vv.19-20.22.26: la dipartita di Gesù apre per i discepoli il tempo della fede: Gesù continuerà ad essere con loro e a vivere in loro, ma in modo completamente nuovo, che apre il discepolo ad una nuova visione, grazie al dono dello Spirito.


Commento ai vv.15.21.23-24


Il testo

15- Se mi amate, osserverete i miei comandamenti;
21- Chi possiede i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama; ma colui che mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e manifesterò me stesso a lui>>.
23- Rispose Gesù e gli disse: <<Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui.
24- Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.

Ci troviamo di fronte ad un caratteristico modo di procedere tutto giovanneo: quello del pensiero a spirale, che, simile ad una scala a chiocciola, continua a girare su se stesso, ma ogni qualvolta che completa un giro porta il lettore ad una posizione più alta fino a raggiungerne il vertice. Simile modo di procedere costringe il lettore a rallentare la sua corsa e a soffermarsi sul Mistero da contemplare. Questo continuo e apparente ripetersi assume infatti i ritmi calmi della riflessione, che si fa meditazione per poi sfociare nella contemplazione. Non va mai dimenticato che il vangelo giovanneo più che un racconto è una contemplazione del Verbo Incarnato, di cui l'evangelista contempla la gloria nel suo manifestarsi storico (1,14).

Il pensiero si apre con l'enunciazione tematica del v.15: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”. Il contesto storico entro cui nasce e si colloca questo pensiero a spirale è quasi certamente il momento di crisi che sta vivendo la comunità giovannea agitata da “falsi profeti” e dallo “spirito dell'anticristo”, dei quali parla la prima lettera a Giovanni25. Questi, infatti, pretendevano di conoscere Dio (1Gv 4,6-8) e di vederlo (1Gv 3,6; 4,12; 3Gv 1,11) e di vivere già in comunione con Lui (1Gv 2,3) e di essere nella luce (1Gv 2,9). Quanto alla loro posizione cristologica, completamente distorta, rifiutavano il messianismo di Gesù (1Gv 2,2) e la sua figliolanza divina (1Gv 4,15); negavano la sua incarnazione (1Gv 4,2; 2Gv 7). Quanto al loro comportamento etico, questo era quanto meno disdicevole. Sotteso da spiccate tendenze gnostiche, pretendevano di essere senza peccato (1Gv 1,8.10) e non si curavano di osservare i comandamenti (1Gv 2,4) in particolare quello dell'amore fraterno (1Gv2,9.11). Il richiamo pertanto alla fedeltà non solo alla Parola (lÒgoj, lógos), ma anche ai precetti (ntol», entolé) che da questa derivano si fa molto pressante. Il v.15 lo ritroviamo ripreso in vario modo, ma sostanzialmente identico nei vv.21a.23a e in forma negativa, caratteristico della retorica ebraica che ama i chiaroscuri, nel v.24a. Ma ciò che maggiormente interessa qui, al di là della formulazione di base, sono gli sviluppi che ne conseguono attraverso un triplice passaggio a cascata:

Ciò che caratterizza questo primo pensiero a spirale è la presenza di tre parole chiave che ne costituiscono la struttura: amare, osservare, comandamenti/parola. I due verbi, amare e osservare, sono posti in parallelo tra loro e sono considerati dei sinonimi, tra loro interscambiabili: amare significa osservare e osservare significa amare. L'identificazione dell'amare con l'osservare e viceversa, porta come conseguenza che anche gli oggetti dell'amare e dell'osservare sono coincidenti tra loro: Gesù e la sua parola/comandamento. Il verbo che percorre trasversalmente e numerose volte l'intero pensiero è “¢gap£w” (agapáo, amare), che compare in questi quattro versetti ben otto volte. È questo il verbo che indica l'amore in senso spirituale e sublime ed è generalmente usato da Giovanni per qualificare il tipo di rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre; un amore che qui vede coinvolti oltre che Gesù e il Padre anche i discepoli, tutti quanti posti sotto l'egida di “agapáo”, tutti e tre soggetti e nel contempo oggetti dell'amare. Si viene in tal modo a creare un circolo di amore vitale, che definisce la qualità primaria della Vita Trinitaria, che qui vede coinvolto in prima persona il credente, quale soggetto e oggetto di questo amore.

Il secondo verbo “thršw” (teréo, osservare, custodire, conservare) è qui presente quattro volte, una in ciascun versetto. Esso ricorre tra i Sinottici soltanto in Matteo, sei volte, e ben 19 volte in Giovanni, dove esso è quasi sempre associato alla parola di Gesù, quale oggetto di attenzione, di conservazione e di osservanza. Anche la lode rivolta dall'architriclino allo sposo delle nozze di Cana per aver “conservato il vino buono fino alla fine” è una lode che viene intessuta per quel Israele che ha saputo rendersi interprete della migliore Tradizione fino a ricongiungersi al Vino Buono per eccellenza, quello che inaugura il banchetto escatologico. Si nota in questa ossessivo richiamo al verbo “teréo” da parte di Giovanni la sua preoccupazione per il proseguimento del Dono divino della Parola nel tempo attraverso l'osservanza che si fa custodia e conservazione di questo grande Dono. Il verbo “teréo” viene dunque posto a fondamento della Tradizione credente, chiamata non solo a custodire e a conservare, ma anche ad arricchire con l'osservanza della vita la ricchezza spirituale della Tradizione, concepita non in modo statico, ma dinamico ed evolutivo, nel suo farsi quotidiano nella vita della Chiesa e in quella di ogni credente. Una Tradizione, che animata dallo Spirito di Verità, che agisce nella Chiesa e in ogni singolo credente, li condurrà, passo dopo passo, alla pienezza della Verità (16,13).

Ed infine una nota va riservata ai due sostantivi “ntol»” (entolé) e “lÒgoj” (lógos). Il termine “entolé” ricorre nei vangeli 26 volte di cui 16 volte nei Sinottici e 10 volte in Giovanni. Ma mentre nei Sinottici l'uso del termine inerisce esclusivamente alla Torah26, in Giovanni il termine inerisce soltanto al Padre e a Gesù, dei quali l' “entolé” esprime la volontà e la disposizione vincolante27. Vi è dunque nella prospettiva giovannea una sostituzione di significato, che denuncia una nuova e diversa comprensione della storia della salvezza che pone al suo centro non più la Torah, che nella visione paolina come un severo pedagogo doveva condurre fino a Cristo per poi lasciare il passo alla fede (Gal 3,24-25), ma Gesù stesso nei suoi stretti e imprescindibili rapporti con il Padre. Quanto al termine “lógos” esso esprime il senso generico di “parola”, ma che nel contempo allude e richiama la sua sorgente primaria che è il Logos, quello che Giovanni contempla nel suo dispiegarsi storico. Il termine “parola”, pertanto, indica non soltanto la predicazione di Gesù, ma anche il suo operare, in quanto Dabar del Padre; Parola-Azione, Parola che dice e nel dire opera; e dicendo ed operando manifesta e rivela il Padre, divenendo luogo di manifestazione storica del Padre; egli, infatti, ne è il volto storico, così che chi vede lui vede il Padre (v.9).

Commento ai vv.16-18.26


Premessa

Giovanni è l'unico tra gli evangelisti che tratta dello Spirito Santo in modo sistematico, con una certa rigorosità logica e in modo del tutto innovativo e profondo. Un tema, quello dello Spirito, che percorre diffusamente e per intero il suo vangelo, rischiandone una dispersione. Si rende pertanto necessaria una breve premessa di sintesi per cogliere la ricchezza del pensiero giovanneo sullo Spirito. Una nota va posta sulla singolarità della comparsa di questi versetti tematici nel corso della narrazione. Estraendo, infatti, tutti i versetti che nel vangelo giovanneo parlano dello Spirito Santo e mettendoli in fila, l'uno dietro l'altro, conservandone la posizione di estrazione, ne esce un discorso logico e un tema che si sviluppa bene narrativamente, dando l'idea che in origine questo tema fosse stato una sorta di trattazione a parte ben sviluppata e strutturata e successivamente inserita nella narrazione evangelica gradualmente e, di volta in volta, adattata al contesto narrativo. Non è pensabile infatti come un discorso sullo Spirito Santo, così complesso ed elaborato come si presenta in Giovanni, sia sorto casualmente stendendo il vangelo, considerata anche la lunga gestazione di tale vangelo e le numerose mani che ha passato nella sua formazione. Vi è infatti un filo logico molto solido, che unisce tra loro tutti i versetti riguardanti il tema dello Spirito Santo. Pertanto, tutto ciò premesso, ecco ciò che appare su tale tema, seguendo pedissequamente i singoli versetti nel loro snodarsi narrativo, senza spostarli dalla loro posizione di ritrovamento:

È questo in sintesi il pensiero giovanneo sullo Spirito Santo, entro cui sono collocati i versetti sui quali ora ci soffermeremo.

Testo

16- e io pregherò il Padre e vi darà un altro intercessore, affinché sia sempre con voi,

17- lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né (lo) conosce; voi lo conoscete, poiché rimane presso di voi e sarà in voi.
18- Non vi lascerò orfani, vengo a voi.
26- ma l'Intercessore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi.

Pur nella loro semplicità, questi quattro versetti costituiscono il cuore del vangelo giovanneo riguardante la missione dello Spirito nel tempo postpasquale. Si tratta del secondo pensiero a spirale che ha il suo enunciato al v.16 e che in vario modo verrà continuamente ripreso e ampliato ai vv.14,26; 15,26; 16,7.13-1429 ed avrà il suo vertice in 20,22 dove la promessa troverà la sua concreta attuazione. Si tratta dunque di un pensiero a spirale che, a partire da 14,16, attraversa l'intero libro della gloria per concludersi in 20,22 ed ha la sua premessa in 7,39: “Ora, disse questo circa lo Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui; infatti non c'era ancora lo Spirito, poiché Gesù non era stato ancora glorificato”; un'attestazione, che verrà ripresa a sua volta in 16,7: “Ma io vi dico la verità, vi giova che io me ne vada. Infatti, se non me ne vado, l'Intercessore non verrà a voi; ma se parto, ve lo manderò”.

Lo schema di questo secondo pensiero, riguardante lo Spirito Santo può, pertanto, essere così rappresentato:


Sia in 7,39 che in 16,7 viene attestato come la presenza storica di Gesù in mezzo ai suoi costituisce di fatto un impedimento al ricevere lo Spirito Santo, quello Spirito che il Battista aveva visto scendere su Gesù e rimanere su di lui (1,32-33). La questione va compresa sia all'interno delle funzioni proprie di Gesù e dello Spirito, sia all'interno delle rispettive missioni, che entrambi sono chiamati a compiere. Funzioni e missioni che, si badi bene, non sono degli incarichi ricevuti dal Padre, ma vanno comprese come realtà connaturate ai Due e tali che non si possono svincolare dalla loro natura, in quanto costituiscono la loro stessa identità. Così come un uomo non potrà mai sostituirsi ad una donna nel concepire in se stesso un figlio, nella sua gestazione e nel partorirlo, poiché vi è un vincolo naturale che delega tali funzioni alla donna. Similmente avviene sia per Gesù che per lo Spirito Santo. Quanto a Gesù, Giovanni lo definisce come il Logos Incarnato (1,14), cioè la Parola che ha funzioni manifestative e rivelative. Gesù è colui che dà forma e sostanza alla volontà del Padre e lo manifesta, rivelandolo. Non è un caso che egli sostenga che da sé non può fare nulla, ma che tutto ciò che compie lo vede fare dal Padre: “In verità, in verità vi dico, il Figlio non può fare da se stesso niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa” (5,19.30a; 14,9-11), così che “chi vede me vede colui che mi ha mandato” (12,45); un Padre che opera e di conseguenza anch'egli, Gesù, opera (5,17) e non ne può fare a meno poiché egli è il luogo dell'agire del Padre. Non a caso egli è l'Inviato del Padre, che è venuto a fare non la sua volontà, ma quella del Padre (5,30c), che egli definisce “suo cibo” (4,34). Non si tratta qui di pietismo religioso, che porta Gesù ad osservare scrupolosamente la Torah, espressione per gli ebrei della stessa volontà di Dio. Per Gesù il fare la volontà del Padre non è un atto di pietismo religioso, né tanto meno di amore filiale, ma fa parte della sua stessa natura; una sorta di necessità di vita che gli è connaturata, così come una necessità di vita, connaturata all'uomo, è il cibo. Per questo egli potrà attestare più volte che lui e il Padre sono una cosa sola (10,30; 17,11.21.22).

Se il Figlio, dunque, è il luogo della manifestazione rivelativa del Padre, che nel Figlio si riconosce e si comunica all'uomo e all'intera creazione, lo Spirito Santo, in quanto potenza del Padre da lui evocata da se stesso, rende possibile il comunicarsi e l'operare del Padre nel Figlio. È lui infatti che opera il concepimento in Maria (Mt 1,18.20; Lc 1,35); è lui che scende e rimane sul Figlio (Gv 1,32.33) e lo muove nel compimento della sua missione (Mt 4,1; Mc 1,12; Lc 4,1.14.18); lui che caccia i demoni (Mt 12,28; Lc 11,20); è lui che dà la forza della testimonianza e ne suggerisce le parole al credente (Mt 10,20; Mc 13,11; Lc 12,12; At 1,8); è lui che si rende presente nell'azione missionaria del Figlio (Mt 12,18); è lui che soffia nei profeti e fa risuonare in essi la voce di Dio e li muove (Gl 3,1-2; Lc 1,67; 2,26.27); è lui che imprime la potenza rigeneratrice nella Parola e crea nuovi figli di Dio infondendo in essi la vita stessa di Dio (Gv 1,12-13; 3,5;6,63; 1Pt 1,23); è lui che prenderà il posto del Figlio, dopo la sua glorificazione, continuandone l'opera nell'ammaestramento e nella guida dei credenti (Gv 15,26), conducendoli alla pienezza della Verità (Gv 14,26; 16,13); lui che opera e coopera nella guida della Chiesa (At 15,28). È lui che rende possibile l'agire del Padre nel Figlio e fa si che i Due siano una cosa sola in una sorta di simbiosi osmotica, intercompenetrativa, così che nel Figlio si riflette il Padre e questi nel Figlio (Gv 14,9-11) e nel Figlio siano ricapitolate l'intera umanità e creazione (Ef 1,4.10) come in un abbraccio universale, cosmico. Egli dunque è potenza del Padre, che tutto rende possibile.

La diversa funzione dei Due, Gesù e lo Spirito Santo, riflette del resto la loro diversa origine: per generazione, quanto a Gesù; per processione dal Padre, quanto allo Spirito. Se il Figlio Unigenito è frutto di generazione divina originatasi dall'Amore del Padre, che per sua natura non può non generare, proprio perché Egli è Amore (1Gv 4,8.16), cioè totale apertura donativa e nel contempo pienamente accogliente, lo Spirito Santo è frutto di un atto di potenza del Padre e come tale viene significativamente rappresentato in At 2,2. Per lo Spirito dunque non vi è generazione, considerato che il Figlio è unigenito (Gv 1,14.18; 3,16.18), ma soltanto processione dal Padre (Gv 15,26), cioè esce dal Padre o meglio, come dice il verbo che Giovanni usa in 15,26 parlando della processione dello Spirito dal Padre, ™kporeÚetai(ekporéutai) che significa letteralmente “fa uscire, chiama fuori”. È dunque il Padre che chiama fuori da sé e fa uscire fuori da sé lo Spirito e tutto ciò non si può pensare che per atto di potenza dello stesso Padre, che, in quanto atto di potenza, caratterizza la natura dello Spirito. Nello Spirito infatti non si rispecchia il Padre come per il Figlio, che con il Padre forma una cosa sola (Gv 14,9-11); ma lo Spirito è potenza e potere del Padre., che opera nel Figlio.

Per quanto fin qui esposto, Gesù e lo Spirito Santo, nei confronti dei credenti, non possono, dunque, operare parallelamente, ma soltanto alternativamente. Ecco dunque la necessità che Gesù ritorni al Padre, perché presso i credenti si instauri un nuovo Intercessore, che prenderà il suo posto. In altri termini, Gesù, compiuta la sua missione, torna al Padre lasciando all'azione dello Spirito il compito di portarla a compimento nei credenti, riconducendoli, insieme all'intera creazione, in seno al Padre (1Cor 15,28).

Premessa la necessità della dipartita di Gesù per lasciare campo libero all'azione dello Spirito (7,39; 16,7), il cui compito è quello di riprendere l'opera di Gesù e proseguirla nel suo compimento presso i discepoli, si pone ora la questione di come ciò avverrà. L'intera dinamica pneumatica viene ora affidata al secondo pensiero a spirale, che, in una sorta di vortice ripetitivo, ma via via sempre più amplificante e approfondente, ne illustrerà gli sviluppi. Probabilmente una riflessione dedicata da Giovanni alla sua comunità, per rispondere ai suoi interrogativi circa il ritorno di Gesù, come si può arguire dai vv.3.18, dove si parla di dipartita, ma anche di venuta e di ritorno, le cui modalità vengono ora precisate da questo secondo pensiero a spirale. E che nel v.18b si parli in quel “vengo a voi” del dono dello Spirito, lo si arguisce dal v.18a in cui Gesù promette ai suoi di non lasciarli orfani. È dunque lo Spirito, il nuovo Intercessore, che prenderà il posto di Gesù e ne continuerà la presenza e l'insegnamento presso i discepoli, accompagnandoli lungo il cammino della storia. Un dono che egli stesso invocherà dal Padre e che il Padre darà, così come egli, Gesù, fu dono del Padre (3,16). Gesù, dunque, non cesserà più la sua presenza presso i discepoli, anche se ora viene loro richiesta la fede, alimentata dalla speranza, vissuta nella carità (1Ts 1,3).

Il v.16 apre il pensiero a spirale enunciandone il tema: “e io pregherò il Padre e vi darà un altro intercessore, affinché sia sempre con voi”. Tutti i verbi qui sono al futuro, rafforzati da quel “sempre”, e guardano al tempo postpasquale, quello del cammino della chiesa. Il versetto è scandito in tre parti: a) lo Spirito non è una realtà automatica e scontata, ma invocata da Gesù dal Padre; esso dunque è il frutto di una mediazione, che vede in Gesù il punto focale attraverso il quale passa tale dono; b) lo Spirito, infatti, è un dono che qui, per la prima volta viene definito come “intercessore” (par£klhtoj, parákletos). Un termine questo che ha una ricchezza di significati, quali: l'evocato, il chiamato, l'intercessore, il difensore, l'aiutante, il consolatore. Tra tutti la mia preferenza è caduta sul sostantivo “Intercessore”, perché meglio designa, a mio avviso, l'azione di mediazione a cui è preposto, dovendo egli occupare il posto di Gesù dopo la sua dipartita e portare avanti la sua opera, che è opera prevalentemente di mediazione non solo tra Dio e gli uomini, ma anche tra Gesù e i credenti. Ora tutto si muove e vive in lui. Non a caso l'autore sottolinea come il Padre manderà “un altro Intercessore”; quel “altro” presuppone un precedente Intercessore, cioè Gesù, a cui ne seguirà, dopo la sua dipartita, “un altro”, così che i discepoli non rimarranno mai orfani, poiché lo Spirito continua la presenza del Risorto in mezzo ai suoi, sia pur in modo nuovo e diverso; c) la terza parte del v.16 sia apre con un “†na” (ína), che le imprime un senso finale: “affinché sia sempre con voi”. Quel “sempre” dice come la venuta dello Spirito non è una parentesi storica, come quella di Gesù, la cui dipartita ha trovato i suoi impreparati e sconcertati, ma costituirà il nuovo modo di essere di Gesù in mezzo ai suoi. Essa, pertanto, è una presenza nuova con cui i discepoli dovranno familiarizzare e che imporrà loro un nuovo modo di relazionarsi e di pensare. Uno Spirito che rimane sempre “con voi”. Quel “met£” (metá) che va ben oltre ad un semplice complemento di compagnia, poiché esso indica un stare con, uno stare in mezzo, un essere assieme, uno stare uniti, un andare d'accordo, tutte espressioni che risuoneranno nella preghiera sacerdotale di Gesù per i suoi (17). Si tratta, in ultima analisi, di condividere nello Spirito la stessa vita del Risorto; uno Spirito che Paolo definisce caparra delle realtà future (2Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14).

Con il v.16 l'autore aveva parlato, in termini anonimi, dell'invio ai credenti di “un altro Intercessore”, destinato a prendere il posto a Gesù; chi questo sia esattamente viene detto ora al v.17: si tratta de' “lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né (lo) conosce; voi lo conoscete, poiché rimane presso di voi e sarà in voi”. È un versetto che, da un punto di vista grammaticale, si potrebbe definire come una sorta di apposizione, poiché precisa non solo la natura di tale Intercessore, chiamato “Spirito della verità”, ma ne descrive anche l'azione discriminante nei confronti del mondo, qui colto nella sua accezione negativa di incredulità e di opposizione alla rivelazione manifestatasi in Gesù (v.3a), e dei credenti, che, invece, hanno aperto, accogliendola nella loro vita, a tale rivelazione (v.3b).

L'espressione “Spirito della verità”, che ricorre oltre che qui, al v.14,17, anche in 15,26 e 16,13 ha sempre a che fare con gli aspetti rivelativi legati alla persona di Gesù e ai contenuti della sua missione. E non poteva essere diversamente, considerato che il termine “verità”, nell'accezione giovannea, è sinonimo di rivelazione30. La comparsa quindi della titolatura “Spirito della verità”, che potremmo considerare come una sorta di endiadi e leggerlo come “Spirito che è verità” o “Spirito da cui proviene la verità” o “Spirito che dona la verità” o “che possiede la verità”, allude alla funzione primaria di tale Spirito, che il v.26 definirà, a sua volta, “Spirito Santo” indicandolo come Spirito della verità che appartiene a Dio e che proviene da Dio (15,26), il Santo per antonomasia31, attribuendo in tal modo alla verità, di cui lo Spirito è testimone e maestro (v.26), un significato e un'origine squisitamente divini.

Il v.17a definisce il mondo nei confronti dello Spirito come incapace di accoglierlo; questa incapacità denuncia tutta la sua impermeabilità nei confronti dell'azione rivelatrice dello Spirito a motivo di una radicata incredulità, che non gli consente neppure di incominciare a vedere e a conoscere, relegandolo nella piena cecità ed escludendolo dalla luce. I due verbi vedere e conoscere, infatti, sono resi in greco, rispettivamente, con qewršw” (tzeoréo) che significa osservare attentamente, esaminare, investigare; è questo il verbo che indica il cammino del credente verso la pienezza della fede, espressa in Giovanni con il verbo “Ðr£w” (oráo); mentre “gignèskw” (ghighnósko) in Giovanni indica una conoscenza in fase di apprendimento verso quella piena espressa con il verbo “oŒda” (oîda). Per quanto riguarda il mondo, dunque, non vi è in lui neppure la capacità di un possibile approccio alla Verità, che caratterizza invece i credenti. Per questo “il mondo non può ricevere”. Non deve stupire questa cecità che rende il mondo impermeabile alla luce della Verità e, quindi, allo Spirito che ne è il portatore e il testimone, poiché già in 1,4-5 si era prospettato questo evento: “in lui era vita, e la vita era la luce degli uomini; e la luce apparve nelle tenebre, e le tenebre non la colsero”.

Il v.17b prende ora in considerazione il rapporto dei credenti nei confronti dello Spirito. È innanzitutto uno Spirito che essi in qualche modo già conoscono. Anche qui il verbo usato è “gignèskw” (ghighnósko) per indicare come la loro conoscenza, sia ancora in cammino verso la pienezza dell' “oŒda” (oîda), che avverrà soltanto con il dono dello Spirito, che li condurrà alla verità tutta intera (16,13a). Il motivo di questa loro conoscenza in fieri sta nel fatto che questo Spirito rimane presso di loro. Il tempo verbale è qui al presente indicativo, “mšnei” (ménei), che dice il persistere di questa presenza in mezzo a loro fin da subito, alludendo ad una presenza che è legata a quella di Gesù, sul quale il Battista aveva visto scendere e rimanere lo Spirito (1,32-33). Una presenza che non svanirà con Gesù, ma, come dice quel “rimane”, continuerà ad esserlo in mezzo ai discepoli anche dopo. In quale modo ciò sia possibile lo indicherà la seconda attestazione: “e sarà in voi”. Significativo quel “kaˆ” (kaì, e), che crea una continuità tra il prima di Gesù e il dopo di lui, reso possibile per un trasferimento dello Spirito da Gesù ai discepoli (19,30b; 20,22): “sarà in voi”; il verbo al futuro indica qui il tempo postpasquale, che si qualificherà come il tempo proprio dello Spirito, che si collocherà non tanto in mezzo ai discepoli, ma “in voi”; la particella di stato in luogo “in” dice la profonda intimità che legherà i discepoli e questo Spirito della verità, che prenderà definitiva dimora in loro, creando in tal modo una continuità storico-spirituale tra Gesù e i suoi discepoli, in cui egli, attraverso la potenza dello Spirito, che li permea, continua ad operare nel mondo per raggiungere l'uomo di ogni tempo e latitudine.

Il v.18 porta a conclusione il v.17 con una promessa: “Non vi lascerò orfani, vengo a voi”. Singolare questo accostamento di un futuro (“lascerò”), che guarda il tempo della chiesa, con un presente indicativo (“vengo”), che riguarda il tempo di Gesù e da cui il futuro dipende. L'espressione per meglio comprenderla va rovesciata: “vengo a voi” e quindi “non vi lascerò orfani”. Ciò a cui il Gesù giovanneo qui allude non è tanto la sua venuta finale, che porrà fine alla storia, riconducendola nell'eternità divina, venuta che per altro era molto attesa e sentita come imminente nella chiesa del I sec., quanto al dono dello Spirito. La vera venuta di Gesù, dunque, il suo vero ritorno tra i suoi non è la sua persona, così come storicamente è stata esperita e vissuta dai suoi, quanto lo Spirito, il cui dono di fatto è già in atto. L'uso del presente indicativo (“vengo”) allude al compiersi dell'ora, che ha avuto inizio con l'uscita di Giuda dalla comunità dei discepoli a seguito della quale Gesù aveva dichiarato che la sua glorificazione ha avuto inizio: “Quando dunque uscì, Gesù dice: <<Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui” (13,31). L'ora, infatti, dice il compiersi del progetto salvifico del Padre per il quale Gesù è venuto (12,27) e che prevede non solo la sua incarnazione, ma anche la sua morte, la sua risurrezione e il dono dello Spirito, indispensabile perché l'opera sia compiuta e continui a compiersi e perché Gesù non diventi un semplice ricordo. Gesù dunque ritorna tra i suoi e rimane in mezzo a loro proprio attraverso lo Spirito, che gli renderà testimonianza (15,26), riprendendo l'intero insegnamento di Gesù e conducendo i discepoli alla pienezza della verità (16,13-14). Lo Spirito che scenderà per rimanere con e nei discepoli sarà dunque lo Spirito del Risorto o meglio lo Spirito che proviene dal Risorto (20,22), quale dono invocato dal Padre (vv.16.26; 15,26). Tutto ciò consente che la presenza di Gesù continui in mezzo ai suoi, con i suoi e nei suoi. Per questo egli può dire: “Non vi lascerò orfani”.

Dopo l'inciso dei vv.17-18, che fungeva da apposizione finalizzata a spiegare il significato di quel “Intercessore”, che compariva sulla scena per la prima volta, ora il v.26, riprendendo il v.16 ne approfondisce alcuni aspetti: il titolo “Intercessore”, che al v.17 era definito come “Spirito della verità”, indicandone la primaria funzione rivelativa, ora qui viene qualificato come “Spirito Santo”, cioè rivestito della stessa divinità e della stessa potenza di Dio, che per sua natura è Santo. Una santità che è il modo di essere di Dio e il luogo del suo manifestarsi agli uomini. La sua funzione rivelativa pertanto attinge alle radici stesse di Dio, di cui conosce le profondità (1Cor 2,10) perché è in simbiosi con lo stesso Padre da cui procede per atto di potenza del Padre stesso e dal quale è donato per intercessione del Figlio. La formula del v.16a: “io pregherò il Padre e vi darà un altro intercessore”, viene qui ricomposta in “il Padre manderà nel mio nome”, cioè “per mezzo di me”, lasciando intendere in quel “nel mio nome” come tutto ora procede attraverso Gesù, divenuto, secondo la visione dell'autore della lettera agli Efesini, la ricapitolazione dell'intera creazione in ogni suo aspetto (Ef 1,10). Quanto all'espressione del v.16b: “affinché sia sempre con voi”, in cui con quel “affinché” veniva impresso un senso finale a quel “rimanere sempre con voi”, ne viene ora qui indicato il contenuto: insegnare e ricordare tutte le cose che Gesù disse ai suoi; funzione questa che può essere sintetizzata in “testimonianza su Gesù”. E sarà proprio questo il senso di 15,26, che riprendendo 14,26, conclude che “quello darà testimonianza su di me”. Una conclusione a sua volta preceduta dalla ripresa della prima parte di 14,16.26; una ripresa che ne amplierà i contenuti, precisando come questo Spirito della Verità, che Gesù manderà dal Padre, indicando l'origine di questo Spirito, subito dopo rimarcata in termini più diretti con quel “esce dal Padre”. Il verbo qui è posto al presente indicativo, “esce”, per dire un continuo fluire dello Spirito dal Padre verso i credenti per il tramite di Gesù, che dal Padre lo mutua e lo dona ai suoi, specificando in tal modo il senso di quel “sia sempre con voi” (14,16b).

La corsa di questo pensiero a spirale, che come un vortice assorbe il suo lettore senza dargli respiro, subisce qui una battuta d'arresto in 16,7, che riprende 7,39, quasi a voler ricordare come tutto ciò che fin qui è stato detto può essere realizzato soltanto con la dipartita di Gesù, che in tal modo darà spazio al nuovo Intercessore, che sostituirà l'altro, quello precedente (14,16).

Con 16,13-14 viene ripreso il corso del pensiero a spirale che concentra l'attenzione del lettore sull'attività dello Spirito della verità, la cui funzione è squisitamente rivelativa; una verità che non ha come fonte propria lo Spirito, ma Gesù stesso. Non si tratta dunque di uno Spirito autoreferenziale, come non lo è stato Gesù, rivolto sempre verso il Padre che lo ha mandato. Egli “infatti, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono”. La sua sarà dunque una testimonianza radicata nella Verità e in sua funzione e, pertanto, rivelativa. Ma il suo compito non è soltanto quello passivo di un testimone che riferisce cose che non sono sue, ma egli avrà anche la funzione di condurre il credente alla pienezza di questa Verità testimoniata. Espressione quest'ultima che apre e sospinge la Chiesa, e in essa ogni credente, all'approfondimento della Verità rivelata da Gesù in tutte le sue più ampie sfaccettature. Una contemplazione di quel Mistero di salvezza operato dal Padre in Gesù per mezzo dello Spirito, che farà esclamare Paolo: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33). Sarà questo il modo con cui lo Spirito glorificherà Gesù, cioè manifesterà in pienezza il Mistero che ha operato in lui.

Ed infine, dopo un lungo percorso contemplativo incentrato sul dono dello Spirito e sulle sue precipue funzioni, che ha preso le mosse da 14,16, la promessa, caratterizzata da verbi tutti posti al futuro, il tempo postpasquale, quello della chiesa, trova il suo approdo in 20,22 dove il Risorto trasforma la promessa in dono: “Ricevete lo Spirito Santo”, significato da quel alito effuso sui discepoli e che richiama da vicino quel altro alito di vita con cui Dio rivestì il primo Adamo, facendolo a sua immagine e somiglianza. Significativo, infatti, come qui così come là in Gen 2,7 ricorra l'identico verbo: “™nefÚshsen” (enefísen, soffiò), quasi ad associare i due eventi, chiudendo all'interno dello Spirito il ciclo vitale della salvezza, che riconduce l'uomo in Dio (1Cor 15,28), così come era nei primordi.

Commento ai vv.19-20.22.26


Testo

19- Ancora un poco e il mondo non mi vede più, ma voi mi vedete, poiché io vivo e voi vivrete.
20- In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio e voi in me e io in voi.
22- Gli dice Giuda, non l'Iscariota: <<Signore, [e] che cosa è accaduto che stai per manifestarti a noi e non al mondo?>>.
26- ma l'Intercessore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi.

Più che un vero e proprio pensiero a spirale, questa ultima pericope composita potremmo definirla come l'annuncio dell'avvento di un nuovo tempo, che fonda, da un lato, sulla fedeltà e sull'amore verso la Parola (lÒgoj, lógos) e i suoi successivi sviluppi ecclesiologici (ntol», entolé) (primo pensiero a spirale: vv.15.21.23-24); dall'altro, sul dono dello Spirito (secondo pensiero a spirale: vv.14,26; 15,26; 16,7.13-14.20,22)

Il v.19 si muove sulla falsariga del v.17; mentre quest'ultimo riguardava la contrapposta posizione mondo-discepoli nei confronti dello Spirito, il v.19 inerisce, parallelamente, ai rapporti mondo-discepoli nei confronti di Gesù, colto qui nella sua dimensione postpasquale. Infatti, anche se qui i tempi verbali sono posti quasi tutti al presente indicativo (vede, vedete, vivo) essi vanno tuttavia colti in senso prolettico, poiché anticipano quanto sta per accadere; un accadimento che ormai è già giunto ed è espresso da quel “mikrÕn” (mikròn), la cui imminenza è rafforzata dalla prolessi. Un avverbio di tempo quel “mikròn” che compare, con riferimento alla presenza di Gesù, 10 volte in Giovanni e il cui significato verrà spiegato ai vv.16,18-22: esso inerisce, da un lato, al tempo della dipartita di Gesù; dall'altro, alla ricostituzione della sua nuova presenza in mezzo ai suoi (Parola e Spirito). Ma se in 7,33; 12,35 e 13,33 il “poco” era riferito all'essere di Gesù in mezzo ai suoi, un Gesù che dal cap.7 volge con decisione verso il Golgota e il compiersi dell'ora, adesso che l'ora è giunta, anzi si sta compiendo, il “poco” riguarda i discepoli nei confronti di Gesù e il loro vederlo. È significativo, infatti, come a partire da 14,19 in poi (vv.16,16.17.18.19) il “poco” sarà sempre accompagnato dal verbo “vedere”, il verbo della fede, che chiederà dapprima una riflessione ed una ricerca (il verbo vedere qui è qewršw, tzeoréo), per poi raggiungere la certezza di una nuova presenza con il verbo “Ðr£w” (oráo). È interessante notare come entrambe le forme verbali (tzeoréo e oráo) nei vv.16,16.17.19 siano accostate tra loro e la distanza che le separa è data dall'avverbio temporale “mikròn”, quasi ad indicare il cammino che le prime comunità credenti dovranno percorrere per raggiungere nuovamente la presenza del Gesù postpasquale, ora in mezzo ai suoi nella Parola (lÒgoj, lógos), nell'insegnamento della chiesa (ntol», entolé) e nello Spirito Santo, lo Spirito della Verità, il nuovo Intercessore, che prende il posto del Gesù della storia e ne renderà presente l'insegnamento, accompagnando i credenti alla pienezza della Verità.

La contrapposizione mondo-discepoli è giocata tutta sul vedere, cioè sul credere in Gesù. Il non vedere, infatti, riguarda il mondo, poiché esso fa parte di quelle tenebre che hanno respinto la luce (1,4-5); mentre i discepoli, proprio perché tali, hanno saputo credere e continueranno a farlo anche dopo “poiché io vivo e voi vivrete”. L'allusione del vivere di Gesù (io vivo) riguarda al suo nuovo stato di vita, che egli sta per acquisire con la risurrezione e che in 16,21 paragona al parto di una donna, che genera una nuova vita, passando attraverso le doglie del parto. Una simile immagine verrà usata anche da Paolo nella sua lettera ai Romani, dove parla del nuovo stato di vita, generato dalla risurrezione di Gesù, in cui gli uomini e l'intera creazione saranno coinvolti passando attraverso le doglie del parto (Rm 8,19-23); un nuovo stato di vita che verrà esteso anche i discepoli: “e voi vivrete”. Quel “kaˆ” (kaì, e) dice infatti il prolungarsi, l'estendersi della nuova vita da Gesù ai discepoli. Si tratta di una sorta di associazione-assimilazione dei credenti alla nuova vita di Gesù, perché essi possano essere sempre con il loro Maestro. Un'associazione che in qualche modo era già presente in 12,32: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”. È dunque il compiersi di una promessa: “E quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, torno di nuovo e vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi” (14,3), per l'attuazione della quale Gesù invocherà lo stesso Padre: “Padre, ciò che mi hai dato, voglio che dove sono io anche quelli siano con me, affinché vedano la mia gloria, che mi hai dato, poiché mi hai amato prima della creazione del mondo” (17,24).

Il v.20 riprende in qualche modo il tema con cui si conclude il v.19: “poiché io vivo e voi vivrete”. L'estensione della nuova vita di Gesù ai suoi, tale da assimilarli a se stesso, così che essi vedano la sua gloria e in essa vi rimangano per sempre, sarà il motivo per cui “In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio e voi in me e io in voi”. La conoscenza della vita divina, che qualifica i rapporti tra Padre e Figlio, sarà pertanto acquisita dai discepoli non più per sentito dire, ma per esperienza diretta, poiché anch'essi parteciperanno alla comunione di vita del Padre nel Figlio, che è reciproca compenetrazione, un'osmosi divina tale da fare dei Due una cosa sola. Una comunione intercompenetrativa che viene evidenziata dal quel triplice “™n” (en, in), che riguarda tutti gli attori della storia della salvezza: il Padre, il Figlio e nel Figlio i credenti, mentre lo Spirito Santo, quale atto di potenza divina, è ciò che rende possibile questa dinamica di vita divina in cui tutti sono diventati Uno. Una unità di comunione che Gesù invocherà presso il Padre, perché questa si rifletta e si manifesti fin d'ora nella vita dei suoi, a testimonianza del nuovo ciclo vitale in cui i credenti sono fin d'ora innestati: “affinché tutti siano uno, come tu, Padre, in me e io in te, affinché anche loro siano in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (17,21).

Tutto ciò avverrà “In quel giorno” (™n ™ke…nV tÍ ¹mšrv, en ekeíne tê eméra). Un'espressione questa che ricorre in Giovanni quattro volte32 e che si pone in parallelo all'altra espressione molto simile “nell'ultimo giorno” (™n tÍ ™sc£tV ¹mšrv, en tê escáte eméra). Quest'ultima compare sette volte, di cui sei con riferimento al tempo escatologico in cui si verificherà da un lato il giudizio (12,48) e dall'altro la risurrezione (6,39.40.44.54; 11,24). L'espressione “In quel giorno” riguarda pertanto la risurrezione di Gesù. E che tale sia il senso lo lascia intuire anche la domanda posta da Giuda al v.22, da cui traspare l'imminenza del disvelarsi di Gesù: “Signore, [e] che cosa è accaduto che stai per manifestarti”. “Quel giorno” è dunque gravido di un evento che inaugura il tempo escatologico, definito anche come “ultimo giorno”, inteso non tanto in senso cronologico, quanto il tempo in cui, a seguito della valenza cosmica della risurrezione di Gesù (12,32), è imposto sul mondo un giudizio, che ha come elemento discriminante quello del “credere” o “non credere”; aderire esistenzialmente o meno alla nuova creazione segnata dalla presenza dello Spirito, conformando la propria vita alle sue esigenze. In quel giorno “voi consocerete” (gnèsesqe Øme‹j, gnóseste imeîs). Il verbo al futuro guarda al tempo escatologico, quello postpasquale, il tempo della chiesa, che è il tempo segnato dall'ammaestramento dello Spirito della Verità, che, riprendendo l'eredità spirituale di Gesù, la disvelerà nella sua pienezza ai credenti. Il verbo usato infatti è “gignèskw” (ghighnósko, conoscere) che in Giovanni è il verbo che indica un cammino di conoscenza che introduce il credente nel Mistero, a cui egli è già associato in virtù del suo credere.

I vv.19-20 hanno posto una questione di fondo: la raggiungibilità di Gesù nel suo Mistero da parte dei discepoli, ma non da parte del mondo. Si tratta di fatto di una discriminazione, che porta con sé implicitamente un giudizio. Il v.22 ha la funzione di riprendere la questione e di sottoporla all'attenzione del lettore. Si tratta, in ultima analisi, di un rilancio, che altrove (vv.5.8) viene giocato attraverso la tecnica del fraintendimento. Il v.22 si allinea pertanto sia nei modi che nella forma agli altri due vv.5.8: nel primo si ha Tommaso, nel secondo Filippo e qui Giuda, che la mano di un qualche amanuense ha voluto precisare che non si tratta dell'Iscariota. Si denota infatti una certa preoccupazione nel voler chiarire e precisare, eccessiva a mio avviso, considerato che l'Iscariota era già fuori gioco dai vv.13,30.31a. Questa dunque, quasi certamente, non è opera redazionale. La questione posta da Giuda trova ora la sua risposta al v.26, che rimanda la comprensione all'azione dello Spirito Santo, il nuovo Intercessore “che il Padre manderà nel mio nome, quello vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi”. È infatti in un contesto molto simile a questo che il Gesù giovanneo, rivolto ai suoi, li redarguirà: “Ho da dirvi ancora molte cose, ma ora non potete sopportar(le); ma allorché sia venuto quello, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità intera; infatti, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono” (16,12-13). In altri termini, Gesù non è l'uomo dalle risposte facili e pronte e a buon mercato, ma rimanda sempre il credente alla sua ricerca personale, là dove, nel silenzio del suo cuore e nel sacrario della sua coscienza si incontra con la luce dello Spirito, il cui compito è quello di condurlo alla pienezza della Verità, lungo il cammino della conoscenza del Mistero.

I vv.25.27 concludono le due sezioni (vv.1-14; 15-27) del cap.14. Il v.25 assume la configurazione di una sottolineatura di quanto fin qui detto da Gesù, rilevandone in tal modo l'importanza. Compare qui il verbo “lel£lhka”, che in Giovanni ricorre 59 volte e quando è riferito al dire di Gesù assume una valenza rivelativa. Il tempo verbale, inoltre, è qui posto al perfetto indicativo, e dice come questo “dire” non si riferisce soltanto alle cose appena dette, quelle del cap.14, ma abbraccia l'intera predicazione di Gesù, quella che egli ha condotto mentre era ancora con loro. Ed è proprio quest'ultima affermazione “mentre sto con voi”, che lascia intendere come ci sarà anche un tempo in cui egli non sarà più con loro e allora quelle cose che egli ha detto saranno lasciate loro in eredità; un'eredità che, sotto l'egida dello Spirito Santo, lo Spirito della Verità, sarà nuovamente ricollocata in mezzo alla comunità credente e diventerà nuovamente oggetto di attenzione e di ricerca, fino a raggiungerne la pienezza.

Il v.27 contiene i saluti finali che Gesù rivolge ai suoi ed è scandito in due parti: a) l'attenzione qui è rivolta alla pace, quale dono che Gesù lascia ai suoi; non si tratta di una pace intesa secondo le logiche umane, una sorta di quieto vivere in mezzo alla gente, fatta di compromessi e di regole da rispettare o di rassegnazioni. L'espressione “non come il mondo (la) da io (la) do a voi” fa cadere l'accento sull'avverbio “kaqëj” (katzòs, come), che lascia intendere come questo tipo di pace è diversa sia quanto ai contenuti che alle modalità con cui essa viene donata. La diversità nasce dalla diversa origine di questa pace: il mondo e Gesù. La vera natura di questa pace fa la sua prima apparizione in 16,33, che in qualche modo riprende i vv.25.27: “Vi ho detto queste cose affinché in me abbiate pace. Nel mondo avete afflizione, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo”. La pace dunque è lo stare in e con Gesù ed è compatibile anche con le sofferenze che provengono dal nostro essere nel mondo. Una pace che è il ricomporsi del discepolo in Gesù, il rimanere in lui e il conformarsi a lui, poiché, ricorderà l'autore della lettera agli Efesini: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia” (Ef 2,14). Gesù dunque è il luogo della pace, perché è il luogo della riconciliazione tra Dio e gli uomini e degli uomini tra loro; una pace che rende gli uomini capaci anche di perdono (20,23). Una pace che è frutto della risurrezione ed è dono del Risorto ai suoi, che per tre volte viene rimarcato: “Pace a voi” (20,19.21.26). Un dono che viene fatto seguire da quello dello Spirito e dal mandato di perdonare i peccati, quale effetto di questa pace che è riconciliazione tra Dio e gli uomini nel Risorto, il luogo per eccellenza della pace, che li rende capaci di perdono e di riconciliazione tra loro; b) la seconda parte del versetto è un'esortazione, che funge da inclusione con quella che apre il cap.14: “Non si turbi il vostro cuore né si spaventi”, ponendo così l'intero capitolo sotto l'egida della fiducia in Gesù, la vera pace del credente.

La conclusione (vv.28-31)

Testo

28- Avete sentito che io vi dissi: “Vado e vengo da voi”. Se mi amaste vi rallegrereste perché vado al Padre, poiché il Padre è più grande di me.
29- E ve (l')ho detto ora, prima che accada, affinché quando sarà accaduto crediate.
30- Non dirò più molte cose con voi, infatti viene il principe del mondo; e contro di me non può nulla.
31- Ma affinché il mondo sappia che amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così faccio. Alzatevi, andiamo (via) da qui>>


Note generali

Questi quattro versetti si pongono a conclusione non solo del cap.14, ma anche del rapporto storico che Gesù ha avuto con i suoi e chiudono pertanto, dopo il cap.12, l'intera sua attività storica. Si viene a creare pertanto una sorta di parallelismo tra il cap.12, posto a chiusura dell'attività pubblica di Gesù, e questi ultimi quattro versetti, che qui concludono il rapporto personale che Gesù ebbe con i suoi, messo in evidenza dal clima d'intimità familiare del cap.13. È in questi due capitoli (13.14), infatti, che compaiono sulla scena, libera ormai dalla presenza delle folle e dalle diatribe con le autorità religiose, che hanno caratterizzato i primi dodici capitoli, i singoli discepoli in un intimo rapporto dialogico con il loro Maestro; tutte figure emblematiche per il ruolo che essi hanno ricoperto nel racconto giovanneo: si parte da una citazione collettiva dei discepoli, qualificati come “i suoi” (13,1), espressione che definisce il livello di profonda intimità, di amicizia e di appartenenza, che caratterizzava i rapporti tra Gesù e i discepoli e che nel contempo forma il contesto entro cui si muovono i capp.13-14. Compare poi Giuda, nel suo triste ruolo di traditore; il Discepolo prediletto, che pur racchiuso nel suo anonimato lascia trasparire l'intimo, particolare e privilegiato rapporto che intercorreva tra lui e Gesù; Pietro, una figura che nel racconto giovanneo non ricopre mai il ruolo di primadonna, riservato, invece, al Discepolo prediletto con cui è sempre posto in una posizione di concorrenza perdente; mentre nel cap.14 ne emergono altri tre: Tommaso, l'incredulo e il diffidente, il positivista, che crede solo a ciò che vede e tocca; Filippo, la figura opposta a Tommaso, il cui nome compare sempre in contesti rivelativi, in cui egli sovente ricopre un ruolo primario; ed infine Giuda, che una mano anonima precisa non essere il traditore. Una figura di discepolo citata soltanto qui e di cui non si conosce nulla, ma forse proprio per questo è stato scelto dall'autore quale rappresentante di tutti gli altri anonimi discepoli.

In questa breve pericope si respira l'imminenza della fine là dove Gesù ricorda la necessità del suo ritorno al Padre, per la quale i discepoli dovrebbero rallegrarsi (v.28); nell'annunciare che ormai non ha più molto da dire, dichiarando in tal modo che la sua missione è compiuta (v.30a); ora lo scontro con l'incredulità del mondo e del giudaismo si sposta sul vero fautore di tale incredulità: il principe di questo mondo (v.30b); mentre egli vuole essere ricordato dal mondo come colui che ha sempre cercato e fatto la volontà del Padre (v.31). È questa la sua testimonianza finale, che funge anche da chiave di lettura per i capp.18-19, in cui il compimento di tale volontà si fa estremo ed è drammaticamente e significativamente racchiuso tutto in quel “Tetšlestai” (Tetélestai, È compiuto; 19,30a).

La struttura di questa pericope è scandita in tre parti:

  1. vv.28-29: le ultime cose che riguardano i discepoli;

  2. v.30: Gesù dichiara finita la sua missione presso i discepoli (v.30a) e guarda ormai in avanti, alla lotta che dovrà sostenere contro il principe di questo mondo, preludendo alla sua passione e morte (v.30b);

  3. v.31: La testimonianza che Gesù lascia di se stesso ai discepoli, perché lo rendano noto al mondo: il mondo deve sapere che egli ha amato profondamente il Padre e tutto ciò che ha fatto fu fatto in adempimento della sua volontà.

Commento ai vv.28-31

Il v.28 è scandito in tre parti: la prima riguarda “l'andare e il ritornare” di Gesù, un tema questo che percorre l'intero cap.1433, benché l'introduzione del tema: “Avete sentito che io vi dissi” sembra travalicare i confini del cap.14 e ripercorre l'intero racconto giovanneo, là dove Gesù, già a partire da 7,33, capitolo questo che segna una svolta decisa verso il Golgota, accennerà di continuo al suo ritorno al Padre34. Se il “vado” indica il suo ritorno al Padre, meno evidente è quel “ritorno da voi”, che si richiama ai vv.3.18b. Ma già si è visto come tale ritorno presso i suoi non allude a nessun ritorno escatologico, che segna la fine della storia e la definitiva instaurazione del Regno di Dio in mezzo agli uomini, tematica questa comune ai Sinottici, ma non in Giovanni. Il ritorno di Gesù presso ai suoi si richiama, invece, sia alla risurrezione che al dono dello Spirito. Quanto alla risurrezione perché Gesù viene ricostituito con potenza dello Spirito in novità di vita e in una nuova relazione di figliolanza divina con il Padre (Rm 1,3-4), che richiederà ai suoi una ridefinizione dei rapporti con lui, non più basati sulla diretta corporeità della storia, ma fondati sulla fede, che consente ai credenti di continuare, a differenza del mondo che non lo vedrà più, a vederlo ancora e a vivere ancora insieme a lui. Quanto allo Spirito, poiché esso, pur essendo il nuovo Intercessore che prenderà il posto di Gesù, tuttavia egli “vi insegnerà tutte le cose, e vi ricorderà tutte le cose che io vi dissi” (v.26b), “poiché prenderà dal mio e ve (lo) annuncerà” (16,14b); egli, infatti, in quanto Spirito della verità “vi guiderà alla verità intera; poiché, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto quanto avrà udito e vi annuncerà le cose che vengono” (16,13). Uno Spirito dunque che renderà presente il Risorto nella sua Parola e nell'insegnamento della chiesa.

La seconda parte del v.28 si pone come una sorta di rimprovero nei confronti dei discepoli: “Se mi amaste vi rallegrereste perché vado al Padre”. Così posta la questione, sembrerebbe che i discepoli non amassero Gesù. In realtà i discepoli amavano Gesù e si qualificavano come suoi discepoli proprio per questo loro amore verso Gesù, che li aveva decisi per la sequela. Ciò che qui Gesù sollecita in realtà è un cambiamento di mentalità che prelude ad un cambiamento di rapporti. Il verbo usato, infatti, per indicare l'amore che Gesù pretende dai suoi è “¢gap£w” (agapáo), il verbo che in Giovanni delinea i rapporti di amore tra Gesù e il Padre. Gesù, dunque, sollecita i suoi a rimodulare il loro amore amichevole e filiale, ma ancora fondato su di una visione umana delle cose, su quello che intercorre tra lui e il Padre, entrando così nelle logiche di amore che muove la relazione di comunione dei Due, poiché fra non molto “io vivo e voi vivrete” (v.19c). Si rende dunque necessario da parte dei discepoli di un salto di qualità relazionale nei confronti di Gesù, per poter accedere alla comprensione del Mistero, in cui fra non molto anch'essi saranno coinvolti. Si rende quindi necessario il superamento delle relazioni umane e il porsi dalla prospettiva del Risorto e del Padre per comprendere come il suo essere uscito dal Padre e il suo essere venuto nel mondo e il suo ritornare dal mondo verso il Padre (16,28) costituiscano l'atto redentivo e di riscatto, che recupererà l'intera creazione e con lei l'umanità a Dio, così com'era nei primordi, quando tutto era ancora incandescente di Dio.

La terza parte del v.28 lascia interdetto il lettore: “poiché il Padre è più grande di me”. Dopo che si è affermato che il Padre e Gesù sono una cosa sola (10,30), così che chi vede Gesù vede il Padre (v.9b), poiché il Padre è in Gesù e questi nel Padre (v.10a), come si può concludere che il Padre è più grande di Gesù? Ci si trova di fronte ad una espressione che ha fatto discutere a lungo gli esegeti già a partire dai Padri della chiesa, che, divisi in due schieramenti, ritenevano, gli uni35, che Gv 14,28c si giustificasse a motivo della generazione del Figlio da parte del Padre, benché una simile spiegazione attenga più ad una logica dogmatica piuttosto che esegetica. Sarà infatti soltanto il concilio di Nicea (325 d.C.) che parlerà di generazione e di consustanzialità, in risposta ad Ario, che proprio a questo versetto si rifaceva per dimostrare la non divinità di Gesù36. Giovanni ancora non poteva parlare ai suoi in questi termini. Il vero motivo di quanto afferma 14,28c va dunque cercato altrove. Un secondo gruppo di Padri37 giustificava l'affermazione di 14,28c riferendosi all'umanità di Gesù, che lo poneva per questo in una condizione di inferiorità rispetto al Padre. Una formulazione questa che si rifà alla dottrina delle due nature di Gesù, questione che fu affrontata dai concili di Efeso (431 d.C.) in risposta a Nestorio, patriarca di Costantinopoli, e di Calcedonia (451 d.C.), in risposta alle pretese di Eutiche, archimandrita di Costantinopoli. Tutte soluzioni queste che si ponevano dunque al di fuori dell'esegesi, che invece va alla ricerca delle reali intenzioni dell'autore.

Per comprendere che cosa intendesse Giovanni con questa sua affermazione è sufficiente percorrere sinteticamente la sua cristologia per rendersi conto come il suo Gesù non può fare nulla da se stesso e che tutto ciò che egli compie lo vede fare dal Padre (5,19.30; 8,28); se il Padre opera, anche lui opera (5,17); tutto ciò che egli dice e compie, lo dice e lo compie il Padre in lui, qualificandosi come lo spazio storico in cui opera il Padre (14,9-11); il suo vero cibo è infatti fare la volontà del Padre (4,32.34), verso il quale è rivolto in una forte tensione esistenziale e ontologica fin dall'eternità (1,1-3). È lui che è uscito dal Padre ed è entrato nel mondo (8,42; 16,28a.30; 17,8); lui che è stato inviato dal Padre (17,18.21; 20,21) e in quanto inviato egli afferma che il servo non è più grande del padrone così come l'inviato non è più grande di chi lo ha mandato (13,16). La questione posta qui dall'autore, pertanto, investe la dinamica relazionale che lega i Due, la quale a sua volta rimanda ad una questione ontologica. Da questo insieme di flash, necessariamente sintetici, si può intuire come l'esserci di Gesù non è a prescindere dal Padre, ma da questi dipende e per questi sussiste. Egli infatti per sua natura si qualifica come la Parola-Azione propria del Padre, grazie alla quale il Padre si manifesta, si rivela ed opera (14,9-11). Per questo Gesù è rivolto in una forte e costante tensione verso il Padre; per questo Gesù è in funzione del Padre e i suoi ritmi esistenziali ed ontologici sono in perfetta sincronia con quelli del Padre. Egli infatti opera ciò che vede fare dal Padre ed opera soltanto quando il Padre opera, proprio perché egli è il Dabar del Padre, la sua Parola-Azione, e non si muove mai autonomamente e indipendentemente dal Padre, anche se il Padre gli ha consegnato tutto nelle sue mani (3,35; 13,3a; 16,15a); per questo egli senza il Padre non può fare nulla, poiché Gesù è espressione del Padre. Il comparativo “più grande”, pertanto, non va inteso in senso di dignità o d'importanza, ma di funzione che lega i Due e che a sua volta rimanda alla loro stessa ontologia. L'espressione “più grande di me” fa parte pertanto della stessa architettura divina.

Il v.29, sulla falsariga degli annunci profetici (Is 48,5a), conclude da un lato il discorso di Gesù su quanto lo riguarda: la sua passione, morte, risurrezione, l'avvento di un nuovo Intercessore, a loro del tutto sconosciuto, che ne prenderà il posto, dando un senso di abbandono e di vuoto ai suoi; eventi questi difficilmente comprensibili, che potrebbero scuotere la fede dei discepoli, vedendo in essi la definitiva sconfitta di Gesù e la fine dei loro sogni e delle loro speranze, come avvenne per i due discepoli di Emmaus, che con volto triste si allontanavano da Gerusalemme, perché ormai in loro si era spenta ogni speranza (Lc 24,17-21); dall'altro, l'anticipazione di quanto sta per accadere è finalizzata (“affinché”, †na, ína) ad attutire il colpo e a rafforzare la fede nella parola di Gesù che li ha preannunciati loro; ma nel contempo, in seconda battuta, lascia intendere che tutto ciò fa parte di un progetto divino, che si sta attuando in Gesù e di cui essi saranno, loro malgrado, coinvolti e partecipi, poiché essi comprenderanno come questo piano divino di salvezza li vedrà, in epoca postpasquale, assieme allo Spirito Santo, attori principali, chiamati a continuare l'opera del loro Maestro e Signore.

Il v.30 è scandito in due parti, la prima riguarda la dichiarazione di Gesù che la sua missione volge ormai al termine: “Non dirò più molte cose con voi”. Il verbo qui usato è “lal»sw” (laléso, dirò), che, qualora sia riferito a Gesù, ha attinenza con la rivelazione e posto qui al futuro negativo (“non dirò”) attesta che la sua missione è finita e quindi non ha più futuro. Un ulteriore elemento che fa pensare, assieme alla conclusione del v.31b, come in origine vi fossero soltanto i capp.13-14 a precedere 18,1 e come i capp.15-17 siano stati aggiunti successivamente, forse nella redazione finale, conclusasi verso il 110 d.C. 38. Proprio per tale motivo, si rimane perplessi di fronte a quel “poll¦” (pollà, molte cose), perché se tutto lascia intendere che l'ultimo discorso di Gesù ai suoi termina qui con il cap.14, non si capisce bene la presenza di quel “poll¦” che allude a molte altre cose da dire. È probabile, quindi, che il v.30a, posto a definitiva conclusione del discorso di Gesù ai suoi, fosse in origine: “Non dirò più niente (oÙdšn, udén) con voi”, ma che sia stato successivamente modificato in “Non dirò più molte cose (poll¦, pollà) con voi”, aprendo in tal modo un nuovo spazio narrativo per l'inserimento di altri tre capitoli (15-17). Sulla stessa linea è sostanzialmente anche il Brown39.

La seconda parte del v.30 compie un passaggio importante poiché trasferisce il lettore dallo scontro storico con il mondo e il giudaismo a quello soprannaturale con il “capo del mondo”. Giunti quindi al termine della missione storica di Gesù si gioca ora a carte scoperte e l'autore lascia in qualche modo intendere come dietro a questo scontro storico con le forze avverse a Gesù ci sia stato in realtà un'altra forza invisibile, che compare in chiaro oltre che qui anche in 12,31 e 16,11: il capo del mondo. Non è tuttavia una sorpresa, poiché Gesù già aveva accusato le autorità giudaiche di avere come loro padre il diavolo e come questi fosse omicida e menzognero, alludendo sia al loro rifiuto della parola di Gesù che ai loro intenti omicidi nei suoi confronti: “Voi siete dal padre, il diavolo, e volete fare i desideri del padre vostro. Quello era omicida fin dall'inizio e non è stato nella verità, poiché la verità non è in lui. Quando dice il falso, parla di ciò che gli è proprio, poiché è menzognero e suo padre” (8,44). Già da allora dunque il lettore era stato avvertito e gli era stata consegnata la chiave di lettura della forte opposizione nei confronti di Gesù. Tuttavia, questa seconda parte allude anche a quanto sta per succedere al cap.18,2-6 dove Giuda, ormai avvolto dalle tenebre (13,30b) e divenuto luogo della demoniaca azione omicida contro Gesù (13,27a), lo consegnerà ai suoi avversari i quali, di fronte al suo manifestarsi con potenza divina, dichiarandosi per l'ultima volta “Io sono” (18,5.6), indietreggeranno e cadranno a terra, significando in tal modo la fragilità del potere di satana: “viene il principe del mondo; e contro di me non può nulla”. Del resto il potere assoluto di Gesù di fronte al suo destino già era stato dichiarato in 10,18: “Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente; questo mandato ho ricevuto dal Padre mio”. La sovranità di Gesù dunque è la sovranità stessa di Dio di fronte alla quale il mondo e il suo capo non poterono che indietreggiare e cadere a terra. Non loro, quindi, lo hanno sopraffatto, ma lui si è offerto.

Il v.31 potremmo definirlo nell'ambito dell'economia narrativa e teologica come episegetico rispetto al v.30b, dove si dichiarava che “viene il principe del mondo; e contro di me non può nulla”. Come dunque spiegare quanto invece è accaduto e che ha portato Gesù alla più drammatica delle morti, quella della croce, dopo essere stato assoggettato a sofferenze ed umiliazioni inaudite? Satana, dunque, ha avuto la meglio nonostante tutte le pretese di Gesù, infrantesi di fronte all'evidenza dei fatti? Ecco dunque il v.31 che si apre significativamente con una particela avversativa “ma” che si contrappone a quanto è storicamente avvenuto, offrendo qui una diversa lettura che riconduce il tutto non alla vittoria di Satana su Gesù, ma all'attuarsi di un piano salvifico voluto dal Padre a cui Gesù si è liberamente sottoposto: “come il Padre mi ha comandato, così faccio”. Tutto si gioca su due tempi verbali: “™nete…lato” (eneteílato, comandò), un aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, che definisce un'azione puntuale, posta nel passato, lasciando intendere come la venuta di Gesù, che il Padre ha inviato, e quanto egli ha compiuto non nasce dalle vicende occasionali della vita, ma il tutto in quel “comandò” viene rimandato ad un piano salvifico del Padre che Gesù sta attuando anche in questo preciso momento, quello del suo sacrificio. Significativo infatti è l'altro tempo verbale, posto al presente indicativo: “oÛtwj poiî” (útos poiô, così faccio). Il “così faccio” lega il fare di Gesù al comando del Padre, mentre il “così” dice il pieno conformarsi di Gesù al progetto salvifico del Padre, che prevede quanto ora sta per succedere. Il presente indicativo, infatti, qui allude al libero assoggettarsi di Gesù alla passione e morte. Come poi leggere il sacrificio di Gesù quale attuazione della volontà del Padre? Gesù dunque vittima di un Padre padrone e da lui oppresso senza pietà? La risposta a tale quesito inquietante viene dalla prima parte del v.31: “Ma affinché il mondo sappia che amo il Padre”. Ancora una volta il “ma” con cui si apre il v.31 dice la contrapposizione a questa tesi: nessuna violenza, nessuna vessazione del Padre nei confronti di Gesù, che mette subito in chiaro la sua posizione nei confronti del Padre e del suo progetto salvifico che egli sta attuando: “affinché il mondo sappia che amo il Padre”. Il senso finale della frase dato da quel “†na” (ína, affinché) iniziale dice che quanto sta per succedere a Gesù, passione e morte, non è frutto di oppressione e di violenza subite, ma di adesione libera al progetto del Padre con cui egli sta collaborando e testimoniato da quel “così faccio”. La radice di tutto questo sta in quel “amo il Padre”. Non si tratta qui di un sentimento di amore filiale o di venerazione e rispetto filiali verso il Padre, ma tale amore, espresso in greco dal verbo “¢gapî” (agapô), delinea il rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre, che rimanda non ai sentimenti, ma alla natura stessa di tale rapporto, in cui si riflette la struttura e la dinamica stesse del loro essere Padre-Figlio. Tale amore, pertanto, testimonia circa la stessa architettura che regola la vita dei Due: il Padre nel Figlio e questi nel Padre, tali da formare una cosa sola e tali che la volontà dell'uno corrisponde al fare dell'altro, che diviene il luogo storico in cui tale volontà si attua e si manifesta. Amore, quindi, non come sentimento di pietà e di venerazione filiale, ma come comportamento che regola la vita dei Due e che si radica nel loro stesso essere: una totale apertura dell'uno verso l'altro; una totale donazione di sé per l'altro; una totale accoglienza dell'altro in se stesso. Tutto ciò, attesta il v.31a, deve essere noto al mondo: “affinché il mondo sappia”. Quanto dunque sta per accadere a Gesù diviene una testimonianza non della brutale violenza subita, che lo rende suo malgrado vittima, ma espressione del suo amore per il Padre, verso il quale è rivolto fin dall'eternità (1,1-3) e in cui il Padre si riflette ed opera.

Il v.31 si conclude con un punto fermo: “Alzatevi, andiamo (via) da qui”. Se da un lato questa espressione pone fine all'ultimo discorso di Gesù e al contesto dell'ultima cena in cui esso è avvenuto (13,2a), predisponendo il lettore al successivo passaggio ad un diverso contesto, quello di 18,1, il giardino del Getsemani, tuttavia l'uso dei verbi e la qualità degli stessi lasciano intravvedere in qualche modo quanto sta per succedere. Vi è innanzitutto il passaggio da un soggetto ad un altro: dal “voi”, riferito ai discepoli, al “noi”, che vede i discepoli associati a Gesù e con lui vanno verso il luogo del compimento dell'ora. Ma per andare con lui si rende necessario prima cambiare registro, rinnovarsi nella mentalità e nello spirito, allineandosi alle prospettive e al sentire di Gesù, che sono quelli propri del Padre. Ecco dunque l'esortazione: “Alzatevi”; un invito non solo a prepararsi per uscire, ma quel “'Ege…resqe” (egheíreste, alzatevi), un verbo tecnico che nella chiesa primitiva indicava la risurrezione di Gesù, dice il risollevarsi da una situazione opprimente, che ha alla radice le logiche di un sentire umano e che già si intuiva nell'osservazione che Gesù mosse a loro: “Se mi amaste vi rallegrereste perché vado al Padre” (v.28b); un risollevarsi che prelude in qualche modo ad un altro “risollevarsi” a cui essi sono invitati ad unirsi, perché egli, Gesù, desidera che i suoi siano con lui e contemplino la sua gloria: “Padre, ciò che mi hai dato, voglio che dove sono io anche quelli siano con me, affinché vedano la mia gloria, che mi hai dato [...]” (17,24). Un invito che si traduce nell'esortazione finale “andiamo”. Dalla seconda persona plurale “voi” si passa ora alla prima plurale “noi” in cui i discepoli sono ora accomunati al destino del loro Maestro; un'associazione che si fa comunione di vita e di destino e che verrà ricordata in 15,20-21: “Ricordatevi la parola che io vi dissi: “non c'è servo più grande del suo signore”. Se perseguitarono me, perseguiteranno anche voi; se osservarono la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma faranno tutte queste cose contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono chi mi ha mandato”.


Giovanni Lonardi


N O T E


1Cfr. Mt 2,3; 14,26; Mc 6,50; Lc 1,12; 24,38

2Cfr. Mt 14,31; 28,17b; Lc 24,17b.21.38; Gv 12,37

3Cfr. R.E. Brown, Giovanni, Edizioni Cittadella Editrice, Assisi 1999, pag.752

4Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni. Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1990; R.E. Brown, Giovanni, Edizioni Cittadella Editrice, Assisi 1999.

5Sulla formazione del vangelo giovanneo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.41-44

6Sulla questione delle incongruenze letterarie e dei problemi nella formazione del vangelo giovanneo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.44-47

7Cfr. Dt 26,15; 1Re 8,30.39.43.49; 2Cr 6,30.33.39; 30,27; Is 63,15; 66,1;

8Cfr. Gv 7,33; 8,14; 8,21.22; 13,1.33.36; 14,2.3.4.12.28; 16,5.7.10.17.28

9Cfr. i diversi contesti del verbo “o‡damen” (oídamen) in Gv 3,2.11; 4,22.42; 6,42; 7,27; 9,20.21.24.29.31; 14,5; 16,18.30; 20,2; 21,24.

10Sulla questione della gnosi in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.15-19

11Cfr. Gv 11,16; 14,5; 20,24-28;

12Sulla tecnica dei doppi sensi in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag. 54

13Cfr. R.E. Brown, Giovanni, ed. Cittadella Editrice, Assisi, V edizione 1999; pagg.746-747

14Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, II edizione 2007 – pagg.830-831.

15Per un approfondimento dell'espressione “Io sono” in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera alle pagg.63-64

16Sul tema della verità e della vita in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 83-85

17Cfr. Gv 1,43-48; 12,21-22; 14,8-9. Anche in 6,5-7 Filippo, benché non direttamente coinvolto in contesti rivelativi come nei versetti qui citati, tuttavia egli fa parte di un racconto, quello del pane, in cui Gesù si rivelerà Pane di Vita (6,32-35); un racconto rivelativo in cui Filippo compare comunque nelle sue premesse. Il nome di Filippo, quindi, è legato alla rivelazione.

18Cfr. Gv 2,18; 5,20; 10,32; 14,8.9; 20,20

19Cfr. Gv 4,34; 5,20.36; 6,28.29; 9,3.4; 10,25.37.38; 14,10.11.12; 17,4;

20Cfr. Gv 7,3.21; 10,32.33; 15,24;

21Cfr. Gv 3,19.20.21; 7,7; 8,39.41

22Sul tema della vita della chiesa nel I sec. Cfr. K. Bihlmeyer - H. Tuechle, Storia della Chiesa, Vol. I: l'antichità cristiana, edizione Morcelliania, Brescia, XIII edizione settembre 2000

23Cfr. Mt 2,10; 13,44; 25,21; Lc 1,13.14.16.44; 2,10; Gv 4,45; 15,11; 16,20; 17,13; Rm 14,17; 15,13; 2Cor 1,24; 7,4; Gal 5,22; 1Ts 1,6; 1Gv 1,4. - Sul tema della gioia cfr. anche la voce “Gioia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

24Sulla questione cfr. il mio studio sul Padre nostro: http://digilander.libero.it/longi48/Padre%20nostro.htm#_ftnref92

25Cfr. 1Gv 2,18.22; 4,1.3.4; 2Gv 1,7

26Cfr. Mt 5,19; 15,3; 19,17; 22,36.38.40; Mc 7,8.9; 10,5.19; 12,28.31; Lc 1,16; 15,29; 18,20; 23,56

27Cfr. Gv 10,18; 11,57; 12,49.50; 13,34; 14,15.21; 15,10.12

28Il verbo battezzare deriva dal greco “baptzw” (baptízo), che significa immergere, sommergere

29Va tuttavia tenuto presente che i vv.15,26; 16,7.13 fanno parte dei capp.15.16 che sono stati aggiunti successivamente e che pertanto risentono del cap.14 e ne riprendono in qualche modo i contenuti ampliandoli e giocandoli, come in questo caso, sull'onda del pensiero a spirale, dandone sviluppo.

30Sul significato del termine “verità” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.83-84

31Cfr. Lv 19,2; 20,3.26; 21,8

32Delle quattro volte tre (Gv 14,20; 16,23.26) hanno un senso escatologico; la quarta (5,9) ha una valenza meramente narrativa e riguarda la precisazione del giorno in cui era avvenuta la guarigione dell'infermo

33Cfr. vv.2-6.12.18

34Cfr. Gv 7,33; 8,14.21.22; 13,3.33.36; 16,5.7.10.17.28

35Origene, Tertulliano, Atanasio, Ilario, Epifanio, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Damasceno

36Ario (260-336) era presbitero dal 313 presso la chiesa di Baukalis ad Alessandria, in cui era vescovo Alessandro con il suo diacono Atanasio. Venne in conflitto nel 318 con il suo vescovo per aver propagato con prediche e scritti una cristologia rigorosamente subordinazionista. Ario aveva a cuore l’unità di Dio per cui un Gesù Cristo, Figlio di Dio e, quindi, lui stesso Dio, attentava al monoteismo. Ario, pertanto, affermava che : a) Il Logos, cioè Gesù Cristo, non è Dio ed ha una natura completamente diversa da Lui. Egli, tuttavia, è pur sempre il primo tra tutte le creature, di gran lunga superiore agli uomini e perciò lo si poteva definire un semi-Dio, ma non gli si poteva attribuire una natura divina vera e propria; b) Egli non era eterno, ma fu creato nel tempo; anzi ci fu un tempo in cui il Logos non c’era. Ario fondò e sostenne queste sue affermazioni con alcuni passi della Bibbia e precisamente: Mc 13,32: “Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno li conosce… neppure il Figlio”; Gv 14,28 : “… vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me”; Rm 1,4: “Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito… mediante la risurrezione”; Prv 8,22: “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin d’allora”. In questo passo si parla della Sapienza, ma da sempre gli antichi interpretarono la Sapienza come il Logos. Così, Ario, in buona fede, interpretò il Logos, Gesù Cristo.

37Cirillo di Alessandria,, Ambrogio ed Agostino

38Sulla questione della data di composizione del vangelo giovanneo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera; pagg. 39-41.44

39Cfr. R.E. Brown, Giovanni, op. cit.; pag.785