IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
L'attività
pubblica di Gesù
incorniciata
da quattro
grandi
feste ebraiche
ossia
l'operare
trasformante
e
rigenerante di Gesù
collocato
nel cuore
del
culto giudaico,
preludio
ad un nuovo culto
Commento
esegetico e teologico
ai
Capp. 5 -
10
a cura di Giovanni Lonardi
CAPITOLO
DECIMO
Il Pastore
che dona
la vita
eterna
Premessa
Un capitolo decisamente singolare e sconcertante questo che ci apprestiamo a commentare; un capitolo che da un punto di vista narrativo non ha né capo né coda. Nonostante ciò molti esegeti, pur rilevando le difficoltà di questo capitolo, lo accettano così com'è e ne giustificano la struttura cercando teologie o cristoligie che in qualche modo lo possano legare ai capp.7-9, quando sarebbe più semplice seguire la logica narrativa che anche qui, benché tutta sossopra, è presente. Le incongruenze sono evidenti e balzano immediatamente all'occhio e suonano come una stonatura all'interno della dinamica narrativa:
vi è innanzitutto una incongruenza tematica: i capp.7-9 sono tutti incorniciati all'interno della festa delle Capanne ed hanno come sfondo cristologico il tema dell'acqua (7) e della luce (8), che trovano la loro sintesi applicativa nella guarigione del cieco nato (9) dove Gesù nel presentarsi come luce del mondo (9,5), richiamandosi così al cap.8, dona la luce al cieco, significando in tal modo il suo essere luce; lo manda poi a lavarsi nella piscina di Siloe, le cui acque erano utilizzate dai sacerdoti durante la festa delle Capanne, particolare questo che si richiama al cap.7. I capp. 7-9 pertanto concordano tra loro, anche perché vi è tra loro una continuità logica e narrativa (7,37; 8,1-2; 8,59-9,1). Ma ecco che, all'improvviso e inopinatamente, al cap.10, senza alcuna premessa o introduzione e senza alcuna contestualizzazione compare un Gesù che sta parlando, dando l'idea di una continuità di discorsi già iniziati al cap.9, ma in realtà viene introdotto un tema completamente nuovo e inatteso e che in nessun modo è stato preannunciato: quello di Gesù buon pastore, colto nel suo rapporto con le pecore e con i mercenari e quanti erano venuti prima di lui, definiti ladri e assassini (v.8). Un discorso che non ha alcun legame con i precedenti. Una novità del tutto inedita e inaspettata.
Vi è inoltre una seconda incongruenza di tipo temporale. Molti esegeti includono 10,1-21 all'interno della festa delle Capanne; ma se così fosse come si giustificherebbe la ripresa del tema di 10,1-21 posto all'interno della festa della Dedicazione (v.22), considerato che questa va a cadere tre mesi dopo quella delle Capanne e tenendo presente anche che l'intero uditorio precedente ora non c'è più? Verrebbe quindi a crearsi una frattura nella logica tematica e narrativa.
Vi è poi un altro aspetto significativo e tale proprio perché unico in tutto il vangelo giovanneo: il cap.10 è l'unico capitolo che incomincia senza alcuna introduzione, senza alcun cenno di contestualizzazione, così che appare come un discorso piantato lì senza logica alcuna, quasi piovuto lì dal caso, senza sapere da dove venga e dove Gesù stia parando e, comunque, si presenta privo di ogni giustificazione narrativa. Una simile situazione si verifica agli inizi dei capp.14-17, ma qui la cosa è più che giustificata poiché i capp.13-17 formano, come meglio vedremo in seguito, un unico blocco narrativo a se stante, che contiene un unico grande quanto lungo discorso di Gesù ai suoi, che dura ben cinque capitoli. Essi sono ben inseriti nello scenario dell'ultima cena, ben contestualizzata dai vv.13,1-4, così che il lettore non ha bisogno di continui richiami, leggendo questi capitoli come fossero in realtà un unico grande capitolo. Narrativamente parlando, il lettore se lo aspetta.
Vi è inoltre un'anomalia narrativa e strutturale che non si riscontra in nessun altro capitolo del vangelo giovanneo se non in questo: vi è l'apertura di una nuova sezione narrativa che anziché iniziare all'inizio del capitolo parte a metà capitolo e precisamente dal v.22: “In quel tempo in Gerusalemme ci fu (la festa della) Dedicazione; era inverno, e Gesù passeggiava nel tempio, nel portico di Salomone”. Espressioni come queste non si trovano a metà capitolo bensì all'inizio e in genere inquadrano il capitolo stesso e ne creano il contesto.
Vi è infine un anacronismo narrativo: ai vv.19-21 si accusa Gesù di essere un indemoniato. In questa breve pericope compare per due volte il termine “demonio” e una volta l'aggettivo sostantivato indemoniato riferiti a Gesù. Queste espressioni si richiamano al contesto dei capp.7-8 e più precisamente ai vv.7,20; 8,48.49.52. Riecheggiano poi in questa pericope i vv.9,16.31-33 creando quindi in qualche modo un collegamento con il cap.9. La presenza poi del termine “ciechi” allude chiaramente al segno del cieco risanato del cap.9. Il termine “cieco” nel vangelo giovanneo, infatti, compare 18 volte, di queste una (5,3) fa parte di un elenco di infermi che giacevano presso la piscina di Bethzatà, un'altra fa parte di una citazione sapienziale (12,40), le rimanenti 16, tra cui la nostra, riguardano il cieco nato. Nel vangelo giovanneo non risulta infatti da nessun'altra parte che Gesù abbia guarito dei ciechi se non al cap.9. È giocoforza pertanto che il riferimento alla guarigione di “ciechi” qui riguardi esclusivamente il segno del cieco nato. La domanda che sorge spontanea allora è: che ci fanno questi vv.19-21 a metà del cap.10? Simili versetti stanno bene a chiusura del cap.9, ma non certamente qui. Il tema e il linguaggio usati in questa breve pericope hanno attinenza con i capp.7-9, ma risultano estranei al cap.10. Pertanto i vv.10,19-21 vanno posti a conclusione del cap. 9.
Dall'insieme di queste osservazioni emerge evidente come questo capitolo, da un punto di vista strettamente strutturale e narrativo, faccia acqua da tutte le parti. Ciò tuttavia non stupisce poiché il vangelo di Giovanni, considerata la lunga gestazione avuta e le numerose mani da cui è passato, abbonda di queste incongruenze letterarie e strutturali1. Cosa può dunque essere successo? Considerata la illogicità strutturale e narrativa che pervade l'intero cap.10 non resta che pensare al redattore finale, il quale, nello stendere il vangelo giovanneo abbia inavvertitamente invertito due fogli: il primo, che chiameremo “foglio A”, doveva seguire immediatamente il racconto del cieco nato, e conteneva i vv.10,19-21.22-30; il secondo, “foglio B”, doveva contenere i restanti versetti: vv.10,1-18.31-42. Posti i versetti in questa sequenza tutto torna in ordine: narrazione e struttura narrativa; tutto è sotteso dalla coerenza logica.
Pertanto, da quanto fin qui esposto, propongo questa sequenza strutturale del cap.10:
vv.19-21: questi versetti vanno in chiusura del cap.9;
vv.22-30: formano la parte introduttiva al cap.10, contestualizzato nella festa della Dedicazione. Il capitolo si apre con la richiesta a Gesù di rendere finalmente nota la sua identità. È qui, al v.26, che si introduce il tema delle pecore, che prelude, fungendone da premessa, al discorso del Buon Pastore;
vv.1-18.31: richiesto ai vv.22-24 della sua identità, qui Gesù la presenta: egli è il buon pastore e la porta per le sue pecore, che ne riconoscono la voce; un'identità che viene polemicamente contrapposta a quella di altri, probabilmente le autorità religiose, definiti mercenari, ladri e assassini, pronti ad abbandonare le pecore di fronte al pericolo.
vv.32-42: la reazione al discorso di Gesù: tentativo di linciaggio e autodifesa di Gesù.
Ora, qui di seguito, propongo l'intero cap.10 rivisitato secondo i criteri sopra esposti, e su questo, così riordinato, faremo la nostra esegesi. I versetti avranno una doppia numerazione: la prima, in ordine crescente e in grassetto, è quella che rileva la sequenza logica della narrazione e sarà quella a cui farò riferimento nelle citazioni; la seconda in ordine sparso, è quella originaria; i vv.31-42 seguono invece la loro numerazione originaria e pertanto non avranno nessuna evidenziazione.
Cap.
10 strutturalmente rivisitato:
1) 19- Vi fu di nuovo dissenso nei Giudei per
questi discorsi.
2)
20- Ora, molti di loro dicevano: <<Ha un demonio ed è fuori di
sé; perché lo ascoltate?>>.
3)
21- Altri dicevano: <<Questi discorsi non sono di un
indemoniato. Può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?>>.
4)
22- In quel tempo in Gerusalemme ci fu (la festa della) Dedicazione;
era inverno,
5)
23- e Gesù passeggiava nel tempio, nel portico di Salomone.
6)
24- Lo attorniarono, dunque, i Giudei e gli dicevano: <<Fino a
quando tieni in sospeso il nostro animo? Se tu sei il Cristo, dicci
con libertà di parola>>.
7)
25- Rispose loro Gesù: <<Vi dissi e non credete; le opere
che io faccio nel nome del Padre mio, queste testimoniano di me.
8)
26- Ma voi non credete, poiché non siete delle mie pecore.
9)
27- Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco
e mi seguono,
10)
28- e io do a loro vita eterna e non si perderanno in eterno, e
nessuno le strapperà dalla mia mano.
11)
29- Ciò che il Padre mio mi diede è più grande di tutte le cose, e
nessuno può portar via dalla mano del Padre.
12) 30- Io e il Padre siamo uno>>.
13)
1- <<In verità, in verità vi dico, chi non entra nel recinto
delle pecore attraverso la porta, ma vi sale da un'altra parte,
quello è un ladro e un assassino;
14)
2- ma chi entra per la porta è pastore delle
pecore.
15)
3- A questi il portinaio apre e le pecore ascoltano la sua voce, e
chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori.
16)
4- Quando ha fatto uscire tutte le sue (pecore), cammina davanti a
loro e le pecore lo seguono, poiché conoscono
la sua voce;
17)
5- invece non seguiranno un estraneo, ma fuggiranno da lui, poiché
non conoscono
la voce degli estranei>>.
18) 6- Gesù disse loro questa parabola, ma
quelli non capirono cos'era ciò che diceva loro.
19) 7- Pertanto Gesù disse di nuovo: <<In
verità, in verità vi dico che io sono la porta delle pecore.
20) 8- Tutti quelli che vennero prima di me sono
ladri e assassini, ma le pecore non li ascoltarono.
21)
9- Io sono la porta; chi entra attraverso di me
sarà salvato ed entrerà e uscirà e troverà pascolo.
22)
10- Il ladro non viene se non per rubare e imperversare e
distruggere; io venni perché abbiano vita e (l')abbiano con
abbondanza.
23)
11- Io sono il buon pastore, il buon pastore offre la sua vita a
favore delle pecore;
24)
12- il mercenario e chi non è pastore, le cui pecore non sono
proprie, vede il lupo che viene e lascia andare le pecore e fugge –
e il lupo le afferra e (le) disperde -
25)
13- poiché è mercenario e non gli sta a cuore le pecore.
26)
14- Io sono il buon pastore e conosco
le mie (pecore) e le mie conoscono
me,
27)
15- come il Padre conosce
me e io conosco
il Padre, e offro la mia vita per le pecore.
28)
16- E ho altre pecore che non sono da questo recinto; anche quelle io
devo condurre e ascolteranno la mia voce, e saranno un solo gregge,
un solo pastore.
29)
17- Per questo il Padre mi ama, perché io offro la mia vita, per
prenderla di nuovo.
30)
18- Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me
stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente;
questo mandato ho ricevuto dal Padre mio>>.
31- Di nuovo i Giudei portarono pietre per lapidarlo.
32- Rispose loro Gesù: <<Vi ho fatto vedere molte
opere buone (che sono)
dal Padre. Per quale opera
di queste mi lapidate?>>.
33- Gli risposero i Giudei: <<Non ti lapidiamo per
una buona opera, ma per
bestemmia, e perché tu, che sei uomo, fai te stesso Dio>>.
34- Rispose loro Gesù: <<Non è scritto nella
vostra Legge che “Io dissi: siete dèi”?
35- Se disse dèi quelli a favore dei quali vi fu la
parola di Dio, e la Scrittura non può essere disciolta,
36- a colui che il Padre santificò e inviò nel mondo
voi dite che “bestemmi”, perché dissi “Sono figlio di Dio”?
37- Se non faccio le opere
del Padre mio, non credetemi;
38-
se invece (le) faccio, anche se non credete a me, credete alle opere,
affinché sappiate
e conosciate
che il Padre (è) in me e io nel Padre>>.
39- Cercavano, dunque, di prenderlo nuovamente, e uscì
dalla loro mano.
40- E se ne andò di nuovo al di là del Giordano, nel
luogo dove Giovanni prima battezzava e rimase là.
41- E molti vennero da lui e dicevano che Giovanni di
certo non fece nessun segno, ma tutte quante le cose che disse su
costui erano vere.
42- E molti, là, credettero in lui.
Note generali
Benché l'immagine bucolica del pastore che pasce le sue pecore in mezzo a prati verdeggianti e allo scorrere di fresche e tranquille acque, che ha ispirato poeticamente l'autore del salmo 23, infondi rassicuranti pensieri di pace che rasserenano l'animo, tuttavia nulla di tutto questo compare nel cap.10. Il clima qui è carico di tensioni e il vento che spira è di guerra aperta; il contesto è quello di un'accentuata conflittualità che traspare dai vv.6.31.39 in cui Gesù viene circondato dai Giudei, che si preparano a lapidarlo e ne tentano l'arresto a cui Gesù si sottrae in qualche modo; non si esita a definire gli avversari ladri, assassini e mercenari (vv.13.20.22.24.25); continue le contrapposizioni tra questo pastore e i suoi oppositori (vv.13-14.16-17.22-23.25-26), da cui emerge il comportamento donativo e sacrificale del primo a favore di quelle pecore che egli definisce “sue/mie”, pecore che gli appartengono (v.8.9.15.16.26), quasi parte di sé; comportamento che viene contrapposto a quello rapace e distruttivo dei secondi (v.22a.24-25).
L'intero cap.10 è strutturato sulla falsa riga di un processo, ravvisabile nel seguente schema:
vv.6-7: apertura del processo: Gesù è attorniato dai Giudei che lo interrogano sulla sua identità di Cristo e la risposta di Gesù si risolve in un'accusa di incredulità nei loro confronti. Questi versetti riproducono sostanzialmente lo stesso schema narrativo del processo contro Gesù narrato da Lc 22,66-67: “Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: <<Se tu sei il Cristo, diccelo>>. Gesù rispose: <<Anche se ve lo dico, non mi crederete>>”
vv.7-30: riportano il lungo discorso di Gesù, che si potrebbe definire come una sorta di arringa, che da un lato risponde alla domanda dei Giudei se lui fosse il Cristo, presentando una nuova immagine di messia, quale pastore che si dona per le proprie pecore (vv.27b.29); dall'altro, è un atto di accusa contro le autorità giudaiche e il giudaismo, definiti come ladri, assassini, mercenari e non pastori; a questi si contrapporrà la figura di Gesù come l'autentico Pastore d'Israele che, rivestito dello stesso potere di Dio (vv.12.18), offre la sua vita per le sue pecore (vv.23.27b.29-30).
vv.31-39: pericope inclusa dai vv.31.39 tematicamente identici: tentativo di lapidazione (v.31) e di arresto (v.39), in cui il dibattito, giunto ormai alle sue battute finali, diviene più serrato. Come meglio vedremo nell'analisi di questa pericope, essa costituirà la parte conclusiva del dibattimento processuale in cui Gesù tenterà inutilmente la sua difesa e il processo si terminerà con un tentativo di arresto (v.39).
Il contesto storico in cui è calato il racconto del Buon Pastore, figura non nuova nei Sinottici2, è quello conflittuale che vede la comunità giovannea, metaforizzata nelle pecore e nel recinto (v.13.28), che, come Gesù, si sente circondata dai Giudei (v.6a) che la perseguitano (vv.31.39); ma anche da falsi profeti e sedicenti messia, definiti ladri e assassini (vv.13.20), nonché da mercenari (vv.24-25), figura quest'ultima che sembrerebbe alludere a responsabili di altre comunità credenti, ormai già istituzionalizzate e con le quali la comunità giovannea, di natura carismatica, era in conflitto; questi responsabili, definiti mercenari e non pastori (v.24a), erano probabilmente ricompensati per il loro servizio o quanto meno mantenuti dalla comunità. Accenni in tal senso li troviamo in Paolo3 e similmente in Matteo (10,9-10) e in Luca (10,7). Mercenari che probabilmente cercavano anche i primi posti all'interno della comunità, come sembrano alludere i Sinottici4. Un contesto storico molto difficile quello in cui è venuto a trovarsi la comunità giovannea, travagliata anche dalla lunga guerra giudaica contro Roma (66-73) e dal sorgere, qua e là, di sedicenti profeti o messia o di autoproclamati re. Una questione scottante quest'ultima che si riflette anche nelle parole delle stesse autorità religiose: “I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>” (11,47-48). Il timore dunque del sorgere di fanatici, che sobillassero il popolo, era sempre presente. Se a tutto ciò aggiungiamo il conflitto con il mondo giudaico, da cui la comunità proveniva, e i rapporti tesi che essa aveva con le altre comunità credenti per il diverso modo di intendere la struttura della comunità e il diverso modo di relazionarsi, carismatico per quella giovannea, tutta raccolta attorno al Discepolo Prediletto, unico maestro riconosciuto; istituzionalizzate le altre, ben si comprende come la terra di Palestina divenisse inospitale per cui la comunità emigrò ad Efeso, dove si stabilì. Probabilmente un accenno a questa migrazione lo si ha nei vv.15-16 dove si dice che il pastore conduce fuori tutte le pecore e una volta condotte fuori, il pastore cammina davanti a loro e queste lo seguono5.
Lo sfondo biblico su cui è costruito il cap.10 è in senso generale quello che descrive il rapporto tra Dio e il suo popolo come quello tra il pastore e le sue pecore6, e in senso particolare quello descritto da Ez 34. Almeno quattro sono i motivi per cui questo discorso viene collocato all'interno della cornice della festa della Dedicazione e che meglio analizzeremo nel commento di questo capitolo. Tra questi merita una immediata attenzione il ciclo di letture sinagogali che andava a cadere il sabato immediatamente antecedente la festa stessa ed aveva come tema quello del pastore e in particolare Ez 347. Gesù dunque parlando di se stesso come pastore che accudisce amorevolmente le sue pecore ponendosi in un confronto accusatorio con gli altri pastori o sedicenti tali, riproduce sostanzialmente in questo lo schema di Ez 34 e trasferisce su se stesso non solo il rapporto che Dio intratteneva con Israele, ma di fatto accusa le autorità giudaiche di non aver saputo accudire il popolo di Dio, che hanno vessato e depredato (Mt 23; Mc 12,40; Lc 20,47). Il chiaro riferimento a Ez 34 lascia intendere come egli non solo fosse quel Pastore messianico, di discendenza davidica, promesso da Dio al suo popolo (Ez 34,23), ma come in lui si attuasse anche la promessa di Dio di Ez 34,15: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare”. Per questo le autorità giudaiche gli muovono l'accusa di bestemmia, poiché con queste parole Gesù faceva se stesso Dio (v.33) e tentano pertanto di lapidarlo, prima, (v.31) e di arrestarlo, poi (v.39).
La struttura di questo capitolo, trascurando i vv.1-3, appartenenti alla chiusura del cap.9 e che comunque commenteremo brevemente, si suddivide nel seguente modo:
vv.4-5: descrizione della cornice in cui è collocato il racconto;
vv.6-8 fingono da premessa introduttiva al discorso sul Buon Pastore; viene qui richiesta l'identità di Gesù (v.6), mentre il v.8b, nell'introdurre il temine “pecore”, fornisce l'innesco al discorso stesso;
vv.9-12: viene tratteggiato l'assunto dottrinale e teologico che delinea l'identità delle pecore e il tipo di rapporto che Gesù ha con queste (vv.9-10); mentre i vv.11-12 definiscono il tipo di rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre in relazione alle pecore. Si crea in tal modo un parallelo tra i due tipi di rapporto in cui il secondo si riflette nel primo.
vv.13-17: vi è qui la ripresa dei precedenti vv.9-12 e la loro metaforizzazione, in cui si sviluppa un confronto tra il pastore e chi pastore invece non è (v.13-14), e il rapporto tra il pastore e le sue pecore (vv.15-16) e queste con il non-pastore (v.17), introducendo due nuovi termini: porta e pastore, che poi saranno ripresi e approfonditi ai successivi vv.19-30.
vv.18-30: introdotta dal v.18, che fa di questi versetti una spiegazione e un approfondimento dei precedenti vv.13-17, questa pericope si svolge tutta attorno ai due termini di porta (vv.19-22) e pastore (vv.23-26) ed ha sempre come tema il confronto tra il pastore e il non-pastore nei loro rapporti con le pecore. I vv.27-30 allargano la prospettiva ad altre pecore che non sono di quel recinto, introducendo il rapporto che il vero Pastore ha con il Padre, riprendendo in questo il tema dei vv.11-12, lasciati in sospeso fino ad ora.
vv.31-39: la reazione violenta ai discorsi di Gesù da parte dei Giudei: tentativo di lapidazione (v.31) e di arresto (v.39) e autodifesa di Gesù, in cui i vv.37-38 formano inclusione con il v.7;
vv.40-42: conclusione del cap.10. Cambio di scenario geografico: Gesù da Gerusalemme, divenuto per lui un luogo molto pericoloso, torna alle origini della sua missione: “E se ne andò di nuovo al di là del Giordano, nel luogo dove Giovanni prima battezzava e rimase là” (v.41). Con questi versetti si chiude sia l'ampia sezione 7-10 che l'attività pubblica di Gesù, formando il v.10,40 inclusione con 1,28
Come certamente si è rilevato, il racconto del Buon Pastore ha una struttura a spirale, che partendo dalla pericope vv.9-12, viene ripresa dalla successiva (vv.13-17), ampliando e approfondendo il tema, che verrà a sua volta poi ripreso e nuovamente approfondito al terzo giro (vv.18-30), in cui troverà il suo vertice. Una caratteristica letteraria questa propria di Giovanni8.
Commento al cap.10
La conclusione del cap.9
Testo9
1) 19- Vi fu di nuovo dissenso nei Giudei per
questi discorsi.
2)
20- Ora, molti di loro dicevano: <<Ha un demonio ed è fuori di
sé; perché lo ascoltate?>>.
3)
21- Altri dicevano: <<Questi discorsi non sono di un
indemoniato. Può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?>
Commento ai vv.1-3
Questi versetti, posti in chiusura del cap.9, non aggiungono nulla di nuovo, ma fungono da richiamo e da sintesi circa il tema del disaccordo che si era creato attorno alla figura di Gesù; e l'autore lo fa riportando espressioni e formule che già aveva utilizzato nel corso della sezione incorniciata all'interno della festa delle Capanne (7-9). Il tema del dissenso compare in 7,43 e 9,16 e così l'accusa di avere un demonio compare in 7,20; 8,48.49.52, mentre il v.3 riproduce il senso di 9,31-33. In buona sostanza i vv.1-3 fungono da risposta sintetica, una sorta di sommario dai toni apologetici contro la denigrazione della persona di Gesù, che l'evangelista fornisce alla sua comunità. Un'ultima osservazione va posta sul v.2 che, curiosamente, dopo l'espressione “ha un demonio” ne fornisce anche la spiegazione “è fuori di sé”.
La cornice introduttiva al discorso del Buon Pastore (vv.4-8)
Testo
4)
22- In quel tempo in Gerusalemme ci fu (la festa della) Dedicazione;
era inverno,
5)
23- e Gesù passeggiava nel tempio, nel portico di Salomone.
6)
24- Lo attorniarono, dunque, i Giudei e gli dicevano: <<Fino a
quando tieni in sospeso il nostro animo? Se tu sei il Cristo, dicci
con libertà di parola>>.
7)
25- Rispose loro Gesù: <<Vi dissi e non credete; le opere
che io faccio nel nome del Padre mio, queste testimoniano di me.
8)
26- Ma voi non credete, poiché non siete delle mie pecore.
Note generali
Questa pericope (vv.4-8) funge da premessa all'intero cap.10 e fornisce tre elementi essenziali, che compongono nel contempo la struttura stessa della pericope:
il contesto geografico e cultuale (vv.4-5): si è a Gerusalemme durante la festività della Dedicazione o Hanukkah e Gesù è nel tempio dove sta passeggiando sotto il portico di Salomone;
la richiesta di identità da parte dei Giudei (v.6);
l'accusa di incredulità mossa loro da Gesù (vv.7-8)
L'elemento maggiormente rilevante in questa pericope è dato dal v.6, posto al centro della pericope stessa. Sulla richiesta di identità di Gesù da parte dei Giudei infatti verrà sviluppato l'intero cap.10 costruito prevalentemente sulla contrapposizione della figura di Gesù e quella delle autorità giudaiche e i rispettivi comportamenti nei confronti delle pecore, che ora assumono il volto della comunità giovannea, altre volte quello del popolo ebreo, altre volte ancora quello del mondo pagano. La pericope termina con il v.8b che fornisce l'input all'intero racconto.
Commento ai vv.4-8
Dopo la festa delle Capanne, che incorniciava i capp.7-9, l'autore fa seguire subito, benché disti tre mesi da quella precedente, la festa di Hanukkah, termine ebraico che significa Dedicazione, Consacrazione. La scelta di questa festività ha diverse motivazioni: essa è per certi aspetti molto simile a quella delle Capanne; come questa infatti dura otto giorni (1Mc 4,56.59) e come questa ha per tema di fondo la luce, infatti era conosciuta anche come “festa delle luminarie”, perché in ogni casa si accendeva un lume per ogni giorno della festa fino ad arrivare all'accensione di otto lumi10. Essa poi, come già accennato a pag.6, è legata al ciclo di letture sinagogali che andava a cadere il sabato immediatamente antecedente la festa stessa ed aveva come tema quello del pastore e in particolare Ez 34. Sullo schema tematico di quest'ultimo verrà imbastito il discorso del cap.10. Ed infine, similmente alla festa delle Capanne, in cui si ricordava la consacrazione del primo tempio, quello di Salomone (1Re 8,62-68; 2Cr 7,5), anche la festa della Dedicazione celebra il ricordo della consacrazione del tempio dopo la profanazione compiuta dal re seleucida Antioco IV Epifane11, re di Siria e signore della Palestina. Questi, nell'intento di rafforzare il proprio regno, volle uniformare religione, usi e costumi di tutti i suoi sudditi, imponendoli loro (1Mc 1,41-43), urtando in tal modo gravemente la sensibilità religiosa degli ebrei (1Mc 1,20-25.44-50.54-61). In risposta, questi, capeggiati dai Maccabei, gli scatenarono contro una rivolta vittoriosa (1Mc 2,41-48), durata dal 167 al 164 a.C., al termine della quale il Tempio fu riconsacrato (1Mc 4,36-61.66-68; 4,12-14.36) nello stesso mese e giorno in cui fu profanato (1Mc 4,54), il 25 di Kislev, mese di dicembre. La festa venne istituita da Giuda il Maccabeo che ne stabilì tempo e durata (1Mc 4,59). Questa è l'unica festa posta a cavallo di due mesi (dal 25 di kislev fino al 2 o 3 di tavet; dicembre/gennaio).
Il v.4 termina con una precisazione temporale, “era inverno”, che non sembra avere particolari significati simbolici, benché S.Agostino veda in questo inverno la pervicace incredulità del mondo giudaico12. Il motivo di questa precisazione, del tutto ovvia visto che la festa della Dedicazione cade a dicembre, è quello di giustificare, a mio avviso, il v.5 in cui “Gesù passeggiava nel tempio, nel portico di Salomone”. Anche questa annotazione non sembra avere particolari significati simbolici o metaforici. Il portico di Salomone, la parte più antica del tempio, si trovava sul lato est del tempio propriamente detto, quello a cui potevano accedere soltanto gli ebrei, e si trovava di fronte alla porta Bella. Internamente questo porticato dava sul cortile dei Gentili, ma era chiuso da un muro dalla parte esterna. Questa chiusura, sorta per motivi difensivi e di protezione del tempio, fungeva occasionalmente anche da barriera ai forti venti provenienti da est, considerato che i mesi di novembre, dicembre e gennaio erano anche i mesi delle piogge. In questo contesto di intemperie va tenuto presente che il tempio era molto esposto a queste, trovandosi a circa 750 mt d'altezza13. Gesù dunque passeggiava sotto questo portico e considerato il periodo invernale egli qui si trovava al riparo dalle intemperie. Sentire il portico di Salomone come luogo di riparo e per questo anche di ritrovo doveva essere piuttosto consueto tra la gente se si pensa che esso era anche il luogo abituale di ritrovo e di frequentazione del gruppo dei discepoli (At 3,11; 5,12), forse anche per la posizione prospiciente la porta Bella, la porta d'entrata al tempio propriamente detto e quindi molto frequentata. Da questa posizione dunque si poteva assistere al gran movimento di gente che animava la vita del tempio.
Il v.6, posto al centro della pericope in analisi (vv.4-8), fornisce la chiave di lettura dell'intero cap.10. Esso è scandito in due parti: la prima presenta i Giudei che “attorniano” Gesù. Il verbo greco qui usato è “™kÚklwsan” (ekíklosan), che letteralmente significa “accerchiare” e, considerato il soggetto, che in Giovanni assume connotazioni negative, si ha un quadro decisamente angosciante: Gesù, in cui si riflette in qualche modo la comunità giovannea, si sente accerchiato dai suoi tradizionali avversari, e se si pensa che il capitolo immediatamente successivo annuncia l'ultima pasqua (11,55), quella fatale per Gesù, il significato di questo accerchiamento assume connotazioni sempre più tetre. Un accerchiamento, come vedremo subito, che richiama da vicino, e in qualche modo la prelude, l'assemblea del Sinedrio e Sommi Sacerdoti che sottopose a giudizio Gesù14. La seconda parte riporta la richiesta di identità di Gesù da parte dei Giudei: “Fino a quando tieni in sospeso il nostro animo? Se tu sei il Cristo, dicci con libertà di parola”. Anche la formulazione di questa domanda ricalca in qualche modo l'interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio dopo la sua cattura (Mt 26,63; Mc 14,61; Lc 22,67). Il v.6 pertanto dà il tono all'intero cap.10 incorniciandolo in un contesto processuale, in cui oggetto del dibattimento è l'identità messianica di Gesù. Il tema del messianismo in Giovanni costituisce un elemento importante dell'identità stessa di Gesù. Esso prende le mosse fin dal primo capitolo in cui compare per quattro volte l'appellativo “Cristo”: la prima sotto forma di enunciazione dottrinale (1,17), altre due volte con riguardo alla ricerca dell'identità del Battista (1,20.25) e la quarta volta sotto forma di annuncio, che si impone all'attenzione del lettore: “<<Abbiamo trovato il Messia>>, che tradotto è Cristo” (1,41). L'appellativo torna poi in 3,28 dove il Battista, richiamandosi al v.1,20, sottolinea nuovamente la sua totale estraneità a questo titolo, liberando in tal modo il campo dalla sua ingombrante figura per dare spazio a quella di Gesù. Un titolo che rinveniamo anche nelle attese della Samaritana (4,25) che trovano il loro compimento nell'attestazione dello stesso Gesù (4,26). Ma il vero dibattito che dividerà le fazioni dei Giudei avverrà nel cap.7, mentre nei capitoli successivi diventa variamente oggetto di ricerca (10,24; 12,34), di accusa e contestazione (9,22), ma anche oggetto del credere (11,27; 17,3; 20,31).
La domanda stizzita dei Giudei circa l'identità messianica di Gesù costituirà pertanto la chiave di lettura e il tema del discorso di Gesù, in cui sarà sottolineato un particolare aspetto del messianismo quello pastorale. Questo, attraverso la tecnica del pensiero a spirale, verrà via via sempre più precisato e approfondito attraverso un confronto serrato con i pastori di Israele venuti prima di Gesù e con quelli a lui contemporanei.
I vv.7-8 sono tra loro inclusi dall'espressione “non credete” che costituisce l'atto di accusa nei confronti di un giudaismo sempre alla ricerca di una verità che non esca però dai loro schemi mentali e culturali; una verità che non li metta in discussione; una verità che costantemente leggono attraverso il filtro mosaico e che per questo riesce loro incomprensibile. Pertanto sia la rivelazione manifestata loro attraverso le parole (“Vi dissi”) che quella attuata attraverso le opere (“le opere che io faccio”) viene oscurata e resa irraggiungibile da una incredulità invincibile. Le opere che Gesù compie nel nome del Padre, infatti, gli rendono testimonianza, ma vanamente, perché essi non credono. Come dire che tutto ciò che Gesù dice e compie diventa del tutto inutile se tutto ciò non è accolto nella fede, che costituisce il tema di fondo dell'intero racconto giovanneo nonché la sua primaria finalità (20,31).
I vv.7-8 sono una sintetica eco di 5,36-40 in cui Gesù lamenta la pervicace incredulità dei suoi ascoltatori nonostante le opere da lui compiute e nelle quali si manifesta l'operare del Padre, che gli rende testimonianza: “Ma io ho una testimonianza più grande (di quella) di Giovanni; infatti le opere che il Padre mi ha dato perché le porti a compimento, queste opere che faccio testimoniano su di me che il Padre mi ha inviato. E il Padre che mi ha mandato, quello testimoniò di me. Né voi mai ascoltaste la sua voce, né vedeste il suo aspetto, e non avete la sua parola che rimane in voi, poiché quegli lo mandò, a questo voi non credete. Indagate le Scritture perché voi credete di avere in esse la vita eterna; e sono (proprio) quelle che testimoniano su di me; e non volete venire da me per avere la vita” (5,36-40). Ma è in particolar modo il v. 5,36 (qua sopra evidenziato) che qui viene ripreso e sostanzialmente riprodotto. Le opere che il Padre ha dato da compiere a Gesù infatti sono indicate in 5,31-40 come una delle quattro testimonianze (5,36) sulla veridicità di Gesù: le altre tre sono Giovanni (5,33-35), il Padre (5,37-38) e le Scritture (5,39-40)15.
Quali siano queste opere che danno testimonianza a Gesù e tali da renderlo credibile queste vanno colte dall'insieme del vangelo giovanneo, che è una contemplazione della gloria del Logos colta nel suo manifestarsi proprio attraverso le opere (1,14). Un termine questo (t¦ œrga, tà érga, le opere) che compare al plurale ben tredici volte ed ha attinenza con i contenuti della missione di Gesù e ne diventa espressione e attuazione sia in senso rivelatore che salvifico, come la predicazione, i segni, il relazionarsi con i suoi e con le folle, il suo nascere, il suo vivere, soffrire, morire, risorgere e ascendere e quant'altro possa contenere il suo vivere; tutto diviene opera che attua la volontà salvifica del Padre che si compie nel Figlio16. È dunque attraverso l'intero muoversi di Gesù, attraverso il suo dire, il suo operare in senso lato che il giudaismo avrebbe dovuto dapprima interrogarsi e poi cogliere l'unicità e l'esclusività di quel dire e di quell'operare, che ha caratterizzato Gesù. Certo, parole ed opere, che spesso urtavano la sensibilità religiosa del giudaismo, come le guarigioni in giorno di sabato, e che contenevano in loro stesse delle sfide talvolta ardue al limite della blasfemia, come l'affermare che il suo sangue e la sua carne sono vero cibo, garanzia di vita eterna o il dichiararsi uscito da Dio e da Lui proveniente; affermazioni forti ma che proprio per questo dovevano spingere ad interrogarsi su questo personaggio così singolare. Ma fu proprio il leggere queste “opere” attraverso il filtro del mosaismo che impedì loro ogni comprensione. Per questo, per due volte in due versetti, risuona l'accusa pregna di amarezza del “non credete”.
Il v.8b, nel concludere la pericope introduttiva al discorso del Buon Pastore, fornisce da un lato la motivazione dell'incredulità del giudaismo e dall'altro, con il termine “pecore”, l'aggancio letterario introduttivo al tema del pastore e delle pecore: “poiché non siete delle mie pecore”. Il motivo dunque di questa incomunicabilità di Gesù con il giudaismo consiste nel fatto che questo è gregge di Mosè e non di Gesù (9,28), benché Mosè abbia in qualche modo parlato di Gesù (5,46); un Mosè a cui il giudaismo è fortemente legato benché non ne osservi la Legge (7,19; Rm 2,17-24). Sembra dunque che in questa incomunicabilità, che si esprime in una invincibile incredulità, vi siano delle contraddizioni di fondo, che Mt 23 denuncia duramente e che hanno la loro origine nell'incapacità del giudaismo di trascendere la fisicità della lettera a favore dello Spirito che in essa vi è contenuto; un'incapacità di dare quindi una diversa lettura ed avere una diversa comprensione della Legge. Per questo lo stesso Mosè, in cui essi credono ed hanno sperato, diviene il loro stesso giudice (5,45). Eppure non doveva essere così impossibile fare questo passaggio, da Mosè a Gesù, considerato che molti giudei si fecero discepoli del nuovo Rabbi.
Ma se il v.8b fornisce da un lato la motivazione di questa incomunicabilità tra Gesù e il giudaismo, dall'altro diventa una implicita dichiarazione che questi non appartiene più al progetto salvifico del Padre, manifestatosi e attuatosi in Gesù. Sarà proprio questo il cruccio che tormenta e addolora non poco Paolo, il quale non sa capacitarsi della chiusura della sua gente di fronte all'evento Gesù, loro che hanno avuto tutto per accoglierlo e invece sono naufragati. Egli cercherà comunque di ricucire questo strappo dando una interpretazione tutta sua a questo scisma dal progetto salvifico originario di cui essi erano la pietra fondamentale preparata proprio per questo (Rm 9-11).
Il preambolo: l'identità delle pecore e il rapporto con il loro Pastore (vv.9-12)
Testo
9)
27- Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco
e mi seguono,
10)
28- e io do a loro vita eterna e non si perderanno in eterno, e
nessuno le strapperà dalla mia mano.
11)
29- Ciò che il Padre mio mi diede è più grande di tutte le cose, e
nessuno può portar via dalla mano del Padre.
12) 30- Io e il Padre siamo uno>>.
Note generali
Il v.8b accusava i Giudei di non appartenere alle “mie pecore”; da qui la loro incredulità. Sorge quindi spontanea la domanda chi siano le pecore che appartengono invece a Gesù e quali le caratteristiche che le contraddistinguono dalle altre, che invece non vi appartengono. Sarà compito di questa breve pericope precisare sia i tratti salienti che collocano le pecore all'interno della cerchia privilegiata e quali siano i rapporti che intercorrono tra il pastore e le sue pecore e in particolare chi sia, e quindi l'identità, questo pastore.
È impressionante come in questi quattro versetti ricorrano per ben due volte il pronome “io” e altre sei volte l'aggettivo possessivo “mio” che da un lato pongono Gesù al centro dell'attenzione del lettore e dall'altro fanno si che egli qui sia l'attore principale attorno a cui girano non solo questi versetti, ma anche l'intero capitolo; ma nel contempo si sottolinea il particolare rapporto di intimità ed esclusività che lega il pastore alla sue pecore e queste con lui, quasi a farne una cosa sola. Ma si vedrà come proprio quest'ultimo aspetto costituisce anche la peculiarità che caratterizza il rapporto di Gesù con il Padre (v12), che in tal modo si riproduce nel rapporto esclusivo tra Gesù e i credenti. Un rapporto che letterariamente viene posto in evidenza sia perché a questo viene riservato un unico versetto (v.31) e sia perché questa annotazione conclude significativamente la pericope in esame, quasi una sorta di firma che attesta la veridicità autoritativamente sottoscritta.
Ci si trova dunque di fronte ad una pericope che delinea i tratti essenziali che costituiscono la dinamica fondamentale della comunità ecclesiale, delineando i rapporti “pastore e pecore” o forse è meglio dire “pastori e pecore”, come preciseranno i vv.13-17, che sembrano rilevare la problematicità della comunità giovannea, a cui sono rivolti.
Strutturalmente la pericope è scandita in due parti: la prima, vv.9-10, delinea l'identità delle pecore e i rapporti che intercorrono tra loro e il pastore; la seconda parte, vv.11-12, evidenzia il rapporto che intercorre tra il Pastore e suo Padre. Punto di congiunzione di queste due parti è l'espressione “strapperà dalla mia mano” che si ripeterà sostanzialmente identica in11b, sottolineando lo stretto legame che c'è tra la mano di Gesù e quella del Padre.
Commento ai vv. 9-12
Il v.9 si presenta come un intreccio di due soggetti posti tra loro in interrelazione: le pecore, che ascoltano e seguono il pastore; e il pastore che le conosce. Le pecore sono qualificate dall'aggettivo possessivo “mie” che attesta la loro appartenenza e, in un certo qual modo, la loro consacrazione al pastore, che per questo le rende esclusive. Questa appartenenza è giustificata da due verbi: l'ascolto della voce del pastore, voce che è qui un sinonimo di parola, e dal seguire il pastore. Il verbo usato per indicare la sequela è “¢kolouqšw” (akolutzéo), un verbo che compare 79 volte in tutti i vangeli, di cui 19 volte in Giovanni. Esso, quando compare, ha quasi sempre attinenza con la sequela di Gesù e descrive il comportamento del discepolo che segue il suo maestro. Ma il verbo dice ben più del semplice seguire; esso significa anche star dietro, andare assieme, accompagnare, lasciarsi guidare, aderire e descrive l'atteggiamento del servo nei confronti del proprio padrone; è un seguire che si fonda sulla dedizione di se stessi al proprio padrone. Vi è dunque in questo verbo un qualcosa che va ben oltre ad un pedestre e passivo seguire, poiché la sequela indicata da questo verbo richiede un seguire che comporta una conformazione del proprio vivere al Pastore; una sequela, si noti bene, che qui è preceduta dall'ascolto della voce del pastore e quindi conseguente a questa. In buona sostanza queste pecore divengono la metafora del discepolo, che, accolta la parola, la traduce in sequela, dichiarando in tal modo di appartenere al suo Maestro.
La contropartita di questo ascolto accogliente che si fa sequela, introducendo il discepolo in una intima comunione con il proprio Maestro (si noti in questo versetto il susseguirsi quasi ossessivo del pronome “io” e dell'aggettivo possessivo “mio” ripetuto tre volte), è la conoscenza che il pastore ha delle sue pecore. E quando si parla di conoscenza nel mondo ebraico, questa non va intesa come un mero atto intellettuale, un'astrazione concettuale della realtà, ma come un relazionarsi concreto con l'oggetto di questa conoscenza, che implica sempre il proprio vivere17. Il conoscere del pastore dunque parla della sua intima relazione con le pecore, una relazione le cui conseguenze verranno descritte al successivo v.10.
Il v.10 si apre con un “e io” con cui si collega al v.9 e ne dà continuità, specificando gli esiti di questo ascolto-sequela che ha come contropartita la conoscenza del pastore: “e io do a loro vita eterna e non si perderanno in eterno, e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Al centro di questo versetto si pone il credente colto nel suo triplice rapporto con il Pastore, da cui riceve la vita eterna; in rapporto con se stesso, in quanto il non perdersi dipende da lui; e infine in rapporto con il mondo, che non riuscirà a strapparlo dalla sua scelta esistenziale, che lo lega inscindibilmente al Pastore. Benché l'attore principale di questo versetto sia il credente colto nella sua molteplicità di rapporti, tuttavia la sua esistenza è inclusa dalla presenza del Pastore, citato sia nel primo che nell'ultimo movimento: “io gli do” e”mia mano”. Tre dunque sono gli effetti di questo peculiare rapporto: a) il dono della vita eterna, b) che avranno per sempre, c) e non sarà loro mai tolta da nessuno. Tre attestazioni che parlano della profondità e della saldezza di questo rapporto. Quanto al “dono della vita eterna” esso è il primo effetto dell'ascolto-sequela (v.9), che apre il credente alla vita stessa di Dio e lo colloca in essa fin da subito18; un dono che gli viene offerto dalla sorgente stessa di vita (4,14) che è anche pane di vita (6,35), poiché questo Pastore possiede in se stesso la vita di Dio (5,26; 11,25; 14,6). Quanto al “non perdersi in eterno” questo delinea il comportamento del credente, dopo l'ascolto accogliente della parola, divenuto sequela. Se il dono accolto consacra il credente e ne fa proprietà di Dio, condividendone la vita, il rimanere tale dipende soltanto da lui. Solo così egli potrà portare molto frutto (15,4.5.8.16), condizione questa per poter rimanere nel Pastore e far parte del suo gregge, così che egli non si perderà mai (15,2a). Queste prime due parti del v.10 richiamano 3,16 dove “Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”. Il dono di Dio all'uomo è suo Figlio, che in lui porta la vita eterna, così che aderendo a lui il credente viene collocato nella vita stessa di Dio; per questo non perisce. Ma suo presupposto è che “creda in lui”. È del resto il sollecito di 6,27 in cui Gesù esorta i suoi a lavorare e ad impegnarsi per un pane che non perisce: “Procuratevi non il cibo che perisce, ma il cibo che rimane per la vita eterna, che il Figlio dell'uomo vi darà; questo, infatti, il Padre, Dio, ha contrassegnato”. Non dipende dunque da Dio, ma dal credente il perdersi o meno. Quanto al “nessuno le strapperà dalla mia mano” dice la potente e invincibile protezione di ciò che appartiene a Dio. La mano infatti è il simbolo del potere e della potenza che si esprime attraverso essa. Non a caso nelle lingue semitiche il termine che indica la mano significa anche “potenza”. La mano è il luogo del fare con cui si crea e si distrugge, si soccorre e si uccide; essa è lo strumento attraverso cui si esprime e si realizza lo stato d'animo e la volontà dell'uomo e attraverso cui si manifesta anche il potere e la volontà divine19. Le pecore dunque sono nella mano del Pastore, poiché gli appartengono e fanno con lui un tutt'uno. Per questo “nessuno le strapperà”. Chi sia questo nessuno verrà indicato nella pericope 13-30 dove genericamente si definisce chi non è pastore come ladro, assassino e mercenario. Il “nessuno” dunque è tutto ciò o tutti chi non sono pastore, le cui caratteristiche verranno indicate ai vv.19-30, assegnando al pastore, nei confronti delle pecore, una esclusività unica e irripetibile. Si realizza in ciò la volontà di colui che ha mandato Gesù: “[...] che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno” (6,39). Una preoccupazione che si accentuerà in 17,12 e 18,9, a ridosso della passione e morte e risurrezione, poiché saranno proprio queste ad attuare la consacrazione dei credenti, associandoli al proprio Pastore. Che cosa significhi concretamente essere consacrati al Pastore e appartenergli lo indica l'autore della Lettera agli Ebrei: “Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un'alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che è gradito a lui per mezzo di Gesù Cristo, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen” (Eb 13,20-21).
Un ultimo appunto va fatto sull'uso dei tempi verbali del v.10: il presente indicativo per quanto riguarda il dono della vita eterna, che in Giovanni colloca il credente fin da subito nella vita stessa di Dio e si ottiene attraverso l'ascolto-sequela, che qualifica lo status esistenziale delle pecore; e il futuro per quanto riguarda la vita delle pecore (“non si perderanno”) e il loro essere nel mondo (“nessuno le strapperà dalla mia mano”), che lascia qui intravvedere le prospettive della vita ecclesiale e le conseguenze dell'essere credenti e del rimanere in e con il Pastore; quel “rimanere” a cui l'autore dedicherà il cap.15 e in cui risuonerà ben undici volte in 13 versetti (15,4-16).
Il v.10 termina con l'espressione “e nessuno le strapperà dalla mia mano” (v.10c), che verrà richiamata e approfondita nei vv.11-12, in cui si scoprirà come dietro la potenza della mano del Pastore si cela in realtà quella stessa del Padre. L'espressione del v.10c infatti si ritrova sostanzialmente identica al v.11b, dove il soggetto è il Padre; mentre il v.12 svela perché la mano del Pastore è quella del Padre e come il possedere del Pastore altro non è che il possedere stesso del Padre: “Io e il Padre siamo uno”. Ci si trova di fronte ad una pericope (vv.11-12) che è funzionale al v.10c e serve a giustificare da dove nasce il potere di Gesù, ostentato nella certezza che nessuno strapperà dalla sua mano le sue pecore, qualificate dall'ascolto e dalla sequela (v.9).
Il v.11a presenta diverse letture testuali20 tra queste ne emergono due: “Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”, seguita questa dalla traduzione CEI 2008; e quella da me proposta: “Ciò che il Padre mio mi diede è più grande di tutte le cose, e nessuno può portar via dalla mano del Padre ”. Se la traduzione CEI si adatta meglio al testo, quella da me scelta diventa più complicata da spiegare e da comprendere. La scelta da me operata nasce da una duplice motivazione: a) uno dei criteri della critica testuale è che la lezione più difficile è anche quella più antica se non quella vera, poiché quella più semplice e più armonizzata al testo in genere risente quasi sempre di un adattamento operato da un qualche amanuense per rendere più agevole la lettura e più comprensibile il testo; b) il v.11b, così come da me tradotto, costituisce la motivazione che spiega da dove nasce il potere di Gesù: “Ciò che il Padre mio mi diede è più grande di tutte le cose”.
Il v.11 si apre con un imbarazzante pronome relativo posto al neutro (Ö, ò, ciò che) e un verbo al perfetto indicativo (dšdwkšn, dédoken, diede): “Ciò che il Padre mio mi diede”. L'imbarazzo consiste nel fatto che quel “ciò che” è talmente generico e onnicomprensivo da non poter determinare di che cosa si tratti; ma ciò che aggrava l'imbarazzo è quel perfetto indicativo che dice come quel dono che Gesù possiede è una realtà presente conseguente ad un'azione che proviene dal passato, il cui soggetto è il Padre. Dal racconto giovanneo sappiamo come il Padre ha dato ogni cosa a Gesù, nel senso che ha messo tutto nelle sue mani (3,35; 13,3; 17,7); gli ha dato le opere da compiere e che testimoniano sulla veridicità di Gesù e rivelano lo stesso Padre (5,20.36; 9,4; 10,25.38; 17,4), che in esse si manifesta (14,10); gli ha dato il potere di giudicare (5,27) e ogni potere sugli uomini (17,2), che gli ha consegnato nelle sue mani (17,6) e in particolar modo i credenti (17,9.11.12.24; 18,9), nonché la stessa gloria divina (17,22.24), che aveva ancora prima della creazione del mondo (17,5). Tutto questo esprime il “ciò che” e tutto questo proviene dal Padre ed è suo dono al Figlio; ma se ben osserviamo in questo dono c'è tutto il Padre, che si è donato al Figlio, così che dall'agire del Figlio traspare quello del Padre. Il Figlio non rivela se stesso, ma nel manifestarsi manifesta il Padre che opera in lui (14,10) e questo dono di se stesso al Figlio da parte del Padre si colloca nella stessa eternità di Dio, “poiché mi hai amato prima della creazione del mondo” (17,24); ed è in questo atto di amore da cui il Figlio è stato generato fin dall'eternità divina, che il Padre gli ha dato tutto se stesso, un tutto che si esprime in quella “gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te” (17,5). E in lui il Padre ci ha scelti ancor prima della creazione del mondo, inserendoci in lui, in un piano di salvezza che doveva realizzarsi nel Figlio (Ef 1,4-7.9-10). Tutto questo dice il perfetto indicativo: un dono che si è attuato in Gesù, ma che ha le sue origini nella stessa eternità di Dio. Per questo dunque il dono “è il più grande di tutte le cose”, poiché questo dono è il Padre stesso che si è consegnato nelle mani del Figlio; per questo il Figlio possiede tutto, perché possiede il Padre; di certo non nel senso che il Figlio abbia un qualche potere sul Padre, bensì perché “Io e il Padre siamo uno” (v.12). Questo costituisce il vertice rivelativo che va a toccare la stessa architettura di Dio e ci introduce nell'ontologia divina. Il Padre che in se stesso è incomunicabile e irraggiungibile, si rende comunicabile e raggiungibile nel Figlio, che è Parola e Azione dello stesso Padre. Per questo Gesù può dire a Filippo: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere” (14,9-11). La mano di Gesù dunque è la stessa mano del Padre, da cui “nessuno può portar via”. Si noti la differenza tra le due affermazioni: Gesù attesta che “nessuno le strapperà dalla mia mano”, mentre con riguardo al Padre egli afferma che “nessuno può (dÚnatai, dínatai) portar via dalla mano del Padre”. Quel “può” dice che nessuno ha potere sul Padre, rilevando così la superiorità assoluta e incontrastata del potere del Padre su tutto e su tutti, compreso il Figlio, a cui tutto è stato sottomesso, ma, precisa Paolo in 1Cor 15,27b, “quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa”. Per questo “nessuno può”, neppure il Figlio.
Gesù e gli altri pastori e alcuni problemi della comunità giovannea (vv.13-17)
Testo
13)
1- <<In verità, in verità vi dico, chi non entra nel recinto
delle pecore attraverso la porta, ma vi sale da un'altra parte,
quello è un ladro e un assassino;
14)
2- ma chi entra per la porta è pastore delle
pecore.
15)
3- A questi il portinaio apre e le pecore ascoltano la sua voce, e
chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori.
16)
4- Quando ha fatto uscire tutte le sue (pecore), cammina davanti a
loro e le pecore lo seguono, poiché conoscono
la sua voce;
17)
5- invece non seguiranno un estraneo, ma fuggiranno da lui, poiché
non conoscono
la voce degli estranei>>.
Note generali
La pericope precedente (vv.9-12) aveva delineato l'identità delle pecore come quelle che ascoltano e seguono, nonché il particolare rapporto che Gesù intrattiene con queste, accorpandole alla vita stessa di Dio. Pecore, le quali, finché mantengono la loro identità, gli appartengono e sono poste sotto la sua egida, nella quale si riflette ed opera il potere assoluto ed esclusivo del Padre. Tutto dunque è ricondotto in Lui, tutte a Lui sono consacrate e dimorano in Lui.
Se i vv.9-12 hanno insistito sull'identità delle pecore, questa pericope (vv.13-17) viene dedicata all'identità del Pastore, che emerge prepotente dal confronto conflittuale con chi pastore non è o con chi come tale viene contrabbandato.
Già quindi in qualche modo preannunciata nella precedente pericope (vv.9-12), là dove si parla del rapporto che Gesù intrattiene con le pecore, che chiama “mie” (vv.9-10), compare qui la figura del pastore, mutuata dal mondo biblico dove l'immagine designa il rapporto tra Jhwh e il suo popolo, un rapporto che allude a quello dell'alleanza21; un'immagine questa che viene abbondantemente ripresa anche dagli autori neotestamentari per indicare il rapporto tra Gesù e le folle o i discepoli o i nuovi credenti22.
La pericope si struttura in due parti:
vv.13-14 in cui si individua l'identità del vero pastore contrapposto ai falsi pastori;
vv.15-17 in cui si descrive il rapporto che il vero pastore intrattiene con le pecore e queste con lui; rapporto che come in un gioco di chiaroscuro viene fatto risaltare contrapponendolo al rifiuto delle pecore nei confronti di chi pastore non è.
La pericope è delimitata da una sorta di inclusione per complementarietà tematica, aprendosi al v.13 con la descrizione dei falsi pastori e concludendosi al v.17 con le pecore che li rifuggono, non riconoscendone la voce.
La pericope in esame consente due livelli di lettura: uno storico, che a mio avviso costituisce lo Sitz im Leben in cui essa si è formata o quanto meno a cui fa riferimento, e l'altro, soltanto appena accennato, cristologico.
Quanto al livello storico i vv.13 e 14 definiscono i criteri per riconoscere il vero pastore: esso è colui che passa attraverso la porta, che, si badi bene, non è aperta dal pastore, ma dal portinaio, che sa riconoscere il vero pastore. Il v.15 stabilisce pertanto che il riconoscimento del pastore spetta al portinaio, cioè a chi ha il potere di aprire o meno la porta e quindi è responsabile della sicurezza sia del recinto che delle pecore, cioè sia della comunità che dei suoi membri. È dunque lui che funge da filtro ed è garante dell'autenticità del pastore. Solo chi passa dunque attraverso il filtro della porta può dirsi insignito del titolo di pastore e la sua voce così autenticata è per questo riconosciuta dalle pecore. Il vero garante dell'autentica pastoralità dunque non è il pastore, bensì il portinaio che gli apre o meno la porta. Solo dunque passando attraverso la porta ci si può dire veri pastori.
I vv.15-16 indicano il compito di questo pastore: condurre fuori le sue pecore e una volta condotte fuori tutte quante egli si pone alla loro testa e le pecore lo seguono. Il motivo per cui lo seguono è perché conoscono la voce, che è stata autenticata dal guardiano che gli ha aperto la porta. Per contro, quasi in un gioco di contrasti, il v.17 sottolinea, con verbi posti al futuro, il rifiuto delle pecore di quei pastori di cui non riconoscono la voce. Sul conoscere o non riconoscere la voce dunque si gioca il futuro di adesione o meno delle pecore. Parametro di riconoscimento è pertanto la voce, cioè l'autenticità della Parola che esce dai pastori. È questa che li qualifica come tali. L'importanza della voce quale criterio di autenticità del pastore è sottolineato dal ripetersi del termine per ben tre volte in tre versetti. Tutto dunque si gioca su di essa.
Nella parafrasi della pericope (vv.13-17), qui sopra, sono stati posti in evidenza quegli elementi essenziali che lasciano intravvedere il messaggio che l'autore sta lanciando alla sua comunità, che sembra assediata e assillata da voci sedicenti profetiche o messianiche, che la stanno deviando dal suo cammino. Per questo si rende necessario per queste pecore uscire da un recinto, che non è più sicuro, per diversi pascoli. Sarà il vero pastore, qualificato dall'autenticità della Parola, che le saprà condurre. Il contesto storico generale in cui è posta la comunità giovannea è già stato descritto a pag. 5 di questo commento; quanto al contesto più specifico, dobbiamo rifarci alla prima lettera di Giovanni, la cui forma linguistica e la tematica in particolar modo dei capp.1-3 lasciano intravvedere una grande vicinanza con il vangelo giovanneo.
La prima lettera di Giovanni parla di una crisi che si è prodotta all'interno della comunità a causa di voci di dissenso sorte al suo interno; voci che non riflettono più quella del pastore e che cercano di traviare la comunità (1Gv 2,26). Sono membri della stessa comunità giovannea: “Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri” (2,19) e per le loro posizioni sono definiti “anticristo” (1Gv 2,18.22; 4,3; 2Gv 1,7), “seduttori” (2Gv 1,7), “falsi profeti” (1Gv 4,1.4) e “menzogneri” (1Gv 2,22a) e appartengono al mondo (1Gv 4,5). Essi negano che Gesù sia il Cristo (1Gv 2,22a) e che il Figlio sia in unità e in comunione con il Padre (1Gv 2,22b-23a); disconoscono che Gesù sia venuto nella carne (1Gv 4,2-3; 2Gv 1,7). Si dicono nella luce, ma odiano il proprio fratello (1Gv 1,6.11; 2,9; 3,10; 4,21) e si dichiarano senza peccato (1Gv 1,8.10), ma non osservano i comandamenti (1Gv 2,4), in particolare quello dell'amore per il fratello (1Gv 2,9); affermano di dimorare in Cristo e di appartenergli, ma non ne osservano i comandamenti (1Gv 2,4-6). Di fronte a questi attacchi devianti dal sapore gnosticheggiante l'autore della prima lettera invita la sua comunità a non prestare fede ad ogni ispirazione, ma di mettere alla prova questi sedicenti “ispirati”, definiti falsi profeti (1Gv 4,1), e la esorta a guardarsi dai falsi dèi, metafora degli insegnamenti di questi anticristi e falsi profeti. Significativo è 1Gv 4,6 in cui si dice che chi ascolta “noi”, cioè i responsabili della comunità, è da Dio e chi non li ascolta non è da Dio, perché essi sono da Dio. Questo versetto trova il suo parallelo in Gv 10,15-17 in cui si dice che le pecore ascoltano la voce del pastore, ma non ascoltano la voce di chi non lo è.
Quanto all'aspetto cristologico esso è qui soltanto accennato, lasciato intendere, ma non messo a fuoco, per dare spazio prevalentemente all'aspetto storico. L'aspetto cristologico è contenuto nei due termini di “porta” e “pastore”, ai quali verrà invece dedicata l'intera pericope successiva (vv.18-30). Esso funge qui da sua premessa, legando le due metafore cristologiche sia alla comunità giovannea che ai suoi responsabili, gli unici preposti a vagliare l'autenticità della voce. In altri termini, l'autenticità sia del pastore che della porta è sempre demandata al portinaio e custode della comunità e dei suoi membri.
Commento ai vv.13-17
Questa pericope inizia con una formula cara a Giovanni, che le dà un tono di solennità, imprimendole il marchio della veridicità, acquisendo in tal modo una sorta di peso dottrinale: “In verità, in verità vi dico”. A chi si stia riferendo Gesù con questa metafora sembra plausibilmente ragionevole al pubblico che lo sta ascoltando, indicato al v.6 come i “Giudei”. Questo da un punto di vista letterario o narrativo; quanto invece ai veri destinatari, questi sembrano essere la stessa comunità giovannea, ravvisata nel recinto delle pecore e dai suoi membri simboleggiati nelle pecore. Si è detto infatti nelle note generali come lo sfondo di questa pericope sia prevalentemente se non esclusivamente storico e in questa prospettiva vada letto e compreso.
I vv.13-14 definiscono l'identità del pastore in base alle modalità che questi adotta per entrare nel recinto delle pecore: dalla porta, il vero pastore; da altri pertugi chi invece non è pastore, qualificato dalla sua natura assassina: “è” un ladro e un assassino. Espressione questa che non va presa alla lettera, ma che definisce gli intenti perversi e pervertitori di questi personaggi, che mettono davanti agli interessi della comunità e dei suoi membri se stessi, servendosi di essa per affermarsi. Qui lo spirito non è quello del pastore che si dona (v.22), ma di chi ne approfitta per arraffare e trarre vantaggi per se stesso. L'entrare nel recinto significa entrare nella comunità, farne in qualche modo parte, relazionarsi ad essa. È da qui che parte l'attacco alla stessa comunità, probabilmente da suoi membri, che, infatuatisi del pensiero gnostico, cercano di imporsi con una certa autorità o forse è meglio dire con prepotenza e presunzione. 1Gv 2,19 indica nei sobillatori e attentatori dell'integrità della comunità gente che vi apparteneva: “Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri”. Si parla quindi uno scisma che si sta consumando all'interno della comunità (“se fossero stati dei nostri, sarebbero stati con noi”). Questi personaggi sembrano diffondere un messaggio gnosticheggiante che si contrappone all'autenticità di quello annunciato dal vero pastore, che qualifica il gregge come suo. Sempre all'interno della comunità sembra esserci anche un altro suo membro pretenzioso, che con arroganza e prepotenza si contrappone alla stessa autorità e autorevolezza del responsabile della comunità, tale “ Diòtrefe, che ambisce il primo posto tra loro, non ci vuole accogliere. Per questo, se verrò, gli rinfaccerò le cose che va facendo, sparlando contro di noi con voci maligne. Non contento di questo, non riceve personalmente i fratelli e impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e li scaccia dalla Chiesa” (3Gv 1,9-10). Ma, per contro, vi è anche il “carissimo Gaio” che l'autore ama nella verità (3Gv 1,1), perché egli cammina nella verità (3Gv 1,3), cioè in consonanza con la voce del suo responsabile. Similmente vi è anche un altro membro autorevole, tale Demetrio a cui “tutti gli rendono testimonianza, anche la stessa verità; anche noi ne diamo testimonianza e tu sai che la nostra testimonianza è veritiera” (3Gv 1,12). Entrambi sono lodati e confermati dal responsabile della comunità di fronte ad essa, perché il loro operare è conforme alla “verità”, che si contrappone ai ragionamenti fallaci e alle pretese ingannatrici degli altri, mossi soltanto dallo spirito del mondo (1Gv 4,5), perché essi vi appartengono, come Diòtrefe. Si noti come in tutte tre le lettere attribuite a Giovanni compare per venti volte il termine “verità” e “verace”; mentre quattordici volte compare il termine “testimonianza” o “testimoniare” in relazione alla verità. Elementi questi che indicano la gravità del problema che si sta ponendo nella comunità giovannea, al cui interno si sta consumando un conflitto sulle verità di fede, che vede contrapposti tra loro le autorità legittime, le uniche capaci di autenticare la correttezza dell'annuncio, e i sedicenti illuminati e ispirati da Dio (1Gv 3,10; 4,1), i cui intenti sono quelli di affermare se stessi a spese della comunità, che vogliono piegare alle loro pretese, come nel caso di Diòtrefe. Ho voluto soffermarmi brevemente su questi quattro esempi, presenti all'interno della comunità, per dare concretezza e volto alle allusioni dei vv.13-14. Passare per la porta, che poi verrà identificata come Gesù stesso (vv.19.21a), significa essere conformi al suo pensiero e al suo annuncio. Ma chi stabilisce la correttezza di tale conformità è il portinaio, cioè il responsabile della comunità giovannea, come è avvenuto nel caso di Gaio e di Demetrio; così come sono indicati ladri e assassini coloro che dall'interno della comunità si arrogano un diritto e un'autorità che non hanno, autoproclamandosi persone illuminate e perfette, senza peccato (1Gv 1,8.10).
Ed è questa figura che viene presentata al v.15a, quella del portinaio. Egli, in quanto tale, è il guardiano e il custode del recinto, ma il pastore è un altro. L'autore pone una distinzione netta tra il portinaio e il pastore. Il portinaio ha la funzione di guardia e di custodia non delle pecore, bensì del recinto, cioè della comunità in senso generale. Sarà invece compito del pastore accudire le singole pecore, che egli conosce per nome. Esse infatti riconoscono e ascoltano la voce del pastore e lo seguono e lui le accompagna fuori. Spetta cioè al pastore e non al portinaio il ministero della guida, che si attua attraverso la voce, cioè la Parola, autenticata dal portinaio. Il portinaio, in quanto responsabile della comunità, ha infatti soltanto il compito di fornire il suo imprimatur alla voce del Pastore, riconoscendone l'attendibilità, ma non è lui che guida. Il verbo usato per indicare l'aprire del portinaio è infatti “¢no…gei” (anoíghei), che oltre ad aprire significa anche “scoprire, svelare, dichiarare”, meglio evidenziando così la funzione autenticatrice di questo portinaio. All'interno della chiesa primitiva vi era infatti la figura del “vescovo”, certamente non equiparabile alla nostra attuale; essa era assimilabile a quella di un ispettore, un supervisore, una sorta di sorvegliante, il cui compito era quello di verificare l'ordinato svolgersi della vita all'interno delle comunità e della correttezza dell'annuncio e del culto, mantenendo il collegamento tra le diverse comunità che egli presiedeva. Egli era considerato come un amministratore di Dio (Tt 1,7). Il suo compito è quello di vegliare e vigilare sul gregge affidatogli (At 20,28). Sembra porsi qui, al v.15, una duplice funzione di ministerialità all'interno delle comunità credenti: chi autentica e chi insegna e guida; chi funge da custode e chi da pastore. Si tratta di una struttura molto semplice, quasi elementare di una primitiva comunità, che altrove, invece, come presso quelle ormai già istituzionalizzate, appare più articolata e complessa23. La semplicità della struttura sembra potersi attribuire al carattere prevalentemente carismatico della comunità giovannea, la quale ruotava tutta attorno al discepolo prediletto, che fungeva da custode e garante dell'intera comunità e dell'autenticità della Parola, che in essa veniva annunciata e accolta. Sarà soltanto dopo la morte del Discepolo Prediletto, che essa si aprirà anche alle altre comunità già da tempo istituzionalizzate, di cui il tardivo cap.21, come vedremo a suo tempo, sembra dare testimonianza.
Dopo una iniziale attenzione posta sul portinaio, questa viene spostata subito sul pastore, definito in tre modi: la sua voce è ascoltata dalle pecore; egli le chiama per nome; le conduce fuori. Il primo elemento distintivo e identitario che qualifica le pecore quali appartenenti al pastore, già lo si è visto al v.9, è quello dell'ascolto e della sequela. Il primo elemento è richiamato qui; il secondo al v.16. Ma è soprattutto l'ascolto della voce, cioè della Parola del pastore, autenticata dal portinaio, che le qualifica come “sue” pecore. Un ascolto che al v.16 diviene “conoscenza della voce”, espressione questa che dice come questa Voce, questa Parola sia ormai penetrata e assimilata in loro. Per questo le pecore sono definite con l'aggettivo possessivo “‡dia” (ídia), che ho tradotto con “proprie”, ma il cui significato e molto più intenso. Esso dice “di proprietà, speciale, individuale, distinto dagli altri, singolare, di qualità distintiva”. L'ascolto della Parola dunque rende le pecore di proprietà esclusiva del Pastore, una proprietà tale da assimilarle a lui, così da farne una cosa sola con lui, come lui è uno con il Padre (v.12). Per questo esse sono chiamate per nome24. Il chiamare dice elezione, mentre l'espressione “per nome” dice come questa elezione risale ad una chiamata che è strettamente personale, considerato che il nome nel mondo antico esprime l'essere stesso della persona e delle cose, evidenziando in tal modo la particolare intimità del rapporto che lega queste pecore al Pastore. Il “chiamare per nome” evidenzia dunque un particolare titolo di appartenenza e di consacrazione (Is 43,1) e tale da rendere queste pecore salde e sicure nella mano del Pastore, poiché essa altro non è che la stessa mano del Padre (vv.10-12). L'ultimo elemento che contraddistingue il pastore è che egli “le conduce fuori”. Un'espressione alquanto enigmatica poiché non dice né perché né dove le conduce. Forse potrebbe significare soltanto che questo Pastore si qualifica come guida per queste pecore. Ma il fatto che l'espressione “conduce fuori” venga ripresa e dettagliata al v.16, insistendo quindi su questa, fa pensare che questo “condurre fuori” alluda ad un qualche specifico evento, che nelle note generali ho individuato come l'esodo della comunità giovannea dalla Palestina, dove essa è nata, verso Efeso, dove stabilirà la sua dimora e dove ultimerà, dandone struttura definitiva, il suo vangelo. La Palestina, infatti, era divenuta per la comunità giovannea inospitale sia per la guerra giudaica (66-73 d.C.), sia per i difficili rapporti che essa aveva con le altre comunità ecclesiali palestinesi, ormai già istituzionalizzate; mentre essa, a motivo della lunga permanenza del Discepolo Prediletto, morto in tarda età, era ancora di tipo carismatico. Fu di fatto un esodo-fuga come ci sembra di poter evincere dal v.17, dove si parla di una fuga da quelle voci in dissonanza a quella del loro pastore.
Il motivo per cui queste pecore seguono il loro pastore è perché “conoscono la sua voce”; la sequela dunque giunge dopo l'esperienza dell'ascolto della voce, fatta risuonare nella propri vita.
Il v.17 sostanzialmente altro non è che la ripresa, ma al negativo, del v.16; un modo di esprimersi caratteristico della retorica ebraica, dove l'accostamento del positivo con il negativo, del chiaro con lo scuro tende a contrastare, esprimendo così al meglio l'idea che si vuol passare25.
Porta e Buon Pastore, due metafore cristologiche (vv.18-30)
Testo
18) 6- Gesù disse loro questa parabola, ma
quelli non capirono cos'era ciò che diceva loro.
19) 7- Pertanto Gesù disse di nuovo: <<In
verità, in verità vi dico che io sono la porta delle pecore.
20) 8- Tutti quelli che vennero prima di me sono
ladri e assassini, ma le pecore non li ascoltarono.
21)
9- Io sono la porta; chi entra attraverso di me
sarà salvato ed entrerà e uscirà e troverà pascolo.
22)
10- Il ladro non viene se non per rubare e imperversare e
distruggere; io venni perché abbiano vita e (l')abbiano con
abbondanza.
23)
11- Io sono il buon pastore, il buon pastore offre la sua vita a
favore delle pecore;
24)
12- il mercenario e chi non è pastore, le cui pecore non sono
proprie, vede il lupo che viene e lascia andare le pecore e fugge –
e il lupo le afferra e (le) disperde -
25)
13- poiché è mercenario e non gli sta a cuore le pecore.
26)
14- Io sono il buon pastore e conosco
le mie (pecore) e le mie conoscono
me,
27)
15- come il Padre conosce
me e io conosco
il Padre, e offro la mia vita per le pecore.
28)
16- E ho altre pecore che non sono da questo
recinto; anche quelle io devo condurre e ascolteranno la mia voce, e
saranno un solo gregge, un solo pastore.
29)
17- Per questo il Padre mi ama, perché io offro la mia vita, per
prenderla di nuovo.
30)
18- Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso.
Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente; questo
mandato ho ricevuto dal Padre mio>>.
Note generali
Nella precedente pericope (vv.13-17) ricorrevano tre parole chiave che vengono ora riprese e approfondite in questa pericope tematicamente densa: porta, pastore e conoscere, a cui se ne aggiunge ora una quarta: offrire, che completerà la figura di Gesù porta e pastore, colto in una relazione di reciproca conoscenza tra lui e le pecore, per le quali egli offre se stesso.
La pericope scorre sostanzialmente su due binari definiti dal termine “porta”, che assume una valenza individuale ai vv.19-20 e una universale ai vv.21-22, che in qualche modo prelude, quest'ultima, il v.28; e dal termine “pastore”, la cui figura viene sviluppata all'interno dei vv.23-27, delimitati dall'inclusione posta ai vv.23.27 e data dalle due espressioni sostanzialmente identiche “offre la sua vita a favore delle pecore” al v.23; e “offro la mia vita per le pecore” al v.27. Sono cinque versetti molto densi e tali da creare una sorta di intasamento tematico. Quasi tutte le parole chiave, infatti, quali pastore, conoscere ed offrire, ripetute numerose volte, sono concentrate qui. Potremmo dire che questi vv.23-27 sono il cuore non solo della pericope in esame (vv.18-30), ma anche dell'intero cap.10, che a ragione viene indicato come quello del Buon Pastore.
L'intera pericope, in particolare i vv.19-27, si snodano in un continuo alternarsi di chiaroscuri, creando in tal modo un forte contrasto tra il vero pastore e chi invece pastore non è, da cui ne esce vincente e ben caratterizzato il primo rispetto al secondo. In questo gioco di contrasti, infatti, vengono rimarcate le qualità e i pregi di questo pastore, che, per contro, stridono fortemente con quelle dei suoi avversari. La veemenza di questo confronto è tale che suona come una sorta di atto di accusa, che sfiora il giudizio contro questi sedicenti pastori definiti “ladri e assassini” (v.20), “mercenari e non pastori” (v.24).
Lungo l'intera pericope (vv.19-30) scorre come una sorta di filo rosso, che l'attraversa e la sottende tutta, il tema della vita offerta per le pecore, con chiara allusione alla morte e alla risurrezione di Gesù. Un tema che si snoda attraverso la tecnica de pensiero a spirale, caratteristico di Giovanni. Esso scorre lungo il seguente percorso:
v.21d: chi passa attraverso la porta “troverà pascolo”, espressione che in qualche modo si richiama alla vita abbondante e piena, allusione alla vita divina, l'unica che si possa definire veramente tale;
v.22b: il “troverà pascolo”, verbo al futuro, allude alla condizione dei credenti, che troveranno pascolo, cioè nutrimento per la loro vita, perché prima “io venni affinché abbiano vita e (l')abbiano con abbondanza”. Gesù dunque è il fondamento e la fonte della vita stessa dei credenti, che si radica in un progetto divino di salvezza (“affinché abbiano”);
vv.23b.27b: nel riprendere l'attestazione del v.22b, questi due versetti dicono in quale modo è avvenuto il dono della vita ai credenti: attraverso l'offerta che il pastore ha fatto di se stesso a favore delle sue pecore: “offre la sua vita a favore delle pecore” (v.23b); e “offro la mia vita per le pecore” (v.27b); due espressioni che formano tra loro inclusione come meglio si vedrà nel commento.
v.29: il dono della vita che il pastore fa per le sue pecore non si esaurisce nella morte sacrificale (questo è il senso del verbo “t…qhmi”, títzemi), ma è un dono che si riconfermerà nel pastore, sottolineando da un lato il potere di questo pastore e dall'altro la qualità divina di questa vita: “io offro la mia vita, per prenderla di nuovo”;
v.30: costituisce il vertice di questo pensiero a spirale, da cui traspare come la morte di Gesù non fu un atto di sopraffazione dell'uomo, ma una libera offerta di se stesso da parte di Gesù; così come la sua risurrezione, questo riprendersi la vita, fu un atto di potenza divina, che gli era proprio. Morte e risurrezione di Gesù costituiscono l'asse portante della sua missione, che trova la sua origine e la sua radice primaria nel Padre, da cui la vera vita fluisce per mezzo di suo Figlio verso i credenti: “Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente; questo mandato ho ricevuto dal Padre mio”
Commento ai vv.18-30
Il v.18 è di transizione e forma sia da stacco narrativo che da passaggio tra la prima e la seconda parte del discorso, dando l'idea che i vv.19-30 siano la ripresa e la spiegazione della prima parte del discorso (vv.13-17), che qui l'autore definisce come “paroim…an” (paroimían). Un modo di procedere questo usato comunemente dal Gesù sinottico, che parlava alle folle in parabole, mentre, a parte, ai suoi ne spiegava il significato, perché “a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (Mt 13,10-11; Mc 4,10-12; Lc 8,9-10). Ma qui le cose sono ben diverse, poiché il Gesù giovanneo nei vv.19-30 in realtà non dà la spiegazione della precedente pericope vv.13-17, ma da questa l'autore prende solo alcune parole ed alcune espressioni chiave per sviluppare una sua riflessione squisitamente cristologica, che nulla ha che vedere con con la prima parte del discorso (vv.13-17), che, come si è visto, si qualifica come una sorta di metafora riguardante la comunità giovannea. Questa seconda parte del discorso pertanto non è né la spiegazione né il seguito chiarificatore della prima parte, ma soltanto uno sviluppo successivo a se stante, un approfondimento cristologico, partendo da alcune parole ed espressioni mutuate dalla prima parte del discorso, dando soltanto un'apparente idea di continuità narrativa.
Ciò che i Giudei non capiscono è la “paroimían”, che letteralmente significa proverbio, massima, digressione, lungo discorso, parabola. Un termine un po' inconsueto, che viene usato dalla LXX soltanto sette volte e significativamente soltanto nel Libro dei Proverbi e nel Siracide26; mentre nel N.T. compare soltanto quattro volte in Giovanni27 e una volta in 2Pt 2,22. Per comprendere quale significato Giovanni attribuisca a questo termine singolare risultano illuminanti i vv. 16,25.29 dove l'espressione “paroimía”, che compare in questi versetti tre volte, viene contrapposta per altrettante volte a “parresía”, che significa con libertà di parola, apertamente, chiaramente. Ciò significa che l'autore attribuisce alla parola “paroimía” il significato di linguaggio criptato o quanto meno non immediatamente raggiungibile, a cui si contrappone sempre ciò che invece è chiaro e facilmente raggiungibile, per il suo linguaggio diretto e fuori da significati simbolici e metaforici. Se dunque la pericope vv.13-17 è intesa come una sorta di parabola raccontata con una linguaggio che ne cripta il contenuto, riservandolo ai soli addetti ai lavori, in questo caso il mondo della comunità giovannea, quella che segue, vv.19-30, rientra nella natura della “parresía”, cioè del linguaggio chiaramente percepibile. La reazione aggressiva dei Giudei che “di nuovo portarono pietre per lapidarlo” (v.31) con cui si conclude quest'ultima parte del discorso (vv.19-30), non lascia dubbi circa la sua chiarezza.
vv.19-22: parallelamente alla prima parte del discorso (vv.13-17), anche questa inizia con l'espressione “In verità, in verità vi dico”, dandole solennità e imprimendole il marchio della veridicità. La prima metafora che Gesù riferisce a se stesso è quella della “porta”, termine che si ripete due volte (vv.19.21), ma assume significati diversi e crea contesti diversi. Nella prima attestazione Gesù si dichiara “porta delle pecore”; si tratta qui di una porta che si relaziona con le pecore e in qualche modo l'autore qui pensa ancora alla sua comunità, ma certamente anche a tutte le pecore che sarebbero venute successivamente. Non a caso la seconda attestazione (v.21) assume toni universalistici: Gesù non è più la “porta delle pecore”, ma soltanto “la porta” in senso generale che si relaziona non più con le pecore, contraddistinte dall'ascolto e dalla sequela (v.9), ma con un anonimo chiunque entri per questa porta. Vi è dunque un passaggio dal particolare all'universale. Una dimensione universale che in qualche modo preannuncia e anticipa il v.28, dove si parlerà di pecore che non appartengono a “questo recinto”, le quali dovranno essere condotte a “questo recinto”.
La prima attestazione afferma soltanto l'identità di Gesù (v.19), che viene contrapposta all'altra identità, quella dei suoi avversari, definiti ladri e assassini (v.20). Non ci sono al di là di queste affermazioni altre specificazioni, ma soltanto un “io sono” che si confronta con il loro “sono”; un'identità che si contrappone ad un'altra, ma che nel contempo definisce la natura delle due parti in causa. Nella seconda attestazione (vv.21-22) vi è un passaggio dall'essere della prima al fare; un fare che riflette in se stesso l'identità dei due: Gesù e quelli che sono venuti prima di lui. Gli effetti, frutto delle rispettive identità, sono diametralmente opposti: salvezza e vita per il primo (v.21); distruzione e morte per i secondi (v.22). “Essere la porta” significa essere il luogo di passaggio per accedere alla salvezza e all'abbondanza della vita (vv.21.22b); un luogo la cui unicità ed esclusività sono rimarcate dall'articolo determinativo “la” con cui è qualificato il sostantivo “porta”; non si tratta dunque di una delle tante porte, ma dell'unica porta e per questo anche esclusiva. L'esclusività di questa porta viene rimarcata dal v.20 che sottolinea come “Tutti quelli che vennero prima di me sono ladri e assassini, ma le pecore non li ascoltarono”. Quel “prima di me” costituisce da un lato una sorta di spartiacque in cui la figura di Gesù è l'elemento di discriminazione tra il prima di lui e il dopo di lui, così che riconoscibili come suoi sono soltanto quelli che passano attraverso di lui, che è la porta; dall'altro quel “me”, su cui va a cadere l'accento, rende esclusiva la sua persona, che viene contrapposta a quella dei suoi avversari; ma nel contempo, questa unicità ed esclusività della persona di Gesù spingono a vedere in essa quella del Pastore messianico di Ezechiele: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo (cioè un discendente di Davide). Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore” (Ez 34,23). E sarà infatti proprio il cap.34 di Ezechiele che fungerà da sfondo a questa seconda parte del discorso di Gesù.
Chi siano questi che sono venuti prima di lui, definiti cosi duramente come ladri e assassini, non ci è dato di sapere; ma il fatto che questi non vengano menzionati in termini espliciti lascia intendere che i Giudei erano a conoscenza delle loro identità. L'allusione riguarda probabilmente l'epoca dell'ellenizzazione della Palestina (dal 333 a.C.) e il periodo post-maccabaico (dal 167 a.C.) che hanno visto il susseguirsi di sommi sacerdoti e regnanti che perseguivano il potere e il proprio tornaconto, scendendo a patti con i vari conquistatori di turno (tolomei prima e seleucidi dopo), favorendo il processo di ellenizzazione, che fu un processo di dissacrazione del giudaismo, delle Tradizioni dei Padri, delle istituzioni giudaiche, del Tempio e della stessa Torah. Tuttavia va considerata anche un'altra ipotesi, che mi vede personalmente più favorevole, benché non mi senta di escludere quella qui sopra riportata. L'espressione “prÕ ™moà” (prò emû, prima di me), benché significhi in prima battuta “prima di me” essa assume anche altri significati quali “in luogo di me; invece di me; al posto mio”; in questo caso “quelli che vennero” assumono, rispetto a Gesù, il ruolo di usurpatori; ma vi è anche un ultimo significato, benché un po' raro: “fuori di me”28. Da queste prospettive l'espressione “prò emû” diventa pertanto maggiormente esclusiva, facendo di Gesù l'unico punto di salvezza verso cui tutto tende e al di fuori del quale non vi è salvezza.
I vv.21-22 riprendono il tema della porta, ma non più sotto l'aspetto dell'identità, già delineata ai vv.19-20, ma sotto l'aspetto degli effetti che queste contrapposte identità producono sulle pecore. Il v.21 rileva gli effetti positivi: “chi entra attraverso di me sarà salvato ed entrerà e uscirà e troverà pascolo”. Il “passare attraverso” è un sinonimo figurato del conformarsi a Gesù, che ha il suo fondamento nell'ascolto accogliente della sua parola che si fa sequela (v.9). Dopo questa attestazione seguono una serie di verbi al futuro. Si tratta di un futuro che potremmo definire come un presente costantemente iterato: “sarà salvato, uscirà-entrerà, troverà pascolo”; tempo verbale questo che delinea gli effetti duraturi derivanti da questo conformarsi a lui, ma che nel contempo rilanciano questi effetti in una prospettiva escatologica e messianica di cieli nuovi e terra nuova, di una nuova Gerusalemme dove Dio abiterà per sempre in mezzo ai suoi, dove non c'è più spazio per il dolore (Ap 21,1-5a). Tutte immagini che parlano di una vita nuova (Ap 21,5a), di una vita descritta nella sua perfetta pienezza e che porta in se stessa i tratti di quella divina. Questi sono i termini della salvezza resi con “l'entrare e l'uscire”, due movimenti uguali contrari che dicono la raggiunta pienezza della propria realizzazione, che sarà costantemente alimentata in quel “troverà pascolo”. Un versetto, il 21, che funge da premessa al successivo v.22b, che a sua volta funge da motivazione e da spiegazione al v.21: “io venni perché abbiano vita e (l')abbiano con abbondanza” ecco perché chi passa attraverso lui “sarà salvato ed entrerà e uscirà e troverà pascolo”, tutte espressioni queste che alludono alla pienezza di vita. La missione di Gesù dunque è finalizzata a donare vita piena agli uomini. Trova qui la sua eco il v. 3,16 in cui Gesù viene colto come il dono del Padre agli uomini, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna, che in Giovanni indica la vita stessa di Dio. Gli effetti di questo dono sono ora messi in rilievo attraverso un gioco di contrasti, che vede in causa la contrapposta identità dell'avversario di Gesù: “Il ladro non viene se non per rubare e imperversare e distruggere”. In Gesù vi è il dono e qui il contrario del dono, il rubare; in Gesù c'è la vita e qui il suo contrario, il distruggere.
I vv.23-27 formano un'unità narrativa a se stante delineata dall'inclusione data dalle due espressioni sostanzialmente identiche: “offre la sua vita a favore delle pecore” (v.23b) e “offro la mia vita per le pecore” (v.27b). Il tema che percorre questa pericope dunque è quello della vita che viene offerta; un tema che verrà ripreso ed approfondito dai vv.29-30.
Questa breve unità narrativa si suddivide in due parti: la prima (vv.23-25) delimitata a sua volta da un'inclusione data dalle espressioni tematicamente contrapposte “a favore delle pecore” (v.23b) e “non gli sta a cuore le pecore” (v.25b). Anche qui, parallelamente alla precedente pericope (vv.18-22), il racconto prosegue in un continuo gioco di contrasti, la cui finalità è mettere in rilievo la profonda diversità che contrappone le due nuove figure, quella del mercenario e quella di colui che non è pastore, al vero Pastore. La seconda parte (vv.26-27), e da qui in poi (vv.28-30), abbandona definitivamente il gioco delle contrapposizioni parallele e dei contrasti. I toni polemici qui si smorzano per dare spazio all'approfondimento della figura del buon pastore colto, da un lato, nei suoi rapporti con le pecore, posti in parallelo a quelli che egli tiene con il Padre e su questi configurati (vv.26-27); dall'altro, l'attenzione del lettore viene accentrata sul potere di questo Pastore, che si esprime nella sua capacità di dare liberamente la sua vita e nel sapersela poi anche riprendere; un potere che ha la sua origine nel Padre (vv.29-30). Un potere universale speso a favore non soltanto delle pecore del suo recinto, ma anche a vantaggio di tutte le altre pecore che ancora non lo sono, affinché tutto e tutte siano sotto la guida di un unico Pastore (v.28).
Il v.22b sottolineava il senso della missione di Gesù, venuto perché le sue pecore abbiano la pienezza di vita. In quale modo questo sia possibile viene ora raccontato da questa pericope in esame (vv.23-30). Questa si apre con il v.23, che le dà l'intonazione: “Io sono il buon pastore, il buon pastore offre la sua vita a favore delle pecore”. La pienezza di vita di cui godono le pecore non è connaturata ad esse, ma è un dono che nasce dalla vita stessa del Pastore, che la offre a loro. Il senso di questo offrire è reso in greco con il verbo “t…qhmi” (títzemi), che ricorre ben cinque volte in questa breve pericope (vv.23.27.29.30), sottolineando l'importanza delle modalità con cui questo dono viene dato. Il verbo infatti nella sua molteplicità di significati comprende anche quello di “consacrare, offrire, deporre, stabilire”, ed è usato, assieme al verbo “qÚw” (tzío, sacrificare), anche per indicare le offerte fatte alle divinità e quindi strettamente imparentato con quest'ultimo. Si tratta di una vita che viene deposta a favore delle pecore a cui è consacrata, cioè riservata; una vita che viene offerta a loro favore e che come tale è stata stabilita. Vi è implicito in questo verbo il senso del sacrificio vissuto come missione spesa a favore delle pecore e ciò in dipendenza di un progetto divino. Un verbo che qualifica la figura del Pastore come “kalÒj” (kalós), che letteralmente significa “bello” inteso in senso generale; ma quando questo “kalós” è finalizzato per un determinato scopo esso assume anche il significato di “buono, eccellente”29. L'attributo che qualifica questo Pastore come “buono” piuttosto che “bello” sottolinea dunque il senso del suo operare e del suo spendersi a favore delle pecore.
I vv.24-25 presentano due nuove figure: il “mercenario” e “chi non è pastore”. Con il primo termine è probabile che l'autore stesse pensando ai responsabili delle comunità palestinesi, ormai istituzionalizzate e dotate di personale dedito alla loro gestione, il cui servizio era in qualche modo ricompensato (v. pag.5). Con l'altra espressione si va a colpire in senso lato tutti coloro che si dedicavano alla vita delle comunità mossi certo non da spirito di servizio, ma per motivi ad esso estranei o di tornaconto personale. Segnali in quest'ultimo senso ci vengono dagli stessi Sinottici, in cui si riflette la vita della comunità30, là dove i discepoli stavano discutendo tra loro chi fosse il più grande31; o nei due figli di Zebedeo che si contendevano i primi posti tra l'indignazione degli altri, che si sono sentiti raggirati32. Tutti racconti che lasciano trapelare il clima che si respirava nelle comunità. La loro natura mercenaria e indifferente alle pecore viene alla luce nel momento della prova, quando viene il lupo; un'allusione forse alle persecuzioni durante le quali molti credenti e con loro dei responsabili di comunità abbandonavano il campo. Un problema questo che affliggerà la chiesa nei primi tre secoli e che sulla questione vedrà nascere al proprio interno dei duri dibattiti, che non di rado degeneravano in veri e propri scontri, accompagnati dal rischio di scismi. La questione dibattuta era quale linea di condotta si doveva tenere nei confronti di coloro che avevano abiurato, variamente definiti a seconda della tipologia del loro tradimento come lapsi, libellatici, sacrificati, thurificati e traditores33. Essi avevano come loro contropartita i confessores, credenti che invece seppero far fonte alla persecuzione fino alla morte, nel quale caso veniva loro assegnato il titolo di martyres, che indicava la loro suprema testimonianza. Erano persone che godevano di una grande reputazione presso la loro comunità e la chiesa in genere; esse costituivano punti saldi di riferimento per l'intera comunità ecclesiale; le loro parole erano tenute in grande considerazione e talvolta determinanti. A motivo della loro fermezza nella fede si riteneva che fossero investiti in modo speciale dello Spirito Santo34.
Se da un punto di vista storico i vv.24-25 sono versetti di denuncia nei confronti di determinate categorie di persone presenti nelle diverse comunità credenti, con le quali la comunità giovannea era in conflitto, da un punto di vista letterario essi sono finalizzati a contrastare, mettendola sempre più in rilievo, la figura donativa e sacrificale che caratterizza il vero pastore, così che l'aspetto donativo del primo è qui negato dai secondi.
Con i vv.26-27 si apre una nuova fase riflessiva sull'identità del buon pastore non più basata su di un polemico e contrastato confronto con gli avversari, ma su di un approfondimento che va a sondare gli aspetti più intimi della natura del buon pastore colto nella sua relazione con le pecore e, qui in particolar modo, nel suo rapporto con il Padre. Benché questi due versetti facciano letterariamente parte della pericope vv.23-27 per inclusione (v. pag.23), tuttavia essi appartengono anche a quest'ultima parte del discorso sul buon pastore (vv.26-30) sia per motivi tematici che per il ritmo narrativo improntato ad una profonda calma riflessiva dove ogni confronto polemico è scomparso. Essa si snoda su due temi intercalati dal v.28, che dà all'intera pericope (vv.26-30) una dimensione universale: la conoscenza che lega Gesù al Padre si riflette in quella che lega Gesù alle pecore (vv.26-27). Teologia e cristologia, dunque, sono qui poste a fondamento della comunità credente e la qualificano nelle sue relazioni come comunità consacrata, perché il suo vivere in relazione a Gesù è un porsi in relazione comunionale con il Padre, che nel Figlio si riflette, vive ed opera. Il secondo tema, già in qualche modo anticipato nella precedente pericope (vv.23-27), riguarda il dono della vita offerta, a cui l'autore dedica i vv.27b-30 che si snodano secondo lo tecnica del pensiero a spirale (v. pag.21).
Il v.26 è la sintesi di tre passaggi di pensiero già esposti ai vv.9.16 e per contrapposizione al v.17. Nel v.9 si attesta che il pastore conosce le sue pecore; al v.16 si dice che le pecore ne conoscono la voce e per contro, al v.17, che esse non conoscono la voce degli estranei. Qui, ora, pastore e pecore sono uniti da una comune conoscenza, che nel linguaggio biblico è sinonimo di intima esperienza che compenetra i due in una profonda comunione di vita, che ha il suo parametro di raffronto e di riferimento in quella che lega Gesù al Padre (v.27a). Tuttavia qui non si tratta di un semplice confronto tra due tipi di rapporto in cui il primo è in qualche modo modellato sul secondo a sua imitazione, ma per la natura del rapporto che lega il Padre al Figlio e per la profonda comunione di reciproca compenetrazione dei Due (14,9-11) diventa ineluttabile che il rapporto che il Figlio ha con le pecore riproduca, per sua stessa natura, quello del Padre-Figlio. Non c'è dunque qui imitazione, ma estensione del rapporto divino a quello che Gesù tiene con le pecore, che sono in tal modo associate e incorporate nel ciclo della stessa vita divina. Un'estensione di rapporti che riecheggerà anche nei vv. 17,11.21.22 dove Gesù invoca il Padre affinché la comunione di vita, che li lega facendone una cosa sola, si estenda e si rifletta anche nei suoi.
Come questa estensione di vita divina possa realizzarsi viene ora indicato al v.27b: “offro la mia vita per le pecore”; e la modalità di questa offerta, come suggerisce l'uso che qui viene fatto del verbo “t…qhmi” (títzemi, offro), è di tipo sacrificale (v. pagg.21.24). Che cosa questo significhi verrà specificato e approfondito ai vv.29-30, dove le allusioni alla morte e risurrezione di Gesù, quali progetto e atto divino per l'accorpamento dell'uomo alla vita di Dio, appariranno più evidenti. Il v.27b dà quindi l'intonazione all'intero pensiero a spirale che troverà il suo vertice al v.30 (v. pag.21).
Dopo lo stacco del v.28, il cui commento verrà posticipato dopo il v.30 per non interrompere il flusso della riflessione, viene ripreso qui al v.29 il pensiero enunciato in 27b. Il v.29a si apre infatti con un'espressione aggancio, che verrà precisata in 29b: “per questo” (di¦ toàtÒ, dià tûto), che se da un lato indica il motivo per cui il Padre ama il Pastore, dall'altro l'anonimato del pronome neutro “toàtÒ”, che potrebbe creare forse un qualche imbarazzo, viene sciolto nella seconda parte del v.29, che riprende di fatto il v.27b, ma lo amplia con l'aggiunta dell'espressione “per prenderla di nuovo”. Ci si trova dunque di fronte ad una vita che da un lato viene offerta in modo sacrificale (títzemi), ma dall'altro essa viene ripresa. Questa aggiunta qualifica questa vita come vita divina poiché, pur passando attraverso l'esperienza della morte, essa non cessa mai di esistere e si ripresenta nuovamente. Il morire infatti è proprio dell'uomo, ma non di Dio, che pur passando attraverso l'esperienza di morte in Gesù, torna comunque a vivere perché la morte non può spegnere la vita di Dio, che in Gesù è stata vinta e sottomessa a Lui (1Cor 15,26). Significativo in questo contesto è l'avverbio “p£lin” (pálin, di nuovo, nuovamente) attribuito alla capacità del Pastore di autogenerarsi nuovamente alla vita, indicandolo così come una sorgente inesauribile di vita, che continuamente si autogenera, genera e rigenera, facendolo in tal modo il “Signore della vita”. L'offerta della propria vita quindi è in funzione di una vita piena e definitiva o per meglio dire di una trasmissione, che è estensione di una pienezza di vita, che porta in sé il marchio della divinità (v.22b). “Per questo il Padre mi ama”. L'amore qui indicato dice tutto il consenso del Padre sul Figlio, che in questa morte-risurrezione attua in pienezza il suo progetto salvifico, riconducendo l'uomo in seno a quel Dio, da dove era uscito e a cui apparteneva.
Il v.30 ha una funzione didattica nei confronti del v.29, mettendo in evidenza sia il potere proprio di questo Pastore che l'origine di tale potere. Prosegue quindi il pensiero a spirale che, riprendendo il v.29b, lo scioglie in “Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente”. Il versetto è scandito in due parti sostanzialmente identiche, che si rincorrono tra loro confluendo l'una nell'altra, in cui la prima trova il suo sviluppo e il suo approfondimento complementari nella seconda. Molto spazio viene qui riservato al tema della vita offerta; quasi l'intero v.30 gli è dedicato. Questa insistenza sulla libera offerta di se stesso mette qui la premessa cristologica e teologica, al tema della passione e morte, che Giovanni legge non come una vergognosa sconfitta, ma come una sorta di intronizzazione regale di Gesù, che già fin d'ora riconosce come il Signore della storia e il dominatore degli eventi. È Gesù infatti che nell'orto del Getsemani si consegna liberamente ai suoi persecutori, che al solo sentire il suo nome indietreggiano e stramazzano al suolo (18,5-6); è lui che volontariamente lascia che gli eventi prendano il loro corso poiché in questi, che gli uomini credono di gestire, in realtà si sta compiendo un preciso disegno del Padre; non gli serve quindi nessun intervento umano liberatore (18,10-11). È lui che con calma solenne, non priva di una certa aria di sfida, domina l'interrogatorio con Anna, provocando lo sdegno del servo per la sua insolenza (18,19-24). È sempre lui che domina il lungo confronto con Pilato, mettendolo in seria difficoltà; non solo lo convince della sua innocenza (18,33-38), ma gli incute paura (19,8) e al suo vantato potere si sente rispondere che egli non ha alcun potere su di lui, ma che anzi egli è soltanto una pedina in mano ad un altro potere, che lo sta manovrando perché si compia un disegno misterioso (19,10-11). Pilato non sembra capirci molto, ma in lui si sprigiona un timore reverenziale nei confronti di Gesù e cerca di liberarlo in ogni modo (19,10-12a; At 3,13). È lui che decide i tempi del suo vivere e del suo morire e soltanto quando sa che tutto è compiuto, soltanto allora, egli riconsegna lo spirito al Padre (19,30), ponendo fine alla sua missione terrena. Ecco dunque il senso del v.30a. Ma da dove gli viene questa sua capacità di autodeterminazione e di dominazione degli eventi? Sarà il v.30b a dare la risposta. Esso riprenderà in modo sostanzialmente identico il v.29b premettendo ad ogni attestazione il termine “™xous…a” (exusía) che significa “libertà, arbitrio, potere, potenza, autorità, forza, area di dominio”. Un termine che da solo è sufficiente a qualificare l'origine di tale potere come sovrano e incontrastato. La ripetizione di questo termine davanti ad ogni attestazione sottolinea come l'intera missione di Gesù, che ha il suo vertice e il suo compimento nella morte-risurrezione, sia permeata, animata e condotta da questo potere, che ha la sua origine nel Padre: “questo mandato ho ricevuto dal Padre mio”. Un mandato che si esprime in un potere, in cui opera lo stesso Padre (14,9-11) e fa dei due una sola cosa (10,30). Non si tratta di un potere disgiunto dalla persona del Padre, quasi fosse una sorta di mandato legale, che trasferisce un potere su di un altro, ma lascia distinte le due persone, ognuno per conto proprio, per cui il mandante non sa esattamente quel che sta facendo il suo inviato e se lo eseguirà con fedeltà e diligenza. Il potere che il Padre gli ha dato è di fatto se stesso. Gesù ha la pienezza del potere (3,35; 5,20.27; 13,3; 17,2) perché in lui opera la pienezza del Padre e non per semplice delega legale che lo autorizza a fare determinate cose. Per questo egli può dire “Tutto quanto il Padre ha, è mio” (16,15), perché lui e il Padre sono una cosa sola (10,30; 17,11.21.22). Non a caso Gesù attesta più volte che egli non può fare nulla e che tutto ciò che fa è perché lo vede compiere dal Padre, che opera in lui (5,19.30). Per questo Gesù può definirsi Azione del Padre e ne è la sua manifestazione attuativa.
Il v.28 è l'anima della pericope vv.26-30 e ne costituisce in qualche modo la chiave di lettura. La libera offerta che il pastore fa della propria vita (passione e morte), la sua capacità di riprendersi la vita (risurrezione) e il potere che in tutto ciò si esprime (signoria), potere che si origina dal Padre (vv.29-30), tutto ciò non avrebbe alcun senso e sarebbe una vacua esibizione di potenza se non fosse sotteso e animato da un preciso progetto, che viene definito dal v.28 : “E ho altre pecore che non sono da questo recinto; anche quelle io devo condurre e ascolteranno la mia voce, e saranno un solo gregge, un solo pastore”. Il v.28 è scandito in due parti: la prima attesta come le pecore, di cui fin qui si è parlato, non sono soltanto quelle del recinto, cioè della comunità giovannea, ma anche altre ancora che si pongono al di fuori di tale comunità. L'aggettivo “altre” dà un senso di generalità e di indeterminatezza che si contrappone al chiuso del recinto, aprendolo così ad una nuova dimensione di universalità, che non ha confini. La missione di Gesù dunque non è soltanto riferita al recinto, ma lo trascende aprendosi all'intera umanità di ogni tempo e latitudine.
La seconda parte rileva come questa universalità, così come la necessità anche per la comunità giovannea di superare i suoi particolarismi elitari per una definitiva integrazione con il resto della chiesa aperta al mondo intero, rientrino in un progetto divino significato nell'espressione verbale “devo condurre” (de‹ me ¢gage‹n, deî me agagheîn). Ed è proprio quel “devo” che costituirà l'asse portante della missione universale della chiesa, ereditato dal suo Maestro e Pastore. Una chiesa, quindi, che per progetto divino, che ne definisce la natura missionaria, deve essere aperta a tutti gli uomini indistintamente, significati nei due verbi al futuro “ascolteranno, saranno”. Il pilastro fondamentale su cui poggia questa missionarietà universale è l'ascolto della voce di questo Pastore, fatta risuonare dalla chiesa presso tutte le genti. Sarà questa voce, questa parola che costituirà un solo gregge. Si noti come ormai qui non si parli più di recinto, ma solo di gregge che non ha più confini e restrizioni, ma sarà qualificato soltanto dall'ascolto della Parola del Pastore.
Gesù abbandona definitivamente il giudaismo radicale (vv.31-42)
Testo a lettura facilitata
Transizione: tentativo di lapidazione per blasfemia
31- Di nuovo i Giudei portarono pietre per lapidarlo.
Difesa e Accusa
32- Rispose loro Gesù: <<Vi ho fatto vedere molte
opere buone (che sono)
dal Padre. Per quale opera
di queste mi lapidate?>>.
33- Gli risposero i Giudei: <<Non ti lapidiamo per
una buona opera, ma per
bestemmia, e perché tu, che sei uomo, fai te stesso Dio>>.
La confutazione dell'accusa di blasfemia
34- Rispose loro Gesù: <<Non è scritto nella
vostra Legge che “Io dissi: siete dèi”?
35- Se disse dèi quelli a favore dei quali vi fu la
parola di Dio, e la Scrittura non può essere disciolta,
36- a colui che il Padre santificò e inviò nel mondo
voi dite che “bestemmi”, perché dissi “Sono figlio di Dio”?
La prova a sostegno della propria tesi
37- Se non faccio le opere
del Padre mio, non credetemi;
38-
se invece (le) faccio, anche se non credete a me, credete alle opere,
affinché sappiate
e conosciate
che il Padre (è) in me e io nel Padre>>.
La sentenza: il tentativo di arresto
39- Cercavano, dunque, di prenderlo nuovamente, e uscì dalla loro mano.
Gesù abbandona il giudaismo radicale
40- E se ne andò di nuovo al di là del Giordano, nel
luogo dove Giovanni prima battezzava e rimase là.
41- E molti vennero da lui e dicevano che Giovanni di
certo non fece nessun segno, ma tutte quante le cose che disse su
costui erano vere.
42- E molti, là, credettero in lui.
Note generali
Questa pericope (vv.31-39) è delimitata dall'inclusione di tipo tematico data dal v.31, in cui vi è un tentativo di lapidazione da parte dei Giudei nei confronti di Gesù; e dal v.39, in cui vi è un tentativo di arresto di Gesù da parte dei Giudei. Questa inclusione colloca dunque la pericope all'interno di un clima arroventato, che dà concretezza e volto al minaccioso accerchiamento di Gesù da parte dei Giudei (v.6). Un accerchiamento che dà l'idea di un'aula di tribunale dove l'imputato è posto al centro del collegio giudicante, similmente a quanto era avvenuto per la donna adultera colta in flagranza di reato: essa era stata posta “in mezzo” (8,3). Del resto, già lo si è detto (v. pag.5) come il cap.10 sia sostanzialmente strutturato sulla falsariga di un processo intentato contro Gesù. I vv.6-7 infatti richiamano da vicino il contesto e il clima di Lc 22,66-67, dove Gesù, arrestato e condotto davanti al Sinedrio, è interrogato dal sommo sacerdote. Non fa eccezione questa parte finale del cap.10, la cui struttura ricalca sostanzialmente quella propria di un processo, e ne diventa la parte conclusiva. Pertanto si avrà:
Difesa e Accusa (vv.32-33): a fronte del tentativo di lapidazione Gesù chiede ragione ai suoi persecutori del loro comportamento; la loro accusa è di blasfemia, essendosi dichiarato “Figlio di Dio”;
La confutazione (vv.34-36): tutti i figli di Israele sono dichiarati dalla Scrittura “figli di Dio” e nessuno se ne scandalizza; anche Gesù lo è, anche se in modo del tutto speciale;
La prova a sostegno della propria tesi (vv.37-38): i Giudei possono anche non credere alle parole di Gesù, ma devono considerare invece quello che egli fa. L'operare di Gesù, infatti, è la dimostrazione di ciò che egli dice.
La reazione (vv.39): similmente alla conclusione della prima parte del discorso (vv.7-30), che vedeva il tentativo di lapidazione (v.31), quale esecuzione di una sentenza di morte per blasfemia (v.33), anche questa seconda conclusione conferma la posizione dei Giudei contro Gesù: tentativo di arresto. Entrambi tentativi vanno incomprensibilmente a vuoto; il lettore, però, già sa, perché precedentemente edotto (7,30; 8,20), che ciò accade perché non è ancora giunta l'ora di Gesù.
Commento vv.31-42
Il v.31 è di transizione; esso infatti nel chiudere il lungo discorso sul buon pastore, introduce il lettore in un nuovo contesto narrativo in cui Gesù assume le proprie difese. Sarà infatti proprio il tema della lapidazione per blasfemia (vv.32-33.36) che aprirà questa nuova fase narrativa .
Il versetto si apre con l'avverbio “p£lin” (pálin, di nuovo, nuovamente), richiamandosi al tentativo di lapidazione menzionato in 8,59, dal quale Gesù si sottrasse dapprima nascondendosi e poi uscendo dal tempio. In quell'occasione si disse che il nascondersi di Gesù e la sua uscita dal tempio significavano l'abbandono del giudaismo istituzionale totalmente refrattario al suo annuncio e che vedeva in Gesù un attentato alle istituzioni dei Padri. La situazione si ripete ora anche con quel giudaismo, che Gesù incontra fuori dal tempio e che fin da subito gli si mostra ostile, circondandolo e sottoponendolo ad un interrogatorio (v.6), che richiamava da vicino quello del sommo sacerdote durante il suo arresto35. Un giudaismo che si riteneva illuminato e guida delle genti (Rm 2,17-24), ma in realtà era cieco (9,41), cioè incapace di cogliere la novità del messaggio di Gesù a motivo del suo radicale abbarbicamento alla lettera della Legge. Il v.31 pertanto introducendo alla nuova pericope vv.32-42 ne anticipa il clima di diatriba che si farà scontro fisico e che costringerà Gesù ad abbandonare Gerusalemme, il luogo del giudaismo ufficiale e radicale, per luoghi più sicuri. Egli pertanto ritornerà agli inizi della sua missione (v.40), dove riceverà la testimonianza della gente (v.41). Tornerà nuovamente a Gerusalemme per l'ultima pasqua (11,55), quella fatale, in cui compirà l'ultimo segno, la risurrezione del suo amico Lazzaro (11,41-44), che preluderà alla sua.
I vv.32-33 aprono il dibattimento, riprendendo il tema dei vv.6-7 in cui i Giudei chiesero a Gesù di dire in modo chiaro se fosse lui il messia; Gesù rispose rimandando i Giudei non alla sua predicazione, a cui essi non credevano, ma alle opere che egli compiva nel nome del Padre. Era su queste che egli accentrava l'attenzione dei suoi interlocutori perché esse da un lato testimoniavano inequivocabilmente la sua provenienza e quindi la sua identità; dall'altro erano il luogo dell'agire stesso del Padre36. Similmente qui, ai vv.32-33, Gesù risponde al tentativo di lapidazione per blasfemia, sanzionata da Lv 24,1637, rimandando alle sue opere con tono sottilmente ironico: “Vi ho fatto vedere molte opere buone (che sono) dal Padre. Per quale opera di queste mi lapidate?”. Sono opere la cui origine è posta nel Padre e quindi da Lui provengono: “™k toà patrÒj” (ek tû patrós); esse pertanto sono manifestatrici e rivelatrici del Padre. Contengono quindi in loro stesse una dimensione e una consistenza divina, che va colta. Sono opere che sono definite “buone” (kal¦, kalà), cioè finalizzate a dimostrare e rivelare (v. pag.25); torna qui lo stesso aggettivo che qualificava il Pastore. La natura di queste opere dunque riflette in se stessa quella del Pastore. L'insistenza sulle opere più che sulle parole rispecchia, da un lato, la mentalità concreta dell'ebreo, che va alla ricerca di prove concrete (2,18; 6,30) più che di sofismi, amati invece dal mondo greco. Una testimonianza in tal senso ci viene dallo stesso Paolo in 1Cor 1,22: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza”; dall'altro, ricalca la logica che sottende l'intero vangelo giovanneo, che si qualifica come una cernita di segni, cioè di opere che portano in loro stesse un significato, un messaggio che viene offerto “affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (20,30-31). L'opera dunque dice sia il manifestarsi concreto del Padre nell'agire di Gesù, che si qualifica come azione del Padre, sia l'esperienza concreta di salvezza offerta al credente, che in essa può toccare con mano il manifestarsi salvifico di Dio, che in essa lo interpella. Significativo è in tal senso il verbo “far vedere” riferito alle opere: “œdeixa” (édeixa), che possiede in sé un senso di concretezza molto simile al toccare con mano: “mostrare, indicare, rendere noto, far conoscere, mettere sotto gli occhi”. L'opera dunque ha in se stessa un significato dimostrativo, ma diviene nel contempo il luogo dell'incontro salvifico di Dio con l'uomo. Possiede dunque una valenza sacramentale.
La sfida lanciata da Gesù, giocata tutta sulle opere e non sulle parole, viene accolta dai Giudei che non condannano Gesù per “un'opera buona”, ma per un'opera blasfema: “perché tu, che sei uomo, fai te stesso Dio”. La bestemmia riscontrata dai Giudei sta nella discrepanza che intercorre tra il termine “uomo”, ciò che loro vedono, e “Dio”, ciò che Gesù pretende di essere (v.33). È questo contrasto insanabile che pone Gesù in uno stato di blasfemia: un uomo che si propone come Dio viola di fatto l'enunciato di Es 20,2-5, posto a fondamento dell'intero sistema legislativo di Israele, che tutela il monoteismo e l'unicità esclusiva di Jhwh: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano”. Gesù dunque si pone in contrasto e in concorrenza con Dio stesso. È questo che lo rende blasfemo. Si noti qui la finezza di Giovanni che non ricorre al verbo dire per definire la bestemmia di Gesù, ma al verbo fare: “fai te stesso Dio”. Ciò che qui i Giudei contestano a Gesù non è una qualche dichiarazione di divinità o di pretesa tale, ma l'essersi comportato da Dio, dichiarandosi uscito da Dio (8,42; 16,27.28.30; 17,8), di averlo visto (1,18; 3,32; 6,46; 8,38a), di esserne l'inviato38, di fare le sue opere, anzi non è lui che le fa ma il Padre stesso le compie in lui (14,9-11); attesta di essere una cosa sola con Lui (10,30), identificandosi di fatto con Lui39 e pretende di averne l'autorità (11,26; 14,9-11). Non è dunque per qualche parola sbagliata che Gesù viene condannato, ma per l'insieme del suo comportamento, fatti e parole, da cui traspariva la sua personale convinzione di essere Dio e di appartenere al suo mondo, da cui proveniva e verso cui era diretto (16,28); e nulla faceva per nasconderlo o mitigare in qualche modo la portata della sua pretesa. Anzi, a riprova di ciò egli compie dei segni e invita i suoi interlocutori a leggerli come l'operare di Dio in mezzo a loro (5,36; 9,3; 11,4; 14,9-11). Tutto ciò contrastava nettamente con il rigido monoteismo ebraico, sanzionato da Lev 24,16. Quindi Gesù è apparso Dio non sul piano del dire, ma del fare, che è lo stesso piano dell'essere. Per questo egli viene contestato e condannato.
I vv.34-36 costituiscono la confutazione dell'accusa mossa a Gesù da parte dei Giudei. Si tratta di una sorta di sillogismo40, in cui, posta l'enunciazione del principio: “Io dissi: siete dèi” (v.34), questa prosegue con l'applicazione del principio sugli Israeliti: “Se disse dèi quelli a favore dei quali vi fu la parola di Dio” (v.35), per poi passare all'estensione analogica conclusiva: a maggior ragione è Figlio di Dio “colui che il Padre santificò e inviò nel mondo” (v.36).
Il v.34 enuncia un principio scritturistico a fondamento della tesi di confutazione dell'accusa di blasfemia mossa dai Giudei nei confronti di Gesù (v.33), tratto dal salmo 82,6a: “Io dissi: siete dèi”41. Il salmo viene citato soltanto nella sua prima parte, tralasciando la seconda in cui si precisa che per dèi si intende “figli dell'Altissimo”, perché in gioco qui c'è la divinità di Gesù; è su questo tema che si svolge il dibattito e deve essere accentrata l'attenzione del lettore, anche se poi il sillogismo si concluderà con l'affermazione di “Figlio di Dio”, a cui viene attribuito, grazie alla premessa (v.33), il significato proprio di “origine divina” e quindi di deità di Gesù.
Impropriamente qui si parla di “vostra Legge”, da cui è stato tratto il salmo. In realtà con il termine Legge si designa il Pentateuco, mentre più corretta sarebbe stata l'espressione le Scritture, che comprendono oltre che il Pentateuco (Torah) anche gli Scritti profetici (Nebim) e gli altri diversi Scritti (Ketubim). In Matteo e Luca, in Atti e in Rm 3,21 esse sono definiti con l'espressione “la Legge e i Profeti”, mentre Il binomio compare soltanto una volta in Gv 1,45. Il termine Legge comunque qui va compreso non in senso ristretto, bensì esteso e diventa sinonimo di Scritture. In altri due casi, 12,34 e 15,25, il termine Legge, che in Giovanni compare 15 volte, assume il senso di Scritture. Una Legge che viene definita con l'aggettivo possessivo “vostra” in cui si sente ormai il distacco e l'estraneità della comunità giovannea dal mondo giudaico, al quale non si sente più di appartenere.
Il v.35 costituisce un passaggio importante perché il termine “dèi” viene riconosciuto a coloro “a favore dei quali vi fu la parola di Dio”. L'espressione allude sia all'elezione di Israele che all'Alleanza, le quali lo hanno consacrato, cioè riservato in via esclusiva a Dio, attribuendogli una nuova identità: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Il termine “dèi” pertanto dice la condizione privilegiata che consacra Israele a Dio facendone una nazione santa, cioè gravitante per mezzo dell'Alleanza nell'area divina. Per questo gli è stato imposto il comando di essere santo (Lv 19,2). Si tratta di una santificazione che dice non solo appartenenza a Dio, il riservarsi di Dio per se stesso, ma anche in prospettiva di una missione, che qualifica Israele come “regno di sacerdoti”, cioè di mediatori tra Dio e gli uomini, chiamati a far conoscere in mezzo alle genti il nome di Dio42. Ora, la solidità di questa particolare condizione di santità è sancita dalla stessa Scrittura, che per la sua natura divina non può essere modificata in alcun modo dall'uomo ed è intrinsecamente veritiera.
Dopo aver blindato e quindi reso incontestabile questo passaggio, che gli fornisce la motivazione alla sua conclusione, che è il vertice di questo sillogismo, l'autore passa al v.36: “a colui che il Padre santificò e inviò nel mondo voi dite che “bestemmi”, perché dissi “Sono figlio di Dio”?”. In altri termini, se gli israeliti possono essere definiti “dèi” solo per la loro elezione sancita dall'Alleanza, a maggior ragione Gesù può definirsi “Figlio di Dio” in quanto anche lui è stato santificato dal comando del Padre che lo ha inviato, cioè è stato scelto da Dio, come Israele, per compiere la sua missione. Tuttavia l'autore qui gioca volutamente in modo equivoco. Infatti, se la “deità” degli israeliti non era chiaramente da intendersi, e nessuno la intendeva tale, in senso reale, cioè che essi fossero pari a Dio o comunque di natura divina, tuttavia egli trasferisce questa asserzione a Gesù, ma intendendola in senso reale. La santificazione di Gesù lo indica come appartenente all'area divina e da essa proveniente e ne definisce l'elezione in vista della missione. Una santificazione quindi che implica in se stessa una vocazione. Tutto ciò apparirà manifesto nel racconto del battesimo dove il Padre indica in Gesù il suo Figlio prediletto e lo consacra, cioè lo riserva per se stesso, per una missione speciale, che egli compirà con la potenza e nella potenza dello Spirito Santo (1,31-34).
Con i vv.37-38 si passa dalla confutazione dell'accusa di blasfemia nei confronti di Gesù (vv.31-33) alla prova della veridicità delle sue attestazioni (vv.37-38), da cui traspare la sua pretesa di divinità e di inviato speciale di Dio. Una prova che ha il suo fulcro nelle stesse opere che egli compie. Sono queste infatti che rendono testimonianza non solo della sua persona ma anche dell'autenticità della sua missione (5,36; 10,7).
Da un punto di vista letterario i vv.37-38 formano inclusione con il v.7; un'inclusione che mette in rilievo l'importanza delle opere a scapito della stessa persona di Gesù, che in questo contesto è messo in discussione e accusato di blasfemia e quindi destituito di credibilità. Il lettore è pertanto invitato ad accentrare la sua attenzione su queste opere, che investono l'intera missione di Gesù attraverso la quale filtra il dire e il fare, cioè l'operare, del Padre. Questo primato delle opere sulla persona di Gesù traspare allorché egli stesso invita i suoi interlocutori a non credergli se egli non compie le opere del Padre, legando quindi la sua credibilità a queste; ed arriva a mettersi da parte purché si creda alle opere del Padre: “Se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi; se invece (le) faccio, anche se non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre (è) in me e io nel Padre”. La sottolineatura di questo primato delle opere sulla stessa persona di Gesù in realtà non lo sminuisce, ma rivela la natura del suo essere e il senso della sua missione; si tratta infatti del primato del Padre, da cui Gesù è uscito e verso cui è rivolto fin dall'eternità (1,1-2). L'operare di Gesù infatti è l'operare stesso del Padre, così che egli può ben essere definito Azione del Padre, e la sua figura è in funzione del Padre, che egli manifesta nelle opere che compie. Sembra quasi trapelare da questi due versetti la preoccupazione dell'autore che la persona di Gesù, a giochi finiti, proprio per la sua posizione di rottura con il giudaismo, abbarbicato alla lettera della Legge più che al suo spirito, possa in qualche modo impedire al possibile credente giudeo, che di lui si scandalizza, di giungere al Padre, la meta prima ed ultima per cui Gesù è venuto e per cui vive. Da qui l'invito a guardare i fatti. Una posizione questa che rispecchia, già lo si è detto qui sopra (v. pag.31), la mentalità dell'ebreo, che, scarsamente propenso alla speculazione, preferisce volgere la sua attenzione alla concretezza del fare e dell'operare.
I due versetti sono strutturati sulla falsariga della retorica ebraica per cui al negativo “se non faccio non credetemi” si contrappone il positivo “se invece faccio credete”. Da questo contrasto si rileva come qui la credibilità di Gesù sia strettamente legata alle opere, la cui fondamentalità sta nel fatto che esse sono il veicolo attraverso cui passa l'azione rivelatrice e salvifica del Padre. È grazie ad esse infatti che il credente viene raggiunto e interpellato dal Padre. Non è un caso infatti che Gesù orienti l'attenzione del credente verso le opere e non verso se stesso: “anche se non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre (è) in me e io nel Padre”. È dunque nelle opere che il credente può sapere e conoscere la realtà divina che lega Gesù al Padre così da farne una cosa sola (v.12). Si noti come il verbo credere43 che in Giovanni è sovente seguito dalla particella “™n” (en, in) per indicare una fede che colloca il credente in Dio; o “e„j” (eis, verso) per indicare un cammino esistenziale di fede verso Dio, qui, invece, è seguito sia per quanto riguarda Gesù che le opere, da un semplice dativo. Quando ciò avviene il verbo credere perde il suo senso spiritualistico di apertura verso Dio per accedere a quello più umano del fidarsi. Il messaggio quindi che l'autore qui lancia verso il giudaismo è quello di fidarsi se non di Gesù almeno delle sue opere. Il fidarsi infatti è il primo passo per poter accedere alla fede, che dice la pienezza accogliente della propria apertura esistenziale verso Dio. È pertanto nelle opere che il credente può sapere e conoscere la verità che opera in Gesù. “Sapere e conoscere” due termini che per noi sono dei sinonimi, ma non per l'ebreo che nel sapere raggiunge la conoscenza, che non è mai un atto intellettuale ed astratto, ma è sempre strettamente legato all'esperire. Le opere dunque consentono l'incontro e l'esperienza salvifica di Dio che nell'operare del suo Cristo tende la mano agli uomini. L'autore quindi traccia in questi due versetti una sorta di cammino di fede che, passando attraverso il fidarsi di ciò che si vede e si può toccare (credere nelle opere), giunge alla presa di coscienza di ciò che si percepisce, che conduce alla pienezza della conoscenza, che è esperienza salvifica di Dio, raggiunto dall'uomo ormai fattosi credente. “Fidarsi, sapere e conoscere” tracciano un cammino di fede che ha il suo corrispettivo nel triplice modo con cui Giovanni usa il verbo vedere44, per cui in “blšpw” (blépo) si coglie un semplice vedere umano che non va oltre a ciò che si vede; in “qewršw” (tzeoréo) parla di un vedere che si interroga e riflette su ciò che vede, per giungere all' “Ðr£w” (oráo) il verbo della fede raggiunta, che sa cogliere la pienezza della realtà che è insita e significata nelle cose vedute.
Ciò che questo ultimo stadio di conoscenza consente è quello di saper cogliere la sublimità del rapporto che lega Gesù al Padre e questi a Gesù in una reciproca compenetrazione tale che fa dei Due una cosa sola (v.12), ma nel contempo lascia intendere come nell'agire di Gesù vi sia quello del Padre e come questi si manifesta in esso. Ed è questa reciproca compenetrazione che fornisce la chiave di comprensione dell'operare di Gesù e perché Gesù indirizzi i Giudei al suo operare, poiché questo non è suo, ma del Padre (14,9-11).
Il v.39 presenta il tentativo di arrestare Gesù; un tentativo che viene legato con quel “p£lin” (palin, di nuovo, nuovamente), nell'immediato, al v.31 in cui i Giudei si preparavano a lapidare Gesù, e, in senso più remoto, anche a tutti gli altri tentativi di sopraffazione45, che, a partire dal cap.7, il capitolo che segna una svolta radicale di Gesù verso il Golgota, sono divenuti più frequenti ed insistenti; tentativi tuttavia andati a vuoto perché, commentava l'autore, “non era ancora giunta la sua ora” (7,30; 8,20). Un'insistenza che viene qui sottolineata sia dal verbo “cercare”, che rivela il comportamento persecutorio che ormai gli avversari di Gesù avevano assunto nei suoi confronti; sia dall'imperfetto indicativo (cercavano), che denuncia il persistere di questo comportamento nel tempo. Tentativi vanificati da quel “uscì dalle loro mani” così come “uscì dal tempio” (v.8,59). Un comportamento persecutorio che a breve diventerà progetto strategico e politico (11,46-50.53).
Gesù dunque abbandona definitivamente sia il giudaismo istituzionale del tempio che quello tradizionale delle autorità religiose, definite con il nome “Giudei”, divenuto in Giovanni sinonimo di incredulità invincibile e di inintelligenza. Un abbandono che viene significato anche nel lasciare Gerusalemme, capitale di questo giudaismo a lui avverso, per ritornare alle origini della sua attività missionaria, là presso il Giordano dove Giovanni un tempo battezzava.
I vv.40-42 segnano la conclusione di una grande sezione delimitata dai capp.7-10, che hanno visto il susseguirsi continuo dell'attività missionaria di Gesù a Gerusalemme, scandita da due festività tra loro molto simili e temporalmente vicine: quella delle Capanne (autunno) e della Dedicazione (inverno). Una sezione che ha dato una brusca sterzata verso il Golgota e al compiersi dell'ora. Una sezione carica di angustie, di minacce di morte, di incomprensioni, scontri verbali, tentativi di arresto e di lapidazione, fughe di Gesù per mettersi in salvo; una sezione in cui dominante è il tema della morte, sempre presente sullo sfondo. Ora questa conclusione sembra voler creare uno stacco da questo pesante ed opprimente clima di tensioni, riportando il lettore agli inizi dell'attività missionaria di Gesù, quasi un voler ricordare i bei tempi passati, allorché Gesù, ancora discepolo del Battista, anche lui battezzava e dove egli incominciò a formare un proprio gruppo di seguaci e a raccogliere i suoi primi successi missionari, che anche qui vengono in qualche modo ricordati (v.41) e rivissuti (v.42). Da questo momento in poi non ci saranno più diatribe e scontri verbali o tentativi di linciaggio, benché gli avversari di Gesù continuino ad elaborare i loro piani di morte nei suoi confronti (11,46-50.57).
Il v.40 annuncia un cambiamento geografico, che nel linguaggio narrativo dice come una fase si sta per chiudere per dare spazio ad un'altra: da Gerusalemme a Betania, nella regione della Perea, dove, ricorda l'autore, “Giovanni prima battezzava”. Quel “prima” (prîton, prôton) lascia intendere come ora Giovanni, assassinato da Erode, non battezzi più. Forse una sottile allusione alla morte del precursore, che non di rado nei Sinottici viene visto anche come il precursore dei tristi destini di Gesù. Gesù, dunque, torna “di nuovo” là dove egli aveva iniziato (1,28). Un “di nuovo” che dice come un ciclo narrativo, quello della sua vita pubblica, delimitato dall'inclusione data dai vv. 1,28 e 10,40, si sia sostanzialmente compiuto46. I capp.11-12, infatti, si configurano come capitoli di transizione verso la sezione della Gloria (13-20).
Gesù dunque torna in Betania di Perea, una regione limitrofe alla Giudea, non molto lontana da Gerusalemme, una quarantina di Km circa, ma sufficienti per salvaguardarlo dalle minacce di morte che si stanno tramando contro di lui. E “là rimase”. Una annotazione quest'ultima che crea uno stacco narrativo con quanto seguirà dopo. Vi è quasi una sorta di sospensione dell'attività missionaria di Gesù, che da Gerusalemme viene stanziato a Betania in attesa del compiersi degli eventi, che avranno un loro nuovo inizio con l'annuncio della grave malattia di Lazzaro (11,1-7). Sarà questa che, che a mo' di segnale convenuto, rimetterà in movimento Gesù (11,7). La durata di tempo di quel “rimase” sembra essere all'incirca di tre mesi. Gesù infatti lascia Gerusalemme per Betania di Perea all'epoca della festa della Dedicazione, tra metà e fine dicembre, per poi riprendere il cammino verso l'altra Betania, quella di Giudea, poco lontana da Gerusalemme, a ridosso della terza pasqua (11,55), e quindi tra marzo e aprile.
Benché, quasi certamente non fosse nelle intenzioni dell'autore, tuttavia potrebbe risultare interessante vedere come il cap.10, dove si parla di pastore e pastori e di pecore, si concluda con una fermata invernale di Gesù, come era solita fare la pastorizia nomade, per poi riprendere nuovamente il suo peregrinare tra marzo e aprile, tempo in cui si celebrava il rito della pasqua, in cui rilevante era il sacrificio dell'agnello e l'aspersione delle tende con il suo sangue, quale segno apotropaico e bene augurante di fertilità. Similmente Gesù, il Buon Pastore che dona la propria vita per le sue pecore, dopo la sosta invernale (v.4) a Betania di Perea (v.40), come gli antichi nomadi, anch'egli riprenderà, tra marzo e aprile, a ridosso della pasqua (11,55), il suo cammino verso Gerusalemme (v.11,7) dove egli, l'Agnello di Dio, celebrerà la sua Pasqua.
Il v.41 riprende i tempi della missione di Giovanni e riporta il lettore al primitivo contesto in cui Giovanni dette la sua testimonianza su Gesù (1,19-34; 3,27-36). Ma ora la gente non accorre più a lui, ma verso Gesù e constata e attesta, dopo il lungo periodo della vita pubblica di Gesù, la veridicità della testimonianza del Battista, confermando il suo ruolo di testimone. Anche in questo breve versetto l'autore non si fa mancare la nota di polemica contro i giovanniti, sottolineando come Giovanni, sotto inteso a differenza di Gesù, non ha compiuto nessun segno.
Il v.42 chiude il cap.10 e con questo sia l'ampia sezione 7-10 che l'inclusione 1,28-10,40 con una annotazione di pieno successo di Gesù: “E molti, là, credettero in lui”. Il verbo credere qui è fatto seguire dalla particella di moto verso luogo “e„j” (eis), che imprime a questa fede una dinamicità che la fa rassomigliare ad un cammino esistenziale di evoluzione spirituale verso Gesù. Tuttavia non si tratta di un successo pieno, poiché l'adesione di fede a Gesù è limitato dall'avverbio di luogo “là”. Un successo parziale dunque. Ben più deludente e amaro sarà invece il giudizio che l'autore si riserverà sull'intera missione pubblica di Gesù: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui” (12,37). L'uso qui dell'imperfetto indicativo, “non credevano in lui”, denuncia una persistente e invincibile incredulità dei Giudei.
Giovanni
Lonardi
1Cfr. La Parte Introduttiva della presente opera, pagg.44-47
2Cfr. Mt 9,36; 25,32; 26,31; Mc 6,34; 14,27; Lc 15,4.6
3Cfr. 1Cor 9,1-18; 2Cor 11,7-9; 2Ts 3,7-9; 1Tm 5,17-18
4Cfr. Mt 18,1-4; 23,8-11; Mc 9,33-35; Lc 9,46-48; 22,24-26
5Circa il contesto storico in cui è vissuta la comunità giovannea e all'interno del quale si è formato il vangelo, almeno nella sua prima edizione, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.3-19 e 30-38
6Cfr. Gen 48,15; 49,24; 1Re 22,17; 2Cr 18,16; Gdt 11,19; Sal 23,1-3; 79,2; Sir 18,13; Is 40,11; Ger 31,10;
7Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.508 op.cit.
8Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 49
9Si ricorda quanto già detto alla pag.3 di questo cap.10: “I versetti avranno una doppia numerazione: la prima, in ordine crescente e in grassetto, è quella che rileva la sequenza logica della narrazione e sarà quella a cui farò riferimento nelle citazioni; la seconda in ordine sparso, è quella originaria; i vv.31-42 seguono invece la loro numerazione originaria e pertanto non avranno nessuna evidenziazione”
10L'accensione dei lumi era quella di un particolare candelabro a nove braccia, chiamato chanukkiah; otto di queste rappresentavano i giorni della festa e venivano accesi uno dopo l'altro nel susseguirsi dei giorni della festa, più uno centrale chiamato shammash, cioè la serva, perché rimaneva sempre accesa per accendere le altre fiamme.
11Cfr. 1Mc 1,54; Dn 8,13; 9,27; 11,31; 12,11; Mt 24,15; Mc 13,14
12Cfr. Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni, omelia 48,3: “Essi non cercavano la verità ma macchinavano un complotto. Si era d'inverno ed erano pieni di freddo, perché non facevano niente per avvicinarsi a quel fuoco divino. Avvicinarsi significa credere: chi crede si avvicina, chi nega si allontana.”.
13Sul tema del clima in Palestina cfr. H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina ai Tempi di Gesù, Edizioni Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986; cfr. anche le voci “Venti” e “Pioggia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
14Cfr. Mt 26,59-66; Mc 14,55-64; Lc 22,66-23,1
15Circa le quattro testimonianze su Gesù cfr il commento a 5,31-40, pagg.35-43
16Cfr. Gv 5,20.36; 6,28; 7,3; 9,3.4; 10,25.32.37; 14,10.11;15,24
17Cfr. P.N. Levinson, Introduzione alla teologia ebraica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996 – pag. 26
18Cfr. Gv 1,4; 3,15.16.36; 4,14; 5,21.24; 6,40.47.54
19Cfr. la voce “Mano” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.
20Cfr. Nestele-Aland, Nuovo Testamento Greco-Italiano XXVII edizione; R.E. Brown, Giovanni, pag. 525; op.cit.
21Per i passi biblici che descrivono il rapporto tra Jhwh e il suo popolo come quello tra il pastore e il suo gregge, cfr. la nota n.6.
22Mt 2,6; 9,36; 10,6; 15,24; 25,32; 26,31; Mc 6,34; 14,27; Lc 15,4-6; Gv 10,1-27; 21,16-17; Ef 4,11; Eb 13,20; 1Pt 2,25; 5,4; Ap 7,17.
23Cfr. 1Cor 12,28-30; Fil 1,1; Ef 4,11-12; 1Tm 3,2; Tt 1,7; K. Bihlmeyer – H. Tuechle, Storia della Chiesa, 1 – l'Antichità cristiana, Editrice Morcelliana, Brescia 1955-2000, XIII edizione: settembre 2000 – pagg.128-134; Didaché, dottrina dei dodici apostoli, a cura di Simona Cives e Francesca Moscatelli, Edizioni San paolo, Cinisello Balsamo, 1999 – cap.15,1-2
24Nel mondo antico vi era la consuetudine da parte dei pastori di dare dei nomi alle loro pecore, instaurando con esse quasi un rapporto di familiarità. Non stupisce la cosa se si pensa come la pastorizia fosse uno dei pilastri fondamentali dell'economia di quei popoli e in particolare di Israele. Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo, Cinisello balsamo, 1990 – Seconda edizione 2007.
25Cfr. R. Meynet, Leggere la Bibbia, un'introduzione all'esegesi, Centro editoriale dehoniano, Bologna,2004
26Cfr. Prv 1,1; 26,7; Sir 6,35; 8,8; 18,29; 39,3; 47,17;
27Cfr. Gv 10,6; 16,25.29
28Sull'avverbio “prÒ” (pró) cfr. il vocabolo in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, Società editrice Dante Alighieri, Italia 1993 – trentasettesima edizione
29Cfr. il vocabolo “kalÒj” in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, op. cit.
30I vangeli sono racconti rivolti alle comunità credenti e nell'annuncio del lieto messaggio costituiscono anche una risposta ai loro problemi. In tal modo essi riflettono in loro stessi la vita delle stesse comunità, a cui sono rivolti. È ciò che similmente è successo per le lettere paoline. Esse sono stupendi elaborati di cristologia e di teologia nati occasionalmente in risposta ai problemi presentati dalle comunità a cui erano indirizzate e in cui si riflettono.
31Cfr. Mc 9,34-35; Lc 9,46; 22,24-27
32Cfr. Mt 20,20-21; Mc 10,34-37
33I “lapsi” erano fedeli che a motivo della persecuzione abiurarono la loro fede per salvare la propria vita. Al loro interno si distinsero in tre categorie: i “sacrificati”, cioè coloro che sacrificarono agli dèi; i “thurificati”, quelli cioè che bruciarono l'incenso davanti alla statua dell'imperatore o degli dèi; i “libellatici”, cioè quei credenti che dietro compenso o corrompendo con denaro i funzionari dello stato, riuscivano ad ottenere il salvacondotto (libellus), che attestava la loro abiura senza averla però compiuta. Potremmo paragonarli ai furbetti del quartiere, ma che furono comunque duramente ripresi alla pari degli altri. Vi fu infine un'ultima figura, sorta durante la dura persecuzione di Diocleziano (284-305), quella del “traditor”, persona questa, in genere responsabile di comunità, che si era macchiata della colpa di aver consegnato i libri sacri ai persecutori per essere bruciati.
34Sulla questione delle persecuzione della chiesa nei primi secoli e dei problemi che queste causarono al suo interno a diversi livelli si cfr. K. Bihlmeyer - H Tuechle, Storia della Chiesa, vol. 1, l'Antichità cristiana, op. cit.
35Cfr. Mt 26,57.63-66; Mc 14,55.61-64; Lc 22,66-71
36Cfr. Gv 4,34; 5,17.20.36; 7,30; 9,3-4; 10,25.37-38; 14,10-12; 15,24; 17,4
37Lv 24,16: “Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte”. Per gli ebrei la bestemmia non consisteva soltanto in epiteti ingiuriosi rivolti contro Dio, ma anche in tutti quei comportamenti che in qualche modo ledevano la dignità di Dio o arrecavano offesa al mondo del sacro o erano dissacranti della Torah. Il termine greco “blasfhmšw” (blasfeméo) significa in senso lato “dire parole empie o irriverenti” come quelle dette da Gesù allorché lasciava intendere chiaramente la sua origine divina. Il verbo “blasfhmšw” è un composto di due verbi “Bl£ptw” (blápto), che significa “colpire, danneggiare, nuocere, offendere”; e dal verbo “fhm…” (femí), che significa “dire, affermare, attestare, dichiarare”. La bestemmia quindi delinea un ampio contesto di parole e comportamenti oltraggiosi sia per l'uomo che per Dio. - Sul tema della bestemmia nel mondo biblico cfr. il termine “Bestemmia, Bestemmiare” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
38Cfr. Gv 5,37; 6,57; 7,29; 8,29; 17,8.18.21.23.25
39Cfr. Gv 5,23.36; 10,38; 12,44; 14,1.9-11; 17,1a
40Il sillogismo è un metodo di argomentazione inaugurato da Aristotele (384-322 a.C.), costituito da tre affermazioni connesse tra loro in modo tale che dalle prime due, che fungono da premessa, si giunge alla conclusione nella terza asserzione. Es. “Tutti gli uomini sono mortali; i Greci sono uomini; quindi tutti i Greci sono mortali”. Nel nostro caso si ha un modo molto simile di procedere: “Dio disse: Tutti gli Israeliti sono dèi; se tutti quelli che hanno ricevuto la Legge sono considerati dèi (ebraismo per dire Israeliti, da Dio consacrati a se stesso con l'Alleanza); di conseguenza anche colui che è stato santificato, cioè consacrato e riservato da Dio a se stesso, è da considerarsi come gli altri Figlio di Dio”
41Il Sal 82,6 dice testualmente: “Io dissi: Siete dèi, tutti figli dell'Altissimo”. Il contesto del Sal 82 è quello del giudizio di Dio posto sui giudici e in genere sulle autorità di Israele che con le loro sentenze e le loro leggi favorivano gli empi a scapito degli ultimi e delle categorie più deboli come le vedove, gli orfani e i poveri in genere. Dio dunque si erge a loro difesa. Il contenuto e i toni di questo salmo richiamano da vicino i duri interventi dei profeti come Isaia ed Amos.
42Cfr. Tb 12,6; 13,3-4.8; Sal 9,12; 17,50; 56,10; 66,1-8; 95,3.7-10; 104,1; 107,4; Is 12,4-5.
43Cfr. la voce “Credere” nella Parte Introduttiva della presente opera, pagg.60-61
44Sul verbo “vedere” e del suo uso in Giovanni, cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 80-82
45Cfr. Gv 7,19.20.25.30.32.44; 8,37.40a.59
46Per alcuni autori come il Brown lo schema originale del vangelo giovanneo doveva concludersi qui con i vv.10,40-42; mentre i capp.11-12, che ho definiti di transizione, erano stati aggiunti successivamente. - Cfr. R.E. Brown, Giovanni, op. cit. - pagg 540-541