IL VANGELO SECONDO GIOVANNI


Commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi




CAPITOLO DODICESIMO

Il preambolo introduttivo al Libro della Gloria
e la conclusione dell'attività pubblica





Note generali al cap.12

Se il cap.11 ha una sua struttura narrativa logica e armoniosamente distribuita su cinque quadri narrativi accattivanti, di cui i primi quattro dedicati al segno della risuscitazione di Lazzaro e il quinto alla preoccupata reazione delle autorità religiose che deliberano la morte di Gesù (11,53), ma nel contempo, sia pur con l'aiuto esegetico dell'autore (vv.11,51-52), ne forniscono involontariamente la chiave di lettura (11,49-50), il cap.12 si presenta di difficile lettura per l'eccessiva concentrazione di materiale, molto frammentato in cui le diverse unità narrative sono giustapposte le une accanto alle altre senza logica narrativa e con evidenti forzature redazionali (vv.23a; 29-30; 34) per dare continuità narrativa al capitolo. La presenza infatti di numerose inclusioni (vv.1b.9b; vv.12-13.18-19; 23.28b; 23.34) stanno ad indicare proprio questo tentativo di dare coesione narrativa al materiale incluso, che altrimenti risulterebbe disarticolato e di difficile lettura.

L'insieme del capitolo dà l'impressione di un grande contenitore in cui l'autore, da un lato, ha voluto mettere dentro molto materiale, forse troppo, che non ha saputo narrativamente gestire bene per le forzature redazionali, le troppe inclusioni e per quella frattura narrativa che divide la prima sezione (vv.1-36) dalla seconda (vv.37-50), che risultano così giustapposte l'una accanto all'altra, quasi sommate assieme, ma senza alcuna logica o forse, come vedremo nel commento, con una logica molto tenue, quasi impercettibile; dall'altro, ha voluto perseguire un duplice obiettivo: dotare il Libro della Gloria (13-20) di un prologo tale da fornirgli, come vedremo, una complessa e articolata chiave di lettura (vv.1-36); e dare una significativa conclusione all'attività pubblica di Gesù (vv.37-50), quella conclusione che di fatto è mancata al cap.10, che si è terminato con un Gesù relegato a Betania di Perea e di cui più nulla si sa. Una conclusione molto secca, racchiusa tutta in due parole “rimase là” (10,40b), anche se i due successivi vv.10,41-42 hanno cercato di attutire in qualche modo l'impatto di una chiusura dura.

Per questo insieme di motivi, anche la struttura del cap.12 risente di questo disordinato accostamento di materiale e risulta essere piuttosto frammentata, anche se con quattro inclusioni (vv.1b.9b; vv.12-13.18-19; 23.28b; 23.34) si è cercato di dare un certo ordine narrativo.

La macrostruttura del cap.12, come già si è indicato nelle osservazioni sopra riportate, si divide in due sezioni: il prologo al Libro della Gloria (vv.1-36) e la conclusione dell'attività pubblica di Gesù (vv.37-50), che funge anche da chiusura del cap.12. Ogni sezione ha delle sottodivisioni, piuttosto complesse e articolate nella prima; molto più semplici e immediate nella seconda sezione.

Sezione del prologo al Libro della Gloria (vv.1-36)

Questa sezione è scandita in due sottosezioni: narrativa la prima (vv.1-22); discorsiva la seconda (vv.23-36)

Sottosezione narrativa (vv.1-22)

Questa sezione è scandita in tre quadri:

  1. Primo Quadro (vv.1-9): vengono qui ripresi tutti i personaggi del cap.11: Gesù, Marta, Maria, Lazzaro e ve se ne aggiunge uno di nuovo, Giuda Iscariota, qui accuratamente descritto (vv.4-6). È questa la pericope caratterizzata dall'unzione di Gesù, che Gesù stesso associa alla sua morte (v.7);

  2. vv.10-11: intermezzo narrativo, che associa la morte di Lazzaro a quella di Gesù, creando in tal modo uno legame tra i due, congiunti da un comune destino.

  3. Secondo Quadro (vv.12-19): l'entrata di Gesù in Gerusalemme tra una folla esultante, che Giovanni associa alla profezia di Zc 9,9, mentre la folla, nell'acclamarlo, ne definisce l'identità;

  4. Terzo Quadro (vv.20-22): il racconto dell'episodio dei Greci che desiderano vedere Gesù e che funge da preambolo al primo discorso (vv.23-36).


Sottosezione dei discorsi
(vv.23-36)

Questa sezione è composta da tre parti: la prima (vv.23-28), definita dall'inclusione data dal tema della “glorificazione del figlio” ai vv.23.28b, fornisce il senso del morire di Gesù; la seconda (vv.31-33), intervallata dalla prima dai vv.29-30, indica gli effetti della morte di Gesù sul potere del maligno; la terza parte (vv.35-36), anche questa intervallata dalla seconda dal v.34, riprende il tema della luce e fa in qualche modo risuonare i vv. 11,9-10;


Sezione della conclusione dell'attività pubblica di Gesù
(vv.37-50)

Questa sezione è composta da due parti:

  1. Una riflessione valutativa sull'attività pubblica di Gesù (vv.37-43) che vede nel suo fallimento il realizzarsi della profezia di Is 6,9-10, ma anche la fragilità dei credenti e la forte opposizione delle autorità giudaiche (vv.42-43).

  1. Il discorso conclusivo (vv.44-50) che funge da sommario delle tematiche più rilevanti del pensiero giovanneo. Si tratta in buona sostanza di una sorta di promemoria conclusivo.


Commento al cap.12

Sezione del prologo al Libro della Gloria (vv.1-36)

Sottosezione narrativa (vv.1-22)


Primo Quadro (vv.1-9)


Testo

1- Gesù, dunque, sei giorni prima della pasqua andò a Betania, dove c'era Lazzaro, che Gesù risuscitò dai morti.
2- Là dunque gli fecero un pranzo, e Marta serviva, mentre Lazzaro era uno dei commensali con lui.
3- Maria dunque, presa una libbra di profumo di nardo genuino costoso, unse i piedi di Gesù e asciugò i suoi piedi con i propri capelli; ora, la casa fu riempita dalla fragranza del profumo.
4- Ma Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per consegnarlo, dice:
5- <<Per che cosa questo profumo non è stato venduto per trecento denari e (non) è stato dato ai poveri?>>.
6- Ora, disse questo non perché gli stessero a cuore i poveri, ma perché era ladro ed avendo la borsa portava via quello che era messo dentro.
7- Disse dunque Gesù: <<Lasciala (fare), affinché lo custodisca per il giorno della mia sepoltura;
8- i poveri infatti (li) avete sempre con voi, ma non avete sempre me>>.
9- Pertanto, la grande folla dei Giudei seppe che è là e andarono non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro, che risuscitò dai morti.
10- Ma i sommi sacerdoti tennero consiglio per uccidere anche Lazzaro,
11- poiché a causa sua molti dei Giudei se ne andavano e credevano in Gesù.

Note generali al Primo Quadro (vv.1-9.10-11)

Dopo il racconto della risuscitazione di Lazzaro che ha occupato l'intero cap.11 e dopo aver analizzato attentamente le singole figure dei personaggi, che hanno animato i diversi quadri narrativi e in particolar modo quelle di Gesù, Marta, Maria e Lazzaro, ci si aspetta ora che null'altro si debba dire in proposito. Il cap.12 invece riprende i quattro protagonisti principali del cap.11 e li rimette in scena, ma qui cambia completamente lo scenario e, di conseguenza il loro ruolo e il loro significato. Marta e Maria, infatti, rappresentavano nel cap.11 due tipologie di fede nel Risorto, la prima dinamica (11,21-22.26), ma ancora titubante nella testimonianza (11,28) e tarlata da qualche incertezza (11,39-40); mentre la seconda una fede quiescente (11,20b), pronta a rispondere e a rimettersi in cammino verso il Risorto (11,29), ma ancora fragile e incapace di riconoscerne la vera natura, al quale si rivolge soltanto con un lamento di morte privo di speranza (11,32b) e da cui non ottiene nessuna risposta. Non vi è quindi dialogo tra i due. Gesù, poi, che si è dichiarato risurrezione e vita per il credente (11,25-26), non è in casa di Marta e Maria, non è ancora nel villaggio di Betania, simboli e metafore questi della comunità credente, ma soltanto nei suoi pressi (11,30a) e Marta e Maria per incontrarlo devono uscire dalla loro fede tiepida e ripercorrere il loro iniziale cammino di fede per incontrare il Risorto (11,20a.29), a cui devono legare la loro fede e su di esso fondarla. Solo così Gesù diverrà per loro “risurrezione e vita”, significata nella risuscitazione del fratello Lazzaro. Un racconto quello del segno di Lazzaro che parla di una ritrovata fede nel Risorto e su di esso rifondata. Un racconto che potremmo definire come preliminare al cap.12 Sarà soltanto nel cap.12 infatti che il segno diventerà annuncio del Risorto e Lazzaro sua figura.

Ed anche Lazzaro, nel cap.11, era figura di quel giudaismo chiuso nella tomba delle prescrizioni mosaiche, a cui la venuta di Gesù tolse la pietra, facendo udire forte la sua voce, che, accolta, lo fa uscire, aprendogli una nuova prospettiva e un nuovo orizzonte, inaugurati dal Risorto, che è risurrezione e vita per ogni credente.

Ma ora qui, al cap.12, le cose cambiano radicalmente; non si parla più della necessità di una fede fondata sul Risorto e in lui rivivificata, sullo sfondo della quale, quasi in filigrana, si intravvedeva un preannuncio della morte e risurrezione di Gesù; ora lo scenario è quello di una morte in una prospettiva di vita. Anche la risuscitazione di Lazzaro, letta in 11,11 come un risveglio dal sonno (™xupn…sw, exipníso), ora è vista come una risurrezione dai morti (½geiren ™k nekrîn, égheiren ek nekrôn), espressione questa che nella chiesa primitiva indicava la risurrezione di Gesù. Qui la morte e risurrezione di Lazzaro diventano pertanto la prefigurazione di quelle di Gesù, anzi vengono associate a quelle. Anche il contesto temporale cambia: il segno del cap.11 è collocato in un contesto temporale anonimo; soltanto al termine del racconto, in 11,55, all'interno di una breve pericope di transizione verso il cap.12, si viene a sapere che “era vicina la pasqua dei Giudei”, quasi a voler suggerire di legare il segno di Lazzaro alla pasqua e in una prospettiva di morte-risurrezione, cosa che avverrà nel cap.12. Qui, invece, il richiamo alla pasqua, già preannunciata in 11,55, è diretto e molto forte: “sei giorni prima della pasqua”, quella che per i cristiani è chiamata la settimana santa e che nella chiesa primitiva fungeva da preparazione alla pasqua, la settimana della passione, morte e risurrezione di Gesù, a cui si lega ora espressamente il ricordo della passione (malattia), morte e risurrezione di Lazzaro, richiamata per due volte, ai vv.1b e 9b, con l'espressione “lo risuscitò dai morti”, legando ora in modo esplicito il racconto di Lazzaro agli eventi che stanno per travolgere Gesù; anzi intrecciando tra loro i due destini di morte, che preludono ora alla risurrezione. Ai vv.10-11 infatti si allinea il destino di morte di Lazzaro a quello di Gesù (11,53): in entrambi i casi le autorità giudaiche decretano la loro morte per contenere il deflusso dei giudei verso il nuovo Rabbi. Lazzaro dunque diviene ora in modo più esplicito figura di Gesù, ma non solo, insieme a Marta e Maria divengono suoi discepoli, colti all'interno di una cena dedicata a Gesù (v.2a), che, in una lettura prolettica, anticipa in qualche modo l'ultima cena, annunciata in 13,2 e, come meglio vedremo nel commento, se ne crea il contesto e se ne anticipano in qualche modo le tematiche. Non a caso compare qui anche la figura di Giuda, indicato come “uno dei suoi discepoli, che stava per consegnarlo” (v.4). Il quadro anticipatore dunque è completo: Gesù, i suoi discepoli (Marta, Maria e Lazzaro), collocati nel contesto di una cena in cui presente c'è anche Giuda, il traditore.

Quanto alla struttura, questo primo quadro narrativo è delimitato dall'inclusione data dall'espressione “risuscitò dai morti” posta ai vv.1b.9b, che dà il tono all'intera pericope, proiettandola in una prospettiva di morte e risurrezione, con chiara allusione a quelle di Gesù. Tutto ciò che qui vi è narrato va pertanto ricompreso entro quest'ottica.

Propongo pertanto di seguito il seguente schema di lettura:

  1. v.1: Gesù giunge a Betania presso Lazzaro, risuscitato dai morti, a ridosso della pasqua: introduzione temporale e geografica al primo quadro; viene qui suggerita la chiave di lettura di questi primi nove versetti (pasqua e risurrezione dai morti);

  2. vv.2-3: entro la cornice di una cena (v.2) è collocato l'episodio dell'unzione di Gesù (v.3)

  3. vv.4-6: presentazione della figura di Giuda;

    B') vv.7-8: chiave di lettura del gesto dell'unzione in prospettiva di morte;

    A') v.9: Le folle, saputo che Gesù era a Betania da Lazzaro corrono verso Gesù e Lazzaro,

    il testimoniato e il testimone, accomunati tra loro dall'evento della morte-risurrezione.

La pericope si presenta a parallelismi complementari concentrici in C). Al v.1 Gesù giunge a Betania, mentre al v.9 le folle accorrono a lui, saputo che egli era giunto là. I vv.2-3 presentano l'unzione di Gesù, mentre i vv.7-8 ne forniscono la chiave di lettura; i vv.4-6, posti al centro del quadro, presentano la figura di Giuda, che avrà un ruolo determinante nella morte di Gesù.

Questo primo quadro si conclude con i vv.10-11 che formano una sorta di appendice al quadro stesso, con cui l'autore nell'informare il suo lettore dei destini di Lazzaro, li associa a quelli di Gesù (11,53), facendone una prefigurazione.

Commento al Primo Quadro (vv.1-9.10-11)

Il v.11,54 vedeva Gesù e i suoi discepoli stanziati ad Efraim, a circa 20 Km da Gerusalemme, ma ora, allo scoccare della terza pasqua, quella per lui fatale, Gesù si avvicina a Gerusalemme, il luogo del compimento dell'ora. Betania di Giudea, infatti, si colloca a circa 15 stadi da Gerusalemme (v.11,18), poco meno di 3 Km1. All'avvicinarsi dell'ora (v.23) corrisponde, pertanto, anche un avvicinamento geografico a Gerusalemme. Con il collocare Gesù a Betania Giovanni si riallinea alla tradizione sinottica, che vede il proprio Gesù, a pochi giorni dalla pasqua, fare la spola tra Gerusalemme e Betania2.

La citazione di Betania, come luogo in cui Lazzaro fu risuscitato dai morti, mette in parallelo Betania e quanto in essa succede con Gerusalemme e in qualche modo ne anticipa gli eventi che in essa si compiranno, quasi a preparare il lettore al mistero della morte e risurrezione di Gesù. Betania infatti è il luogo dove Lazzaro risuscitò dai morti (v.1), così come Gerusalemme è il luogo dove Gesù risuscitò dai morti; Betania è il luogo dove avviene una cena (v.2a) a cui partecipano Gesù, i tre fratelli e Giuda (vv.2b-4), così come Gerusalemme è il luogo dove avviene un'altra cena (v.13,2a), l'ultima, a cui partecipano Gesù, i suoi discepoli e Giuda (13,2b.5.22); durante questa cena di Betania Marta profuma i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli (vv.3) così come durante l'ultima cena di Gerusalemme Gesù lava i piedi ai discepoli e li asciuga con l'asciugatoio (13,5); nella cena di Betania si parla dell'inumazione di Gesù e della sua dipartita (vv.7-8), così come nell'ultima cena di Gerusalemme si parlerà della sua dipartita (13,1.33; 14,3a.28); a Betania Gesù annuncerà che l'ora è venuta (v.23), così come a Gerusalemme l'evangelista commenterà che Gesù sa che è venuta la sua ora (13,1). Vi sono dunque dei forti parallelismi e delle evidenti connessioni tra Betania e Gerusalemme, tra gli eventi che qui si compiono e quelli che si compiranno in Gerusalemme. Vi è quindi una lettura prolettica in questo primo quadro, in cui Lazzaro e la sua risurrezione dai morti divengono evidenti figure di quella di Gesù.

Gesù giunge a Betania sei giorni prima della pasqua e qui (è pensabile nel giorno in cui vi giunse) gli viene offerta una cena (v.2a). La precisa citazione temporale dice l'importanza che l'autore attribuisce agli eventi che precedettero la morte e la risurrezione di Gesù, quasi a tracciarne un puntuale quadro storico per darne concretezza storica. Una nota forse contro l'incipiente docetismo di qualche parte della sua comunità3. Per poter comprendere in quale giorno avviene la cena di Betania da cui far partire i sei giorni e gli eventi che vi succedettero, è necessario rifarsi ai vv.19,14.31.42. Al v.19,14 si dice: “Ora, era la parasceve della pasqua, era circa l'ora sesta. E dice ai Giudei: <<Ecco il vostro re>>”. La parasceve o preparazione è la vigilia del sabato e quindi il venerdì, giorno in cui gli ebrei preparavano anticipatamente tutte quelle cose che non potevano essere compiute in giorno di sabato in quanto giorno di rigoroso riposo, come la preparazione dei cibi, l'accensione delle candele, la preparazione della tavola e cose simili. Ora, se Giovanni qui parla di “parasceve della pasqua”, ben sapendo che la parasceve indica la vigilia del sabato, ciò significa che quell'anno il sabato e la pasqua coincidevano. Si aveva dunque una doppia festività: il sabato e la pasqua. La conferma ci viene in 19,31 in cui si racconta che “I Giudei dunque, poiché era la parasceve, affinché i corpi non rimanessero sulla croce di sabato, infatti era grande il giorno di quel sabato, chiesero a Pilato che fossero spezzate le loro gambe e fossero portati via”. Quindi il v.19,31 diviene esplicativo e confermativo di 19,14. La pasqua di quell'anno pertanto cadeva in giorno di sabato, per questo quel sabato era un gran giorno. Ora, a partire da questa precisa segnalazione temporale e risalendo all'indietro di sei giorni, tenendo presente che per gli ebrei il giorno iniziava sempre alle 18,00 del giorno precedente, la cena di Betania doveva aver avuto luogo il sabato sera, dopo le 18,00, cioè alle prime ore della domenica. È da pensare infatti che se “Marta serviva” a tavola e “Maria […] unse i piedi di Gesù”, attività queste proibite in giorno di sabato4, il sabato fosse già passato5.

I vv.2-3 introducono il lettore nel contesto di una cena piuttosto singolare e alquanto emblematica. Innanzitutto è una cena che avviene “là”, cioè a Betania dove Lazzaro fu risuscitato dai morti, strettamente imparentata, come si è visto qui sopra, con quell'ultima cena compiutasi a Gerusalemme. Si tratta quindi di una cena che ha a che vedere con la risurrezione dai morti. Una cena, si badi bene, che è stata fatta espressamente “per lui” e quindi Gesù si pone al centro di questa cena. Si tratta dunque di una cena che assume dei forti connotati cultuali. Si tratta di una cena che avviene all'interno di una casa (v.3b), che nel linguaggio dei Sinottici è metafora della comunità credente, un concetto questo che tuttavia non è totalmente estraneo a Giovanni6. In questa casa, al di là di Gesù, a cui è dedicata la cena, si trovano almeno quattro personaggi, anche se la presenza di Giuda fa pensare a quella del gruppo dei discepoli e la precisazione che Lazzaro era uno dei commensali lascia intuire come vi fossero ben più delle quattro persone nominate. Tuttavia l'attenzione dell'autore si accentra qui su quattro persone, caratterizzate in modo preciso: “Marta serviva”, “Lazzaro era uno dei commensali con lui”, “Maria […] unse i piedi di Gesù e asciugò con i propri capelli”, “Giuda Iscariota […] che stava per consegnarlo”. Questi quattro personaggi sono figura di altrettanti comportamenti che quasi certamente esistevano all'interno della comunità giovannea. “Marta serviva”, il verbo usato qui è “dihkÒnei” (diekónei), un verbo tecnico che designava all'interno delle comunità credenti l'atteggiamento di servizio alla comunità nei diversi aspetti delle sue necessità. Paolo in 1Cor 12,4-7 parla di carismi posti a servizio della comunità. Il tempo verbale, qui posto all'imperfetto indicativo, dice la persistenza di questo comportamento, caratterizzando quindi coloro che si dedicavano alla comunità. Vi è poi “Lazzaro era uno dei commensali con lui”. L'essere “commensali con lui” significa partecipare assieme a Gesù, qui colto in un contesto di passione e morte (vv.3.7), ai suoi destini di morte e risurrezione. È questo ciò che caratterizza il credente all'interno della comunità. Una comunità dunque fondata sulla partecipazione della morte e risurrezione di Gesù e da questa nascente. Paolo nella sua prima lettera ai Corinti metterà in luce proprio questo aspetto comunitario di partecipazione alla morte e risurrezione di Gesù nella celebrazione della cena del Signore, su cui fonda e si caratterizza l'intera comunità: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane” (1Cor 10,16-17). Il terzo personaggio è Maria indicata come colei che “unse i piedi di Gesù e asciugò con i propri capelli”. Per comprendere il gesto di Marta è necessario collocarlo nel contesto in cui esso avviene: si tratta di un'unzione fatta con olio profumato, che nell'A.T. acquisisce una sua sacralità7. Ogni unzione, infatti, purché non collocata in un contesto profano, ha a che fare con il mondo del divino e del sacro8; e qui il senso della sua sacralità è definito sia dal v.7 che dal suo collocarsi all'interno di una cena in cui l'unzione diventa memoria della morte di Gesù. Un gesto questo che l'autore ritiene molto importante e tale da essere anticipatamente ricordato in 11,2. In tal modo contestualizzata, l'unzione di Maria rivolta a Gesù diviene un atto di culto. Mentre il suo asciugare i piedi con i propri capelli dice l'atto di servizio cultuale a cui essa è dedicata. Viene dunque richiamato qui nella figura di Maria che unge Gesù, facendo memoria della sua morte all'interno di una cena, il servizio del culto che si compie all'interno della comunità, qui raffigurata dalla casa dove si diffonde intenso il profumo del nardo, e a cui vi sono persone preposte9. Non si tratta tuttavia di un servizio cultuale a buon mercato, poiché questo possiede dei costi rilevanti, significati nei 300 denari, quasi un anno di lavoro di un operaio (Mt 20,2), per una sola libbra di nardo genuino, circa 328 grammi. Un problema, quello del servizio cultuale dedicato, che si pose all'interno della comunità giovannea, allorché questa, dopo la morte del suo maestro, il Discepolo Prediletto, dovette adeguarsi a tutte le altre comunità credenti, istituzionalizzandosi anche lei10. Va sempre tenuto presente che i capp.11-12 sono stati inseriti tardivamente, probabilmente al momento della redazione finale del vangelo giovanneo11, dopo la morte del Discepolo Prediletto. Questo racconto quindi riflette in qualche modo la situazione dell'epoca in cui la comunità giovannea compì il passaggio dal suo stato di carismatica a quello di istituzionalizzata. Il costo infatti del mantenimento di personale dedicato al culto non doveva essere trascurabile, per questo dovettero sorgere voci contrarie a questi “sperperi” di denaro, utilizzabile invece in opere caritative (v.5). Ma l'autore fa presente che la comunità si fonda proprio sulla cena cultuale, che fa memoria della morte di Gesù; una morte da cui si diparte l'effusione dello Spirito Santo sull'intera comunità (v.3b), ricordata e allusa anche in 19,30b, dove Gesù “piegato il capo, consegnò lo Spirito” (paršdwken tÕ pneàma, parédoken to pneûma). Un'effusione dello Spirito quindi legata alla morte di Gesù. Non si tratta di un modo come un altro per dire che Gesù morì esalando l'ultimo respiro. L'espressione infatti è formulata in modo tale, come vedremo nel commento a suo tempo, da lasciare intendere ben altro che una semplice esalazione di un ultimo respiro: si tratta di una effusione dello Spirito che si diparte dalla morte di Gesù (16,7) e si rende disponibile ai discepoli nella risurrezione (20,22). Ed è proprio questo il senso del v.3b, che con forza sottolinea gli effetti dell'unzione di Gesù, cioè di questo atto cultuale che celebra la sua morte all'interno della cena consumata nella casa, cioè nella comunità: “ora, la casa fu riempita dalla fragranza del profumo”. Giovanni parla qui della diffusione dello Spirito sull'intera comunità quale effetto che si diparte dal servizio cultuale a Gesù morto e risorto. Un'unzione che ha sempre a che fare con lo Spirito. Quando Samuele unse re Saul, lo Spirito del Signore si impossessò del re, quale conseguenza di questa unzione (1Sam 10,1.10). Anche Is 61,1a ricorda come proprio dall'unzione si effuse su di lui lo Spirito del Signore: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione”. Similmente Sir 24,15 narra come la Sapienza ha diffuso se stessa in mezzo ad Israele e su Gerusalemme dove aveva posto le sue radici come un soave odore: “Come cinnamòmo e balsamo ho diffuso profumo; come mirra scelta ho sparso buon odore; come gàlbano, ònice e storàce, come nuvola di incenso nella tenda”. Anche nell'antichità numerose religioni consideravano il profumo come uno dei segni sensibili con cui il mondo divino si rendeva presente tra gli uomini. Gli Egiziani ritenevano che gli dèi si distinguessero per il gradevole profumo che emanava la loro presenza12.

La voce che qui si oppone al culto istituzionalizzato, curato da persone ad esso dedicate, è quella di Giuda. Una voce più che opportuna perché essa ben si inserisce nel contesto di una cena che fa memoria e prefigura la passione e morte di Gesù. Giuda è la chiave di volta che ha consentito la morte di Gesù, la sua soppressione; così simili a lui sono coloro che voglio sopprimere il culto che ne fa memoria.

Con i vv.4-6 Giovanni traccia la figura morale di Giuda, ricordato la prima volta in 6,71 e che si completerà nel corso del racconto nel Libro della Gloria, che lo vedrà muoversi nella notte dello spirito (13,30), ormai succube di satana (13,4.27)13. La sua attenzione ai poveri viene smascherata dall'intervento dell'autore che spiega come questo suo interesse per i poveri in realtà nascondesse una vergognosa sete di denaro, che lo porterà a vendere o meglio a svendere il Profumo per soli trenta denari. Giuda dunque non solo fu un traditore, ma anche un assetato di soldi, anzi un traditore per soldi. Giovanni di certo esagera dicendo che Giuda “avendo la borsa portava via quello che era messo dentro”. Infatti se lui era il cassiere e l'amministratore del gruppo e sistematicamente svuotava la cassa, avrebbe messo in crisi la sopravvivenza del gruppo stesso e il suo rubare e defraudare si sarebbe scoperto nel giro di qualche giorno. L'iperbole con cui Giuda viene qui definito da Giovanni è certamente un modo per dire come a Giuda più che i poveri e gli ideali di Gesù e la sua sequela interessassero maggiormente i soldi. Ma forse anche tutto questo è un modo per mettere in luce lo scadente profilo morale di questo discepolo che tra Dio e mammona non ha saputo fare la giusta scelta. Tuttavia, leggendo attentamente i racconti evangelici, si rileva, sia pur tardivamente, un pentimento e un ravvedimento che lo porterà a restituire i soldi del suo misfatto e a testimoniare davanti alle autorità religiose l'innocenza di Gesù e pagherà, infine, il suo tradimento con il drammatico gesto del suicidio14.

Alle pretese di Giuda si oppone il comando di Gesù: “Lasciala (fare), affinché lo custodisca per il giorno della mia sepoltura”. Un'espressione questa che acquista il ritmo molto simile ad un altro comando di Gesù: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24.24), anche questo pronunciato nel contesto dell'ultima cena, a ridosso della passione e morte di Gesù, in cui il pane spezzato e il calice distribuiti tra i commensali avevano il sapore di un corpo spezzato e di un sangue sparso offerti per l'uomo. “Lasciala fare” trova la sua eco in “Fate questo”, mentre l' “affinché lo custodisca” risuona in qualche modo in quel “in memoria”; del resto custodire è sinonimo di conservare e conservare fa rima con ricordare e quindi fare memoria. Ed infine “per il giorno della mia sepoltura” risuona in quel “di me”, che parla sempre di un Gesù che in quel pane spezzato e in quel vino sparso offerti ai suoi e per i suoi, si offre e si dona, anticipando in quei gesti la sua passione e morte. Vi è dunque un forte parallelismo tra il v.7 e il “Fate questo in memoria di me”. Del resto, che cosa doveva conservare Maria per il giorno della sepoltura di Gesù? Una frase sibillina come riconosce la generalità degli esegeti. Ma è proprio l'enigmaticità di questa espressione che deve far pensare, perché ben si conoscono i doppi sensi che Giovanni attribuisce non di rado alle parole, ai verbi ed anche alle espressioni stesse. Il pronome qui infatti è al neutro “aÙtÒ” (autó) e lascia quindi spazio a tutto. Esso può riferirsi al nardo, al corpo di Gesù oppure, come ritengo, al gesto di Maria, “L'unzione dei piedi e il suo asciugarli con i propri capelli”, che come si è visto richiama il servizio cultuale della cena, che fa memoria della morte di Gesù.

Ma la vera risposta, che Gesù dà alla motivazione che forniva l'alibi a Giuda per evitare “sperperi” di denaro, è nel v.8: “i poveri infatti (li) avete sempre con voi, ma non avete sempre me”. Si pone qui un parallelismo tra “l'avere sempre con voi” e “il non avere sempre con voi”. I poveri sono una realtà costantemente presente, che fa parte del gioco della vita, a cui anche i discepoli, con quel “con voi”, ne fanno parte; ma ciò che non fa parte del gioco della vita è la presenza fisica di Gesù, che non sarà sempre con loro. Se da un lato l'espressione “ma non avete sempre me” richiama una volta di più il destino di Gesù, segnato dall'avvicinarsi dell'ora, che scandisce il passaggio di Gesù da questo mondo al Padre (13,1) attraverso la sua sua passione, morte e risurrezione, dall'altro sembra dire come questa presenza si può attuare comunque attraverso la ritualità del culto. Da qui la necessità di una struttura all'interno della comunità dedicata ad un culto che faccia memoria della passione e morte di Gesù.

Il v.9 funge da imbastitura finale della pericope e lega la sua chiusura con il suo inizio attraverso un doppio richiamo: geografico-topografico e teologico. Il primo richiamo è dato dall'avverbio di luogo “là” con cui si ricomprendono sia Betania che la casa, metafore entrambe, come si è visto, della comunità quali luoghi dove c'è non solo Gesù, ma con lui anche Lazzaro, il risuscitato dai morti. Luoghi dove si sta compiendo una cena e un atto di culto a Gesù; una cena che vede i discepoli quali commensali con Gesù, ossia che condividono non solo la sua morte, ma anche la sua risurrezione. Sono proprio questi i luoghi di culto e di condivisione che diventano luoghi di convergenza di una grande folla, che accorre “là” non solo per Gesù, ma anche per “vedere” (‡dwsin, ídosin), cioè per credere in colui che è “risuscitato dai morti”, qui prefigurato da Lazzaro. Siamo qui infatti in presenza del verbo “Ñr£w” (oráo, vedere), il verbo della fede. Viene quindi qui proposta una visione ecclesiologica di una comunità credente, che, fondata attorno al compartecipato culto del Gesù morto e risorto, sta assumendo un respiro universale; una universalità che coinvolgerà non soltanto le folle dei Giudei, ma si estenderà anche al mondo dei pagani (vv.20-22).

Il primo quadro si conclude con un'appendice, che informa il lettore della sorte che pende su Lazzaro e che lo associa inequivocabilmente a quella di Gesù non solo in quanto “risuscitato dai morti” (vv.1b.9b), ma anche perché su di lui pende la sua stessa sentenza di morte ad opera del Sinedrio (11,53), facendone quindi una sua prefigurazione.


Secondo Quadro (vv.12-19)


Testo a lettura facilitata

Gesù acclamato Messia e re d'Israele

12- Il giorno dopo la grande folla, che era venuta alla festa, udito che Gesù viene a Gerusalemme,
13- presero i rami delle palme e uscirono incontro a lui e gridavano: <<Osanna! benedetto colui che viene nel nome del Signore, e il re di Israele!>>.

La regalità di Gesù preannunciata da Zc 9,9

14- Ora Gesù, trovato un asinello, si sedette sopra di esso, come è scritto:
15- “Non temere figlia di Sion, ecco il tuo re viene, seduto su di un puledro di asino”.
16- I suoi discepoli dapprima non capirono queste cose, ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che erano state scritte queste cose su di lui e che queste cose fecero a lui.

La testimonianza della folla genera alla fede altra folla

17- La folla, dunque, che era con lui quando (egli) chiamò Lazzaro dalla tomba e lo risuscitò dai morti, dava testimonianza.
18- Anche per questo la folla gli andò incontro, poiché udirono che egli aveva fatto questo segno.

Lo sdegno delle autorità religiose

19- Dissero dunque a se stessi i Farisei: <<Vedete che non giovate a niente? Ecco, il mondo gli è andato dietro>>.


Note generali al Secondo Quadro (vv.12-19)

L'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme è raccontata da tutti gli evangelisti, ma mentre nei racconti sinottici si tende a presentare un Gesù onnisciente, che si muove secondo un piano prestabilito, acclamato messia di cui si riconosce la regalità e il suo essere profeta (Mt 21,11) e ci si sofferma a raccontare in modo particolareggiato gli eventi, in Giovanni il racconto è essenziale; una essenzialità finalizzata a mettere in rilievo non solo la titolatura di Gesù quale messia e re d'Israele, ma anche la sua universalità, fatta ironicamente testimoniare sia dalle autorità religiose, che attestano con sdegno come “il mondo gli è andato dietro” (v.19), sia dal persistente richiamo delle folle rivolte tutte rivolte verso Gesù (vv.12.17.18), sia, infine, dalla presenza del mondo pagano, impersonato dai Greci, che chiedono di “vedere Gesù” (v.21). Ritorna e si sottolinea quindi qui quell'universalità che già il mondo samaritano, aveva riconosciuto e attribuito a Gesù, definito “salvatore del mondo” (4,42).

Il richiamo che qui Giovanni fa alle Scritture è molto consistente e significativo. Al v.15a, che introduce la citazione di Zc 9,9 (v.15b), vi è un richiamo a Sof 3,15b-17a, ma che si estende anche a Is 40,9b-10 e 62,11; mentre al v.13 vi è una citazione del Sal 117,26, che va tuttavia considerata nell'insieme dell'intero salmo, che canta la figura di un personaggio, forse un re, schiacciato dai suoi nemici e portato fino alle soglie della morte, ma poi riscattato, esaltato e riconsegnato alla vita dal Signore. Anche la parte introduttiva del v.13, dove la folla accompagna Gesù con rami di palma (Giovanni è l'unico che li cita) sembra richiamarsi al Sal 117,27: “Dio, il Signore è nostra luce. Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell'altare”.

Nell'insieme, il racconto dell'entrata di Gesù a Gerusalemme a motivo della sua essenzialità e dell'abbondanza delle citazioni scritturistiche poste a commento, nonché lo scenario di folle osannanti con rami di palma che acclamano Gesù “re d'Israele” (si noti, non re dei giudei) e lo accompagnano processionalmente con rami di palma nel suo solenne entrare a Gerusalemme, quasi a prenderne possesso nella sua nuova veste di Re e Signore, sembra richiamare da vicino un'azione liturgica di intronizzazione regale15, che formerà il leit-motiv dei capp.18-19, alla quale forse non è neppure estraneo, preso in seconda lettura, il tema dell'unzione di Gesù commentato nel quadro precedente (v.3), benché in quel contesto assumesse un significato di morte (v.7); una morte che comunque Giovanni legge nei capp.18-19 all'interno di una cornice di regalità. Questo secondo quadro, infatti, è strettamente connesso e conseguente al primo sia a motivo della nota temporale (“il giorno dopo”) con cui si apre, sia del richiamo del segno ai vv.17-18.

Questa pericope (vv.12-19) è delimitata da un'inclusione data sia dal sostantivo “folla” presente ai vv.12.18, sia per complementarietà tematica. I vv.12-13 infatti dicono che la folla andava incontro a Gesù acclamandolo re e messia; il v.19 ne fornisce la motivazione: “Anche per questo la folla gli andò incontro, poiché udirono che egli aveva fatto questo segno

La struttura di questo secondo quadro, già indicata nella sezione della “lettura facilitata” è scandita in quattro parti:

  1. vv.12-13: Gesù è acclamato Messia e re d'Israele;

  2. vv.14-16: i richiami scritturistici su cui fonda la titolatura di Gesù;

  3. vv.17-18: la testimonianza del segno genera alla fede altri credenti;

  4. v.19: la reazione di sdegno delle autorità religiose al diffondersi della sequela a Gesù.

Commento al Secondo Quadro (vv.12-19)

vv.12-13: già in 11,55-57 l'autore raccontava al suo lettore come in vicinanza della pasqua molti giudei salivano a Gerusalemme per la purificazione e, giunti al tempio, cercavano Gesù e si interrogavano circa la sua presenza alla festa. Ora, dopo il segno di Lazzaro, molti di questi si recarono a Betania non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro (12,9). Ed è così che avendo udito che Gesù da Betania stava per recarsi a Gerusalemme, la “grande folla” gli corre incontro osannante. Il collegamento tra il quadro narrativo precedente (vv.1-11) e questo secondo quadro è dato sia dalla nota temporale con cui si apre, “Il giorno dopo”, creando una successione narrativa, che implica uno sviluppo dal meno al più; sia dal richiamo dello stesso soggetto, “la grande folla”, ai vv.9 e 12. Il tema del segno di Lazzaro, poi, ripreso ai vv.17-19, che si richiamano parallelamente ai vv.9-11 con cui si chiudeva il primo quadro, rafforzano maggiormente il legame tra i due quadri, facendo questo secondo conseguente e dipendente in qualche modo dal primo e ne costituisce un suo naturale sviluppo narrativo.

Il v.12 descrive il movimento della folla come quella che “era venuta alla festa”, ma che proprio qui “ha udito” che “Gesù viene a Gerusalemme”. La venuta di Gesù è descritta con un verbo al presente indicativo (“viene”) ed è lo stesso verbo e lo stesso tempo verbale, benché nella forma di participio presente, con cui è acclamato al v.13: “benedetto colui che viene nel nome del Signore”, espressione questa che nel tempo aveva assunto significati messianici. È una folla “venuta alla festa” e quindi di fede giudaica, ma soltanto “dopo aver udito” “uscirono” incontro a Gesù. La folla uscì da Gerusalemme per andare incontro a Gesù che proveniva dalla vicina Betania, che distava meno di tre Km. Questo movimento di uscita da Gerusalemme dove si celebrava la pasqua giudaica, dopo aver udito che Gesù viene, per andargli incontro dice il movimento dei giudeocristiani, che lasciato il giudaismo abbracciarono la nuova fede. E che così sia lo attestano anche i vv.17-19 dove in 17 la folla che aveva assistito al segno di Lazzaro, dopo aver aderito a Gesù (11,45), dà la sua testimonianza; in 18 si racconta che la folla, di cui si è parlato al v.12, andò da Gesù “poiché udirono”, con riferimento alla testimonianza della folla del v.17; e il v.19 fa attestare l'avvenuto passaggio dal giudaismo al cristianesimo dalle stesse autorità giudaiche, che sdegnate e sfiduciate sottolineano quanto sta accadendo: “Vedete che non giovate a niente? Ecco, il mondo gli è andato dietro”; lo stesso motivo per cui decisero di eliminare anche Lazzaro ai vv.10-11. È dunque la testimonianza del Gesù, risurrezione e vita e datore di vita a chi crede in lui (11,25-26), significato nel segno di Lazzaro, che muove le masse dei giudei verso di lui. È necessaria tuttavia una fede matura e convinta nel Risorto e capace di testimonianza per essere efficace. Ecco perché il cap.11 è dedicato al risveglio della fede della comunità credente in Gesù, risurrezione e vita e datore di vita per chi crede in lui. Un capitolo dedicato con molta probabilità ai giudeocristiani che componevano buona parte della comunità giovannea.

Se il v.12 descrive il movimento della folla verso Gesù dopo averne accolto la testimonianza significata nel segno di Lazzaro, il v.13 ne indica le modalità di adesione o per meglio dire che cosa la folla avesse compreso e creduto di Gesù: “presero i rami delle palme e uscirono incontro a lui e gridavano: <<Osanna! benedetto colui che viene nel nome del Signore, e il re di Israele!”. Secondo quanto riporta il Brown16, si è posta la questione se in Gerusalemme vi fossero delle palme così che i rami potessero essere facilmente disponibili. E in tal senso segnala come da una lettera scritta da Simon Bar-Kochba17, recentemente scoperta, questi ordinasse al suo luogotenente di portare in Gerusalemme palme da Engaddi18 probabilmente per la festa dei Tabernacoli e, continua commentando, che anche oggi per la Domenica delle Palme queste vengono portate a Gerusalemme da Gerico, città che doveva essere ricca di piante di palme se è ricordata nell'A.T. come la “città delle palme”19. Tutto ciò a dimostrazione che in Gerusalemme non vi fossero disponibilità di palme, non almeno in quantità sufficiente per soddisfare “grandi folle”. Egli dunque segnala altre ipotesi riportate da alcuni esegeti secondo le quali l'entrata di Gesù a Gerusalemme fosse avvenuta prima la festa dei Tabernacoli quando dalla valle del Giordano venivano portate in Gerusalemme una grande quantità di palme per la costruzione delle capanne. Ipotesi allettante, commenta, ma non suffragata da prove. Se ci fossero o no palme in Gerusalemme ritengo che sia una questione irrilevante per la teologia giovannea, che qui punta a dimostrare la distorta comprensione che i giudei avevano avuto di Gesù, considerandolo un messia conquistatore e liberatore. La scena che qui viene descritta da Giovanni richiama infatti da vicino l'accoglienza che le folle riservarono ai Maccabei che entrarono trionfalmente in Gerusalemme, riconsacrandone il tempio e la città, profanata dalla politica di ellenizzazione di Antioco IV Epifane, sconfitto dopo circa tre anni di dura lotta (167-164 a.C.). Anche qui la folla tra canti, suoni e agitazione di rami di palma accoglieva i loro liberatori (1Mac 13,51; 2Mac 10,7). L'indicazione da parte di Giovanni delle folle che agitavano rami di palma (Giovanni è l'unico che cita l'evento e per questo è significativo delle intenzioni dell'autore) è forse un'allusione al nazionalismo maccabaico20, denunciando così la loro comprensione in senso politico e militare della figura di Gesù e del suo messianismo. La palma del resto, quale emblema di indipendenza e di liberazione nazionali, appariva anche sulle monete coniate durante la seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.), qui sotto richiamata in nota 17. Anche il gridare delle folle sembra andare nel senso di una comprensione politico-militare di Gesù: “Osanna! benedetto colui che viene nel nome del Signore, e il re di Israele!”. L'espressione “Osanna!”21 deriva dall'aramaico “hōša'-nâ” (in ebr. Hōšī'āh-nnâ), che significa “Salva!”. Essa deriva dal Sal 128,25 ed è una supplica a Jhwh rivolta dai pellegrini giunti al Tempio, alla quale i sacerdoti, all'ingresso del santuario, rispondevano invocando su di loro la benedizione. Simili espressioni si trovano anche nei Sal 12,2; 20,10; 28,9; 60,7; 108,7. Ma forse ciò che più interessa per il nostro caso è l'uso che di questa espressione viene fatto in 2Sam 14,4 e 2Re 6,26 in cui il suddito si rivolgeva al suo re, riconoscendogli un potere salvifico. Anche la citazione del Sal 118,26 (“Benedetto colui che viene nel nome del Signore”), che nello specifico del salmo si riferiva al pellegrino che si recava al tempio, ha assunto in seguito una valenza messianica, indicando il messia come “colui che deve venire” o come “colui che viene” e formulato in greco con l'espressione “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, il veniente), che compare in tutto il N.T. con questo significato 26 volte. Un titolo messianico dunque riferito a Gesù il cui senso nazionalistico e politico viene definito dall'appellativo seguente “re d'Israele”; questo viene legato all'espressione precedente da un “kaˆ” (kaì, e), che ha un valore epesegetico, cioè specificativo di quanto detto prima, per cui si avrà “benedetto colui che viene nel nome del Signore, ossia il re d'Israele”. Il Brown a tal punto suggerisce come l'espressione “uscirono incontro a lui” potrebbe essere letta, anche questa, in senso nazionalistico. Con tale espressione infatti si indicava la festosa accoglienza dei sovrani ellenistici da parte della folla, che usciva dalla città incontro al loro sovrano per accompagnarlo in città22. Una nota va posta sulla titolatura “re d'Israele”. Qui Gesù non è acclamato “re dei Giudei”, la quale cosa sarebbe stata riduttiva, richiamandosi ad un semplice contesto storico, quello presente. Il richiamo a “re d'Israele” amplifica la portata storica e teologica, richiamandosi all'intera storia d'Israele con annesse tutte le promesse, i Patriarchi, l'Alleanza e i Profeti. Un re che sarebbe stato dunque la sintesi e il vertice di tutto questo, imprimendo ancor più il senso nazionalistico alla titolatura. Una titolatura che compare per la prima volta sulle labbra dell'entusiasta Natanaele (1,49) e che preludeva, assieme a quella di Figlio di Dio, i due filoni tematici della divinità e della regalità di Gesù, che l'autore avrebbe rincorso lungo tutto il suo racconto. Ma ora, con questa acclamazione regale, posta a ridosso al racconto della passione e morte ne costituisce in qualche modo una premessa tematica, che i capp.18-19 riprenderanno e approfondiranno. Il titolo di “re”, infatti, compare in Giovanni complessivamente 16 volte di cui ben 12 soltanto nei capp.18-19 e troverà il suo vertice nella proclamazione regale di Gesù che Pilato farà solennemente, benché ironicamente, davanti al popolo: “Ecco il vostro re” (19,14). Sarà proprio qui che Giovanni preciserà che era “verso mezzogiorno”, l'ora della pienezza della luce, che in Giovanni è sinonimo di rivelazione. Precisazioni temporali che avverranno anche in 1,39 e 4,6 per indicare che in quel contesto Gesù si sta rivelando al suo interlocutore.

I vv.14-15 costituiscono la risposta di Gesù alla comprensione nazionalistica e politico-militare che i giudei hanno avuto di lui: “Ora Gesù, trovato un asinello, si sedette sopra di esso, come è scritto: <<Non temere figlia di Sion, ecco il tuo re viene, seduto su di un puledro di asino>>”. A differenza dei racconti sinottici che fanno precedere il sedersi di Gesù sull'asino da una lunga narrazione che lascia tralucere l'onniscienza di Gesù e la presenza di un piano divino che si sta realizzando23, Giovanni, nella sua stringata essenzialità, punta a mettere subito in chiaro la vera natura della regalità di Gesù, quasi a voler evitare fin d'ora ogni fraintendimento sulla vera identità di Gesù e sulla natura della sua missione. Giovanni qui sta preparando i capp.18-19 in cui il tema della regalità sarà centrale e fungerà da leit-motiv all'intero racconto della passione e morte. Meglio pertanto sgomberare subito il campo da ogni possibile malinteso. Si va dunque all'essenziale: Gesù trova un puledro d'asino e vi sale sopra. Tutto qui, è semplice, immediato, casuale, non vi sono racconti o giri di parole, non c'è nulla da dimostrare se non il senso della sua regalità. Giovanni qui punta al nocciolo della questione e quanto sia importante questa lo dice la stessa citazione scritturistica, che l'autore ha profondamente rimaneggiato a suo uso e consumo: “Non temere figlia di Sion, ecco il tuo re viene, seduto su di un puledro di asino”. Il richiamo qui è a Zc 9,9: “Esulta grandemente figlia di Sion, lancia grida, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina24. Perché una citazione così sfrondata rispetto a quella originale di Zaccaria? Giovanni nel riportare la citazione di Zaccaria ha probabilmente tolto tutte quelle parti che in qualche modo potevano essere fraintese con una regalità o con un messianismo di tipo nazionalistico o politico o dare adito in qualche modo ad una simile comprensione. La parte introduttiva: “Esulta grandemente figlia di Sion, lancia grida, figlia di Gerusalemme!” contiene in quel “esultare, lanciar grida” un richiamo a quelle grida e a quella esaltazione25 che davano inizio alla guerra santa26; similmente viene tralasciato quel “giusto e salvato”, che nel contesto di Zaccaria 9,9-10 esprime il fedele aiuto di Dio che libera Sion da ogni avversario, e che può essere compreso come l'azione liberatrice di Dio dai propri nemici in senso storico27; ed infine il verbo “™pibebhkëj” (epibebekòs) che dice “l'essere salito sopra”, quasi l'aver preso possesso della cavalcatura, che gli appartiene, come la sua regalità, che in qualche modo la cavalcatura dell'asino significa. Il verbo infatti è al perfetto ed indica un'azione passata che ha effetto ancora sul presente, con riferimento qui all'intronizzazione regale (epibebekòs). La sua regalità pertanto viene espressa anche con il cavalcare un asino. L'asino, infatti, era considerato una cavalcatura distintiva di un certo rango sociale elevato e ben si addiceva al re o a personaggi rispettabili e importanti28. Al perfetto “™pibebhkëj” (epibebekòs) pertanto Giovanni sostituisce il più semplice e comune “kaq»menoj” (katzémenos), posto al presente indicativo, che significa semplicemente “seduto”, togliendo così ogni potenziale equivoco sul suo montare sull'asino. Un altro particolare non va trascurato: Giovanni tralascia anche l'attributo che qualificava il tipo di regalità, riportato da Zc 9,9: “praÝj” (praìs), che significa umile, mite. Ciò sta a significare che neppure questo era il senso che Giovanni intendeva dare alla regalità di Gesù.

A quale tipo di regalità dunque pensava Giovanni per Gesù? Come intendeva la sua regalità? L'imbocco viene data dall'apertura del v.15, che si apre con un'esortazione a non temere: “Non temere, figlia di Sion”, che sostituisce la più equivoca espressione di Zc 9,9a e comunque non pienamente conforme al pensiero dell'autore. Un'espressione singolare questa che ricorre in questa forma 11 volte nel N.T dove essa è sempre legata ad una teofania o ha a che vedere con messaggi divini. Ricorre inoltre nella forma “Non temete” altre 7 volte, di cui cinque, sempre con il medesimo significato. E in questo senso ricorre numerose volte anche nell'A.T. in particolar modo nel linguaggio dei profeti quando questi parlavano nel nome di Jhwh. L'entrata di Gesù in Gerusalemme seduto su di un puledro d'asina e quindi con le insegne profetiche della regalità indica in tutto ciò l'incedere regale di Jhwh in mezzo al suo popolo. La citazione “Non temere, figlia di Sion” richiama infatti da vicino Sof 3,16-18: “In quel giorno si dirà a Gerusalemme: <<Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa>>”. Ma non è da escludersi qui anche un richiamo a Is 40,9-11 con cui il deuteroisaia esorta il messaggero di liete notizie ad annunciare il ritorno dalla schiavitù babilonese il resto di Israele (598-538 a.C.), in cui si insedierà la regalità di Jhwh, che pascerà Israele e lo raduna dalla sua dispersione: “<<Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati>>. Una voce grida: <<Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato>>. […] Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: <<Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri>>” (Is 40, 1-5.9-11). Molto vicino al senso della regalità giovannea è anche Is 62,11-12, richiamata in qualche modo in quel “figlia di Sion”: “Ecco ciò che il Signore fa sentire all'estremità della terra: <<Dite alla figlia di Sion: Ecco, arriva il tuo salvatore; ecco, ha con sé la sua mercede, la sua ricompensa è davanti a lui. Li chiameranno popolo santo, redenti del Signore. E tu sarai chiamata Ricercata, Città non abbandonata>>”.

Come dunque comprendere l'incedere di Gesù in Gerusalemme, seduto su di un puledro d'asina? Egli è il re che viene in mezzo al suo popolo, lo raduna dalla sua dispersione e lo attrae a sé (12,32) rinnovandolo nel suo amore e lo pascerà come un pastore pasce le sue pecore per le quali egli sta per dare la sua vita (10,10b-11.15b). Un richiamo questo quanto mai appropriato se si pensa al cap.10, tutto dedicato a questa immagine di Gesù pastore, con cui doveva terminarsi il racconto della sua vita pubblica. Re e Pastore, due immagini coincidenti nell'A.T.29, così come Jhwh era sentito pastore per il suo popolo30. Ma questi è anche un re che porta con sé la sua ricompensa e la sua mercede. Il richiamo al tema del giudizio è dunque strettamente legato alla regalità di Gesù, poiché in lui si sta compiendo il giudizio non solo su Israele, ma sull'intera umanità (3,19; 12,31). Giovanni già in qualche modo lo ha ricordato nel suo prologo: “Era nel mondo, e il mondo avvenne per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero” (1,10-11).

Il v.16 costituisce il momento di riflessione dell'autore che ricorda come “I suoi discepoli dapprima non capirono queste cose, ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che erano state scritte queste cose su di lui e che queste cose fecero a lui”. Lo fa qui e similmente lo ha fatto in 2,17; 2,22; 8,27; 10,6 e 20,9. È il soffermarsi postpasquale delle prime comunità credenti di fronte all'evento Gesù, inquietante e per molti versi incomprensibile durante la sua missione terrena, ma che ora, di fronte all'ancora più sconcertante evento della risurrezione, s'impone alla loro attenzione, attendendo una loro inevitabile risposta, che comporta una irrinunciabile quanto inevitabile scelta di vita. Si tratta di un mistero, che affonda le sue radici nel progetto salvifico del Padre, la cui comprensione ha sostanzialmente due fonti: la riflessione sull'evento, colto nel suo dispiegarsi storico, e le Scritture, che ora devono essere rivisitate e ricomprese alla luce di tale evento. Il tutto collocato all'interno dell'indispensabile azione dello Spirito Santo, che nel prendere da Gesù, porterà il credente alla verità tutta intera (16,12-15).

Il v.16 è scandito secondo una tempistica che in qualche modo riflette la dinamica storica con cui si sono svolti i fatti, cioè come le comunità credenti giunsero alla fede nel Risorto, alla comprensione del suo mistero e al suo culto. Dapprima vi è l'evento, che ne suo dispiegarsi storico non sempre era facilmente intelligibile e immediatamente coglibile; molte le inintelligenze, molte le incomprensioni, molti i fraintendimenti, l'incredulità e lo sconcerto; molte, alla fine, le defezioni dei discepoli (6,60.66) fino al rinnegamento (13,38) e al tradimento del Maestro (13,2.11.21). Si tratta in buona sostanza del disorientamento e dello smarrimento che accompagnano l'incontro dell'uomo con il Mistero di Dio, che gli si para inaspettatamente davanti e lo interpella nel suo dispiegarsi storico. Il verbo “non capirono”, infatti, ha qui il suo corrispondente greco in “oÙk œgnwsan”. Il verbo “gignèskw” (ghighnósko) ricorre in Giovanni 69 volte di cui 19 volte ha il significato corrente di sapere, conoscere, essere al corrente31, mentre nelle restanti 50, tra cui il “conoscere” del versetto in analisi, il verbo acquista un significato profondo e superiore; un conoscere che appartiene all'alea divina; un conoscere che acquista anche il significato di esperienza del divino, di accesso al mistero32. Ciò che quindi dapprima i discepoli “non compresero”, nel senso di non conobbero, erano le realtà divine che operavano in Gesù; la sua missione storica, che aveva però radici trascendenti e che essi non riuscirono a cogliere, non subito almeno, poiché dal Gesù storico probabilmente non traspariva niente di divino; sarà soltanto l'evento “risurrezione” (“ma quando Gesù fu glorificato”) e la riflessione che si è successivamente sviluppata già a partire dalla scoperta della tomba vuota (20,1-10), che li portò a considerare la persona di Gesù e la sua missione sotto altre prospettive, cercando la loro risposta nelle Scritture (Lc 24,27.44; Gv 1,45; 5,46), sotto l'azione influente e determinante dello Spirito (16,12-15). Ma non furono soltanto gli eventi riconsiderati alla luce della risurrezione e delle Scritture a determinare la compenetrazione del Mistero, ma anche la sua celebrazione cultuale in seno alla comunità credente, che la portò non solo a renderlo presente in mezzo ad essa, ma anche a compenetrarlo esistenzialmente, così da farne un'autentica esperienza di vita, in cui credente ed Evento salvifico si congiungono e si pervadono reciprocamente. Ed è, a mio avviso, anche questo aspetto del far memoria cultuale dell'Evento e del suo Mistero che si richiama in quel “si ricordarono” (™mn»sqhsan, emnéstesan). Se questo ricordarsi di ciò che era stato scritto nelle Scritture su Gesù portarono i primi credenti a comprenderne il Mistero attraverso esse, non è da escludersi come questo ricordarsi si sia trasformato in ricordo o più tecnicamente nel “fare memoria”: dalla Parola, quindi, al culto. Non va dimenticato come nella primitiva comunità credente Scritture e celebrazione cultuale dell'Evento in esse ritrovato e ricompreso erano sempre strettamente congiunte, direi simbioticamente congiunte e tra loro inseparabili (At 2,42). È significativo in tal senso come nel racconto lucano dei due discepoli di Emmaus il riconoscimento di Gesù avviene si nella Parola (Lc 24,32), ma soltanto nello spezzare del pane esso si disvela pienamente a loro (Lc 24,30-31) e si rende ad essi ancora una volta raggiungibile (Lc 24,13-33); soltanto quindi nella Parola che è confluita nel Culto. Il Gesù storico infatti non è più accessibile direttamente a loro, per questo nel momento che essi realizzano, attraverso la Parola e lo spezzare del pane (culto), la presenza di Gesù, questi si sottrae dalla loro esperienza storica, poiché essi compresero come, ora, Gesù fosse raggiungibile soltanto attraverso la Parola che è confluita nel culto e che in esso è celebrata. Quel “™mn»sqhsan”, pertanto, può essere inteso anche nel senso cultuale, considerati anche i giochi dei doppi sensi che Giovanni non di rado attribuisce alle sue parole33.

Il v.16 si conclude con una frase sibillina: “e che queste cose fecero a lui”. Che cosa fecero i discepoli per Gesù in questo contesto non è chiaro, poiché in tutto il cap.12 i discepoli, fatta eccezione per Filippo e Andrea che giocano un ruolo tutto loro nei vv.21-22, sono citati soltanto in questo v.16. L'espressione sotto analisi è legata al resto del versetto dalla congiunzione “kaˆ” (kaì, e); questo significa che essa va letta e compresa nel contesto dell'intero v.16, di cui fa parte. Ciò premesso, al fin di comprenderne il significato, accostiamo ora tra loro i tre verbi che in questo v.16 hanno come unico soggetto i discepoli: “non compresero”, “si ricordarono” e “che queste cose fecero”. Ora, tra il “non compresero” e gli altri due verbi si colloca un inciso fondamentale, da cui gli altri due verbi dipendono: “ma quando Gesù fu glorificato”. Quel “ma”, con cui si apre l'inciso, fa si che questo si contrapponga al “non compresero”. La glorificazione di Gesù, cioè la sua risurrezione, diviene pertanto sia l'elemento illuminante di questa loro iniziale inintelligenza (“dapprima non compresero”), sia la causa che sottende l'azione degli altri due verbi conseguenti: “si ricordarono” e “queste queste cose fecero a lui”. Quindi, la persona e la missione del Gesù storico non furono comprese dai discepoli se non dopo la sua risurrezione. In quel “si ricordarono” si indica una rivisitazione e una ricomprensione alla luce delle Scritture (“erano state scritte queste cose su di lui”) sia di Gesù che della sua missione storica, che portarono poi i discepoli a riprenderle cultualmente (“e che queste cose fecero a lui”). Il verbo greco che qui l'autore usa per dire che “queste cose fecero a lui” (taàta ™po…hsan aÙtù, taûta epoíesan autô) è “poišw” (poiéo), che ha una variegata gamma di significati, comprensibili e attribuibili nell'ambito del contesto in cui compare il verbo. Tra questi numerosi significati ve ne sono alcuni molto significativi e che ben si adattano al nostro contesto: “presentare, rappresentare, fare per qualcuno”, ma anche “stimare, tenere in considerazione, fare attenzione, considerare, reputare”. Quindi ciò che essi ricordarono e ricompresero attraverso le Scritture, alla luce della risurrezione, Gesù e la sua missione, proprio “queste cose fecero a lui o per lui”, cioè proprio queste cose essi tennero in considerazione, prestarono attenzione e rappresentarono attraverso l'azione cultuale “per lui”, cioè a lui indirizzata. Ecco allora che quel “kaˆ” (kaì, e), che lega l'espressione in analisi al resto del versetto, assume qui anche il significato di consequenzialità che potremmo esprime con un “e quindi”; per cui si avrà: “ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che erano state scritte queste cose su di lui e quindi queste cose fecero a lui” (azione cultuale).

Se i vv.12-16 costituiscono un esempio di come un evento storico, inizialmente frainteso, fosse stato successivamente ricompreso alla luce delle Scritture e fatto confluire nel culto, i vv.17-18 considerano un altro aspetto ecclesiale: quello della testimonianza dell'evento salvifico che, se accolto, genera ad un cammino di fede. I due versetti presentano due tipi di folle: la prima (v.17) inerisce alla testimonianza di quei giudei che erano presenti quando Lazzaro fu risuscitato dai morti. La ripresa qui dell'espressione “risuscitò dai morti” (½geiren ™k nekrîn) diviene un forte richiamo alla risurrezione di Gesù, ora apertamente indicata, come al v.1, in quella di Lazzaro. Ciò di cui le folle danno qui testimonianza è in realtà la risurrezione di Gesù, richiamata attraverso il “risuscitare dai morti”, una formula tecnica con cui nella chiesa primitiva si indicava la risurrezione di Gesù. La prima folla pertanto rappresenta quella delle comunità credenti, testimoni della risurrezione di Gesù. La seconda folla (v.18), già comparsa al v.12, diviene il soggetto passivo a cui questa testimonianza è diretta e rappresentata dal mondo giudaico. Una folla che si muove verso Gesù (Øp»nthsen aÙtù, ipéntesen autô) e la motivazione che la sospinge verso di lui è duplice e nasce in entrambi i casi dall' “aver udito”. Nel primo caso (vv.12-13) il loro andare verso Gesù nasce da un fraintendimento del suo giungere a Gerusalemme, considerandolo un messia politico; nel secondo caso (v.18) dalla testimonianza della sua risurrezione.

I timori espressi dalle autorità giudaiche (vv.11,48; 12,11), che le portarono a decretare la morte di Gesù (11,53) e quella di Lazzaro (12,10), trovano ora la loro sconsolata constatazione al v.19: “Dissero dunque a se stessi i Farisei: <<Vedete che non giovate a niente? Ecco, il mondo gli è andato dietro>>”. Si tratta di una riflessione posta all'interno del gruppo dei Farisei (“Dissero dunque a se stessi”), ma a cui è associata anche quella dei sommi sacerdoti (12,10); in buona sostanza dell'intero Sinedrio (11,47.49; 12,10.19), che constata la fallimentare politica persecutoria contro Gesù (“Vedete che non giovate a niente?”); ma nel contempo, la sottile ironia giovannea colloca sulle loro labbra la dichiarazione dell'universalità dell'evento Gesù: “Ecco, il mondo gli è andato dietro”.

La storicità del racconto

Secondo i criteri dell'esegesi quando un episodio compare in tutti quattro gli evangelisti è da ritenersi autentico. A nostro avviso andrebbe anche aggiunto “e se tale episodio è compatibile con il contesto storico in cui si colloca”. Infatti, l'episodio della trionfale entrata di Gesù in Gerusalemme tra ali festanti di folle osannanti e acclamanti la sua messianicità e la sua regalità, lascia molto perplessi e non sembra essere compatibile con il contesto storico in cui, secondo i racconti evangelici, è avvenuto. L'episodio dell'entra di Gesù in Gerusalemme certamente non può essere negato, poiché a Gerusalemme Gesù vi è andato per celebrare la pasqua e i drammatici fatti che si sono susseguiti sono inconfutabilmente accaduti a Gerusalemme. Se poi guardiamo al racconto giovanneo, quasi tutta l'attività pubblica di Gesù si è svolta a Gerusalemme. Il problema della storicità34, quindi, non va posto sull'entrata o meno a Gerusalemme, ma sulle sue modalità che, così come riportata dai vangeli, francamente suscita molti dubbi e non poche perplessità. Il contesto storico, in cui viene posta l'entrata trionfale di Gesù, è la pasqua ebraica, per la cui celebrazione confluivano da tutta la Palestina e dalle diverse regioni dell'impero un numero considerevole di ebrei35. Era, quindi, un tempo particolarmente caldo per l'ordine pubblico, perché era in questo periodo che le autorità temevano maggiormente le rivolte. L'ebreo, infatti, non era facilmente gestibile, per la sua spiccata sensibilità e suscettibilità in questioni di ordine religioso36 e, proprio per questo, egli godeva da parte di Roma di una sua relativa autonomia ed era rispettato nella sua fede, anche se non mancarono delle provocazioni da parte dei singoli procuratori romani, che ebbero come risposta rivolte sanguinose. Una di queste portò alla prima guerra giudaica (66-73 d.C.)37. La Palestina, infatti, era un territorio occupato da Roma, che per l'occasione della Pasqua e di altre festività importanti, ne rafforzava la sicurezza e in particolar modo quella di Gerusalemme, inviando delle coorti in appoggio a quelle già presenti sul territorio palestinese, che avevano funzioni di polizia38 (ogni coorte comprendeva circa 600 soldati), distaccandole dalla III Gallica, VI Ferrata Fidelis, XII Fulminata e X Fretensis39, tutte legioni di stanza in Siria, da cui la Palestina dipendeva amministrativamente. Pensare, quindi, che una numerosissima folla o comunque molto consistente potesse proclamare Gesù come il Messia, osannandolo come re, senza creare un certo scompiglio e senza attirare per questo l'attenzione delle autorità romane, lì presenti in forze, non è certamente credibile. Sarebbe stato di certo un massacro, considerata la determinazione e la crudeltà del prefetto Pilato, per l'occasione lì presente in Gerusalemme40, che proprio per la sua rozza crudeltà venne destituito nel 36 d.C. dal governatore romano della Siria Lucio Vitellio, da cui Pilato dipendeva. È molto probabile, quindi, per non dire certo, che i racconti degli evangelisti siano elaborazioni della chiesa primitiva, che ha voluto dare un taglio squisitamente cristologico all'entrata di Gesù in Gerusalemme. La prova, a nostro avviso, viene fornita dallo stesso Matteo là dove afferma che “Tutto ciò avvenne affinché si adempisse la parola per mezzo del profeta, che dice ...” (Mt 21,4) e così similmente Gv 12,14-15. I due evangelisti, pertanto, hanno voluto aiutare le loro comunità a leggere l'entrata di Gesù in Gerusalemme per la celebrazione della pasqua, come l'attuarsi di una profezia, anzi di una doppia profezia, Is 62,11 e Zc 9,9, a cui si aggiunge per Giovanni, come si è visto sopra, Sof 3,16-17. Tutte confluiscono sull'identico tema della regalità e della messianicità, che gli evangelista attribuiscono a Gesù. Tutto ciò, posto a ridosso della passione e morte di Gesù, serve per aiutare a comprendere non soltanto l'identità di Gesù, ma anche il senso del suo patire e del suo morire, che in Giovanni assume l'equivalente di una intronizzazione regale. Tuttavia se in qualche modo l'entrata “trionfale” di Gesù a Gerusalemme è effettivamente avvenuta, questa doveva essere stata un qualcosa di alquanto modesto e comunque tale da non suscitare tutto quel clamore che lasciano intuire gli evangelisti. Forse Marco è quello più vicino alla realtà dei fatti, poiché l'idea che se ne trae dal suo racconto è un qualcosa di improvvisato, casuale e tale da investire soltanto qualche gruppetto di persone, forse gli intimi di Gesù. Marco è l'unico tra gli evangelisti che non parla mai di folla, ma si limita a dire “molti” (Mc 11,8) e poi, senza quantificarli, parla di “quelli” (Mc 11,9). Quanto a ciò che i presenti gridavano, folle o molti che fossero, certamente è una elaborazione degli evangelisti, che spingono il proprio lettore a comprendere la figura di Gesù in termini messianici e regali.


Terzo Quadro (vv.20-22)


Testo

20- Ora, c'erano alcuni Greci tra quelli che erano saliti (a Gerusalemme) per adorare durante la festa;
21- Questi dunque si avvicinarono a Filippo, quello da Betsaida della Galilea, e gli domandarono dicendo: <<Signore, desideriamo vedere Gesù>>.
22- Filippo va e (lo) dice ad Andrea; Andrea va con Filippo e (lo) dicono a Gesù.

Note generali al Terzo Quadro (vv.20-22)

Questo terzo episodio conclude la parte narrativa del cap.12 e funge da introduzione alla sezione dei discorsi (vv.23-50). Proprio perché ultimo esso si pone al vertice di un cammino iniziato con l'annuncio della pasqua al v.11,55, in cui è collocato. Questa terza pasqua, quella fatale per Gesù, gli fa infatti da sfondo (v.20). È la pasqua posta all'insegna del segno di Lazzaro, la cui finalità è quella di manifestare “la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio” (11,4b). Ed è proprio con questo terzo episodio che “È venuta l'ora affinché sia glorificato il figlio dell'uomo” (v.23). Glorificazione che qui fa rima con manifestazione della salvezza anche al mondo pagano, qui significato nei Greci (v.20), e quindi l'universalizzazione di questa salvezza, che già in qualche modo era stata anticipata nel racconto della Samaritana sia ai vv.4,23-24, in cui Gesù dichiara che con lui è giunto un nuovo culto da rendere al Padre, non più attraverso sacrifici e liturgie nel Tempio, ma nel cuore e con la vita di ogni credente41: “Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità”; sia in 4,42b dove i Samaritani, dopo l'annuncio della loro concittadina giungono alla pienezza della fede, riconoscendo in Gesù il salvatore del mondo: “noi stessi (lo) abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo”. Una universalizzazione della salvezza che ha avuto in Giovanni tre tappe: dapprima essa si è manifestata ad Israele, l'erede delle promesse fatte ai padri (2,11); poi ai Samaritani, considerati degli eretici, imbastarditi con il mondo dei pagani e posti alla stregua dei pagani (4,1-42); ed infine ai pagani, qui rappresentati dai Greci. Ed è proprio al termine di questo lungo cammino che Gesù dichiarerà che è venuta l'ora della sua glorificazione (v.23), l'ora in cui egli sarà innalzato sulla croce (vv.32-33) e nella sua risurrezione; un innalzamento attraverso il quale egli trarrà a se stesso tutti (v.32b), indicando così il senso universale del suo morire e del suo risorgere. Una universalità che già era stata in qualche modo preannunciata nel prologo: “in lui era vita, e la vita era la luce degli uomini; […] Era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che viene nel mondo” (1,4.9). Una universalità che qui Giovanni vede in prospettiva ecclesiologica. I Greci infatti non si avvicinano direttamente a Gesù, ma per il tramite di Filippo e Andrea; sono loro i mediatori tra il mondo dei pagani e Gesù. Come siano andate a finire le cose con questi Greci, poi, non viene detto. Il racconto è essenziale e termina qui con i Greci che chiedono di accedere a Gesù e i discepoli che si fanno da tramite. Penso che il loro desiderio di vedere Gesù sia stato esaudito; Gesù infatti non si è mai sottratto a nessuno di coloro che si avvicinavano a lui con cuore sincero. E il verbo “vedere”, qui espresso con “Ðr£w” (oráo), il verbo della fede compiuta, dice questa loro sincera aspirazione ad aprirsi alla fede. Un episodio questo che soltanto Giovanni riporta, probabilmente un qualche suo ricordo che qui ha voluto utilizzare per le sue finalità teologiche ed ecclesiologiche. L'essenzialità della narrazione e la sua dinamica lasciano trasparire proprio questo: al v.20 viene presentata la figura dei Greci e la loro condizione religiosa; il v.21 parla della loro evoluzione spirituale che li spinge verso Gesù per il tramite dei suoi discepoli; con il v.23 questo loro desiderio è portato a Gesù dai discepoli. Viene qui indicato in buona sostanza il cammino di fede, dal paganesimo a Gesù, nel periodo postpasquale, il tempo dell'affermarsi delle prime comunità credenti e della formazione della chiesa. Ora Gesù è accessibile soltanto attraverso la comunità credente. Si viene così a sottolineare l'aspetto ecclesiologico del credere in Gesù e l'universalizzazione del suo messaggio di salvezza per il tramite della chiesa.

Commento al Terzo Quadro (vv.20-23)

Il v.20 introduce dei nuovi personaggi appartenenti al mondo dei pagani, i Greci, la cui presenza era molto diffusa in Palestina, a seguito delle conquiste di Alessandro Magno (333-323 a.C.) e la colonizzazione che questa subì nel tempo, di cui i due Libri dei Maccabei danno testimonianza. E così pure la Decapoli, posta tutta ad est del Giordano, tranne Scitopoli, ne dà attestazione. Gli stessi nomi dei primi due discepoli, Filippo e Andrea, ai quali si rivolgono i Greci, portano nomi greci, a riprova come la cultura greca fosse penetrata a fondo in tutta la Palestina. Essi erano di Betsaida posta a circa una decina di Km dal confine con la Decapoli e forse per questo dovevano conoscere abbastanza bene il greco. La stessa scritta posta da Pilato sulla croce di Gesù era riprodotta anche in lingua greca (19,20). Flavio Giuseppe scrisse le sue opere in lingua greca per darne divulgazione e molta della letteratura canonica neotestamentaria, se non tutta, è stata scritta in greco, per la grande diffusione che questa lingua aveva nell'uso quotidiano. Anche la stessa chiesa nei primi quattro secoli parlava e scriveva in greco. Sarà soltanto verso la fine del quarto secolo (380 d.C.), sotto l'impulso di papa Damaso I, che la chiesa occidentale comincerà a staccarsi da quella greca, introducendo nella liturgia il latino e traducendo tutta la Bibbia in latino, opera questa che lo stesso papa Damaso commissionò a San Girolamo.

Ma chi erano questi Greci? A quale categoria di persone appartenevano? Come si è detto, a seguito delle conquiste di Alessandro Magno la lingua e la cultura greca si diffusero ovunque dando origine al grande fenomeno dell'ellenismo, cioè l'assimilazione delle popolazioni conquistate agli usi, ai costumi, al modo di vivere, alla cultura e alla lingua greca. Un esempio di questo fenomeno di assimilazione, sia pur forzata in questo caso, ci viene offerto in 1Mac 1,11-15 e 2Mac 4,7-15. Queste popolazioni vennero definite elleniste. All'interno della Bibbia il termine “ellenista” (`Ellhnist»j, Ellenistés) si riscontra soltanto tre volte: in At 6,1, 9,29 e 11,20 e designa gli ebrei della diaspora di lingua e cultura greca, religiosamente molto meno rigidi nella pratica della Torah rispetto ai loro correligionari della Palestina e più aperti al mondo pagano presso il quale vivevano42. Ma qui, in 12,20, il termine greco per designare questa categoria di persone è “Ellhnšj” (Ellenés, Greci); un appellativo questo che ricorre 11 volte nell'A.T. prevalentemente nei Libri dei Maccabei e in Daniele e 25 volte nel N.T. Se nell'A.T. il significato è esclusivamente riferito ai Greci di origine o ai loro discendenti, nel N.T. il termine, in senso lato, viene esteso anche al mondo pagano ed indicava in genere il non ebreo43, come testimonia ripetutamente nelle sue lettere lo stesso Paolo44. Considerata tuttavia la precisione storica con cui Giovanni racconta il suo vangelo, questi Greci dovevano essere realmente tali. Questi, dunque, appartenevano al mondo pagano, tuttavia l'autore precisa che “erano saliti (a Gerusalemme) per adorare durante la festa”. Essi dunque, pur pagani, partecipavano al culto giudaico. Si tratta di una categoria di persone che erano definite dai giudei come i “timorati di Dio”. Questi, pagani per nascita, si erano in qualche modo integrati nella comunità ebraica, pur non essendo circoncisi ed essere divenuti quindi proseliti, i quali, invece, ad ogni effetto erano considerati Giudei. Questi “timorati” guardavano con favore la comunità giudaica per la loro pietà, per il loro culto monoteistico, per la loro condotta morale esemplare e la rigorosa osservanza della Torah. Esempi in tal senso si trovano in At 10,2.22 e 13,16.26. Ma tracce di questa presenza di “timorati di Dio” se ne trovano già nell'A.T., che ne dà testimonianza in Es 12,19.48.49; 20,10; Lv 16,29; 18,26; 22,18; Gs 8,33.

Questi timorati, dunque, vengono indicati “tra quelli che erano saliti” (™k tîn ¢nabainÒntwn, ek ton anabainónton). Essi pertanto sono associati ai Giudei che salgono a Gerusalemme, posta a circa 790 mt. s/m. Il verbo “¢nabainÒntwn” (anabainónton), che in Giovanni ricorre 16 volte, viene da lui quasi45 esclusivamente utilizzato sia in riferimento a Gesù per indicarne la trascendenza divina e il suo rapporto esclusivo con il Padre46, sia per indicare “coloro che salgono a Gerusalemme”, cioè i pellegrini, che in occasione delle feste salivano a Gerusalemme per celebrane il culto47. Il verbo, in questo secondo caso, è diventato tecnico per indicare la salita a Gerusalemme, per cui talvolta il nome della città viene tralasciato48. La finalità di questa salita a Gerusalemme da parte di questi Greci, appartenenti al mondo pagano, si noti bene, non è per celebrare il culto pasquale, benché la loro salita a Gerusalemme sia inquadrata nell'ambito della “festa”, cioè la pasqua, già segnalata ai vv.11,55 e 12,1, ma per “adorare” (†na proskun»swsin, ina proskinesosin), cioè riconoscere Jhwh come il vero e unico vero Dio. Un'attenzione particolare va riservata a questo verbo che in Giovanni compare 11 volte, di cui 9 volte ricorre in 4,20-24 allorché Gesù prospetta alla Samaritana un nuovo modo di adorare Dio non più nel Tempio e con sacrifici di animali, ma nella propria vita secondo i dettami dello Spirito e nella sincerità del proprio cuore. Un culto quindi legato alla vita. Una seconda volta il verbo compare in 9,38, al termine del racconto del cieco nato, figura e metafora di Israele, il quale riconosce in Gesù il Messia inviato da Dio e in quanto tale si prostra davanti a lui in atto di adorazione. Un'ultima volta il verbo compare qui al v.12,20 in cui dei pagani Greci salgono sul monte per adorare. Si era detto sopra (v. pag.20) come il cammino dell'universalizzazione della salvezza percorre in Giovanni tre tappe: Israele (2,11), il mondo dei Samaritani (4,1-42) e infine quello dei pagani (v.20). Similmente anche il riconoscimento dell'appartenenza di Gesù al mondo divino attraverso l'atto di adorazione percorre allo stesso modo le tre tappe che vedono l'universalizzazione di tale riconoscimento: Israele, raffigurato nel cieco nato; i Samaritani e infine i pagani. Una universalità che richiama da vicino la visione messianica ed apocalittica di Isaia: “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: <<Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri>>. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore” (Is 2,2-3). Una universalizzazione e una universalità che troverà il suo vertice al v.32: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”, in cui risuona la riflessione dell'autore della lettera agli Efesini: “poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,9-10). E proprio su questa riunificazione di Giudei e pagani nell'unico Cristo attraverso la croce, l'autore continua: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia” (Ef 2,14-16). Una universalizzazione che, sempre secondo l'autore di Efesini, si colloca ancor prima della creazione del mondo e trova la sua attuazione sulla croce allorché il Padre “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia”(Ef 1,4-7).

I vv.21-22 raccolgono questo tema dell'universalità della salvezza e del culto, che scaturisce dalla croce di Gesù, facendolo diventare un tema ecclesiologico, cioè di mediazione. È così infatti che i Greci si rivolgono a Filippo e questi pone la richiesta ad Andrea, quasi a riportare in seno alla comunità ecclesiale la questione dell'adesione dei pagani a Gesù; e i discepoli, infine, assieme fanno giungere questo desiderio di adesione a Gesù, come per dire che ora Gesù si può incontrare soltanto attraverso la mediazione ecclesiale e all'interno della chiesa. Ciò che i Greci desiderano infatti è “vedere Gesù” (tÕn 'Ihsoàn „de‹n, tòn Iesûn ideîn), un vedere che in greco è espresso con il verbo “Ñr£w” (oráo), il verbo della fede compiuta e sincera, sorretta dal desiderio che si fa volontà di adesione a Gesù: “qšlomen” (tzélomen, vogliamo, desideriamo). Una fede quindi che già si radica in loro e che attende di essere pienamente compiuta nell'incontro con Gesù. Significativa qui è la scelta dei due discepoli ai quali si rivolgono i Greci: Filippo e Andrea. Il richiamo qui su Filippo come “quello da Betsaida della Galilea” rimanda il lettore direttamente a 1,43-46 dove lo troviamo accoppiato ad Andrea, a sua volta descritto ai vv.1,40-42. Ciò che hanno in comune i due discepoli è quello di aver incontrato Gesù, di averlo annunciato agli altri loro compagni e di averli portati a Gesù. Il primo, Filippo, chiamato da Gesù; Andrea, come i Greci, desiderava vedere Gesù, dove egli abitava (1,37-40). È proprio questa loro capacità intermediatrice e la loro stessa storia che li rende idonei a rappresentare lo schema missionario della chiesa, che accolto in sé il Risorto lo annuncia all'intero mondo, portandolo ad esso.


Sezione del prologo al Libro della Gloria
(vv.1-36)

Sottosezione dei discorsi (vv.23-36)49


Testo a lettura facilitata

La chiave di comprensione della passione e morte di Gesù

23- Gesù risponde loro dicendo: << È venuta l'ora affinché sia glorificato il figlio dell'uomo.
24- In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano caduto in terra non muore, esso rimane solo; ma se muore, porta molto frutto.
25- Chi ha caro la sua vita la manda in rovina; e chi disprezza la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.
26- Se uno mi serve, mi segua, e dove io sono, là sarà anche il mio servo; se uno mi serve, il Padre lo onorerà.
27- Ora la mia anima è turbata. E cosa dico? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo venni, per quest'ora.
28- Padre, glorifica il tuo nome. Venne dunque una voce dal cielo: <<E (l')ho glorificato e di nuovo (lo) glorificherò>>.
29- La folla dunque, che stava (lì) ed aveva udito, diceva che era stato un tuono; altri dicevano: <<Gli ha parlato un angelo>>.
30- Rispose Gesù e disse: <<Questa voce non fu per me, ma per voi.

Gli effetti della passione e morte di Gesù

31- Ora è il giudizio di questo mondo, ora il capo di questo mondo sarà buttato fuori;
32- e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso>>.
33- Ora diceva questo per indicare con quale morte stava per morire.
34- Gli rispose dunque la folla: <<Noi abbiamo sentito dalla Legge che il Cristo rimane per sempre, e in che modo tu dici che il Figlio dell'uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell'uomo?>>.

L'ultima esortazione: camminate nella luce

35- Disse dunque loro Gesù: <<Ancora per un po' di tempo la luce è in mezzo voi. Camminate finché avete la luce, affinché non vi sorprenda l'oscurità; e chi cammina nell'oscurità non sa dove va.
36- Finché avete la luce, credete nella luce, affinché diventiate figli della luce>>. Gesù disse queste cose, e andatosene, si nascose da loro.

Note generali

Se con i tre quadri narrativi (vv.1-22) con cui si compone questo prologo al Libro della Gloria (vv.1-36) l'autore da un lato ha ricreato, anticipandolo, l'ambiente dell'ultima cena, introducendo la figura di Giuda, legandola alla morte di Gesù, richiamata con l'unzione, dai forti tratti cultuali (vv.1-11); dall'altro, con l'entrata di Gesù a Gerusalemme ha voluto spogliarne il messianismo da ogni fraintendimento politico o militare (vv.12-19a), sottolineando invece il senso universale del suo morire (vv.19b-22), il tutto collocandolo in un contesto ecclesiologico, che traspare come in filigrana sullo sfondo; ora con questa sottosezione dei discorsi (vv.23-36) porta a completamento questo prologo sottoponendo al suo lettore una riflessione sul significato del patire e del morire di Gesù, fornendogliene la chiave di lettura. L'autore, dunque, con questo prologo (vv.1-36) sta preparando il suo lettore ad una corretta comprensione del Libro della Gloria.

Questa sottosezione è scandita in tre parti: la prima (vv.23-28), definita dall'inclusione data dal tema della “glorificazione del figlio” ai vv.23.28b, fornisce il senso del morire di Gesù; la seconda (vv.31-33), intervallata dalla prima dai vv.29-30, indica gli effetti della morte di Gesù sul potere del maligno e sull'intera umanità credente; la terza parte (vv.35-36), anche questa intervallata dalla seconda dal v.34, riprende, sotto forma parenetica, il tema della luce e facendo in qualche modo risuonare i vv. 11,9-10.

Commento

La chiave di comprensione della passione e morte di Gesù (vv.23-30)

La pericope delineata dai vv.23-30 è scandita in due momenti: il primo, definito dall'inclusione data dal tema della “glorificazione del figlio dell'uomo” ai vv.23.27-28; il secondo, dalla reazione della folla fatta seguire dalla precisazione di Gesù (vv.29-30), che funge da transizione tra il primo discorso e il secondo (vv.31-34). È questa una pericope che lascia perplessi sia per la sua struttura che per la sua dinamica che risentono di una certa forzatura. Non si comprende bene, infatti, da un punto di vista narrativo, il legame tra la richiesta di vedere Gesù da parte dei Greci, intermediati dai discepoli, e il discorso che ne segue. A chi sia rivolto poi questo discorso non ci è dato di sapere; probabilmente ai due discepoli, gli unici interlocutori di Gesù in quel momento; ma poi, alla conclusione del breve discorso ci si accorge che a seguire Gesù nei suoi ragionamenti vi è lì presente la folla (v.29), che muove i suoi commenti e alla quale Gesù si rivolge con un'annotazione (v.30). I Greci, che inizialmente erano i veri interlocutori di Gesù e i veri attori posti in scena, sono scomparsi nel nulla. Vi sono dunque nel loro insieme delle incongruenze narrative, che lasciano intuire come l'autore qui fosse preoccupato più dei contenuti che della forma. La stessa costruzione della pericope, poi, presenta problemi strutturali. Quella che qui ho chiamato inclusione data dai vv.23.27-28 in realtà originariamente doveva essere stata una breve unità narrativa a se stante, che poi l'autore ha intramezzato con tre dei detti sapienziali, le cui tematiche risuonano anche nei racconti sinottici e in Paolo. I vv.23.27-28, infatti, letti di seguito, si presentano tematicamente coesi con una loro logica sia narrativa che teologica50. Qual è dunque il senso di questo inframezzare i tre detti all'interno di questa breve unità narrativa? Perché questa forzatura? Come intendere, poi, la glorificazione di Gesù, di cui qui si parla? Si è visto infatti nel secondo quadro narrativo (vv.12-19) come i giudei interpretarono il messianismo di Gesù in senso politico e militare (vv.12-13); ora questo va reinterpretato e ricompreso alla luce del sofferente Servo di Jhwh e questo è il compito dei tre detti sapienziali (vv.24-26), che prospettano una glorificazione, un messianismo e una regalità tutt'altro che umanamente esaltanti e vincenti. Giovanni qui sta riproducendo lo stesso schema narrativo dei Sinottici, i quali alla dichiarazione del messianismo di Gesù da parte dei suoi discepoli, fanno seguire subito la sua dichiarazione di sofferenza e di morte, indicando la via della croce per chi lo vuole seguire, sottolineando come la sofferenza e la morte non siano una perdita, ma un guadagno per la vita eterna51.

Se il cap.12,1-36 costituisce il prologo al Libro della Gloria (13-20), i vv.23.27-28 ne sono il vertice e in un certo qual modo ne condensano l'intero contenuto: “Gesù risponde loro dicendo: << È venuta l'ora affinché sia glorificato il figlio dell'uomo. [...] Ora la mia anima è turbata. E cosa dico? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo venni, per quest'ora. Padre, glorifica il tuo nome>>. Venne dunque una voce dal cielo: <<E (l')ho glorificato e di nuovo (lo) glorificherò”.

La densità teologica e cristologica di questi versetti è molto consistente: per quattro volte ricorre il verbo glorificare (vv.23.28), abilmente usato in tutte le forme utili al racconto: al v.23 è posto al passivo teologico o divino per indicare l'azione del Padre su Gesù; al v.28 lo stesso verbo viene contrapposto a se stesso quanto ai tempi: aoristo e futuro, che alludono a due diverse tipologie di glorificazione, iniziale e finale, che chiudono il cerchio di un progetto salvifico, che trova la sua origine nella stessa eternità divina; ed infine, in apertura del v.28, esso è espresso in forma esortativa e invocativa, che sembra sollecitare il compiersi del disegno salvifico a cui il verbo allude. Notevole è l'uso delle particelle che determinano l'orientamento e il senso delle espressione a cui appartengono: “ina, ek, alla, dia, eis, palin”, disseminate in tutti tre i versetti, ma ben quattro (quelle sottolineate) concentrate nel solo v.27, che descrive sinteticamente l'intera dinamica dell'ora.

Dopo un lungo cammino in cui Gesù aveva insistentemente affermato che il suo tempo non era ancora giunto52, ora, qui, in apertura del v.23 egli attesta per la prima volta che “l'ora è venuta”53. Il verbo qui usato è posto al perfetto indicativo (l»luqen, elélitzen, è venuta), che indica un'azione originatasi nel passato i cui effetti perdurano ancora nel presente; o, da una diversa prospettiva, un'azione presente che si è originata e si radica nel passato; comunque sia questa azione non è frutto di circostanze o casualità originatesi nel presente. Il giungere dell'ora pertanto ha radici molto lontane, che la collocano nella stessa incarnazione di Gesù (“per questo venni”), anzi nella stessa eternità di Dio (“lo glorificai”), quando l'ora era ancora un progetto divino, che l'autore della lettera agli Efesini, come si è visto sopra (pag.22), colloca ancora prima della creazione del mondo in vista di un riscatto che si sarebbe attuato con il sangue della croce (Ef 1,4-7).

L'ora dunque è arrivata. Si tratta del luogo e del tempo in cui si realizza il progetto salvifico del Padre “in” e “attraverso” Gesù, azione attuatrice e rivelatrice del Padre, così che Gesù stesso diviene “ora del Padre”, tempo e luogo in cui il Padre opera e manifesta il suo progetto, così che “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,4-5). Si tratta di un'ora fatta seguire dalla particella “†na” (ína, affinché) che imprime all'ora una precisa finalità: quella della glorificazione di Gesù, che il verbo “doxasqÍ” (doxastê, sia glorificato), posto al passivo teologico, dice essere opera del Padre. Una glorificazione che ha come oggetto finale Gesù, che qui viene definito con l'appellativo di “figlio dell'uomo”. Non si tratta qui, a mio avviso, di un'allusione al messianismo di Gesù, reso manifesto nella risurrezione, ma un diretto ed esplicito richiamo e rimando a Dn 7,13-14 in cui compare uno simile ad un figlio dell'uomo che viene glorificato dal Vegliardo, figura e immagine di Dio, richiamata anche da Ap 5, dove il figlio dell'uomo assume le sembianze di un agnello ritto in piedi e sgozzato: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”. La glorificazione ad opera del Padre dice tutto questo; essa parla della signoria cosmica del Figlio (Ef 1,9-10) ottenuta attraverso il suo innalzamento sulla croce, nella risurrezione e nella sua conseguente assunzione (v.32).

Il v.23 nel contesto dell'intera pericope (vv.24-30) assume in qualche modo il ruolo di titolatura della pericope stessa, ne annuncia il tema e predispone il lettore a comprenderne il testo alla sua luce; un testo che, man mano procede, precisa sempre più il contenuto e le dinamiche di questa “ora” rispetto a Gesù (v.27) e al Padre (v.28).

Il v.27 richiama da vicino la scena del Gesù sinottico travolto dalla sofferenza del Getsemani allorché, oppresso dall'angoscia e dalla paura della morte imminente, pregava intensamente il Padre perché gli risparmiasse una simile sofferenza, ma tuttavia rimettendosi alla sua volontà54. Giovanni sembra voler anticipare qui quello stato di angoscia e di sofferenza, in un contesto diverso dal Getsemani, poiché là, nel suo racconto della passione, la figura di Gesù si riveste di regalità, slegata da ogni turbamento, presentandosi come il signore che domina gli eventi (18,4-6), proprio perché la passione e morte di Gesù per Giovanni non sono la sua sconfitta, ma l'inizio della sua intronizzazione regale e della sua glorificazione. È il mondo infatti che ne uscirà sconfitto dalla sua morte, mentre lui è il nuovo sovrano che lo giudica e lo domina (vv.31-32; 14,30;16,11).

L'anima di Gesù è turbata. L'anima qui va intesa come il centro vitale dell'uomo, la sede di congiunzione della carne e dello spirito, che consente a due realtà così contrapposte di dialogare e di interagire tra loro. Essa dunque esprime l'interezza della persona di Gesù, in ogni sua parte, che viene scossa profondamente. Lo stato di turbamento è espresso in greco con il verbo “tet£raktai” (tetáraktai), che significa sconvolgere, agitare, turbare, mettere sossopra, scompigliare, inquietare ed esprime il profondo stato di agitazione interiore che sta travolgendo Gesù. Si tratta di uno sconvolgimento che è strettamente legato all'ora e che l'ora porta con sé quale suo elemento costitutivo. Il verbo infatti è posto al perfetto indicativo, che esprime uno stato presente che risulta come conseguenza da un'azione passata. E l'azione passata che ha generato l'ora con il suo carico di angoscia e di sofferenza è lo stesso progetto del Padre, che ancor prima della creazione del mondo ha scelto in Cristo tutti i credenti per costituirli in santità davanti a lui attraverso la redenzione e il riscatto della croce, ricapitolando in Cristo l'intera creazione (Ef 1,4-7.9-10). E Gesù esprimerà l'universalità della sua morte nell'annunciare come il suo innalzamento sulla croce costituirà il polo catalizzatore universale (v.32).

A fronte di tanto turbamento ed esagitazione interiori ora Gesù dispiega un semplice ragionamento, parallelo alla supplica che il Gesù sinottico rivolse al Padre, concludendola con la propria sottomissione alla sua volontà55: “E cosa dico? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo venni, per quest'ora”. Qui non vi è nessuna supplica e nessuna invocazione, ma soltanto una valutazione razionale delle cose, che rivela come l'ora non solo sia dominante dell'intera missione di Gesù, ma abbia determinato anche la sua incarnazione, lasciando così intravvedere in tutto ciò un progetto divino originatosi fin dall'eternità. In questa breve espressione giocano un ruolo determinante quattro particelle, che svelano la dinamica dell'ora: ek, allà, dià, eis. La domanda che Gesù si pone è chiaramente retorica, poiché la risposta è scontata, indirizzando così fin da subito il lettore verso l'ineluttabilità dell'ora: “E cosa dico? Padre, salvami da quest'ora?”. Compare qui la prima particella “ek” seguita dal genitivo, che dice provenienza, moto da luogo. La salvezza su cui Gesù si interroga è la propria e l'unica via è uscire dall'ora, uscire quindi dal progetto del Padre, vanificandolo. Ma ciò non è possibile sia perché Gesù è azione del Padre (14,9-11), sia perché i Due sono una cosa sola (10,30). La scelta di Gesù dunque non è un atto di eroismo o di dedizione al Padre, ma rientra nelle logiche e nelle dinamiche relazionali dei Due56. Ed ecco quindi la seconda particella “allà” (ma) che imprime un senso avversativo al resto del versetto, dal quale si evince come egli sia venuto “per questo”. La particella “dià” dice la motivazione, la causa della sua uscita dal Padre e della sua venuta nel mondo. Vi fu dunque un progetto salvifico ideato dal Padre fin dall'eternità (Ef 1,4-7), che prevedeva l'incarnazione del Figlio, l'assunzione in lui dell'intera umanità e dell'intero cosmo (v.32; Ef 1,9-10) in vista di un riscatto e di una redenzione universale e cosmica. Per questo la sua venuta in questo mondo e quindi la sua stessa vita erano rivolte esclusivamente verso l'ora, cioè verso la realizzazione all'interno della storia, dandone così anche una dimensione storica, al progetto salvifico del Padre. Tutto ciò è espresso dall'ultima particella “eis”, che dice moto verso luogo, determinando in tal modo l'orientamento esistenziale e l'intera missione di Gesù verso l'ora.

Il v.28 è scandito in due parti: la prima riporta una breve invocazione di Gesù rivolta al Padre. Questa, da un lato, conclude il ragionamento di Gesù sul senso dell'ora, confermando la sua determinazione verso questa; dall'altro appare come una sollecitazione a dare compimento al progetto salvifico. Un'invocazione che in qualche modo ha il suo parallelo in Matteo e Luca: “sia santificato il tuo nome … venga il tuo regno … sia fatta la tua volontà” (Mt 6,10; Lc 11,2). Tutto ciò costituisce la glorificazione, in Cristo e per Cristo, del nome del Padre. La glorificazione del nome del Padre dice la manifestazione del progetto di salvezza, nascosto fin dall'eternità in Dio e manifestato ora nel suo Cristo: la chiamata alla fede non solo dei Giudei, ma anche del mondo pagano (Ef 3,5-6), facendo dei due un popolo solo e togliendo di mezzo attraverso la croce la legge che separava i Giudei dai non Giudei, ricapitolando tutto e tutti in Cristo (v.32; Ef 1,9-10). Questa è la glorificazione del nome del Padre, attuatasi nel suo Cristo. Gesù lo riconoscerà in 15,8: “In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. La glorificazione del Padre dunque è l'azione redentrice e ricapitolatrice di Gesù, che trova il suo vertice sulla croce e si manifesta pienamente nella risurrezione. A fronte della sollecitazione da parte di Gesù “Venne dunque una voce dal cielo: <<E (l')ho glorificato e di nuovo (lo) glorificherò>>”. Ci troviamo di fronte ad una teofania, insolita in Giovanni, ricorrente invece nei Sinottici in occasione del battesimo, della trasfigurazione e nella scoperta della tomba vuota da parte delle donne, dove compaiono degli angeli ad annunciare la risurrezione di Gesù, motivando in tal modo con autorità divina la scomparsa del corpo di Gesù.

Compare in questo contesto il verbo glorificare espresso con due tempi verbali tra loro contrapposti, ma nel contempo giustapposti l'uno all'altro: un aoristo e un futuro, quasi ad indicare un inizio ed una fine. A cosa allude la glorificazione di Gesù, qui espressa con un tempo storico, che la fissa in un determinato punto iniziale? Essa, a mio avviso, può avere una duplice valenza: a) una glorificazione che trova la sua origine nella stessa coeternità di Dio, per cui il Padre generando il Figlio, condivide con lui la sua stessa divinità, che Gesù in 17,5 reclama nuovamente dal Padre, da cui è uscito e a cui sta facendo ritorno (13,3; 16,28): “E adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te”. In questo caso il punto di origine di questa glorificazione è la stessa eternità di Dio, in cui Padre e Figlio si ritrovano in piena comunione, come una cosa sola (10,32). Ma l'aoristo può assumere anche una valenza squisitamente storica, indicando con la glorificazione di Gesù la sua stessa incarnazione (1,14), con la quale è iniziato un processo di manifestazione e di rivelazione, da cui traspare non solo la figliolanza divina di Gesù (16,27.30; 17,8), ma anche anche lo stesso operare salvifico del Padre in lui (14,9-11), così che Giovanni vede in tutto ciò il riverberarsi della gloria del Figlio, una gloria che egli contempla nel suo manifestarsi storico: “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito da Padre, piena di grazia e di verità” (1,14); una contemplazione che in 1Gv 1,1-3 si fa tangibile esperienza di questa vita divina, resasi storicamente raggiungibile in Gesù. Accanto a questa glorificazione, posta nel passato, ve ne è un'altra che si colloca invece nel futuro: “e di nuovo (lo) glorificherò”. Lo stretto collegamento tra le due glorificazioni è l'espressione “e di nuovo”; con la congiunzione “e” (kaˆ, kaì) si viene a creare uno legame con la prima, mentre con l'avverbio “di nuovo” (p£lin, pálin) l'azione del glorificare viene reiterata così che l'espressione “e di nuovo” viene a creare una sorta di continuità, mai interrotta, tra la prima e la seconda glorificazione, che si colloca nel futuro e che allude alla risurrezione di Gesù con la quale non solo Gesù apparirà nella pienezza della sua realtà divina, ma sarà costituito, in quanto Gesù, cioè il Figlio incarnato, Figlio di Dio: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-4). Una seconda glorificazione, quindi, che esaudisce la preghiera di Gesù al Padre, quella di restituirgli quella gloria che egli aveva da sempre goduto fin dall'eternità e che la sua incarnazione aveva in qualche modo adombrato (Fil 2,6-7). Con questa seconda glorificazione si chiude pertanto il cerchio salvifico, grazie alla quale l'uomo Gesù, ma Dio nel contempo, riconduce, dopo averla attratta inscindibilmente a sé (v.32), l'intera umanità nel Padre, che nel Figlio Gesù è venuto a riprendersi, vincendo con la croce il principe di questo mondo (v.12,31; 16,11), il serpente antico (Ap 12,9), e riconducendola definitivamente nel suo seno da cui era tragicamente uscita (Gen 3,22-24), così che tutto, in Cristo e per Cristo, è stato ricondotto nuovamente in Dio (1Cor 15,23-28), così com'era l'umanità nei suoi primordi, quand'era ancora incandescente di Dio.

Già lo si era intuito al v.27 con la sua nota sul turbamento di Gesù come questa glorificazione fosse ben lungi da una marcia trionfale come pensavano i discepoli e il giudaismo favorevole a Gesù. Ora saranno proprio i vv.24-26 a precisare la vera natura della glorificazione a cui Gesù sta accedendo, fornendo non solo la chiave di comprensione del Libro della gloria, ma tracciando anche per il discepolo le condizioni della sequela. Ci troviamo di fronte a tre versetti dai ritmi sapienziali che non solo chiariscono il senso dell'ora di Gesù e i suoi contenuti di sofferenza e di morte, ma stabiliscono di fatto anche tre principi fondamentali del vivere cristiano, che assimilano il vivere credente al vivere di Gesù per l'ora.

I vv.23 e 24 sono paralleli e consequenziali tra loro, così che il v.25 diviene l'esplicitazione del v.24. Essi si muovono sulle logiche del paradosso: solo la morte è portatrice di frutto, mentre il fuggirla rende sterili (v.24); e così l'amare la propria vita in realtà la distrugge, mentre il distruggerla la apre alla fecondità di una vita migliore e più piena (v.25). Il paradosso, che nel v.25 sfiora l'assurdo, nasce da un implicito confronto tra il modo di pensare di Gesù, che si muove in conformità al piano salvifico del Padre e quello dei discepoli, che si muove in conformità alle logiche umane. Per comprendere dunque il senso del patire e del morire di Gesù si rende necessario una riparametrazione del proprio modo di pensare e di vedere le cose, passando dalla prospettiva umana e dalle logiche della tradizione, frutto comunque di ragionamenti e di aspettative umane, a quella di Dio. Ed è su questo tema che si conclude la trilogia sapienziale, con il v.26: porsi al servizio di Gesù nella sequela, che significa porsi dalla sua prospettiva, conformandosi al suo modo di vedere e di sentire.

La trilogia si apre con una formula cara a Giovanni: “In verità, in verità vi dico” che imprime a quanto segue un tono di solennità, ma nel contempo di veridicità indiscutibile. L'allegoria che segue è tratta dal mondo agricolo del tempo e trova i suoi paralleli non solo nei Sinottici, ma anche nello stesso Paolo, che nello spiegare alla sua turbolenta comunità di Corinto la dinamica della risurrezione afferma: “Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere” (1Cor 15,36-37), sottolineando la necessità del morire per giungere ad una nuova vita; mentre i Sinottici fanno cadere l'accento sull'abbondanza del frutto che porta il seme caduto nel buon terreno (Mt 13,1-9.23; Mc 4,1-9; Lc 8,5-8). Giovanni qui, a modo suo, assembla entrambi i concetti: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, esso rimane solo; ma se muore, porta molto frutto”. La caduta del grano in terra sembra alludere ad un duplice evento: da un lato, l'incarnazione di Gesù finalizzata all'ora, anticipando qui quanto dirà al v.27c: “Ma per questo venni, per quest'ora”; dall'altro, la caduta in terra associata alla morte (“se … non muore”) allude al morire di Gesù. Il verbo greco usato per esprimere il “cadere” è, infatti, “pptw” (pípto), il cui significato oltre che esprimere il cadere in senso generale, dice anche sia l'accadere di un evento, nel nostro caso la venuta di Gesù per l'ora; sia il cadere nel senso di perire, soccombere, morire, qui rafforzata dall'espressione “se … non muore”. Non è da escludersi, pertanto, considerato lo stile giovanneo, che talvolta tende ad attribuire a parole, verbi ed espressioni un doppio senso, che qui alluda ad entrambe le cose sopra menzionate. L'importanza di questo versetto, comunque, sta nel fatto che introduce il principio non solo della necessità del morire, ma come soltanto questo sia portatore di molto frutto. In altri termini, la chiesa primitiva legge la morte di Gesù come un evento necessario da cui sgorga la salvezza per l'intera umanità (v.32).

Il v.25 riprende in buona sostanza il v.24 e lo esplicita sotto altra forma: “Chi ha caro la sua vita la manda in rovina; e chi disprezza la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna”. Ci troviamo di fronte ad un paradosso: amare la propria vita significa in realtà distruggerla; mentre il disprezzarla imprime nella vita un'impronta di eternità. Per comprendere il senso di questo versetto si rende necessario chiarirne le espressioni. Il termine vita, è qui espresso con due diversi e contrapposti sostantivi greci: “yuc»” (psiché), che indica il centro vitale dell'uomo, in cui spirito e corpo si congiungono e dialogano tra loro; e “zw»” (zoé), che indica una vita qualitativamente superiore e che in Giovanni definisce la vita stessa di Dio. Vi è poi la particella di moto verso luogo “e„j” (eis); è una particella che parla di orientamento esistenziale, che imprime alla “psiché” un senso finale, proiettandola verso la “zoé”, indicandola come suo fine. Vi è poi “filšw” (filéo), il verbo usato per dire “aver caro”, che ha a che fare con il mondo degli interessi personali e quindi denuncia in qualche modo il proprio orientamento esistenziale, che qui è rivolto verso la “psiché”, cioè verso la vita colta nella sua dimensione orizzontale, storica, umana, che per questo si contrappone ad un'altra forma di vita, che invece il credente dovrebbe privilegiare, la “zoé”, cioè la vita stessa di Dio, verso cui si è chiamati ad orientare la propria vita; un orientamento espresso dalla particella “eis”. Tuttavia qui non si tratta di disprezzare la propria vita a favore di quella divina, come lascerebbe supporre il verbo “misšw” (miséo), che letteralmente significa detestare, odiare, disprezzare. Questo verbo infatti è un semitismo finalizzato a mettere in rilievo ciò verso cui bisogna accordare il proprio interesse. Il senso di questo v.25 viene bene espresso dall'autore della Lettera ai Colossesi allorché sollecita la propria comunità a cercare le cose di lassù, dove la propria vita è nascosta in Dio (Col 3,1-4). Ed è ciò che è sempre stata la vita di Gesù: una costante ricerca della volontà del Padre, di cui si alimentava; una ricerca che tendeva a far prevalere nella propria vita gli interessi e i progetti del Padre su quelli personali.

Il v.26 conclude questa breve quanto intensa riflessione sapienziale spostando l'attenzione da Gesù ai discepoli, che sono coinvolti in prima persona, in quanto discepoli, nelle logiche dettate dai vv.24-25: il primo posto nella propria vita va dato a Dio e al suo progetto di salvezza, che ha come criterio proprio la morte per la vita. A fondamento di tale principio si pone il servizio. Per ben tre volte in questo versetto ricorrono le espressioni servire e servo, che hanno come loro parametro di raffronto e come loro contenuto lo Gesù stesso, postosi a servizio del Padre e dell'umanità per attuarne l'opera di redenzione e di santificazione a favore dell'umanità stessa.

Il v.26 è scandito in tre parti, le prime due sono consequenziali, la seconda alla prima, mentre la terza è una nuova edizione tutta giovannea:

  1. v.26a:Se uno mi serve, mi segua”, un'espressione questa che ha il suo parallelo nel sinottico: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua57. Benché i due versetti siano diversi nel loro porsi, in realtà il concetto teologico e il dinamismo che li sottende sono identici: dettagliato nei Sinottici, sintetico in Giovanni. All'esortazione “mi segua” i Sinottici fanno precedere tutta una serie di concetti che sono propri dell'atteggiamento di servizio. La prima espressione “Se uno vuol venire dietro a me” è una tautologia del “mi segua” finale, il cui significato viene esplicitato nel rinnegamento di se stessi che converge nella croce; in entrambi i casi infatti si parla di sequela, cioè di decidere la propria vita per Gesù, conformandola a lui. Ciò che invece caratterizza il servizio e ne è l'anima è ciò che sta di mezzo: “rinneghi se stesso, prenda la sua croce”. Il servizio infatti comporta non solo un mettersi da parte per fare spazio agli altri, ma mettersi a disposizione degli altri, spendere la propria vita per gli altri, fino a spezzarla a loro favore. Tutto ciò è rinnegamento di se stessi, delle proprie esigenze per dare priorità a quelle degli altri; si tratta in ultima analisi di morire a se stessi perché gli altri possano vivere. Da questa morte dunque si genera e si afferma la vita. È questa infatti la logica della croce. Da qui il sollecito a lasciare operare nella propria vita tale logica: “prenda la sua croce”. In ultima analisi non si tratta di rinnegare o di perdere se stessi, ma di affermare e realizzare se stessi nel servizio all'altro, così come la morte-servizio di Gesù non diviene segno del suo annichilimento e della sua sconfitta, ma preludio della sua risurrezione, da cui tutti attingono una nuova vita rigenerata e rinnovata. Giovanni tutto ciò lo ha sintetizzato nel “servire”, che si conclude nell'esortazione alla sequela di Gesù, perché tale servizio sia posto fuori da ogni equivoco e perché esso, sulla scia di Gesù, acquisti una valenza salvifica. Significativo il verbo che sollecita la sequela: “™moˆ ¢kolouqe…tw” (emoì akolutzeito, mi segua), un verbo che in greco ha il significato di una sequela per il servizio o di una sequela che implica in se stessa non solo il concetto del servizio, ma anche della condivisione. Il verbo infatti significa andare insieme, accompagnare, aderire, lasciarsi guidare, conformarsi, mentre al participio presente, “¢kolouqoàntej” (akolutzûntes) indica i servi, cioè coloro che si accompagnano ai loro adroni e ne condividono la sorte.

  2. v.26b: “e dove io sono, là sarà anche il mio servo”. La condivisione delle logiche che hanno sotteso il vivere di Gesù, postosi al servizio del Padre e del suo progetto di salvezza a favore dell'umanità, subisce qui un processo di identificazione del discepolo con il proprio Maestro, espresso dai due avverbi di luogo “dove … là”, in cui il “dove” indica la presenza di Gesù e il “là” si riferisce al “dove” di Gesù, quale luogo di presenza e di essere del discepolo. Ci troviamo di fronte ad un discepolato che non ha più come caratteristica fondamentale la sequela, ormai superata dall'identificazione con il proprio Maestro, ma il suo essere servo, che indica il suo stato di totale e piena consacrazione e, quindi, di appartenenza al proprio Maestro, così che i due formano una cosa sola, come lo è stato Gesù nei confronti del Padre. Si notino i tempi dei due verbi “dove io sono, là sarà”, un presente accostato al futuro, che indica il processo di trasformazione del discepolo-servo in Gesù, che avrà la sua piena assimilazione al suo Maestro nell'eternità di Dio (“sarà”); un cammino che inizia fin d'ora nella scelta della sequela, che si fa servizio e di un servizio che si fa condivisione e una condivisione che si fa identificazione. Paolo, scrivendo alla sua deludente e irritante comunità della Galazia, proclama questo suo stato di identificazione con il Cristo al quale e con il quale egli condivide la crocifissione, quale atto di servizio redentivo a favore dell'umanità: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Là dove c'è Cristo crocifisso, servo del Padre e dell'uomo, là c'è Paolo.

  3. v.26c:se uno mi serve, il Padre lo onorerà”. Un'espressione inedita di Giovanni. Si sa che il Padre glorifica il Figlio (8,54; 13,1.32; 17,5), che a sua volta glorifica e onora il Padre (8,49; 17,1.4) nel conformarsi pienamente alla sua volontà, al punto tale che i Due formano una cosa sola (10,30); ma che il Padre onori il discepolo-servo del proprio Figlio, questa è nuova, ma non illogica. Con il v.26b infatti si è detto che si è sviluppato nel discepolo-servo un processo di identificazione con il suo Maestro, così che il Padre onora e glorifica il Figlio che vive, opera e si riflette nel discepolo-servo. Del resto questa identificazione, che si fa compenetrazione, l'autore già l'aveva prospettata in 6,56 dove “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” e, similmente, in chi osserva la sua parola diviene luogo di dimora non solo di Gesù, ma anche del Padre (14,23). In questa stessa logica Giovanni ricorda alla sua comunità che “Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre” (1Gv 2,23). E non può essere diversamente considerata la profonda vita di comunione e di reciproca compenetrazione che unisce i Due (14,9-11), così che “Colui che non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato” (5,23b). Il Padre, del resto, non ama mai direttamente il credente, ma lo ama e lo onora in quanto in lui vive e si riflette il Figlio. Amati e onorati, quindi, come figli nel Figlio, poiché “in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo” (Ef 1,4a). Il v.26 pertanto sviluppa un processo di coinvolgimento sempre più profondo del discepolo in Dio attraverso il suo progressivo cammino comunionale e compenetrativo in Gesù: dapprima vi è la sequela che si fa servizio (v.26a); da qui si passa ad un cammino di progressiva identificazione tra discepolo e Maestro (v.26b) per giungere infine ad una profonda comunione con lui così che il Padre lo onorerà riconoscendo in lui l'impronta di suo Figlio, che lo compenetra profondamente.

Il processo di glorificazione del Figlio ad opera del Padre, in cui è coinvolto anche il discepolo, trova la sua conferma, come si è visto sopra nel commento al v.28, nella voce del Padre discesa dal cielo (v.28b) a cui fa da eco e commento, al v.29, la folla che intende l'intervento dal cielo come un tuono o un angelo rivolto a Gesù. Ci si trova di fronte ad una teofania, molto rara, se non unica, in Giovanni, che preferisce far parlare Dio attraverso i segni e i lunghi discorsi contemplativi messi sulle labbra di Gesù, piuttosto che affidarsi agli effetti eclatanti dei Sinottici e ancor prima dell'agiografo veterotestamentario (Es 19,16; 20,18). L'intervento della folla denuncia ancora una volta di più l'inintelligenza che essa ha del mondo divino, che sta operando di fronte a lei, e dà la sua interpretazione, che Gesù, con riferimento alla battuta sull'angelo con cui termina il v.26, corregge al v.30: “Questa voce non fu per me, ma per voi”. Ma il motivo per cui Giovanni indulge sugli effetti speciali della teofania rivolti alla folla sconcertata e sorpresa, è, a mio avviso, quello di voler creare un contesto di giudizio universale alluso ai vv.31-33, e che Gesù è venuto a portare con la sua persona. Significativa infatti è la precisazione di Gesù al v.30, che rimanda alla folla la teofania, quasi a dire che su di loro è stato posto un giudizio per la loro inintelligenza e incredulità. I vv.28b-30 costituiscono pertanto una sorta di cornice escatologica ed apocalittica in cui si collocano i vv.31-33.

Gli effetti della passione e morte di Gesù (vv.30-34)

I vv.31-32 costituiscono il punto culminante della riflessione giovannea sulla morte di Gesù e ne indicano gli effetti: da un lato il giudizio è posto sul mondo, mentre il suo capo viene buttato fuori (v.31); dall'altro, egli, Gesù, gli subentrerà nel potere sul mondo, divenendo polo catalizzatore di salvezza per tutti (v.32).

La venuta di Gesù nel mondo ha portato con sé il definitivo giudizio di Dio che viene posto sul mondo; la sua presenza e l'eredità che egli ha lasciato, la sua Parola, cioè se stesso, lo Spirito, la Chiesa, hanno creato una discriminazione tra gli uomini dividendoli tra coloro che aderiscono alla sua proposta di salvezza e coloro che, coscientemente o inconsciamente, con la loro ostilità o indifferenza o la loro tiepidezza (Ap 3,14-16), di fatto la rifiutano. La radicalità e l'ineluttabilità di questo giudizio vengono espresse bene dal Gesù sinottico: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23). Il mondo, di cui qui l'autore parla, assume i connotati delle forze avverse a Dio; è quel mondo delle tenebre, che non accoglie la luce e che gli uomini preferiscono alla luce (1,5; 3,19); è quel mondo che con le sue strutture di peccato si oppone e manipola le leggi naturali, offende l'uomo nella sua dignità, creando un ambiente di distruzione e di morte o situazioni di sofferenza e di dolore. Su questo mondo grava il giudizio escatologico; escatologico perché ultimo e in quanto tale anche definitivo, perché definitiva è stata la presenza di Gesù, l'ultimo discorso che il Padre ha rivolto agli uomini, l'ultima mano tesa del Padre all'umanità. Per questo il giudizio è già incominciato, perché già fin d'ora in Gesù è stata emessa la sentenza di assoluzione o di condanna: “Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio. Ora questo è il giudizio, che la luce è venuta nel mondo e gli uomini amarono più la tenebra che la luce, poiché le loro opere erano malvagie. Infatti, chiunque compie cose malvagie odia la luce e non va verso la luce, affinché le sue opere non siano biasimate; colui che, invece, fa la verità va verso la luce, affinché le sue opere siano manifestate, poiché sono state compiute in Dio” (Gv 3,16-21). Certo Gesù non è venuto per condannare, ma per salvare; tuttavia spetta all'uomo fare la sua scelta; per questo Gesù si pone di fronte all'uomo come un “aut aut”, innescando in tal modo un processo di discriminazione che è giudizio, in cui l'uomo è suo malgrado coinvolto, poiché già fin d'ora è chiamato a dare la sua risposta.

Se il v.31a riguarda il giudizio, già in atto benché non ancora definitivamente compiuto, posto sul mondo, inteso qui come la forza avversa a Dio58, il v.31b riguarda il “capo di questo mondo”, cioè l'autore e il responsabile del degrado cosmico che ha travolto il mondo, ponendolo in rotta di collisione con Dio, esercitando in tal modo su di esso il suo nefasto e devastante potere, che essenzialmente è un potere di morte, intesa in tutte le sue forme di sofferenza, dolore, di morte fisica, ma anche di iniquità, ingiustizie, soprusi, violenze, violazioni delle leggi naturali e simili. Entrambi, mondo e il suo capo, hanno ora a che fare con una nuova forza avversa a loro: il Gesù crocifisso, ma con esiti diversi per ciascuno dei due: nel caso del mondo, esso è posto sotto giudizio fin d'ora ed è chiamato, suo malgrado, a prendere posizione nei confronti di Gesù; quanto al secondo, invece, il giudizio su di lui è già compiuto (16,11) ed è stato destituito da ogni suo potere dallo stesso Crocifisso, sul quale non ha alcuna autorità né alcuna discrezionalità (14,30); un Crocifisso che, invece, non condanna l'uomo, ma dalla sua croce lo attrae a sé, assimilandolo alla sua morte e alla sua risurrezione. I vv.31b e 32 raccontano pertanto di un succedersi di due avversi poteri: quello di Gesù a quello di Satana. Il mondo è il luogo di questa battaglia e la posta in palio è l'uomo stesso e con lui l'intera creazione (Rm 8,19-21).

Una nota va posta sull'uso dei tempi verbali nei vv.31 e 32. Quanto al v.31 esso è scandito in due parti introdotte ciascuna dall'avverbio temporale “nàn” (nîn, ora, adesso) con cui si rimarca il tempo dell'ora venuta, in cui si compie non solo la glorificazione di Gesù, ma anche se ne descrivono gli effetti sul mondo e sul suo capo. Nella prima parte del v.31 si dice che “Ora è il giudizio”; il verbo al presente concorda bene con l'avverbio di tempo, che lega il giudizio al compiersi dell'ora ormai giunta (v.23), di cui il giudizio è una sua componente; non altrettanto bene lega il verbo al futuro (“sarà buttato fuori”) con l'avverbio “nàn”, che aggancia l'azione qui nel presente, ma che in realtà il futuro proietta in avanti, in un nuovo tempo o forse anche in una nuova dimensione creando una forte tensione e un forte attrito tra presente e futuro, tra il già e il non ancora. Questo accostamento discrepante tra presente e futuro dice come l'azione futura si origina ed è agganciata nel presente dell'ora che si sta compiendo. Il futuro quindi allude al tempo escatologico iniziato con l'ora, ma che si compirà definitivamente allorché il tempo confluirà nell'eternità di Dio, dove non vi è più posto per il capo di questo mondo e per quanti hanno aderito a lui contrapponendosi a Dio. La sconfitta di Satana trova dunque la sua origine nella croce di Gesù, lo sta a dire proprio quel “nàn”, ma il suo potere sul mondo non è ancora finito, poiché questo è ancora un mondo soggetto alla caducità e segnato ancora dal degrado del peccato. È un mondo tuttavia che è stato crocifisso con Cristo e ora partecipa alla sua morte, che è morte allo stato di peccato, per incamminarsi in una prospettiva di risurrezione (Rm 6,3-9). Si tratta, pertanto, di un mondo già salvato, ma come ricorda Paolo, soltanto nella speranza (Rm 8,24a) e quindi i giochi devono ancora concludersi definitivamente. Il credente pertanto e con lui l'intera umanità e l'intera creazione si muovono nella forte tensione del vivere escatologico posto tra un “già” e un “non ancora”.

Una diversa connotazione hanno, invece, i due verbi al futuro del v.32: “quando sarò elevato … trarrò”, che legano bene tra di loro, poiché agganciano e fanno coincidere l'assimilazione dell'intera umanità e con lei l'intera creazione, per un principio di solidarietà che le lega inscindibilmente l'una all'altra59, all'innalzamento di Gesù sulla croce. Un innalzamento che in Giovanni oltre che alla croce allude anche alla risurrezione. Sono, infatti, la morte e la risurrezione le due facce dell'unica e identica moneta, quella del riscatto dell'umanità ricondotta in Cristo e per Cristo nel seno del Padre, da cui è tragicamente uscita e decaduta (Gen 3,23-24).

Il v.33 riporta il commento dell'autore sul significato di quel “Øywqî” (ipsotzô, sarò elevato) del v.32 per specificarne il senso: “Ora diceva questo per indicare con quale morte stava per morire”; un innalzamento che in Giovanni allude non solo alla croce, ma anche alla risurrezione e con essa all'ascensione. La croce pertanto, diviene sia il vertice di quel processo di abbassamento iniziato con l'incarnazione di Gesù, sia il punto di partenza di un innalzamento-glorificazione che, attraverso la risurrezione e l'ascensione ricolloca Gesù in seno al Padre da cui è uscito (16,28), restituendogli così quella gloria che egli aveva ancor prima della creazione (17,5), portando con sé l'intera umanità redenta (Fil 2,6-11), assimilata a sé proprio sulla croce (v.32); così che Paolo potrà dire che “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” e pertanto “se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 6,4-5.8). E similmente anche l'autore della lettera ai Colossesi rimarcherà alla sua comunità che “Voi siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3) e quindi la esorta: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1).

Se per i lettori di Giovanni il v.33 si era reso necessario per spiegare il senso di quel “Øywqî”, non così, a quanto sembra, lo fu per gli ascoltatori lì presenti, che nel contestare l'innalzamento di Gesù gli osservarono che “Noi abbiamo sentito dalla Legge che il Cristo rimane per sempre, e in che modo tu dici che il Figlio dell'uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell'uomo?”. La folla, infatti, poca prima aveva accolto Gesù con toni trionfalistici, acclamandolo messia e re d'Israele (v.13) e lo stesso Gesù aveva parlato della glorificazione del Figlio dell'uomo (v.23). Come dunque conciliare tutto ciò con la prospettiva del suo morire con una morte di croce? (vv.24.27.32-33). Si rendeva dunque necessario un chiarimento da parte di colui che sembrava essere il Cristo. Questa pertanto chiede conto a Gesù su ciò che stava dicendo circa il soffrire e il morire del Cristo e chi fosse dunque per lui il Figlio dell'uomo. Una contestazione in cui riecheggia in qualche modo quella di Pietro che, dopo il suo riconoscimento di Gesù come il Cristo, rifiuta la sofferenza e la morte che Gesù aveva prospettato per se stesso60, perché in netto contrasto con l'idea di un messianismo trionfalistico che si era fatta la tradizione giudaica, anche perché, secondo il racconto giovanneo, tutto ciò non quadra con le Scritture, secondo le quali “il Cristo rimane per sempre”. Gesù dunque sta interpretando un ruolo messianico del tutto nuovo e decisamente non conforme non solo alle attese, ma anche alle Scritture. Quanto alla citazione scritturistica non è ben chiaro a quale passo si alluda qui; probabilmente ad un insieme di citazioni variamente sparse nelle Scritture, che avevano alimentato riflessioni, credenze ed aspettative. In 2Sam 7,16 Dio aveva promesso a Davide per mezzo del profeta Natan un regno eterno: “La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre”; Is 9,5-6 parlava di un discendete di Davide il cui regno sarebbe durato per sempre: “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti”; anche Dn 7,13-14 prospettava la venuta di un Figlio dell'uomo il cui regno sarebbe durato in eterno: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”; anche la riflessione sapienziale ha concorso a rafforzare questa convinzione: “Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: <<Domina in mezzo ai tuoi nemici. A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell'aurora, come rugiada, io ti ho generato>>. Il Signore ha giurato e non si pente: <<Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek>>” (Sal 110,2-4) e similmente in Sal 89,35-38: “Non violerò la mia alleanza, non muterò la mia promessa. Sulla mia santità ho giurato una volta per sempre: certo non mentirò a Davide. In eterno durerà la sua discendenza, il suo trono davanti a me quanto il sole, sempre saldo come la luna, testimone fedele nel cielo”. Ed infine anche Ezechiele, il profeta che sostenne le speranze del popolo durante l'esilio babilonese (597-582), prospetta un duraturo regno messianico di tipo davidico, in cui Dio avrebbe abitato per sempre in mezzo al suo popolo: “Il mio servo Davide sarà su di loro e non vi sarà che un unico pastore per tutti; seguiranno i miei comandamenti, osserveranno le mie leggi e le metteranno in pratica. Abiteranno nella terra che ho dato al mio servo Giacobbe. In quella terra su cui abitarono i loro padri, abiteranno essi, i loro figli e i figli dei loro figli, attraverso i secoli; Davide mio servo sarà loro re per sempre. Farò con loro un'alleanza di pace, che sarà con loro un'alleanza eterna. Li stabilirò e li moltiplicherò e porrò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Le genti sapranno che io sono il Signore che santifico Israele quando il mio santuario sarà in mezzo a loro per sempre"” (Ez 37,24-28).

Probabilmente furono l'insieme di queste citazioni scritturistiche alimentate dalla riflessione rabbinica che formarono le convinzioni circa il messianismo e generarono la figura di un Cristo trionfalistico ed eterno, vincitore su tutti i nemici di Israele. Le prospettive di sofferenza e di una morte ignominiosa come quella di croce annunciate da Gesù dovevano essere state scioccanti e inaccettabili per i Giudei.

L'ultima esortazione: camminate nella luce

I vv.35-36, il cui tono è esortativo, fungono da transizione dall'ultimo discorso pubblico di Gesù (vv.23-34) alla parte conclusiva della sua intera attività pubblica (vv.37-50), di cui in qualche modo anticipano le tematiche del credere e dell'incredulità; della luce e delle tenebre, temi fondamentali del racconto contemplativo giovanneo. Questi versetti sono la risposta alla questione posta dalle folle al v.34, che denuncia la loro inintelligenza circa l'evento Gesù e il senso della sua missione e della sua ora. Da qui l'esortazione a camminare nella luce, metafora del credere in Gesù, che già in 8,12 e 9,5 si era proclamato luce del mondo. I due versetti in analisi sono tra loro paralleli e sostanzialmente, sia pur con diverse parole, esprimono l'identico concetto: Gesù è la vera luce che passa e va accolta e fatta propria finché egli è disponibile. Anche la struttura dei due versetti è sostanzialmente identica: al “Camminate finché avete la luce” fa da eco “Finché avete la luce, credete nella luce” in cui l'esortazione al “camminare nella luce” è metafora del “credere nella luce”; così la frase finale “affinché non vi sorprenda l'oscurità; e chi cammina nell'oscurità non sa dove va” si pone in parallelo all'altra frase finale “affinché diventiate figli della luce” i quali, invece, sanno dove vanno, perché hanno accolto in loro la luce.

I vv.35-36 costituiscono l'ultimo appello pubblico di Gesù al giudaismo perché aderisca a lui, luce del mondo, fintantoché egli è ancora presente; una presenza ormai giunta al suo termine qui nella storia (“Ancora per un po' di tempo”). La sollecitazione a camminare, cioè a credere, finché i Giudei hanno la luce presso di loro si trasforma ora in minaccia: “affinché non vi sorprenda l'oscurità; e chi cammina nell'oscurità non sa dove va”. In altri termini l'autore qui paventa che il giudaismo respingendo in modo così radicale la rivelazione divina manifestatasi in Gesù, si perda nell'oscurità delle tenebre, proprie di quel mondo che non solo ha disconosciuto Gesù (1,10), ma lo ha anche respinto (1,5). I chiari riferimenti storici (“Ancora un po' di tempo”), la sollecitazione ad aderire alla luce, un appello che sa molto da ultimatum, nonché la comparsa dell'espressione “figli della luce” e la sottolineatura delle tenebre incombenti, sembrano collocare il lettore in un contesto escatologico imminente e sovrastante. Diventa difficile pertanto credere che Gesù abbia lanciato simili appelli da ultimatum ai Giudei poco prima della sua morte. È chiaramente questa una creazione dell'autore. A cosa dunque alludeva? Probabilmente al contesto storico in cui la comunità giovannea veniva a trovarsi: una comunità, in rotta con il giudaismo e con le comunità credenti ormai istituzionalizzate, decisa per questo di andarsene dalla Palestina verso Efeso. In tale frangente probabilmente essa ha sollecitato ad aderire all'annuncio della fede finché essa era ancora presente, poiché in quell'abbandonare la Palestina essa avrebbe anche abbandonato il mondo giudaico al suo triste destino su cui incombe un giudizio di condanna per la sua refrattarietà (3,16-21). Una sorta di anatema, quindi, che la comunità giovannea lancia sul giudaismo prima di lasciarlo definitivamente. Torna quindi con il v.36 la sollecitazione, ora più esplicita, in quel “credete nella luce” per diventare in tal modo “figli della luce”. Un appello estremo a passare dalla parte di Dio prima del giudizio finale, che nel contesto del I sec. d.C. si riteneva imminente.

Il v.36 si conclude con un Gesù che dette “queste cose, e andatosene, si nascose da loro”. Il versetto è scandito in tre momenti: dapprima Gesù termina il suo discorso: “Taàta ™l£lhsen” (taûta elálesen, disse queste cose); il verbo è all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, che fissa e chiude l'azione nel tempo. Un discorso quindi terminato, chiuso nel passato in cui è stato pronunciato. Non vi è qui più nessuna prospettiva futura, nessuna iterazione di un annuncio che ormai si è definitivamente concluso. Gesù ha gettato il suo seme, che i versetti immediatamente successivi (vv.37-43) lasciano intendere che è andato a vuoto. Per questo Gesù ora se ne va via. Il verbo greco qui usato è “¢pelqën” (apeltzòn), che significa partire, andarsene via, allontanarsi; un verbo che dice l'abbandonare il campo da parte di Gesù, il lasciare il giudaismo, chiuso nella sua incredulità, al proprio destino. Ed infine egli “si nascose da loro”, lo stesso verbo che compare in 8,59, allorché i Giudei tentarono di lapidare Gesù ed egli si nascose ed uscì dal tempio. Questo nascondersi di Gesù significa il rendersi irraggiungibile dal giudaismo, chiuso nella sua invincibile incredulità. L'esperienza pubblica di Gesù si chiude dunque con questa nota finale sull'incredulità, sulla quale l'autore svilupperà una sua riflessione conclusiva, legando questa pervicace chiusura del giudaismo a Gesù alla profezia di Isaia.


Sezione della conclusione dell'attività pubblica di Gesù
(vv.37-50)


Testo a lettura facilitata

L'incredulità del giudaismo preannunciata dal profeta Isaia (vv.37-43)

37- Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui,
38- affinché si compisse la parola del profeta Isaia, che disse: “Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?”
39- Per questo non hanno potuto credere, poiché di nuovo disse Isaia:
40- “Ha reso ciechi i loro occhi e ha indurito il loro cuore, affinché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e si convertano, e li guarirò”>>.
41- Queste cose disse Isaia, poiché vide la sua gloria, e parlò di lui.
42- Eppure, nondimeno, anche molti dei capi credettero in lui, ma a causa dei Farisei non (lo) confessavano per non essere espulsi dalla sinagoga;
43- amarono, infatti, la gloria degli uomini più che la gloria di Dio.

Il discorso conclusivo, una sintesi dei punti più salienti della predicazione di Gesù (vv.44-50)

44- Ora Gesù gridò e disse: <<Chi crede in me non crede in me, ma in colui che mi ha mandato,
45- e chi vede me, vede colui che mi ha mandato.
46- Io luce sono venuto nel mondo, affinché chiunque crede in me non rimanga nella tenebra.
47- E se uno ascolta le mie parole e non (le) osserva, io non lo giudico; non venni, infatti, per giudicare il mondo, ma per salvare il mondo.
48- Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho detto, quella lo giudicherà nell'ultimo giorno.
49- Poiché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre che mi ha mandato, egli mi diede istruzione (di) che cosa dirò e (di) che cosa parlerò.
50- E so che la sua disposizione è vita eterna. Quelle cose, dunque, di cui io parlo, come il Padre me (le) ha dette, così parlo.

Note generali

Con questa seconda ed ultima sezione del cap.12 (vv.37-50) viene data da parte del redattore un'articolata e significativa conclusione all'attività pubblica di Gesù, che diversamente si sarebbe chiusa in modo stringato e anonimo al v.10,40. Si tratta di una costruzione tutta redazionale, particolare questo che va tenuto presente nel corso dell'analisi per meglio comprendere la dinamica narrativa di questi versetti.

La struttura di questa sezione è scandita in due parti: la prima è una riflessione teologica sul sostanziale fallimento della missione di Gesù presso i Giudei (vv.37-43); la seconda consiste in un ultimo discorso di Gesù, che sfida, come vedremo, le leggi della narrativa (vv.44-50), quelle della coerenza e della logica.

Commento ai vv.37-50

Prima parte (vv.37-43): L'incredulità del giudaismo preannunciata dal profeta Isaia

La risposta della folla al v.34, che denunciava tutta la sua inintelligenza su Gesù e l'esortazione di Gesù a credere in lui, una sorta di ultimo appello; ma non solo, i dubbi, le incertezze, le discussioni, le diatribe, le incomprensioni sorte intorno a Gesù e alla sua predicazione; gli abbandoni da parte dei suoi discepoli, i loro rinnegamenti e tradimenti, i tentativi di arresto e di linciaggio da parte delle autorità giudaiche, che si sono accumulati dal cap.6 in poi61 danno nel loro insieme l'idea non solo delle difficoltà che Gesù ha incontrato durante la sua attività pubblica, ma anche del suo sostanziale fallimento presso il giudaismo, sul quale la chiesa primitiva aveva incominciato ad interrogarsi fin dalle sue origini, cercando nelle Scritture delle risposte. Sarà il profeta Isaia che risponderà al cruccio delle prime comunità credenti, mentre Paolo in Rm 9-11 trova la sua risposta nel disegno di Dio: la chiusura di Israele a Gesù favorì la diffusione del suo messaggio di salvezza presso il mondo dei pagani, benché Dio si sarebbe riservato alla fine dei tempi la salvezza anche per Israele. Un concetto questo che ritroviamo sostanzialmente identico in Mt 21,43 posto a conclusione della parabola dei vignaioli infedeli; una requisitoria contro il giudaismo, che, ricevuto da Jhwh il dono della Torah, dell'Alleanza e dei Profeti, preparato quindi a ricevere il Figlio del Vignaiolo, si era invece appropriato di tale dono facendone uno strumento di proprio potere e rifiutando, anzi perseguitando ed uccidendo, il Figlio del Padrone della vigna; per questo il Gesù matteano sentenzierà: “vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. Il rifiuto quindi del giudaismo costituì motivo di salvezza per i non giudei.

Il ragionamento che Giovanni qui sviluppa è alquanto articolato; esso prevede due tipologie di increduli: chi, non credendo, ha rifiutato Gesù, arrivando a perseguitarlo e ad ucciderlo (37-41); e chi, pur credendo, non dette la sua pubblica testimonianza a favore di Gesù per timore o per proprio interesse (vv.42-43).

La dinamica della pericope in analisi parte con il v.37 che funge, da un lato, da titolo tematico all'intera pericope; dall'altro, denuncia l'invincibile incredulità del giudaismo, tale da renderlo insensibile all'annuncio di salvezza e accusandolo del fallimento della missione di Gesù. Si prosegue con il v.38, mutuato dal quarto cantico del Servo sofferente di Jhwh (Is 53,1), assimilando così il destino di Gesù a quello del Servo sofferente; si prosegue, quindi, con i vv.39-40, che rilevano come l'incredulità sia il frutto di un progetto divino; l'autore in tal modo si associa alla linea Paolo-Matteo, che riflettono la posizione dell'intera chiesa primitiva62. Il v.41 crea uno stacco narrativo e nel contempo conclude la prima parte della riflessione (vv.37-40), sottolineando l'autorità del profeta, il cui annuncio si radica in una visione della gloria di Gesù. Con i vv.42-43 viene assimilata ed equiparata alla prima, una seconda categoria di increduli: i testimoni mancati, lasciando così intuire come la fede non è mai un evento esclusivamente personale, ma possiede in se stessa sempre una dimensione pubblica.

Il v.37 presuppone una visione e una valutazione retrospettive dell'intera attività missionaria di Gesù e ne formula un'amara considerazione, constatandone un sostanziale fallimento, che costituirà l'oggetto di riflessione dei successivi vv.38-43. La causa di tale fallimento viene individuata nella pervicace incredulità da parte del mondo giudaico, espressa dall'imperfetto indicativo in cui è stato posto il verbo credere (oÙk ™p…steuon, uk epísteuon, non credevano); un tempo verbale questo che indica la persistenza di questo “non credere”; come dire che i Giudei non solo non hanno creduto, ma nonostante i segni, la cui finalità sarà indicata dai vv.20,30-31, hanno continuato a non credere, passando dall'incredulità al rifiuto, conclusosi con l'uccisione di Gesù. Un vero e proprio atto di accusa, che pone in qualche modo un giudizio sul giudaismo stesso. La gravità della presa di posizione dei Giudei nei confronti di Gesù traluce in qualche modo dalla particella di moto a luogo “e„j” (eis, verso) che segue il verbo “credere. Essa qui indica la fede come un cammino, un orientamento esistenziale verso Gesù, in cui Gesù costituisce il polo catalizzatore e il punto di identificazione per il credente. Tutto ciò non è avvenuto per il giudaismo (“oÙk, uk, non”) a motivo della sua invincibile incredulità.

Come si è visto, il v.37 pone in scena due personaggi: Gesù che non è stato creduto nonostante i segni operati e i Giudei che non gli hanno creduto. Saranno, ora, proprio loro, distintamente, ad essere oggetto di indagine dei vv.38-40

I vv.38-40, infatti, frutto della ricerca della chiesa primitiva in cerca di risposte sia sul rifiuto del giudaismo che sul fallimento della missione pubblica di Gesù, riportano due passi tratti dal libro di Isaia. Il primo (v.38) esprime una considerazione su Gesù, che qui viene assimilato al Servo sofferente di Jhwh, che in qualche modo lo preannunciava. Come quello, infatti, anche Gesù non è stato creduto. L'incredulità nei confronti di Gesù, pertanto, non dipende dalla credibilità di Gesù quale rivelatore e testimone del Padre, ma trova la sua giustificazione in una sorta di piano divino che ha attuato in lui lo stesso destino del Servo sofferente: “affinché si adempisse la parola del profeta Isaia”. Si tratta dunque del compimento di un disegno già preannunciato da Is 53,1, che qui l'autore riporta sostanzialmente identico: “Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?”. Due gli elementi che rilevano in questo versetto: la parola e il braccio, metafora dell'agire potente di Jhwh63. Si tratta dunque di una Parola che si è fatta Azione, manifestandosi nell'agire di Gesù e, nella fattispecie, nei segni, che per Giovanni sono azioni manifestatrici e rivelatrici, che rimandano all'agire salvifico di Dio in Gesù (20,30-31). Tutto ciò non è stato creduto.

La citazione del secondo passo di Isaia (v.40) è preceduta dal v.39 che funge da sua introduzione. Questo si richiama al v.37 nella parte che maggiormente ha creato scandalo nella chiesa primitiva: “non credevano in lui” nonostante i segni compiuti, indicando il successivo v.40 come la spiegazione teologica di questa invincibile e pervicace incredulità: “Per questo non hanno potuto credere, poiché di nuovo disse Isaia”. L'accento qui va a cadere su quel “non hanno potuto” con cui si lascia intendere come il credere o il non credere non sia dipeso dai Giudei, ma da un disegno superiore a cui essi, loro malgrado erano succubi. Di fatto si realizza qui quanto già il Gesù giovanneo aveva ricordato in 6,44a: “Nessuno può venire da me se il Padre che mi ha mandato non lo attira”. Quindi tutto dipende dal Padre, “per questo non hanno potuto”, lasciando intendere in qualche modo che diversamente essi avrebbero creduto. Vi è dunque un piano in atto del Padre che ha reso inizialmente increduli i Giudei, ma che si ripropone un loro recupero in un tempo successivo (“e li guarirò”). Ed è proprio ciò che il v.40 dice riportando liberamente la citazione di Is 6,9-10: “Ha reso ciechi i loro occhi e ha indurito il loro cuore, affinché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e si convertano, e li guarirò”. Si tratta di un versetto molto gettonato nella chiesa primitiva, riportato da tutti gli evangelisti e dagli Atti degli Apostoli64, segno di un comune pensare all'interno della chiesa e del pesante lavoro di ricerca e di riflessione che essa ha compiuto all'interno delle Scritture, per ricomprendere l'evento Gesù e tutti gli eventi accaduti attorno a lui. Come dunque leggere questo indurimento operato dal Padre nei confronti del giudaismo rendendolo così incapace di accostarsi e di aprirsi a Gesù? Veramente il Padre è così selettivo da favorire alcuni respingendone altri? O piuttosto qui l'autore si allinea al linguaggio biblico che vede Dio come il sovrano e signore, dominatore incontrastato di tutto e di tutti, poiché tutto ciò che succede dipende da lui? Anche il persistente rifiuto del faraone fu letto dall'agiografo come opera di Dio che indurì il cuore del faraone (Es 4,21; 7,3); ma altrove si legge la sollecitazione di Dio nei confronti di Israele a circoncidere il suo cuore ostinato e a non indurire la sua cervice (Dt 10,16), un'esortazione questa che risuonerà numerose volte nei testi veterotestamentari. È dunque questo stato di chiusura persistente che impedisce a Dio di operare. Dio dunque non opera in modo discrezionale per quanto riguarda la salvezza, ma perché l'uomo non gli concede spazi per poterlo fare. Non dipende dall'energia elettrica accendere alcune lampadine e altre invece no, ma dalle lampadine che o sono bruciate o non collegate con l'elettricità. Tuttavia il rimandare a Dio l'indurimento del cuore e la cecità della mente così da non poter accedere alla salvezza operata in Gesù lascia intendere come sull'incredulo sia stato posto una sorta di giudizio divino, che non gli concede nessuna speranza a causa della sua stessa incredulità. È questa che lo giudicherà e determinerà il suo destino.

Il v.41 chiude la prima riflessione sull'incredulità relativa ai Giudei richiamandosi al contesto isaiano da cui il v.40 è stato liberamente mutuato. La vocazione di Isaia, infatti, nasce dalla visione della gloria del Signore durante la quale egli riceve il mandato direttamente da Jhwh: “Egli disse: <<Va e riferisci a questo popolo: Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d'orecchio e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da esser guarito>>” (Is 6,9-10). L'autorità di Isaia e l'autorevolezza del messaggio affidatogli e al quale è legato anche il v.40 è dunque confermata da questa visione. Giovanni, tuttavia, gioca sull'espressione isaiana “vidi il Signore” (eŒdon tÕn kÚrion, eîdon tòn kírion) riferendo l'espressione “il Signore” al Risorto. Così come accadde similmente ad Abramo, che ebbe modo di contemplare la gloria del Risorto (8,56). Secondo Giovanni dunque sia Isaia che Abramo, già fin da allora, avevano contemplato la gloria del Risorto, sottolineando in tal modo come l'evento Gesù prendesse le mosse da molto lontano; un lontano che nella sua origine si colloca nella stessa eternità di Dio (17,5.24; Ef 1,4).

Con i vv.42-43 l'autore introduce la seconda categoria di persone assimilati agli increduli: coloro che, pur credendo, non hanno avuto il coraggio della testimonianza, riportando al v.43 la motivazione di questa loro manchevolezza, tale da vanificare il loro stesso credere.

Il v.42 si apre con due avverbi giustapposti l'uno accanto all'altro: “Ómwj mšntoi” (ómos méntoi, eppure nondimeno), che sembrano creare un'eccezione all'interno di una generalizzata incredulità dei Giudei, costituita dagli stessi capi del giudaismo, che in numero consistente (“molti”) si erano aperti verso Gesù. Testimonianze in tal senso ci provengono da Nicodemo, un capo dei Giudei (3,1); ma altri personaggi di una certa levatura sociale e religiosa ci sono segnalati dai Sinottici come per Giuseppe di Arimatea, un membro autorevole del Sinedrio (Mc 15,43); il notabile di Luca (Lc 18,18); lo scriba di Matteo, pronto a seguire Gesù (Mt 8,19) o quello di Marco, che elogia Gesù per la risposta datagli e che Gesù dichiara non lontano dal Regno di Dio (Mc 32-34) e così similmente Giairo, uno dei capi della sinagoga, che si sente sollecitare da Gesù a continuare a credere (Mc 5,22.36); anche tra i sacerdoti vi furono numerose adesioni a Gesù (At 6,7b). Ma è proprio per questa loro posizione di rilevanza sociale e religiosa che il professare apertamente Gesù costituisce un forte handicap, dovuto a due cause concomitanti: la prima di ordine pubblico, la minaccia di essere espulsi dalla sinagoga, una pena che veniva inflitta ai minim, cioè agli apostati e agli eretici verso la fine del I sec. d.C., pena ricordata anche nel racconto del cieco nato (9,22), e che equivaleva di fatto ad una morte civile. La seconda causa è di ordine personale: “amarono, infatti, la gloria degli uomini più che la gloria di Dio”. “Hg£phsan” (egápesan, amarono), un verbo che in Giovanni viene usato per definire il rapporto che intercorre tra il Padre e Gesù e tra il credente e Gesù; si tratta comunque di un amore spirituale, un amore privilegiato, che evidenzia il livello di spiritualità e di legame con la cosa amata e che dice ciò che conta nella propria vita e verso cui essa è indirizzata; un amore che nasce dalla parte più nobile ed evoluta della personalità, qui indirizzata verso gli uomini piuttosto che verso Dio. È quindi l'Io spirituale, l'unico capace di metterci in contatto con Dio, che qui invece viene orientato verso gli uomini. Si tratta dunque del fallimento della fede. La chiesa primitiva, infatti, riteneva necessario per ottenere la salvezza aderire a Gesù non solo con il cuore, ma anche con la professione della fede, due elementi inscindibili tra loro: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9).

La considerazione alquanto pessimistica sviluppata dai vv.37-43 mettono in evidenza il totale fallimento della missione pubblica di Gesù sia a motivo di quelli che con ostinazione lo rifiutarono; sia a motivo di quelli che, pur avendolo accolto in loro stessi, per opportunismo, ne rifiutarono la testimonianza.

Seconda parte (vv.44-50): Il discorso conclusivo, una sintesi dei punti salienti del pensiero giovanneo

Un discorso singolare quello che qui propone l'autore, che dopo aver raccontato al v.36b come Gesù “disse queste cose, e andatosene, si nascose da loro”, all'improvviso, invece, quasi per magia, lo fa ricomparire con un nuovo discorso, che alcuni autori vedrebbero bene collocato subito dopo il v.36a, come suo proseguimento e a completamento delle ultime parole riportate ai vv.35-36a65. In realtà qui l'autore opera soltanto un'illusione ottica, poiché il lettore non si trova di fronte ad un vero e proprio discorso, ma soltanto ad una sintesi tematica di origine redazionale dei punti più salienti del pensiero giovanneo riguardanti la contemplazione del Verbo incarnato (1,14). E che non si tratti di un discorso vero e proprio lo dice la sua stessa introduzione: “Ora Gesù gridò e disse”. Manca infatti la contestualizzazione di questo discorso. Non si sa dove Gesù si trovi; non si conoscono i motivi di questo suo gridare né i destinatari di questo discorso. La ricomparsa, poi, di Gesù dopo il v.36b, come si è detto, lascia alquanto perplessi; il suo gridare, infine, è espresso in greco con il verbo, “œkraxen” (ékraxen, gridò) che compare altre tre volte in tutto il vangelo giovanneo ed è sempre legato ad una testimonianza o ad una rivelazione66. Ci troviamo di fronte ad una specie di conclusione di quella contemplazione che era iniziata con il Prologo. Forse non è un caso se proprio in questi sette versetti ricorrono tutti i termini più significativi che compaiono anche nel Prologo, come (in ordine di apparizione) gridare, tenebre, luce, mondo, parola, vita eterna, Padre, creando in tal modo una sorta di grande inclusione con quello. Forse è soltanto un caso, ma i termini qui riportati e che compaiono anche nel Prologo, sono sette, che nel linguaggio biblico indica il compimento e la pienezza, quasi a voler indicare come in questi sette termini chiave vi sia ricompreso l'intero pensiero giovanneo sul suo Gesù. Si tratta dunque di una sintesi di testimonianza e di rivelazione che il verbo “œkraxen” qui richiama e introduce.

Questa sintesi del pensiero giovanneo è costituita da un'insieme di detti dai ritmi sapienziali, solo apparentemente giustapposti l'uno accanto all'altro, ma in realtà essi seguono una loro precisa e stringente logica non solo narrativa, ma in particolar modo teologica attraverso due parole aggancio, che percorrono e sottendono l'intera pericope: “credere” e “parola”. La pericope costituisce un'unità narrativa a se stante, delimitata dall'inclusione di tipo tematico e insieme complementare data dai vv.44-45 e 49-50. I primi due versetti infatti attestano l'identità tra Gesù e il Padre, per cui credere in Gesù o vedere Gesù, due sinonimi, è credere nel Padre o vedere il Padre. Il motivo e l'origine di questa identità sono spiegati dai vv.49-50. Non a caso il v.49, strettamente legato al v.50, è introdotto da un “Óti” (óti, poiché) causale, che spiega il perché di questa identità: Gesù è portatore della parola del Padre, anzi, egli è la Parola del Padre, quella Parola che fin dall'eternità conviveva con il Padre ed era rivolta verso di lui (1,1-2). Il Padre dunque si riflette nel Figlio, che ne diviene rivelatore e manifestatore.

La struttura di questa pericope è piuttosto elaborata e si sviluppa nel seguente modo:

  1. vv.44-45: attestazione di identità tra Gesù e il Padre, con cui si introduce il tema del credere, che è vedere, legato ai Due, per cui il credere o non credere diviene rilevante anche nei confronti del Padre; si mette qui dunque una premessa di ordine teologico al credere;

  2. v.46: viene ripreso il tema del credere ed applicato a Gesù, che si definisce luce venuta nel mondo, per cui credere diviene sinonimo di essere illuminati; il versetto è qui titolo tematico dei successivi vv.47-48;

  3. vv.47-48: il tema del credere viene ora ripreso in senso applicativo nei confronti degli uomini, qui distinti in due categorie: chi ascolta, ma non osserva, che non sarà per questo sottoposto a giudizio, poiché ha comunque accolto nell'ascolto la Parola (v.47); e chi invece non solo non accoglie, ma respinge la Parola, che si costituisce in giudizio contro questa seconda categoria di persone (v.48). Il credere o non credere qui si fa rispettivamente ascolto accogliente o rifiuto, originando comportamenti morali, poiché investono la persona nel suo modo di vivere, illuminato dal credere o ottenebrato dal rifiuto del credere.

  4. vv.49-50: nel riprendere i vv. 44-45 ne forniscono la motivazione: l'identità tra Gesù e il Padre. Se Gesù, infatti, è rivelazione e manifestazione del Padre è perché Gesù riflette in se stesso le disposizioni del Padre che lo hanno compenetrato al punto tale da crearne un'identità.

I vv.44-45 costituiscono un assioma, che verrà spiegato e motivato ai vv.49-50, con i quali formano inclusione: “Chi crede in me non crede in me, ma in colui che mi ha mandato, chi vede me, vede colui che mi ha mandato”. Giovanni qui sembra divertirsi con giochi di parole mettendo in imbarazzo il suo lettore: “Chi crede in me non crede in me”, in cui la prima affermazione viene negata dalla seconda di senso uguale contrario, dando risultato nullo, ma nel contempo spostando l'attenzione del lettore da Gesù al Padre. Un gioco di parole in cui Gesù scompare come Io operante, per ricomparire come Io riflettente il Padre. Del resto già lo aveva detto in 5,19.30 che “il Figlio non può fare da se stesso niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa”; un concetto questo che ricompare anche in 14,9-11, allorché Filippo chiede a Gesù di mostrargli il Padre: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere”; per poi scoprire in 10,30 come Gesù e il Padre in realtà sono una cosa sola.

Tutti i verbi dei vv.44-45 sono posti al presente indicativo che rende tangibile e immediato il raggiungimento del Padre in Gesù, così che egli diviene specchio in atto che riflette e da cui traluce il Padre. Compaiono i due verbi caratteristici di Giovanni: credere e vedere, che nel linguaggio sia giovanneo che sinottico sono equivalenti. Significativo l'uso dei due verbi, il primo, credere, fatto seguire dalla particella di moto verso luogo (eis, verso) concepisce la fede come un cammino di orientamento esistenziale verso Gesù; una fede dunque che si costruisce con la vita e al suo interno; mentre il verbo “vedere” in questo contesto si allinea al concetto di fede espresso dalla particella “eis” ed è indicato in greco con “qewršw” (tzeoréo) anziché con “Ðr£w” (oráo), il verbo della fede pienamente raggiunta. “Tzeoréo” infatti indica un vedere attento, che esamina, valuta, scorge, medita, si interroga, investiga e contempla. Un verbo che meglio si addice al credente in cammino verso Gesù. Un verbo che sembra invitare il credente ad una attenta osservazione e contemplazione di Gesù dove egli può scorgere il Padre fin da subito (verbi al presente).

Il v.46 funge da titolatura ai versetti seguenti e li introduce anticipandone il tema del credere, che, a sua volta, mutua dai vv.44-45, che in qualche modo hanno definito il contenuto del credere: non Gesù, ma il Padre in lui.

Il v.46 è scandito in due parti: la rima pone in evidenza Gesù luce. Qui non si dice “Io sono la luce del mondo” come in 8,12 e 9,5, ma in modo più efficace e penetrativo il Gesù giovanneo attesta “Io luce” ( ™gë fîj, egò fôs). Se con la prima espressione si sottolineava l'essenza di Gesù che è luce del mondo, qui si pone una identificazione tra la luce e Gesù, che è luce di per se stesso, in quanto Gesù, che è un “Io di Luce”. Una luce che non viene definita come “del mondo”, ma “venuta nel mondo”; una venuta che include quindi in se stessa una missione espressa dalla particella finale “ina” (affinché) che spinge la venuta della Luce verso l'illuminazione di ogni credente, cioè ogni uomo resosi disponibile ad accoglierla in se stesso, richiamandosi così al v.1,9: “Era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che viene nel mondo”. Una Luce che Giovanni in 1,4 concepisce come sinonimo di vita divina destinata agli uomini: “in lui era vita, e la vita era la luce degli uomini”; una luce che colloca gli uomini nella vita stessa di Dio, ponendoli al riparo dal potere delle tenebre in cui essi si trovavano (“non rimanga nella tenebra”).

Il credere, i cui contenuti sono definiti dai vv.44-45 e ripreso al v.46, che ha per attore il credente investito dalla Luce venuta nel mondo, viene ora nuovamente ripreso dai vv.47-48. Vengono qui considerati gli effetti di questo credere o non credere nelle rispettive espressioni di ascoltare o respingere, non accogliere. Si passa dunque dalle definizioni teologiche (vv.44-45) e cristologiche (v.46) del credere alle sue pratiche conseguenze, colte qui come risposte esistenziali dell'uomo alla Luce venuta nel mondo, che lo discrimina in chi ascolta e non osserva la Parola, categoria questa non soggetta a giudizio e quindi non condannata (v.47); e in chi, invece, respinge la Luce e di conseguenza non l'accoglie, categoria questa soggetta a giudizio, che è insito nella stessa Parola rifiutata.

Lascia perplessi il v.47 che dichiara non soggetti a giudizio coloro che hanno accolto la Parola, ma non l'osservano. Tuttavia, l'autore pone l'accento qui sulla positività dell'ascolto accogliente, che ritiene determinante per accorpare il credente a Gesù, indipendentemente dal suo successivo osservare o meno; il non praticare infatti non è mai sinonimo di rifiutare, poiché in tal caso non ci sarebbe più l'ascolto accogliente che rende l'uomo credente, indipendentemente dalla sua connaturata fragilità. Ma finché c'è l'ascolto c'è la salvezza. Infatti, qui, non si percepisce il rifiuto della Parola, ma soltanto la sua mancata osservanza. Lo stesso Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, dichiara che “non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Un'espressione questa che va colta nel contesto letterario in cui è stata scritta, dopo un pesante cap.7 in cui Paolo non vede nessuna salvezza provenire dalla Legge, che invece schiaccia l'uomo sotto il peso della sua connaturata fragilità, che gli farà esclamare con angoscia “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? [...] Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato” (Rm 7,24-25). La risposta verrà per l'appunto dal successivo v.8,1.

Il v.48 prende in considerazione la seconda categoria di persone, quella che ha rifiutato la Parola della Vita, definita da due verbi: “respingere” e “non accogliere”, che delineano un atteggiamento di pervicace chiusura ostile alla Luce venuta nel mondo. Per queste persone non vi può essere salvezza, poiché il loro orientamento nei confronti alla Parola non è neutro o disinteressato o disturbato dalla loro connaturata fragilità, ma avverso. Vi è qui una netta presa di posizione che li pone in rotta di collisione con la Parola, che porta in se stessa il giudizio di condanna, legato al rifiuto. Poiché se è vero che Gesù non è venuto per condannare, ma per salvare, vero è altrettanto che egli la salvezza non la impone, ma la propone; così come è vero che la sua venuta ha provocato una separazione tra gli uomini, che sono discriminati in relazione alla risposta esistenziale che essi danno alla Parola che si propone a loro. Viene dunque posto su questa categoria ostile alla Parola un giudizio escatologico, che trova la sua definitiva attuazione nell'ultimo giorno, poiché finché questo non giunge i giochi per la salvezza sono sempre aperti.

I vv.46-48 riprendono in buona sostanza la pericope 3,16-21 dove Giovanni affronta sia il senso della venuta di Gesù nel mondo, colto come un atto donativo di amore del Padre (3,16a) finalizzato alla salvezza degli uomini (3,16b-17), sia le diverse e contrapposte risposte che gli uomini hanno dato a tale dono (3,18a.b), ponendo l'accento di condanna, che pesa già fin da subito per coloro che respingono la proposta di salvezza che si opera in Gesù, poiché, spiega l'autore, il loro operare è malvagio, cioè avverso alla Luce venuta nel mondo (3,19).

I vv. 49-50 nel completare e giustificare i vv.44-45 con i quali formano inclusione, forniscono anche la spiegazione al perché tanta durezza con cui viene trattato il rifiuto ostile della Parola. Già lo si è visto sopra come il v.49 si apre con un “Óti” (óti, poiché) causale affidando quindi a questi due ultimi versetti il compito di spiegare le ragioni dell'intera pericope vv.44-48: “Poiché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre che mi ha mandato, egli mi diede istruzione (di) che cosa dirò e (di) che cosa parlerò. E so che la sua disposizione è vita eterna. Quelle cose, dunque, di cui io parlo, come il Padre me (le) ha dette, così parlo”. Sono due versetti molto densi perché vanno a toccare le relazioni che intercorrono tra il Padre e Gesù tali da creare tra i Due una identità, pur nella diversità e nella distinzione di ruoli. Innanzitutto si dice come la missione di Gesù non proviene da se stesso, ma si radica nel Padre; una missione che ha due tempi: il primo si origina nel Padre stesso ancor prima della venuta di Gesù nel mondo: “egli mi diede istruzione (di) che cosa dirò e (di) che cosa parlerò”. I due verbi qui sono posti al futuro, lasciando intendere come la missione di Gesù qui è ancora vista in prospettiva della sua attuazione e quindi è qui colta nel suo originarsi nel e dal Padre. Si è dunque ancora in fase di progettazione, un progetto che si colloca ancora nel Mistero di Dio, allorché, ricorda l'autore della lettera agli Efesini, rivelando i contenuti di tale progetto divino, il Padre “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Ef 1,4-7).

La seconda fase di questa missione parla del tempo presente di Gesù: “Quelle cose, dunque, di cui io parlo, come il Padre me (le) ha dette, così parlo”, in cui il verbo “parlare” è posto al presente indicativo, mentre il verbo “dire”, riferito al Padre, è posto al perfetto indicativo (e‡rhkšn, eíreken), che in greco indica uno stato presente come conseguenza di un'azione passata, che qui si colloca nella stessa eternità di Dio, ancora “prima della creazione del mondo”, ma che continua nel presente nel dire e nel fare di Gesù, che in 5,19.30 attesta che da sé non può fare nulla, ma che invece fa e compie tutto ciò che vede fare e compiere da quel Padre che dice e fa in lui e per suo mezzo al punto tale da creare tra i due una perfetta identità, in cui l'operare di uno è l'operare dell'altro (14,9-11), poiché i due formano una cosa sola (10,30).

Il v.50a rivela il contenuto del progetto del Padre, qui definito come “™ntol¾” (entolè) che significa “comando, disposizione, ordine, mandato, istruzione” tutti termini che alludono ad un piano divino, concepito come libera disposizione divina, attuato in Gesù e finalizzato a recuperare l'uomo alla vita di Dio da dove è drammaticamente uscito (Gen 3,22-24). Il contenuto di tale progetto infatti “è vita eterna” (zw¾ a„èniÒj, zoè aioniós), un'espressione caratteristica di Giovanni con la quale egli definisce la vita stessa di Dio67. Un progetto quindi che prevede la vita stessa di Dio che si fa dono di amore per l'uomo nella persona di Gesù (3,16), al quale l'uomo è chiamato ad aderire esistenzialmente. Il rifiuto di tale dono, che è Dio stesso, resosi raggiungibile in Gesù, equivale ad un autoescludersi dalla sua stessa vita. Non si tratta quindi di una condanna inflitta da Dio per il rifiuto da parte dell'uomo, quasi una sorta di vendetta divina, ma un autoescludersi da tale vita donata. In altri termini, il rifiuto porta implicitamente con sé la condanna. Per questo, avverte il Gesù giovanneo, “chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio” (3,18b).

 
Giovanni Lonardi


N O T E

1Lo stadio alessandrino in uso nella Palestina del I sec. misura circa 185 mt. Pertanto Betania distava da Gerusalemme 2,77 Km, circa mezz'ora di strada a piedi - Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, op. cit.

2Cfr. Mt 21,17; 26,6; Mc 11,1.11-12; 14,3; Lc 19,29; 24,50. Quest'ultimo versetto riguarda l'ascensione di Gesù al cielo. È stato comunque da me citato sia perché in qualche modo ha a che fare con la pasqua (l'ascensione infatti è l'evento narrativamente successivo alla pasqua, benché essa sia un tutt'uno con la risurrezione, che colloca Gesù nel mistero di Dio fin da subito); sia perché è indicativo di come Gesù avesse eletto Betania come il luogo del suo rifugio, in cui si trovava tra amici (Lazzaro in Giovanni; Simone il lebbroso nei Sinottici).

3Sulla questione del docetismo all'interno della comunità giovannea cfr. la Parte Introduttiva della presente opera alle pagg. 39, 48, 55, 67

4I dottori della Legge individuarono 39 casi di attività vietate in giorno di sabato tra cui attività di tipo culinario e il “Lisciare” e come attività derivata anche lo spalmare degli unguenti sulla pelle. Per un maggior approfondimento cfr. la nota n.24, pag.17, del commento al cap.9 della presente opera.

5Sulla questione cfr. anche R.E. Brown, Giovanni, pag.579; op. cit.

6Cfr. Gv 2,16-17, dove “casa” è metafora di “Tempio”; in 8,35 assume il senso di Israele e di storia della salvezza (cfr. commento a 8,35, pag.39); in 14,2 e 19,27; 20,10.26 assume il senso di comunità o luogo dove si rende presente Gesù.

7Cfr. Es 29,7.21.29; 30,25.31; 31,11; 37,29; 39,38; 40,9.15

8Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, pagg. 111-113

9Sulla questione cfr. il commento al cap.10, pagg.5-6.25

10Il cap.21, aggiunto al vangelo giovanneo tardivamente, come vedremo, parla proprio di questo passaggio da un'organizzazione di tipo carismatico a quella di tipo istituzionale. Un capitolo da cui traluce in qualche modo la riconciliazione tra la comunità giovannea e le altre comunità palestinesi, già da tempo istituzionalizzate.

11Cfr. R. E. Brown, Giovanni, pagg.520; 556-559 e nell'Introduzione a pag. XXXIX-XLII.

12Cfr. la voce “Odore, Profumo” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990..

13Cfr. Gv 13,2.26.29; 14,22; 18,2.3.5

14Per un maggior approfondimento della figura di Giuda cfr. il commento al cap.6, pagg.66-67

15Sul rituale della nomina del re e della ritualità della sua consacrazione e intronizzazione cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, pagg.107-114

16Cfr. R.E.Brown, Giovanni, pagg. 594-595, op. cit.

17Tra il 132 e il 135, dopo la prima guerra giudaica (66-73 d.C.), esplose in Palestina una nuova rivolta contro l'oppressione romana. A capo della sollevazione si pose un certo Simon bar Koshebah, che rabbi Aqiba indicò come il messia, rinominandolo “bar Kochba”, cioè “figlio della stella” con riferimento alla stella di Nm 24,17-19: “Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il cranio dei figli di Set, Edom diverrà sua conquista e diverrà sua conquista Seir, suo nemico, mentre Israele compirà prodezze. Uno di Giacobbe dominerà i suoi nemici e farà perire gli scampati da Ar”. Cfr. A. Rodriguez Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 2005

18Engaddi è un'oasi importante di acqua corrente posta a ovest del Mar Morto, nota per le sue piante rigogliose e i suoi palmeti e i suoi profumi. - Cfr. la voce “Engaddi” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

19Cfr. Dt 34,3; Gdc 1,16; 3,13; 2Cr 28,15

20Cfr. R.E.Brown, Giovanni, pag. 600, op. cit.

21Cfr. la voce “Osanna” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

22Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag. 601, op. cit.

23Cfr. Mt 21,1-7; Mc 11,1-7; Lc 19,29-35

24Le parti in grassetto e sottolineate sono le sole citate da Giovanni.

25Quando la battaglia stava per aver inizio il sofar dava il segnale per il grido di guerra. Questo primitivamente era un clamore selvaggio per esaltare i combattenti e incutere timore nei nemici. Esso era anche un grido religioso legato al ruolo che l'arca aveva nei combattimenti (1Sam 4,5-8); grido che poi passò nel rituale dell'arca ed infine nella liturgia del Tempio (Lv 23,24; Nm 29,1). Sul tema del grido di guerra e della guerra santa cfr. R. de Vaux, Le istituzioni dell'Antico testamento, pagg.256, 260-269, op. cit.

26Cfr. Bibbia TOB, nota L posta a commento di Zc 9,9; cfr. anche Nm 10,9; Gs 6,5.10.16.20; 1Sam 17,20.52; Gdt 16,11; 2Mac 12,37; Ger 50,15; Am 2,2.

27Cfr. Bibbia TOB, nota m posta a commento di Zc 9,9

28Cfr. Gen 49,11; Gdc 5,9-10; 12,14; 1Re 2,40; 13,13; Is 21,7; Zc 9,9 – cfr. anche la voce “Asino” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.

29Cfr. Nm 27,15-20; Sal 77,70-72; Is 44,28; Ez 34,12.23-24

30Cfr. Gen 48,15; Sal 22,1; 79,2; Sir 18,13; Is 40,11;

31Cfr. 1,10.48; 3,10; 4,1; 4,53; 7,26.27.49; 7,51; 8,52; 11,57; 12,9; 13,28.35; 15,18; 18,15.16; 19,4.20

32Sul significato del verbo gignèskw” cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 57-58

33Sulla questione cfr. il titolo “Lingua e stile letterario”, sotto la voce “il doppio senso”, pag.54 della Parte Introduttiva della presente opera.

34Sulla questione cfr. il passo parallelo in Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, III edizione, 2001.

35Basti pensare che Gerusalemme ai tempi di Gesù comprendeva circa 60/100 mila abitanti, mentre nei giorni di grande festa, per il grande flusso dei pellegrini provenienti da ogni parte dell'impero, arrivava a contenerne anche 500/600 mila. Una massa enorme di persone difficilmente controllabile e, considerato il carattere piuttosto suscettibile e insofferente dell'ebreo, una simile situazione costituiva una polveriera, che poteva esplodere in rivoluzioni e sommosse in ogni istante. Bastavano poche persone ben coordinate e organizzate per far esplodere delle rivolte, creando un caos in mezzo ad una massa di persone già di per sé caotica. Per poterne avere una idea si pensi ai grandi pellegrinaggi islamici alla Mecca, in cui confluiscono milioni di persone ogni anno e che a motivo del grande numero di pellegrini e talvolta per l'intrusione di attentatori o contestatori non di rado scoppiano momenti di panico, che lasciano sul terreno centinaia di morti. - Circa la quantità di abitanti in Gerusalemme e di pellegrini che vi confluivano nelle grandi festività, cfr. H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù; op.cit.

36Cfr. Mt 21,26,5; 27,24; Mc 14,2; 15,7; At 19,23; 21,31

37Flavio Giuseppe in Guerra Giudaica racconta che il procuratore romano Gessio Floro (64-66 d.C.), dopo numerosi episodi di malgoverno, mise le mani sul tesoro del Tempio, forse per un arricchimento personale. Fu un atto gravissimo e blasfemo, che causò cruenti rivolte sempre più montanti e sempre più allargate, fino a trasformarsi in una vera e propria guerra contro Roma, che durò dal 66 al 70, con una propaggine fino al 73, tempo occorso per fiaccare l'ultima resistenza degli Zeloti, rifugiatisi nell'erodiana fortezza di Masada.

38La struttura dell'esercito romano era composta da circa trenta legioni, che contavano unitariamente dai 4000 ai 6000 soldati. Le legioni erano composte da circa 300 coorti di 600 soldati ciascuna; queste erano formate a loro volta da da 900 manipoli di 200 soldati ciascuno; i manipoli erano suddivisi da 1800 centurie formate da cento soldati ciascuna. Complessivamente l'esercito contava durante il periodo neotestamentario circa 180.000 unità dislocate in tutto l'impero. - Cfr. James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo s.r.l., Cinisello Balsamo (MI), 2004

39Le quattro legioni erano di stanza in Siria sotto l'imperatore Tiberio (42a.C – 37d.C.), come risulta da un elenco lasciatoci da Tacito nel Liber IV, 5

40La sede dei procuratori romani e delle autorità era Cesarea Marittima. Il procuratore e il suo seguito, in occasione delle grandi manifestazioni religiose, al fine di meglio controllare la situazione e intervenire con rapidità, si trasferivano a Gerusalemme, presso il pretorio. Sarà qui, infatti, che Pilato incontrerà Gesù (Mt 27,27; Mc 15,16; Gv 18,28).

41Cfr. anche Rm 12,1

42Cfr. la voce “Ellenisti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

43Cfr. la voce “Greci” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

44Cfr. Rm 1,16; 2,9.10; 3,9; 10,12; 1Cor 1,22.24; 10,32; 12,13; Gal 3,28; Col 3,11

45Oltre ai casi indicati nelle note 46 e 47, qui sotto, il verbo è utilizzato da Giovanni soltanto altre due volte nel senso normale del salire sopra un qualche cosa in Gv 10,1; 21,11

46Cfr. Gv 1,51; 3,13; 6,62; 20,17

47Cfr. Gv 2,13; 5,1; 7,8.10.14; 11,55; 12,20

48Cfr. Gv 7,8.10; 12,20

49Per la suddivisione di questo cap.12 e in particolare dei vv.1-36 cfr. pag. 2

50Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.612, op. cit.

51Cfr. Mt 16,15-16.20-25; Mc 8,29,35; Lc 9,20-24

52Cfr. Gv 2,4; 7,6.30; 8,20

53Sul tema dell' “ora” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 69-71

54Cfr. Mt 26,38-42; Mc 14,33-36; Lc 22,41-44

55Cfr. Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42

56Sulla relazione che intercorre tra Gesù e il Padre cfr. la voce “Padre” nella Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 71-75

57Cfr: Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23

58Sul significato del termine “mondo” in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva, pagg. 67-69

59Cfr. Gen 6,5.11-13; Rm 8,19-23

60Cfr. Mt 16,16.21-22; Mc 8,29.31-32; Lc 9,20-22

61Cfr. Gv 6,41-42.52.60-61.64.66; 7,5.12-13.19-20.25.27.30.40-44.45-53; 8,27.37.39-40.43-44a.48.52-53.59; 9,22.28-29.34-35a; 10,24-26.31-33.39; 11,8.16.37.46.47-54.57; 12,10-11.

62In tal senso si cfr. anche Mt 13,15; Mc 4,11-12; Lc 8,10; At 28,26-27

63Cfr. Es 6,6; 13,14.16; 15,16; Nm 11,23, in cui la parola di Jhwh è associata al braccio, cioè al suo agire; Dt 4,34; 5,15; 7,19; 9,29; 11,2; 26,8; Lc 1,51; At 13,17. Cfr. anche il termine “Braccio” M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

64Cfr. nota 62

65Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag. 635, op. cit.

66Cfr. Gv 1,15; 7,28.37

67Sul tema della “vita eterna” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 84-86