IL VANGELO SECONDO GIOVANNI

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi


SECONDA PARTE DEL VANGELO DI GIOVANNI

IL LIBRO DELLA GLORIA

(capp. 13-20)




Note generali al Libro della Gloria

La storia di Israele, colta dalla prospettiva dei profeti e dalla rilettura sapienziale1, è la storia di un “Resto”2 che Jhwh si riservava, di volta in volta, in mezzo al suo popolo per dare compimento alle sue promesse, di cui il “Resto” era erede e depositario. È dunque la storia di una lunga selezione che ha come criterio qualificante la fedeltà all'Alleanza e alla Torah; la disponibilità alla testimonianza fedele e all'ascolto accogliente della Parola. La storia della salvezza in Israele va dunque nel senso dai molti ai pochi; pochi che restano sempre meno fino a giungere all'unico vero Resto d'Israele, Gesù, il Fedele per eccellenza al Padre3, che fa di tutta la sua vita un atto di consacrazione totale ed esclusivo al Padre. Sarà proprio da questo ultimo e definitivo “Resto” che proseguirà, nel segno della definitiva fedeltà a Dio, la storia della salvezza. È in questa cornice che va collocato il Libro della Gloria e in particolare i capp.13-17 in cui protagonisti principali sono Gesù e i suoi discepoli e il Padre. Gesù ha chiuso la sua vita pubblica con un sostanziale fallimento (12,37) che lo ha costretto, in 8,59, a nascondersi e a fuggire dal tempio per evitare la lapidazione e in 12,36 ad andarsene, nascondendosi ai Giudei. Quel fuggire dal tempio e quell'andarsene dai Giudei dicono l'abbandono del giudaismo e del suo culto da parte di Gesù; mentre il suo nascondersi dice il suo rendersi irraggiungibile da un giudaismo caparbiamente chiuso nella sua incredulità e nelle sue certezze (12,37-40). La storia della salvezza, tuttavia, non termina qui, ma prosegue, ancora una volta, con un piccolo gruppo, un “resto”, quello che Gesù si è riservato, costituendolo suo erede presso gli uomini: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché voi andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga, affinché ciò che chiederete al Padre nel mio nome ve (lo) dia” (15,16).

Il Libro della Gloria è la storia di questo “Resto” e della sua eredità, lasciata a quanti hanno creduto alla parola di Gesù e l'hanno accolta nella propria vita; un Libro che getta luce non solo sul significato e il senso della passione, morte e risurrezione di Gesù, ma anche sul futuro di questo “Resto”, le cui sorti, qui nella storia, sono affidate, ora, al primo ceppo del nuovo Israele, a quel Israele che “aspettava il conforto [...]” e “la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,25.38); a tutti quelli che, avendo creduto nel suo nome, è stato dato loro di diventare figli di Dio (1,12).

Da un punto di vista letterario il Libro della Gloria si suddivide in tre grandi sezioni:

  1. La sezione dei discorsi, comprendente i capp. 13,31-17,26, che racchiude l'eredità del “Resto” ai suoi seguaci;

  2. La sezione del racconto della passione e morte (18-19), in cui si manifesta la fedeltà ultima e definitiva del “Resto” al Padre;

  3. La sezione del ritrovamento della tomba vuota e delle apparizioni (20), in cui il “Resto” prosegue nella fedeltà dei suoi discepoli (20,21-23), anch'essi “resto” (1,12-13) di un giudaismo (1,11) e di un'umanità (1,5.10) caparbiamente chiusi nelle loro sicurezze e nella loro incredulità.

A queste tre sezioni fa seguito un'appendice, il cap.21, di scuola giovannea, aggiunto tardivamente, probabilmente per sancire la riconciliazione tra la comunità giovannea e le altre comunità credenti della Palestina. È soltanto qui, in questo capitolo, infatti, che Pietro viene riconosciuto come pastore universale dei credenti (21,15-19).


CAPITOLO TREDICESIMO



Note generali

Il clima che si respira in questo capitolo e nei successivi quattro è quello dell'intimità di una ristretta cerchia familiare, che si ritrova attorno ad una mensa per consumare una cena. Il rumore delle folle, le tensioni e le diatribe con le autorità giudaiche, le loro persecuzioni e le loro minacce qui non trovano più spazio. Qui si è soltanto tra amici fidati e chi non lo è viene estromesso dal gruppo e gettato fuori in preda alle tenebre (v.30b). Qui gli interlocutori unici ed esclusivi di Gesù e oggetto delle sue attenzioni sono soltanto i suoi discepoli, che egli chiama “i suoi” (v.1) e con grande tenerezza “figlioletti” (v.33); un rapporto di profondo amore, unico ed esclusivo, che giunge fino all'estremo atto di offerta di se stesso (v.1), contraccambiato dall'affettuoso abbandono dei discepoli sul seno del loro Maestro e Signore (vv.23.25) e dall'impetuosa quanto fragile generosità dell'offerta della propria vita per lui (v.37), ironicamente e benevolmente ripresa dal Maestro (v.38). Qui tutto è soffuso e ovattato ed ha il suono vellutato del ricordo; tutto qui è riservato ed esclusivo, tutto si muove sullo sfondo di un amore che si fa dono di vita (v.1b) e che si esprime nel servizio (vv.14-16); un amore che diviene comandamento di vita (v.34), cioè fondativo di nuovi rapporti e di nuove relazioni nelle comunità credenti e tali da divenirne il segno distintivo di fronte al mondo (v.35).

Probabilmente il racconto del cap.13 attinge ai ricordi di Giovanni e riadattato in funzione del suo racconto. I tratti narrativi qui, infatti, dai toni soffusi e smorzati, sembrano echi di un lontano ricordo, di ciò che successe in quella notte disgraziata e di cui egli fu, probabilmente, quel testimone che poggiava la sua testa sul seno di Gesù e al quale, contraccambiato, era profondamente legato. È la scena di un addio, in cui Gesù raduna attorno a sé i suoi figlioletti e parla loro di un comandamento nuovo, quello dell'amore servizievole, che si fa offerta di vita per l'altro sul suo esempio. Ma è proprio quel termine “figlioletti” (tekn…a, teknía), espressione inusitata sulle labbra di Gesù, che ricorre nel racconto giovanneo soltanto qui e in tutto il N.T. altre sette volte, tutte nella prima lettera di Giovanni4, che fa sorgere il dubbio che l'autore qui stia in qualche modo riflettendo se stesso. Ormai vecchio e vicino alla morte, egli raccoglie attorno a sé la propria comunità e le impartisce le sue ultime disposizioni a mo' di testamento spirituale, che trova il suo vertice nel comandamento dell'amore e nel sollecito al servizio ai fratelli. Un comandamento questo che risuonerà numerose altre volte nei capp.13-17.

La macrostruttura del cap.13, apparentemente semplice, si snoda al suo interno in modo piuttosto complesso; essa è composta da due sezioni: narrativa (vv.4-30), preceduta da un preambolo (vv.1-3), e discorsiva (vv.31-38), che poi proseguirà nei capp.14-17. La parte narrativa è composta da due quadri che si intrecciano continuamente tra loro, finché l'uno non sfocia nell'altro: il racconto della lavanda dei piedi (vv.4-9.12-17) e quello del traditore svelato (vv.2.11.18-20.21-30).

Commento al cap. 13

Testo

Preambolo introduttivo

1- Ora, prima della festa della pasqua, sapendo Gesù che venne la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi nel mondo, li amò fino alla fine.
2- Ed essendoci una cena, avendo già messo il diavolo nel cuore di Giuda, (figlio di) Simone Iscariota di consegnarlo,
3- sapendo che il Padre gli diede tutte le cose nelle mani e che da Dio uscì e a Dio va,

Commento ai vv.1-3

Il racconto della lavanda dei piedi è preceduto da un preambolo molto denso, ma nel contempo reso complicato da un continuo susseguirsi di frasi subordinate, che se da un lato forniscono la chiave di lettura sia del Libro della Gloria che del racconto stesso, dall'altro ne rallentano notevolmente la lettura rendendola difficile. Da questo insieme letterario così elaborato nasce il sospetto che il racconto della lavanda dei piedi fosse originariamente preceduto da una semplice incorniciatura sia temporale (pasqua) che topografica (cena). E il sospetto che le subordinate siano state inserite successivamente è che queste sono inquadrate e dipendenti dai due elementi temporale e topografico, dai quali ricevono l'intonazione, ma nel contempo ne forniscono i contenuti teologici: “Ora prima della festa di pasqua […], essendoci una cena [...]”. Questo doveva essere lo schema narrativo iniziale, che, come vedremo subito, lega bene con il v.4. L'inserimento delle subordinate è stato dettato probabilmente dalla necessità di creare uno sfondo teologico e cristologico sia al racconto che al Libro della Gloria (13-20). Queste, infatti, contengono tutti i temi teologici di questa seconda sezione del vangelo giovanneo (13-20) e costituiscono il punto di arrivo di un lungo cammino durante il quale si ricordava l'ora, che si precisava non ancora venuta (2,4; 7,30; 8,20) e che poi si annunciava come giunta (12,23); si preannunciava il tradimento di Giuda (6,71; 12,4); e Gesù lasciava intendere, più o meno velatamente, che sarebbe ritornato da colui che lo ha mandato (7,33; 8,14.21.22).

I vv.1-3 contestualizzano i capp.13-17 a ridosso della pasqua, la terza pasqua5, quella fatale per Gesù, e all'interno di una cena, l'ultima6, eucaristica per i Sinottici7 e per Paolo8, soltanto di addio per Giovanni, che colloca invece il discorso eucaristico al cap.6, a ridosso della seconda pasqua (6,4). Una cena avvenuta il giovedì sera per noi, ma per gli ebrei, che iniziavano a contare il nuovo giorno dalle 18,00, erano le prime ore di venerdì e tutto il dramma della passione, morte e sepoltura di Gesù sarà contenuto entro le 24 ore: dalle 18,00 del giorno prima, per gli ebrei le prime ore di venerdì, alle 18,00 del giorno dopo (19,31.42), le ultime ore di venerdì9. È significativo come questa cena sia inglobata nello stesso giorno della passione, morte e sepoltura di Gesù, segno questo che l'autore intendeva associarla ad esse e come quelle sono in qualche modo anticipate in questa, così questa fornisce loro la chiave di comprensione. Vedremo infatti come il racconto della lavanda dei piedi contenga delle allusioni simboliche sia alla morte che alla risurrezione di Gesù. Non si tratta, a differenza dei Sinottici, della cena pasquale propriamente detta, ma di una cena posta a ridosso della pasqua, ed esattamente 24 ore prima che iniziasse quella pasquale, così che al sopraggiungere delle prime ore della pasqua, dopo le 18,00 di venerdì, gli eventi della passione e morte di Gesù erano completamente consumati. Del resto il cap.13 esordisce avvertendo il lettore che la cena di cui al v.2a viene collocata “prima della festa della pasqua” (v.1a), così come il v.29 lascia chiaramente intendere come “la festa”, cioè la pasqua, doveva ancora venire. L'aver eluso la cena pasquale, ponendo la passione e la morte nel pomeriggio di venerdì, sul finire del giorno e a qualche ora dall'inizio della pasqua, ha consentito a Giovanni di dispiegare la propria cristologia, che vede in Gesù l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29.36), associando così la sua passione e la sua morte al momento in cui presso il tempio si immolavano gli agnelli pasquali e li si preparavano per la cena pasquale. Un appunto che egli farà in 19,14a, versetto questo che ci riserviamo di commentare approfonditamente a suo tempo. Quanto alla diversa calendarizzazione delle due cene, sinottica e giovannea, e degli eventi seguenti, rimando al mio studio “Pasqua ebraica e Ultima Cena e alcuni problemi connessi”, posto sul mio sito di “Teologia per Tutti” al seguente indirizzo: “http://digilander.libero.it/longi48/Pasqua%20ebraica%20e%20Ultima%20Cena.html”.

Incorniciati i capp. 13-17 a ridosso della pasqua e all'interno di una cena, si tratta ora di fornire loro la chiave di lettura e di senso, in cui predomina lo stato di coscienza di Gesù, che lo muove all'interno di un progetto divino, contenuto tutto in quel “sapendo” (e„dëj, eidòs), che si ripete ai vv.1.3 e da cui dipende tutto il contenuto teologico che qualificherà l'intero agire di Gesù in questa seconda sezione del vangelo (13-20). “Eidòs”, un sapere, il cui tempo verbale Giovanni pone al perfetto, un tempo che esprime un'azione presente quale conseguenza di una posta nel passato, un passato che ha le sue origini nello stesso Padre e che appartiene quindi al suo progetto di salvezza di cui egli, Gesù, è non solo il rivelatore, ma anche colui che ne dà attuazione, costituendosi Parola ed Azione del Padre (5,19.20; 14,9-11). Ciò che Gesù sa infatti è che “la sua ora è venuta”, che essa consiste “nel passare da questo mondo al Padre”; un'ora che porta con sé e in se stessa l'intero potere del Padre di cui Gesù è rivestito (v.3a), per cui il suo dire e il suo agire sono onnipotenti e rivelativi nel contempo; un'ora che è accompagnata dalla piena coscienza che Gesù ha della sua origine divina, da cui è uscito, in cui si è sempre mosso durante la sua missione terrena e verso cui ora tende, chiedendo al Padre di ricostituirlo in quella gloria che egli aveva “prima che il mondo fosse” (17,5). Il tutto viene sintetizzato nell'espressione “da Dio uscì e a Dio va” e che trova il suo vertice in 16,28, che esprime il movimento pendolare che caratterizza l'intero vangelo giovanneo: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre”. Un sapere quello di Gesù, in cui l'autore sintetizza interamente la sua teologia e la sua cristologia fin qui elaborate, quasi a volerle ricordare al suo lettore, e che rilancerà in questa seconda parte del suo vangelo. Un “sapere” per mezzo del quale l'autore riveste il suo Gesù di regalità divina, ponendolo al di sopra dei suoi avversari, dei suoi stessi discepoli e degli eventi, che egli dominerà nel loro svolgersi. È proprio questo stato di coscienza esclusivo che lo pone al di sopra di tutto e di tutti. Il Gesù giovanneo, concepito come l'Agnello che toglie il peccato dal mondo, associato al sacrificio degli agnelli pasquali immolati nel tempio (19,14a), non è vittima degli uomini e degli eventi, ma il loro dominatore e il loro vincitore. Un concetto questo che Giovanni nella sua Apocalisse raffigurerà nell'Agnello sgozzato e ritto in piedi (il Cristo morto e risorto), che riceve da Colui che sedeva sul trono (il Padre) il libro sigillato della storia, che soltanto lui è in grado di aprire, dando corso agli eventi della storia della salvezza (Ap 5,1-7). Tutta la storia quindi gli è stata posta nelle sue mani dal Padre (v.3a) perché su di essa egli imprimesse il suo potere salvifico. Una superiorità e una supremazia sugli eventi, che già erano state preannunciate in 10,17b-18: “perché io offro la mia vita, per prenderla di nuovo. Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente; questo mandato ho ricevuto dal Padre mio”.

All'interno della cornice di questo “sapere” vengono posti altri due eventi, che vanno a completarne il quadro: il primo riguarda i suoi discepoli: “avendo amato i suoi nel mondo, li amò fino alla fine” (v.1c); potremmo definire questa espressione come la storia di un amore iniziata con la venuta di Gesù, concretizzatasi con la scelta dei suoi e proseguita fino all'estremo dono di sé: “avendo amato … li amò fino alla fine”. Benché io abbia definito i “suoi nel mondo” come i discepoli che egli si è scelto, in realtà l'autore qui non precisa che questi siano i discepoli, ma li qualifica con un sostantivo anonimo “i suoi nel mondo”, cioè quelli che gli appartengono e che hanno saputo accoglierlo e che proprio per questo sono “suoi”. Questa nuova proprietà di Gesù, qualificata soltanto dal suo amore accolto (17,6b), possiede, a motivo del suo anonimato e del suo essere nel mondo, inteso qui come luogo storico-geografico, un respiro universale ed abbraccia anche i futuri credenti nel mondo (17,20). Essi sono quelli che i vv.1,12-13 avevano già in qualche modo indicato: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati”. È questa la nuova proprietà di Dio, acquisita in Gesù, che si contrappone a quell'altra proprietà delineata in 1,11: “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero”. Entrambe sono proprietà di Dio, entrambe gli appartengono, ma la sostanziale differenza sta nell'aver accolto o respinto l'amore incondizionato del Padre, che nella persona di Gesù ha assunto il suo volto storico (3,16); un amore che ha trovato il suo vertice sulla croce, sancito dalle ultime parole di Gesù (19,30): “Tetšlestai” (Tetélestai, è compiuto), che in qualche modo già risuona qui, in quel “li amò fino alla fine” “e„j tšloj” (eis télos), fino al compimento compiuto sulla croce. Un compimento (télos) che è preceduto dalla particella di moto verso luogo “eis”, che fa della vita di Gesù e dell'intera sua missione un cammino verso questo compimento che ha il suo vertice sulla croce, dove, giuntovi, egli dichiarerà che “è compiuto”. Un amore che qui viene espresso per due volte con il verbo “¢gap£w” (agapáo), che nel linguaggio giovanneo inerisce al rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre, un rapporto che qui viene riflesso in quello tra Gesù e “i suoi”. Un parallelismo di rapporti che apparirà più chiaramente in 17,21-23: “affinché tutti siano uno, come tu, Padre, in me e io in te, affinché anche loro siano in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E io ho dato a loro la gloria che hai dato a me, affinché siano uno come noi (siamo) uno, io in loro e tu in me, affinché siano perfetti in uno, affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me”.

Il secondo evento, contrastante con il primo, riguarda la figura di Giuda10, che si intreccerà con questa parte narrativa tre volte (vv.2.10-11.18), per poi sfociare nella pericope dello svelamento del traditore (vv.21-30), in cui egli sarà associato alle tenebre (v.30). Per tre volte nel vangelo giovanneo Giuda è accomunato al diavolo: dapprima in 6,70 egli è definito “un diavolo” (eŒj di£bolÒj ™stin, eîs diábolós estin, uno è un diavolo); qui in 13,2 si dice che il diavolo aveva già messo nel suo cuore di tradire Gesù; ed infine in 13,27 dove satana entra in lui. Se in 6,70 l'autore identificava Giuda con il diavolo, ora in 13,2.27 spiega in quale modo egli sia diventato un diavolo, mentre, man mano che il racconto procede, egli manifesterà sempre più il suo essere demoniaco. Vi è in tutto ciò una gradualità di impossessamento di Giuda da parte del diavolo, che parte da lontano. Il tempo verbale di “beblhkÒtoj” (beblekótos, avendo messo nel cuore), infatti, è un perfetto indicativo che esprime uno stato presente che risulta come conseguenza di un'azione passata, che viene indicata già in 6,70 e che in qualche modo fa parte di quel piano divino che vede Gesù innalzato sulla croce (3,14b). Un tradimento, quello di Giuda, che ha, secondo l'autore, una sua previsione scritturistica (v.18). Anche Luca lascia intendere come il tradimento di Gesù facesse parte di tale progetto. Dopo il racconto delle tentazioni, l'autore, infatti, precisa che “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al tempo stabilito” (Lc 4,13). Vi è dunque per Luca un “tempo stabilito”, che viene reso in greco con “kairÒj” (kairós), che letteralmente significa il tempo opportuno, conveniente, il tempo giusto e nel linguaggio biblico indica sempre il tempo dell'intervento divino, il tempo in cui si attua il piano di Dio o che ha a che fare con questo. E il tempo stabilito, anche per Luca, si attua nel momento in cui satana prende possesso di Giuda (Lc 22,3). Se Dio ha elaborato un progetto di salvezza per l'uomo e l'intera creazione, che si attua nella persona di Gesù, anche satana ha il suo controprogetto che mette in cuore a Giuda: consegnare Gesù ai suoi avversari, distruggerlo.


La lavanda dei piedi

Testo a lettura facilitata

Gesù lava i piedi ai discepoli

4- si alza dalla cena e depone le vesti e preso un asciugatoio, cinse se stesso.
5- Poi mette acqua nel catino e incominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugar(li) con l'asciugatoio, con il quale si era cinto.

Episodio di Pietro e prima interpretazione del gesto

6- Si avvicina dunque a Simon Pietro. Gli dice: <<Signore, tu lavi i miei piedi?>>.
7- Rispose Gesù e gli disse: <<Ciò che io faccio tu ora non sai, ma
saprai dopo queste cose>>.
8- Gli dice Pietro: <<Non laverai mai i miei piedi>>. Gli rispose Gesù: <<Se non ti laverò, non hai parte con me>>.
9- Gli dice Simon Pietro: <<Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo>>.
10- Gli dice Gesù: <<Chi ha fatto il bagno non ha bisogno se non che i piedi siano lavati, ma è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti>>.
11-
Sapeva infatti chi lo stava consegnando; per questo disse che non tutti siete puri.

Seconda interpretazione del gesto

12- Quando dunque ebbe lavato i loro piedi ed ebbe preso i suoi vestiti e si coricò di nuovo, disse loro: <<Sapete ciò che vi ho fatto?
13- Voi mi chiamate “il maestro” e “il signore”, e dite bene; infatti (lo) sono.
14- Se dunque io, il Maestro e il Signore, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri;
15- infatti, vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come io ho fatto a voi.
16- In verità, in verità vi dico, non vi è servo più grande del suo signore, né inviato più grande di colui che lo ha mandato.
17- Se
sapete queste cose, siete beati se le fate.

Discorso conclusivo e preambolo alla pericope vv.21-30

18- Non dico di tutti voi: “Io so chi ho scelto”, ma affinché sia compiuta la Scrittura: “Chi mangia il mio pane alzò il suo calcagno contro di me”
19- Fin d'ora ve (lo) dico prima che accada, affinché crediate, quando sarà accaduto, che Io sono.
20- In verità, in verità vi dico, chi accoglie colui che manderò, accoglie me; ma chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato>>.

Note generali

Il racconto della lavanda dei piedi si presenta complesso e lascia perplessi per il suo modo di procedere. Un racconto da cui traspaiono i diversi rimaneggiamenti che ha subito nel tempo, dovuti alla lunga gestazione del vangelo giovanneo e alle nuove riflessioni del suo autore. Già si è visto come i primi tre versetti hanno subito delle inserzioni tardive, che favoriscono una lettura teologica e cristologica non solo della lavanda dei piedi, ma anche dell'intero Libro della Gloria. Similmente, e probabilmente contemporaneamente a queste, anche il racconto in analisi ha subito delle inserzioni per facilitarne la comprensione in senso cristologico. L'intero racconto della lavanda dei piedi, a ben guardare, si esaurisce tutto con i vv.4-5: il v.4 descrive i preparativi che Gesù compie su di sé; il v.5 riguarda l'azione di Gesù sui discepoli: mette acqua nel catino, lava i piedi ai suoi e li asciuga. Tutto qui. La lavanda dei piedi dunque si esaurisce con l'asciugatura dei piedi. I vv.12-17, poi, forniscono la spiegazione dell'umile gesto di Gesù: un esempio morale sui cui riflettere e che i discepoli sono sollecitati a fare proprio. Il racconto originale della lavanda dei piedi dunque era molto semplice non solo narrativamente, ma anche nei suoi intenti parenetici palesemente dichiarati in 12-17. La struttura originale del racconto pertanto doveva comprendere i vv.1a.2a.4-5.12-17. Se infatti venissero tolte tutte le parti inframezzate ne uscirebbe un racconto narrativamente snello, ben strutturato e internamente coeso. Riportiamo pertanto di seguito ciò che doveva essere il racconto originariamente: “Ora, prima della festa di pasqua […], essendoci una cena […] (Gesù) si alza dalla cena e depone le vesti e preso un asciugatoio, cinse se stesso. Poi mette acqua nel catino e incominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugar(li) con l'asciugatoio, con il quale si era cinto. […] Quando dunque ebbe lavato i loro piedi ed ebbe preso i suoi vestiti e si coricò di nuovo, disse loro: <<Sapete ciò che vi ho fatto? ….”. L'inserimento delle frasi subordinate (vv.1b.2b-3) e del racconto di Pietro (vv.6-11) alterano la primitiva armonia narrativa, cambiando radicalmente gli iniziali intenti morali e attribuendo invece al racconto stesso un valenza cristologica che prima non aveva e che certamente va ben oltre al semplice buon esempio da imitare, che invece indicava la pericope successiva (vv.12-17). I vv.7.8b.10 infatti attribuiscono al lavare i piedi un significato estraneo al racconto originale. Perché Pietro capirà il gesto soltanto dopo gli eventi della morte e risurrezione di Gesù? Che cosa ha di così speciale questo lavare i piedi che non possa essere compreso subito, come suggerisce invece la successiva pericope vv.12-17? Perché questa lavanda dei piedi è così determinante per la salvezza? (v.8b) Quale senso ha poi il v.10 che sembra attribuire significati purificatori e rigeneratori alla lavanda dei piedi? L'inserimento quindi dell'episodio di Pietro (vv.6-11) cambia radicalmente tutto, tutto viene rimesso in discussione e tutto acquista un nuovo significato e una nuova prospettiva, senza nulla togliere all'intento originale dell'autore che con i vv.12-17 intendeva offrire soltanto un esempio da imitare, che trova invece ora nell'episodio di Pietro il suo fondamento cristologico, trasformandolo in tal modo da esempio morale a comandamento vincolante del vivere credente. Tutto dunque va rivisitato e ricompreso in termini cristologici, che vanno a risignificare l'umile gesto di Gesù, proiettandolo in prospettiva salvifica e legandolo strettamente alla sua morte e risurrezione. Il linguaggio narrativo pertanto perde il suo semplice aspetto di racconto per assumere invece quello simbolico e metaforico. Un particolare questo che non va dimenticato quando commenteremo i vv.4-5, che assumono una diversa valenza prodotta dal racconto di Pietro successivamente inserito. E che tale sia lo si arguisce da tre elementi, che in parte sono stati accennati nella ricostruzione del racconto originale sopra riportata:

  1. Al v.5 la lavanda dei piedi termina con Gesù che asciuga i piedi ai suoi discepoli; ma, inaspettatamente, essa riprende con il racconto di Pietro al v.6, che attribuisce al gesto di Gesù un nuovo significato;

  2. i vv.4-5 hanno la loro continuità logico-narrativa con il v.12, mentre la pericope del racconto di Pietro (vv.6-11) la interrompe;

  3. si rileva inoltre una palese contraddizione tra il v.7, che predice a Pietro che quel gesto lo capirà soltanto dopo queste cose e, quindi, al presente non è per lui comprensibile, e quanto detto ai vv.12.17, che invece aprono ad una comprensione nell'immediato.

Il racconto della lavanda dei piedi pertanto presenta una duplice spiegazione: quella originale, prospettata dai vv.12-17, di carattere esortativo e morale; e quella cristologica del racconto di Pietro, che risignifica anche quella originaria, che diventa pertanto per il discepolo vincolante e fondativa di nuovi rapporti intracomunitari, ma che nel contempo fornisce anche la chiave di lettura dell'azione redentiva di Gesù.

Il racconto della lavanda dei piedi si chiude con il v.17, mentre i vv.18-20, di transizione, costituiscono il preambolo alla pericope 21-30, il racconto del traditore svelato.

Commento ai vv.4-20

Gesù lava i piedi ai discepoli

I vv.4-5, già lo si è sopra accennato, presentano il susseguirsi di sette azioni di Gesù, le prime quattro (v.4) riguardano l'agire di Gesù verso se stesso; le restanti tre (v.5) riguardano l'agire di Gesù nei confronti dei suoi discepoli. L'insieme di queste sette azioni danno come esito finale il senso del Mistero che opera in Gesù (v.4) a favore degli uomini (v.5).

Uno strano gesto quello di Gesù che, alzatosi dalla cena, si mette a lavare i piedi ai suoi discepoli. Un gesto usuale questo in oriente e nella stessa Palestina, con cui si onorava l'ospite, accogliendolo presso di sé con un bacio, talvolta ungendolo con unguenti profumati, dandogli degli abiti di riguardo e, talora, anche corone di fiori, e quasi sempre facendogli lavare i piedi dai servi prima di accedere al banchetto11. Ma qui le cose sono ben diverse, la lavanda dei piedi avviene non prima, come di consuetudine, ma durante la cena (v.4a), segno che il lavare i piedi, posto all'interno della cena, assume qui un significato particolare, che in qualche modo fa parte della cena e che sembra assumere sembianze di ritualità. Si noti infatti la rigorosa stringatezza dei gesti, misurati, essenziali, dai ritmi cadenzati, enumerati uno dietro l'altro di seguito: si alza, depone le vesti, prende un asciugamano, si cinge, mette acqua nel catino, lava i piedi, li asciuga; anche il numero dei gesti, che ammonta complessivamente a sette, assume un significato simbolico; un numero che dice compimento, compiutezza, perfezione, nel senso etimologico del termine di “portare a compimento”, quasi a dire che tutto è ricompreso e compiuto in quei gesti dal sapore rituale; una compiutezza che parla di un amore verso “i suoi” portato “fino alla fine” (v.1b) e che troverà il proprio vertice in quel “tetélestai” (è compiuto) pronunciato sulla croce (19,30). L'insieme sembra quasi voler richiamare una realtà che ha a che fare con quella cena ed è in qualche modo legata ad essa; non a caso è stata collocata al suo interno, indicando in tal modo come essa ne faccia in qualche modo parte. Ma a cosa alludono i vv.4-5? Il suggerimento viene offerto dai vv.7.8b: “Ciò che io faccio ora tu non sai, ma saprai dopo queste cose […]. Se non ti laverò non hai parte con me”. Il v.7 dice l'impossibilità per Pietro di capire ora ciò che Gesù sta facendo, ma lo capirà certamente dopo queste cose. Quali sono dunque queste cose che avvengono dopo? L'espressione è simile ad altre, caratteristiche di Giovanni, che alludono alla piena comprensione del Gesù storico dopo gli eventi della passione, morte e risurrezione (2,22; 12,16) e grazie all'azione dello Spirito Santo che li condurrà alla pienezza della verità (16,13); e similmente in 16,12-14: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà”. La comprensione del Gesù storico che viene posticipata dopo gli eventi della passione e morte e risurrezione e grazie al dono dello Spirito, che li guiderà nella comprensione piena delle Scritture, che in qualche modo si riferivano a lui (5,3912; Lc 24,27) riguarda in questo contesto la sua incarnazione, la sua missione, la sua morte e risurrezione accompagnata dal dono dello Spirito. In sintesi la lavanda dei piedi richiama l'intero Mistero di Gesù. Il linguaggio simbolico dei gesti allude a tale Mistero: l'alzarsi dalla cena dice lo staccarsi da una realtà che nel linguaggio dei profeti e nelle loro visioni messianiche indica il banchetto13 celeste e quindi la stessa dimensione di Dio (Is 25,6-12); anche Gesù parla del Regno di Dio come di un banchetto (Mt 22,2) e la stessa Apocalisse in 19,9.18 parla di beatitudine per coloro che sono invitati al grande banchetto di Dio in cui si compiono le nozze dell'Agnello. Da un punto di vista religioso il banchetto sacro era considerato come il luogo di comunione con Dio14. L'alzarsi di Gesù dalla cena/banchetto dice dunque il suo distaccarsi e il suo uscire dalla dimensione divina15, mentre il suo “deporre le vesti” indica il deporre la sua dignità divina, quella sua condizione di gloria, che egli aveva ancor prima della creazione del mondo e di cui reclamerà la restituzione dal Padre (17,5). L'abito come i vestiti in genere nel linguaggio simbolico indicano sempre lo status di vita della persona. Significativo è qui l'uso del verbo “tqhmi” (títzemi) per indicare il “deporre le vesti”, un verbo che in Giovanni ricorre 18 volte, 16 delle quali hanno attinenza con l'offrire la propria vita e con la stessa morte di Gesù. Il deporre le vesti quindi porta in sé anche una valenza sacrificale e in vista del sacrificio. Al deporre (títzemi) le vesti infatti si contrappone al v.12 il loro riprenderle (lambáno). Un duplice movimento che richiama da vicino 10,17-18 dove ricompaiono i due verbi allorché Gesù dichiara di avere il potere di offrire (títzemi) la sua vita e di riprendersela (lambáno) di nuovo. Non si tratta dunque di un semplice atto di umiltà, ma l'inizio di una kenosis che lo porterà alla croce. E dopo aver deposte le vesti, Gesù prende un asciugatoio e cinge se stesso. L'asciugatoio come l'uso che ne farà indica la condizione di una vita servile, di cui ha cinto se stesso, indicando in tal modo l'assunzione della sua umanità finalizzata al servizio speso in favore degli uomini; ma in quel “cingere se stesso” traspare anche il suo morire. Il verbo qui usato per indicare il cingersi è infatti “diazènnumi” (diazónnimi), che significa cingere, fasciare, recingere, mettere una cinta, una fasciatura ed allude ad uno stato di costrizione. Questo verbo nella sua forma composta (dia+zènnumi) ricorre nel vangelo giovanneo tre volte: due qui, ai vv.4.5 e una terza volta in 21,7, dove Pietro, riconosciuto Gesù sulle rive del lago, “si cinge le vesti”, un cingersi il cui significato verrà poi commentato ai vv.21,18-19; e altre due volte nella forma semplice di “zènnumi” (zónnimi) in 21,18, dove Gesù preannuncia la morte di Pietro: “In verità, in verità ti dico, quando eri più giovane, cingevi te stesso e andavi dove volevi; ma allorché sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà e (ti) porterà dove non vuoi>>. Ora questo disse, annunciando con quale morte avrebbe glorificato Dio. E dopo aver detto questo, gli dice: <<Seguimi>>” (21-18-19). Al verbo “zónnimi” o “diazónnimi” viene quindi associato dall'autore il senso allusivo del morire per morte violenta, di cui Gesù si cinge e che anche Pietro, in quel “Seguimi”, è sollecitato ad assumere nella propria vita, ripercorrendo il cammino della croce del proprio Maestro16.

Se il v.4 con un linguaggio simbolico indicava il Mistero di un Dio, che lasciata la sua dimensione divina e spogliatosi della sua gloria, assumeva per sé una natura umana di servo, facendo della sua vita un servizio di redenzione a favore dell'uomo fino all'estremo atto di donazione, racchiuso tutto in quel “tetélestai”, richiamando in questo da vicino l'inno cristologico di Fil 2,6-8, il v.5 dice in quale modo questo si è attuato nei confronti del credente: “Poi mette acqua nel catino e incominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugar(li) con l'asciugatoio, con il quale si era cinto”. Sono i movimenti con cui Gesù opera il suo servizio di redenzione a favore del credente: “mettere l'acqua nel catino”, “lavare i piedi”, “asciugarli con l'asciugatoio con cui si era cinto”. Va subito detto che nell'ambito della simbologia i piedi rappresentano la base solida su cui poggia l'uomo e che gli consente la sua posizione eretta e di muoversi agevolmente nei suoi spazi17. Senza piedi l'uomo sarebbe gravemente handicappato e, all'epoca di Gesù, lo storpio e lo zoppo erano condannati a trascinare la loro vita miserevolmente. E come la vita è paragonata spesso ad un cammino, così anche i piedi assumono spesso un senso traslato che ha a che fare con la vita e divengono espressioni simboliche o metaforiche della vita18. Essi dunque simboleggiano in qualche modo la vita stessa dell'uomo colta nel suo svolgersi dinamico19. Ciò premesso, l'acqua in Giovanni è sempre espressione simbolica di realtà spirituali e divine: nel racconto del battesimo l'acqua battesimale del Battista prefigura quella dello Spirito, che avrebbe somministrato Gesù e in qualche modo è associata allo Spirito e ne diviene figura (1,33); nel dialogo con Nicodemo l'acqua è lo Spirito che genera il credente alla vita divina (3,3-6); nella Samaritana l'acqua simboleggia la rivelazione da cui scaturisce la vita eterna per chi l'accoglie (4,13-14); anche nel racconto dell'infermo da trentotto l'acqua agitata dall'angelo diventa fonte rigeneratrice di vita (5,4.7); ed infine l'acqua è indicata come lo Spirito in 7,38-39, che sgorga da Gesù ed è effuso sui credenti: “chi crede in me. Come disse la Scrittura, fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre>>. Ora, disse questo circa lo Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui; infatti non c'era ancora lo Spirito, poiché Gesù non era stato ancora glorificato”. Ora, quest'acqua, che in Giovanni ha a che vedere con lo Spirito e che in qualche modo ne è figura, viene messa nel catino (niptÁra, niptêra), che in greco ha la stessa radice di “n…ptein” (níptein), che significa lavare, purificare, detergere. Il catino dunque è il luogo dove i piedi, cioè la vita dell'uomo, colta nel suo svolgersi dinamico, viene lavata, purificata e in qualche modo rigenerata attraverso un'acqua, che è lo Spirito, che in questo catino, in questo luogo di purificazione e di rigenerazione è stata messa. Il catino, dunque, è il luogo che è pieno di quest'acqua viva e rigeneratrice che è lo Spirito; un luogo che possiede in se stesso la capacità di lavare, di purificare e di rigenerare; esso qui diviene pertanto il simbolo sia della stessa figura di Gesù in cui è disceso lo Spirito Santo e su di esso vi dimora e per suo mezzo battezza, cioè immerge, avvolge e permea l'uomo con lo Spirito, che è vita stessa di Dio (1,32-33); sia della comunità credente su cui lo Spirito del Risorto è stato effuso assieme al mandato di lavare gli uomini dai loro peccati e rigenerarli alla vita divina (20,22-23). L'ultima azione della lavanda dei piedi è quella che vede ora Gesù ad asciugare i piedi con l'asciugatoio con cui si era cinto. Per asciugare i piedi l'asciugatoio deve avvolgere i piedi e stringerli a sé così che l'acqua di cui sono bagnati venga assorbita da questo asciugatoio, che avvolge i piedi. L'asciugatoio, già lo si è visto sopra, è espressione della vita stessa di Gesù colta nel suo dispiegarsi storico che va compreso come un servizio di redenzione e di rigenerazione dell'uomo, che trovano il loro vertice sulla croce e nella risurrezione; un uomo che da questa vita è pienamente avvolto e assorbito in essa: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso” (12,32).

La lavanda dei piedi pertanto parla del dispiegarsi storico del progetto di salvezza pensato dal Padre e attuato nel Figlio per mezzo dello Spirito donato alla comunità credente, che in esso viene purificata e rigenerata alla stessa vita divina. In buona sostanza è quanto Giovanni già aveva attestato in 3,16: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”; un Figlio, dono del Padre, che ha fatto della sua vita offerta un servizio di redenzione e di riscatto per ogni uomo: “Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Posta in questi termini, allora si comprende anche la risposta di Gesù a Pietro, che vincola la sua salvezza a questa lavanda, il cui significato avrebbe compreso soltanto “dopo queste cose”, allorché il dono dello Spirito avrebbe condotto il credente alla pienezza della verità (16,13) nascosta in quell'umanità, umile e servizievole di cui Dio si era cinto in Gesù.

Episodio di Pietro e prima interpretazione del gesto (vv.6-11)

La pericope 6-11 si sviluppa su di un serrato dialogo tra Gesù e Pietro. Essa, all'interno del racconto della lavanda dei piedi, costituisce, come si è visto sopra, un'inserzione narrativa successiva, che attribuisce alla lavanda stessa un significato cristologico, che originariamente il racconto non aveva. La figura di Pietro, che in questo cap.13 compare in due distinti episodi, non ne esce molto bene, sia perché, durante la lavanda egli non è il primo discepolo ad essere lavato, ma è posto tra anonimi discepoli, senza una precisa posizione; al v.5 infatti si dice che Gesù “incominciò a lavare i piedi dei discepoli” e poi, al v.6, egli giunge anche a Pietro; sia per l'opposizione di Pietro al farsi lavare i piedi, di cui non ha capito il significato, ma è pronto, poi, a farsi lavare tutto da Gesù, passando da un diniego risoluto ad una totale accondiscendenza, lasciando trasparire una impulsività ed una superficialità che certo non lo qualificano tra le persone riflessive e attente. La sua figura, inoltre, è messa in ombra anche nella successiva pericope 21-30. Non è lui infatti ad essere in intima vicinanza a Gesù, ma il Discepolo Prediletto, al quale, suo malgrado, deve ricorrere per accedere a Gesù ed avere notizie su chi è il traditore. Intimo di Gesù, dunque, è l'anonimo discepolo e non Pietro20. Due episodi, ma non sono gli unici, da cui traluce una certa rivalità non tanto tra i due discepoli, quanto tra le due comunità: quella giovannea, di tipo carismatico, che ha come punto di riferimento il Discepolo Prediletto, e quelle palestinesi in genere, che, già istituzionalizzate, riconoscono come loro punto di riferimento unitario, Pietro.

Il racconto dell'episodio di Pietro si snoda su cinque versetti (vv.6-10), considerando il sesto (v.11) conclusivo dell'episodio e di richiamo della figura di Giuda, costantemente presente nel cap.13. Si tratta di una sorta di catechesi in forma narrativa finalizzata a spiegare il senso cristologico della lavanda dei piedi:

  1. i vv.6-7 pongono la questione: che senso ha il lavare i piedi dei discepoli da parte di Gesù? Per poterlo capire si rende necessaria una riflessione postpasquale e quindi attingere agli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù: “Ciò che io faccio tu ora non sai, ma saprai dopo queste cose”. La contrapposizione è tra l' “adesso” e il “dopo”; tra il non sapere del presente e il “saprai” del dopo. Tra il prima e il dopo ci stanno di mezzo “queste cose”, cioè il mistero pasquale. È da qui che parte la riflessione delle prime comunità credenti, illuminate dalle Scritture. Significativi i verbi greci che l'autore usa per indicare i due diversi saperi, quello del prima e quello del dopo “queste cose”. Il “non sapere” di adesso è reso in greco con “oŒda” (oîda), un perfetto di “eŒdon” (eîdon), che significa “ho visto” e quindi “so”. Indica quindi un sapere che si basa su di una visione e su di una comprensione delle cose che Pietro ancora non ha, poiché queste cose devono ancora accadere, il dono dello Spirito, che conduce alla verità tutta intera, ancora non c'è, e non c'è ancora la ricomprensione delle Scritture alla luce degli eventi pasquali. Non c'è ancora quindi ancora la conoscenza del Mistero, una conoscenza autorevole e testimoniale che il verbo “oîda”, in particolar modo in Giovanni, esprime. Il secondo “sapere”, quello del “dopo queste cose”, è reso in greco con “gignèskw” (ghighnósko), che parla di una conoscenza che penetra il Mistero ed è quel processo di conoscenza che consente di raggiungere l' “oîda”, che parla di una conoscenza illuminata e già raggiunta21.

  2. Il v.8, posto centralmente, è il cuore non solo del dialogo tra Gesù e Pietro, ma anche della questione cristologica, quella che dà un nuovo significato alla lavanda dei piedi: “Gli dice Pietro: <<Non laverai mai i miei piedi>>. Gli rispose Gesù: <<Se non ti laverò, non hai parte con me>>”. Si noti come qui Pietro si contrappone a Gesù in modo determinato: “Non laverai mai”, quel “mai” reso in greco con “e„j tÕn a„îna”, che significa “per sempre”, “per l'eternità”. Una chiusura, quindi, drastica quella di Pietro, che non dà spazi a Gesù: Pietro non accetta di essere lavato ai piedi da Gesù. Un'opposizione che riguarda il progetto di Dio che si sta attuando in Gesù: un riscatto ed una redenzione acquisiti attraverso la croce. Un'opposizione che richiama da vicino quella del Pietro sinottico, là dove egli, dopo aver riconosciuto in Gesù il Messia, si oppone decisamente al suo messianismo sofferente e Gesù lo redarguisce duramente, definendolo un satana, contrario al piano di Dio (Mc 8,31-33; Mt 16,21-23). La risposta di Gesù, qui, è altrettanto dura e determinata, che porta in sé una sorta di giudizio di condanna che viene posto su Pietro: “Se non ti laverò, non hai parte con me”. Significativi i due verbi posti l'uno accanto all'altro: il primo al futuro “se non ti laverò”, il secondo al presente indicativo “non hai parte con me”. Come dire: “Se non accetterai la mia morte come redentiva per te non puoi accedere alla salvezza”. Il rifiuto dunque di Pietro lo colloca già fin d'ora fuori dal piano della salvezza, pensato dal Padre, perché non ne accetta le logiche, collocandosi in tal modo in rotta di collisione con Dio (3,18). Ma cosa vi è di così drammatico nel v.8? Solo accedendo al linguaggio simbolico si può comprendere la schermaglia tra Gesù e Pietro. Già si è visto come i “piedi” (pag.12) simboleggiano la vita dell'uomo colta nel suo svolgersi dinamico; quanto al “lavare” esso ha a che fare con le abluzioni, che nel mondo antico avevano a che vedere non solo con la purificazione del corpo dalla sua sporcizia, ma erano legata simbolicamente anche a quella dell'anima. I babilonesi definivano l'acqua in senso lato come “ciò che purifica”, mentre il mondo egizio vedeva nell'acqua non solo un elemento di purificazione, ma anche di rigenerazione, cioè dava capacità di risurrezione, di vivere oltre la morte. L'abluzione quindi purifica e rigenera, generando ad una nuova vita. Per il mondo biblico l'abluzione non è soltanto una forma di purificazione simbolica, ma intende anche attuarla, non tanto per il potere dell'acqua in sé, ma in quanto essa diviene espressione dell'agire salvifico di Dio, che si attua nella sua Parola, che è forza creatrice ed ha capacità rigenerative22. È questa, il potere di Dio, che attua la vera purificazione del cuore umano, come canta il Salmista: “Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato […]. Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve. […] Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo” (Sal 50,4.9.12). Ma è in Ez 36,25-27 che si vedono gli effetti del lavacro divino, attuato attraverso l'acqua, che è lo stesso Spirito promesso per i tempi messianici, destinato a rigenerare per Dio un popolo nuovo: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi23. L'abluzione dei piedi dunque parla della purificazione della vita dell'uomo, che grazie ad essa viene rigenerato alla vita stessa di Dio; una purificazione, che nella grande visione dell'Apocalisse è legata al sangue dell'Agnello, il vero lavacro di redenzione e di riscatto: “Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?". Gli risposi: "Signore mio, tu lo sai". E lui: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello” (Ap 7,13-14). Ed è proprio questo che Pietro non accetta da Gesù: il suo lavargli i piedi, cioè il riscattargli e il redimergli la vita con il suo sangue.

  3. I vv.9-10 segnalano un radicale cambiamento di rotta da parte di Pietro che da un'opposizione estrema (“Non laverai mai i miei piedi”) passa alla totale disponibilità verso Gesù, accettando il destino salvifico cruento di Gesù: “Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo”. Un cambiamento che gli consentirà di “aver parte” con Gesù e quindi di accedere alla salvezza, che si attua nel sangue sacrificale del suo “Maestro e Signore” (vv.13-14a). La risposta di Gesù è alquanto singolare: “Chi ha fatto il bagno non ha bisogno se non che i piedi siano lavati, ma è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti”. È evidente che il linguaggio qui è metaforico. A quale bagno Gesù allude? E perché dopo che uno ha fatto il bagno ha ancora bisogno di lavarsi i piedi per completare l'opera della sua purificazione? Per poter comprendere ciò che Gesù intende dire è necessario rifarsi all'ultima battuta del v.10: “e voi siete puri”; è la stessa espressione che si ritrova in 15,3: “voi siete già mondi per la parola che vi ho detto”. L'annuncio della Parola accolta, dunque, rende puri perché, come si è accennato qui sopra, possiede in se stessa una capacità purificatrice e rigeneratrice che le è propria: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1,23); l'autore della Lettera agli Ebrei evidenzierà l'efficacia della Parola, definendola viva ed efficacie, cioè un essere vivente, con un dinamismo suo proprio; ed è efficacie, cioè produce ciò che dice, poiché è una Parola che proviene da Dio stesso e ne possiede il germe di vita ed ha impresso in se stessa il DNA divino, che qualificano la vita del credente quale appartenente a Dio e da Lui generato (1,12-13). È una parola che trasforma i credenti in dimora di Dio (14,23), ma nel contempo li discrimina dal mondo contrapponendoli ad esso, che non li riconosce come suoi, poiché essi hanno una diversa origine, generata in loro dalla parola che essi hanno accolto: “Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha disprezzati, poiché non sono dal mondo, come io non sono dal mondo” (17,14). L'accogliere la Parola quindi rende puri, ma sarà soltanto la forza del Sangue di Gesù che completerà l'opera del Padre e che farà la vita di quel credente definitivamente e pienamente appartenente a Dio; ecco perché è necessario “lavare i piedi”, cioè far passare la propria vita attraverso il Sangue della Croce. Il v.10 termina con una nota che funge da preambolo al v.11: “e voi siete puri, ma non tutti”. Una nota triste, che preannuncia il dramma del tradimento.

Il v.11 da un punto di vista narrativo, costituisce la voce fuori campo dell'autore, finalizzata a spiegare al suo lettore perché “non tutti” sono puri. Esso è introdotto dal verbo “oŒda” (oîda) posto al piuccheperfetto indicativo. Un verbo che sottolinea il sapere superiore di Gesù, che il tempo verbale colloca nel disegno stesso di Dio, concepito fin dall'eternità24. Tutto quindi si sta muovendo secondo il progetto salvifico, mentre la coscienza superiore di Gesù dice come Gesù non è vittima, ma dominatore degli eventi e che la sua passione e morte vanno lette e comprese come un suo spontaneo atto di offerta di se stesso. A lui infatti è stato dato il potere di donare la propria vita e di riprendersela (10,17.18).

Seconda interpretazione del gesto (vv.12-17)

La pericope in esame (vv.12-17) è definita dall'inclusione data dalle due espressioni tra loro complementari poste rispettivamente ai vv.12 e 17a: “Sapete ciò che vi ho fatto?” e “Se sapete queste cose”; mentre la sua natura e i suoi intenti sono definiti dal v.15: “vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Ci si trova dunque di fronte alla spiegazione del racconto della lavanda dei piedi, quella che faceva parte della narrazione originaria, prima che venisse interpolato l'episodio di Pietro (vv.6-11). I suoi intenti sono chiaramente parenetici e puntano sull'eminente esempio morale di Gesù, che si autodefinisce “Maestro e Signore” (v.13.14a) e che nonostante ciò si è abbassato a lavare i piedi dei suoi, un compito riservato ai servi di casa. Tuttavia questa parenesi, posta a ridosso della passione e morte di Gesù, ne fornisce anche la chiave interpretativa, che spinge a leggerle e a comprenderle come un servizio di redenzione speso a favore dell'uomo. Quell'abbassarsi a lavare i piedi ai suoi dice l'abbassarsi del Figlio di Dio, che assume una natura di servo, sottomettendosi alla volontà del Padre fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,6-8).

La struttura, delimitata dall'inclusione sopra indicata, è molto semplice e si snoda in tre parti:

  1. v.12: L'introduzione, che funge da cornice al discorso parenetico di Gesù;

  2. vv.13-16: la parenesi, in cui l'agire di Gesù è posto come parametro di confronto per la comunità dei discepoli e a suo fondamento;

  3. v.17: la conclusione riporta la prima beatitudine giovannea, il cui accento cade sul “fare”.

Il v.12 apre il processo specularmente inverso del v.4, dove, alzatosi dal banchetto, deposte le vesti e cintosi dell'asciugatoio incominciò a lavare i piedi dei suoi; ora, invece, dopo aver lavato i piedi ai suoi e dopo aver ripreso le sue vesti, precedentemente deposte, torna a sedersi presso quel banchetto da cui prima si era alzato. Soltanto a questo punto egli chiede ai suoi: “Sapete ciò che vi ho fatto?”. Se il v.4, come si è sopra ampiamente illustrato, parla della discesa del Figlio di Dio, che, spogliatosi della sua gloria divina, ha assunto su di sé una natura umana di servo per rendere un servizio di redenzione all'uomo, ora il v.12 parla di Gesù, che dopo aver reso tale servizio di riscatto per l'uomo attraverso la sua umanità, riprende nella risurrezione quella gloria che egli, da sempre, aveva presso il Padre, ancora “prima che il mondo fosse” (17,5). I vv.4.12, se si osserva attentamente, riproducono qui quel movimento pendolare, che caratterizza il Gesù giovanneo, che uscito dal Padre e venuto nel mondo, lascia ora il mondo per tornare al Padre (16,28); una pendolarità che viene in qualche modo richiamata anche dall'inno cristologico della lettera ai Filippesi (2,6-11), che parla dell'abbassamento e dell'innalzamento di Gesù. Ed è soltanto ora, dopo la risurrezione, dopo l'evento pasquale e rileggendo l'uomo Gesù in modo retrospettivo, alla luce della sua risurrezione e delle Scritture, che i credenti riusciranno a comprenderne la vera natura e il vero significato della sua parola e della sua missione. Ed è proprio a questo punto che Gesù chiede ai suoi: “Sapete ciò che vi ho fatto?”, aprendo in tal modo un processo di comprensione che riguarda la sua persona. Il verbo greco qui usato per indicare quel “Sapete” è “Ginèskete” (Ghinóskete), che parla di un sapere che viene acquisito attraverso un processo di conoscenza che in Giovanni, come per la chiesa primitiva, passa per l'evento pasquale e una rivisitazione delle Scritture alla sua luce. Una conoscenza che indica un processo di penetrazione del Mistero, che aveva permeato il Gesù della storia e che qui avviene attraverso una parenesi (vv.13-16), che si fa catechesi, poiché getta le fondamenta della comunità credente, fondata su di un amore che si esprime nel servizio. Al “Ginèskete” fa riscontro l'altro verbo, che troviamo al v.17 e che con il primo forma inclusione: “o‡date” (oídate, sapete), che in Giovanni indica un sapere particolare e superiore, una sapere già acquisito, raggiunto attraverso quel processo di conoscenza iniziato con il “Ginèskete”; è la conoscenza di chi è già entrato nel Mistero. Ecco perché questo tipo di sapere, che non è mai disgiunto dal vivere, provoca la beatitudine nel fare. “Ginèskete” e “o‡date” due verbi che in questo senso già si sono trovati al v.7, nell'episodio di Pietro: “Ciò che io faccio tu ora non sai (oŒdaj, oîdas), ma saprai (gnèsV, gnóse) dopo queste cose”. Anche per Pietro, come si è visto sopra, il processo di acquisizione della conoscenza del Mistero e della sua penetrazione avverrà soltanto “dopo queste cose”, cioè dopo l'evento pasquale della morte-risurrezione.

Con i vv.13-16 si apre quel processo di conoscenza che, come sopra accennato, non ha soltanto un valore parenetico, di semplice esortazione morale, ma indicando Gesù come parametro di confronto se stesso, tale parenesi assume i connotati di un comandamento, che trova la sua forza non soltanto in quel “dovete” (Ñfe…lete, ofeílete), ma nella stessa titolatura di “Maestro e Signore” che Gesù si attribuisce (v.14) e che i discepoli gli riconoscono (v.13); un comandamento che Gesù definirà nuovo: “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri” (v.34); un amore che diviene qualificante e distintivo per i suoi discepoli e per le loro comunità: “In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni verso gli altri”. Un'attenzione particolare va posta su quel “dovete” reso in greco con “Ñfe…lete” (ofeílete), che significa sia “devo” nel senso di “sono tenuto, sono obbligato”, esprimendo in tal modo il vincolo di amore e di servizio a cui il credente è tenuto nei confronti degli altri; sia “devo” nel senso di “sono debitore verso qualcuno”, che sottolinea come l'amore servizievole diventa per il credente un debito che egli si assume nei confronti dell'altro in virtù della sua fede; un debito di amore e di servizio vicendevole al quale anche Paolo esorta la comunità di Roma: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge” (Rm 13,8). Anche qui compare il verbo “Ñfe…lete”.

Se con i vv.13-14 vengono stabiliti i fondamenti del nuovo comandamento, con i vv.15-16 se ne forniscono le motivazioni. Il v.15, infatti, si apre con un “g¦r” (gàr) dichiarativo con cui Gesù motiva il suo comportamento, definendolo un esempio finalizzato (†na, ína, affinché) ad imprimersi nei suoi discepoli e a qualificarli come tali: “affinché anche voi facciate come io ho fatto”. È dunque una sorta di sequela, la cui via è già stata tracciata da Gesù. Quel “facciate” infatti non ha soltanto una semplice valenza esortativa, ma attinge la sua forza impositiva dai vv.13-14. L'esempio infatti nasce da una persona che è non solo “Maestro”, ma anche “Signore”; un esempio che si fonda sul “fare”, in cui il Logos si manifesta parimenti che nel “dire”; un Logos in cui il “dire” e il “fare” coincidono, poiché egli è il “Dabar” del Padre, cioè la parola che è azione del Padre.

Il parametro di raffronto si rafforza ora con il v.16, dai ritmi sentenziali e sapienziali, che si apre con la formula cara a Giovanni ed imprime all'intero versetto la veridicità stessa di Dio: “In verità, in verità vi dico”. Ciò che viene posto sotto l'egida della Verità è che “non vi è servo più grande del suo signore, né inviato più grande di colui che lo ha mandato”. Un detto che trova il suo parallelo più vicino in Mt 10,24 e più sfumato in Lc 6,40, benché qui Giovanni, rispetto a Matteo, l'abbia adattato alle proprie esigenze teologiche. Compare infatti qui soltanto il confronto tra “inviante e inviato”. Questa singolare deviazione rispetto a Matteo, in cui il confronto avviene invece tra “maestro e discepolo” e che più si conveniva anche qui per Giovanni, considerato che nei vv.13.14 discepoli e Gesù si riferivano al titolo di “Maestro”, lascia intuire che qui Gesù, parlando di “Inviante e di inviato” abbia voluto alludere in qualche modo al suo rapporto con il Padre, che egli trasferisce nel suo rapporto con i discepoli, così che in 20,21, qui nella sua posizione di Risorto, egli dirà: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”. Anche qui, quindi, egli si propone ai suoi come esempio, come parametro di confronto (“come … anch'io”), stabilendo in tal modo con i suoi una continuità non solo spirituale e morale, ma anche storica.

Il v.17 chiude il racconto della lavanda dei piedi con una sentenza: “Se sapete queste cose, siete beati se le fate”. Compare qui il verbo “oŒda” (oîda) che, come già si è detto sopra (pagg. 14.16-17), parla di un sapere raggiunto, di un sapere che ormai attinge al Mistero attraverso quel processo di conoscenza espresso dal verbo “gignèskw” (v.12). Raggiunta, dunque, la conoscenza del Mistero diviene conseguente la necessità di conformare il proprio vivere ad esso, raggiungendo in tal modo la beatitudine, che non va compresa come uno stato di felicità e di gioia personali, sentimenti questi squisitamente umani e in quanto tali effimeri, ma come il dimorare nella vita stessa di Dio, che dice lo stato di vita del credente. Ecco perché il racconto si conclude con l'attestazione “siete beati se le fate”.

Discorso conclusivo e preambolo alla pericope vv.21-30 (vv.18-20)

Conclusosi con il v.17 il racconto della lavanda dei piedi, ora l'attenzione si sposta sull'ultimo racconto di questa cena prepasquale (vv.1a.2a), in cui Giuda e i suoi intenti di tradimento vengono smascherati da Gesù e Giuda lasciato al suo triste destino, inghiottito dalle tenebre (v.30). Dopo questo, a partire dal v.13,31, avrà inizio il lunghissimo discorso di Gesù che si estenderà fino a tutto il cap.17.

Questa breve pericope (vv-18-20) crea uno stacco netto dal precedente racconto (vv.4-17) e forma da premessa a quella successiva (vv.21-30). Già con i vv.2.9b-11 la figura di Giuda si era intrecciata con il racconto della lavanda dei piedi, che simbolicamente, come si è visto, allude alla storia della salvezza, letta in chiave cristologica. Ora, questo intreccio, Giuda- Storia della salvezza, trova la sua motivazione al v.18: “Non dico di tutti voi: “Io so chi ho scelto”, ma affinché sia compiuta la Scrittura: “Chi mangia il mio pane alzò il suo calcagno contro di me”. Gesù sa chi ha scelto, ma non di tutti può dire questo, poiché vi è uno che non è incluso dalle sue scelte, anzi le supera, poiché esso rientra nello stesso piano di salvezza pensato dal Padre e ne fa parte, questo sembra dire l'intreccio narrativo Giuda-lavanda dei piedi; una figura che già la Scrittura aveva in qualche modo preannunciato: “Chi mangia il mio pane alzò il suo calcagno contro di me” (Sal 41,10). Un salmo questo che parla di una persona prostrata da una grave malattia e assediata dai suoi nemici, che ne vogliono la morte; persino il suo più intimo amico trama contro di lui: “Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno”; un'espressione quest'ultima che indica il rivoltarsi contro qualcuno. L'autore vede in questo preannuncio di Gesù il manifestarsi della sua onniscienza, che lo pone al di sopra degli eventi che si stanno per compiere e li domina, rivelando in tal modo la vera natura di Gesù: egli è l'Io sono, un'espressione caratteristica di Giovanni per indicare la divinità di Gesù, quella divinità che lo stesso Jhwh aveva manifestato a Mosè rivelando il suo nome: “Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono!". Poi disse: "Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi"” (Es 3,14).

La breve pericope si conclude con una sentenza che lascia alquanto perplessi. Essa sembra essere una sorta di corpo estraneo, poiché nulla ha a che vedere con i vv.18-19 e con Giuda. Sembra essere un malriuscito tentativo di inclusione per completamento con il v.16b. O forse essa faceva originariamente parte del v.16b, quasi un suo prolungamento per approfondirne o completarne il significato e successivamente, ma difficile carpirne il motivo, scisso dal v.16b con l'interpolazione dei vv.18-19.

Il traditore svelato (vv.21-30)

Testo

21- Dopo aver detto queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e testimoniò e disse: <<In verità, in verità vi dico che uno di voi mi consegnerà>>.
22- I discepoli si guardavano gli uni gli altri, essendo incerti di chi parlasse.
23- Vi era uno dei suoi discepoli appoggiato sul seno di Gesù, che Gesù amava;
24- Simon Pietro, dunque, fa cenno a questo e gli dice: <<Di(gli) chi è colui di cui parla>>.
25- Adagiandosi dunque quello sul petto di Gesù così gli dice: <<Signore, chi è?>>.
26- Risponde pertanto Gesù: <<È quello per il quale io intingerò il boccone e gli(elo) darò>>. Intinto, dunque, il boccone, (lo) prende e dà a Giuda, (figlio di) Simone Iscariota.
27- E dopo il boccone, allora satana entrò in quello. Gli dice dunque Gesù: <<Ciò che fai, fa(llo) presto>>.
28- Ma nessuno dei commensali comprese per che cosa gli disse questo;
29- Alcuni infatti pensavano, giacché Giuda aveva la borsa, che Gesù gli dicesse: “Compra ciò di cui abbiamo bisogno per la festa” oppure perché desse qualcosa ai poveri.
30- Preso dunque il boccone, quello uscì subito. Ora, era notte.

Note generali

La pericope vv.21-30 è l'ultimo episodio prima del lungo discorso di Gesù ai suoi (13,31-17,26), al termine del quale si succederanno i racconti della passione, morte (18-19) e risurrezione (20). Ma quest'ultimo episodio è anche quello determinante, poiché, da un lato, viene definitivamente tolto uno scandalo all'interno della comunità dei discepoli, che si sta trascinando lungo tutto il racconto giovanneo a partire dal v.6,64; ma nel contempo viene posto sull'intera comunità dei discepoli una sorta di giudizio che ne discrimina i componenti; dall'altro, con l'uscita di Giuda dalla comunità, il tradimento, dapprima nascosto, prende consistenza, dando inizio all'attivarsi e all'attuarsi dell'ora.

Si tratta di un episodio posto all'insegna di un dramma inquietante sotteso dai vv.21 e 30, che, a modo loro, formano una sorta di inclusione tematica complementare, per cui al turbamento, che agita profondamente lo spirito di Gesù (v.21), corrisponde al v.30 il consumarsi del tradimento da parte di un Giuda, ormai avvolto dalle tenebre della notte del Male.

Si tratta di un racconto paradossale in cui gli unici veri attori sono soltanto Gesù e Giuda, mentre gli altri fungono da semplice contorno, che, narrativamente, ha dell'incredibile: i discepoli, citati ai vv.22.28.30, avvolti tutti nell'anonimato, sono totalmente estranei agli eventi e non sembrano rendersi conto di ciò che sta succedendo, mentre al v.29 l'autore tenta di dare delle giustificazioni alla loro inintelligenza degli accadimenti, che li stanno per travolgere. Non fanno eccezione neppure i due discepoli nominati, Pietro e il Discepolo Prediletto, che, nell'economia narrativa, sottesa da una nota di polemica e di rivalità tra i due, come già si è sopra accennato (pag.12) e come meglio vedremo subito, ricoprono il ruolo di spalla, rilanciando l'attenzione su Giuda. Si tratta di un dialogo conciso, che mette in rilievo la secondarietà della figura di Pietro rispetto a quella del Discepolo che Gesù amava; un dialogo, al termine del quale, entrambi scompaiono nel nulla. Vengono in tal modo a delinearsi all'interno del racconto due gruppi: il primo, caratterizzato dall'anonimia e dalla sua incapacità di comprendere gli avvenimenti, che li fraintende (v.29); sembra essere questo la figura delle comunità credenti; dall'altro emergono altri due personaggi: Pietro e il Discepolo prediletto, i due leaders posti a capo delle loro rispettive comunità, solo loro infatti sono i nominati ed è dato loro di conoscere il nome del traditore. Essi sono qui posti a confronto tra loro, un confronto da cui emerge e prevale la figura del Discepolo prediletto. Nel sottofondo infatti si sente la polemica e le tensioni di due tipologie di comunità, istituzionalizzata, quella che riconosce in Pietro la guida dei discepoli nel tempo postpasquale; carismatica quella giovannea, tutta raccolta attorno al suo Maestro, l'ultimo testimone diretto degli avvenimenti storici, colui verso il quale Gesù rivolse la sua predilezione e la sua particolare attenzione e per questo, secondo la comunità giovannea, di gran lunga superiore a Pietro. È lui infatti che qui siede accanto al Maestro, è lui che si pone quale interlocutore di Pietro presso Gesù. Non è infatti Pietro che accede direttamente a Gesù, ma il Discepolo prediletto attraverso il quale Pietro deve passare. È il Discepolo prediletto, infatti, che si troverà, unico tra i discepoli, sotto la croce (19,26) e a lui e non a Pietro Gesù affida “sua madre” (19,27), figura della comunità credente; ed è sempre lui, il Discepolo prediletto, che entrato nella tomba vuota intuisce ciò che è successo e non Pietro, il quale guarda con fare interrogativo (qewre‹, tzeoreî) le bende per terra, ma senza capire cosa è successo (20,6-7); è di lui infatti che l'autore dice che egli “vide e credette” (20,8), in altri termini giunse per primo alla fede nel Risorto; ed è sempre il Discepolo prediletto che riconoscerà il Risorto e lo indicherà a Pietro (21,7a).

La struttura del racconto dello svelamento del traditore è molto dinamica e si snoda intrecciando tra loro i diversi episodi che la compongono: dapprima Gesù annuncia il tradimento (v.21), poi i discepoli si interrogano, ma rimangono senza risposta (v.22), che verrà invece ottenuta da Pietro e dal Discepolo prediletto (vv.23-26a), poi Giuda è svelato con il gesto di Gesù, ma soltanto ai due (v.26b); poi tornano nuovamente i discepoli in tutta la loro inintelligenza (vv.28-29) e infine ritorna Giuda che se ne esce dalla comunità avvolto dalle tenebre della notte (v.30). Ci si trova di fronte ad un susseguirsi di episodi molto veloce che dà il senso dell'inquietudine e dell'irrequietezza del momento, che si apre con l'annuncio di un Gesù profondamente turbato (v.21)

Commento ai vv.21-30

Il v.21 si apre con l'espressione “Dopo aver detto queste cose”, stabilendo in tal modo un aggancio con il discorso immediatamente precedente (vv.10-20), collocato nel contesto della lavanda dei piedi, e in particolar modo con i vv.10-11.18 con cui l'autore richiama il tema del tradimento ad opera di un discepolo, creando in tal modo una continuità logico-narrativa e tematica con il precedente discorso, che qui trova il suo completamento nell'episodio dello svelamento del traditore. Un versetto questo che costituisce, da un lato, una sorta di titolatura tematica all'intero racconto: “In verità, in verità vi dico che uno di voi mi consegnerà”; dall'altro, lascia alquanto perplessi per le modalità narrative con cui l'autore lo ha costruito. Esso introduce l'annuncio ufficiale del tradimento, che uno dei discepoli stava per compiere. Un annuncio che è preceduto da tre verbi: “fu turbato”, “testimoniò”, “disse” e dalla solenne formula, caratteristica di Giovanni, “In verità, in verità vi dico”, che imprime il carattere della veridicità a ciò che segue, dandogli un tono di solennità. Sconcerta, dunque, questa introduzione così elaborata e solenne per un semplice annuncio-denuncia, sia pur di un fatto grave come il tradimento. Nasce, quindi, il sospetto che il Gesù giovanneo qui non voglia soltanto annunciare un semplice tradimento, ma indicare con questo l'inizio del compiersi dell'ora, già annunciata in 12,23 e 13,1, ma che soltanto ora inizia ad attuarsi. Non è un caso infatti che soltanto dopo l'uscita di Giuda dal gruppo (vv.30-31a), Gesù dichiari ufficialmente la sua glorificazione e in lui quella del Padre, legando in tal modo all'uscita di Giuda l'inizio della sua glorificazione, cioè il compiersi dell'ora: “Quando dunque uscì, Gesù dice: <<Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui>>” (v.31). Si noti come l'autore apra l'affermazione di Gesù con l'avverbio temporale “Ora” (Nàn, Nîn), qui nel senso di “Adesso”, facendo in tal modo coincidere l'inizio della sua glorificazione con l'uscita di Giuda dal gruppo.

Il v.21 indica fin da subito lo stato d'animo di Gesù: “fu turbato nello spirito”; un turbamento che già era stato in qualche modo preannunciato nel racconto della risurrezione di Lazzaro, là dove Gesù è coinvolto nel generale pianto di dolore di Maria e dei Giudei con lei (11,33) per la morte di Lazzaro, che in qualche modo preludeva la sua (11,53; 12,10). Un turbamento che, poi, viene richiamato in 12,27, qui in modo più diretto ed esplicito legato all'ora: “Ora la mia anima è turbata. E cosa dico? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo venni, per quest'ora”. Ma se nei primi due turbamenti il verbo “tar£ssw” (tarásso, turbare) è posto in forma attiva, qui il verbo è posto al passivo teologico (™tar£cqh, etaráctze, fu turbato), che lega tale turbamento al progetto di salvezza generato dal Padre e che si attua nell'ora, il cui inizio è stato innescato dalla dipartita di Giuda e che Gesù qui annuncia. Non a caso tale turbamento, contrariamente ai precedenti, avviene nello spirito, rivelando in tal modo lo stretto legame che intercorre con l'ora il compiersi dell'ora.

Il v.22, nel denunciare l'inintelligenza dei discepoli di fronte al compiersi degli eventi, in qualche modo prepara i vv.28-29 e ne crea le premesse. Una inintelligenza che è indicata dal verbo “œblepon” (éblepon), posto all'imperfetto indicativo, che indica un vedere, ma senza comprendere ciò che si vede; è un mero vedere fisico, che non riesce ad andare oltre a ciò che si vede; mentre il tempo imperfetto dice la persistenza di questo apparente vedere, ma che di fatto indica una cecità spirituale. Una cecità che crea nei discepoli un certo disagio, denunciato dal verbo “¢poroÚmenoi” (aporúmenoi), che significa essere senza mezzi, senza risorse, mancare di qualcosa, essere imbarazzato, in difficoltà. Un verbo questo da cui deriva il nostro termine “aporia”, che significa un dubbio privo di soluzioni e di risposte, di fronte al quale l'uomo si arena. Il verbo poi è qui posto al un participio presente che indica la natura stessa dei discepoli, definiti come incapaci di comprendere. Non stupisce tuttavia questa sostanziale cecità di fronte al compiersi del Mistero, perché, commenterà l'autore in 20,9, riguardo alla scoperta della tomba vuota: “non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti”. Sarà dopo la risurrezione che la prima comunità credente si interrogherà sull'evento Gesù (2,22-22), ma ne scoprirà e ne comprenderà il Mistero soltanto attraverso una rivisitazione delle Scritture; così come avvenne per i due discepoli di Emmaus, che Gesù illuminò proprio attraverso le Scritture: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). Del resto è lo stesso Gesù giovanneo, che, rivolto ai Giudei, li redarguisce in 5,39: “Indagate le Scritture perché voi credete di avere in esse la vita eterna; e sono (proprio) quelle che testimoniano su di me”.

vv.23-25: Se il v.22 denuncia l'incapacità dei discepoli di penetrare il Mistero che si sta compiendo con l'avvento dell'ora, i vv.23-26a ne forniscono la risposta, seppur in modo parziale, limitatamente allo svelamento del traditore, che segna lo scoccare dell'ora; ma nel contempo indicano la via per accedere alla sua piena intelligenza: stare vicini a Gesù, poggiare il capo sul suo seno, entrando in intima comunione con lui. Appaiono ora sulla scena due personaggi: Pietro e il Discepolo che Gesù amava, il cui compito nell'economia narrativa è quello di rilanciare l'attenzione sul traditore e svelarne l'identità, fungendo da spalla a Gesù; ma nel contempo si innesca un confronto tra i due personaggi, delineando la loro posizione nei confronti di Gesù e quindi la loro importanza all'interno della prima comunità dei discepoli. Un'importanza che viene subito rilevata dalla particolare attenzione che il testo riserva al Discepolo prediletto (vv.23.24.25), definito sia come colui “che Gesù amava”, un amore espresso con ¢gap£w (agapáo), un verbo che Giovanni usa per descrivere i rapporti privilegiati tra Gesù e il Padre e che parla di un amore spirituale, di una profonda comunione e sintonia di vite che si compenetrano reciprocamente; mentre l'uso dell'imperfetto indicativo (ºg£pa, egápa, amava) definisce questo amore come persistente; sia dalla sua postura rispetto a Gesù, sottolineata due volte: al v.23, pur avvolto nel suo anonimato che lo caratterizza, egli è indicato come colui che è appoggiato “sul seno di Gesù”, che ne definisce il particolare stato di comunione che corre tra i due, simile a quello che intercorre tra Gesù e il Padre. Significativo, infatti, è qui l'uso del termine “kÒlpoj” (kólpos, seno, grembo, utero, viscere), che in Giovanni compare solo due volte, qui e al v.1,18, in cui si attesta che “Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò”; molto probabilmente l'aggancio non è casuale perché qui l'autore sembra voler equiparare il rapporto di mistero che lega Gesù al Padre con quello che lega Gesù al Discepolo Prediletto, che grazie a questo rapporto privilegiato con Gesù è a sua volta inserito nel Mistero del Padre, che lega i Due. Non è un caso infatti che al v.25 il Discepolo Prediletto è colto come colui che per ottenere delle risposte poggia il capo “sul petto di Gesù”, quasi per cogliere i battiti segreti del suo Mistero. Significativo è il fatto che qui l'autore non parla più di “kólpos”, ma di “stÁqoj” (stêtzos), cioè la parte che si pone all'esterno del seno, quasi a dire che la penetrazione del Mistero e il suo legame con il Padre da parte del Discepolo Prediletto non è diretto ed esclusivo come quello di Gesù, ma deve passare attraverso di lui.

Al centro dei vv.23.25 si colloca il v.24 che presenta la figura di Pietro come interlocutore non di Gesù, caratteristica questa dei Sinottici, bensì del Discepolo prediletto, che funge da filtro tra Pietro e Gesù, come dire che se si vuole arrivare a Gesù e coglierne il Mistero è necessario passare per il Discepolo Prediletto, poiché è lui e non Pietro l'intimo di Gesù. Il Discepolo Prediletto viene quindi qui definito non solo nel suo intimo rapporto di comunione con Gesù, ma anche come colui che sa penetrare il Mistero di Gesù e a cui è necessario rivolgersi per attingere ad esso. È significativa qui la posizione del Discepolo Prediletto, che in qualche modo richiama 1Gv 1,3 in cui si parla di un circolo di comunione, che attraverso l'adesione al testimone lega il credente a Gesù e con Gesù al Padre, sottolineando in tal modo la centralità del testimone per entrare nell'intimo comunionale dei Due: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. Viene dunque posta qui la centralità e l'importanza di questo Discepolo rispetto a Pietro, presentato come figura di secondo piano, che in questo contesto, dopo il suo accennato intervento, scompare nel nulla.

I vv.26-27 costituiscono la risposta alla domanda posta dal Discepolo Prediletto a Gesù, da cui emerge significativamente per tre volte il termine “ywm…on” (psomíon, boccone) e una quarta volta al v.30. In tutti quattro i casi il sostantivo è preceduto dall'articolo determinativo “” (, il). Non si tratta dunque di un boccone qualsiasi, ma “del boccone”, quel boccone che è ben noto e che è qualificato da due verbi al futuro “intingerò” e “darò”, che alludono a quanto sta per accadere. Il verbo “intingere” è reso in greco con “b£ptw” (bápto), che significa immergere, tuffare ed ha la sua forma intensiva in “baptzw” (baptízo). Un verbo questo che ritroviamo anche in Mc 10,38-39 e in Lc 12,50 dove il significato allude espressamente alla passione e morte di Gesù; e similmente in Is 21,4 dove si parla dell'ingiustizia, dell'iniquità e dell'empietà (anomía) che sommerge (baptízei) il profeta (“kaˆ ¹ ¢nom…a me bapt…zei kaì anomía me baptízei). Simili immagini e concetti, tuttavia, benché con verbi diversi da “bápto e da baptízo”, compaiono frequentemente nell'A.T.25. Questo “boccone”, dunque, che viene immerso e donato, allude allo stesso Gesù colto nella sua prospettiva di servo sofferente che si dona a tutti, anche a chi lo sta per tradire. Egli infatti si è qualificato come il pastore che offre la propria vita per le sue pecore ed ha il potere sia di offrirla che di riprendersela (10,11.15b.17-18).

Il v.26 è scandito in due momenti: l'annuncio, in cui i verbi sono al futuro, e il compimento, in cui i verbi sono al presente indicativo; mentre il v.27 parla, da un lato, degli effetti che questo boccone ha sul traditore: “E dopo il boccone, allora satana entrò in quello”. Da questo momento in poi Giuda viene inabitato dal potere delle tenebre, per questo quando uscì egli viene avvolto dalla notte. Dall'altro, Gesù lo esorta a far presto, quasi a voler sollecitare il compiersi dell'ora. Un v.27 che per certi aspetti trova la sua corrispondenza in Lc 22,3.53b, dove anche qui viene detto che satana entrò in Giuda (Lc 22,3), mentre il suo agire viene definito come il tempo e il potere delle tenebre (Lc 22,53b). Ma lascia intendere Luca in 4,13b che tutto questo fa parte di un piano prestabilito e tutto si muove sotto il potere di Dio: “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato”.

Il racconto avrebbe potuto concludersi agevolmente e con più efficacia con il v.30, in cui Giuda, dopo aver preso il boccone se ne esce in preda alle tenebre. Tuttavia la conclusione viene interrotta dall'inserzione dei vv.28-29, che nel riprendere il v.22, lo completano ricordando una volta di più la cecità dell'intelligenza spirituale del Mistero, che si andava compiendo sotto gli occhi dei discepoli. Si tratta, a mio avviso, di una forzatura narrativa, che esce da ogni logica. È da pensare infatti che la cena si svolgesse tra le 19,00 e le 21,00, infatti quando Giuda esce, precisa l'autore, “Era notte”. Come dunque si poteva pensare che Giuda uscisse a quell'ora tarda per fare delle compere per la cena pasquale che si sarebbe svolta da lì a 24 ore; o che egli uscisse, lasciando tutti a tavola per dare qualcosa ai poveri? Sembra notarsi in tutto ciò la preoccupazione dell'autore nel voler sottolineare l'incapacità da parte dei discepoli di comprendere quanto stava avvenendo. Una precisazione questa che richiama da vicino il persistente e invincibile sonno dei discepoli nell'orto del Getsemani, che non hanno saputo vegliare neppure un'ora con Gesù26. Un rimprovero, che la dice lunga sulla loro capacità di comprendere gli eventi della passione e morte del loro Maestro, che si stavano compiendo.

Il v.30 chiude il racconto del traditore svelato, che qui viene colto in flagranza di reato: “Preso dunque il boccone, quello uscì subito. Ora, era notte”. Il “Boccone” che gli si era offerto era Gesù stesso ed egli “lo prende”, cioè lo tradisce. Una scelta che lo pone immediatamente fuori dalla cerchia dei discepoli per essere collocato nel regno delle tenebre: “Ora, era notte”. Una notte, che lo avvolge interamente e dove Giuda si smarrirà e finirà tragicamente suicida (Mt 27,3-10; At 1,18-19); mentre in quella notte drammatica, tra lo smarrimento dei discepoli e la perdizione di uno dei Dodici, si andava consumando un dono di amore, che risplenderà nella luce della risurrezione, che illuminerà le cieche menti dei discepoli, gettando un'ombra amara sul traditore, che tale dono ha rifiutato.

Sezione dei discorsi (13,31-17,26)

N   Note generali

Questa sezione (13,31-17,26), contestualizzata a ridosso della pasqua ebraica e incorniciata all'interno di una cena (vv.1-2), è introdotta dal racconto della lavanda dei piedi (vv.1-20) e dallo smascheramento del tradimento di Giuda (vv.21-30). Essa costituisce un'unità letteraria ben definita, delimitata da un'inclusione data da due movimenti uguali e paralleli, quello di Giuda, al v.31a, in cui si dice che “Quando dunque (Giuda) uscì, Gesù dice”; e quello di Gesù, al v.18,1a, in cui l'autore racconta come “Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì”. Entrambi quindi escono per poi ritrovarsi nel Getsemani (18,1b-3). I due versetti, infatti, sono posti in forma chiasmica, in cui i verbi dire e uscire si incrociano tra loro, quasi preludendo all'incrociarsi di Giuda e Gesù nell'orto, dando così concretezza al sollecito di Gesù rivolto a Giuda in 13,27b: “Ciò che fai, fa(llo) presto”.

La sezione è suddivisa in due grandi sottosezioni: la prima (13,31-16,33) riguarda una lunga teoria di discorsi, giustapposti l'uno accanto all'altro, apparentemente in modo casuale, i cui interlocutori e unici destinatari sono i discepoli. Il clima, in cui si svolge la scena e in cui sono collocati i discorsi, è quello dell'intimità familiare, quasi un caldo abbraccio di addio, da cui traspare tutta la pesantezza di chi deve lasciare e sta dettando le sue ultime volontà e le sue raccomandazioni ai propri cari, che cerca di rassicurare (14,1.27), prospettando loro un abbandono che non sarà né totale né definitivo, poiché, da un lato, invierà lo Spirito consolatore, l'Intercessore, che prenderà il posto di Gesù e li guiderà alla verità tutta intera (14,16-18.26; 16,13); dall'altro, promette che tornerà di nuovo e li prenderà con sé (14,3;16,16), così che la loro attuale afflizione si tramuterà in gioia (16,20-22).

Il tono dei discorsi è prevalentemente parenetico e il ritmo dei versetti che li compongono è sapienziale e sentenziale; versetti che costituiscono una sorta di unità letterarie a se stanti, nel senso che ogni versetto è completo in se stesso ed è di senso compiuto e non ha bisogno di altri versetti o di altri contesti per ricevere senso e compiutezza. I discorsi, che sembrano avere una logica interna, in realtà sono legati al loro interno soltanto da parole aggancio, che danno al lettore l'idea di un ragionamento logico, mentre c'è solo una cascata di versetti, che si riversano l'uno nell'altro attraverso il richiamo di parole chiave che fungono da aggancio tra un versetto ed un altro. Un esempio lo si ha in 14,4-6 dove la parola chiave è “strada, via” che si ripete in tutti tre i versetti e li lega tra loro, ma senza ragionamento logico; così in 14,6b-11 la parola chiave che li lega è “Padre”; e similmente in 15,1-17 le parole chiave che legano il tutto sono il verbo “rimanere” e “amici”.

La seconda sottosezione (17,1-26) riguarda esclusivamente il rapporto di Gesù con il Padre e non più con i discepoli. Il passaggio dai discepoli al Padre è scandito dal v.17,1 in cui l'autore dice: “Queste cose Gesù ha detto e alzati i suoi occhi verso il cielo, disse: <<Padre, è venuta l'ora [...]”, in cui l'espressione “Queste cose Gesù ha detto” riguarda i discorsi rivolti, fino a 16,33, ai discepoli; mentre quella successiva,“alzati i suoi occhi verso il cielo, disse”, indica il cambio di interlocutore. Da questo momento in poi l'intero dialogo sarà tra Gesù e il Padre, il cui tema riguarda esclusivamente i discepoli e il loro futuro. Clima e contesto rimangono identico a quello del rapporto Gesù-discepoli.

Il lungo discorso di Gesù che inizia in 13,31 e termina in 17,26, già lo si è brevemente accennato sopra, è in realtà un insieme di discorsi giustapposti l'uno accanto all'altro senza particolare logica che li unisca tra loro, né particolare ordine tematico27. Anche lo sviluppo dei temi, infatti, è disordinato; temi che ricompaiono, qua e là, all'interno dello stesso capitolo che li ospita per poi ricomparire nuovamente in altri capitoli. I discorsi qui si distinguono tra loro solo dal tema che essi trattano e la cui unità letteraria interna è sovente affidata a parole aggancio, che si ripetono al loro interno dando l'idea di un ragionamento che si sta sviluppando, ma che in realtà è inesistente o scarsamente consistente.

Questa sezione è caratterizzata dal continuo ricorrere dei termini gloria, glorificare, amore, amare, comandamento, sempre strettamente legato quest'ultimo al tema dell'amore28; altro termine che si ripete numerose volte è Padre, che nei soli capp.13-17 compare ben 56 volte contro le sole 59 volte dei primi 12 capitoli. Ricorrente è anche l'espressione “vado al Padre” che si ripete per ben sette volte29. Il verbo “vado”, nel senso del ritorno di Gesù al Padre, compare al di fuori di questa sezione soltanto nei capp. 7 e 830, che segnano una decisa sterzata verso il Golgota. Ma qui ancora non si dice dove Gesù andrà, suscitando gli interrogativi della gente. Sarà soltanto a partire dal v.13,33 che, riprendendo esplicitamente il v.8,21, si preciserà, via via che il racconto procede, tutte le sfaccettature di questo andare di Gesù, preannunciato ai capp. 7-8.

Un'ultima osservazione va posta sulla conclusione del cap.14, in cui si rileva, al v.31b, una incongruenza narrativa. Gesù, terminato il discorso del cap.14, sollecita i suoi discepoli ad alzarsi e ad andare via con lui, mentre con l'inizio del cap.15 egli riprende i suoi discorsi, ignorando completamente il comando dato poco prima. Sorge il dubbio che qui più che ad una incongruenza narrativa ci si trovi di fronte ad una cesura, cioè ad una interruzione di narrazione per inserire altri discorsi. Infatti il v.14,31b narrativamente si completa bene tre capitoli dopo, con il v.18,1. La sequenza narrativa risulta pertanto la seguente: “Alzatevi, andiamo via da qui […]. Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c'era un orto, nel quale entrò lui e i suoi discepoli” (14,31b.18,1). È dunque pensabile che i capp. 15-17 siano stati inseriti successivamente, dando così origine a quella che oggi appare come una incongruenza. Il discorso originale, che doveva risultare in una prima stesura, pertanto, doveva essere quello di 13,31-14,31, in quanto è qui che vi è l'imbastitura redazionale della chiusura del discorso, data dall'ordine di Gesù di alzarsi e di andare via (14,31b). Gli altri discorsi, distribuiti nei capp.15-17, costituiscono una sorta di cassa di risonanza del cap.14. Molte sono le riprese tematiche e le ripetizioni che in questi capitoli si riscontrano; così come anche l'incongruenza di 16,5, in cui Gesù si lamenta che nessuno dei suoi gli chieda dove sta andando, contrasta con 13,36a in cui invece Pietro chiede a Gesù dove va, senza peraltro ottenere risposta. Sono questi, quelli fin qui indicati, tutti segnali come il discorso di 13,31-17,26 sia variamente composito ed elaborato in tempi successivi, a seguito dei continui rimaneggiamenti che il vangelo giovanneo ha subito nel corso di circa sei decenni31.


La parte discorsiva del cap.13
(vv.31-38)

Testo a lettura facilitata

La reciproca compenetrazione glorificante del Figlio e del Padre

31- Quando dunque uscì, Gesù dice: <<Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui;
32- [se Dio è stato glorificato in lui] anche Dio lo glorificherà in lui, e lo glorificherà subito.

Il comandamento nuovo

33- Figlioletti, ancora un poco sono con voi; mi cercherete, e come dissi ai Giudei che dove io vado voi non potete venire, (lo) dico ora anche a voi.
34- Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri.
35- In questo tutti
conosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni verso gli altri.

Il destino di Gesù e quello dei discepoli

36- Gli dice Simon Pietro: <<Signore, dove vai?>>. Rispose Gesù: <<Dove vado adesso non mi puoi seguire, ma mi seguirai più tardi>>.
37- Gli dice Pietro: <<Signore, per che cosa non posso seguirti ora? Offrirò la mia vita per te>>.
38- Risponde Gesù: <<Offrirai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico, il gallo non canterà finché non mi abbia rinnegato tre volte>>.

Note generali

Questa pericope (vv.31-38) costituisce una sorta di intonazione tematica sia all'intero discorso, che si dilunga nei capp.14-17 (vv.31-35); sia ai capp.18-19, che vengono qui in qualche modo richiamati nei vv.36-38. Questi versetti dunque tracciano le linee fondamentali dell'intero Libro della Gloria. I vv.31-32 infatti introducono il tema della glorificazione del Figlio nel Padre e questi nel Figlio, che troverà la sua eco e il suo approfondimento in 14,13; 15,8; 16,14; 17,1.4.5.10.22.24; mentre il tema dell'amore, annunciato ai vv.34-35, ricompare con insistenza quasi ossessiva in 14,15.21.23.24.28; 15,9.10.12.13.17; 16,27; 17,23.24.26. E infine i vv.36-38 richiamano il dramma della passione e morte di Gesù non solo nella predizione del rinnegamento di Pietro (18,17-27), ma anche nell'accentrare l'attenzione del lettore sul “dove Gesù sta andando” (vv.33.36), lasciando intuire come proprio attraverso la passione, morte e risurrezione, richiamate in qualche modo nel rinnegamento di Pietro, egli ritorna al Padre. Una passione e una morte che traspaiono anche dalla doppia citazione del verbo “offrire” (vv.37.38), che spinge a leggerle come offerta della vita di Gesù per gli uomini (10,11.17.18). Non è dunque Pietro che offre la sua vita per Gesù, bensì lui per Pietro. Da qui l'ironica battuta di Gesù: “Offrirai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico, il gallo non canterà finché non mi abbia rinnegato tre volte” (v.38). In altri termini la pronta offerta di se stesso da parte di Pietro è ben lontana dall'essere tale, così che il vero ed unico offerente e l'autentica offerta di se stesso è soltanto Gesù. Nessuno gli si può affiancare o mettersi in concorrenza con lui.

Questo discorso introduttivo (vv.31-38) risente di una costruzione artificiale sia per il suo articolarsi disarmonico, che non segue alcuna logica se non quella tematica; il discorso infatti si snoda per gruppi di due o più versetti (vv.31-32; 34-35; 33.36-38), qualificati per il tema e giustapposti l'uno accanto all'altro, così come evidenziati nella sezione del “Testo a lettura facilitata”; sia per la cesura del v.33, che a nostro avviso si trova fuori posto, poiché non lega in nessun modo con i vv.34-35, intonandosi, invece, bene con i vv.36-38, che al v.33 sono legati, anzi ne sono la logica conseguenza. Lo spostamento del v.33 nell'attuale posizione è stato dettato probabilmente da esigenze narrative, per staccare il tema dell'amore reciproco riparametrato su Gesù (vv.34-35) da quello precedente della glorificazione (vv.31-32), evitando così un susseguirsi tematico che poteva risultare troppo forzato.

Una particolare attenzione va rivolta alle due tematiche di fondo che percorrono l'intero discorso di Gesù (13,31-17,26): quella della glorificazione e quella dell'amore, di cui si è sopra accennato. Benché esse siano trattate in modo molto dispersivo, in quanto i versetti di riferimento sono disseminati lungo l'intero discorso, dando l'idea di un modo disordinato di procedere, tuttavia, se si raccolgono assieme tutti i versetti propri di ogni tematica, mettendoli in ordine di apparizione, ne esce un discorso completo, la cui struttura e dinamica riflettono quelle caratteristiche del pensiero a spirale, peculiare di Giovanni, che, partendo da un tema di fondo, lo riprende continuamente e, man mano che questo procede, viene sempre più completato fino a raggiungere il vertice del pensiero stesso, dando l'idea di una continua ripetizione, ma che in realtà è una continua espansione del pensiero originale di partenza. Pertanto si avrà quanto segue:

Il tema della glorificazione compare nei seguenti versetti: 13,31-32; 14,13; 15,8; 16,14; 17,1.4.5.10.22.24. Gruppi di due o più di questi versetti affrontano alcune sfaccettature della glorificazione, approfondendone il significato. Non si tratta ovviamente di un vero e proprio discorso logico, anche se è difficile parlare di discorsi veri e propri in Giovanni32, considerandone la natura e la struttura con cui sono esposti, ma certamente qui si può parlare di sviluppi tematici, che avvengono nel seguente modo:

  1. vv. 13,31-32: La reciproca glorificazione del Figlio nel Padre e questi nel Figlio; questo tema sarà ripreso e specificato in 17,1.4.5;

  2. vv.14,13 e 15,8: I credenti sono esortati a glorificare Gesù e in lui il Padre; tema questo che verrà ripreso e completato 17,10.22.24;

  3. v.16,14: La glorificazione che viene dallo Spirito;

  4. vv.17,1.4.5: I rapporti interglorificanti del Figlio verso il Padre e di questi verso il Figlio; viene qui ripreso e approfondito il tema annunciato in 13,31-32;

  5. vv.17,10.22.24: L'interglorificazione tra Padre e Figlio viene estesa ai credenti; sono qui ripresi e completati i versetti 14,13 e 15,8.

Significativo è il ruolo, soltanto qui menzionato, dello Spirito Santo in questa glorificazione che sembrava inizialmente esclusiva del Padre e del Figlio e come questo ruolo dello Spirito sia collocato al centro di tutta la dinamica della glorificazione che intercorre tra Padre, Figlio e credenti.

Il secondo tema, che percorre l'intero discorso, è quello dell'amore che emerge dai seguenti versetti: 13,34-35; 14,15.21.23.24.28; 15,9.10.12.13.17; 16,27; 17,23.24.26. Similmente a quello della glorificazione, anche questo dell'amore diviene una sorta di riflessione che contempla l'amore nella sua dinamica che coinvolge i rapporti del Padre con il Figlio e quelli dei Due con i credenti. Anche questo tema si muove con la dinamica molto simile a quella del pensiero a spirale, per toccare il suo vertice nei rapporti di amore tra il Padre e i credenti, in cui si riflette non solo il Figlio, a cui i credenti sono conformati per la loro obbedienza alla sua parola, ma anche lo stesso rapporto di amore che lega il Padre al Figlio. Si avrà, pertanto, il seguente schema di pensiero:

  1. vv.13,34-35: L'amore vicendevole ha come parametro di conformazione quello di Gesù; il tema verrà ripreso con i vv.15,12.17 in cui l'esortazione all'amore vicendevole ha come elemento di paragone un Gesù, che ha saputo dare la propria vita per gli amici (15,13). L'amore vicendevole dunque deve essere sotteso dal dono della propria vita per l'altro, fino all'estremo;

  2. vv.14,15.21.23.24: L'amore verso Gesù si dimostra conformandosi alla sua parola, che è parola del Padre, ed avrà come contropartita lo stesso amore di Gesù e del Padre, che faranno del credente la loro dimora;

  3. vv.14,28: Il vero amore per Gesù apre alla comprensione del suo Mistero e genera, per questo, gioia per il suo ritorno al Padre;

  4. vv.15,9.10.12.13.17: I rapporti di amore Padre-Gesù sono fondativi di quelli tra Gesù e i credenti, che hanno il loro parametro di raffronto nel Gesù che offre se stesso per loro. Torna qui in 15,12.13.17 l'esortazione all'amore vicendevole, che affonda le sue radici nell'esempio di Gesù che ha dato se stesso per i suoi. Qui, i vv.15,12.17 formano una sorta di inclusione con i vv.13,32-33; anche se è più conveniente parlare, più che di inclusione, di ripresa tematica

  5. vv.16,27; 17,23.24.26: L'amore verso Gesù coinvolge il credente nell'amore del Padre e nel destino di gloria di Gesù. Anche questi versetti si configurano come una ripresa e un approfondimento dei vv.14,21.23. Questo lungo cammino di riflessione contemplativa sull'amore che vede coinvolti il Padre, Gesù e i suoi giunge, di ripresa in ripresa, al suo vertice in 17,26: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”. Si tratta dunque di un amore che nasce dalla conoscenza del nome del Padre, cioè dall'esperienza del Padre manifestatosi in Gesù da parte dei credenti, sui quali si riflette il rapporto di amore Padre-Figlio che in essi dimora.

Commento ai vv.31-38

La reciproca compenetrazione glorificante del Figlio e del Padre (vv.31-32)

Con i vv.31-32 viene introdotto il tema della glorificazione che qui riguarda gli stretti rapporti tra Gesù e il Padre, ma che nello svolgersi del lungo discorso abbracceranno anche i credenti, quasi che i rapporti tra i Due si estendano anche ad essi. Quale sia il significato di questa reciproca glorificazione che passa tra i Due e che li compenetra in modo osmotico, quasi che la gloria dell'uno sia quella dell'altro e che questa non possa sussistere se non nella loro reciprocità, traendo così gloria l'uno dall'altro, da cui traspare la dinamica della loro stessa vita, viene precisato ai vv.17,1.4.5: “Queste cose Gesù ha detto e alzati i suoi occhi verso il cielo, disse: <<Padre, è venuta l'ora; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, […] Io ti ho glorificato sulla terra, avendo portato a termine l'opera che mi hai dato da fare; e adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te”. Innanzitutto è una gloria che è strettamente legata all'ora, da cui traspare l'intimo rapporto di gloria che lega i Due (17,1); una gloria che consiste, da parte di Gesù, nell'essersi fedelmente conformato al piano salvifico del Padre (17,4), così che Gesù appare non solo come manifestazione, ma anche come azione dello stesso Padre (14,9-11). Ed infine una gloria che consiste in una assunzione di Gesù alla stessa sua originale condizione di vita da cui proviene e che lo colloca, si badi bene, non più come Figlio, bensì come Figlio Gesù, cioè come Figlio incarnato, nella stessa dimensione e nella stessa vita del Padre, che gli era da sempre appartenuta come Figlio (17,5), ma che ora gli appartiene e traspare anche come Figlio Gesù (Rm 1,3-4), nel quale anche la sua umanità è stata assorbita nella stessa vita divina e ora ne fa parte.

Se con il v.30 si segnalava l'uscita di Giuda dal gruppo e il suo definitivo abbandono, ingoiato dalle tenebre, e quindi la fine di un lungo e penoso rapporto conclusosi drammaticamente, con il v.31 l'autore vede in questa sua uscita anche il segnale dell'inizio dell'ora. Tre sono gli elementi che indicano nell'uscita di Giuda l'avviarsi dell'ora: l'espressione con cui si apre il v.31: “Quando dunque uscì, Gesù dice”. L'avverbio di tempo “Quando” stabilisce la contemporaneità tra l'uscita di Giuda e il dire di Gesù. Ciò che Gesù dunque dice è strettamente legato ed è conseguente ad essa. Il secondo elemento è l'altro avverbio di tempo: “Nàn” (Nîn, ora, adesso), con cui si apre il discorso di Gesù. Se con il primo avverbio di tempo (“quando”) si scandiva la contemporaneità e il legame tra l'uscita e il dire di Gesù, con questo secondo avverbio di tempo, l'uscita diviene il momento, lo spazio temporale, in cui si dà inizio alla glorificazione, in cui Padre e Figlio sono reciprocamente coinvolti. Il terzo elemento è il verbo “™dox£sqh” (edoxáste), posto all'aoristo di tipo ingressivo o incipiente, che vede nell'uscita di Giuda l'inizio della glorificazione del Figlio Gesù ad opera del Padre (verbo al passivo teologico). L'ora, infatti, non è solo il tempo del compiersi del progetto salvifico del Padre nel Figlio attraverso l'evento della sua passione-morte-risurrezione, ma anche la dinamica attraverso la quale il Figlio Gesù rientra nel seno di quel Padre da cui era uscito (16,28) e verso il quale era rivolto fin dall'eternità (1,1b.2). L'uscita di Giuda, quindi, segna lo sprigionarsi dell'ora così a lungo attesa e il compiersi degli eventi salvifici che comportano il ritorno del Figlio Gesù nel Padre.

I vv.31-32 sono caratterizzati dalla presenza del verbo “dox£zw” (doxázo), che si ripete cinque volte, in cui i primi tre sono posti all'aoristo passivo (™dox£sqh, edoxáste); i secondi due al futuro attivo (dox£sei, doxásei). Il primo “edoxáste” inerisce all'azione del Padre sul Figlio, che si compie con l'uscita di Giuda ed è ad essa legata; un'uscita, come già si è detto, in cui l'autore vede l'attivarsi della glorificazione di Gesù ad opera del Padre ed ha il suo corrispondente in 17,1: “Padre, è venuta l'ora; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te”. Il secondo “edoxáste” inerisce alla missione di Gesù, il cui fedele compimento equivale alla glorificazione del Padre ed ha il suo corrispondente in 17,4: “Io ti ho glorificato sulla terra, avendo portato a termine l'opera che mi hai dato da fare”; ed infine vi è un terzo “edoxáste”, che si richiama specularmente al secondo e diviene motivo e causa dell'azione glorificativa del Padre nei confronti del Figlio, un'azione i cui verbi sono espressi al futuro: “doxásei”, che allude alla risurrezione, mentre quel “subito”, che accompagna il secondo “doxásei”, scandisce il tempo della glorificazione indicando negli imminenti eventi della passione-morte-risurrezione il compiersi di tale glorificazione, che ha il suo corrispondente in 17,5: “E adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te”. Un “subito” che non solo lega la glorificazione di Gesù agli eventi salvifici, ma diviene anche annuncio di una escatologia che si compie in essi e da essi si diparte, investendo l'intera creazione, che nel Risorto è ricondotta in seno al Padre (1Cor 15,20-28).

Il comandamento nuovo (vv.34-35)

Al tema della glorificazione, pur senza apparente connessione logica diretta o di causa-effetto, viene ora accostato quello dell'amore, che, tuttavia, a modo suo, è già una forma di glorificazione, che trova la sua giustificazione in 15,8: “In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. Si tratta di un'esortazione all'amore vicendevole, che l'A.T. aveva già codificato nella Torah, rendendolo vincolante per tutti i membri dell'Alleanza: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lv 19,18); un'esortazione che ha in Dt 6,5 la sua contropartita nell'amore per Dio: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze”. Esortazioni con forza di comandamento, richiamate anche dai racconti sinottici, che vedono in esse il fondamento dell'intera Torah e dei Profeti e dello stesso culto divino33. Anche 1Gv 4,20 riprende a modo proprio le due esortazioni scritturistiche e magistralmente le fonde assieme, facendo dei due amori, verso l'uomo e verso Dio, un unico e inscindibile amore: “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”. In altri termini l'amore verso Dio passa attraverso l'amore del prossimo; due tipi di amore che si intersecano e si richiamano necessariamente tra loro fino a identificarsi in Mt 25,40.45: “Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Ma qui Gesù definisce questa pressante esortazione all'amore vicendevole (13,34; 15,12.17) come un “comandamento nuovo”. L'espressione lascia intravvedere come Gesù stia pensando in qualche modo ai due passi di Dt 6,5 e in particolare a Lv 19,18, inscindibili tra loro, ma l'aggettivo “nuovo” qualifica il suo comandamento non tanto in contrapposizione alle disposizioni della Torah, ma come una evoluzione di quella, che trova in lui la pienezza di ciò che essa aveva già annunciato (Mt 17,5). “Nuovo” perché nuovo è il parametro su cui questo amore, ora, si fonda e si confronta ed ha il suo punto di forza in quel “kaqëj” (katzòs, come), che stabilisce un parametro di confronto vincolante, perché posto all'interno di un “comandamento”: “come (io) vi amai affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri”. Per il credente il nuovo criterio con cui deve misurare il proprio amore non è più quello che egli porta per se stesso, come dettava Lv 19,18, ma esso deve essere rimodulato su quello di Gesù. Significativa è, infatti, l'espressione greca con cui viene definita la nuova modalità di amore: “kaqëj ºg£phsa Øm©j” (katzòs egápesa imâs); l'avverbio comparativo “katzòs” stabilisce come norma su cui commisurare l'amore il come “vi amai”. Ci troviamo qui di fronte ad un aoristo ingressivo o incipiente (egápesa), che vede nelle modalità con cui Gesù ha amato i suoi l'origine originante dell'amore che deve informare i rapporti di ogni credente. Significativa è infatti l'espressione che ne segue: “affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri” che indica come l'amore intracomunitario deve essere informato a quello di Gesù per loro; un amore che attinge non più all'amore per se stessi, ma a quello di Gesù per loro; un amore che 15,13 definirà in termini inequivocabili: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Si tratta, dunque, di un amore che spinge a spendere la propria vita per gli altri fino a spezzarla, così come egli si è fatto pane che si spezza per tutti (6,11a). Le due tipologie di amore prospettate da Lv 19,18 e Dt 6,5 sono pertanto in Gesù non solo modificate, ma superate perché il parametro di confronto non è più il “come te stesso”, ma come il “come (io) vi amai”. Si tratta quindi di un amore che non ha più come criterio di confronto l'uomo, ma Dio stesso, il quale “ha tanto amato il mondo da donare suo Figlio”; un amore le cui dimensioni vengono pienamente dispiegate e acquistano tutto il loro significato sulla croce (15,13). Ed ora anche il comandamento dell' “Amare Dio con tutto se stessi” (Dt 6,5) trova il suo punto di convergenza in questa nuova modalità di amare, poiché conformare il proprio amore a quello di Gesù, pane che si spezza per tutti, significa esprimere il proprio amore a Dio: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (14,21); e così similmente: “Gli rispose Gesù: "Rispose Gesù e gli disse: <<Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui”. In altri termini, amare come Dio ci ha amati significa entrare in quel circolo di Amore che è la stessa vita di Dio. Ecco, perché il comandamento è “nuovo”.

Ma se il v.34 indica la nuova dinamica dell'amore vicendevole, cristologicamente risignificata, che deve animare i credenti, il v.35 definisce questo amore come qualificante e distintivo della nuova comunità credente, che diviene testimone di questo amore divino che la informa: “In questo tutti conosceranno”. È dunque l'esperienza di questo amore, che vive nei rapporti dei nuovi credenti e li sostanzia, che apre l'altro, testimone di questo nuovo modo di amare, ad una nuova dimensione, quella dell'amore di Dio per l'uomo; un amore che si è fatto dono, un dono che si è fatto pane che si spezza per tutti. Significativo quel “tutti … conosceranno” che rende la nuova comunità credente portatrice e testimone universale di questo amore, a cui tutti, indistintamente, possono accedere; così che ogni singolo credente diviene il luogo dove Dio ama.

Il destino di Gesù e quello dei discepoli (vv.33.36-38)

Dopo l'annuncio del tema della glorificazione (vv.31-32) e quello dell'amore vicendevole (vv.34-35), l'autore opera un terzo passaggio, che va oltre il lungo discorso di Gesù (13,31-17-26) e preannuncia i capp.18-19 e in qualche modo il destino stesso dei discepoli, che dovranno seguire il cammino di sofferenza del loro Maestro.

Questo terzo passaggio viene introdotto dal v.33, che originariamente, per i motivi sopra indicati (pagg.24-25), faceva parte della pericope 33.36-38. Esso funge da introduzione al tema del destino di Gesù e quello dei discepoli, che gira attorno a due elementi fondamentali che verranno successivamente ripresi e approfonditi: “dove io vado” e “voi non potete venire”; un'espressione quest'ultima che verrà, come vedremo nel corso del commento, significativamente sostituita al v.36 dal verbo “seguire”: “dove io vado … non mi puoi seguire”. Il v.33, per sua stessa indicazione interna, rimanda a 7,33-34 e, in modo più blando, anche a 8,21. Il rimando specifico a 7,33-34, di cui qui (13,33) viene sostanzialmente riportato il testo in modo identico, non è casuale poiché 7,33 fornisce la chiave di lettura del “Dove io vado”: “Disse pertanto Gesù: <<Sono con voi ancora per un po' di tempo e (poi) me ne vado da colui che mi ha mandato”. Il “Dove” dunque parla del ritorno di Gesù al Padre, al quale i discepoli non possono ancora accedere.

Alla sibillina affermazione di Gesù rivolta ai Giudei in 7,34 e 8,21, cioè che egli se ne stava andando e dove egli andava loro non sarebbero potuti venire, l'autore faceva seguire due ipotesi da parte dei frastornati Giudei (7,35; 8,22), che sottolineavano la loro inintelligenza, radicata in una pervicace incredulità. A differenza di quei due episodi, il v.33 non provoca stupore o nuove ipotesi da parte dei discepoli, ma viene posta una questione di fondo da parte di Pietro: “Signore, dove vai?” (v.36a); una questione sulla quale l'autore intende incentrare l'attenzione del suo lettore. La risposta che Gesù rifila a Pietro opera di fatto un netto cambio di posizione: infatti se con il “dove io vado voi non potete venire” del v.33, che rimandava per la comprensione di quel “dove” al v.7,33, in cui “dove” indicava il ritorno di Gesù al Padre, qui al v.36b le cose cambiano radicalmente e al “Dove vado” viene attribuito un secondo significato: “Rispose Gesù: <<Dove vado adesso non mi puoi seguire, ma mi seguirai più tardi>>”. Il “Dove” Gesù va non è più così irraggiungibile come quello del v.33, ma vi è soltanto un differimento temporale indicato da due elementi tra loro contrapposti non solo dalla particella avversativa “ma”, ma anche dai due avverbi di tempo “adesso” (nàn, nîn) e “più tardi” (Ûsteron, ísteron), e, ancora, dai due tempi verbali: il primo al presente indicativo (“non mi puoi seguire”), rimarcato dall'avverbio “adesso”, e il secondo al futuro (“mi seguirai”), sottolineato dall'avverbio “più tardi”. Cambia anche il verbo: il “non potete venire” diviene “non mi puoi seguire”, verbo quest'ultimo che si ripete tre volte nei vv.36-37 ed è reso in greco con “¢kolouqšw” (akolutzéo), il verbo che nei vangeli indica la sequela del discepolo, che pone la sua vita a servizio del proprio Maestro. Il “dove” Gesù ora sta andando inerisce alla sua passione e morte, lo dice quel “adesso”; è il tempo della sua “ora”, innescata dall'uscita di Giuda nella notte della sua perdizione (v.30). È questo lo spazio temporale in cui si compie la salvezza e il ritorno di Gesù al Padre. Quel “adesso”, dunque, diviene una sorta di tempo sacro inaccessibile a chiunque, anche ai discepoli, che si qualificano per il loro “seguire” Gesù. L'ora, infatti, è lo spazio riservato all'esclusivo rapporto tra Gesù e il Padre; un recinto sacro invalicabile, dove si compie il mistero della salvezza. Tuttavia, “più tardi”, cioè compiutesi l'ora e la missione di Gesù, ritornato al Padre (20,17), allora, quello sarà il tempo della testimonianza, che si farà sequela fino al dono della propria vita per Gesù: “mi seguirai più tardi”; un'espressione questa che richiama da vicino 21,18-19, dove ricompare nuovamente Pietro e nuovamente il verbo “seguire”: “In verità, in verità ti dico, quando eri più giovane, cingevi te stesso e andavi dove volevi; ma allorché sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà e (ti) porterà dove non vuoi>>. Ora questo disse, annunciando con quale morte avrebbe glorificato Dio. E dopo aver detto questo, gli dice: <<Seguimi>>”.

Il v.37 riporta la risposta di Pietro che denuncia tutta la sua inintelligenza, ma nel contempo consente a Gesù di rilanciare, mettendo in luce al v.38 tutta la fragilità di Pietro. Un versetto quest'ultimo che si pone in parallelo alla pericope 21-26, in cui Gesù svela il tradimento di Giuda, così come qui, al v.38, svela il rinnegamento di Pietro, con cui si chiude il cap.13; un capitolo carico di tensioni e di minacce, dove si annida sia il tradimento che il rinnegamento. Un parallelismo con cui l'autore aggancia in qualche modo Pietro a Giuda e da cui traspare, una volta di più, lo stato di rivalità e di tensioni che contrapponevano la carismatica comunità giovannea, tutta raggruppata attorno al Discepolo Prediletto, l'ultimo dei testimoni diretti ancora viventi, che essa considerava come l'erede morale e spirituale di Gesù34, a quelle già istituzionalizzate della Palestina, che riconoscevano invece Pietro come loro capo.

Compare nei vv.37 e 38 un nuovo verbo “tqhmi” (títzemi), che tra i diversi significati, annovera anche quello dell'offrire in senso sacrificale. Pietro qui dunque offre la propria vita per Gesù, cosa che avverrà (21,18-19), ma non ora, poiché dove Gesù sta andando adesso è uno spazio riservato al suo sacrificio, che costituirà un esempio, che Pietro seguirà, ma “più tardi”, non “adesso”. In questo offrire la propria vita da parte di Pietro vi è una forte allusione all'offerta che Gesù farà della propria, così che Pietro viene messo fuori scena, per lasciare spazio all'unica vera offerta, i cui effetti salvifici si riverseranno su Pietro e su tutti i credenti dopo di lui, mentre a Pietro per il momento non rimane che la vergogna del rinnegamento, che egli saprà riscattare sia nella triplice adesione di amore al Risorto (21,15-17), sia nel saper offrire, sull'esempio del suo Maestro, la propria vita per il gregge affidatogli (21,18-19).

Giovanni Lonardi


N O T E

1Cfr. 1Re 19,18; Sir 44,17; 47,22; Is 10,20-22; 11,11.16; 37,32; Ger 31,7; Bar 2,29; 4,5; Am 5,15; Mi 2,12; 4,7; 5,6-7; Sof 3,12-13; Zc 8,11-12; 9,7; 14,2.

2Sul tema del “Resto” cfr. la voce “Resto d'Israele” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

3Cfr. Ap 1,5; 3,14; 19,11

4Cfr. 1Gv 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21

5Le due pasque precedenti si trovano, la prima, in 2,13, caratterizzata dalla purificazione del tempio e dall'annuncio della morte e risurrezione; la seconda in 6,4, caratterizzata dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci e dal lungo discorso di Gesù sul pane; l'annuncio della terza pasqua si colloca in 11,55, caratterizzata dal racconto della risurrezione di Lazzaro, e verrà richiamata in 12,1 e 13,1. Questa terza pasqua fungerà da sfondo all'intero Libro della Gloria (13,1; 18,28.39; 19,14)

6Rispetto alla cena di Betania, avvenuta sei giorni prima della pasqua (12,1) e quindi alle prime ore della domenica precedente, questa qui, avvenuta in Gerusalemme, si colloca cinque giorni dopo quella di Betania. Circa la datazione della cena di Betania (12,1-9) cfr. il commento al cap.12 della presente opera, pagg.5-6

7Cfr. Mt 26,19-30; Mc 14,22-26; Lc 22,13-22.

8Cfr. 1Cor 11,23-26

9Vi sono dei segnali temporali posti nel vangelo di Giovanni che scandiscono lo svolgersi degli eventi drammatici che hanno segnato le ultime ore di vita di Gesù. In 13,30 Giuda lascia la cena e se ne esce. L'evangelista informa il suo lettore che “Era notte”. Si era dunque già nelle prime ore del giorno successivo a quello precedente, terminato alle 18,00. In 18,1-12 Gesù esce dalla cena, va nel Getsemani dove viene arrestato e condotto da Anna e Caifa quella notte stessa (18,13). In 18,19-23 subisce un primo interrogatorio da Anna, che poi lo invia subito da Caifa (18,24). In 18,28, il mattino successivo a quello della cena, ma sempre per gli ebrei nello stesso giorno di venerdì, iniziato il giorno prima alle 18,00, giorno in cui ha avuto luogo anche la cena, Gesù viene condotto da Caifa presso il pretorio, da Pilato. Ora, quanto succede da 18,28 a 19,13 avviene nella mattinata di venerdì, poiché in 19,14 l'autore afferma che era circa l'ora sesta, cioè il nostro mezzogiorno di venerdì; l'autore infatti precisa, sempre in 19,14, che “era la preparazione della pasqua”, cioè il momento in cui si sacrificavano gli agnelli per la cena pasquale, che sarebbe avvenuta alla sera di quel giorno, dopo le ore 18,00 e quel giorno di pasqua cadeva quell'anno di sabato (19,31). Quindi quanto qui avviene, cena, passione, morte e sepoltura, è sempre e soltanto venerdì. Sulla questione dell'ultima cena e della diversità dei tempi tra quella dei Sinottici e di Giovanni cfr. il mio studio rilevabile dal mio sito “Teologia per Tutti”, all'indirizzo http://digilander.libero.it/longi48/Pasqua%20ebraica%20e%20Ultima%20Cena.html

10Per un approfondimento sulla figura di Giuda cfr. il mio commento al cap.6, pagg.66-67

11Cfr. la voce “Banchetto, Pasto” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

12Cfr. anche Gv 13,18; 17,12; 19,24.28.36.37; 20,9

13Il termine greco “de‹pnon” (deîpnon), che letteralmente significa pranzo, cena, il mangiare, per traslato indica anche il banchetto, il luogo dove ciò avviene.

14Cfr. la voce “Banchetto, Pasto” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

15Cfr. Gv 8,42; 16,28a.30; 17,8

16Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23

17Cfr. Gen 18,2.8b; Es 19,17; 33,8; Gs 8,33; 1Sam 19,20; 1Re 8,14.55; 1Cr 28,2a; 2Cr 6,3; 7,6; 20,5; Est 8,4; Sal 19,9; 121,2; Prv 6,18; Sir 26,18; Is 23,7b; Bar 6,25;

18Cfr. Gen 49,33; Es 3,5; 1Mac 10,72; Sal 8,7; 9,16; 16,5; 17,37.39; 24,15; 25,12; 35,12; 39.3; 46,4; 55,14; 56,7; 57,11; 72,2; 109,1; Prv 1,15; 3,23.26; 4,26.27; 5,5; 6,18; 7,11; 25,17.19; Sir 6,36; 21,22; 51,15; Is 21,8; Is 37,25; 58,13; Ger 2,25; 38,22; Lam 3,34; Ez 43,7; Ab 3,19; Zc 14,12; Ml 3,21.

19Cfr. la voce “Piede” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

20Circa la figura del Discepolo Prediletto e il suo confronto con Pietro cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 22-30

21Sul significato del verbo “conoscere” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 57-58

22Cfr. Sap 9,1; 16,25; Gv 1,3; Eb 4,12; 1Pt 1,23

23Circa il tema delle abluzioni, cfr. la voce “Abluzioni” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; e la voce “Puro, Impuro, Purificare” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

24I tempi del perfetto e del piuccheperfetto in greco indicano uno stato presente, che risulta come conseguenza di un'azione passata. Nel nostro caso, dunque, lo stato di coscienza di Gesù, indicato con il verbo “Édei” (édei) ha le sue radici più profonde nella stessa eternità di Dio (Ef 1,4).

25Cfr. Gb 22,11; Sal 68,16; 87,8; 89,5; 123,1-5; Is 43,2; Gio 2,6

26Cfr. Mt 26,37-46; Mc 14,33-42; Lc 22,39-46

27Sul tema dei discorsi in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 88-89

28Cfr. Gv 13,34; 14,15.21; 15,10.12

29Cfr. Gv 13,33.36; 14,2.4.12.28; 16,5.7.10.17.28

30Cfr. Gv 7,33; 8,14.21

31Cfr. Sulla questione della formazione del Vangelo di Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.33-47

32Circa la formazione e la natura dei discorsi in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva alla presente opera, pagg.88-89

33Cfr. Mt 22,36-40; Mc 12,38-33; Lc 10,25-28

34È il discepolo prediletto, infatti, che si troverà sotto la croce di Gesù, da cui riceverà la sua eredità spirituale, e non Pietro (19,25-27)