IL VANGELO SECONDO GIOVANNI

Commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi


CAPITOLO UNDICESIMO


Morte e risuscitazione di Lazzaro,
il risveglio di una comunità dormiente nella fede e
preludio alla morte e risurrezione di Gesù




Premessa

Nel concludere il cap.10 si era rilevato come il v.40 segnalasse un cambiamento geografico (da Gerusalemme a Betania di Perea), che nel linguaggio narrativo dice che una fase del racconto si è conclusa e se ne sta aprendo un'altra nuova. Si era detto anche come il v.10,40 formasse inclusione con 1,28 così da abbracciare l'intera attività pubblica di Gesù: dagli inizi (1,28) alla fine (10,40) e in tal senso si era indicato in nota come il Brown ritenesse che lo schema originale del vangelo giovanneo circa la vita pubblica di Gesù dovesse concludersi qui con i vv.10,40-42; mentre i capp.11-12, che ho definiti di transizione, erano stati aggiunti successivamente. Una posizione quella del Brown che mi trova pienamente d'accordo. Il v.10,40, infatti, segnala che Gesù se ne andò al di là del Giordano, dove prima Giovanni battezzava, e si conclude con la nota “e rimase là”. Un'annotazione narrativa quest'ultima che equivale in termini grammaticali ad un punto fermo con cui si conclude definitivamente un pensiero per predisporsi ad aprirne un altro. I vv.10,40-42 inoltre formano una sorta di sommario conclusivo, che riporta il lettore alle origini del racconto evangelico. Il v.10,40 infatti si richiama all'attività del Battista e il v.10,41 alla sua predicazione e alla sua testimonianza, mentre 10,42 rievoca i primi successi missionari di Gesù. La perifrasi 10,40-42 pertanto rassomiglia ad una sorta di imbastitura conclusiva, perché imbastendo la parte finale con quella iniziale chiude un ciclo narrativo, quello pubblico del Battista e di Gesù, e nient'altro si ha da dire in merito. Gesù infatti è stato stanziato in Betania di Perea, senza alcuna ulteriore prospettiva di attività né si dice che cosa faccia (10,40b). Sarà infatti soltanto il cap.11 che richiamerà in servizio Gesù e lo spingerà a riprendere la sua attività (11,3.7), ma non sarà più un'attività pubblica. Infatti, Gesù, uscito dal tempio in 10,39 non vi farà più ritorno; le folle inoltre si interrogano ancora su Gesù (v.11,56), sono presenti al momento del segno (11,42.45), gli corrono incontro e lo accompagnano trionfalmente in Gerusalemme, ma Gesù non parlerà più a loro, non le ammaestrerà più con i suoi lunghi discorsi, né sosterrà più pubbliche diatribe con le autorità religiose, anche se queste hanno già deliberato di sopprimerlo (11,53). Inoltre Gesù non è più immediatamente raggiungibile e per potergli parlare c'è bisogno di una intermediazione (12,20-22). Gesù non è più l'uomo pubblico che abbiamo conosciuto fino a tutto il cap.10. Giusto quindi quanto dice il Brown che con 10,40-42 si conclude l'attività pubblica di Gesù e che soltanto in un secondo tempo, probabilmente nella redazione finale del vangelo, si aggiunsero i capp.11-12 per togliere il trauma, come vedremo, che sarebbe venuto a crearsi tra la fine del cap.10 e l'inizio dell'attuale cap.13.

Quanto ai capp. 11 e 12 sono da considerarsi di transizione in quanto traghettano il lettore in modo morbido verso il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù (13-20). La loro funzione è quindi squisitamente didascalica (11) e didattica (12) e, quindi, preparatoria alla sezione della Gloria. Il tema della morte e del morire in questi due capitoli, così come quello della vita, due temi che viaggeranno da questo momento in poi sempre in accoppiata, non sono più soltanto un'allusione agli eventi che travolgeranno Gesù, ma qui ne viene spiegato il significato e il senso, ed assumono contorni più precisi e determinanti (vv.11,47-54).

In questi capitoli non si trovano più i grandi discorsi di Gesù rivolti alle folle, ma soltanto brevi riflessioni di tipo sapienziale (12,23-36), che aiutano a capire il senso del morire di Gesù; vi sono proclami di sintesi (12,44-50), in cui si riepilogano i temi fondamentali della sua predicazione. La folla qui rimane in sottofondo, quasi invisibile (v.11,42), e là dove compare (12) ha funzioni soltanto strumentali, simili al coro delle tragedie greche1, chiamato, come una sorta di voce fuori campo, a commentare i tristi e tragici eventi rappresentati o che stanno per accadere. Lo stesso nome “Giudei”, che in Giovanni è sinonimo di incredulità invincibile, perde qui il suo connotato negativo per assumere quello più confacente di abitanti della Giudea; e con il connotato negativo perde anche quella carica di aggressività che lo ha sempre caratterizzato nei racconti giovannei; anzi, al contrario, i Giudei si mostrano in questi capitoli molto umani (11,19.31.33) e sinceramente interessati a Gesù (11,36.45.56; 12,9.11.18) e Gesù familiarizzerà unendosi al loro dolore (11,33.35.38a).

Se l'intero cap.11 ha funzioni squisitamente didascaliche con il suo raccontare la risuscitazione di Lazzaro (vv.1-46) e la reazione delle autorità religiose al segno (vv.47-54), dove in sintesi tornano, incrociandosi tra loro, i temi della morte, della vita, della luce, della risurrezione, tutti tra loro strettamente connessi a quello del credere e da questo dipendenti; temi che hanno percorso l'intero vangelo giovanneo, e che qui trovano il loro compendio applicativo, il cap.12 si qualifica come un capitolo didattico, preoccupato quasi a sottolineare il significato e il senso di una morte in funzione della vita (12,24-33); a comparare la morte e i destini di Lazzaro a quelli di Gesù (vv.12,9-11); la morte di Gesù qui è apertamente annunciata dall'unzione di Maria, la sorella di Lazzaro (12,2-8), durante una cena (12,2a), che in qualche modo prefigura l'ultima cena con cui si aprirà il successivo cap.13 (v.2a); Lazzaro è qui definito come il “resuscitato dai morti” ad opera di Gesù (12,1), preludendo ad un altro “risuscitato dai morti” ad opera del Padre; Gesù, già indicato come il re d'Israele dall'entusiasta Natanaele (1,49), è qui proclamato tale dalla folla (12,13), preannunciando il tema della passione e morte dei capp.18-19, che Giovanni legge come l'intronizzazione regale di Gesù; ci si preoccupa poi di spiegare come in quel entrare di Gesù a Gerusalemme su di un asino (12,15) si realizzasse la profezia di Zc 9,9. Viene fatto qui un bilancio decisamente fallimentare dell'attività pubblica di Gesù (12,37), ma si aiuta il lettore a comprenderlo (12,38-41) come il realizzarsi di Is 53,1 e 6,10. Tutto quindi si sta muovendo secondo un prestabilito piano divino. Ed infine, a mo' di promemoria, Giovanni riepiloga in 12,44-50 i tratti essenziali della predicazione di Gesù. Un capitolo quindi di sintesi che prepara il lettore ad affrontare l'ultima sezione, quella della Gloria, fornendone qui la chiave interpretativa.

Da questo insieme di osservazioni sembra che i capp.11-12 mostrino una spiccata preoccupazione di riempire un vuoto che prima c'era e che poneva il lettore di fronte ad un brusco cambiamento: da Betania di Perea, dove Gesù stanziava apparentemente inoperoso e in attesa di eventi (“e rimase là”), all'intimità dell'ultima cena (13,2). Si noti come i capp.11-12 vanno a riempire un vuoto narrativo, ma non teologico, poiché il cap.13, che doveva seguire subito 10,40-42, si apre in modo significativo: “Ora, prima della festa della pasqua, sapendo Gesù che venne la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi nel mondo, li amò fino alla fine”. Qui vengono evidenziati due elementi rilevanti: “prima della festa della pasqua”. Questa annotazione dà continuità temporale e in qualche modo narrativa al cap.10, l'ultimo dell'attività pubblica di Gesù, inquadrato nella festa della Dedicazione, celebrata nel mese di dicembre (10,22); la pasqua, cadente tra marzo/aprile, infatti seguiva la festa della Dedicazione, ma la sua citazione definisce anche la durata temporale di quel vago “rimase là” di 10,40b: Gesù pertanto rimase a Betania di Perea circa tre quattro mesi, il tempo che intercorre tra la Dedicazione e la Pasqua. Viene anche evidenziato il movente che spinge Gesù da Betania di Perea a Gerusalemme: “sapendo Gesù che venne la sua ora di passare da questo mondo al Padre”. La missione di Gesù dunque non termina con la festa della Dedicazione, né si conclude a Betania di Perea; ad essa manca l'ultimo tassello, il più importante, per cui Gesù è venuto: la sua morte e risurrezione, già preannunciata in 10,11.15b.17-18, cioè il compiersi dell'ora, che proprio in 13,1 viene per la prima volta annunciata. Giovanni, dunque, aveva privilegiato la continuità logica di tipo teologico su quella narrativa. Si rendeva tuttavia necessario rendere meno traumatico l'impatto con l'ora e sopratutto si rendeva necessario fornirne la chiave di lettura. Da qui i capp.11-12, la cui impronta è squisitamente e densamente didattica e preparatoria alla sezione 13-20, la sezione dell'ora che giunge e si compie.

Note generali al cap.11

Al v.10,10b Gesù attestava di essere venuto “perché abbiano vita e (l')abbiano con abbondanza”, mentre ai vv.11.14.15b.17-18 proclamava di essere il Signore della vita, che egli offriva alle sue pecore, che egli conosce con la stessa conoscenza che lega lui e il Padre. Che cosa significhi tutto ciò trova il suo riflesso e la sua immagine nel cap.11, dove Gesù si mostrerà la fonte della vita, che da lui trabocca e si riversa sulle sue pecorelle, riconsegnandole alla vita da cui esse erano state strappate dalla morte. Pecorelle che non solo lo riconoscono e a lui accorrono (vv.3.20a.28-29), ma con le quali egli intrattiene quello stesso rapporto di amore che lo lega al Padre (v.5), richiamato qui dal verbo “ºg£pa” (egápa). Vedremo inoltre come questo dono della vita passa attraverso il risveglio della fede dormiente di Maria (vv.29-32) e il rafforzamento di quella titubante di Marta, che viene sospinta alla testimonianza (vv.28.39-40); due figure queste che rappresentano in qualche modo, come vedremo, la comunità giovannea.

Il cap.11 è costruito sulla falsariga di una sentenza inquadrata2, cioè di un racconto che l'evangelista imbastiva attorno ad un detto di Gesù, la cui finalità era quella di metterne in rilievo il significato. Qui, il detto, cuore dell'intero racconto, che da solo lo giustifica e senza il quale il racconto perderebbe di significato e di senso, è quello contenuto nei vv.25-26, a cui fa eco la professione di fede di Marta (v.27), che riproduce sostanzialmente il v.20,31. Il racconto della risuscitazione di Lazzaro è l'ultimo segno, il settimo; una posizione significativa questa, poiché il sette nel linguaggio biblico indica la perfezione, il completamento e il compimento dell'opera rivelativa che ha qui il suo vertice e che prelude ad un altro vertice, quello della risurrezione di Gesù. È un segno in cui convergono le tematiche principali di Giovanni, che trovano qui la loro concreta applicazione, come il tema della luce (vv.9-10), quello della gloria, cioè della manifestazione di Dio nell'operare di Gesù, da cui traluce la sua stessa divinità, (vv.4.40) e che troverà la sua piena manifestazione nella sua risurrezione (12,16.23), qui preannunciata; vi sono ancora i temi della morte e della vita, che dominano l'intero capitolo e viaggiano in parallelo tra loro; una morte che qui assume volti diversi come la malattia di Lazzaro prima e la sua morte poi, come la sofferenza, il dolore, il pianto, che ne conseguono e a cui fanno da contrappeso non solo la solidarietà umana (vv.19.31), ma anche quella divina (vv.33.35.36.38); una morte che non è mai percepita come una tragedia o come definitiva (vv.23-24), ma soltanto come un momento di passaggio verso la pienezza della vita (vv.4.11); mentre la risurrezione è qui colta non solo come l'affermarsi della vita, ma come la sorgente stessa della vita, a cui si accede attraverso il credere (vv.27.40). Luce, vita, gloria, risurrezione qui non sono concetti astratti, ma assumono il volto concreto di Gesù, che in essi si identifica (vv.25a).

Assieme ai racconti della Samaritana (4,1-43) e del cieco nato (9,1-38), anche questo è un capolavoro narrativo di Giovanni; tutti questi racconti sono stesi come una sorta di copione teatrale su cui un buon drammaturgo potrebbe facilmente realizzare una rappresentazione.

La macrostruttura struttura del cap.11 è scandita in tre parti: il segno (vv.1-46), la reazione delle autorità religiose a questo (vv.47-54) e, infine, la parte conclusiva (vv.55-57), che funge nel contempo anche da introduzione al cap.12. Una breve pericope, quindi, che potremmo definire di transizione, creando questa un collegamento logico-narrativo tra i due capitoli.

Quanto al racconto del segno (vv.1-46), esso si snoda su cinque quadri narrativi:


La parte finale (vv.55-57) va considerata di transizione perché nel concludere il cap.11 funge anche da introduzione al cap.12. Il v.57, già in qualche modo preannunciato dal v.46, denuncia gli effetti della delibera decretata dal Sinedrio circa la morte di Gesù (v.53): Gesù diventa un ricercato pubblico. Con i vv.47-54.57 la sterzata verso il Golgota, già preannunciata dai capp.7-8, trova la sua concreta attuazione. Passo dopo passo si va verso il compimento dell'ora, annunciata in 13,1.

Gesù, Lazzaro, Marta, Maria, i discepoli, i Giudei sono i personaggi che popolano questo racconto di morte e di vita, di dolore e di speranza, di fede in una Vita che genera e si rigenera e che per questo vince la morte. Gesù e Lazzaro si muovono in parallelo tra loro e percorrono assieme l'intero racconto: il primo è il portatore di Vita, il secondo di morte; il primo vince la morte, il secondo è vinto dalla morte, che dice il dominio che essa ha sull'uomo. Morte e Vita scorrono in modo parallelo lungo tutto il racconto in un confronto duellante che vedrà alla fine la morte sconfitta. Gesù, passo dopo passo, si rivelerà come risurrezione e vita (vv.25-26), come una vita rigenerata dalla risurrezione e per questo capace di generare altra nuova vita, divenendone fonte inesauribile; egli tuttavia si dimostra solidale con la condizione di sofferenza e di dolore in cui l'uomo è precipitato (vv.33.35). Lazzaro è un personaggio silenzioso: non una parola prima di morire, non una dopo essere tornato in vita; egli tuttavia è onnipresente ed è l'oggetto del dibattito di ogni gruppo di personaggi. Egli in qualche modo simboleggia la triste condizione dell'uomo, su cui ognuno si interroga e dà le proprie risposte di fede e di speranza, come per Marta (vv.21-22.27), anche se assalita da dubbi e incertezze (v.39); o di semplice dolore e sofferenza che rimangono senza risposta, come nel caso di Maria e dei Giudei, prigionieri del loro orizzonte umano, che ancora non sanno trascendere e che consente loro solo di piangere (vv.31-33); anche se questi ultimi, visto il segno portentoso, crederanno in Gesù (vv.45); mentre altri, invece, lo denunceranno alle autorità religiose (v.46). Ancora una volta Gesù crea divisioni e contrasti: chi crede e chi lo rifiuta; chi lo ammira e lo stima (v.36) e chi lo critica (v.37). E infine i discepoli, che qui svolgono il ruolo di persone che fraintendono (vv.11b-14) ed hanno difficoltà a comprendere ciò che sta per succedere (vv.7-8), tuttavia si fidano e si lasciano comunque guidare dal loro maestro (v.15) e si rendono comunque disponibili alla sequela fino a condividerne la sorte (16).

Quanto all'attendibilità storica del segno, come del resto per tutti gli altri sei segni qui riportati da Giovanni, diventa difficile provarne l'autenticità e azzardato è il crederci, se consideriamo come per gli evangelisti la preoccupazione primaria fosse l'elaborare cristologie e teologie, dare riferimenti dottrinali solidi alle proprie comunità, più che passare dati o informazioni storiche degli eventi accaduti all'epoca, anche per il diverso concetto di storia che gli antichi avevano rispetto il nostro; un concetto che privilegiava i contenuti e i significati degli eventi sull'evento stesso. Potremmo dire che i Vangeli sono elaborazioni di fede cristologica e teologica incorniciate nel contesto storico di quel tempo, l'unico di cui abbiamo riscontri storici oggettivi.

Commento al cap.11

Primo Quadro (vv.1-6): la premessa introduttiva

Testo

1- Ora, vi era un tale che era ammalato, Lazzaro da Betania, dal villaggio di Maria e di Marta sua sorella.
2- Ora, Maria era quella che unse il Signore con profumo e asciugò i suoi piedi con i suoi capelli, il cui fratello Lazzaro era ammalato.
3- Le sorelle dunque gli mandarono a dire: <<Signore, ecco, colui che ami è ammalato>>.
4- Ora, udito (ciò), Gesù disse: <<Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio>>.
5- Ora Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro.
6- Quando dunque udì che stava male, allora rimase nel luogo in cui era due giorni.


Note generali al Primo Quadro (vv. 1-6)

Questo primo quadro ha una funzione meramente introduttiva, il cui intento è quello di presentare i personaggi principali del racconto e i legami che intercorrono tra loro. Si sottolinea il particolare stato di gravità in cui versa Lazzaro; il termine malattia o il verbo corrispondente, infatti, è qui ripetuto, quasi in modo ossessivo, per ben cinque volte in sei versetti; un'insistenza finalizzata a contrastare con l'apparente negligenza di Gesù, che sembra prendersela comoda. Ma fin da subito si comprende come questo stato di malattia non è un preambolo di morte, ma di trionfo della vita, in cui si manifesterà la gloria di Dio, che si riverserà su Gesù. Apparentemente, poi, sembra esserci una nota stonata, il v.2, che così come si presenta non si inserisce bene a motivo dei tempi verbali, ma che comunque diventa significativo come richiamo inserito in questo contesto in cui morte e vita si rincorrono e si intrecciano di continuo.

Non so se fosse nelle intenzioni dell'autore, ma i nomi scelti sono molto significativi e si combinano bene tra loro3: Lazzaro, forma contratta di Eleazaro, significa “colui che Dio ha aiutato”; a questo nome si accosta bene quello di Gesù, che significa “Dio salva”. Il nome Marta invece definisce questo personaggio come la “Signora” e forse non è un caso che essa, sia in Luca che qui in Giovanni, sia presentata come una protagonista attiva e intraprendente, che tende a dominare e ad emergere nelle situazioni; mentre il nome Maria, nella sua derivazione egiziana, significa la “Prediletta” e lascia intuire un personaggio più dolce, passivo e remissivo, sempre accovacciato in vario modo ai piedi del Maestro (Lc 10,39; Gv 11,32), suo docile discepolo, prediletto, per l'appunto, da Gesù (Lc 10,42b); e infine Betania, che può assumere significati diversi, a seconda dove si fa cadere l'accento, per cui essa può essere compresa come “Casa del povero” o “dell'afflizione”, ma anche “Casa della misericordia o della grazia di Dio”, tutte comprensioni comunque molto significative. Vedremo poi come questo racconto della risuscitazione di Lazzaro lasci trasparire, quasi in filigrana, nel suo sottofondo una possibile diversa lettura e comprensione di tipo simbolico e metaforico, che va a completare quella ufficiale, indicata dal suo autore.

Questi tre nomi si ritrovano separatamente anche in due diversi racconti lucani (Lc 10,38-42; 16,19-31), benché i tre personaggi conservino il loro identico profilo caratteriale: Marta e Maria, la cui precedenza in ordine di apparizione qui in Giovanni è invertita, benché poi nel corso del racconto tutto torni secondo l'ordine lucano, appaiono come sopra detto, la prima attiva, la seconda passiva; mentre Lazzaro è una presenza silenziosa, attorno a cui scorre il racconto, divenendo soltanto oggetto di confronto e di riflessione sia in Giovanni che in Luca. Non staremo qui a disquisire se è nato prima l'uovo o la gallina, in altri termini chi ha copiato se Luca da Giovanni o viceversa. Tuttavia da una prima osservazione superficiale sembrerebbe che Luca si sia ispirato a Giovanni, sia perché il vangelo giovanneo ha avuto una gestazione iniziata intorno agli anni sessanta, mentre quello di Luca ha avuto la sua comparsa intorno agli anni ottanta; sia perché i personaggi giovannei si ritrovano in un unico racconto, contrariamente a quelli lucani che si distribuiscono su due racconti diversi. È più facile quindi pescare da un unico racconto, dove i personaggi ben tipizzati compaiono assieme, che raccoglierli e assemblarli assieme da due racconti diversi. Giovanni e Luca hanno diversi punti comuni nei loro vangeli, che sembrano trarre la loro origine più che da una comune fonte d'informazione, il cui materiale poi è stato diversamente elaborato, forse da un rapporto di amicizia, sorto probabilmente ai tempi in cui la comunità giovannea si era trasferita ad Efeso, luogo dove il vangelo giovanneo trova la sua definitiva redazione. Anche Luca è un greco e scrive per la sua comunità di greci; il suo vangelo nasce in Acaia, a circa 400 Km da Efeso, via mare, distanza non proibitiva così da non permettere il contatto tra i due evangelisti o le loro comunità. Non è quindi impossibile che i due o le loro comunità si siano trovati scambiandosi idee e materiale nell'ambito di un rapporto di amicizia e di collaborazione. Forse proprio per questo i due vangeli hanno diversi punti di contatto.


Commento ai vv. 1-6

Il cap.11 inizia senza alcuna indicazione temporale, che tuttavia verrà segnalata al termine del racconto stesso (v.55), all'interno di una pericope di transizione, che nel chiudere il cap.11 apre il 12. Con il porre l'annotazione temporale fra i due capitoli l'autore da un lato li collega tra loro, ponendo il cap.11 a ridosso della pasqua, che viene nuovamente richiamata in apertura del cap.12, che a sua volta diviene una sorta di ripresa (12,1-8) e di sviluppo del cap.11.

Il v.1 dà l'intonazione all'intero racconto dandogli il ritmo gradevole di una storiella: “C'era una volta un tale ...”. Il “tale”, ancor prima del suo nome, viene subito qualificato in modo anonimo con un participio presente “¢sqenîn” (astzenôn), che indica più che una situazione temporanea di malattia, uno stato di vita permanente che ha a che fare con la natura di questo tale. La malattia, pertanto, non è più qui una sorta di temporanea affezione morbosa, ma va ad intaccare e a minare permanentemente la struttura stessa della vita. L'anonimato con cui viene inizialmente indicato “colui che è ammalato” lascia in un certo qual modo intravvedere una sorta di universalità di questo stato di malattia, che diviene, proprio per il participio presente, una condizione di vita. Significativo l'uso del verbo “¢sqenšw” (astzenéo), che indica non solo uno stato di malattia, ma anche di sfinimento e di prostrazione esistenziale; esso significa infatti “essere debole, fiacco, senza vigore, impotente, essere nella penuria” . Si tratta dunque di una malattia che ha intaccato le radici più profonde della vita e che la sta mettendo in seria discussione, togliendole ogni speranza. In seconda lettura, pertanto, possiamo intravvedere qui la triste condizione esistenziale dell'uomo travolto dalla colpa originale. La risposta che verrà data da Gesù, qualificato come risurrezione e vita (v.25), diviene risolutiva per questo invincibile stato di cose.

Questo uomo viene ora indicato come “colui che Dio ha aiutato”, cioè Lazzaro, la cui provenienza è “da Betania”, cioè la “casa del povero o dell'afflizione”, che indica la realtà di sofferenza e di povertà in cui vive e da cui proviene, ma che l'incontro con la risurrezione e la vita trasformerà come il “luogo della misericordia e della grazia di Dio”, il secondo possibile significato di Betania. Un po' alla volta dunque viene a delinearsi da un lato la triste condizione dell'uomo dopo la colpa, spogliato della vita stessa di Dio (Gen 3,7) e rivestito di caducità (Gen 3,21), posto in una realtà degradata dal peccato (Gen 3,16-19.23); dall'altro la potenza divina, significata nello stesso nome di Gesù, “Dio salva”, che viene in soccorso all'uomo e che si sprigiona nella morte e risurrezione di Gesù stesso, che ricollocherà questo uomo e questa creazione nella vita stessa di Dio (Rm 8,19-23), dopo averlo attirato a sé (12,32).

Compaiono, ora, Maria e Marta, legate tra loro e a Lazzaro non solo da un rapporto di consanguineità, che parla di una comune origine e di un comune destino, ma anche dallo stesso luogo di dimora, Betania, il villaggio dove il Gesù sinottico, a ridosso della pasqua fatale si rifugerà abitualmente in attesa del compiersi degli eventi4. In qualche modo esse sono accomunate alla sorte di Lazzaro. Marta e Maria, la “Signora” e la “Prediletta” o, se si vuole, la “Signora prediletta” con riferimento probabilmente alla comunità giovannea, che proprio in 2Gv 1,1.5 è definita tale. Perché dunque scinderla in due nomi se è unico il soggetto di riferimento? Il motivo risiede nel duplice e contrapposto comportamento che forse si era delineato all'interno della comunità stessa nei confronti del Risorto: attivo e intraprendente nel cammino della fede, il primo (vv.20a.21-27), ma titubante e incerto nella testimonianza (vv.28.39-40); quiescente e passivo, quasi anonimo il secondo (v.20b). Anche Maria come Marta, all'annuncio della venuta di Gesù si alza prontamente e gli corre incontro e come Marta lo interpella, ma il suo dialogo finisce lì; non c'è un proseguimento nel cammino di fede (vv.28-32), che come Marta la porti ad una totale adesione (v.27).

Il v.2 si qualifica come un commento dell'autore, significativo perché proprio in questo contesto di morte e risuscitazione di Lazzaro, viene richiamata la morte di Gesù, attraverso la tecnica narrativa della prolessi, con cui si anticipa quanto verrà successivamente raccontato (12,1-8). Ma se fosse stato proprio questo il procedimento a cui l'autore pensava si sarebbero dovuti cambiare i tempi verbali dall'aoristo al condizionale: “Ora, Maria era quella che avrebbe unto il Signore con profumo e avrebbe asciugato i suoi piedi con i suoi capelli, il cui fratello Lazzaro era ammalato”. Ma rimane ancora una questione aperta: la parte conclusiva del v.2; un'annotazione che non sarebbe dovuta comparire, poiché già precisata al v.1. Comunque si mettano le cose, il v.2, se da un punto di vista teologico sembra ben collocato, dal versante narrativo e letterario suona decisamente fuori posto, una sorta di interpolazione, che dà l'idea di un versetto dimenticato lì a seguito di una riedizione del racconto.

Con il v.3 viene ripresa la narrazione. Si è ormai a ridosso della pasqua (vv.55; 12,1a), agli inizi della primavera. Gesù che in 10,40 era stato stanziato dall'autore a Betania di Perea nel periodo della festa della Dedicazione, in pieno inverno, viene ora richiamato in servizio da parte delle due sorelle Marta e Maria. Vi è nei vv.3 e 4a uno strano gioco di verbi, che, al di là dei loro soggetti, richiamano da vicino il rapporto di discepolato che lega tra loro questi personaggi: le due sorelle “mandano” a chiamare Gesù; il verbo qui usato è “¢pšsteilan” (apésteilan, mandarono), che fa del discepolo un mandato e mandante; un verbo che dice anche il richiamarsi del discepolo al proprio Maestro, quale punto di riferimento, a cui ci si “rimanda” per riceverne luce. Il rapporto che qualifica Gesù e Lazzaro, che qui non viene nominato, ma indicato attraverso una perifrasi: “colui che ami”, è proprio quello che lega tra loro maestro e discepolo. Il verbo usato è “file‹j” (fileîs), che significa “voler bene, trattare amorevolmente, prendersi cura, aver caro”; verbo che definisce un particolare rapporto di amicizia e di collaborazione. Significativo l'appellativo “Signore” con cui gli inviati si rivolgono a Gesù, colto qui nella prospettiva credente quale Risorto. Ed infine il verbo “ascoltare” riferito a Gesù: “¢koÚsaj” (akúsas), che se da un lato qualifica l'atteggiamento di ascolto accogliente del discepolo, dice anche l'atteggiamento accogliente del Maestro nei confronti del suo discepolo; un ascolto, quindi, dialogante che qualifica il rapporto tra i due. Il contesto che qui viene in qualche modo richiamato è quello proprio della comunità credente nel suo rapporto con il suo Maestro e Signore; una comunità, del resto, già in qualche modo indicata nei nomi di Marta e Maria, la “Signore Prediletta”, e di Lazzaro, “colui che Dio ha aiutato” in Gesù, “azione salvifica del Padre”.

Il v.4 fornisce la chiave di lettura dell'intero racconto: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio”. Un'espressione simile si era già incontrata in 9,3, dove si invitava a decifrare la cecità del cieco nato come il luogo in cui si sarebbe manifestata l'opera di Dio, che in quell'occasione era apparsa nell'operare di Gesù quale luce del mondo (8,12; 9,5). Lo stato di cecità, quindi, cioè l'incapacità congenita di cogliere Dio che interpella l'uomo nel suo Figlio Gesù, a motivo di una incredulità invincibile, che Giovanni definisce come il “peccato del mondo” (1,29) diviene il luogo del manifestarsi del Padre in Gesù luce del mondo; così similmente la malattia di Lazzaro, metafora di uno stato di vita sfinito e degradato dalla colpa originale, che ha reso l'uomo incapace di ritornare a Dio, ormai quiescente in una situazione di degrado esistenziale, diviene il luogo privilegiato dell'azione di Dio, in cui Egli manifesta la sua opera e la sua gloria. Opera e gloria con cui da un lato si descrive l'azione missionaria di Gesù, che opera il progetto salvifico del Padre: recuperare l'uomo alla sua primordiale dimensione divina da cui era uscito, simboleggiato in qualche modo dalla risuscitazione di Lazzaro; mentre dall'altro, con il termine gloria, si indica il manifestarsi di tale opera in e per mezzo di Gesù, che proprio per questo glorifica il Padre, attuandone la volontà (17,4). L'operare di Gesù, dunque, finalizzato ad attuare il disegno salvifico del Padre diviene atto glorificativo, cioè manifestativo, del Padre, che riverbera la sua gloria nell'uomo Gesù, indicandolo come il luogo unico ed esclusivo del suo operare, così che Gesù stesso viene in ciò glorificato dal Padre; una glorificazione che ha il suo vertice rivelativo e compiuto nella risurrezione. Per questo la malattia di Lazzaro, cioè lo stato di degrado esistenziale in cui versa l'uomo, non è più il luogo di morte, ma grazie al disegno salvifico del Padre, diviene luogo della manifestazione della vita divina, che si riflette in Gesù e da lui su Lazzaro, che diviene per questo “colui che Dio ha aiutato” ad uscire da uno stato esistenziale di morte, attraverso il suo aderire a Gesù, luogo in cui vive ed opera la stessa di vita del Padre, per mezzo della fede, che gli consente non solo di accedere alla vita divina in e per mezzo di Gesù, ma di divenire lui stesso luogo di dimora del Padre e di Gesù (14,23).

Il v.5, nel riportare il commento dell'autore, sottolinea questo stato di cose: “Ora Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro”. Il verbo greco qui usato per esprimere l'amore di Gesù non è più il “file‹j” (fileîs) del v.3, che indica un rapporto discepolo-Maestro, ma “ºg£pa” (egápa)5, un verbo che Giovanni usa prevalentemente per designare il rapporto che intercorre tra il Padre e Gesù, un amore che descrive la totale apertura di sé all'altro, la piena accoglienza dell'altro in sé e il totale dono di sé all'altro. Si tratta dunque di un amore che descrive un rapporto intercompenetrativo tra Gesù e il Padre, che fa dei due una cosa sola (10,32). Ed è proprio con questo tipo di amore che Gesù “amava” i tre fratelli, metafora della comunità credente; un amore dunque che riflette in se stesso quello che lega Gesù al Padre e che nel contempo lega a loro anche il credente, includendolo così nello stesso ciclo amoroso che è la vita divina. Significativo è il tempo verbale qui usato: l'imperfetto indicativo, che dice la persistenza nel tempo di questo amore che nel legare Gesù al Padre, lega a loro anche la vita dello stesso credente, qualificandola come vita in cui si riflette quella stessa di Dio.

Il v.6 si presenta singolare quanto sconcertante: “Quando dunque udì che stava male, allora rimase nel luogo in cui era due giorni”. Dopo la premessa dei vv.3 e 5, in cui si era decantato l'amore di Gesù per i tre fratelli, ci si aspetta ora che, all'annuncio della grave malattia che sta riducendo in fin di vita il caro amico Lazzaro, così tanto amato, vi sia una precipitosa corsa verso il suo capezzale o quanto meno, come avvenne per il secondo segno di Cana (4,46-54), la guarigione del figlio del funzionario regio, la pronuncia di una qualche parola potente, che risanasse all'istante l'amico. Invece nulla di tutto ciò. Un gioco rilevante in questo versetto, che esalta l'effetto dello sconcerto e dello stupore per l'irrazionale quanto illogica conclusione, hanno le due espressioni “æj oân ½kousen …... tÒte men œmeinen” (os ûn ékusen ….. tóte men émeinen) che introducono le rispettive affermazioni: “quando dunque udì ….. allora pertanto rimase”, quasi che il rimanere per i fatti propri e il non far nulla fosse la risposta più logica e più ragionevole che si potesse dare a fronte di un drammatico annuncio di una morte imminente. Lo sconcerto del lettore si trasforma in indignazione nei confronti di un Gesù che sembra del tutto assente di fronte al compiersi del dramma della morte, mentre con un solo gesto, una sola parola avrebbe potuto salvare l'amico, che invece lascia precipitare nella morte. Due sono i motivi che spingono l'autore a descrivere il comportamento così sconcertante di Gesù: il primo di ordine teologico; il secondo didattico. Il motivo di ordine teologico che sottende un simile comportamento, a dir poco disdicevole, risiede in quel “rimase nel luogo in cui era due giorni”. Due giorni dunque rimane nel luogo e nel terzo giorno Gesù, che si scoprirà al v.25 essere risurrezione e vita, s'incamminerà verso l'amico Lazzaro; soltanto dunque nel terzo giorno avrà inizio il gioco della vita che vince la morte. Un ulteriore forte richiamo alla morte e risurrezione di Gesù, che rimase nel sepolcro vinto dalla morte per due giorni, ma al terzo si rialzò in una esplosione di vita nuova in cui ogni credente e con lui l'intera creazione ne furono e ne sono coinvolti (Rm 8,18-23). Uno stato di cose in cui riecheggia in qualche modo la profezia di Os 6,2: “Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”. Il motivo di ordine didattico verrà sottolineato ai vv.14b-15: “Lazzaro è morto, e gioisco per voi perché non ero là, affinché crediate; ma andiamo da lui”. Questa indicazione si riallaccia in qualche modo a quanto Gesù aveva già affermato al v.4: la malattia è finalizzata a manifestare la gloria di Dio che si riversa sul Figlio e di conseguenza il credente, vedendo, venga confermato nella fede. Un aspetto quest'ultimo che si richiama in qualche modo alle nozze di Cana: anche là “al terzo giorno …. manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.” (2,1a.11b); così come viene sottolineata la finalità e il senso del nuovo e ultimo segno: quello di testimoniare che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio e così credendo si abbia la vita eterna (20,31).

Secondo Quadro (vv.7-16): dialogo tra Gesù e i discepoli


Testo a lettura facilitata

Il richiamo alla morte di Gesù ...

7- Quindi, dopo questo, dice ai discepoli: <<Andiamo di nuovo in Giudea>>.
8- Gli dicono i discepoli: <<Rabbi, ora i Giudei cercavano di lapidarti, e vai di nuovo là?>>.
9- Rispose Gesù: <<Non sono dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa, poiché vede la luce di questo mondo;
10- ma se uno cammina di notte inciampa, poiché la luce non è in lui>>.
11a- Queste cose disse,

che si riflette in quella di Lazzaro

11b- e dopo questo dice loro: <<Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma vado a svegliarlo>>.
12- Gli dissero dunque i discepoli: <<Signore, se si è addormentato si salverà.>>.
13- Ma Gesù aveva parlato della sua morte, ma quelli credettero che dicesse del riposo del sonno.
14- Allora Gesù disse dunque liberamente a loro: <<Lazzaro è morto,
15- e gioisco per voi perché non ero là, affinché crediate; ma andiamo da lui>>.
16- Disse dunque Tommaso, detto Didimo, ai condiscepoli: <<Andiamo anche noi per morire con lui>>.


Note generali al secondo Quadro (vv.7-16)

Questa pericope è delimitata dall'inclusione data dal verbo “Andiamo” (”Agwmen, Ágomen) in 7.16 con cui si apre e si chiude; un'inclusione che si qualifica tale non soltanto dal ripetersi dello stesso verbo, ma anche per complementarietà di espressioni e di senso, per cui al comando di Gesù “Andiamo di nuovo in Giudea”, luogo della morte di Gesù, fa eco l'adesione dei discepoli “Andiamo anche noi per morire con lui”, che richiama da vicino l'esortazione del Gesù sinottico, che definisce suo vero discepolo colui che lo segue sulla strada del rinnegamento di se stesso e dell'offerta di sé, che ha il suo vertice nella morte sacrificale6.

Come i capp.11,1-12,11 si muovono sul doppio binario della morte e risuscitazione di Lazzaro in cui si rispecchiano e sono preannunciate la morte e risurrezione di Gesù, così anche in questa pericope tutto gira attorno alla morte di Gesù (vv.7-11a) che si riflette e si preannuncia in quella di Lazzaro (vv.11b-16); due morti che potremmo definire tra loro “gemelle”, così come suggerisce il nome stesso di Tommaso, dall'aramaico tĕ'ōmā' che significa gemello ed ha il suo corrispondente greco in dídimos, che sollecita i condiscepoli ad unirsi alla morte di Gesù, quasi che il morire di Gesù si estenda a quello dell'uomo e come questo rifletta in se stesso, in qualche modo, quello di Gesù.

Come già si è potuto rilevare nella sezione della lettura facilitata, la pericope in esame è scandita in due parti narrativamente definite, la prima (vv.7-11a), dall'inclusione data dalle espressioni “dopo questo, dice ai discepoli”, posta in apertura del v.7a, e “Queste cose disse”, posta in chiusura della prima parte del dialogo al v.11a; la seconda parte (vv.11b-16) per esclusione dalla prima, riconoscibile comunque dal suo versetto di apertura che ripete e in qualche modo riprende l'apertura del v.7, dando in tal modo il segnale di inizio di un nuovo dialogo, quale ripresa e sviluppo del primo. La prima parte richiama in modo allusivo la morte di Gesù, così come la seconda si riferisce in modo metaforico a quella di Lazzaro. Sarà compito dei vv.14 e 16, al di là di ogni allusione, annunciare in termini espliciti e diretti la morte di Lazzaro e di Gesù. Con il v.14, infatti, si attesta fuori da ogni metafora che “Lazzaro è morto”; mentre con il v.16, l'esortazione di Tommaso evidenzia chiaramente il senso di quel “Andiamo in Giudea” proferito da Gesù e i conseguenti timori manifestati dai discepoli (vv.7-8). La finalità della pericope 7-16, pertanto, è quello di accentrare l'attenzione del lettore sulla morte di Gesù e su quella di Lazzaro, dapprima entrambe solo vagamente accennate, poi chiaramente annunciate, associandole assieme, quasi gemellandole tra loro nel nome stesso di Tommaso. Un parallelismo e un accoppiamento che appare più evidente anche nelle modalità con cui tali morti vengono decretate (11,47-48.53; 12,9-11).


Commento ai vv.7-16

Da un punto di vista narrativo la scena è ambientata a Betania di Perea dove Gesù, durante la festa invernale della Dedicazione (10,22), si era rifugiato (10,40) dopo i tentativi di linciaggio prima (10,31) e di arresto poi (10,39). Qui vi rimase per circa tre mesi. Sul far della primavera, indicata in 11,55 con l'annuncio della terza pasqua7, quella per lui fatale, lo raggiunge la notizia che il suo amico Lazzaro versa in gravi condizioni (11,3). È questa la notizia che lo spinge ad abbandonare il suo rifugio sicuro e, riattraversando il Giordano, ritornare in Giudea (v.11,7), dove tre mesi prima subì dei tentativi di aggressione da parte dei Giudei. Questa decisione provocherà lo sconcerto dei discepoli, che lo mettono in guardia dall'andarci (v.11,8).

Con i vv.7-8 ricompaiono dopo una lunga assenza i discepoli, visti l'ultima volta sulla scena in 9,2, dove essi interrogavano Gesù circa la causa della cecità del cieco nato: “Rabbi, chi peccò, costui o i suoi genitori, per essere nato cieco?”. In quell'occasione essi funsero da spalla a Gesù, provocandone la risposta: “Rispose Gesù: <<Né costui peccò, né i suoi genitori, ma affinché fossero manifestate in lui le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di chi mi ha mandato finché è giorno; viene la notte, quando nessuno può lavorare. Mentre sono nel mondo, sono luce del mondo” (9,3-5). La scena iniziale del cieco nato (9,2-5), qui sopra richiamata, viene sostanzialmente ripresa e parafrasata in questo nuovo contesto. Anche qui i discepoli fungono da spalla a Gesù provocandone la risposta, molto simile a 9,4-5: “Non sono dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa, poiché vede la luce di questo mondo; ma se uno cammina di notte inciampa, poiché la luce non è in lui” (vv.9-10). La risposta che Gesù dà alle preoccupate osservazioni dei discepoli gioca, secondo lo stile caratteristico di Giovanni, tra la metafora e l'ambiguità del linguaggio usato. Le dodici ore del giorno8 qui indicate si richiamano al tempo della missione di Gesù; essa è il tempo del giorno e quindi della luce piena, con chiaro riferimento alla rivelazione e al suo manifestarsi in Gesù; il camminare di giorno, che fa si che uno non inciampi, diviene la metafora del camminare in conformità alla sua parola rivelata, che salvaguarda il credente dal cadere così che per lui non vi è alcuna condanna (3,15-18). Ciò che dà sicurezza al credente è il fatto che egli “vede la luce di questo mondo”. Qui l'equivoco è rilevante. Il verbo vedere infatti è reso in greco con “blšpw” (blépo) che nel linguaggio giovanneo indica un vedere fisico, materiale e quindi il vedere “la luce di questo mondo” può intendersi come la luce del sole. Ma proprio nella sopra richiamata risposta di Gesù ai discepoli in 9,2-5, parallela a questa, Gesù dice di se stesso “Mentre sono nel mondo, sono luce del mondo” (9,5). Quindi Gesù nel mondo, luogo della sua missione, è luce del mondo; l'uso del verbo “blépo” inerisce quindi al “vedere” storico del seguace di Gesù, mentre egli compie la sua missione rivelatrice. La sottolineatura “di questo mondo” evidenzia una volta di più il suo manifestarsi storico. Questo forte richiamo e aggancio alla rivelazione che trova la sua origine storica nell'evento storico Gesù, forse può essere una stoccata al nascente docetismo e gnosticismo, che serpeggiavano all'interno della comunità giovannea. Non è un caso che 1Gv 1,1-4 sottolinei con forza il principio storico della rivelazione colto in modo sensibile nella concreta persona di Gesù, definito Verbo della vita, attraverso il vedere, il toccare, il sentire e il contemplare.

Il v.10 riprende il v.9 e lo riporta al negativo, secondo lo stile caratteristico della retorica ebraica, che nel gioco del chiaro-scuro e dei contrasti fa risaltare con forza il pensiero dell'autore: “ma se uno cammina di notte inciampa, poiché la luce non è in lui”. La particella avversativa “ma”, con cui si apre il v.10, accentua il tono di contrasto: al giorno, infatti, si contrappone la notte; al non inciampare si contrappone l'inciampare e al vedere la luce di questo mondo, ci si aspetterebbe il “non vedere la luce di questo mondo”; ma qui le cose cambiano inaspettatamente e il “non vedere la luce di questo mondo” è significativamente sostituito con “la luce non è in lui”. Cambia radicalmente la prospettiva: si passa da una visione apparentemente materialistica del v.9 ad una spiritualistica e morale del v.10. I toni qui infatti sono chiaramente metaforici e simbolici e di conseguenza spingono a leggere anche il v.9 in chiave metaforica e simbolica al fine di consentire un certo legame tra i due versetti, che altrimenti si porrebbero su due piani tra loro non solo diversi, ma anche inconciliabili. Compare qui infatti il termine “notte” che in Giovanni si ritrova altre cinque volte e quando compare non assume mai significati temporali, ma lascia trasparire aspetti simbolici e metaforici, come la notte di Nicodemo allorché si avvicinò a Gesù, ricordata due volte (3,2; 19,39); o come la notte di Giuda, quella del tradimento e del tragico smarrimento (13,30). Altro aspetto metaforico è l'espressione “la luce non è in lui”; dalla luce del giorno irradiata dal sole, come sembra ad una prima lettura, si passa qui ad un'altra luce che non proviene dal sole, ma da una condizione spirituale in cui si è scelto di vivere. Quel “in lui” parla appunto dell'interiorità dell'uomo con cui la luce del sole non ha nulla a che vedere. In altri termini il v.10, contrastando con il v.9, sottolinea il buio dello spirito e della vita che non sono illuminati dalla luce della rivelazione manifestatasi in Gesù.

Ma al di là degli aspetti metaforici o simbolici, la risposta di Gesù al v.9 è data per rassicurare i suoi discepoli: finché è giorno non si inciampa perché si cammina alla luce del sole. Il riferimento qui è all'ora di Gesù: finché egli deve compiere la sua missione in questo mondo nel tempo stabilito dal Padre non vi è alcun pericolo per lui, poiché la sua ora non è ancora venuta. In questa prospettiva, per contro, il richiamo del v.10 è rivolto ai suoi avversari e probabilmente anche a Giuda, che in qualche modo in 13,30 viene associato alla notte. Sono questi, infatti, che avendo respinto la sua parola e le sue opere camminano nel buio dello spirito, inciampando così in quella pietra che i costruttori hanno scartato e che è divenuta testata d'angolo e contro cui si sfracelleranno9.

Il v.11a mette un punto fermo alla prima parte del discorso di Gesù: “Queste cose disse”, predisponendo così il lettore ad un nuovo passaggio.

I vv.11b-16 formano la seconda parte del dialogo tra Gesù e i discepoli, e si suddividono in due parti: la prima, vv.11b-13, in cui la morte di Lazzaro, parallelamente e similmente a quella di Gesù in vv.7-8, è presentata in modo metaforico ed è fraintesa; la seconda parte, vv.14-16, al di fuori di ogni metafora o allusione, parlano con chiarezza sia della morte di Lazzaro (v.14) che di quella di Gesù (v.16).

Il v.11b inizia riprendendo la stessa espressione di apertura del v.7: “e dopo questo dice loro”, dando così il segnale di un nuovo inizio di dialogo riguardante la morte di Lazzaro; dialogo che si estende fino al v.13 ed è scandito in tre movimenti: a) l'annuncio metaforico che Lazzaro è morto; b) il fraintendimento; c) il commento dell'autore che rileva il fraintendimento, contrapponendo ciò che Gesù intendeva dire e quello che, a motivo dell'ambiguità della metafora, i discepoli hanno invece capito. Tutta questa costruzione accurata punta al v.14 dove Gesù con chiarezza annuncia la morte di Lazzaro. L'espressione “Lazzaro è morto”, infatti, costituisce il vertice di un lungo cammino che ha avuto il suo inizio nella parte introduttiva del racconto (vv.1-6) dove per ben cinque volte si annuncia che Lazzaro è ammalato, lasciando trasparire la gravità di questa malattia, che stava minando la sua vita. Un annuncio che riecheggerà altre quattro volte ai vv.21.32.37.39 e che viene rimarcato dal commento inequivocabile di Marta, che richiama a Gesù come ormai suo fratello sia da quattro giorni nella tomba e manda odore (v.39). Questo persistente ed ossessivo rimarcare la morte di Lazzaro ha come scopo di sottolinearne la reale morte. Non si tratta di uno stato di coma o di morte apparente, la quale cosa toglierebbe tutto il senso al segno, svuotandolo del suo significato, ma di una morte vera e propria, sottolineata anche dall'annotazione, ripetuta due volte (vv.17.39), che è morto da quattro giorni. Secondo la credenza dell'epoca infatti l'anima, dopo la morte, si aggirava attorno al suo corpo per tre giorni, lasciandolo definitivamente al quarto giorno. Nessun fraintendimento dunque circa la reale morte di Lazzaro e il suo richiamo in vita: Lazzaro è veramente morto e la potente parola di Gesù è parola capace di infondere la vita anche in chi è morto (v.25; 5,25).

Significativo è il verbo greco usato in 11b per indicare il risveglio di Lazzaro: “xupnzw” (exipnízo); un verbo che in tutta la Bibbia compare soltanto qui; esso letteralmente significa richiamare dal sonno, far uscire o uscire dal sonno e quindi risvegliarsi o svegliare, far alzare o alzarsi dal sonno. Sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento per esprimere un simile concetto si fa normalmente ricorso al verbo ge…rw (egheíro), che compare nell'A.T. 48 volte contro le 144 volte del N.T. In quest'ultimo assume un significato particolare e, insieme al verbo “¢nsthmi (anístemi, sollevare, far salire, alzarsi), indica la risurrezione di Gesù o il nuovo stato di vita del credente, passato attraverso il rito del battesimo, indicato come un risveglio ed una illuminazione. Il verbo quindi assume un significato particolare all'interno della chiesa primitiva che in questo contesto del cap.11 l'autore sembra voler evitare ed escludere al fine di non assimilare la risurrezione di Lazzaro a quella di Gesù. Si tratta certo di due risvegli dalla morte, ma sostanzialmente molto diversi e neppure lontanamente assimilabili tra loro, se non in modo metaforico o simbolico. Da qui probabilmente l'uso, quasi forzato, vista l'unicità assoluta ed esclusiva, del verbo “xupnzw” (exipnízo).

Il verbo ge…rw (egheíro) con riferimento alla risuscitazione di Lazzaro, per contro, verrà usato nel cap.12 tre volte (12,1.9.17). Ma qui cambia radicalmente sia il contesto in cui viene usato sia l'uso stesso che l'autore ne fa. Il contesto è fornito dall'introduzione del cap.12, che funge da cornice all'intero capitolo: “Gesù, dunque, sei giorni prima della pasqua andò a Betania, dove c'era Lazzaro, che Gesù risuscitò dai morti.” (12,1). L'autore quindi colloca il cap.12 a ridosso della terza pasqua, già preannunciata in 11,55, dopo comunque il racconto della risuscitazione di Lazzaro e in chiusura del capitolo stesso, in un contesto narrativo di transizione verso il cap.12. L'uso del verbo “ge…rw (egheíro) pertanto viene associato alla pasqua, la terza, quella propria della morte e risurrezione di Gesù, a cui viene in qualche modo legata quella di Lazzaro, che qui ne diviene esplicitamente un annuncio. Vi è poi il particolare uso che l'autore fa del verbo “ge…rw” (egheíro) con riferimento a Lazzaro e che richiama da vicino la formula liturgica con cui nella chiesa primitiva si indicava la risurrezione di Gesù: “½geiren ™k nekrîn” (égheiren ek nekrôn), “risuscitare dai morti”. Una formula che compare in tutto il N.T. circa una cinquantina di volte, in cui l'espressione “™k nekrîn” (ek nekrôn, dai morti) si accompagnata indifferentemente con il verbo “ge…rw (egheíro) o con “¢nsthmi (anístemi). L'uso che pertanto qui si fa del verbo “ge…rw” (egheíro) con riferimento a Lazzaro non lascia dubbi su che cosa l'autore intendesse dire e a che cosa intendesse riferirsi con la risuscitazione di Lazzaro. Qui non è più Lazzaro il centro d'interesse, ma ciò che esso ha significato e alluso e in qualche modo qui ne è divenuto figura: la morte e risurrezione di Gesù.

Il v.15, dopo l'annuncio a chiare lettere che “Lazzaro è morto” (v.14), presenta una sorta di chiosa sull'annuncio stesso, che in qualche modo, con riferimento ai discepoli, va a giustificare il ritardo di due giorni che Gesù accumulò dopo l'annuncio dello stato di malattia in cui versava l'amico (v.6): “e gioisco per voi perché non ero là, affinché crediate; ma andiamo da lui”. Il v.15 si apre con quel “kaˆ” (kaì, e) sconcertante perché lega la gioia di Gesù alla morte di Lazzaro, anzi ne fa in qualche modo una conseguenza; e perché non vi sia fraintendimento, viene detto chiaramente: “gioisco [...] perché non ero là”. Non stupisce una simile affermazione perché Gesù già aveva affermato al v.4 che “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio” e quindi, aggiunge il v.15, “affinché crediate”. La gioia di Gesù dunque consiste nel fatto che i suoi discepoli credano in lui. Ora, l'insieme dei due vv.4.15 richiama e ricrea in qualche modo il contesto delle nozze di Cana dove, a commento del segno, l'evangelista attestava che “Gesù fece questo inizio dei segni in Cana della Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11). Il segno, dunque, è finalizzato a manifestare la gloria di Dio e a stimolare la fede dei discepoli. È in ultima analisi, a ben vedere, lo scopo primario del vangelo giovanneo (20,31). È singolare come i due segni, quello delle nozze di Cana (2,1-11) e questo della risuscitazione di Lazzaro, che nell'ordine aprono e chiudono il Libro dei segni (1-12), siano strettamente legati tra loro dall'unico tema di fondo: la risurrezione di Gesù. Già, infatti, si era detto nel commentare il segno delle nozze di Cana come il racconto fosse incluso da due espressioni significative, che aprivano e chiudevano il racconto del segno: “E al terzo giorno […] manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”(2,1.11) con evidente riferimento alla risurrezione di Gesù, che verrà ripreso e completato con l'annuncio anche della sua morte nel racconto della cacciata dei venditori dal tempio (2,13-17), immediatamente seguente; anche questo episodio legato significativamente alla pasqua (2,13): “Rispose Gesù e disse loro: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo innalzerò>>. […] Ma quello parlava del tempio del suo corpo. Quando, dunque, fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che diceva questo, e credettero alla Scrittura e alla parola che disse Gesù” (2,19.21-22). Tutti tre i racconti (nozze di Cana, purificazione del tempio e risurrezione di Lazzaro) si concludono costantemente, nel rispetto delle finalità del vangelo giovanneo (20,31), con l'attestazione di fede dei discepoli (2,11.22; 11,15.27).

Il v.15 termina con l'esortazione di Gesù: “andiamo da lui”, che riprende in qualche modo quella iniziale, che provocò il timore dei discepoli (v.8): “Andiamo di nuovo in Giudea” (v.7); un “andiamo” che trova la sua eco al successivo v.16 in quello di Tommaso, che esplicitamente sollecita i condiscepoli: “Andiamo anche noi per morire con lui”. È proprio quest'ultimo “andiamo” che fornisce la chiave di lettura degli altri due: si tratta infatti di un andare “per morire”. Il senso finale di questo “andare” è reso in greco con la particela “†na” (ína, affinché), che ha come oggetto finale “il morire con lui”. L'andare di Gesù, dunque, è un andare verso la morte a cui Giovanni, attraverso Tommaso, unisce ogni credente10: “Andiamo anche noi”.

Terzo Quadro (vv.17-34): Marta e Maria, una fede attiva e una quiescente

Testo a lettura facilitata

I contesti temporale, geografico e i personaggi

17- Giunto dunque Gesù, lo trovò che era già da quattro giorni nella tomba.
18- Ora Betania era vicino a Gerusalemme, poiché (distava) da (essa) quindici stadi.
19- Ora molti dei Giudei erano venuti da Marta e Maria per confortarle del fratello.
20- Pertanto Marta, quando udì che Gesù viene, gli andò incontro; Maria, invece, era seduta nella casa.

L'incontro Gesù e Marta: la professione di una fede attiva

21- Disse dunque Marta a Gesù: <<Signore, se fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto;
22- ma anche ora so che quanto chiederai a Dio, Dio te (lo) darà>>.
23- Le dice Gesù: <<Tuo fratello risorgerà>>.
24- Gli dice Marta: <<So che risorgerà nella risurrezione nell'ultimo giorno>>.
25- Le disse Gesù: <<Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se morisse vivrà,
26- e ognuno che vive e crede in me non morirà per sempre. Credi questo?
27- Gli dice: <<Si, Signore, io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, che viene nel mondo>>.

L'incontro Gesù e Maria con i Giudei: una fede quiescente risvegliata

28- E detto questo, se ne andò e chiamò Maria, la sua sorella, dicendo di nascosto: <<Il Maestro è qui e ti chiama>>.
29- Ora quella, come udì, si alzò prontamente e andava da lui.
30- Ora, Gesù non era ancora giunto al villaggio, ma era ancora nel luogo dove Maria gli venne incontro.
31- I Giudei, dunque, che erano con lei nella casa e che la confortavano, avendo visto che Maria si alzò prontamente e uscì, la seguirono credendo che andasse alla tomba per piangere là.
32- Maria, dunque, quando venne dov'era Gesù, vistolo, si gettò ai suoi piedi, dicendogli: <<Signore, se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto>>.
33- Gesù, dunque, quando la vide che piangeva e i Giudei, venuti con lei, che piangevano, fremette nello spirito e si turbò.
34- E disse: <<Dove l'avete messo?>>. Gli dicono: <<Signore, vieni e vedi>>.

Note generali al Terzo Quadro

Se il Secondo Quadro, ambientato a Betania di Perea (10,40) a ridosso della terza pasqua (11,55), vedeva il confronto tra Gesù e i suoi discepoli, il cui dialogo si incentrava esclusivamente sulla morte di Gesù riflessa in quella di Lazzaro, questo Terzo Quadro viene contestualizzato a Betania di Giudea, nei pressi di Gerusalemme, a circa una quarantina di Km da quella di Perea. Qui abitano Marta e Maria, colpite dal grave lutto per la morte del fratello. Gesù vi giunge con un ritardo di quattro giorni rispetto al momento dell'annuncio della grave malattia di Lazzaro, che, a conti fatti, doveva essere morto proprio nel giorno in cui Gesù fu avvertito della sua malattia; due giorni dopo l'annuncio, infatti, Gesù li ha attesi prima di partire e altri due giorni sono stati impiegati per coprire la distanza di circa quaranta Km che separano le due Betanie, essendovi giunto al quarto giorno dalla sepoltura (i defunti infatti venivano sepolti il giorno stesso della morte11, come si può evincere anche dal v.39). Questo dato toglie Gesù da ogni responsabilità limitatamente al prolungamento della sua permanenza per altri due giorni in terra di Perea dopo l'annuncio (v.6) e dall'essersela presa abbastanza comoda durante il viaggio: una quarantina di Km si possono percorrere abbastanza agevolmente in dieci/dodici ore con passo un po' sostenuto.

I discepoli qui scompaiono dalla scena e appaiono all'orizzonte nuovi personaggi: Marta, Maria e i Giudei che gravitano attorno a Gesù e sono chiamati a relazionarsi a lui in una rapporto di fede. Ciò che provocherà questo nuovo dialogo e che li costringerà tutti a venire allo scoperto e a prendere posizione nei confronti di Gesù è, come per i discepoli, la presenza di Lazzaro, avvolto nel drammatico silenzio della sua morte. Una presenza che non è e non sarà più indicata con il nome proprio fino al momento della sua chiamata fuori dal sepolcro (v.43); il nome infatti definisce l'essenza della persona nella sua integrità, che qui la morte ha completamente distrutto.

Marta e Maria, più che veri e propri personaggi, si caratterizzano come diversi e contrapposti atteggiamenti di fede, che forse caratterizzavano la stessa comunità giovannea: una fede, come meglio vedremo, attiva e dinamica quella di Marta, che dà la sua solenne professione di fede, ma che trova difficoltà a testimoniarla apertamente; quiescente, ma risvegliata, benché non ancora pienamente compiuta, quella di Maria qui associata ai Giudei, divisi da contrapposte posizioni nei confronti di Gesù (vv.36.37.45.46).

L'intero quadro è focalizzato su tre aspetti di fondo che caratterizzano la persona di Gesù: la sua identità, definita come risurrezione e vita (vv.21-27); il suo sdegno per la diffidenza e l'incredulità nei suoi confronti (vv.33.38.40); e la sua solidarietà umana di fronte al dramma della morte, che semina sofferenza e dolore in mezzo agli uomini (vv.35). Saranno proprio questi elementi della personalità di Gesù che lo muoveranno verso la tomba di Lazzaro, restituendolo alla vita (vv.39-44); tre elementi che lasciano tralucere, da un lato la compassione di Dio verso la triste condizione dell'uomo, nonostante la difficoltà che questi ha nel credere e nel fidarsi di Dio; dall'altro il suo rendersi solidale con gli uomini per restituirli, proprio attraverso questa sua solidarietà, alla loro primordiale condizione di vita, allorché essi erano ancora incandescenti di Dio. Tre elementi, infine, che sono alla base dello stesso progetto di salvezza, che il Padre sta attuando nel suo Figlio Gesù e in qualche modo significato nella morte e risurrezione di Lazzaro, ma che proprio per l'incredulità o la debolezza della fede lo possono anche inficiare.

Questo terzo quadro è narrativamente suddiviso in tre parti: la prima (vv.17-20) presenta il contesto temporale e geografico in cui si colloca l'azione, nonché i personaggi che lo popolano; la seconda (vv.21-27) è incentrata sulla figura di Marta, metafora di una fede attiva, che trova il suo vertice nella sua solenne professione al v.25; la terza parte (vv.28-34) presenta la figura di Maria, metafora di una fede fragile, ma che sa rialzarsi e riproporsi, benché le serva ancora un lungo cammino per giungere alla maturità di quella di Marta. Nessuna professione di fede infatti viene qui compiuta, ma soltanto un muoversi in uno sconsolato dolore, che non sembra avere ormai più nessuna risposta. Un dolore ed una sofferenza che comunque qui trovano il sostegno della solidarietà umana dei Giudei prima e di Gesù poi.

Commento al Terzo Quadro (vv.17-34)

I contesti temporale, geografico e i personaggi (vv.17-20)

Quanto fin qui raccontato si è svolto a Betania di Perea dove, al v.10.40, si erano lasciati Gesù e i suoi discepoli durante o subito dopo la festa invernale della Dedicazione (10,22). Nessuna notizia del loro soggiorno in Perea, durato, come si è visto, circa tre mesi, dalla Dedicazione, cadente tra metà e fine dicembre, alla terza pasqua (11,55), che cade tra marzo e aprile. Sarà soltanto l'annuncio della grave malattia di Lazzaro (v.3) a rimetterli in scena e a smuoverli dal loro rifugio per incamminarli verso Betania di Giudea. Un incamminarsi scandito da tre “Andiamo”, che si muovono sullo sfondo di una previsione di morte (vv.7.15.16). Un “Andiamo” e un “incamminarsi” verso il morire a Gerusalemme che in qualche modo richiama il viaggio del Gesù lucano, che occupa un'ampia sezione di ben dieci capitoli del racconto di Luca (9,51-19,28), interamente dedicati al deciso volgersi di Gesù verso Gerusalemme dove si compirà la sua morte e risurrezione. Significativo è l'annuncio di questo viaggio: “Accadde che nel compiersi i giorni della sua ascensione anch'egli indurì il volto del (suo) incamminarsi verso Gerusalemme”12 (Lc 9,51). Anche qui Luca in 9,51a, similmente a Giovanni, richiama in qualche modo il compiersi dell'ora, quella della “sua ascensione”, che assume qui diversi significati: ascensione verso Gerusalemme, sulla croce e al cielo, nel suo ritorno al Padre; mentre in 9,51b vi è in quel “indurimento del volto” rivolto con fermezza a Gerusalemme, luogo della sua morte, un forte richiamo al sofferente Servo di Jhwh: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso” (Is 50,6-7). Anche qui, il Gesù giovanneo inizia il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, benché non punti ancora direttamente su Gerusalemme, poiché la sua ora non è ancora venuta (v.9), ma nei suoi pressi, a Betania, vicino a Gerusalemme, da cui dista soltanto quindici stadi. Si tratta dello stadio alessandrino13, in uso presso la Palestina in epoca ellenistica, che misura circa 185 mt. Betania dunque distava da Gerusalemme soltanto poco meno di tre Km. Significativo qui il parallelismo che intercorre tra l'ora e i luoghi geografici: l'avvicinarsi dell'ora corrisponde infatti geograficamente anche l'avvicinarsi a Gerusalemme, mentre il compiersi dell'ora vede Gesù a Gerusalemme (12,12. 13,1). Con l'indirizzare Gesù a Betania di Giudea a ridosso della pasqua, quella fatale per lui, Giovanni si allinea ai racconti Sinottici. Betania infatti, secondo il loro racconto, era il luogo in cui Gesù si rifugiava dopo la sua attività missionaria a Gerusalemme, che, negli ultimi giorni, si concluse con pericolosi scontri con le autorità giudaiche, che ne determineranno la cattura e la morte.

Gesù vi giunse dopo quattro giorni dalla sepoltura di Lazzaro, un tempo, come si è visto nelle note generali, congruo. La segnalazione temporale è finalizzata a sottolineare l'effettiva morte di Lazzaro. Secondo la credenza dell'epoca, infatti, l'anima del defunto rimaneva nei pressi del corpo per tre giorni, lasciandolo definitivamente il quarto, togliendo quindi ogni speranza di ritorno in vita14. La precisazione va a supporto della potenza del segno che Gesù sta per operare, qualificandolo così come indiscussa fonte di vita (v.25).

Il v.19, che funge da premessa preparatoria alla scena del v.31, fa parte, come vedremo, del rituale funebre del tempo.

Il v.20, che funge da premessa introduttiva alla pericope vv.21-34, presenta due personaggi tra loro contrapposti, che delineano due diversi atteggiamenti di fede. La prima parte del v.20 è dedicata a Marta; essa è descritta come colei che “udì” e “ andò incontro a lui”. Ciò che essa udì è “Gesù viene”. È dunque un Gesù indicato in un movimento posto al presente, che dice il suo continuo venire, il suo continuo essere presente nella sua parola, che Marta “udì”. Ed è questo suo udire che la mette in movimento verso Gesù: “andò incontro a lui”. Viene qui descritto il movimento della fede che nasce dall'ascolto accogliente della Parola, che si pone nei confronti dell'uomo in un continuo presente, sollecitandolo nella sua risposta. Vedremo come questa parola, che mette in moto Marta verso Gesù, troverà il suo vertice nella solenne professione di fede al v.27.

La seconda parte del v.20 si apre significativamente con un “Mari¦m de” (Mariàm de), “Maria invece”, che contrappone questa figura alla precedente. Se Marta, infatti, all'udire fa subito seguire il movimento che la conduce verso il Gesù che viene, dando l'idea di una risposta esistenzialmente dinamica e pronta, che la spinge alla ricerca di Gesù, Maria, invece, è descritta come colei che in casa “era seduta”. Il verbo greco qui usato è “™kaqšzeto” (ekatzéseto), che oltre a significare “star seduto” dice anche “indugiare, fermarsi”; un verbo qui posto all'imperfetto indicativo ed indica il persistere di questo comportamento; un comportamento che lascia trasparire tutta l'indecisione e l'insicurezza di una fede che è sopita e abbisogna di essere risvegliata. Maria è seduta “in casa”, che nel linguaggio evangelico, più frequente nei Sinottici che in Giovanni, ma non ad esso estraneo15, assume il significato metaforico della comunità credente, il luogo dove Gesù è presente in mezzo ai suoi16. Forse un richiamo dell'evangelista a quella parte della sua comunità dalla fede ancora tiepida e incerta nei confronti del Risorto, datore di vita. Non a caso al v.31 Maria è associata ai Giudei, che sono con lei nella casa; quei Giudei che nei confronti di Gesù si mostreranno divisi (vv. 36-37).

L'incontro Gesù e Marta: la professione di una fede attiva (vv.21-27)

La pericope in esame si presenta come una schermaglia dialogica molto vivace tra Marta e Gesù ed ha come tema di fondo la risurrezione. Il dialogo è scandito in tre parti: a) i vv.21-22 presentano il lamento di Marta per la morte del fratello, sotteso da una speranza; b) i vv.23-24 nel rispondere alla recondita speranza di Marta, introducono il tema della risurrezione; c) i vv.25-26 riportano la professione di fede nella vera risurrezione. Si tratta di un breve quanto intenso dialogo che traccia un cammino di fede o forse è meglio dire il passaggio da un certo tipo di fede tradizionale (vv.21-22.24) ad una nuova fede rivelata (23.25-27). Un passaggio che richiama molto da vicino quello a cui era sollecitato lo stesso giudaismo: da una fede fondata sul mosaismo ad una nuova, rivelata, fondata sulla persona di Gesù. Come si vedrà subito, non si tratta di due fedi contrapposte tra loro, ma integrantesi in una spinta evolutiva e innovativa, in cui la prima trova il suo completamento nella seconda. Il passaggio cruciale di questo dialogo sono i vv.23-24 che intrecciano tra loro due tipi di credenze circa la risurrezione, che non sono contrapposte l'una all'altra, ma proprio grazie a questo gioco, si annodano in un certo qual modo tra loro, creando una sorta di continuità evolutiva, in cui la prima fede viene ripresa e proiettata in una nuova, che si prospetta non come contraria alla prima, ma come sua evoluzione. Marta infatti parla di una risurrezione legata alla tradizione giudaica; Gesù, pur non rifiutandola, ne preannuncia una nuova, che ha come fondamento la sua stessa persona.

L'incontro di Marta con Gesù si apre con un lamento (v.21), che protesta un'attesa dolorosamente delusa. Forse nel v.21 si può in qualche modo percepire una sorta di rituale funebre che prevedeva il lamento per il defunto. Nella sua forma più semplice e immediata era soltanto un grido acuto, ripetuto più volte, a cui veniva associato il nome del defunto, chiamato anche per titolo di parentela: fratello mio, sorella mia, padre mio, ecc. Ma queste vistose esternazioni di dolore potevano anche svilupparsi in un canto funebre, la qînah, di cui abbiamo un esempio in 2Sam 1,17-2717. Anche Maria nell'incontrarsi con Gesù ripete l'identica espressione di Marta (v.32), forse la ripresa di un comune lamento, anche se il contesto differirà di molto. Il lamento di Marta, infatti, si completa al v.22 con un atto di fede che apre alla speranza: “ma anche ora so che quanto chiederai a Dio, Dio te (lo) darà”. Un atto che si apre con un “ma” avversativo che si contrappone al lamento di morte: “ma anche ora so”. Torna ancora una volta qui il verbo “oŒda” (oîda) che caratterizza il sapere della comunità giovannea, il quale si radica nella certezza della fede, che la apre fiduciosa a Gesù; ma è l'espressione “anche ora” (kaˆ nàn, kaì nîn), che carica di significato quel sapere e che dice “nonostante che mio fratello sia morto in modo irreparabile, da quattro giorni”, nonostante ciò “io so”. In qualche modo Marta sembra preludere ad un intervento riparatore e risolutivo di Gesù, che verrà fra poco confessato “Cristo e Figlio di Dio” (v.27) e qui sollecitato a rivolgersi a Dio, che certamente l'ascolterà. Anche quest'ultima certezza di Marta, che sa, verrà ripresa e confermata dai vv.41-42, dove Gesù si rivolge al Padre, ringraziandolo per averlo ascoltato. Il v.22, pertanto, è molto denso e lascia trasparire la fede sincera di Marta nei confronti di Gesù e ne prelude la solenne dichiarazione. E che sia così lo lascia intuire quel perfetto indicativo “pep…steuka” (pepísteuka, ho creduto) che si trova al v.27; un tempo verbale questo che parla di un'azione sorta nel passato, ma che produce ancora i suoi effetti nel presente. Con questo perfetto, “pep…steuka”, combinato con il v.22 l'autore lascia trasparire come Marta di fatto, allorché si avvicina a Gesù con il suo lamento, fosse già in qualche modo sua discepola; una discepola che l'avvicinarsi di Gesù ha risvegliato, conducendola ad una aperta professione nei suoi confronti. Marta, “la Signore”, forse figura in qualche modo di quella parte di comunità giovannea che credeva in Gesù, ma aveva bisogno di maggior coraggio per professarlo apertamente Cristo e Figlio di Dio. Del resto se l'autore pone come scopo principale del suo vangelo, raccontato attraverso sette segni, il credere che Gesù sia il Cristo e il Figlio di Dio, e lo fa rivolgendosi direttamente alla sua comunità (“affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate” 20,31), ciò significa che in essa, quasi certamente per la parte giudeocristiana, vi era un qualche problema nel riconoscere nell'uomo Gesù il suo messianismo e la sua figliolanza divina. Un identico problema lo troviamo nel vangelo di Matteo, che ha di fronte a sé una comunità composta quasi esclusivamente di giudei, e a questo problema egli dedica i capp.14-1718.

I vv.23-24 costituiscono il cuore della pericope (vv.21-27) sia perché viene qui introdotto il tema della risurrezione, sia perché si intrecciano tra loro due diversi saperi: quello di Gesù che, rispondendo al lamento di Marta, le preannuncia ciò che sta per fare e che nasce dalla sua coscienza di essere risurrezione e vita (v.25); e quello di Marta, che, riprendendo l'attestazione di Gesù, la inquadra, invece, nel contesto della sua fede giudaica, che prevedeva la risurrezione dei morti nel tempo escatologico19, il tempo di Dio, che per Giovanni si è già attuato in Gesù. Vi è quindi una sorta di fraintendimento, che nasce dal verbo risorgere posto al futuro, che Marta colloca alla fine dei tempi, mentre per Gesù quel futuro si è già reso presente in lui. Per questo egli userà al v.25 il verbo essere al presente indicativo: “Io sono la risurrezione e la vita”. Le attese escatologiche di Marta pertanto non vanno rinnegate, ma soltanto ripensate e ricollocate non più in un ignoto futuro escatologico, nascosto in Dio e insondabile per l'uomo, ma nella persona stessa di Gesù, in cui tutto è compiuto (19,30a) e in cui ogni potere è stato riposto (10,18; 13,3; 16,15; 17,2), così che egli è la pienezza e il compimento (Mt 5,17). Marta è dunque una credente in cammino, che deve evolvere la propria fede attraverso il raggiungimento di una nuova conoscenza e una nuova comprensione della persona di Gesù: non un profeta che Dio ascolta; non un potente taumaturgo tutto fare e a buon mercato, ma il luogo della manifestazione della potenza stessa di Dio, generatore di vita per il credente. È questo dei vv.23-24 un passaggio cruciale perché nell'incrociarsi di due diverse concezioni di risurrezione e di escatologia viene posta la premessa ai vv.25-27, che formano il vertice di questo cammino evolutivo di fede.

Il fraintendimento di Marta consente a Gesù di rilanciare la posta e di prospettare un nuovo concetto di risurrezione, aprendo le attese di Marta ad un nuovo orizzonte escatologico: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se morisse vivrà, e ognuno che vive e crede in me non morirà per sempre. Credi questo?”. La costruzione della frase consta di tre parti:

  1. Un'attestazione rivelativa, che funge da principio fondativo del credere, su cui Marta sarà chiamata a pronunciarsi: “Io sono la risurrezione e la vita”. Torna nuovamente la caratteristica formula giovannea, che definisce l'identità divina di Gesù: “Io sono” qui accompagnata dagli appellativi “risurrezione e vita”, che delineano un nuovo aspetto identitario di Gesù. Il binomio forma un'accoppiata esclusiva poiché la risurrezione ha a che fare con la vita e la vita presuppone, come vedremo subito, la risurrezione. Il concetto di risurrezione è sinonimo di trasformazione e di conseguenza di generazione. Paolo, scrivendo alla sua comunità di Corinto, si interroga sul come risuscitano i morti e con quale corpo; e attraverso alcuni esempi lascia intendere come i corpi subiranno un passaggio sostanziale, cioè una trasformazione che va a modificare la consistenza stessa della corporeità: da corruttibile a incorruttibile, da materiale a spirituale, da ignobile a glorioso, da debole a pieno di vigore (1Cor 15,35-53). Con la risurrezione dunque viene operata una modificazione che va ad intaccare la struttura e l'essenza stessa della corporeità dell'uomo e delle cose, producendone una trasformazione, che diviene sinonimo di generazione ad un nuovo stato e ad una nuova condizione di vita, che colloca l'uomo in una nuova dimensione del suo essere e del suo esistere. La risurrezione dunque nel trasformare genera l'uomo e il cosmo intero ad un nuovo stato di vita (Rm 8,19-23), che consente all'uomo di poter accedere alla stessa vita di Dio, diversamente impossibile. Lo ricorda Paolo nel suo lungo discorso sulla risurrezione: “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità” (1Cor 15,50). Dio e il suo mondo sono spirito di vita e l'uomo necessita di questa trasformazione per essere ricollocato in quel mondo da cui, decaduto, proviene. Si faccia attenzione, però, la risurrezione non è negazione di corporeità, così che l'uomo perde la sua consistenza corporea per diventare un puro spirito come lo è Dio e lo sono gli angeli, ma è la sua corporeità che viene spiritualizzata, cioè modificata in modo tale da poter essere compatibile con la vita divina e con le realtà di Dio, così come lo era stata agli inizi. La risurrezione dunque genera ad una nuova vita, che per sua natura è e non può che essere una vita nello Spirito, che è vita stessa di Dio. In altri termini con la risurrezione la corporeità dell'uomo viene permeata della vita propria di Dio, che è vita nello Spirito. Con la risurrezione dunque si ricrea il primordiale stato di cose in cui Dio soffiò con la potenza del suo Spirito sull'uomo, che divenne essere vivente, permeato della stessa vita di Dio, allorché Egli aveva decretato di fare l'uomo a sua immagine e a sua somiglianza. La risurrezione riconduce dunque allo status quo l'uomo e con lui l'intero cosmo, quando, essi erano ancora incandescenti di Dio. Ma tutto ciò non avviene per virtù propria, ma trova il suo motore rigenerativo in Gesù stesso, morto-risorto. In lui infatti il Padre ci ha scelti prima della creazione per attuare la nostra santificazione, cioè la nostra assimilazione alla vita divina; “in lui” perché è “in lui” che il suo progetto salvifico universale ha previsto di ricapitolare l'intera creazione (Ef 1,4.10). In questo orizzonte rivela dunque tutta la sua consistenza quel “Io sono la risurrezione e la vita”, che diviene il nucleo fondativo di una nuova creazione, ricollocata in Dio.

  2. Dopo aver indicato in Gesù l'Io sono, che è risurrezione e vita, con tutto ciò che questa attestazione comporta, come si è visto, Giovanni addita anche la strada per accedervi, rendendo così il credente partecipe del progetto divino di salvezza universale, pensato dal Padre nel suo Figlio: “chi crede in me anche se morisse vivrà, e ognuno che vive e crede in me non morirà per sempre”. Una sentenza dai ritmi sapienziali formulata in forma chiasmica, che riassume in sé in modo efficace diverse sentenze di fede nella potenza rigenerativa di Gesù fin qui incontrate (5,28; 6,39.44.54; 8,51); formule che l'autore qui rilancia in prospettiva universalistica, significata nell'anonimato dei soggetti, che ne fanno una sorta di principio dottrinale: “chi; ognuno che”. I tempi verbali sono giocati tutti tra il presente indicativo e il futuro, che qui non assume significati escatologici, ma di un presente continuamente iterato all'infinito, sottolineato dall'espressione “per sempre” (e„j tÕn a„îna, eis tòn aiôna). I verbi al presente indicativo (crede, vive) richiamano il credente nel suo impegno hic et nunc, mentre quelli al futuro (vivrà, non morirà) proietta in avanti il suo impegno, così che tutto lo spazio temporale del suo esistere ne sia in qualche modo coinvolto. La sentenza si compone di due parti, in cui la seconda riprende, riformulandola, la prima, secondo la logica della retorica ebraica. La prima parte attesta che “chi crede in me anche se morisse vivrà”; l'assunto principale qui è “chi crede in me … vivrà”, dove il “credere in me” è reso in greco con “Ð pisteÚwn e„j ™mš” (o pisteúon eis emé), in cui la particella “eis” imprime alla fede la dinamica stessa della vita, colta qui come l'orientamento esistenziale del credente verso (eis) Gesù. Si tratta qui di un cammino esistenziale radicato nella fede, che colloca il credente nella vita stessa di Dio già fin d'ora in modo duraturo (vivrà). Quale sia la forza generativa di vita del credere, questa viene sottolineato dal paradosso “anche se morisse”. Si tratta dunque di un credere capace di vincere anche la stessa morte. Ma di quale morte qui si tratta? Certamente la morte, qui collocata in un contesto di tipo sapienziale, non sembra avere significati di tipo fisico, ma spirituale. Il credente quindi, anche se spiritualmente morto, può comunque essere rigenerato alla vita divina per virtù del suo credere. Quel “anche se morisse” lascia infatti intendere che questa morte lo possa raggiungere nel suo cammino di fede o comunque nel suo stato di credente. Nella seconda parte della sentenza si attesta “e ognuno che vive e crede in me non morirà per sempre”. Il “chi crede … vivrà” della prima parte, viene qui ripreso e riformulato specularmente: “ognuno che vive e crede in me”; un'espressione forte che lascia intendere come il vivere è credere in Gesù; un modo di vivere la propria fede che Paolo ha inteso come una comunione di vita con il Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Una riflessione che Paolo ha sintetizzato in modo lapidario e molto efficace in Fil 1,21a: “Per me vivere è Cristo”.

  3. Dopo la solenne esposizione dottrinale della seconda parte della sentenza, il v.26 si chiude in modo brusco e quasi inatteso, una sorta di sferzata che colpisce duro: “Credi questo?”. Una domanda fatta a brucia pelo, che pone Marta di fronte ad un bivio e la costringe ad una scelta radicale, che la apre alla strada della vita o a quella della morte. Non ci sono molti ragionamenti da fare, poiché la fede non è mai la conclusione di un bel ragionamento, ma soltanto una scelta ragionevole di vita: o la fai o non la fai, con tutte le rispettive conseguenze. Il senso e l''importanza della domanda sono contenuti nella sua stessa formulazione: “pisteÚeij toàto;” (pisteúeis tûto?, Credi questo?). Il verbo credere in greco può essere fatto seguire da particelle come “eis, en, dia, ecc.” con cui si esprimono i diversi modi di credere; oppure il verbo può essere fatto seguire da un dativo, che dice come questo credere sia soltanto un aver fiducia; ma quando, come in questo caso, il verbo credere è fatto seguire da un sostantivo, da un nome o da un pronome posto in accusativo, allora in questo caso il sostantivo costituisce l'oggetto del credere, ciò che va a sostanziare la propria adesione di fede. Il credere allora assume il significato del credere dottrinale, quello che la scolastica definirà, circa tredici secoli dopo, la “fides quae creditur”, che descrive i contenuti della fede a cui si aderisce intellettivamente. Ma il mettere a fuoco gli aspetti dottrinali della fede dice come qui si è giunti ad una svolta radicale, che sottolinea l'importanza e la fondamentalità dell'oggetto che si è chiamati a credere e che Giovanni indica a quella parte della sua comunità costituita da giudei e in qualche modo richiamata in Marta, che aveva difficoltà a credere in un Gesù quale Cristo e Figlio di Dio. Da qui l'importanza della scelta e della risposta di Marta.

Alla sferzante richiesta del credere (v.26), Marta prende una decisa posizione sintetizzata al v.27, in cui si sente solidale e solida la risposta della comunità giovannea: “Si, Signore, io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, che viene nel mondo”. Non si tratta qui di un riconoscimento della messianicità o della divinità di Gesù, come similmente avvenne per i Samaritani (4,42) o per il cieco nato (9,35-38), ma di una conferma di una fede vacillante, che viene nuovamente riconosciuta e attestata. Il verbo credere, infatti, è qui posto al perfetto indicativo (pep…steuka, pepísteuka, ho creduto), che indica un'azione sorta nel passato, i cui effetti perdurano anche nel presente. Marta, dunque, metafora della comunità giovannea, è già una discepola, che non ha bisogno di credere, ma di confermare la sua fede. Non a caso essa professa Gesù come Signore, Cristo, Figlio di Dio, colui che viene, ma lo indica a sua sorella come Maestro (v.28), caratteristico questa del discepolo. Quanto qui Marta professa è una formula di fede molto densa, in cui ogni parola costituisce un titolo di fede riconosciuto: “Si, Signore”, (Na…, kÚrie, Naí, kírie), un'espressione che ricorre in Giovanni altre due volte (21,15.16) e va a rafforzare, come una sorta di giuramento, quanto di seguito viene attestato. L'appellativo “Signore” confessa la signoria universale del Risorto; con “Cristo” se ne riconosce la messianicità; con “Figlio di Dio” si attribuisce a Gesù la sua figliolanza divina e la sua stessa divinità; con l'espressione “colui che viene nel mondo”, in greco “Ð e„j tÕn kÒsmon ™rcÒmenoj”, fatta dipendere dall'appellativo “Figlio di Dio”, si riconosce come questa messianicità sia di natura divina, cioè Gesù è l'inviato divino uscito da Dio e venuto qui nel mondo (8,42; 16,28a.30; 17,8). L'espressione “Ð [...] ™rcÒmenoj” infatti nel linguaggio dei vangeli indica il messia come colui che viene o che deve venire, letteralmente il veniente. Ci si trova dunque di fronte ad una attestazione di fede, che in realtà è una raccolta di titoli attribuiti a Gesù, che nel loro insieme costituiscono una sorta di primo e rudimentale atto di fede, di natura dottrinale, corrispondente al nostro “Credo”.

L'incontro Gesù e Maria con i Giudei: una fede quiescente risvegliata (vv.28-34)

Con la solenne professione di fede di Marta in risposta all'altrettanto solenne manifestazione di Gesù, rivelatosi come risurrezione e vita, capace di donare la vita a chiunque crede in lui (vv.25-26), l'autore aveva già elementi cristologicamente e dottrinalmente sufficienti e significativi per poter soprassedere alla pericope 28-34 ed accedere direttamente al segno, che si richiamerà proprio alla professione di fede di Marta (v.40). Anche da un punto di vista narrativo se si togliesse la pericope in esame (vv.28-34) il racconto non ne risentirebbe in alcun modo. Perché dunque Giovanni prima di giungere al dunque del segno si dilunga su questo episodio di Maria che nei vv.28-30 ricalca sostanzialmente l'episodio di Marta, facendone una sorta di doppione? L'autore aveva prospettato già al v.20 un confronto tra Marta e Maria, tra due atteggiamenti di fede: il primo, quello di Marta, prontamente reattivo all'annuncio del Gesù che viene, e si conclude con una solenne professione di fede della stessa. Marta poi è quella che corre a dare la sua testimonianza e ad annunciare a Maria la venuta del Maestro, risvegliandola dal suo sonno. Una fede encomiabile. Non altrettanto si può dire di Maria, che l'autore presenta come seduta, espressione di una fede languida e dormiente, quasi inconsistente. Ma vedremo subito come entrambi i tipi di fede non hanno ancora raggiunto la loro maturità e la loro pienezza: il primo tipo di fede, quello di Marta, è esuberante e dinamico, ma la sua testimonianza è fiacca e non ancora convinta; quello di Maria, inizialmente seduta, ha un sussulto, e un risveglio, che non riesce però a portare a compimento neppure nell'incontro con Gesù.

Il v.28 funge da trait-d'union tra l'episodio dell'incontro Marta-Gesù e quello Maria-Gesù, ma nel contempo mostra la consistenza della fede di Marta. Esso si apre ricollegandosi alla professione di fede di Marta: “E detto questo”, dando così continuità tra questa e quanto qui ora sta accadendo. Dalla solenne proclamazione di fede di Marta si trae l'idea di una fede che poggia sulla piena e matura comprensione della persona di Gesù, che forma l'oggetto del credere di Marta, quella che gli scolastici definivano, come si era sopra ricordato, la “fides quae creditur”, cioè il contenuto della fede. Ma ora il v.28 mostra quanto questa fede ha inciso sulla vita di Marta, quanto questa fede faccia realmente parte della sua vita e quanto la condizioni. La consistenza di questa fede ci viene ora presentata in tre movimenti:

  1. Marta se ne andò e chiamò Maria, la sorella”, si noti come l'autore non dice “Marta se ne andò a chiamare Maria, la sorella”, ma tiene distinti i due verbi: “se ne andò e chiamò”, scandendo in tal modo due azioni tra loro disgiunte. Ciò che Marta fece dopo la sua personale adesione di fede a Gesù, riconosciuto quale Signore, Cristo, Figlio di Dio e messia veniente, è stato quello di andarsene via, lasciando Gesù là dove lo aveva incontrato (v.30); essa non lo ha accompagnato da Maria, non lo ha portato con sé per presentarglielo, ma semplicemente se ne è andata via, distaccandosi da lui. Dopo il suo incontro con Gesù, che ha riconosciuto nella pienezza della sua titolatura, ma lasciandolo dove lo aveva incontrato, lo annuncia a Maria, che viene indicata come “sua sorella”, così come fratelli o sorelle erano definiti i componenti delle prime comunità credenti20. L'annuncio che Marta fa dunque alla sorella parla della testimonianza che i credenti davano o dovevano dare all'interno della loro comunità; e quella di Marta doveva essere piuttosto tiepida e certamente non esemplare, se si accosta a Maria dando la sua testimonianza “di nascosto”.

  2. Il secondo elemento significativo è l'espressione “dicendo di nascosto”, che definisce la modalità con cui Marta, rivolgendosi alla sorella, dà la sua testimonianza. Dopo il suo incontro con Gesù e la sua solenne adesione di fede così intensa ci si aspettava una testimonianza coerente, più decisa e più aperta, senza timori o reticenze; e invece questa avviene “di nascosto”, in modo sommesso, forse perché Maria si trovava assieme ai Giudei (vv.19.31.33), alcuni dei quali erano favorevoli a Gesù (vv.36.45), ma altri erano critici (v.37) e avversi a lui (v.46). Una testimonianza quindi timorosa se non reticente. Una situazione simile si era già verificata presso la comunità di Antiochia, allorché Pietro, trovandosi a pranzo con dei pagani convertiti, considerati comunque impuri dai giudeocristiani, al sopraggiungere di alcuni giudei provenienti dalla parte di Giacomo, incominciò ad evitare i pagani per timore dei giudei. Un comportamento che Paolo sanzionò pubblicamente e duramente (Gal 2,11-14). Ma altre testimonianze in tal senso ci pervengono dallo stesso Giovanni in 7,13; 9,22; 19,38; 20,19. Un richiamo dunque a quella parte della comunità giovannea che, dopo aver aderito con convinzione alla fede in Gesù, diventa reticente e sommessa per timore dei Giudei o degli stessi giudeocristiani, che pur avendo aderito a Gesù erano ancora saldamente radicati nel mosaismo.

  3. Il terzo elemento che rivela la scarsa consistenza della fede di Marta è la formulazione del suo annuncio, che suona come una netta stonatura: “Il Maestro è qui e ti chiama”. Gesù dunque qui non è più il Signore, il Cristo, il Figlio di Dio o il messia veniente della professione di fede, ma soltanto il “Maestro”; certamente un titolo di rispetto, ma che non va a cogliere la vera natura di Gesù, che lo colloca nella dimensione divina.

Grande dunque la sua professione di fede (v.27) quanto tiepida e timorosa la sua pubblica testimonianza (v.28), che Gesù rimprovererà (vv.39-40). Nella chiesa primitiva infatti si riteneva indispensabile non solo credere con il cuore che Gesù è risorto e che quindi egli è risurrezione e vita per tutti gli uomini (1Cor 15,20-22), ma anche il testimoniarlo apertamente con la parola (Rm 10,9).

Con i vv.29-31 l'attenzione ora viene spostata su “Maria e i Giudei che erano con lei nella casa”. Questa breve pericope pone al centro dell'attenzione tre elementi rilevanti: a) Maria all'udire che Gesù la chiama, si rialza e gli corre incontro; b) Gesù non era ancora giunto al villaggio, per questo si rende necessario da parte di Marta e Maria percorrere il tratto di strada che le separa da lui per poterlo raggiungere; c) due i verbi significativi che descrivono la guarigione di Maria dal suo torpore spirituale: “ºgšrqh” (eghértze) e “¢nšsth” (anéste), due verbi tecnici con i quali nella chiesa primitiva si indicava la risurrezione di Gesù.

Il v.29 descrive la reazione di Maria all'annuncio di Marta con un triplice movimento, che richiama il dinamismo di una fede risvegliata: udì, si rialzò prontamente, andava da lui. Maria infatti è stata presentata come colei che “era seduta nella casa” (v.20b), cioè come colei la cui fede era quiescente nella comunità. Ciò che la risveglia dal suo torpore spirituale è l'aver udito e accolto l'annuncio di Marta: “Il Signore è qui e ti chiama”. Un annuncio dai tratti fortemente escatologici. Il verbo usato infatti qui è “p£restin” (párestin, è qui), lo stesso verbo da cui deriva il sostantivo “parousa” (parusía), che letteralmente significa “presenza, l'essere presente”, ma anche “venuta, arrivo, il presentarsi”. Ed è con quest'ultimi significati che la chiesa primitiva attendeva il ritorno del Risorto, che doveva porre fine alla storia e ristabilire in modo definitivo il suo regno21; un ritorno che già la seconda lettera ai Tessalonicesi non sentiva più così imminente (2Ts 2,2.6). Al contrario Giovanni qui preferisce il suo primo significato: “la presenza”, perché per l'autore l'escatologia, cioè l'attesa della venuta del Signore si esaurisce con la venuta di Gesù e la sua glorificazione. Il richiamo dunque che Giovanni fa alla sua comunità dalla fede timorosa e dormiente è il ricordarle che il Signore è già venuto, anzi egli “è qui e la chiama”, la interpella nella sua parola, in cui è presente. All'origine del movimento di Maria verso Gesù ci sta dunque l'ascolto accogliente della sua parola. È pertanto una chiamata personale, che la risveglia dal suo sonno e la mette nuovamente in cammino verso Gesù. Il verbo qui usato, “ºgšrqh” (eghértze), è posto al passivo per indicare l'effetto che la Parola ha avuto su di lei ed ha operato in lei. Esso letteralmente significa “fu risvegliata, ridestata”, ma anche “fu rialzata, fu risuscitata”. La potenza di questa parola rigeneratrice viene indicata dall'avverbio “tacÝ” (tachì), che significa prontamente, rapidamente, velocemente. L'effetto finale che la parola accolta produce su Maria è quello di rimetterla nuovamente in cammino verso Gesù: “andava da lui”, un verbo posto all'imperfetto indicativo che indica il perdurare nel tempo di questo movimento. Maria dunque fu risuscita nella sua fede e rimessa nuovamente in cammino verso Gesù.

Il risveglio di Maria ad opera della parola potente di Gesù, che la chiama fuori dal suo stato di torpore spirituale rimettendola in cammino, evoca qui da vicino e in qualche modo lo anticipa il segno della risuscitazione di Lazzaro.

Il v.30 interrompe il ritmo narrativo, che verrà ripreso al successivo v.31, ed accentra l'attenzione del lettore sul fatto che Gesù non era ancora giunto al villaggio dove c'erano Marta e Maria. Egli si trova nel punto in cui originariamente lo aveva trovato Marta e dove Marta aveva fatto la sua solenne professione di fede in risposta al disvelarsi di Gesù quale risurrezione e vita per coloro che credono in lui. La fede dunque rende Gesù risurrezione e vita per il credente e senza la fede Gesù non si disvela e non si rende presente nella comunità. Per questo diventa necessario per la comunità credente, ma affetta da una fede dormiente e titubante, ripercorrere il primitivo cammino che aveva acceso con tanto entusiasmo la sua fede nel Risorto e l'aveva costituita e qualificata come comunità credente nel Risorto. Gesù, dunque, rileva il v.30, non si trovava ancora nel villaggio, altra immagine della comunità giovannea, di Marta e Maria, proprio perché la loro fede era inconsistente e incapace di renderlo vivo in mezzo a loro. Anche Maria, quindi, come Marta è chiamata a rialzarsi, ad uscire dal suo stato di quiescenza e rimettersi in cammino verso Gesù, che si trova “là dove Marta lo aveva lasciato”, alludendo al primo incontro che i credenti hanno avuto con il Risorto, da cui è nata la loro fede. Si tratta quindi di ripercorre un cammino già fatto per ritrovare le origini e il senso del proprio credere.

Il v.31 presenta gli effetti trascinanti di una fede risvegliata, che ha ritrovato in se stessa l'entusiasmo e la freschezza delle sue origini: “I Giudei, dunque, che erano con lei nella casa e che la confortavano, avendo visto che Maria si alzò prontamente e uscì, la seguirono credendo che andasse alla tomba per piangere là”. La scena qui allude al rituale del lutto, allorché i parenti si sedevano per terra (v.20a) e i vicini si recavano in casa del defunto portando il pane del lutto e la coppa della consolazione. La presenza del defunto infatti rendeva impura la casa e impediva ai familiari di preparare il cibo. Assieme, poi, a loro partecipavano al lutto con il rituale delle lamentazioni. È quasi certamente questo il quadro storico a cui i vv.20a.31 si richiamano e che giustifica la presenza dei Giudei in casa di Marta e Maria quattro giorni dopo la sepoltura del fratello. Il rituale del lutto stretto durava infatti una settimana22.

Maria qui viene associata ai Giudei; questi si trovano in casa di Maria, cioè appartengono alla sua stessa comunità credente e sono nelle sue stesse condizioni di fede. Erano questi, infatti, all'interno delle prime comunità credenti, che presentavano una fede incerta e titubante nei confronti di Gesù, avendo difficoltà, a motivo della loro antica fede mosaica a cui erano ancora legati, a riconoscerlo come Messia e Figlio di Dio. Erano questi dunque che avevano bisogno di risvegliarsi dall'antica fede dei Padri per accedere alla nuova. Viene qui richiamata la figura di Maria nel suo “rialzarsi prontamente ed uscire”. Il verbo qui usato non è più “ºgšrqh” (eghértze), che indicava il risvegliarsi dalla fede dormiente del v.29, ma “¢nšsth” (anéste), che dice la conseguenza di questo risveglio: il rialzarsi prontamente all'annuncio della Parola, che porta Maria ad uscire dal suo stato di quiescenza e di incertezza; ma forse vi è qui anche una sorta di invito ad uscire dal giudaismo per andare con più speditezza verso Gesù. La risurrezione di Gesù deve dunque riflettersi anche all'interno della comunità credente, qualificandola come comunità in cammino verso Gesù, verso di lui orientata e a lui consacrata, senza più timori o incertezze, prontamente. Ecco dunque apparire in accoppiata, a un versetto di distanza l'uno dall'altro (vv.29.31), i due verbi propri che nella chiesa primitiva indicavano la risurrezione di Gesù: “ºgšrqh” (eghértze) e “¢nšsth” (anéste). È dunque la risurrezione di Gesù che deve porsi a fondamento della comunità credente e che fa dei credenti dei risorti, nuove creature nel Risorto e li spinge ad uscire dal loro stato primitivo per accedere e procedere con prontezza nella luce del Risorto.

Il v.32 conclude l'episodio di Maria e il suo cammino spirituale alle origini della fede verso un Gesù finalmente ritrovato; essa infatti “venne dov'era Gesù”, nello stesso luogo dove l'aveva incontrato la sorella Marta e dove l'aveva incontrato lei; Gesù era là che l'aspettava (v.30b). Che si tratti di un cammino di fede ripercorso con successo lo indica l'espressione “„doàsa aÙtÕn” (idûsa autòn, vistolo), in cui compare il verbo “Ðr£w” (oráo), il verbo della fede raggiunta, di una fede che sa andare e vedere oltre le apparenze. Ma se questa è finalmente vera fede risvegliata essa tuttavia non è ancora una fede matura, ma sembra essere più che altro una fede che nasce da un atto di devozione personale. Il verbo oráo infatti non è fatto seguire dal verbo “proskunšw” (proskinéo), che nei vangeli indica l'atto del prostrarsi davanti a Gesù, l'atto della sua adorazione e quindi del riconoscimento della sua divinità; la comparsa di questo verbo avrebbe significato che Maria ha riconosciuto e accettato nella sua vita la messianicità divina di Gesù. Giovanni qui invece usa una parafrasi: “œpesen aÙtoà prÕj toÝj pÒdaj” (épesen autû pròs tùs pódas), “si gettò ai suoi piedi”. Viene dunque evitato l'uso del verbo proprio dell'adorazione, proskinéo, per lasciare spazio ad un atto di devozione, di rispetto, quello proprio che il discepolo riservava al suo maestro. Gesù infatti le era stato indicato dalla stessa Marta come “il Maestro” e non con la sua titolatura divina e messianica, con cui Marta l'aveva inizialmente riconosciuto (v.27). Giunta dunque a Gesù Maria si rivolge a lui negli stessi termini di Marta: “Signore, se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”; soltanto un lamento funebre per la morte del fratello, tutto qui. Ma mentre Marta prosegue manifestando a Gesù la sua viva fede in lui, così che “anche ora so che quanto chiederai a Dio, Dio te (lo) darà”, riconoscendo nella persona di Gesù il suo speciale rapporto con il Padre, che verrà confermato poi ai vv.41b-42 dallo stesso Gesù, Maria si ferma al lamento funebre; nessuna fede, nessuna speranza illumina il suo dolore. Del resto lei, benché credente, è vista da Giovanni come “seduta nella casa”, metafora di una fede quiescente e adagiata, che ha perso la brillantezza delle sue origini, perché ha perso il contatto con la Parola che l'ha generata. Il suo rialzarsi e il suo incamminarsi nuovamente verso Gesù, infatti, riprendono soltanto dopo l'annuncio di Marta da lei accolto. Soltanto questo la risveglia, la fa rialzare e la rimette in movimento nel suo cammino verso Gesù.

Marta e Maria, dunque, due discepole, figure di due tipologie di fede probabilmente presenti nella comunità giovannea: la prima, una fede ben assodata e ben chiara almeno nei suoi contenuti dottrinali, ma timorosa e titubante nel suo manifestarsi, fino a farsi reticente; la seconda, una fede seduta e quiescente, che abbisogna di una forte stimolazione che le può venire dall'incontro con la Parola e da un ripercorrerne il cammino, come in una sorta di pellegrinaggio spirituale alle sue origine, dove aveva visto la luce.

v.33: A fronte di simili fedi che peccano da un lato di ignavia, dall'altro di indifferenza amorfa, la reazione interiore di Gesù non poteva che essere violenta. Due i verbi che la esprimono: “™nebrim»sato” (enebrimésato) e “™t£raxen” (etáraxen); il primo significa fremere, sbuffare, agitarsi quale conseguenza di uno sdegno e di una indignazione, che provoca rabbia e collera; il secondo rimarca lo stato interiore di Gesù, sottolineandone la condizione di profondo turbamento e di agitazione: sconvolgere, agitare, turbare, mettere sossopra, scompigliare, inquietare. La sottolineatura che tutto ciò avviene “tù pneÚmati” (tô pneûmati, nello spirito) e non “tÍ yucÍ” (tê psichê, nell'animo o nell'anima, intesa come centro vitale dell'uomo), significa che questa dura reazione di Gesù ha a che fare con gli aspetti spirituali che intercorrono tra i suoi discepoli e lui, quelli appunto della fede.

Il v.34 sembra essere strettamente imparentato con 1,39, là dove i discepoli chiedono a Gesù dove abiti e Gesù risponde loro “Venite e vedete”. Similmente qua, ma a parti invertite, Gesù chiede dove hanno messo il cadavere e la risposta è “vieni e vedi”. Identica la risposta, ma ben diversi sono i risultati: là, in 1,39, Gesù indica ai due discepoli il luogo della luce; la segnalazione dell'evangelista che quella era la decima ora, corrispondente alle nostre ore 16,00, dice che quel momento, che quel tempo trascorso con Gesù era il tempo della pienezza della luce e che Gesù è il luogo della luce. Qui, invece, i discepoli indicano a Gesù il luogo delle tenebre e dell'oblio della morte. Quella richiesta di Gesù “Dove l'avete messo”, che richiama da vicino il “Dove sei?” di Dio rivolto ad Adamo subito dopo la sua colpa (Gen 3,9), che lo ha posto fuori dalla dimensione divina stessa, dice la condizione dell'uomo in questa dimensione spazio-temporale profondamente segnata dalla morte. E il luogo dove essi accompagnano Gesù, il loro luogo, il loro spazio vitale, è una tomba. È lì dove accompagnano Gesù, che si è proclamato risurrezione e vita (v.25), in un luogo di morte perché Gesù riscatti l'uomo dalla sua triste condizione di decaduto, di fuoriuscito dalla vita divina.

Quarto Quadro (vv.35-46): tra dubbi e divisioni il compiersi del segno


Testo a lettura facilitata

L'introduzione: gli apprezzamenti e le critiche

35- Gesù pianse.
36- Dicevano dunque i Giudei: <<Guarda come gli voleva bene>>.
37- Ma alcuni di loro dissero: <<Non poteva costui, che aprì gli occhi del cieco, fare in modo che anche questi non morisse?>>.

Il segno

38- Gesù, dunque, fremendo nuovamente in se stesso, va alla tomba; era una grotta e una pietra stava sopra di essa.
39- Dice Gesù: <<Togliete la pietra>>. Gli dice Marta, la sorella del defunto: <<Signore, già manda odore, poiché è il quarto giorno>>.
40- Le dice Gesù: <<Non ti dissi che se credi vedrai la gloria di Dio?>>.
41- Tolsero dunque la pietra. Ora Gesù alzò gli occhi in alto e disse: <<Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato.
42- Ora, io
sapevo che mi ascolti sempre, ma (lo) dissi per la folla che sta intorno, affinché credano che tu mi hai mandato>>.
43- E, dopo aver detto queste cose, con gran voce gridò: <<Lazzaro, qui, fuori>>.
44- Il morto uscì legato piedi e mani con bende, e il suo viso avvolto intorno con un sudario. Dice loro Gesù: <<Scioglietelo e lasciatelo andare>>.

La conclusione: le adesioni di fede e le defezioni

45- Molti dei Giudei, dunque, che erano venuti da Maria e che avevano visto ciò che (Gesù) fece, credettero in lui.
46- Ma alcuni di loro se ne andarono dai Farisei e dissero loro ciò che fece Gesù.


Note generali al Quarto Quadro

Come in un giallo di Agatha Christie, che ha per protagonista Poirot, al termine di lunghe e geniali indagini, tutti i personaggi del racconto vengono radunati in una stanza dove, quali spettatori e possibili imputati di turno, assistono al complicato ragionamento del noto investigatore, che al termine indicherà inequivocabilmente il colpevole o i colpevoli, così similmente succede anche qui. Giunti al termine del racconto, tutti i personaggi incontrati lungo il percorso, chiamati di volta in volta ad esprimersi su Gesù, vengono radunati attorno alla tomba, dove troveranno la soluzione dei loro dubbi e delle loro incertezze e dove saranno chiamati a prendere una netta posizione fuori da ogni equivoco nei confronti di Gesù. Qui dunque si compirà su di loro un giudizio. C'è Gesù, il personaggio chiave, che passando di quadro in quadro, come una sorta di filo conduttore dava unità narrativa all'intero racconto, polarizzando attorno a sé i personaggi dei singoli quadri. Vi è anche Lazzaro, questa presenza invisibile e silenziosa, che, assieme a Gesù, attraverso il dramma della sua morte, interpellava i singoli personaggi mettendone a nudo, di volta in volta, la fragilità della loro fede e la loro inintelligenza; ed ora, finalmente egli si rende visibile ed esce allo scoperto, testimoniando la potenza rigeneratrice di Gesù e spingendo tutti i presenti a prendere posizione nei suoi confronti. Vi sono Marta, Maria e, associati a questa, i Giudei, tutti personaggi dalla fede fragile e non ancora pienamente compiuta, che ora sono chiamati a riconsiderare le proprie posizioni nei confronti di Gesù e ad uscire dalle loro titubanze e incertezze, dal loro stato di una fede piatta ed amorfa. Vi sono, infine i discepoli, anche se qui non espressamente citati, ma la cui presenza è comunque da considerare, come suggeriscono i vv.15-16; chiusi nella loro inintelligenza su Gesù e nei loro timori (vv.7-14) dovranno rendersi testimoni del segno “affinché crediate” che Gesù è veramente risurrezione e vita (v.15b).

Ma come ogni segno, proprio per l'ambiguità del suo manifestarsi, chiede di superare le apparenze ed andare oltre, dividendo i suoi spettatori, così anche questo non fa eccezione: c'è chi apprezza Gesù e chi lo critica (vv.36-37); chi crede in lui e chi invece l'abbandona definitivamente, denunciandolo alle autorità religiose (vv.45-46).

La struttura di questo Quarto Quadro è già stata in qualche modo delineata nella sezione della lettura facilitata del testo. I vv.36-37 formano inclusione per parallelismo e complementarietà di contenuti con i vv.45-46. L'apprezzamento dei Giudei nei confronti di Gesù espresso al v.36 trova il suo completamento nell'adesione di fede di questi al v.45; mentre la critica rivolta a Gesù al v.37 diviene defezione e denuncia al v.46. Di mezzo si colloca il compiersi del segno, che spinge gli spettatori ad uscire dalle loro ambigue posizioni e a dichiarare apertamente la loro fede o il loro rifiuto. Il segno dunque nel suo manifestarsi crea una discriminazione e pone sugli spettatori il giudizio.

Commento al Quarto Quadro (vv.35-46)

L'introduzione: gli apprezzamenti e le critiche (vv.35-37)

I vv.35-37 costituiscono la parte introduttiva al segno e preannunciano in qualche modo la reazione conclusiva al segno stesso da parte dei suoi spettatori (vv.45-46). Il piangere di Gesù è l'elemento scatenante degli apprezzamenti e delle critiche, che dividono i presenti nei confronti della sua persona, come già altre volte era successo23.

Il pianto di Gesù non nasce dal nulla, ma si lega al v.33 che creava un ambiente di dolore per la morte di Lazzaro: piangeva la sorella e con lei anche i Giudei; un pianto che se da un punto di vista umano era più che giustificabile e comprensibile, provocava tuttavia in Gesù una reazione di sdegno e di ira, perché tale pianto era sotteso da una fragilità di fede che toglieva loro ogni speranza e precludeva loro ogni possibilità di accesso a Gesù, risurrezione e vita. L'ira e lo sdegno di Gesù costituivano quindi una sorta di giudizio divino posto su di loro per il loro tiepido ed incerto credere (Ap 3,15-16). Ma ciò che cambia tutto in Gesù è quella sorta di supplica che i presenti gli rivolgono: “Signore, vieni e vedi” (v.34b). In quel “Signore, vieni” è racchiusa in qualche modo la storia dell'intera umanità veterotestamentaria che, attraverso l'Alleanza e i suoi profeti, si stava preparando alla venuta del suo Dio, che l'avrebbe riscattata attraverso il suo messia più volte annunciato; mentre in quel “vedi” è l'uomo che mostra al suo Dio lo stato di prostrazione e di degrado esistenziale in cui egli vive, dopo la sua caduta primordiale, segnato profondamente dalla sofferenza, dal dolore e dalla morte, quale suo triste destino (Gen 3,16-19), che ha travolto con lui anche l'intera creazione (Rm 8,19-23). E Dio viene nella persona di Gesù e ciò che trova è racchiuso tutto in quella tomba e nel suo contesto di dolore, di sofferenza e di prostrazione. Ed è qui che scatta la solidarietà di Dio con l'uomo e ne condivide la triste sorte significata in quel suo piangere. Dal giudizio e dall'ira alla misericordia e alla condivisione: “Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (3,17).

Un pianto di solidarietà che viene sottolineato dal v.36: “Guarda come gli voleva bene”, in cui il verbo “voler bene” è qui reso in greco con “filšw” (filéo), il verbo dell'amicizia, dell'amorevolezza, del prendersi cura, del riservare le proprie attenzioni; un verbo che si dispiega orizzontalmente, da uomo a uomo; il verbo con cui gli uomini esprimono i loro affetti e i loro sentimenti più sinceri verso il loro prossimo. Già l'autore aveva evidenziato con il v.5 come “Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro”, ma qui il verbo impiegato non è “filšw” (filéo), bensì “¢gap£w” (agapáo), il verbo che Giovanni usa per indicare il tipo di relazione che intercorre tra Gesù e il Padre, che nel v.5 si riflette in quello tra Gesù e i suoi tre amici, quasi a voler dire che Gesù è venuto a ristabilire quel flusso di amore e di vita che agli inizi legava l'umanità a Dio.

Il v.37 presenta l'altro versante del giudaismo, quello critico e avverso a Gesù: “Non poteva costui, che aprì gli occhi del cieco, fare in modo che anche questi non morisse?”. Il richiamo alla guarigione del cieco nato, in cui Gesù ha legato al segno il suo essere luce del mondo (9,5), è qui accostato al far si che Lazzaro non morisse e quindi continuasse a vivere. Il tema della luce quindi viene qui posto in stretta relazione a quello della vita; due temi che rimandano a 1,4 e 8,12 dove con maggior evidenza si lega la luce alla vita, due aspetti che qualificano la vita stessa di Dio, che in Gesù viene trasmessa agli uomini e alla quale gli uomini sono associati in Gesù.

Il segno (vv.38-44)

Il racconto del segno si riduce soltanto ai vv.43-44, ma è introdotto da due passaggi: i vv.38-40, che richiamano qui gli elementi principali del racconto; una sorta di sintesi preliminare e preparatoria. L'ordine con cui questi richiami vengono enunciati è inverso: si parte da quelli più recenti del v.38, che evoca in sé i vv.33-34; si procede con il v.39 che riflette il v.17; e infine il v.40 che riproduce sostanzialmente il v.4. Il secondo passaggio preparatore è dato dai vv.41-42, che riportano la breve preghiera di Gesù al Padre, già sollecitata da Marta al v.22.

Il v.38 si riaggancia ai vv.33-34, riprendendo la narrazione interrotta dai vv.35-37, ed è scandito in tre parti: con la prima (“fremendo nuovamente in se stesso”) l'autore si richiama al v.33. Ma l'avverbio “p£lin” (pálin, di nuovo, nuovamente) se da un lato lascia intendere che già c'è stata una volta (v.33), dall'altro dice che qui la storia continua e si ripete. Ritorna, infatti, il verbo “mbrim£omai” (embrimáomai, fremere, agitarsi, rimproverare, sdegnarsi), che dà continuità al contesto di indignazione e di sdegno che agitano Gesù, ora non più “nello spirito” (tù pneÚmati, tô pneúmati), come al v.33, ma “™n ˜autù” (en eautô), “in se stesso”; uno sdegno e un'indignazione pertanto che coinvolgono Gesù nella sua interezza. Il motivo di questo suo profondo turbamento è il contesto di una fede incerta e dubbiosa, che al v.39b coinvolge anche Marta, in cui egli sta per operare il settimo segno, quello della luce e della vita, che risplenderà da lì a pochi giorni in modo manifesto anche in lui. Un segno dunque grandioso, ma che si muove all'interno di un contesto spiritualmente freddo e diffidente, che l'autore non mancherà di segnalare a chiusura dell'attività pubblica di Gesù: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui” (12,37).

La seconda parte del v.38 precisa che Gesù “va alla tomba”, dando seguito e completamento al v.34; mentre la terza parte spiega in che cosa consistesse questa tomba: “era una grotta e una pietra stava sopra di essa”. Come vedremo subito, queste precisazioni di tipo descrittivo, superflue per la platea dei suoi lettori, che ben conoscevano com'erano fatti i sepolcri e i riti di sepoltura, serviranno all'autore per creare dei parallelismi e degli agganci con la morte e la risurrezione di Gesù.

Nel v.39 l'ordine di Gesù di togliere la pietra viene controbattuto da Marta, pleonasticamente definita come la sorella del defunto, la quale sottolinea che ormai il cadavere manda odore perché è di quattro giorni. Queste persistenti sottolineature circa lo stato di morte di Lazzaro, poste a ridosso del segno, sono finalizzate a precisare il reale stato di morte di Lazzaro. Una premessa che prepara e in qualche modo preannuncia la grandiosità del segno. Ma l'opposizione di Marta al comando di Gesù lascia intendere chiaramente che ormai ci si trova di fronte ad uno stato di morte definitivo e irreversibile. L'osservazione di Marta va a contrastare con la sua solenne dichiarazione di fede in Gesù (v.27), dichiaratosi risurrezione e vita per coloro che credono in lui (v.27). E a questo Gesù si richiama al v.40: “Non ti dissi che se credi vedrai la gloria di Dio?”. Il riferimento qui è al v.4 in cui Gesù aveva affermato come “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio”. La gloria di Dio assume qui un doppio senso: la risuscitazione di Lazzaro, quale manifestazione dell'operare della potenza del Padre in Gesù; e la stessa risurrezione di Gesù, qui allusa in quella di Lazzaro, che fa di Gesù il Risorto per eccellenza, cioè colui che è rivestito della stessa vita di Dio, per la potenza dello Spirito, apparendo nella risurrezione, al di là di ogni metafora e di ogni simbolismo, ciò che egli è realmente: il Figlio di Dio (Rm 1,3-4).

Il v.40 richiama da vicino il v.2,11 dove “Gesù fece questo inizio dei segni in Cana della Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. La gloria che qui Gesù manifesta ai suoi discepoli e dalla quale dipende la loro adesione di fede in lui allude a quella della risurrezione, richiamata dall'apertura del v.2,1 “Al terzo giorno […] manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. La risurrezione dunque quale fondamento e conferma della fede in Gesù. Ma qui, al v.40, i parametri sono invertiti: per vedere la gloria di Dio operare e manifestarsi in Gesù serve la fede. Se in 2,11 la prospettiva è decisamente post-pasquale, qui al v.40 la prospettiva è pre-pasquale in cui la fede viene colta come un cammino che porta verso Gesù e alla scoperta della sua vera identità di risurrezione e vita, di luce e vita, significata nei segni e confermata nella risurrezione, qui preannunciata nella risuscitazione di Lazzaro.

Il secondo passaggio preparatorio è dato dai vv.41-42, al cui centro sta la preghiera di Gesù: “Tolsero dunque la pietra. Ora Gesù alzò gli occhi in alto e disse: <<Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato. Ora, io sapevo che mi ascolti sempre, ma (lo) dissi per la folla che sta intorno, affinché credano che tu mi hai mandato”. La preghiera di Gesù è preceduta da due momenti paralleli tra loro, il cui parallelismo è dato dallo stesso verbo, arw (aíro), che significa levare, alzare e quindi anche togliere nel caso della pietra; e dalla contemporaneità dell'azione, poiché nel mentre viene alzata la pietra dalla tomba Gesù alza gli occhi in alto, quasi a legare tra loro le due azioni, mettendole in relazione tra loro e facendole dipendere entrambe da un disegno divino. L'alzare gli occhi in alto o verso l'alto significa infatti entrare in qualche modo in comunione con Dio, lasciando fluire da questa comunione la sua stessa potenza. Tutto ciò che sta accadendo dunque non ha nulla di magico, di occulto o di misterico, ma è il frutto di un'azione divina che qui si sta compiendo e si sta manifestando, rivelando in essa non l'agire di Gesù, ma del Padre, di cui Gesù è azione (5,19.30; 9,33). Il senso di ciò che sta accadendo e il tipo di rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre è dato dalla preghiera di Gesù. Egli ringrazia il Padre perché lo “ascoltò”. Il tempo verbale qui usato è l'aoristo (½kous£j, ékusas) ed esprime un'azione puntuale nel tempo che si colloca in un passato remoto e nel nostro caso fa riferimento ad un dialogo (“mi hai ascoltato”), che qui viene richiamato, ma che nel racconto non viene menzionato. Ma questo quando è accaduto? Il v.42 si apre riprendendo il tema di questo dialogo: “Ora, io sapevo che mi ascolti sempre”. Torna qui il verbo “sapere” che in Giovanni, allorché è riferito a Gesù o alla sua comunità credente, ha sempre un significato che lega il contenuto di questo sapere al mistero stesso di Dio o di Gesù. Il tempo verbale è anche qui un tempo storico, un piuccheperfetto indicativo (Édein, édein), che lega il sapere di Gesù ad un tempo remoto: “sapevo che mi ascolti sempre”, come dire “ho sempre saputo o so da sempre”; in altre parole: il mio sapere ha origini antiche e molto lontane. I due verbi posti all'aoristo e al piuccheperfetto, legano l'azione che essi esprimono ad un tempo passato, remoto, antico, qui avvolto nel mistero stesso di Dio, poiché si riferisce ad un dialogo di comunione che esiste da sempre tra Gesù e il Padre, un'esistenza che si colloca nella coeternità stessa di Dio. La prima parte della preghiera di Gesù riguarda, pertanto, il mistero stesso di Dio, che lega tra loro in una profonda e intima comunione Gesù e il Padre, facendo dei due una cosa sola (10,32); un mistero di comunione di vita e di potenza che qui viene richiamato, perché tutto ciò appaia chiaro alla “folla che sta intorno”; e ciò che la folla deve sapere è che in Gesù opera la potenza di Dio, da cui egli è uscito e dal quale è stato inviato (8,42;16,28.30; 17,8). La preghiera di Gesù dunque fornisce la chiave di lettura al segno che sta per compiersi.

Preparato da un lungo cammino durato ben 42 versetti, si è infine giunti al segno a cui Giovanni dedica soltanto i vv.43-44. Esso è scandito in due tempi: l'intervento di Gesù (v.43) e le conseguenze di tale intervento (v.44).

Il v.43 si apre con un'espressione tutta redazionale: “E, dopo aver detto queste cose” con cui l'autore si aggancia alla preghiera di Gesù, la quale rivela il tipo di rapporto che intercorre tra lui e il Padre e funge da chiave di lettura del segno stesso. Un collegamento che rende consequenziale e dipendente il segno da questa preghiera e da questo rapporto, da cui trae la sua potenza generatrice e rigeneratrice. E che l'autore si riferisca soltanto alla preghiera di Gesù lo dice quel “kaˆ” (kaì, e) iniziale, con cui si apre il v.43.

Come si compia il segno è tutto detto in quel “con gran voce gridò: <<Lazzaro, qui, fuori>>”. La laconicità del comando è sferzante, imperativa e si impone con un'inaudita autorità. Se il nome per gli antichi dice l'essenza stessa della persona, questo nome, Lazzaro, è ormai privo di ogni identità poiché fagocitato dallo sheol, il luogo sotterraneo considerato come il luogo della polvere, delle tenebre, del silenzio e dell'oblio; il luogo della debolezza estrema e della tristezza dove le anime, prostrate, vivono allo stato larvale in un grigiore privo della luce della vera vita24. Il nome perde dunque ogni sua consistenza, perché svuotato della vita stessa. Il chiamare per nome, restituendogli la sua dignità e la sua consistenza iniziali, assume qui la valenza di un atto creativo, di un chiamare alla vita, così come agli inizi la Parola di Dio (“E Dio disse”) chiamò alla sussistenza l'intera creazione, chiamandola per nome (Gen 1,3-31). Gesù infatti qui non compie gesti, non recita formule magiche, ma è soltanto la potenza della sua parola, evocata dalle profondità del suo essere divino, per mezzo della quale “Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna cosa. Ciò che avvenne in lei era vita, e la vita era la luce degli uomini” (1,3-4).

La pronuncia di questo comando, una stilettata dura e sferzante quanto potente, colloca l'ascoltatore in un doppio contesto: quello esorcistico, che nei racconti evangelici, in particolare quelli Sinottici, vede Gesù impegnato a liberare l'uomo dal potere di Satana25, anticipando in qualche modo gli effetti risanatori e rigeneratori della sua risurrezione. La venuta, la morte e risurrezione di Gesù possiedono in loro stesse una valenza esorcistica. Per due volte lo ricorda anche il Gesù giovanneo in 12,31: “Ora è il giudizio di questo mondo, ora il capo di questo mondo sarà buttato fuori” e in 16,11: “quanto poi al giudizio, poiché il principe di questo mondo è stato giudicato”. Il secondo contesto è escatologico, l'ultimo tempo, quello che Dio si è riservato per il giudizio, quello in cui i morti al suono della tromba e della voce dell'angelo risorgeranno. Paolo scrivendo alla sua comunità di Corinto circa il destino dell'uomo nell'ultimo giorno rivela un mistero: “Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati.” (1Cor 15,51-52)26. Un contesto escatologico a cui si richiama anche il Gesù giovanneo: “In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno”; e quanto alla sua capacità di ridonare la vita attesta in 5,21: “Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole”. Per questo infatti egli è venuto “perché abbiano vita e (l')abbiano con abbondanza” (10,10b).

Ed ecco: “Il morto uscì legato piedi e mani con bende, e il suo viso avvolto intorno con un sudario”. Ci saremmo forse aspettati una scena diversa: Lazzaro, già rivestito dei suoi abiti, uscire come trasognato da quel luogo di morte, guardarsi attorno come smarrito e impaurito, chiedendosi che cosa ci facesse lì e che cosa significasse tutto questo. Invece il suo nome non viene menzionato, ma sostituito con “Il morto”. Egli dunque è ancora “il morto” nonostante il suo essere tornato in vita; ed è presentato con addosso il suo abbigliamento di morte. Egli dunque è ancora rivestito di morte pur essendo ora vivo. Gesù dà un terzo ordine27: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Come per la pietra non è Gesù che la toglie, ma la fa togliere dagli uomini, così lo scioglierlo dai segni della morte non è Gesù, ma sono sempre degli uomini. Tutto questo significa che la vita di Lazzaro è ancora contrassegnata dalla morte. Il suo tornare in vita è un tornare alla vita di prima, caratterizzata ancora dalla sofferenza, dal divenire e dalla morte. Egli è tornato a vivere, ma non con una nuova vita, capace di segnare un significativo e sostanziale stacco da quella precedente; il suo vivere è soltanto un riprendere quello precedentemente sospeso. Egli non è stato liberato definitivamente dalla morte, ma soltanto sottratto momentaneamente ad essa. Vi è dunque una sostanziale differenza tra la risuscitazione di Lazzaro e la risurrezione di Gesù, benché la prima preluda alla seconda. L'intero racconto, nei suoi punti chiave, differisce notevolmente da quello della scoperta della tomba vuota (20,1-10). Nel racconto di Lazzaro la pietra era ancora sopra alla tomba e Gesù ordina di toglierla e chi la toglie sono degli uomini. Nel racconto della risurrezione di Gesù la pietra invece è già rotolata via dal sepolcro e non si dice chi l'ha tolta (20,1), si lascia tutto avvolto nel mistero; tutti vedono poi uscire Lazzaro dalla tomba, ma nessuno ha visto uscire Gesù; Lazzaro è lì con il suo corpo ancora avvolto dalle fasce che lo legano al suo stato di morte; ma Gesù non c'è più, non si sa dove sia andato e si interpreta l'evento come un furto di cadavere (20,2); al suo posto invece si trovano le bende funerarie che prima lo avvolgevano (20,5-7). Ma questi segni della sua morte Gesù li ha lasciati nella tomba, se ne è spogliato, mentre Lazzaro li aveva ancora addosso. Chi glieli ha tolti? Per Lazzaro sappiamo essere stati degli uomini (v.44b); ma per Gesù, chi è stato? Non si sa, tutto è avvolto dal mistero, che soltanto la riflessione postpasquale e le Scritture riusciranno ad illuminare (vv.8-10) e a ricondurre alla potenza del Padre per mezzo dello Spirito (Rm 1,4).

La conclusione: le adesioni di fede e le defezioni (vv.45-46)

Già preannunciati dai vv.35-37, dove ammirazioni e critiche su Gesù si contrapponevano tra loro creando divisioni, i vv.45-46, sospinti dal segno, portano allo scoperto le personali scelte nei confronti di Gesù. Si tratterà comunque di un successo, poiché l'autore ci tiene a dire che erano “molti” i Giudei che aderirono a Gesù, ma soltanto “alcuni” che se ne staccarono definitivamente. L'adesione dei primi è descritta come un cammino di fede nato da una riflessione sul segno, che è stato fatto “affinché crediate” (v.15a): “Molti dei Giudei, dunque, che erano venuti da Maria e che avevano visto ciò che (Gesù) fece, credettero in lui”. Il verbo vedere in greco è qui reso con “qeas£menoi” (tzeasámenoi) che esprime un vedere che si interroga e che si pone in ricerca. Il verbo “qe£omai” (tzeáomai) infatti significa guardare, osservare, contemplare, cercare, esaminare. L'adesione a Gesù dunque non nacque sull'onda dell'entusiasmo del momento per ciò che si era visto. Il verbo vedere infatti è posto all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, ed indica un evento puntale nel tempo che non ha avuto un effetto immediato, ma si è costituito come punto di partenza per una riflessione e una ricerca da cui è iniziato un cammino di fede verso Gesù, significato dalla particella di moto verso luogo “e„j” (eis, in, verso).

Per alcuni invece il cammino fu opposto, forse intimoriti dalle restrizioni delle autorità giudaiche che avevano minacciato l'esclusione dalla sinagoga per i seguaci di Gesù (9,22; 12,42) e avevano imposto a chiunque lo trovasse di denunciarlo (v.57).

Quinto Quadro (vv.47-54): la reazione preoccupata e negativa delle autorità giudaiche


Testo a lettura facilitata

Il contesto storico: il Sinedrio decreta la pericolosità dell'uomo Gesù

47- I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni?
48- Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>.

La soluzione di Caifa: meglio che muoia uno a favore di tutti

49- Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote di quell'anno, disse a loro: <<Voi non capite niente,
50- né considerate che a voi giova che un uomo muoia in favore del popolo e non che tutto il popolo perisca>>.

Il commento dell'autore alle parole di Caifa fornisce la chiave di lettura della morte di Gesù

51- Ora, non disse questo da se stesso, ma essendo sommo sacerdote di quell'anno, profetò che Gesù stava per essere ucciso in favore il popolo,
52- e non solo per il popolo, ma anche per radunare in uno i figli di Dio dispersi.

Le conseguenze della delibera

53- Da quel giorno, dunque, deliberarono di ucciderlo.
54- Gesù dunque non camminava più liberamente tra i Giudei, ma se ne andò da là nella regione nei pressi del deserto, in una città detta Efraim, e là rimase con i discepoli.

La premessa al cap.12

55- Ora, era vicina la pasqua dei Giudei, e molti salirono a Gerusalemme dalla regione prima della pasqua per purificarsi.
56- Cercavano dunque Gesù e dicevano gli uni agli altri, stando nel tempio: <<Che vi sembra? Che non venga forse alla festa?>>.
57- Ora i capi dei sacerdoti e i Farisei avevano dato ordini affinché se qualcuno sapesse dov'è (lo) rendesse noto, in modo da arrestarlo.

Note generali al Quinto Quadro

Questo Quadro narrativo è particolarmente articolato ed è caratterizzato al suo interno dall'inclusione data dal ricorrere dello stesso verbo “sun£gw” (sinágo, radunare, raccogliere, riunire) al v.47 (sun»gagon, sinégagon) e al v.52 (sunag£gV, sinagághe), che nel definire l'unità narrativa ne fornisce anche il senso: mentre il Sinedrio si riunisce per decretare la morte di Gesù, proprio questa morte diviene fonte di riunificazione di tutti i dispersi figli di Dio nell'unico Cristo, anticipando in qualche modo quanto Gesù dirà in 12,32: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”.

L'articolazione di questo Quadro già si è indicata nella sezione della lettura facilitata del testo e qui riporto accompagnata da qualche breve indicazione:

  1. i vv.47-48 creano il contesto storico entro cui matura la decisione di uccidere Gesù;

  2. i vv.49-50 riportano l'intervento del sommo sacerdote Caifa, che presenta la drastica soluzione politica del caso Gesù, ormai divenuto insostenibile;

  3. i vv.51-52 forniscono la lettura esegetica dell'intervento di Caifa, riportandola da un piano meramente politico ed operativo ad un piano teologico e profetico, che fornisce la chiave di lettura della morte di Gesù;

  4. I vv.53-54 illustrano le conseguenza di questo incontro del Sinedrio: la deliberazione della morte di Gesù (v.53) e il ritirarsi di Gesù in luoghi più sicuri (v.54).

  5. Ed infine i vv.55-57, che nel creare un netto stacco con quanto fin qui narrato dal cap.11, preparano il lettore a traghettare al cap.12. Sono pertanto versetti di transizione che fungono da premessa al cap.12.

Commento ai vv.47-57

Il contesto storico: il Sinedrio decreta la pericolosità dell'uomo Gesù (vv.47-48)

Al di là delle schermaglie verbali e dei contrasti tra Gesù e le autorità giudaiche e al di là delle letture teologiche e cristologiche che la chiesa postpasquale ha sviluppato sulla morte di Gesù, cercando di coglierne il senso, qui Giovanni sembra fornirci il vero motivo per cui Gesù fu perseguitato e ucciso: la grande risonanza e il grande seguito che il personaggio Gesù aveva presso il popolo. La sua capacità di saper parlare al cuore della gente28; il suo denunciare senza timori le ingiustizie, le angherie, i soprusi delle autorità giudaiche e le contraddizioni di un giudaismo (Mt 12,40; 23; Lc 20,47) resosi ormai inviso al popolo per gli eccessivi carichi di regolamenti (Mt 23,4) che avevano sterilizzato il rapporto del credente con Dio, riducendolo ad una serie di regole del fare o del non fare (Mt 15,9; Mc 7,7). Tutto questo aveva sicuramente avuto un forte impatto sulla gente. Gesù dunque, al di là delle sue reali intenzioni, doveva avere in mano migliaia di persone pronte a seguirlo ovunque egli andasse e il malcontento della gente aveva trovato finalmente il suo leader; e le cose, nonostante i tentativi di discredito su di lui29, non miglioravano, anzi le fila dei suoi seguaci si ingrossavano sempre più (12,11.19). È l'insieme di queste cose che inquietava le autorità religiose e in particolar modo i sommi sacerdoti e i sadducei che erano ritenuti dai Romani responsabili dell'ordine pubblico. La presenza poi di Pilato, prefetto della Giudea nel periodo 26-36 d.C., non era certamente rassicurante. Pilato, che faceva parte della classe equestre, era un soldataccio privo di scrupoli, noto non solo per il suo servilismo nei confronti di Roma, che talvolta lo rendeva titubante nel prendere delle decisioni, ma anche per la sua capacità di provocazione e per la sua crudeltà. E fu proprio quest'ultima che gli costò il posto di prefetto. Trasferito a Roma ad opera di Vitellio, legato di Siria da cui dipendeva la Palestina, venne poi esiliato a Vienne, dove, secondo una tradizione abbastanza attendibile morì suicida sulle rive del Rodano sotto l'imperatore Caligola (37-41 d.C.)30.

Era questa anche l'epoca dove sorgevano sedicenti messia o autoproclamatisi re, che turbarono il panorama storico della Palestina del I e II sec.; tentativi di sovversione che si concludevano non di rado con stragi, finendo in bagni di sangue31. Collocato in questo contesto, il seguito che Gesù aveva faceva di lui un potenziale e concreto pericolo per l'ordine pubblico, in particolar modo durante le festività della pasqua, dove a Gerusalemme affluivano centinaia di migliaia di pellegrini provenienti non solo dalla Palestina, ma da tutto l'impero. Era questo il momento del maggior pericolo per l'ordine pubblico, in cui potevano scoppiare improvvise rivolte popolari. Per questo motivo la guarnigione della Torre Antonia, prospiciente sul tempio di Gerusalemme, veniva rafforzata con un distaccamento della X Legio Fretensis, stanziata in Siria, mentre il governatore della Palestina, dai suoi palazzi di Cesarea Marittima dove risiedeva il governatorato, si trasferiva nella Torre Antonia per tutto il periodo delle feste pasquali. È in questo clima di tensione e in questo contesto storico che matura nelle autorità religiose la determinazione di togliere di mezzo Gesù una volta per tutte (v.53).

Ecco dunque che Giovanni racconta che “I capi dei sacerdoti32 e i farisei riunirono il sinedrio”. Questo organo di potere religioso, politico e giudiziario era formato da tre categorie di persone: Sacerdoti, anziani e scribi, molti dei quali, in particolar modo quelli di quest'ultima categoria, appartenevano al movimento farisaico33, che si impose dopo il 70, allorché con la distruzione del Tempio anche il sacerdozio perse la sua influenza sociale e religiosa, dando vita ad un nuovo giudaismo, quello rabbinico, fondato sul culto della Torah. Sarà proprio questo giudaismo rabbinico che costituirà uno dei maggiori ostacoli al nascente cristianesimo. Pertanto quando Giovanni parla qui impropriamente di “farisei” che convocano il sinedrio fa una generalizzazione che risente del contesto storico in cui è stato redatto il vangelo.

La soluzione di Caifa: meglio che muoia uno a favore di tutti (vv.49-50)

Viene qui offerta da Caifa la soluzione alla questione posta dal Sinedrio (vv.47-48). Egli è sommo sacerdote e quindi, quale supremo rappresentante del Sinedrio, va a lui la responsabilità di dare delle risposte o di assumerle come proprie. Ma l'introduzione di questa figura servirà a Giovanni per dare peso teologico alla sua interpretazione esegetica dei successivi vv.51-52. Caifa divenne sommo sacerdote nel 18 d.C. e fino al 36, allorché venne destituito dalla carica da Vitellio, governatore della Siria, da cui dipendeva la Palestina. La destituzione avvenne lo stesso anno di Pilato. Questo lascia pensare che Vitellio abbia voluto rompere una tresca e una connivenza non molto limpide tra Pilato e Caifa, che probabilmente creavano dei problemi di amministrazione e di gestione politica in Giudea. Egli verrà sostituito da Gionata, figlio di Anna, suocero quest'ultimo di Caifa. La precisazione dell'autore che Caifa era sommo sacerdote “di quell'anno” non va certamente inteso nel senso che la carica avesse durata annuale; anzi per quello che ci suggerisce Nm 35,25b la carica sembra avere durata “a vita”. Se numerosi sommi sacerdoti si susseguirono a breve durata ciò dipese esclusivamente dalla convenienza politica di Roma. L'espressione temporale “di quell'anno” pertanto fa riferimento non alla durata del sommo sacerdozio, ma individua il periodo in cui avvennero i fatti: la delibera di morte da parte del Sinedrio nei confronti di Gesù e la sua esecuzione. Giovanni quindi sta qui creando un po' alla volta il contesto storico che ha portato all'arresto e alla condanna a morte di Gesù.

Il v.50 riporta la considerazione pratica e di tornaconto politico proposta da Caifa: “né considerate che a voi giova che un uomo muoia in favore del popolo e non che tutto il popolo perisca”. La formulazione di questa proposta è alquanto singolare per la terminologia qui usata dall'autore e attribuita a Caifa; in particolare le due espressioni “a voi giova” e “muoia in favore del popolo”, che predispongono il lettore ad una comprensione cristologica, che verrà poi ripresa e spiegata ai vv.51-52. Questi aspetti cristologici che l'autore ha voluto mettere sulle labbra di Caifa e che poi in qualche modo giustificherà al v.51, certamente non rispondevano alle intenzioni del sommo sacerdote, che qui sta proponendo al Sinedrio un omicidio politico, che tenta in qualche modo di giustificare, secondo la logica propria del potere che il fine giustifica i mezzi.

Il commento dell'autore alle parole di Caifa fornisce la chiave di lettura della morte di Gesù (vv.51-52)

Già in qualche modo preannunciati dalla singolare delibera di morte emessa da parte di Caifa, i vv.51-52 si qualificano come un'esegesi dell'autore stesso, che spiega al suo lettore il senso di quanto Caifa ha deliberato e l'attendibilità di ciò che ha detto. Caifa, a sua insaputa, quasi condotto da una mano invisibile che sta attuando attraverso lui un piano salvifico, ha pronosticato che quella morte sarebbe giovata alla salvezza del popolo. Giovanni giustifica questa affermazione riportando una credenza, di cui non abbiamo testimonianza se non qui: “essendo sommo sacerdote di quell'anno, profetò”. Giovanni dunque attribuisce alle parole di Caifa una valenza squisitamente cristologica e teologica nel contempo. In quanto profezia egli, come ogni profeta, parla in nome e per conto di Dio e rivela un piano divino che si sta attuando in Gesù ad opera di Dio (senso teologico); quanto al valore cristologico delle sue parole egli rivela il senso del morire di Gesù: “ Gesù stava per essere ucciso in favore il popolo”, cioè di Israele. Una morte per quanto sublime tuttavia alquanto riduttiva se fosse rivolta al solo Israele; ed ecco la correzione universalistica dell'autore che estende il valore salvifico all'intera umanità credente: “e non solo per il popolo, ma anche per radunare in uno i figli di Dio dispersi”. Una considerazione questa che, rivolta ad Israele, condensa in se stessa il realizzarsi di diverse profezie, che prospettavano, al sopraggiungere dei tempi messianici ed escatologici, la riunificazione di Israele in Gerusalemme e la ricostituzione nella sua dignità di popolo in mezzo alle genti con una nuova identità segnata dallo Spirito (Ger 29,14; Ez 11,17; 20,34; 22,19.21; Sof 3,20). Ora, sembra dire Giovanni, tutto ciò si sta realizzando nella morte di Gesù; una morte che “raduna in uno i figli di Dio”, in cui l'espressione “figli di Dio”, che ricorre soltanto qui e in 1,12, assume una doppia valenza: essa indica, da un lato, gli israeliti, che come tali si autodefinivano (8,41; Es 4,22-23a); dall'altro, secondo l'assioma dei vv.1,12-13, designa tutti i credenti, che da Dio sono generati per il loro aver creduto nel nome di Gesù. L'espressione “figli di Dio”, pertanto, assume qui una valenza universalistica, poiché abbraccia sia Israele che l'intero mondo dei credenti, tutti riunificati nella morte di Gesù, che in 12,32 attesterà: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”. È significativo quanto qui Giovanni sta dicendo, poiché riflette in qualche modo il pensiero dell'autore della Lettera agli Efesini (Ef 2,11-18; 3,5-6), scritta in ambiente di Efeso intorno agli anni 80, proprio il luogo e il tempo in cui si stava formando il vangelo giovanneo. È probabile quindi che Giovanni ne sia rimasto influenzato ed abbia voluto in qualche modo richiamare qui il significato universale della morte di Gesù, dandole una prospettiva ecclesiologica.

Le conseguenze della delibera

I vv.53-54 chiudono la pericope in esame (vv.47-54) presentando l'esito della riunione del Sinedrio, che si conclude con una delibera di morte (v.53), in cui riecheggia in qualche modo quella di Mt 26,4. La decisione del Sinedrio costringe Gesù a rifugiarsi ad Efraim, dove rimane là con i suoi discepoli (v.54). Un'espressione quest'ultima che richiama da vicino il v.10,40b, con il quale forma una sorta di inclusione, e certamente ne evoca il contesto di morte (10,31-40), di cui qui si fornisce la lettura cristologica (vv.50-52). Ma mentre in 10,40b non si citano i discepoli, anche se è logico pensare che essi fossero con Gesù, qui in 11,54c, in questo nuovo contesto di morte, fattosi molto più concreto e immediato (v.53), Gesù viene presentato insieme con i suoi discepoli. Un accoppiamento che riflette quanto Tommaso, rivolgendosi ai condiscepoli, esortava: “Andiamo anche noi per morire con lui” (v.16)

Efraim, una cittadina posta a circa 20 Km a nord-est di Gerusalemme, a ridosso di una zona montuosa e desertica. In tutto il N.T. è citata soltanto qui. Una citazione strana che va contro corrente poiché Gesù, a ridosso della pasqua, per fuggire dai pericoli di Gerusalemme, secondo i racconti sinottici, si rifugiava a Betania, a poco meno di 3 Km da Gerusalemme. Sorge allora un dubbio: perché Giovanni confina Gesù ad Efraim (“rimase là con i discepoli”), così lontana da Gerusalemme e proprio sul far del compiersi dell'ora (13,1)? Si tratta di un dato storico, che solo lui ricorda, o la citazione di Efraim racchiude in se stessa una qualche allusione cristologica? È significativo come l'indicazione di Efraim come luogo di stanziamento di Gesù e dei suoi discepoli, posti qui a ridosso della pasqua (v.55), quella del compiersi della sua ora (13,1), avvenga immediatamente di seguito ai vv.51-53 dove si dà l'interpretazione cristologica della morte di Gesù: la sua morte è posta a favore sia di Israele che di tutti quelli che credono in lui, acquisendo quindi una dimensione universalistica ed ecclesiologica. Si tratta dunque di una morte feconda che fa dei due, Israele e mondo pagano, un solo popolo (Ef 2,14); una morte che genera una nuova comunità credente dai tratti fortemente messianici ed escatologici, in cui non c'è più né Giudeo né Greco, ma tutti sono uno in Cristo (Rm 10,12; Gal 3,28; Col 3,11). E il richiamo qui di Efraim dice tutto questo. Questo nome compare per la prima volta nella Bibbia in Gen 41,52, dove se ne dà anche la spiegazione: “E il secondo lo chiamò Efraim, perché - disse - Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione”. Il figlio di cui si parla qui è il secondo figlio di Giuseppe e la terra della sua afflizione è l'Egitto. Ma in una lettura cristologica non è difficile comprendere come la terra di afflizione, quale luogo di fecondità, sia proprio la Giudea e nello specifico Gerusalemme dove si consumerà la morte universalmente feconda di Gesù; quella morte in cui Gesù trarrà tutti a se stesso (12,32). Ma non è tutto. Vi è anche la profezia di Ez 37,15-27, a cui si richiama Gv 11,51-52, dove Efraim, città rinomata e prestigiosa, divenuta nel linguaggio profetico sinonimo del Regno del Nord34, e ai tempi di Gesù città di area samaritana35, terra considerata eretica e assimilata dai Giudei al mondo pagano, verrà riunita al Regno di Giuda, la Giudea dei tempi di Gesù, considerata l'autentica erede delle promesse (4,22): “Mi fu rivolta questa parola del Signore: <<Figlio dell'uomo, prendi un legno e scrivici sopra: Giuda e gli Israeliti uniti a lui, poi prendi un altro legno e scrivici sopra: Giuseppe, legno di Efraim e tutta la casa d'Israele unita a lui, e accostali l'uno all'altro in modo da fare un legno solo, che formino una cosa sola nella tua mano. Quando i figli del tuo popolo ti diranno: Ci vuoi spiegare che significa questo per te?, tu dirai loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io prendo il legno di Giuseppe, che è in mano a Efraim e le tribù d'Israele unite a lui, e lo metto sul legno di Giuda per farne un legno solo; diventeranno una cosa sola in mano mia. Tieni in mano sotto i loro occhi i legni sui quali hai scritto e dì loro: Così dice il Signore Dio: Ecco, io prenderò gli Israeliti dalle genti fra le quali sono andati e li radunerò da ogni parte e li ricondurrò nel loro paese: farò di loro un solo popolo nella mia terra, sui monti d'Israele; un solo re regnerà su tutti loro e non saranno più due popoli, né più saranno divisi in due regni. Non si contamineranno più con i loro idoli, con i loro abomini e con tutte le loro iniquità; li libererò da tutte le ribellioni con cui hanno peccato; li purificherò e saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio. Il mio servo Davide sarà su di loro e non vi sarà che un unico pastore per tutti; seguiranno i miei comandamenti, osserveranno le mie leggi e le metteranno in pratica. Abiteranno nella terra che ho dato al mio servo Giacobbe. In quella terra su cui abitarono i loro padri, abiteranno essi, i loro figli e i figli dei loro figli, attraverso i secoli; Davide mio servo sarà loro re per sempre. Farò con loro un'alleanza di pace, che sarà con loro un'alleanza eterna. Li stabilirò e li moltiplicherò e porrò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo>>”.

L'accostamento dunque di Efraim a Gesù in questo contesto di morte immediata rafforza il senso cristologico ed ecclesiologico del morire di Gesù. Non ritengo pertanto che lo stanziamento di Gesù con i suoi discepoli ad Efraim abbia soltanto una mera valenza storica, che comunque non va esclusa, ma qui l'autore sembra far prevalere quella cristologica ed ecclesiologica su quella storica.

La premessa al cap.12 (vv.55-57)

I vv.55-57 formano da cornice al cap.12 ed introducono il lettore nel contesto della pasqua (v.55), sulla quale pesa l'ombra della morte (v.57). Sarà dunque questa per Gesù una pasqua funesta, che vedrà il compiersi dell'ora (13,1).

Il v.55 si apre con l'annuncio della pasqua imminente. È la terza pasqua, che viene indicata, similmente alle altre festività, come quella “dei Giudei”, in cui si sente tutto il distacco e l'estraneità di un culto che ormai non apparitene più alla comunità giovannea e in cui non è stonato leggervi anche una nota polemica, che contrappone la pasqua cristiana a quella giudaica. Questa terza pasqua segna il compimento di un lungo cammino verso il Golgota scandito da altre due precedenti pasque, in cui il tema del morte e della risurrezione era in diversi modi presente. La prima pasqua (2,13), che vede Gesù “salire a Gerusalemme” per la prima volta, preludendo in qualche modo alla sua salita al Golgota, località a pochi passi da Gerusalemme, dove si consumerà il suo dramma, è caratterizzata dalla cacciata dei venditori dal tempio (2,14-17), ma anche dall'esplicito richiamo alla morte e risurrezione di Gesù (2,19-22). La seconda pasqua (6,4) è contraddistinta dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci e dal lungo discorso con cui Gesù si dichiara vero pane di vita disceso dal cielo (6,51a), che offre la sua carne e il suo sangue ai credenti, donando loro la vita eterna (6,51b.53-56). Anche qui il richiamo alla morte e risurrezione, qui estese ai credenti che si nutrono di questa carne e di questo sangue, lasciandosi così assimilare alla morte di Gesù, premessa e promessa di vita divina (Rm 6,3-5), è molto forte, quasi assordante. Ed infine questa terza ed ultima pasqua, il cui annuncio è collocato in un contesto di morte, letta come elemento di rappacificazione universale, tra Israele e il mondo pagano, generatrice di una nuova comunità messianica ed escatologica, che sarà segnata dal dono dello Spirito (14,17; 15,26; 16,13). Vediamo dunque come lungo il cammino di queste tre pasque, Giovanni fornisce al suo lettore una progressiva comprensione della morte e risurrezione di Gesù e dei loro effetti sui credenti.

Il tempo che precedeva immediatamente la pasqua vedeva già molti pellegrini salire a Gerusalemme per praticare i riti di purificazione e rendersi quindi ritualmente puri per la celebrazione36. L'impurità si poteva contrarre in diversi modi, come il venir a contatto, anche inavvertitamente con dei cadaveri o passando nei pressi delle tombe, che venivano imbiancate per essere rese visibili anche di notte così da evitarle (Mt 23,27); o frequentando i luoghi dei pagani, considerati impuri per loro natura (18,28) o comunque il venire a contatto, anche inavvertitamente, con un qualsiasi oggetto, animali o uomini considerati immondi o in uno stato di impurità per contrarre a propria volta tale stato. I riti di purificazione erano lunghi e potevano durare anche una settimana o più; essi prevedevano l'aspersione con l'acqua appositamente preparata attraverso un complesso rituale, che la rendeva idonea alla purificazione e talvolta a questa si accompagnava l'offerta di sacrifici di espiazione37.

I vv.56-57 sembrano in qualche modo mutuati dai vv. 7,11.13, con i quali hanno una forte somiglianza, e qui poi riadattati. Il Brown pensa ad “un redattore che abbia riutilizzato del materiale tradizionale, tratto da un racconto variante per creare la transizione”38. Il v.57 riporta l'ordine di cattura di Gesù; una disposizione questa che probabilmente fa parte della delibera con cui il Sinedrio decretò la condanna a morte di Gesù. Il v.57 infatti inizia con l'espressione “i capi dei sacerdoti e i Farisei”, la stessa con cui si è aperto anche il v.47, che annuncia la convocazione del Sinedrio per decidere sul da farsi circa Gesù e che si concluderà con una sentenza di morte (v.53). Vi è dunque un aggancio tra i vv.47 e 57, che fa pensare come entrambe le disposizioni facciano parte dell'unica delibera maturata in quella convocazione del Sinedrio.


Giovanni Lonardi


N O T E

1Cfr, Gv 12,9.12.13.17.18.29.34

2Nella redazione dei vangeli si ricorreva in genere a questa forma letteraria quando il detto di Gesù giungeva al redattore privo di ogni contesto storico. Era, quindi, cura del redattore contestualizzare alla meglio il detto, cercando di renderlo consono ai suoi intenti di annuncio e alla sua teologia. La sentenza inquadrata consiste quindi in un detto di Gesù, ritenuto dall'evangelista rilevante ai fini della propria narrazione, attorno al quale egli costruiva un racconto per metterne in rilievo il senso.

3Per il significato dei nomi e il loro contesto cfr. i rispettivi nomi in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

4Cfr. Mt 21,17; 26,6; Mc 11,11; 14,3; Lc 24,50

5Sull'uso del verbo “amare/amore” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva, pag. 56

6Mt 10,38; 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23

7Le altre due pasque sono indicate ai vv.2,13 e 6,4. La prima contraddistinta dalla cacciata dei venditori dal tempio e dall'annuncio della passione e morte di Gesù (2,19-21); la seconda qualificata dal racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui Gesù si identifica con il pane, capace di generare alla vita eterna. La pasqua cadeva tra il mese di marzo e quello di aprile, il tempo della luna nuova che in epoca nomadica vedeva i pastori con le loro greggi lasciare il loro stanziamento invernale alla ricerca di nuovi pascoli.

8Il riferimento qui delle “dodici ore del giorno” risente del modo di contare il giorno secondo il criterio dei Romani, per i quali il giorno era suddiviso in due parti: il giorno propriamente detto, che iniziava alle sei del mattino e terminava alle sei pomeridiane; e la notte, suddivisa in quattro vigilie di tre ore ciascuna, con riferimento ai turni di guardia, e andava dalle sei pomeridiane alle sei del mattino del giorno dopo.

9Cfr. Mt 21,42-45; Mc 12,10; Lc 20,17-18

10Cfr. Rm 6,3-8

11Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977; ristampa 2002 – pag.66. Cfr. anche At 5,6.10

12La traduzione del v.9,51 è stata fatta da me, tenendomi fedele al testo greco.

13Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, op. cit. – pag.205

14Cfr. R. E. Brown, Giovanni, op. cit. - pag.550

15Cfr. Gv 2,16-17, dove “casa” è metafora di “Tempio”; in 8,35 assume il senso di Israele e di storia della salvezza (cfr. commento a 8,35, pag.39); in 14,2 e 19,27; 20,10.26 assume il senso di comunità o luogo dove si rende presente Gesù.

16Cfr. J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli, Cittadella Editrice, Assisi, II edizione 1997

17Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, op. cit. – pagg.69-70

18Sulla questione cfr. il commento ai capp.14-17 de “Il Vangelo secondo Matteo” presente sul mio sito “Teologia per Tutti”, nella Sezione Esegetica, area “Matteo”.

19Il concetto di risurrezione nell'A.T. è alquanto aleatorio e soltanto nel II sec. a.C. si possono riscontrare alcuni accenni abbastanza significativi sulla risurrezione intesa come ricompensa per i giusti, ma anche come forma di giudizio per gli iniqui (Dn 12,2; 2Mac 7,9.14; 12,44). La formazione del concetto di risurrezione nel pensiero ebraico ha i suoi primi albori nei racconti veterotestamentari di Elia e di Eliseo, dove si narra della risurrezione del figlio della vedova di Sarepta da parte di Elia (1Re 17,17-23) e del figlio della Sunammita ad opera di Eliseo (2Re 4,18-37). Si tratta, più che di risurrezione, di una rivivificazione, un riprendere a vivere secondo gli stessi parametri di vita precedente, compreso anche quello della morte. Un nuovo intervento utile per la formazione del concetto di risurrezione compare in Os 6,1-3, il cui sfondo storico è la guerra siroefraimita. Accenni, sia pur contrastanti, alla risurrezione compaiono in Is 26 14.19. Discriminante di risurrezione o meno qui è l'appartenere a Jhwh. Nel quarto canto del Servo di Jhwh, in 53,10-11, si accenna ad una vita imperitura e ad un vedere la luce dopo il tormento che vengono assegnate al Giusto Servo; mentre in Ez 37,1-14, sullo sfondo storico dell'esilio babilonese (598-538 a.C.), viene narrata la grande visione delle ossa aride, che per la potenza di Jhwh sono rianimate, rivestite nuovamente di carne e tornano a vivere per opera dello Spirito di Dio. Ma con l'avvento dell'apocalittica in Israele (II a.C. - I sec. d.C.) compare anche la fede nella risurrezione. Esponenti del nuovo corso delle cose furono i Farisei, che credevano nella risurrezione, a cui si contrapponevano i Sadducei assieme ai Samaritani, che invece, la rifiutavano, poiché la Torah non ne parlava (Mc 12,18; At 23,8). Essi, infatti, contrariamente ai Farisei, accettavano soltanto la Torah scritta, respingendo quella orale. Tuttavia, ai tempi della venuta di Gesù il concetto di risurrezione era sostanzialmente diffuso e accettato; una credenza che viene attestata anche dalla seconda preghiera delle Diciotto Benedizioni: “Tu sei potente in eterno, Signore che risusciti i morti, che sei grande nel concedere salvezza che fai spirare il vento e fai scendere la pioggia. Egli nutre i viventi per grazia, fa risorgere i morti con grande misericordia, sostiene i cadenti, guarisce i malati, libera i prigionieri e mantiene la sua fedele promessa a chi dorme nella polvere. Chi come Te, o Potente? Chi Ti assomiglia, o Re che fa morire e risorgere, che fa sbocciare per noi la salvezza? Tu sei fedele nel far risorgere i morti. Benedetto Tu, Signore, che risusciti i morti”. Benché diffuso e sostanzialmente accettato, quello della fede nella risurrezione non ha mai prodotto grandi entusiasmi. Sarà soltanto il cristianesimo, che in riferimento alla risurrezione di Gesù, riprenderà il concetto di risurrezione. Questo con la riflessione paolina subirà un approfondimento e degli sviluppi senza precedenti, così da farne il fondamento della nostra stessa fede (1Cor 15,12-17). - Sulla formazione del concetto di risurrezione cfr. la voce “Risurrezione” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

20Cfr. At 1,15; 9,30; 10,23; 11,1; 13,38; 15,1; 3Gv 1,3; Rm 16,1; 1Cor 7,12; 2Cor 8,22; Fil 2,25; 1Ts 3,2; Eb 13,23; Fm 1,2

21Cfr. 1Cor 15,20-28; 2Ts 1,6-10; 2,1.9-10; Ap 22,17a.20

22Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, op. cit. - pagg.65-70

23Cfr. 6,66-69; 7,12.30-31.46-47

24Cfr. la voce “Sheol” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, pag.65, opp. citt.

25Cfr. Mt 8,16.31; 9,33; 10,1.8; 11,5; 12,24-28; Mc 1,34.39; 3,15.22; Lc 7,22; 11,14.20; 13,32

26Cfr. anche 1Ts 4,16; Eb 12,19

27Il primo ordine è quello di togliere la pietra; il secondo la chiamata di Lazzaro alla vita; il terzo quello di scioglierlo dalle bende che lo avvolgevano.

28Cfr. Mt 7,29; 9,8; 22,33; Mc 1,27; 2,12; Gv 8,30

29Cfr. Gv 7,12.26-27.41; 8,48; 10,20

30Ponzio Pilato fu nominato prefetto della Giudea nel 26 d.C., in sostituzione di Valerio Grato, governatore dal 15 al 26 d.C., e vi rimase fino al 36. Assieme al suo predecessore, Pilato fu l’unico ad avere l'amministrazione della Giudea per un periodo così lungo. Normalmente infatti la durata della carica era di due o di quattro anni al massimo[45]. Il suo governatorato si estendeva limitatamente alla Giudea, Samaria e Idumea, che coprivano complessivamente un territorio di circa 160 Km per 75 Km. La sua fama è legata esclusivamente all'occasionale incontro che egli ebbe con un certo Gesù di Nazaret, presentatogli come un pericoloso sovversivo (Lc 23,5.13-15), ma su cui non riscontrò, di fatto, nessuna colpa (Gv 19,6b), ma "pro bono pacis" non esitò a darlo in pasto ai suoi avversari (Mc 15,15), per evitare l'ennesima rivolta, che l'avrebbe costretto ad intervenire duramente, come era sua consuetudine. La sua amministrazione fu segnata da diversi episodi, che lo videro protagonista di imprudenze, provocazioni, crudeli e spesso cruenti repressioni, che Flavio Giuseppe ci ha testimoniato nelle sue opere "Antichità Giudaiche" e "Guerra Giudaica".

31Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.3-7

32L'espressione “capi dei sacerdoti” è generica e comprende non solo il sommo sacerdote in carica, Caifa, e il suo predecessore nonché suocero, Anna, ma anche tutti gli alti funzionari del Tempio, come il capitano del Tempio (At 4,1), i guardiani del Tempio e i tesorieri. Cfr. la voce “Sacerdoti e Leviti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

33A seguito delle pesanti ingerenze del re seleucida Antioco IV Epifane, che volle imporre ai giudei i costumi ellenisti, profanando gravemente il Tempio e violando in ogni modo la loro religione, i Maccabei intrapresero una guerra di liberazione vittoriosa contro Antioco IV tra il 167-164 a.C. Alla lotta dei Maccabei si unì un gruppo di pii ebrei, fedeli alla tradizione dei Padri, gli “hassidim”o Asidei, i pii, i devoti, che fin dal III sec. a.C. contrastarono duramente la politica di ellenizzazione. Sostenitori inizialmente dei Maccabei, quando questi dagli iniziali obiettivi di riconquistare il Tempio e la libertà religiosa, proseguirono la lotta per la conquista dell'indipendenza politica, dagli Asidei si “separò” intorno all'anno 150 a.C. un gruppo che non sostenne più i Maccabei, non riconoscendosi più nei loro obiettivi. Questo gruppo venne definito dei “farisei”, cioè i “separati” dal verbo “farash”, che significa separare. Questi si mantennero come gruppo autonomo e con una propria identità fino all'anno 70 d.C. allorché, dopo la distruzione del Tempio e la conseguente caduta del sacerdozio, assunsero la guida del giudaismo, dandogli un nuovo indirizzo e ricompattandolo attorno all'esclusivo culto della Torah. - Sulla questione cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, pagg.126-127; e la voce “Farisei” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, opp.citt.

34Cfr. la voce “Efraim, Efraimiti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

35Efraim, ai tempi della divisione di Israele nei due regni (circa 933 a.C.), dopo la morte di Salomone, apparteneva al Regno del Nord o Regno di Israele, nella regione della Samaria. Efraim dunque era samaritana per storia e cultura; sarà soltanto in epoca maccabaica, sotto Demetrio II (145-138 a.C.), re di Siria della dinastia dei Seleucidi, che passerà, assieme a Lidda e Ramataim, anche queste appartenenti al territorio della Samaria, sotto la Giudea, per decreto dello stesso Demterio II.

36Il concetto di puro o impuro definiscono lo stato che determina se l'uomo può comparire davanti a Dio per compiere atti cultuali o sacrificali durante una celebrazione liturgica. In questo caso si parla di purità o impurità rituale (Lv 7,20; Nm 9,9-11;)

37Sulla questione della purità cfr. Lv 11-15; la voce “Puro, Impuro, Purificare” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, pagg.444-448; opp. citt.

38Cfr. R. E. Brown, Giovanni, editrice Cittadella, Assisi, 5^ edizione 1999 – pag.580