IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
L'annuncio
e le fondamenta
di una
nuova creazione
Commento
esegetico e teologico
al
Prologo
poetico (1,1-18)
e
narrativo
(1,19-51)
a cura di Giovanni Lonardi
IL PROLOGO POETICO O INNICO (1,1-18)
Testo
1-
In principio era la Parola e la Parola era presso Dio, e Dio era la
Parola.
2-
Questa era in principio presso Dio.
3-
Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna
cosa. Ciò che avvenne
4-
in lei era vita, e la vita era la luce degli uomini;
5-
e la luce apparve nelle tenebre, e le tenebre non la colsero.
6-
Venne un uomo, inviato da Dio, egli (aveva) nome Giovanni;
7-
questi venne per testimonianza, per testimoniare sulla luce, affinché
tutti credessero per mezzo di lui.
8-
Non era quello la luce, ma (venne) per testimoniare sulla luce.
9-
Era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che viene nel mondo.
10-
Era nel mondo, e il mondo avvenne per mezzo suo, e il mondo non lo
conobbe.
11-
Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo
accolsero.
12-
Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio,
a coloro che credono nel suo nome,
13-
i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di
uomo, ma da Dio vennero generati.
14-
E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la
sua gloria, gloria come unigenito
dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15-
Giovanni testimonia di lui e gridò dicendo: <<Questi era colui
di cui dissi: colui che viene dopo di
me divenne prima di me, poiché era prima di me>>.
16-
Poiché dalla sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su grazia;
17-
poiché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità
avvenne per mezzo di Gesù Cristo.
18-
Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del
Padre, quello (lo) mostrò.
Note generali
Il vangelo di Marco
termina con il v.16,8 in modo brusco, inaspettato, tronco, lasciando
il lettore perplesso e disorientato con molti interrogativi insoluti.
Una mano postuma e sconosciuta aggiunse i vv. 9-20, dando una finale
morbida e in consonanza alla tradizione, allineando, in tal modo, il
racconto marciano agli altri Sinottici. Similmente deve essere
accaduto per l'inizio del Vangelo giovanneo. Il cap. 1, infatti,
presenta due prologhi, uno poetico (1,1-18), l'altro narrativo
(1,19-51). Il vangelo originariamente doveva iniziare con il v.1,191,
senza alcun preludio, senza un cenno di introduzione, come, invece,
troviamo nei Sinottici e in altri scritti neotestamentari2.
Anche qui il lettore, come per la finale marciana, doveva aver avuto
un impatto duro con gli inizi dell'opera. Fu quasi certamente per
tale motivo che l'inizio del racconto giovanneo venne fatto precedere
da una sorta di proemio3,
dai ritmi poetici e dal sapore sapienziale, che desse, da un lato,
una introduzione solenne ad un'opera lirica, che celebrava il mistero
del Verbo Incarnato; dall'altro, fornisse una chiave di lettura
dell'intero vangelo, nella quale si richiamano numerosi temi, che
risuoneranno, poi, nel corso della narrazione, orientando, in tal
modo, da subito, il lettore4.
Una sorta di piano dell'opera sui generis, che doveva
costituire, forse, anche una specie di sintesi dell'intero vangelo,
facilmente memorizzabile. Significativo, poi, che il vangelo
giovanneo sia introdotto da questo inno poetico, quasi a voler
indicarne la vera natura: un poema lirico, che canta e contempla lo
splendore del Logos Incarnato. Non, quindi, un vangelo kerigmatico,
come quello sinottico, benché possieda le caratteristiche letterarie
proprie del vangelo5,
bensì un poema evangelico, dalle intonazioni squisitamente liriche e
sapienziali.
Tre sono le annotazioni,
che vanno poste su questo inno poetico6:
a) esso fu certamente composto successivamente al vangelo
giovanneo; b) esso fu certamente creato ad hoc dalla
comunità giovannea; c) la struttura innica riflette il
pensiero a spirale, caratteristico di Giovanni, che costituisce una
sorta di marchio di fabbrica, che rende l'inno inconfondibile nella
sua originalità.
Quanto alla prima
affermazione, va da sé che un prologo, il quale richiama in se
stesso numerose tematiche e parole-chiave dell'intero vangelo,
possedendone il DNA, non può che essere stato costruito
successivamente allo sviluppo di tali tematiche. Prima viene il
padre, poi il figlio, che porta in se stesso il DNA del padre. Esso,
quindi, dipende dall'opera e la riflette in se stesso. Non è
pensabile il contrario, considerata la lunghissima e travagliata
gestazione, che ha avuto il vangelo di Giovanni e che,
narrativamente, ha lasciato i segni ovunque nell'opera7.
Quanto alla seconda
annotazione, trovo estremamente difficile che la comunità giovannea,
considerata la sua storia e la sua composizione8,
sia andata alla ricerca di un inno cristologico o comunque se lo sia
ritrovato tra le mani e l'abbia in qualche modo riadattato alle
proprie esigenze. La motivazione, che mi ha spinto a optare per
l'originalità di questo inno è che, comunque fosse stato
questo ipotetico inno-matrice, esso avrebbe dovuto subire tali e
tante trasformazioni, per essere riadattato a quello creato e oggi in
nostre mani, che nulla, neppure un frammento, si sarebbe salvato. Se
il compito di tale prologo, infatti, come si è detto poc'anzi, era
quello di lasciar rispecchiare in se stesso l'intera opera giovannea,
opera unica nel suo genere, che non ha paragoni in tutto il N.T.,
sarebbe stato difficile per la comunità giovannea imbattersi in un
inno, che in qualche modo ne riportasse le tracce. Va tenuto in
considerazione, poi, come la comunità giovannea, capace di produrre
una simile opera gigantesca e irripetibile, non aveva di certo
bisogno di scopiazzare la sua introduzione da inni cristologici, che
certamente giravano numerosi presso le prime comunità credenti. Le
lettere paoline ne riportano molti9
e lo stesso Plinio il Giovane (61-113 d.C.), governatore della
Bitinia e del Ponto10,
scrivendo all'imperatore Traiano (112 d.C.), ne attesta l'uso da
parte dei primi cristiani11.
Tutto ciò testimonia sia l'importanza degli inni, che erano veri e
propri condensati insuperabili di teologia e di cristologia, veri e
propri formulari di fede; sia la facilità con cui questi venivano
composti e utilizzati nelle comunità, testimoniando la grande e
matura comprensione teologica e cristologica, che esse avevano
raggiunto. Ciò nonostante, nessun inno, tra quelli da noi conosciuti
e fin qui giunti, riflette, anche parzialmente, l'opera giovannea;
né, in alcun modo, tali inni si possono porre in parallelo o in
concorrenza al nostro prologo poetico, che rispecchia in se stesso
l'esclusiva originalità del racconto giovanneo. Vi è, infatti, un
forte legame e una forte dipendenza tra questo prologo poetico e il
resto del vangelo. Già lo si era rilevato nel precedente capitolo
“Questioni Introduttive”, là dove si evidenziava (pag.102) come
l'ultimo discorso (12,44-50), che concludeva l'attività pubblica di
Gesù e ne sintetizzava schematicamente i temi, riportandone le
parole chiave, trovasse una sua forte eco nel prologo, formando con
questo una sorta di inclusione, che abbraccia interamente,
caratterizzandola, la prima parte del vangelo (1,1-12,50). Ma
numerosi altri e molto significativi sono i contatti che questo
prologo possiede con il racconto che introduce, così da diventarne
non solo una mirabile sintesi, ma anche una chiave-guida di lettura
dello stesso. La preesistenza del Logos12,
di cui ai vv.1,1-2 trova la sua eco in 8,58; 17,5.24; l'identità
del Logos, enunciata in 1,1, risuona anche in 8,58; 10,30;
20,28; la vita nel Logos del v. 1,4 si rispecchia anche
in 5,26; 6,33; 10,10; 11,25-26; 14,6; la luce del Logos,
che risplende, in 1,4.9, si riflette anche in 3,19; 8,12;12,46;
l'insanabile contrasto tra luce e tenebre, che risuona
in 1,5, si ritrova in3,19; 8,12;12,35.46; il credere nel Logos
dei vv. 1,7.12 ha la sua contropartita in 2,11; 3,16.18.36; 5,24;
6,69; 11,25; 14,1; 16,27; 17,21; 20,25.; il rifiuto del Logos
in 1,10-11 risuona anche in 4,44; 7,1; 8,59; 10,31; 12,37-40; 15,18;
la rigenerazione della vita divina di 1,13 ha la sua
eco in 3,1-7; 5,24; 6,54; la gloria del Logos, che
risplende in 1,14, illumina anche i vv. 2,11; 12,41; 17,1.4-5.22.24;
la rivelazione della verità di 1,14.17 trova il suo
riflesso in 4,24; 8,32; 14,6; 17,17; 18,38; il Logos,
compimento di Mosè e della Legge di 1,17 risuona anche in
1,45; 3,14; 5,46; 6,32; 7,19; 9,29; la visione esclusiva di Dio
da parte del Logos, sottolineata in 1,18, si rispecchia anche
in 3,13; 6,46; il Logos, rivelazione del Padre, in 1,18 è
testimoniato anche in 3,34; 8,9.38; 12,49-50; 14,6-11; 17,8.
Un ultimo appunto va riservato alla struttura a spirale dell'inno, caratteristica del modo di procedere del pensiero di Giovanni e che imprime in esso il sigillo dell'autentica paternità giovannea e che ci riserviamo di analizzare qui di seguito.
Il prologo innico, dunque, assolve a cinque funzioni primarie:
a)
Fornisce una introduzione solenne all'opera giovannea;
b)
La sua forma poetica ed innica indica la vera natura del vangelo: un
poema lirico al Verbo Incarnato; non, quindi, un kerigma, ma una
contemplazione (1,14);
c)
Fornisce la mappa di lettura dell'intero vangelo, riportando in
se stesso parole chiave e temi che percorrono l'intera opera;
d)
Facilita la memorizzazione dell'intera opera. Questo prologo,
inoltre, essendo posto in forma innica, poteva prestarsi ad essere
recitato o forse anche cantato nelle assemblee liturgiche;
e) La struttura a spirale dell'inno, infine, imprime in esso il segno dell'autenticità del pensiero giovanneo.
Analisi strutturale del prologo e sua autenticità
Se il prologo nel suo dispiegarsi incanta e lascia stupefatto il lettore per la sua poesia, i suoi ritmi riflessivi e per la sua profondità tematica, che raggiunge vertici teologici e cristologici irripetibili, lascia, invece, molto perplessi il suo confezionamento letterario giunto a noi. Vi sono delle parti stridenti nell'armonia innica di questa solenne introduzione, le quali, anche se mascherate da agganci o da riprese di parole, lasciano supporre che vi siano state delle interpolazioni nel tempo, una sorta di aggiustamento di tiro, che qualche mano ignota ha operato, per adattarlo a situazioni contingenti, rendendolo, secondo le sue prospettive, più efficace. È opportuno, pertanto, circoscrivere quelle parti spurie, cercando di restituire l'inno alla sua originalità. L'operazione non è semplice e le numerose soluzioni accorse nel tempo ne sono una testimonianza13. Contro questa spinta vivisezione dell'inno si opposero altri autori, che, invece, ne proclamarono l'unità letteraria14. Tuttavia, a mio avviso, si rende necessario, comunque, uno scorporo di alcuni versetti, che tematicamente stridono con il resto dell'inno, in cui sono stati inseriti. Questi sono i vv. 6-8.15 riguardanti la figura di Giovanni, il cui sfondo è chiaramente polemico e mirato a sminuirne la figura, riducendolo al ruolo di semplice testimone della vera Luce e mettendo sulle sue stesse labbra un canto alla grandezza del Messia (v.15). L'estraneità si rende evidente poiché se l'intero inno è finalizzato a mettere in luce la dinamica del mistero del Verbo Incarnato, la presenza dei quattro versetti sopracitati suona come una stonatura, poiché parla di uno stridente confronto tra Gesù e il Battista, che nulla ha a che vedere con le finalità dell'inno. Similmente, anche i vv. 12-13 sono da escludersi, poiché tendono a completare i vv.10.11, creando tre categorie di persone: il mondo dei pagani (v.10) e quello dei Giudei (v.11), uniti tra loro nel rifiuto e nell'incredulità; per contrapposizione si sono aggiunti i vv.12-13, il cui intento è, invece, quello di evidenziare gli effetti della fede. Ma, in realtà, questa terza categoria di persone è delineata dai vv.14.16-17, in cui l'incarnazione del Verbo e la sua divinità viene contemplata da quel “noi” del v.14, che quasi certamente indica la stessa comunità giovannea. Quindi la sequenza giusta e tematicamente logica è la seguente: il Verbo entrando nel mondo non venne riconosciuto da questo (v.10), mentre dalla sua proprietà non venne accolto (v.11); a questo Verbo Incarnato non restò che attendarsi presso di “noi” (v.14), cioè la comunità giovannea, che si riteneva erede del patrimonio morale e spirituale di questo Verbo Incarnato (vv.16-17). In questo contesto i vv.12-13 sono pleonastici.
Su altri tre versetti, ancora, possono sorgere dei dubbi: vv. 2.9.18. Il v.2, infatti, diventa confermativo del v.1 e, quindi, pleonastico. Tuttavia, esso potrebbe essere giustificato dal voler rimarcare l'affermazione solenne e fondamentale del v.1, evidenziandone la verità, che, a sua volta, giustifica e sostanzia il v.18, a cui quest'ultimo si aggancia e ne diventa complementare. In tal senso il v.2 assume il significato di una sorta di punto esclamativo, che impone di prepotenza la verità del v.1; ma nel contempo ne diventa una sorta di formula, che riprende, sintetizzandolo, il v.1. Il v.2, infatti, è formato da tre espressioni fondamentali che compongono il v.1: “Questa era in principio presso Dio”. Questo versetto, dunque, chiude il cerchio, diventando rafforzativo del v.1.
Il v.9 sembra essere un'aggiunta, la cui funzione è quella di riprendere il tema dei vv.4-5, lasciati in sospeso per dare spazio ai vv.6-8. Ma in realtà il v.9 potrebbe anche essere una ripresa dei vv.4-5 che vengono rilanciati e approfonditi nei vv.10.11.14.16-17. In questo caso, come vedremo, ci troviamo di fronte alla dinamica del pensiero a spirale, che caratterizza l'architettura del pensiero giovanneo. Un unico appunto va mosso a questo versetto, in cui, a nostro avviso, è stata interpolata la parola “vera” in riferimento alla luce. L'aggettivo, infatti, suona polemico rispetto alla luce di cui si parla nei vv.6-8 e in particolare al v.8 in cui si dice che “Non era quello la luce”, per cui quel “vera” aggiunto al termine “luce ” del v.9 sottolinea polemicamente come la “luce vera” va cercata altrove.
Infine il v.18 che, da una lettura superficiale, sembra intruso, una stonatura nella musicalità armonica del Prologo, poiché non lega con nessun versetto immediatamente precedente. Tuttavia, a ben guardare, esso forma una sorta di inclusione con il v.1 e da questi ne è giustificato. Al v.1, infatti, si parla della trascendenza e della divinità del Logos, che si colloca presso Dio; al v.18 si attesta che il Logos, che qui si rivela come “l'Unigenito di Dio”, si trova nel seno del Padre, richiamandosi, in tal modo, al v.1. Esso, proprio in virtù della sua trascendenza e del suo intimo rapporto con il Padre, attestato dal v.1 e richiamato nel v.18, è l'unico in grado di parlarne. Quindi, il v.18 riprende, sviluppa e completa, dandogli un senso compiuto, il v.1, che, a sua volta, fornisce la giustificazione delle affermazioni dello stesso v.18. L'inclusione, quindi, qualifica l'intera azione rivelatrice del Logos come autentica e degna di fede, per la posizione privilegiata ed esclusiva, in cui il Logos si trova nei confronti del Padre.
Il testo depurato dai vv. 6-8.12-13.15, assume, pertanto, questa forma …. :
1-
In principio era la Parola e la Parola era presso Dio, e Dio era la
Parola.
2-
Questa era in principio presso Dio.
3-
Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna
cosa. Ciò che avvenne
4-
in lei era vita, e la vita era la luce degli uomini;
5-
e la luce apparve nelle tenebre, e le tenebre non la colsero. [6-8]
9-
Era la luce [vera],
che illumina ogni uomo, quella che viene nel mondo.
10-
Era nel mondo, e il mondo avvenne per mezzo suo, e il mondo non lo
conobbe.
11-
Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo
accolsero. [12-13]
14-
E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la
sua gloria, gloria come
unigenito
dal Padre, pieno di grazia e di verità. [15]
16-
Poiché dalla sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su grazia;
17-
poiché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità
avvenne per mezzo di Gesù Cristo.
18-
Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del
Padre, quello (lo) mostrò.
…. e la seguente struttura a lettura facilitata:
A) Prima Parte: trascendenza, dinamicità e identità del Logos
La trascendenza e la divinità del Logos
Dinamicità e identità del Logos in vista degli uomini
B) Seconda Parte: l'incarnazione e la risposta degli uomini (Da qui si sviluppa il pensiero a spirale)
La venuta non accolta del Logos-Luce (v.5 è il versetto chiave, che verrà ripreso e sviluppato dai vv. 10.11.14)
5-
e la luce
apparve
nelle tenebre,
(l'apparire
viene sciolto ai vv. 10.11.14, rispettivamente in “Era”, “Venne”,
“divenne carne”)
e le tenebre
non la colsero (chi
sono queste tenebre viene detto ai vv.10.11).
[6-8]
Interpolazione
Ripresa e sviluppo dei vv. 4b-5a
9-
Era la luce
[vera]
(natura
del Logos),
che illumina ogni uomo (la
sua missione),
quella che viene
nel mondo.
La venuta e la triplice risposta degli uomini: i pagani (v.10), Israele (v.11), la comunità giovannea (v.14)
10-
Era
nel mondo,
e il mondo
avvenne per mezzo suo, e il mondo
non
lo conobbe.
11-
Venne
nella (sua)
proprietà,
e quelli
che gli appartenevano
non
lo accolsero.
[12-13]
Interpolazione
14-
E la Parola divenne
carne
e si attendò tra noi,
e contemplammo
la sua gloria
(viene
annunciato il tema e la natura del vangelo: una contemplazione della
gloria del Logos Incarnato...),
gloria come unigenito dal
Padre
(…
proveniente dal Padre),
pieno di grazia e di verità.
Gli effetti dell'accoglienza
16- Poiché dalla sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su grazia;
A') Terza Parte: il confronto tra Mosè e Gesù e l'attendibilità di quest'ultimo
17- poiché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità avvenne per mezzo di Gesù Cristo.
L'attendibilità della rivelazione del Logos
18- Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò.
Diventa veramente difficile, se non impossibile, trovare una decente e logica struttura a questo prologo, che nel suo susseguirsi, attraverso un dispiegarsi avviluppante, in un turbinio di parole chiave, che ovunque si ripetono e si agganciano l'una all'altra, favorisce, e di fatto crea, una struttura di pensiero a spirale. Le numerosissime strutture proposte dagli innumerevoli esegeti stanno a dimostrare non solo la complessità, ma anche quanto sia letterariamente infido questo prologo, che ogniqualvolta si cerchi di imbrigliarlo in una struttura, si apre anche ad altre numerose soluzioni. Sembra di trovarsi in una stanza degli specchi, dove un'immagine si riflette perfettamente in ogni specchio, ma non si riesce a individuarne sua origine.
La soluzione, che ho sopra proposta, è di duplice natura: tematica e letteraria. Ritengo, infatti, che la struttura del Prologo sia essenzialmente tematica, all'interno della quale si crea un avviluppante intreccio di parole e schemi, che aiutano ad individuare la struttura stessa e a comprendere il pensiero, che vi è distribuito sopra. Si tratta di un gioco di incastri, tale da dare una profonda e inscindibile unità tematica, che si sviluppa in scala discendente e sempre più dettagliata fino a raggiungere il suo vertice nel v.16: “Poiché dalla sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su grazia”. È questo versetto, infatti, che spiega e giustifica l'intero dinamismo del Prologo: accorpare gli uomini alla vita stessa di Dio, attraverso l'azione del Logos, uscito dal Padre. In altri termini, tutta l'azione salvifica di Dio punta a recuperare l'uomo alla sua originaria dimensione divina, da cui era sventuratamente uscito, travolgendo con sé l'intera creazione.
Il Prologo è stato da me scandito in tre parti, parallele e concentriche in B). La prima parte (A), infatti, presenta il Logos nella sua trascendenza divina, in uno stretto rapporto diretto con Dio (vv.1-2); mentre il suo dinamismo creatore si manifesta fin da subito in funzione e a favore degli uomini, dei quali è definito vita e luce (vv.3-4). Un concetto questo che ritroviamo anche in Ef 1,4-5 e in Col 1,15-17.
Nella terza parte (A') il Logos si presenta nella sua dimensione immanente, storica, definito nella sua storicità di inviato divino dal suo stesso nome, Gesù, che lo qualifica nella sua umanità; e dal suo appellativo Cristo, con cui viene agganciato alla sfera divina (v.17b). Esso è posto direttamente a confronto con Mosè (v.17); un confronto, in realtà, tra due economie e due diverse logiche di salvezza: la Legge e la Grazia. In questa dimensione umana di inviato divino, il Logos manifesta la sua vera natura: egli è l'Unigenito di Dio, che dimora nel seno del Padre (v.18b) e si fa suo rivelatore (v.18c). Vengono ripresi, quindi, i due aspetti fondamentali della prima parte: il suo essere presso Dio (vv.1-2) diventa nella terza parte l'essere nel seno del Padre, rivelando in tal modo l'origine della sua filiazione divina (v.18b). L'essere la luce degli uomini nella prima parte (v.4b), si traduce nella terza parte in colui che mostra agli uomini il Padre (v.18c) in modo esclusivo, unico e irripetibile, poiché “Nessuno ha mai visto Dio” (18a). Quindi la prima parte, che canta la trascendenza e la futura missione del Logos a favore degli uomini, trova la sua eco e la sua storicizzazione nella terza parte. Di mezzo, tra la prima parte A) e la terza parte A'), vi è la seconda parte B), che parla del dinamismo dell'incarnazione del Logos, del suo rapportarsi agli uomini, della risposta di questi al suo incarnarsi e della finalità del su venire tra loro.
La seconda parte (B), a partire dal v.5 e fino a tutto il v.16, parla, quindi, dell'incarnazione del Logos, nel suo triplice apparire: “Era nel mondo” (v.10), alludendo alla creazione, dalla quale, secondo Rm 1,20, i pagani avrebbero dovuto riconoscere il Creatore, che invece hanno ignorato; “Venne nella (sua) proprietà” (v.11), cioè Israele, con allusione ad Es 19,5, e da questa venne respinto; “Divenne carne e si attendò presso di noi” (v.14a), alludendo a coloro (nel nostro caso, in quel “noi”, la comunità giovannea), che ha, invece, saputo riconoscere nell'uomo Gesù non soltanto il Cristo (v.17b), cioè l'inviato di Dio, ma anche la sua figliolanza divina, cogliendo in lui l'impronta e la voce del Padre (v.14b). Il suo apparire in mezzo agli uomini, pieno di grazia e verità (v.14c), era finalizzato a donare ad essi la pienezza di Dio, riconducendoli nel suo seno (v.16).
La dinamica di questa seconda parte (vv.5-16) è particolarmente curata e si muove secondo lo schema a spirale o a chiocciola, caratteristico del modo di esprimersi del pensiero giovanneo, giocato tutto su di un continuo rincorrersi e riprendersi di parole chiave e temi, che in questa rincorsa vorticosa si sviluppano sempre più fino a raggiungere il vertice del v.16, in cui si illustrano gli effetti dell'accoglienza del Verbo Incarnato.
Il versetto-tema è il v.5: “e la luce apparve nelle tenebre, e le tenebre non la colsero”
L'apparire della luce trova tre diverse modalità di apparizione nei vv.10a.11a.14a, il cui significato è stato accennato sopra, nel commento della seconda parte (B); mentre il rifiuto delle tenebre sarà ripreso e sottolineato dai vv. 10b e 11b.
Il v.9 riprende i
vv.4b-5a: “Era
la luce [vera],
che illumina ogni
uomo (v.4b), quella che viene nel mondo (5a)”, in cui si
precisa che questa luce non illumina più indistintamente gli uomini,
come nel v.4b, bensì “ogni uomo”, alludendo a
precise categorie di uomini, che saranno indicate nei vv.10a.11a.14a:
i pagani, i giudei e la comunità giovannea; mentre quel “viene nel
mondo” indica la dimensione storica dell'uomo, il suo habitat
naturale, senza alcuna connotazione negativa, come, invece,
prospettata dal v.5b.
I vv.10.11.14 costituiscono la ripresa e lo sviluppo dei vv.5 e 9. Se i vv.10.11 parlano delle rispettive risposte negative date dai pagani e dai Giudei, il v.14 presenta la dimensione dei credenti, di coloro che, accogliendo il Logos Incarnato, hanno saputo coglierlo e contemplarlo nella pienezza della sua verità e divinità.
Il v.16 riprende il v.14d: “pieno di grazia e di verità” e lo sviluppa negli effetti ottenuti dalla pienezza divina del Logos: “Poiché dalla sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su grazia”.
Commento al Prologo: vv. 1-18
I vv.1-5 costituiscono un'unità tematica,2 che dal principio assoluto e trascendente, in cui la Parola viene collocata (vv.1-2), passando attraverso un suo dinamismo di mediazione unica ed esclusiva, generatrice naturale di vita, che è il proprium della Parola (v.3), si fa luce degli uomini (v.5) e, in quanto tale, appare in mezzo alle tenebre. Vi è in questi cinque versetti una logica discendente, che vede il Logos, dapprima, in rapporto con Dio (vv.1-2), poi, in rapporto con se stesso (vv.3-4), infine, in rapporto con gli uomini, così che da quel suo essere presso Dio si ritrova ad essere presso gli uomini. Una discesa, quindi, spesa a favore degli uomini, che ritroviamo anche in Fil 2,5-8. Questo movimento discendente verrà ripreso e sviluppato a partire dal v.6, che descrive il principio storico dell'apparire del Logos in mezzo agli uomini, e si svilupperà nei versetti successivi, ed ha il suo vertice nel v.16, che trova una puntigliosa precisazione nel v.17, in cui si contrappongono due economie soteriologiche, per poi concludersi con il v.18, che in 18b rimanda al v.1, mentre il 18c si aggancia e rimanda al v.4b. Con questo doppio rimando finale e con i suoi continui agganci interni, fatti di termini e di concetti, che si richiamano e si susseguono l'un altro senza tregua, il Prologo viene avvolto e compattato in una grande, unica e inscindibile unità narrativa e teologica, in cui il Verbo Incarnato splende nel suo fulgore e in tutta la sua potenza, avvolgendo l'intero cosmo (v.3) e l'intera umanità (v.4b), e la cui centralità viene cantata anche nell’inno cristologico della lettera agli Efesini: “per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10)
I vv.1-2 si presentano come una sorta di sillogismo teologico, in cui il v.1 funge da premessa e il v.2 da sintesi conclusiva, che si traduce in una affermazione imperativa del v.1. Quest'ultimo si snoda in tre parti concatenate tra loro attraverso una procedura di parallelismo a scala, in cui l'ultima parola funge da aggancio a quella successiva. Una sorta di avvitamento, che si concluderà con il v.2, che crea uno stacco netto dal v.1, rompendo la concatenazione sinonimica: Parola-Parola; Dio-Dio; Parola-Questa, formando un elemento a se stante, che, riportando il cuore del v.1, si impone con forza dogmatica sull'intero Prologo: “Questa era in principio presso Dio”.
Si parla, qui, di un principio, che richiama per la sua formulazione, “'En ¢rcÍ” (En archê), quello genesiaco (Gen1,1) e a questo sembra intenzionalmente rimandare l'autore, considerata la dinamica dell'intera sezione 1,1-2,11, scandita da sette giornate. Qui (1,1a), infatti, come là (Gen 1,1), si inizia con “'En ¢rcÍ”; si prosegue con un richiamo alla luce e alle tenebre (1,5), che in qualche modo riflettono Gen 1,3-5; la Parola del prologo è l'esclusiva protagonista creatrice di tutto ciò che esiste (1,3), possedendo in se stessa la vita (1,3c-4a); così similmente, la Parola genesiaca, che si ripete, quasi come una litania, per ben nove15 volte (“E Dio disse”), è potenza creatrice, che promana vita (Gen. 1,3-29); lo stesso ritmo narrativo dei capp.1,19-2,11, viene scandito su sette giorni16 allo stesso modo della creazione genesiaca, che trova il suo completamento e la sua consacrazione divina al settimo giorno (Gen 2,2-3). Il settimo giorno genesiaco, quindi, diviene il momento di una creazione pienamente compiuta, e che Dio consacra a sé, così come “al terzo giorno […] Gesù … manifestò la sua gloria” (Gv 2,1a.11b). Il terzo giorno del v.2,1a, in cui Gesù manifestò la sua gloria (2,11b), con chiaro riferimento alla sua risurrezione, è in realtà, all'interno dell'economia narrativa dei vv.1,19-2,1a, il settimo giorno, in cui la nuova creazione, viene portata a termine con la risurrezione di Gesù. Vi è, quindi, in Giovanni una chiara intenzionalità nell'assimilare le vicende degli inizi del suo vangelo a quelle della creazione genesiaca, quasi a voler indicare al lettore come l'accadere dell'evento Gesù e la dinamica del suo primo operare costituiscano l'inizio di una nuova creazione, che ha il suo apogeo nella risurrezione.Benché vi sia con Gv 1,1-2,11 un sostanziale richiamo al primo capitolo genesiaco, i due “'En ¢rcÍ” (Gv 1,1a; Gen 1,1) sono sostanzialmente diversi, costituendo due contesti, destinati ad accogliere contenuti completamente diversi tra loro. Il genesiaco “'En ¢rcÍ” si costituisce come l'inizio temporale della creazione, limitandosi ad indicarne l'origine divina. La creazione trova, dunque, la sua origine nell'agire creativo di Dio, per mezzo del suo Dabar, la sua Parola-azione. Non si tratta di un'origine metafisica, bensì storica. Il verbo, infatti, è qui posto all'aoristo “™po…hsen” (epoíesen, fece) ed indica un atto puntuale e definito nel tempo, che, qui, ha come attore principale Dio. Di diversa natura è l' “'En ¢rcÍ” giovanneo, il cui contenuto è l'esistenza trascendente, metafisica della Parola. Si tratta di un principio assoluto, che ci porta non alle origini della creazione, bensì della vita stessa di Dio. Lo stesso verbo, qui, ha natura ben diversa: non c'è più il fare di Dio, bensì l'Essere di Dio, che è Parola. Il verbo unico e dominante nei vv.1-2, infatti, è il verbo essere, che per sua natura indica sempre l'essenza del suo soggetto, dice sempre qualcosa del suo essere e ci trasporta nell'area dell'ontologia. Esso è posto qui sempre all'imperfetto indicativo (Ãn, ên, era), evidenziando la persistenza dell'Essere della Parola, che viene posta qui in un principio che non ha inizio, ma che indica l'assolutezza della Parola e la sua esclusiva preminenza.
Il v. 1,1b presenta la Parola nella sua relazionalità con Dio, che in Giovanni indica il Padre17: “la Parola era presso Dio”. Anche qui compare il verbo essere per indicare un aspetto costitutivo dell'essere della Parola. Anche qui il verbo è posto all'imperfetto indicativo, per significare come l'essere della Parola presso Dio sia una condizione permanente e persistente, il proprium dell'esistenza della Parola, evidenziandone la coeternità. Il suo rapporto con Dio è qualificato dalla particella “prÕj” (pròs), che qui regge l'accusativo (“tÕn qeÒn”, tòn tzeón, Dio), aprendo in tal modo la relazione ad una pluralità di significati, che descrivono in diversi modi il rapportarsi della Parola nei confronti del Padre. La particella esprime un moto a luogo; possiede, quindi, in se stessa una sua dinamicità, che indica la direzione della Parola: essa non si trova soltanto presso il Padre, da cui proviene, ma è rivolta, per sua natura, verso il Padre, esprimendo una forte tensione relazionale, che l'attrae verso di Lui e a Lui lo lega inscindibilmente, ponendola anche in una sorta di ascolto accogliente nei suoi confronti e in cui il Padre si riflette. La particella “prÕj”, inoltre, assume in sé anche il significato di causa, ragione, scopo, motivo, finalità, evidenziando un altro aspetto della Parola nel suo relazionarsi con il Padre: la sua ragione d'essere è il suo essere per il Padre, in sua funzione e in suo favore; in Lui trova il senso del suo esistere e in Lei il Padre si riflette e si ritrova. È una Parola che si nutre della volontà del Padre, così che il fare la sua volontà diventa elemento essenziale e costitutivo del suo stesso vivere e del suo stesso esserci (4,34; 5,19.30; 6,38.57), anzi lei è lo stesso Dabar del Padre, che rivela in se stessa il suo stesso agire, al punto tale da formare tra lei e il Padre una sola cosa, una profonda unità e comunione di intenti e di azione (14,9-11). Non vi sono personalismi o iniziative private, ma il Dabar del Padre, per sua natura, riflette in se stesso il Padre e ne da attuazione nel suo dire/agire, divenendone testimone e rivelatore in mezzo agli uomini.Il v.1,1c si apre riprendendo il nome Dio con cui termina 1,1b: “e Dio era la Parola”. Il nome “Dio” non è preceduto dall'articolo determinativo come, invece avviene per il sostantivo “la Parola” (kaˆ qeÕj Ãn Ð lÒgoj, kaì tzeòs ên o lógos), lasciando intendere come il nome “Dio” sia predicato della Parola, che è soggetto del verbo, sottolineandone, quindi, la divinità alla pari del Padre. Giusta, quindi, la traduzione, che generalmente viene riprodotta nella maggior parte delle traduzioni: “e la Parola era Dio”. Tuttavia, io ho preferito mantenere l'ordine del testo greco, poiché se da un lato quel “Dio” sottolinea la pari divinità della Parola con il Padre, dall'altro lascia aperta anche la possibilità di intendere come Dio, cioè il Padre, era la Parola, in cui il Padre si riflette e si ritrova. Si viene così a creare una sorta di identificazione tra il Padre e la Parola, pur nel rispetto della distinzione di persone e ruoli. Nel corso del suo vangelo, infatti, Giovanni sottolinea più volte questa profonda unità e comunione tra Padre e Figlio, tale che i due sono tra loro una cosa sola (10,30; 14,11.20; 17,11.21.22), così che l'agire della Parola è lo stesso di quello del Padre (14,9-11); non solo, ma la Parola nulla fa da sé se non ciò che vede fare dal Padre (5,19) e dice soltanto quello che essa ha visto presso il Padre (8,38a). Trovo, pertanto, preferibile tradurre “e Dio era la Parola”, poiché questa, oltre che rispettare la sequenza del testo greco, lascia aperta anche la doppia possibilità di intenderla, consentendo un maggiore approfondimento teologico, che trova la sua giustificazione nel vangelo stesso.
Il v.2 conclude il sillogismo teologico del primo versetto, ne trae le conclusioni, staccandosi nettamente da questo per il suo inizio, che rompe il ritmo sinonimico del v.1, imponendosi, quasi di prepotenza, all'attenzione del lettore: “Questa era in principio presso Dio”. Solo apparentemente il v.2 riprende il v.1 sintetizzandolo, in realtà esso fa cadere l'accento soltanto sul v.1b: “la Parola era presso Dio”, che non a caso è stato posto al centro del v.1, per sottolinearne l'importanza, che viene richiamata, poi, dal v.2 con il suo perentorio inizio: “Questa ...” (oátoj, ûtos). L'intento del v.2 è quello di accentrare l'attenzione sulla relazionalità Parola-Padre, che di fatto dominerà l'intero vangelo giovanneo18. Tuttavia viene rimarcato, ora, come tale condizione relazionale della Parola era tale fin da principio. L'espressione “™n ¢rcÍ”, che prima designava lo stato dell'essere della Parola, posta in un principio senza inizio, viene, ora, spostata a ridosso del v.1b, originando, in tal modo, il v.2. L'attenzione, quindi, si sposta sulla relazionalità della Parola con il Padre, della quale si attesta l'eternità con l'espressione “™n ¢rcÍ”. Non più la Parola, dunque, è “™n ¢rcÍ”, bensì la relazione di Questa con Dio. L'intero vangelo, infatti, non è un canto alla Parola, ma a Questa, colta nella sua dinamica relazionale con il Padre.
vv.3-5: se i vv.1-2 hanno contemplato la Parola nella sua triplice condizione di eternità (v.1a), di relazionalità con Dio (v.1b) e di natura divina (v.1c), accentrando l'attenzione del lettore sull'aspetto relazionale (v.2), i vv.3-5 evidenziano la doppia dinamicità, estrinseca (v.3ab) e intrinseca (vv.3c-4a), della Parola, ponendola in stretta relazione agli uomini (v.4b), che si attua nel suo apparire in mezzo ad essi (v.5). Anche questi tre versetti sono tra loro concatenati da quattro parole chiave, che si susseguono a cascata: “avvenne”, “vita”, “luce” e “tenebre”, quasi a sottolineare l'accadere, il divenire della vita divina nella Parola, che nel suo incarnarsi si fa luce per gli uomini e come tale si dona ad essi e da essi si rende raggiungibile. Una luce destinata a rompere le tenebre dell'ignoranza di Dio, che teneva schiavizzati gli uomini, racchiusi nel loro degrado morale e spirituale da dopo la caduta originale.
Il v.3 presenta un problema di punteggiatura, per cui è incerto se l'espressione “ciò che avvenne” (Ö gšgonen, ò ghégonen) vada attribuita al v.3ab o, invece, al v.4. Nel primo caso si avrebbe: “Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna cosa di ciò che avvenne”; nel secondo caso si avrebbe: “Ciò che avvenne in lei era vita, e la vita era la luce degli uomini”. Nella prima soluzione avremmo un pleonasmo, cioè una precisazione inutile, senza contare poi che il v.3ab costituisce un'unità narrativa a se stante, inclusa dai termini uguali contrari “p£nta” (pánta, tutte le cose) e “oÙdš ›n” (udé én, neppure una cosa), che escludono “Ö gšgonen”; tale versetto, inoltre, ha una costruzione del tutto particolare: esso è disposto a parallelismo antitetico in forma chiasmica19, in cui l'espressione “Ö gšgonen” risulta pleonastica. Non rimane, quindi, da concludere che tale espressione vada associata al v.4, aprendo in tal modo un nuovo scenario, che riguarda la dinamica interna della Parola: “Ciò che avvenne in lei era vita”. Una soluzione questa che, del resto, vede a suo favore la maggior parte degli esegeti20.
Si è detto come i vv.3-5 riguardano la dinamica interna ed esterna della Parola. Il verbo g…gnomai (ghígnomai) si ripete nel solo v.3 ben tre volte, imprimendo una forte dinamicità alla Parola, che non si limita a produrre l'accadere delle cose, ma rende anche visibile questo accadere in mezzo agli uomini, costituendosi luce per loro.
Il v.3 si apre con un assoluto al plurale neutro “p£nta” (pánta, tutte le cose), privo di articolo determinativo, imprimendogli una potenza onnicomprensiva, che non ha limiti e che tutto abbraccia (v.3a) senza nulla escludere (v.3b), facendo della Parola la fonte esclusiva, prima ed ultima, di tutto ciò che esiste. Tale esclusività di questa Origine originante del Tutto viene rafforzata dall'espressione seguente, posta in forma negativa, con cui si esclude che qualcosa sia avvenuto senza il suo intervento (v.3b). Questa assolutezza racchiusa in quel “p£nta”, rafforzato dall'espressione “oÙdš ›n”, va ben oltre alla semplice creazione, per abbracciare l'intero esistente sia in quanto già in essere, che in divenire o semplicemente in potenza. Ma ciò che maggiormente viene sottolineata nel v.3ab è l'azione di mediazione esterna propria della Parola, che si interpola sull'esistente o sul possibile tale. L'accento, quindi, va a cadere non tanto sul “p£nta” e sul suo complementare rafforzativo “oÙdš ›n”, bensì sulle preposizioni “di¦” (dià, per mezzo) e “cwrˆj” (corìs, senza), che sottolineano la natura mediatrice della Parola, colta qui nella sua relazione con le realtà esterne (“p£nta”-“oÙdš ›n”)21.
Il secondo momento, quello interno alla Parola, viene illustrato dai vv.3c-4a: “Ciò che avvenne in lei era vita” (Ö gšgonen ™n aÙtù zw¾ Ãn, ò ghégonen en autô zoè ên). E' questo il secondo dinamismo della Parola, che descrive l'accadere e, quindi, il divenire interno alla Parola e che, pertanto, ha in qualche modo attinenza con la sua vita interiore. Il verbo “gšgonen” è al perfetto, un tempo questo che indica un'azione sorta nel passato, dunque, qui nella storia, ma che produce continuamente i suoi effetti anche nel presente, per cui si dovrebbe tradurre correttamente “Ciò che era avvenuto in lei era vita”. È interessante rilevare come dopo i due aoristi (™gšneto, eghéneto) usati in 3ab si passi ad un perfetto. I due aoristi, infatti, si riferiscono alla mediazione creativa della Parola, che ha avuto una sua origine storica e, quindi, puntuale nel tempo; lo stesso accade per Gen. 1,1 in cui il fare di Dio è posto all'aoristo (“'En ¢rcÍ ™po…hsen Ð qeÕj”, En archê epoíesen o tzeòs, In principio Dio fece) e, quindi, in uno spazio temporale ormai superato. Il perfetto, invece, inerisce ad un accadimento che, pur avvenuto anch'esso in passato, continua a produrre i suoi effetti anche nel presente; ed è proprio su questi effetti ancora presenti, che l'autore vuole indirizzare l'attenzione del suo lettore. Ciò che accadde, dunque, nella Parola ha attinenza con la storia e il suo divenire. C'è, infatti, un evento accaduto nel passato, dunque, in un contesto storico, che continua a produrre i suoi effetti anche nel presente storico. Che cosa, dunque, è accaduto ad un certo momento all'interno della Parola e tale che questo accadere produce ancora i suoi effetti in lei? A cosa allude Giovanni? Mi sembra di poter dire che l'accadimento (“Ciò che avvenne”) di cui l'evangelista parla in 3c-4a sia l'incarnazione stessa della Parola. Si tratta di una profonda mutazione all'interno dell'architettura trinitaria, in cui si produce un divenire22: dalla Parola contemplata in principio presso Dio (vv.1,1-2) si passa alla Parola contemplata nella sua incarnazione (v. 1,14). Un passaggio e una mutazione che viene celebrata anche dallo stupendo inno cristologico di Fil. 2,5-8: “il quale (Gesù Cristo), pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. La natura di questo accadimento, prodottosi all'interno della Parola, “era vita”. Il sostantivo vita è qui reso in senso assoluto, privo dell'articolo determinativo, che invece comparirà al v.4b. L'assenza dell'articolo determinativo suggerisce che il termine “vita” sia il predicato di “ciò che avvenne in lei”, indicando la natura e svelando l'identità dell'anonimo “ciò”. L'uso del termine “zw¾” (Zoè) per indicare la vita prodottasi nella Parola incarnata lascia intendere che essa è una vita qualitativamente superiore e molto diversa dal b…oj (bíos) umano, si tratta della vita stessa di Dio23. Il verbo con cui è accompagnato il sostantivo “vita”, “era” (Ãn, ên), è posto all'imperfetto indicativo, per indicare il persistere di questa vita e dei suoi effetti, che si sono prodotti all'interno della Parola incarnata. Il prodursi di questa vita, indicata dall'espressione “Ciò che avvenne”, è, dunque, la vita stessa di Dio, di cui è animata e sostanziata la Parola incarnata. In altri termini, qui Giovanni allude alla divinità di Gesù Cristo, Parola incarnata, in cui si è prodotta in modo permanente (“era vita”) la vita divina nel momento della sua incarnazione. Quali siano il senso e la finalità di questa incarnazione della vita divina nella Parola sono subito designati dal v.1,4b: “e la vita era la luce degli uomini”. Si tratta, dunque, di una vita che era la luce degli uomini. Luce e vita, un binomio che richiama da vicino la dimensione stessa dell'Essere divino, che il salmista cantata in 35,10: “E' in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”. Luce perché con il suo apparire (v.5) si è resa visibile e raggiungibile dagli uomini (1Gv 1,1-4); luce perché diventa rivelatrice delle esigenze di Dio nei confronti degli uomini; luce perché questa è la dimensione di Dio, in cui viene collocata la nuova creazione, alla quale gli uomini sono chiamatati ad aderire esistenzialmente24. Una luce che richiama il genesiaco v. 1,3. Anche qui compare la luce, che costituisce il contesto ambientale entro cui venne collocata la prima creazione. Non si tratta della luce degli astri, che comparirà soltanto nel quarto giorno (Gen 1,14-19), bensì della dimensione stessa di Dio, in cui la creazione genesiaca venne posta, rivestita e permeata. Per questo, al suo termine, Dio si ritroverà in essa e in essa si rifletterà, riconoscendo che “quanto aveva fatto era cosa molto buona” (Gen 1,31). Una creazione, dunque, rivestita e incandescente di Dio.
Il v.5 chiude la concatenazione discendente della Parola, che, contemplata nel suo essere in principio presso Dio, appare ora in mezzo alle tenebre. Luce e tenebre, un'accoppiata che caratterizza il modo di vedere proprio del giudaismo, che ritroviamo anche in Paolo e, qui, in Giovanni. Questo bipolarismo fa parte dello schema della mente umana, che al positivo associa per contrapposizione il negativo, aprendo tra questi due poli un'ampia gamma di sfumature. È un bipolarismo, che ritroviamo anche nello gnosticismo, del cui linguaggio Giovanni si è servito25 e di cui questa coppia luce-tenebre fa parte. La coesistenza e la convivenza della luce con le tenebre appartengono al primordiale contesto della creazione genesiaca. Anche qui la luce apparve in mezzo alle tenebre, costituita in mezzo ad esse dal Dabar divino (Gen 1,3). Essa non ha dissolto le tenebre, ma ha creato un nuovo contesto, una nuova realtà, una nuova dimensione, che si è contrapposta ad esse, così che Dio le ha separate (Gen 1,4), assegnando loro un proprio ruolo (Gen 1,5). Per l'uomo dell'A.T., infatti, le tenebre non sono soltanto l'assenza della luce, ma hanno una loro individualità e una loro consistenza26. Luce e tenebre, dunque, si pongono alle origini della vita come due entità a se stanti e inconciliabili, poiché, esse hanno a che fare con gli schemi e con le dinamiche più profonde dell'uomo e della vita, sulle quali si è innestata la storia della salvezza e l'intera sua dinamica. Luce e tenebre dicono la dialettica di contrapposte vedute tra Dio e l'uomo decaduto. Le tenebre, oltre che descrivere la condizione dell'uomo dopo la caduta primordiale, dicono tutta la sua incapacità di saper cogliere la luce, poiché le tenebre, per loro natura sono cieche e racchiudono tutto nella loro cecità. È proprio questa dialettica di contrapposizione luce-tenebre, che caratterizza la storia della salvezza e scandisce l'intero racconto giovanneo. Per questo “le tenebre non la colsero” (v.5b). Si pone in questo versetto una questione interpretativa del verbo “katšlaben” (katélaben). Questo verbo, infatti, può significare ugualmente afferrare, prendere, impadronirsi, come afferrare con la mente, comprendere, cogliere. La mia scelta è caduta su questo secondo significato, per un duplice motivo, sia perché l'ignoranza di Dio e del suo mondo e la congenita chiusura alla sua proposta rivelativa e salvifica, qui simboleggiate dalle tenebre del v.5a, stanno all'origine del comportamento aggressivo ed omicida; sia perché le tenebre del v.5b rappresentano le due realtà, che si sono contrapposte a Gesù e che vengono esplicitate ai vv.10.11: il mondo pagano e Israele. Del primo si dice chiaramente che non “la conobbe” (“aÙtÕn oÙk œgnw”, autòn uk égno); del secondo si afferma che “non l'accolse” (“aÙtÕn oÙ paršlabon” autòn u parélabon). In nessuno dei due casi (vv.10.11) si attesta in qualche modo che le tenebre non riuscirono a vincerla o a sopprimerla o ad arrestarla. In entrambi i casi, invece, si sottolinea l'inintelligenza, l'incapacità di comprendere la Verità, che sottendeva, animava e permeava la Parola. Fu proprio questa inintelligenza nei confronti della Parola, che rese pagani ed Israele ciechi e incapaci di coglierla e, quindi, di accoglierla. Soltanto di conseguenza, mondo pagano ed Israele tentarono di sopraffarla. Per questo ritengo più opportuno tradurre e interpretare quel “katélaben” con “non la colsero”, poiché sottolinea meglio l'inintelligenza, l'incapacità di comprendere e di accogliere, che sottese l'ostinata opposizione sia del mondo pagano che di quello giudaico, denunciata dai vv. 10.11 e che, come un'eco, risuona nell'intero vangelo giovanneo e trova la sua amara constatazione conclusiva in 12,37: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui”. Due, dunque, sono i significati di tenebre nel v.5: in 5a si indica in senso generale la condizione umana decaduta, avvolta nell'inintelligenza e nell'ignoranza di Dio, del suo mondo e delle sue esigenze, così che l'apparire della luce in questo contesto sottolinea la funzione illuminatrice e rivelativa della Parola incarnata, togliendo all'uomo decaduto ogni alibi, portandolo a conoscenza della dimensione divina e delle sue esigenze, di fronte alle quali è chiamato a prendere esistenzialmente posizione; in 5b le tenebre sono storicizzate e incarnate nel mondo pagano e in quello giudaico (v.5b), quali luoghi storici in cui esse si sono radicate e si sono contrapposte alla Parola. Il primo “tenebre”, dunque, indica lo stato, la condizione dell'uomo prima della venuta della Parola; il secondo “tenebre” individua storicamente gli attori, che le incarnano.
vv. 6-14.16-17: Questi versetti formano un'unica unità tematica, poiché presentano lo sviluppo storico di quel “apparve” e di quel “non la colsero” preannunciati dal v.5. Essi si sviluppano secondo questa dinamica storica e, quindi, non più discendente, ma orizzontale:
1) vv.6-8: Se in 1,1-2 la Parola è colta in un principio metafisico assoluto, in esclusiva relazione con Dio, qui, nella sua dimensione storica, il suo principio è la stessa testimonianza di Giovanni. La Parola, quindi, fa la sua prima apparizione storica in Giovanni, il quale, come la Parola, viene da presso Dio (“¢pestalmšnoj par¦ qeoà”, apstalménos parà tzeû);
2) vv.9: La Parola, che segue la venuta di Giovanni, è vera luce degli uomini;
3) vv.10-14: i luoghi storici dell'incarnazione della Parola, la loro risposta e i suoi effetti:
a) v.10: il mondo dei pagani, che non l'ha riconosciuta;
b) vv.11-13: il giudaismo, che non l'ha accolta, è qui posto in contrapposizione a quei Giudei che, invece, l'hanno accolta, divenuti per questo figli di Dio;
c) vv. 14.16-17: la comunità giovannea, che ha saputo cogliere in profondità la divinità della Parola, dalla quale ha ricevuto la pienezza della vita di Dio, che la Legge mosaica non ha saputo dare.
4) vv.15.18: la preesistenza della Parola testimoniata da Giovanni (v.15) e dall'autore (v.18)
I vv.6-8 interrompono la sequenza logica e il ritmo poetico del Prologo innico, creando una sorta di frattura tra la dimensione metafisica, in cui eravamo posti con i vv.1-5, e quella storica, inaugurata con la figura di Giovanni, la cui identità è delineata da tre versetti:
a) v.6: l'origine di Giovanni;
b) v.7: la missione di Giovanni;
c) v.8: precisazioni polemiche sulla vera natura di Giovanni e della sua missione;
Il v.6 è scandito in tre parti, che definiscono l'origine e il senso della provenienza divina di Giovanni. Il versetto si apre con l'espressione “'Egšneto ¥nqrwpoj” (Eghéneto ántzropos). Il verbo posto all'aoristo indica l'accadere di un evento, circoscritto in un contesto storico ormai superato. Si parla, quindi, di un fatto puntuale nel tempo. Ben diverso, quindi, dall'imperfetto indicativo (Ãn, ên, era ), usato quando si parla della Parola, che indica, invece, il persistere dell'evento causato nella Parola stesso, quasi a dire che essa è una realtà costantemente presente. L'aoristo parla di una realtà avvenuta e racchiusa nel suo passato; l'imperfetto, di una realtà che continua la sua corsa anche nel presente e che spingerà il Battista ad esclamare: “Bisogna che quello aumenti, che io invece sia diminuito” (3,30). Significativo, ancora, è il verbo usato, “'Egšneto”, che ha una pluralità di significati: essere, aver luogo, manifestarsi, sorgere, giungere, accadere, farsi, compiersi. Un verbo che in Luca ricorre ben 69 volte ed indica l'accadere di un evento divino o che ha attinenza con questo; un verbo che dice l'irrompere di Dio nella storia. Giovanni usa nel suo prologo innico questo verbo altre quattro volte: per indicare l'azione creativa della Parola (1,3.10), per indicare l'incarnazione della Parola (1,14) e per designare l'apparire dell'azione salvifica della Parola (1,17b). Tutte queste realtà e queste dimensioni sono in qualche modo contenute nell' “™gšneto”, che inerisce all'apparire di Giovanni, poiché il suo apparire, il suo accadere si pone in stretta relazione con l' “™gšneto” della Parola, di cui egli è il principio storico e testimone. Ciò che accadde è l'apparire di un uomo. L'uso di del termine generico “¥nqrwpoj” (ántzropos), privo di articolo determinativo, indica le modalità con cui Dio interviene ed opera nella storia: senza clamori, senza prepotenze, nell'anonimato, nella generalità dell'accadere e del divenire della storia, usando il semplice e irrilevante linguaggio della storia stessa, che solo l'occhio sensibile del credente è in grado di scorgere e di leggere, trasformando la storia umana in storia sacra. Questo accadere anonimo, tuttavia, viene immediatamente svelato e qualificato dal v.6bc, rivelandosi nella sua reale identità: quest'uomo è inviato da Dio (¢pestalmšnoj par¦ qeoà, apestalménos parà tzeû). Apostšllw (apostéllo) e pšmpw (pémpo), entrambi significano inviare, sono i due verbi che Giovanni usa preferibilmente nel suo vangelo e segnano profondamente la sua cristologia, poiché essi qualificano la figura di Gesù quale inviato dal Padre e contengono implicito in loro il senso di un mandato, la cui origine è divina. La particella “par¦”, infatti, regge il genitivo “qeoà” e indica il moto da luogo, la provenienza, l'origine. Viene, in tal modo, messa in rilievo la qualità divina di questo mandato, il cui invio è assimilato a quello di Gesù. L'espressione “par¦ qeoà” o nella sua forma “par¦ tou qeoà” è usata da Giovanni cinque volte in 1,6; 9,16.33; 6,46; 8,40. In tutti questi casi la particella indica la provenienza, che ha la sua origine primaria in Dio. Entrambi, dunque, Giovanni e Gesù, sono qualificati e accomunati tra loro, annunciatore e annunciato, sia dai due verbi che dalla loro comune provenienza (par¦ qeoà). Entrambi provengono da Dio e sono attori, benché con ruoli e nature completamente diverse, di un unico piano divino, che ha la sua origine primaria in Dio.
Il v.6c completa l'identità del Battista, svelando il contenuto sia del suo accadere che della sua azione: “egli (aveva) nome Giovanni”. Per l'ebreo il nome indica l'essenza stessa della persona, ne segna intimamente l'azione e l'esistenza e svelare il nome significa lasciar apparire il mistero della sua persona e della sua missione. Per questo Dio non svelerà il suo nome a Mosè, ma si presenterà a lui con una circonlocuzione: “Io sono colui che sono” (Es 3,14). Il nome Giovanni è teoforo e in ebraico “Yōhanān”significa “Dio fa grazia”. Ed è proprio ciò che egli è venuto ad annunciare e a testimoniare nell'accadere della Parola, piena di grazia e di verità (1,14), da cui tutti hanno ricevuto grazia su grazia (1,16), poiché soltanto dalla Parola sono venute la verità e la grazia (1,17). Nel suo nome, pertanto, già era in qualche modo annunciata l'azione divina, che si sarebbe incarnata e manifestata nella Parola. Giovanni, dunque, era questo portatore della Parola, dono di grazia, di vita divina al mondo.
Il v.7 indica e precisa il senso della missione di Giovanni, ma nel contempo pone le basi per una polemica, che si svilupperà al v.8 e sarà trascinata fino al v.9a con l'aggiunta dell'attributo “vera” riservato alla luce della Parola, posta qui in contrapposizione al v.8a “Non era quello la luce”.
Il v.7 è caratterizzato dalla presenza di un verbo di movimento (Ãlqen, êltzen, venne), da cui dipendono cinque particelle, “e„j” (eis), “†na” (ína, per due volte), “perˆ” (perì), “di¦” (dià), che potremmo definire strumentali poiché indicano, ma nel contempo circoscrivono, preparando la polemica del v.8, le finalità della venuta di Giovanni, la cui importanza e il cui peso sono stati specificati al v.6. Il verbo “Ãlqen” (êltzen, venne) costituisce lo sviluppo storico dell'intervento divino qui nella storia, indicato dall' “'Egšneto” (Eghéneto), con cui iniziava il v.6. L'accadere dell'azione salvifica di Dio qui nella storia, il suo irrompere prepotentemente in essa e il senso di tutto ciò, si attua ora al v.7, in cui si descrive la venuta di Giovanni e le sue finalità. La strumentalità e, di conseguenza, la secondarietà della figura di Giovanni appaiono più evidenti se si considerano l'inizio e la fine del v.7. Esso si apre con “Questi venne per” e si conclude con “per mezzo suo”. La sua venuta, dunque, è in funzione di qualcosa che deve attuarsi per suo mezzo: testimoniare la luce e creare le condizioni per un'accoglienza della vera luce (v.9a). Giovanni, pertanto, non è venuto per realizzare la salvezza, ma per predisporre ad essa. La sua è, dunque, una funzione di servizio in vista di qualcos'altro.
Il v.7 presenta una concatenazione logica a scala discendente, data dall'abbinamento dei termini “testimonianza, testimoniare” e “luce, credere”, in cui giocano un ruolo concatenante fondamentale le particelle sopraindicate. Al v.7a si puntualizza che la venuta di Giovanni è essenzialmente per la testimonianza (v.7a). Si tratta di una precisazione delimitativa, poiché circoscrive il senso della venuta di Giovanni, restringendone il campo alla sola testimonianza. Non v'è dubbio, a nostro avviso, che tale delimitazione contenga in sé un malcelato senso polemico. Il v.7b, posto al centro del v.7, è quello più significativo ed indica l'oggetto attorno al quale (perˆ) si sviluppa la testimonianza per la quale (e„j) Giovanni è venuto: la luce. Al termine luce e da questa tematicamente dipendente si aggancia, ora, il v.7c, sviluppando il tema della fede, che ha a che fare con la luce rivelativa, anzi, ne è la risposta. Una fede che qui, con quel “p£ntej” (pántes, tutti), assume una dimensione universale: “affinché tutti credessero” “di' aÙtoà” (di'autû) “per mezzo suo”. Si pone qui una questione interpretativa circa il “di' aÙtoà”, poiché esso così espresso, può essere indifferentemente riferito a Giovanni o alla luce. Nel primo caso, si delinea la seconda finalità della venuta di Giovanni: predisporre tutti all'accoglienza della luce; Giovanni, dunque, diviene lo strumento (per mezzo di lui) attraverso il quale tutti sono chiamati ad aderire esistenzialmente alla luce, da lui testimoniata; nel secondo caso, la luce, di cui Giovanni è stato testimone, illuminando, cioè rivelando, chiede a tutti una presa di posizione esistenziale di fronte alle realtà divine manifestate, attuando in tal modo il progetto di salvezza del Padre: “[...] affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). La mia opzione è caduta sulla prima soluzione, che vede soggetto di quel “di'aÙtoà” Giovanni, considerato che l'intera pericope (vv.6-8), in particolar modo il v.7, lo vede come protagonista.
Il v.8 è composto da due parti tra loro polemicamente contrapposte: la prima nega a Giovanni l'identità di luce; la seconda, che si apre con una particella avversativa, che accentua la contrapposizione, attesta nuovamente la sua identità di testimone della luce, riproducendo il v.7b. Non luce, quindi, ma testimone della luce. Già in apertura del v.7 si era detto che la venuta di Giovanni era finalizzata alla testimonianza, delimitando il suo campo d'azione e relegando la sua stessa identità a quella di semplice testimone. Questa nota, velatamente polemica, viene, ora, ripresa dal v.8, che esordisce con una dichiarazione, che si impone in modo imperativo: “Non era quello la luce”. Sembra quasi un voler rintuzzare le pretese dei battisti, con cui la comunità giovannea e quelle palestinesi in genere erano in contrasto. Questi, infatti, ritenevano il loro maestro superiore a Gesù, forse, da come si apprende dal racconto giovanneo, perché Gesù fu nei primi tempi della sua missione un discepolo del Battista. Ora, qui, neppure il nome viene più citato, come già è avvenuto al v.7a, ma questo viene sostituito da un anonimo e generico pronome. Giovanni, qui, in qualche modo, perde la sua identità e gli viene tolta ogni possibilità di competere con quella luce, di cui egli è solo un testimone, sia pur privilegiato.
v.9 Si era detto
che i vv. 6-8 rompevano il ritmo poetico del Prologo innico,
sostituendolo con quello narrativo, per presentare, non senza
polemica, la figura del Battista. Terminato l'inciso polemico, il
v.9, che considero di transizione, si incarica di riprendere il
prologo innico, lasciato in sospeso al v.5, e lo fa parafrasando i
vv.4b-5a, per cui l'espressione “era la luce degli uomini” del
v.4b diventa in 9a “Era la luce [vera] che
illumina ogni uomo”; mentre “la luce apparve nelle tenebre” del
v.5a diventa in 9b “quella che viene nel mondo”. Cambia la forma
letteraria, ma il contenuto è sostanzialmente identico.
L'interpolatore anonimo dei vv.6-8, infine, non ha resistito a
interpolare, a nostro avviso, anche l'attributo “vera”,
accentuando una volta di più la polemica e il contrasto innescati
con i vv.6-8. Si tratta chiaramente di una forzatura, come spesso
accade nelle interpolazioni, il cui significato e i cui intenti si
comprendono soltanto in riferimento ai tre versetti immediatamente
precedenti.
vv.10-14.16-17: il v.5, concludendo la contemplazione della Parola, colta nella sua trascendenza (vv.1-5), annunciava che “la luce apparve nelle tenebre, e le tenebre non la colsero”. Ora questa ampia pericope in esame costituisce la ripresa e lo sviluppo storico del v.5. L' “apparve” del v.5 trova la sua triplice manifestazione storica in “Era nel mondo” (v.10), “Venne nella sua proprietà” (v.11) e “divenne carne” (v.14). Mentre il mancato accoglimento da parte delle tenebre (v.5b) trova la sua concretizzazione storica nell'incapacità di cogliere da parte del mondo (v.10c) e nel mancato accoglimento da parte di Israele (v.11b). Ma, per contrapposizione, vi è anche chi ha saputo accogliere, divenendo figlio di Dio (vv.12-13); e chi, ancor di più, ha saputo cogliere il mistero sotteso nella Parola e il significato della sua missione (vv.14.16-17). Questa ampia pericope (vv.10-14.16-17), pertanto, mette in rilievo la dinamica storica della Parola Incarnata e la molteplice reazione da parte degli uomini, che essa ha interpellato e ai quali si è imposta con il suo apparire.
Il v.10 esordisce affermando che la Parola “era nel mondo” (™n tù kÒsmJ Ãn, en tô kósmo ên). Diversamente che nei vv.11 e 14, in cui l'apparire della Parola viene espresso con un verbo all'aoristo27, indicando il suo attuarsi storico e puntuale nel tempo, qui, al v.10 l'autore usa un verbo all'imperfetto indicativo, che indica un fatto sorto nel passato e che continua nel suo esserci anche nel presente. Quindi, secondo il v.10, la Parola era già nel mondo. Le modalità con cui essa apparve nel mondo e al mondo28, cioè al mondo pagano, viene indicato al v.10b: “e il mondo avvenne per mezzo suo”, richiamandosi all'atto creativo della Parola già indicato in 3ab: “Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna cosa”. La creazione, dunque, diventa rivelatrice della Parola, della sua onnipotenza e, a ben rifletterci sopra, il mondo avrebbe potuto cogliere nella creazione la presenza del suo Creatore, ma il mondo pagano, quello non credente, proprio per la sua ignoranza e la sua impreparazione non ha saputo cogliere la creazione quale intermediario di una presenza divina. La questione non è nuova e lo stesso Paolo la tratta nella sua lettera ai Romani: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Rm 1,20-23). La creazione, dunque, viene qui intesa come l'impronta del divino, con la quale il Creatore si era presentato e rivolto agli uomini.
I vv.11-13 vedono contrapposte due tipologie di persone, entrambe appartenenti al mondo giudaico: quelli che non accolsero Gesù (v.11) e quelli che, invece, lo hanno accolto (vv.12-13). Il riferimento, infatti, ad Israele appare evidente dalle espressioni “t¦ ‡dia” (tà ídia, la proprietà) e “oƒ ‡dioi” (oi ídioi, quelli che appartengono), che si richiamano ad Es 19,5b e Dt 4,2029, in cui Israele è definito proprietà di Dio. Un Israele, quindi, che apparteneva a Dio, a Lui consacrato; unito intimamente alla sua vita così da essere qualificato come nazione santa, cioè partecipe della vita di Dio; e popolo di sacerdoti, scelto fra i popoli e a loro destinato, per testimoniare in mezzo a loro le grandezze di Jhwh30. Israele, quindi, era stato insignito da Dio di una nuova identità e di una missione sublime, fatto oggetto, unico tra i popoli, di un grande dono, la Torah, segno e frutto dell'alleanza, che Jhwh aveva stabilito con il suo popolo e che ne sanciva la consacrazione. Ed è proprio tutto questo, condensato in “t¦ ‡dia” e “oƒ ‡dioi”, che mette in evidenza la gravità del rifiuto, che emerge prepotente da tutto il racconto giovanneo e che trova il suo vertice amaro e deludente in 12,37, in cui si denuncia la fallimentare missione pubblica di Gesù a motivo della durezza di cuore dei Giudei: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui”. Essi ebbero tutto per poter cogliere e accogliere la Parola nel suo apparire, e al suo avvento furono lungamente preparati e illuminati per mezzo della promessa, dell'alleanza, delle Scritture e dei profeti. La chiave di questo fallimento sembra potersi trovare nelle parole del profeta Isaia, riprese e fatte proprie, poi, da Gesù (Mt 15,8; Mc 7,6;): “Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13). Un tema, quello del rifiuto di Israele, che tormentò non poco Paolo (Rm 9,1-3), che dedicò alla questione i capp. 9-11 della lettera ai Romani, cercando di darsi una ragione per un simile inspiegabile fallimento. Egli individua le ragioni di questo rifiuto su due livelli: uno storico e un altro divino. Quanto a quello storico, egli accusa Israele di aver voluto accedere alla salvezza tramite le opere e non per mezzo della fede, quasi fosse lui il fautore della propria salvezza; per questo ha inciampato nella pietra posta in Sion, cioè ha inciampato in Gesù e nella sua proposta di salvezza, che lo interpellava su di un piano di fede: “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d'inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso” (Rm 9,30-33). Quanto al livello divino, Paolo riteneva che il rifiuto di Israele rientrasse nel piano di salvezza stabilito da Dio, poiché grazie al rifiuto di Israele, Dio ha esteso a tutti i popoli la salvezza promessa inizialmente al solo Israele (Rm 11,11b-12). Quindi, Israele si è sacrificato per il bene di tutti (Rm 11,15a). Ma Dio non abbandonerà Israele (Rm 11,1-2a;) e lo aprirà alla salvezza alla pari di tutti i popoli (Rm 11,1-36). Quanto questa visione di Paolo sia vera, non ci è dato di sapere, ma per Paolo, ebreo di nascita, accanito sostenitore del giudaismo e delle sue tradizioni (Gal 1,13-14) e convertito, poi, a Cristo, era necessario darsi una spiegazione su una questione, che lo stava tormentando non poco.
I vv. 12-13 si aprono con un “Ma” avversativo (Ósoi dš, ósoi dé, ma quanti), che li contrappone al v.11. Non tutto Israele rifiutò Gesù, ma una parte aderì alla sua persona e al suo messaggio. Una parte della sua proprietà lo accolse e questo le valse la sua generazione a figlia di Dio, per sola fede, per aver aderito esistenzialmente alla proposta salvifica, rivelatasi in Gesù. Il motivo di questa trasformazione verrà chiarito dal v.17: “poiché la Legge fu data da Mosè, la grazia e la verità avvenne per mezzo di Gesù Cristo”. Non più l'uomo, dunque, fautore dei propri destini e della propria salvezza, ma una salvezza ottenuta per dono, rivelatosi e offerto in Cristo.
Il v.12 si presenta suddiviso in tre parti, strutturate a parallelismo concentrico in B):
A) v.12a: ma quanti lo accolsero,
B) 12b: diede loro potere di diventare figli di Dio,
A') v.12c: a coloro che credono nel suo nome
Il v.12a presenta un verbo all'aoristo di tipo ingressivo, che indica l'inizio storico del credere, qui significato dal verbo accogliere; mentre nel v.12c il verbo è posto al presente indicativo, per indicare come questa accoglienza iniziale (aoristo), persiste e continua a persistere sotto forma del credere nel suo nome (pisteÚousin e„j tÕ Ônoma aÙtoà, pisteúusin eis to ónoma autû). Significativo è quel “nel” reso in greco con “eis”, una particella di moto a luogo. Essa esprime un movimento orientato a, imprimendo al credere la dinamica propria della vita, colta come un cammino in Cristo e per Cristo. Credere nel suo nome, pertanto, significa non soltanto accogliere, ma orientare e conformare stabilmente il proprio vivere a Cristo. Soltanto a queste condizioni si potrà ottenere il potere, cioè la capacità, di diventare figli di Dio. La fede, dunque, cioè l'aderire esistenzialmente alla proposta salvifica apparsa e donata in Cristo, fa acquisire la capacità di figliolanza divina (Tt 2,11), e non le opere umane, compiute in ottemperanza alla Legge, “poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,16). Torna, quindi, qui, implicito, il v.17, in cui sono contrapposte tra loro due economie salvifiche, irriducibili l'una all'altra. Paolo scrivendo alle comunità della Galazia, che dopo aver accolto Cristo, avevano aderito al giudaismo, evidenzierà come “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,4), poiché “se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano” (Gal 2,21b).
Un'ultima nota va riservata al v.12a e 12c. Le due parti sono tra loro concatenate solo in apparenza, ma in realtà si contrappongono, designando probabilmente due categorie di credenti, presenti nella comunità giovannea: quelli che hanno accolto Cristo, ma non hanno poi proseguito il cammino in lui; categoria di credenti questi implicita, considerato che l'autore specifica al v.12c che la figliolanza divina viene riservata solo a quelli che credono nel suo nome (v.12c); e quelli, invece, che dopo averlo accolto, hanno persistito nella fedeltà alla scelta fatta inizialmente. L'accento, qui, cade su questa seconda categoria di credenti; infatti è a questi che viene data la capacità di diventare figli di Dio. Il v.12a, pertanto, indica l'origine comune di tutti i credenti, mentre il v.12c qualifica i veri figli di Dio. Come dire che non è sufficiente lo scegliere Cristo per essere qualificati come figli di Dio, ma è necessario che questa accoglienza iniziale persista, orienti e qualifichi sempre la vita del credente. Il credere, pertanto, è un camminare verso Cristo, un crescere in lui. Solo a queste condizioni il credente diventa figlio di Dio, cioè passa da una condizione umana ad una divina. Un diventare, che è un processo evolutivo e trasformante continuo, “da … a”, il quale impegna costantemente la vita del credente, colta come un divenire continuo, espresso significativamente nella particella “eis”.
Il v.13, accentrando la sua attenzione sul v.12c, lo riprende spiegando da dove proviene la generazione a figli di Dio. La questione affrontata dal v.13, dunque, è l'origine della figliolanza divina ed è evidenziata dal ripetersi insistentemente, per quattro volte, della particella “™k” (ek, da), che indica sempre l'origine, la provenienza. Il versetto è scandito in quattro parti, che si collocano in due aree tra loro contrapposte: quella umana, le prime tre parti, poste al negativo; e quella divina, la quarta parte, al positivo. L'area umana è composta da un'apparente triplice ripetizione riguardante sempre lo stesso tema: la figliolanza divina non dipende dall'uomo: a) “non da sangue”; b) “né da volontà di carne”; c) “né da volontà di uomo”. Carne, sangue, uomo sono tre termini solo apparentemente sinonimici tra loro, in realtà essi indicano tre tipologie di persone. La prima espressione “non da sangue” in greco è resa al plurale “oÙk ™x aƒm£twn” (uk ex aimáton, non da sangui). Per l'ebreo il sangue è la sede della vita, anzi esso talvolta viene identificato con la vita stessa31. Questo sangue è sempre posto al singolare. Tuttavia, qualora il sangue fuoriesca dal corpo per una ferita o per il mestruo femminile, esso viene posto al plurale, i sangui32. Questi due aspetti, ferita e mestruo, richiamano, rispettivamente, sia la circoncisione, grazie alla quale il bambino era inserito nel popolo ebreo e fatto, per ciò stesso erede della Promessa; sia la capacità generativa della donna. Nessuno di questi due tipi di sangue sono in grado di dare la figliolanza divina. Se comprensibile è il sangue che fuoriesce dalla ferita della circoncisione, meno chiaro lo è quello del mestruo femminile, su cui ci soffermiamo un istante per renderne meglio accessibile la comprensione. Il declinare il sangue al plurale in questo contesto, riferito alla generazione della figliolanza divina, richiama la capacità generativa della donna, che nel mondo ebraico, già nel primo secolo d.C., era considerata come l'elemento certo della ebraicità. Vero ebreo era colui che nasceva da madre ebrea. Affermare, quindi, che i veri figli di Dio non provengono “dai sangui” (uk ex aimáton) equivaleva dire che non è il popolo ebreo a generarli, né attraverso le proprie donne né, tanto meno, attraverso la circoncisione. La prima espressione, “oÙk ™x aƒm£twn”, pertanto, inerisce al popolo ebreo, ed esclude la sua capacità di generare la vera figliolanza divina. I veri figli di Dio, dunque, non sono generati né da Mosè né dalla Legge. La negazione di queste due tipologie di sangue circa loro capacità generativa al divino, assegna, per contro, tale capacità ad un altro sangue e ad un'altra carne, quelli di Gesù (6,53.54.55.56;). La seconda espressione “né da volontà di carne” richiama da vicino lo stato di coniugalità dell'uomo e della donna, definito da Gen 2,24. Quel “volontà”, ben lungi dall'indicare un desiderio concupiscente, in questo contesto indica la progettualità dell'uomo e della donna, la loro capacità di autodeterminare, secondo schemi e disegni propri, il loro futuro. La figliolanza divina, dunque, non dipende neppure dalla volontà e dalla determinazione dei coniugi, colti nella loro connaturata capacità generativa, su cui grava la benedizione divina, che li rende fecondi e simili a Dio, generatore di vita (Gen 1,28). La terza espressione “né da volontà di uomo” coglie l'uomo nella sua eccellenza virile, nella sua capacità di autodeterminarsi e di imporsi; l'uomo tale per eccellenza e in cui si dispiega la sua nobiltà. Il termine qui usato, infatti, per indicare l'uomo non è “¥nqrwpoj” (ántzropos), che significa uomo in senso generico, colto nella sua anonimia, e che ha il suo corrispondente latino in “homo”; bensì “¢n»r” (anér), che contiene in sé il significato di uomo per eccellenza ed ha il suo parallelo latino in “vir”. Nemmeno, dunque, da questa eccellenza umana, fatta ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), uscirà la vera figliolanza divina. Esclusa, pertanto, l'area umana nelle sue tre diverse sfaccettature, non rimane che l'area divina, introdotta da un “ma” (¢ll£, allá) avversativo, che la contrappone nettamente alla prima area ed espressa in forma positiva e affermativa, : “ma da Dio vennero generati”. Il verbo, “™genn»qhsan” (eghennétzesan), posto al passivo, indica l'intervento generativo dell'azione divina; mentre quel “™k qeoà” (ek tzeû, da Dio) indica in modo inequivocabile la vera fonte generativa da cui sgorga l'autentica figliolanza divina, che nel Cristo risorto condivide la stessa paternità (Gv 20,17c).
Il v.13, dunque, indica come la vera figliolanza divina ha la sua origine e le sue radici esclusivamente in Dio stesso. Nessun titolo di merito umano può vantare una capacità generativa divina, poiché “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (Gv 3,6).
I vv.14.16-17 costituiscono il terzo momento di quel “apparve” del v.5, che l'autore, qui, riserva in via esclusiva alla sua comunità, l'unica che non solo ha saputo riconoscere la Parola, quale agente creatore (v.3), diversamente dal mondo pagano (v.10); non solo ha saputo accoglierla, contrariamente ad Israele (v.11), ma è andata ben oltre, poiché, al di là delle apparenze umane, ha saputo cogliere e contemplare la sua divinità (v.14), della quale ha riconosciuto l'azione rigenerante e santificante (v.16) e, quindi, il senso della sua missione divina, che si impose in modo definitivo sull'economia salvifica veterotestamentaria, imperniata sulla Legge e sui fallimentari sforzi umani (Rm 7,18-24), inaugurando un tempo nuovo, che ha il suo fondamento sulla grazia e sulla verità (v.17).
Il v.14 è scandito in quattro parti, che annunciano e contemplano il farsi e il manifestarsi della Parola nella storia: a) la Parola divenne carne; b) si attendò tra noi; c) e contemplammo la sua gloria; d) gloria come unigenito dal Padre, pieno di grazia e verità. Sono quattro momenti che lasciano intravvedere una potente dinamica incarnazionistica, grazie alla quale la Parola solidarizza con gli uomini, rendendosi storicamente raggiungibile da loro, ma svelandosi nella sua reale natura solo al credente.
“E la Parola divenne carne”. Il v.14 si apre con la congiunzione “kaˆ” (kaì, e), che lo lega in modo significativo al v.1, in cui compare per la prima volta la Parola nella sua dimensione trascendente; per contro, al v.14, la stessa ricompare, per la seconda volta, ma colta in una diversa dimensione, attivando, in tal modo, un confronto tra due condizioni di vita, entrambe proprie della Parola, in cui l'una è confluita nell'altra, anzi la prima è divenuta la seconda. Il termine Parola, che compare nei vv. 1 e 14, forma un'inclusione che abbraccia i vv.1-14. Questi hanno per soggetto la Parola, colta nella sua complessa dinamica relazionale con se stessa e con il Padre (vv.1-2), con la creazione (v.3) e con gli uomini (4-14). La Parola, pertanto, non è una realtà statica, ma un Dabar, una realtà vivente e dinamica, che potremmo definire come l'Agire stesso di Dio. L'autore della Lettera agli Ebrei la dipinge come un essere vivente che produce ciò che dice (Eb 4,12), mentre Isaia ne canta, con immagini poetiche e toccanti, la sua potente efficacia: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata” (Is 55,10-11). La Parola, pertanto, non è una realtà statica, ma possiede in se stessa un potente e inarrestabile dinamismo, che la porta anche a mutare se stessa, a divenire un qualcosa che prima non era: “E la Parola divenne carne”. Si è, dunque, ben lontani dall'aristotelico motore immobile, che tutto muove senza mai mutare. Quel “™gšneto” (eghéneto, divenne), posto all'aoristo, dice un accadimento avvenuto nella storia, un fatto puntuale nel tempo, che si contrappone al verbo essere del v.1, posto, invece, all'imperfetto indicativo, per indicare una situazione persistente, contemplata in un principio senza inizio. Quel “divenne” dice che all'interno della Parola è accaduto un mutamento sostanziale, divenendo ciò che prima non era: carne, che nel linguaggio biblico indica la fragilità della condizione umana nel suo stato di decadimento, ma nel contempo indica anche tutta la concretezza storica di questa incarnazione; un appunto questo, voluto, forse, dall'autore per colpire un diffuso docetismo all'interno della sua comunità33. L'incarnazione, pertanto, non fu un semplice rivestirsi di carne, come ci si veste temporaneamente di un abito, che poi si dismette, una sorta di finzione scenica. Quel “divenne” parla di un'avvenuta trasformazione, che ha modificato profondamente nel suo essere quella Parola contemplata metafisicamente al v.1. In tal modo Giovanni, legando il v.1 al v.14 indica alla sua comunità la divinità di quella incarnazione e come la Parola Incarnata sia sempre la stessa del v.1 (Gv 5,18), togliendo ogni dubbio sulla sua divinità, ma nel contempo riconducendo l'uomo Gesù nella sua originaria dimensione di eternità (Gv 17,5).
“... e si attendò tra noi”. Se il divenire carne indica la nuova dimensione e la nuova realtà esistenziale della Parola, l'attendarsi in mezzo agli uomini indica, da un lato, il suo collocarsi storico, dall'altro, attesta la sua solidarietà con gli stessi, ai quali essa si propone come la vera luce, rivelatrice e illuminante (v1,4.9). L'assumere su di sé la sua nuova condizione non le consente soltanto di entrare nella storia, di farne parte, di accettarne le logiche e i limiti, ma anche di condividere la condizione di sofferenza e di morte propria degli uomini, espressa significativamente in quel “™n ¹m‹n” (en emîn), traducibile correttamente con “tra di noi” o “in mezzo a noi”, ma nel sua accezione primaria significa “in noi”, indicando una profonda compenetrazione nell'intimo dell'uomo, quasi appropriandosene, e ben espressa dall'autore della lettera agli Ebrei: “Infatti, la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13). Una Parola, dunque, che illumina e trasforma l'uomo dal suo interno, attirandolo a sé con un'attrazione, che ha il suo vertice sulla croce: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Il significato di tutto ciò viene spiegato da Paolo nella sua lettera ai Romani: “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” (Rm 6,4-6). Un “en emîn” che richiama da vicino lo svuotamento subito dalla Parola nel suo diventare carne. Essa, dalla sua eterna trascendenza presso Dio (vv.1-2), entra nella storia, diventa storia, diventa carne, entra nell'uomo, associandolo a sé. Un contesto salvifico cantato dallo stupendo inno cristologico, riportato da Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “il quale (Cristo), pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8). Quel “en emîn”, dunque, esprime tutta la kenosis della Parola, che dall'eternità di Dio entra nell'uomo, spendendosi a suo favore.
La condivisione della triste sorte dell'uomo, così ben espressa da “en emîn”, viene ora rafforzata dal verbo “™sk»nwsen” (eskénosen, si attendò), che indica uno stato di stabilità perdurante di questa condivisione: attendarsi, prendere dimora presso gli uomini, anzi “in essi”, che richiama Gv 14,23. Anche qui il verbo è posto al passato remoto, per designare un accadimento puntuale nel tempo, che si colloca, quindi, nell'ambito storico e ha a che fare con la storia. Giovanni non perde occasione per dare concretezza storica all'intervento divino a favore dell'uomo. La scelta del verbo “eskénosen” non è casuale, poiché la tenda e l'attendarsi evoca all'ebreo l'esperienza di Dio in mezzo al deserto, quando Dio, camminava con il suo popolo e dimorava presso di lui, indicandogli la strada nel deserto (Nm 9,15-23). In Es 25,8-9 Dio ordina a Mosè di costruirgli una tenda-santuario, che diverrà la dimora divina in mezzo al suo popolo: “Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro. Eseguirete ogni cosa secondo quanto ti mostrerò, secondo il modello della tenda e il modello di tutti i suoi arredi”. Durante la visione che Ezechiele ebbe del nuovo tempio, Dio gli disse: “il mio nome pianterà la tenda in mezzo alla casa d'Israele per sempre” (Ez 4,17a), mentre Gioele apre il popolo ad una grande visione, dal sapore escatologico: “Conoscerete che io sono il Signore vostro Dio, colui che pianta la tenda in Sion, sul mio monte santo” (Gl 4,17a); similmente Zaccaria prospetta questi tempi messianici in cui Dio abiterà insieme con il suo popolo: “Esulta e gioisci, figlia di Sion, poiché, ecco, io vengo e pianterò la tenda in mezzo a te, dice il Signore” (Zc 2,14). La tenda, dunque, è il luogo della dimora di Dio in mezzo al suo popolo; essa sarà sostituita nel tempo da un vero e proprio tempio in pietre (2Sam 7,1-3; 1Re 5,16-19). La tenda fu nella storia di Israele la dimora di Dio presso il suo popolo e fu sempre associata alla gloriosa presenza di Jhwh, resa visibile dalla nube, che ricopriva o riempiva la tenda e il tempio34. È, dunque, significativo come Giovanni associ il diventare carne della Parola al suo attendarsi presso gli uomini. Si viene in tal modo a creare un'associazione identificativa tra il corpo e la tenda/tempio, che verrà richiamata da Giovanni in 2,19-21: “Rispose loro Gesù: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere>>. Gli dissero allora i Giudei: <<Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?>>. Ma egli parlava del tempio del suo corpo”. L'uso del termine “skhn»” o del verbo “skhn£w” richiama, inoltre, da vicino i termini ebraici šeken (tenda), da cui, poi, šekinah, un termine tecnico per indicare la presenza gloriosa di Dio in mezzo al suo popolo. Entrambi i sostantivi, infatti, letti alla maniera ebraica, hanno le loro radici pressoché identiche: skn, per l'espressione greca, e škn, che parimenti al termine greco, significa abitare, attendarsi. Si crea, in tal modo, un significativo parallelismo tra tenda-tempio-gloria di Dio e l'incarnazione della Parola, colta e indicata da Giovanni come il luogo della gloriosa presenza e manifestazione di Dio e del suo abitare in mezzo agli uomini.
“... e contemplammo la sua gloria”. Se l'attendarsi della Parola Incarnata avviene “tra noi”, indicando in quel “noi” l'universalità degli uomini, il contemplare la sua gloria, verbo posto alla prima persona plurale, è riservato soltanto al credente e, in particolar modo, alla comunità giovannea, raccolta attorno al testimone diretto, che ha saputo trascendere la modestia e l'umiltà della corporeità, per coglierne la divinità, dando la sua testimonianza in 1Gv 1,1-3: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato (™qeas£meqa, etzeasámetza) e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”. Il verbo “contemplare”, qui, in Gv 1,14c, è posto all'aoristo, che indica un fatto puntuale nel tempo. Il testimone diretto, quindi, o per esso, la sua comunità, che lo ricorda, sembra voler fare riferimento ad un evento realmente accaduto. A quale avvenimento si allude qui? Molti esegeti ritengono che l'espressione “contemplammo la sua gloria” si riferisca all'episodio della trasfigurazione, riportato da tutti i sinottici e in 2Pt 1,16-18, fuorché da Giovanni, che forse a questa allude con tale espressione. Luca, nel riportare l'episodio della trasfigurazione, è l'evangelista che, qui, più si avvicina a Giovanni, affermando, a differenza degli altri due sinottici, come Pietro, Giacomo e Giovanni “videro la sua gloria” (eŒdon t¾n dÒxan aÙtoà, eîdon tèn dóxan autû), associando a questa il segno visibile della nube, segno della presenza di Jhwh (Lc 9,32.34). Del resto, come il prologo proclama la Parola come Unigenito proveniente dal Padre, così anche la voce che risuona nell'episodio della trasfigurazione definisce Gesù come “Il Figlio mio prediletto” (Mt 17,5b; Mc 9,7b; Lc 9,35).
Ma cos'è la gloria35 che fu contemplata? Il termine greco “dÒxa” (dóxa) letteralmente significa opinione, avviso, credenza, concetto, fama, buona o cattiva che sia; ma esso significa anche onore, gloria, splendore, magnificenza regale, maestà divina. Essa traduce il termine ebraico kabod, che deriva dalla radice “kbd”, comune nelle lingue semite, il cui significato principale è “essere pesante” e indica ciò che rende pesante o importante e conferisce autorità e potere. Ciò può essere la ricchezza, il lusso, la forza36. La gloria, quindi, ha a che fare con lo stato di vita di una persona ed esprime la condizione dell'essere, rivelandone la natura. Ed è proprio questo che le conferisce la gloria, cioè onore, timore, rispetto, venerazione. La gloria, quindi, ha a che fare con la condizione di vita della persona che la possiede e ne rivela in qualche modo la sua dignità e la sua consistenza. Paolo scrivendo ai Filippesi, invitandoli ad avere in se stessi i sentimenti che furono in Cristo Gesù, afferma che egli “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Ma di che cosa svuotò se stesso? Di certo non della sua natura divina, che faceva parte essenziale e integrante del suo essere ed era determinante nella sua missione salvifica. Ciò di cui si spogliò fu proprio della sua gloria divina, che lo rivelava di appartenenza e di provenienza divina, tant'è che egli, rivolto al Padre, lo supplicherà, ormai a poche ore dalla sua morte e risurrezione, affinché gli restituisca la sua gloria primordiale: “E adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te.” (17,5).
“... gloria come unigenito da Padre, pieno di grazia e di verità”. Se la gloria qualifica la natura divina della Parola, si tratta, ora, di capire come questa gloria la relazioni e la posizioni nei confronti di Dio, della cui gloria è rivestita. Si tratta di una gloria “come di unigenito da Padre” (æj monogenoàj par¦ patrÒj, os monoghenûs parà patrós). La particella “os” qualifica la gloria che Giovanni e la sua comunità hanno contemplato nella Parola, rimandando la gloria contemplata nella Parola “a quella dell'Unigenito da Padre”. Non si tratta, tuttavia, di una particella semplicemente comparativa, quasi ci fossero due diversi tipi di gloria qui posti a confronto. La particella “os” ha indubbiamente natura comparativa, che rimanda la gloria contemplata nella Parola a quella medesima che è propria dell' “Unigenito da Padre”. Tale rimando, tuttavia, ben lungi dal creare una separazione o una contrapposizione tra due glorie, in realtà identifica la gloria della Parola con quella dell' “Unigenito da Padre”, testimoniando, in tal modo, come la Parola e l'Unigenito da Padre, sono l'identica realtà. Potremmo, quindi, definire la particella “os” come una comparativa non tanto di semplice confronto, ma di rimando e di identificazione. Essa, pertanto, non va intesa “gloria come se fosse quella propria dell'Unigenito da Dio”, bensì “gloria che è quella propria dell'Unigenito da Dio”. Giovanni sente il bisogno di precisare, qui per la prima volta in termini espliciti e diretti, la divinità della Parola Incarnata, creando con quel “os” una sorta di rimando identificativo tra la Parola Incarnata e quella contemplata ai vv.1-2, qui definita “Unigenito da Padre”. Con quest'ultima espressione, non solo la Parola Incarnata viene identificata nell'“Unigenito da Padre”, ma si indica anche la sua naturale origine: essa è “monogenoàj” (monoghenûs), cioè proveniente dall'unica generazione da parte di Dio, che proprio per questo si qualifica come Padre generante, mentre la Parola, uscita dal Padre, si qualifica come la “sola generata”, posizionandosi nei confronti di Dio-Padre come Dio-Figlio. Il v.14d, quindi, definisce sia l'origine della Parola Incarnata, sia il suo rapporto esclusivo, proprio perché unico, con quel Dio che le è Padre. La Parola Incarnata, pertanto, ha le sue radici in Dio stesso, da cui è uscita37 e con cui intrattiene un rapporto unico ed esclusivo38. Essa, quindi, non va considerata una figlia di Dio in senso generico, così come si autodefinivano i componenti del popolo d'Israele, ma essa lo è realmente, possedendo la natura stessa di Dio (10,33).
“piena di grazia e di verità”. Questa espressione, riferita alla Parola Incarnata, diviene una sorta di appellativo del suo essere generata in modo unico ed esclusivo da Dio, suo Padre, di cui porta, in pienezza, i segni distintivi della grazia e della verità. Quel “pl»rhj” (pléres, piena) dice, da un lato, l'origine divina della Parola, nel senso che essa possiede in modo perfetto, assoluto ed esclusivo, la grazia e la verità; dall'altro, indica la pienezza di ogni potere, di cui è stata rivestita, per cui il suo operare è autorevole ed efficace, poiché esso possiede l'autorità divina di cui è ripiena (17,2) e in cui si identifica (14,9-11). Se quel “pléres” rimanda l'essere e l'operare della Parola a Dio stesso, da cui trae la sua origine e ogni suo potere, anche il contenuto di questa pienezza ha origini divine e parla il linguaggio dell'autorità divina e dell'efficacia della sua azione: grazia e verità, un binomio che dice la verità sulla natura della Parola Incarnata e sul senso della sua missione. Il termine grazia presenta in greco una notevole pluralità di significati, che mal si adattano al senso che Giovanni qui intende dare al termine. Lo stesso N.T., in cui il termine ricorre 140 volte, usa il sostantivo grazia con una pluralità di significati, il cui senso si ricava dal contesto in cui essi vengono posti. Non ci resta che riferirci all'uso che Giovanni fa di tale termine, cercando di ricavarne il significato dal contesto in cui è stato posto.
Il termine “c£rij”
(cáris, grazia) ricorre in Giovanni soltanto quattro volte,
tutte concentrate nei vv. 1,14.16-17, strettamente concatenati tra
loro. Il senso più logico che si può attribuire a tale termine,
ritengo sia quello di “vita divina, quale dono, offerto all'uomo
per mezzo della Parola Incarnata”. Questo concetto trova il suo
riscontro in 10,10b: “io venni perché abbiano vita e (l')abbiano
con abbondanza”. In 1,4 si attesta che nella Parola “era vita, e
la vita era la luce degli uomini”; e questa vita nel Figlio, si fa
dono amorevole del Padre per gli uomini, così che chiunque crede in
lui non muoia, ma abbia la vita eterna (3,16); chi crede in lui,
infatti, ha la vita eterna (3,36), una vita che il Figlio può dare,
perché egli possiede in se stesso la pienezza di questa vita,
ricevuta dal Padre (5,26). Gesù si definisce pane di vita eterna
(6,35.48), capace di donarla a chiunque mangia, cioè crede e
accoglie in sè questo pane vivo (6,51.54). Perché, dunque, la vita
divina viene chiamata da Giovanni “grazia”? Il motivo ci sembra
di poterlo ravvisare nel fatto che tale vita divina non è ottenuta
per mezzo delle opere della Legge (v.17a), bensì è dono che sgorga
dalla misericordia e dall'amore gratuito di Dio, manifestatisi in
Cristo (v.17b). La grazia giovannea, pertanto, potremmo definirla
brevemente come “vita divina offerta e gratuitamente donata in
Cristo”. È una grazia, dunque, che parla di iniziativa divina, di
misericordia e di bontà.
Il termine grazia è
accoppiato significativamente al sostantivo “¢l»qeia”
(alétzeia, verità)39,
che ha una forte attinenza con la rivelazione e il manifestarsi di
Dio in Cristo Gesù, il quale è, egli stesso, la Verità di Dio, ne
è la Via che conduce a Lui, ne è la Vita stessa (14,6), per cui chi
vede lui vede il Padre, poiché i due sono una cosa sola (14,9-11). E
Gesù è venuto proprio rendere testimonianza a questa Verità, che
viene da Dio ed è nascosta agli uomini, ma resa accessibile in lui
(18,37b). Il contenuto di questa verità è la grazia stessa, cioè
il progetto salvifico del Padre di donare la sua vita, partecipandola
a tutti gli uomini, che hanno creduto nella Parola (3,16) ed hanno
deciso le loro vite per Dio, la cui grazia e verità si sono
manifestate in Cristo Gesù (17b).
Il v.16, con un
gioco di concatenamento, caratteristico di Giovanni40,
riprende e approfondisce quel “pieno di grazia e di verità” del
v.14e, annunciandone gli effetti sui credenti: “Poiché
dalla sua pienezza noi tutti prendemmo e grazia su
grazia”. Il v.16 è scandito da tre particelle, che ne determinano
il senso: “Óti”
(óti), “™k”
(ek), “¢ntˆ”
(antì). La prima particella “Óti”,
con cui si apre il v.16, ha un senso causale, per cui si può
tradurre con “poiché”, ma anche con “per questo che”,
che forse meglio ne spiega il senso. Infatti, il v.16 va agganciato
al v.14e, così che quel “Óti”,
quasi parafrasando il v.14e, spiega come sia stato possibile per
tutti noi attingere dalla sua pienezza: “pieno di grazia e di
verità […] per questo dalla sua pienezza noi tutti
prendemmo e grazia su grazia”. La seconda particella “™k”
(ek) indica l'origine da cui viene presa questa “grazia su
grazia”, qualificando la pienezza di Cristo come la fonte primaria
della vita divina, di cui è ripieno. Si tratta di una pienezza dal
sapore escatologico ed apocalittico, che indica in Cristo il
manifestarsi ultimo e definitivo sia della pienezza della divinità
che della pienezza di ogni potere divino, quasi a dire che in Cristo
il Padre ha riversato tutto se stesso, così che Gesù diventa lo
spazio storico in cui vive ed opera il Padre (14,9-11). In termini
simili si esprime l'autore della Lettera ai Colossesi in 1,19:
“Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza” e in
2,9: “È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della
divinità”.
La terza particella
“¢ntˆ” (antì)
collocata nell'espressione “c£rin ¢ntˆ
c£ritoj” (cárin antì cáritos) costituisce motivo
di dibattito tra gli studiosi41,
che ad essa attribuiscono un senso sostitutivo: “grazia
in luogo di grazia”, alludendo alla grazia portata da
Cristo, che sostituisce in modo definitivo quella veterotestamentaria
fondata sulla Torah. Questo senso troverebbe conferma dal successivo
v.17, in cui vengono poste a confronto due diverse economie di
salvezza. Vi è, poi, chi dà un senso accumulativo ad
“antì” traducendolo con “grazia su
grazia”, rifacendosi ad un testo di Filone, contemporaneo di
Giovanni, il De posteritate Caini, in cui “antì”
ha chiaramente questo senso. Vi è, infine, chi attribuisce ad “antì”
un senso di corrispondenza, per cui si avrà: “grazia
per grazia” o “grazia in cambio di grazia”. L'idea che sta
sotto a questa traduzione è che la grazia, di cui siamo stati
investiti, corrisponde a quella fluente dalla Parola.
La mia preferenza è
andata a cadere sulla seconda soluzione, quella cumulativa: “e
grazia su grazia”. Essa meglio esprime l'abbondanza della vita
divina, che ci è pervenuta dalla pienezza di Cristo; quel “kaì”,
inoltre, che introduce l'espressione “grazia su grazia”, accentua
il concetto cumulativo e, quindi, dell'abbondanza del dono della vita
divina sgorgante da questa pienezza. Anche il verbo “™l£bomen”
(elábomen, prendemmo) sottolinea il senso dell'abbondanza
escatologica, con cui il credente si è servito a questa pienezza di
vita, quasi ad un abbondante banchetto escatologico (Is 25,6), in cui
Cristo si è offerto, quale cibo di vita eterna, a tutti (6,31-35).
Il v.17 pone a confronto tra loro due economie di salvezza: la prima, fondata su Mosè ed ha il suo riferimento nella Torah; la seconda, fondata su Cristo ed ha come epicentro, attorno al quale ruota, la grazia e la verità, di cui Cristo è pieno (1,14e). La prima fondata sulla Legge e su frustranti sforzi umani; la seconda sul dono liberale della vita divina, manifestatasi e offerta in Cristo (3,16). Si tratta di due economie di salvezza che sono intrinsecamente diverse, benché non contrapposte, la cui diversità è evidenziata sia dai due verbi presenti nel v.17: “™dÒqh” (edótze, fu data), “™gšneto” (eghéneto, avvenne), entrambi posti all'aoristo, per indicare un evento storico; sia dai loro soggetti: la Legge e “la grazia e la verità”. Il primo verbo (edótze) è posto al passivo, lasciando intendere l'origine divina del dono42, mentre Mosè è lo strumento di cui Dio si è servito per passare agli uomini il suo dono. Il secondo verbo (eghéneto) non è posto al passivo, ma trova il suo soggetto primario e autoreferenziale nella “grazia e verità”, che esprimono l'essere stesso di Dio (cfr. v.14e), che si è manifestato e si è reso raggiungibile dagli uomini per mezzo di Gesù Cristo. In altri termini, Gesù è il luogo storico della manifestazione di Dio e del suo agire e con esso si identifica (14,9-11). I due verbi, inoltre, posti in sequenza, dicono come quel edótze abbia trovato la sua piena attuazione e il suo accadere definitivo nell'eghéneto. Il dono della Legge, proveniente da Dio (edótze), ha trovato la sua piena e definitiva attuazione (eghéneto) nella grazia e nella verità incarnate nella Parola. Si tratta, dunque, di due economie non contrapposte l'una all'altra, ma consequenziali e complementari l'una nell'altra. Si tratta di un unico atto divino, che ha avuto storicamente due tempi diversi, ma non contrapposti, così che il primo, preannunciando in sé il secondo, si è evoluto in esso. Giovanni, infatti, non presenta mai Mosè in contrapposizione o in concorrenza con Gesù, ma esso appare come figura di Gesù, che in qualche modo ha preannunciato43. Saranno le autorità religiose che contrapporranno Mosè a Gesù, anzi si serviranno proprio del primo per rifiutare il secondo44. Tuttavia sono ben diversi sia i contenuti che gli effetti di questi due tempi: il primo è fondato sulla Legge e sugli sforzi umani, destinati al fallimento; il secondo è fondato su Dio stesso e sulla sua offerta gratuita e incondizionata di perdono, manifestatasi e attuatasi in Gesù, che si ottiene solo per mezzo di una fede accogliente e non più per mezzo delle opere della Legge. Una fede che ha il potere di trasformare l'uomo nella profondità del suo essere, aprendolo alla filiazione divina (1,12-13). In altri termini, protagonista della storia della salvezza non è più l'uomo, chiamato con i suoi soli sforzi a conformarsi alla Legge, ma è Dio stesso, che elargisce gratuitamente e incondizionatamente la sua salvezza a chiunque crede, associandolo alla propria vita (3,16).
Paolo, scrivendo alla comunità di Roma (57/58 d.C.), pone a confronto queste due economie evidenziando la fragilità e il fallimento della prima e la potenza salvifica della seconda: “Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. Ora però siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e non nel regime vecchio della lettera. Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte” (Rm 7,5-11). In altri termini, Paolo afferma che la Legge ha messo a nudo tutta la fragilità dell'uomo, condannandolo nella sua insuperabile debolezza. Il compito della Legge, infatti, non era quello di guarire l'uomo dalla sua insanabile fragilità, ma di proporgli un parametro di confronto divino, che gli ha fatto prendere coscienza della sua profonda debolezza e del suo stato di peccato dominante, per cui l'uomo capisce ciò che è bene, ma da solo non è in grado di raggiungerlo e di consolidarlo stabilmente in se stesso. La salvezza autoreferenziale, pertanto, si è risolta per l'uomo in un fallimento. Per questo Paolo concluderà la sua appassionata riflessione sulla Legge esclamando amaramente: “Io, uomo misero! Chi mi salverà da questo corpo di morte?” (7,24). Sarà il cap.8 ad aprire l'uomo ad una nuova e luminosa prospettiva: “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne” (Rm 8,1-3). La salvezza dell'uomo, dunque, non è più frutto di sforzi umani, fondati sulla Legge, ma dono gratuito di Dio, che in Cristo Gesù ha tolto dall'uomo ogni condanna. L'uomo è salvo, dunque, non perché è bravo, furbo e intelligente, ma perché Dio lo ha perdonato in Cristo, ponendo come unica condizione l'accoglienza nella propria vita dell'offerta di salvezza, manifestatasi e attuatasi in Cristo e che ha come effetto primario la figliolanza divina dell'uomo.
I vv. 15.18 sono stati da me accoppiati per avere tra loro in comune un unico tema: la trascendenza e la divinità della Parola Incarnata, che Giovanni attesta nel v.15; mentre il v.18 dichiara la figliolanza divina della Parola Incarnata, qui colta come l'Unigenito di Dio, agganciandola, quindi, a quella contemplata nella sua eternità divina ai vv.1-2, creando in tal modo una identificazione tra la Parola Incarnata e quella Trascendente. Si forma così una sorta di inclusione tematica, che abbraccia e avvolge l'intero prologo poetico.
Il v.15, come per i vv.6-8, è da considerarsi un'interpolazione, poiché interrompe il ritmo poetico del Prologo per attestare la trascendenza della Parola Incarnata. Questo versetto, così interpolato, sembra avere un ruolo confermativo del v.14, in cui l'autore attestava sia la divinità (14ce) che la figliolanza divina della Parola (14d). Il v.15, pertanto, si rifà all'autorità della testimonianza del Battista per convalidare le affermazioni del v.14. Non è da escludersi in questo una certa nota polemica contro i battisti, che ritenevano il loro maestro superiore a Gesù, perché in ordine di tempo era venuto dopo il loro maestro e ne era seguace.
La testimonianza di Giovanni è preceduta da uno strano accoppiamento di un verbo al presente (marture‹, martireî, testimonia) con uno al passato (kškragen, kékraghen, gridò), lasciando intendere, da un lato, come le parole della testimonianza del Battista su Gesù, che egli pronunciò durante la sua missione di precursore, fossero ancora vive e attuali all'interno della comunità credente (questo dice l'uso del verbo al presente); dall'altro, come tale testimonianza si radichi negli eventi storici, che videro protagonista il Battista, dando in tal modo una sorta di certificato di garanzia e di autenticità alla testimonianza, che segue (questo dice il verbo posto al passato).
La testimonianza di Giovanni, riportata in 15b, è scandita in tre parti:
a) “Questi era colui di cui dissi”, letteralmente “Questi era colui che dissi” (Ön e‹pon, òn eîpon), in cui il “dissi” assume la valenza di annunciare e di testimoniare; il “Questi”, in quanto pronome dimostrativo, sostituisce un nome, di cui il Battista dà testimonianza e questi altro non può che essere il soggetto del v.14, il Verbo Incarnato. Il pronome greco “Oátoj” (Ûtos, Questi) è posto, infatti, al maschile con riferimento alla Parola divenuta carne del v.14, anche questa, in greco, è al maschile (Ð lÒgoj, o logos, la Parola). Questa espressione, pertanto, si aggancia al v.14 e ne diviene una testimonianza confermativa, posta sotto l'autorità del Battista.
b) “colui che viene dopo di me, divenne prima di me”, un'espressione questa molto densa, che pone in raffronto, su di un piano meramente storico, il Battista con la Parola Incarnata e che l'autore riprenderà, pari pari, in 1,30, formando inclusione. Essa viene definita con un participio presente “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, colui che viene), che nel linguaggio biblico neotestamentario indica il messia atteso; il richiamo messianico, dunque, è evidente: la Parola Incarnata va colta come il Messia; ma nel contempo quel venire “dopo di me” (Ñp…sw mou, opíso mu) esprime una successione temporale nella storia della salvezza, che definisce Giovanni come il precursore e il testimone della Parola Incarnata; ma forse allude anche al particolare rapporto, che intercorreva tra Giovanni e Gesù: quel opíso mu, infatti, significa sia “dopo di me”, che, in pari modo, anche “dietro di me” ed è un'espressione tecnica usata nei vangeli per indicare la sequela del discepolo nei confronti del maestro. Nei primi tempi della sua attività pubblica, infatti, vediamo un Gesù seguace del movimento escatologico battista (3,22.26; 4,1), anche se in 4,2 l'autore, non proprio in modo disinteressato, come vedremo, attesta che non era Gesù a battezzare, bensì i suoi discepoli.
All' “opíso mu”, quasi per un gioco di parole e di contrasti, si contrappone l' “œmprosqšn mou” (émprostén mu), “prima di me”. Quel “prima di me” non allude ancora ad una trascendenza, ma si muove sempre all'interno del quadro storico del confronto tra Giovanni e Gesù. Il verbo che regge “émprostén mu” è un perfetto (gšgonen, ghégonen, divenne) e indica un'azione che ha avuto un inizio storico, ma che persiste anche nel presente. Nella mia traduzione ho preferito usare il verbo “divenne”, perché meglio esprime l'emergere graduale della figura di Gesù e del suo apparire in mezzo agli uomini. Rispetta meglio, dunque, le logiche della storia, che non conosce salti improvvisi e miracolistici e alle cui logiche la Parola si è sottoposta pienamente, accettando l'incarnazione. In quel “divenne prima di me” vi è, inoltre, il riconoscimento di una grandezza che sta emergendo e che Giovanni in 3,30 riconoscerà come facente parte di un piano divino: “Bisogna (de‹, deî) che quello aumenti, che io invece sia diminuito”.
c) “poiché era prima di me”. Questa espressione si apre con un “Óti” (óti, poiché) causale, che spiega perché la Parola Incarnata è divenuta prima di Giovanni e, quindi, ha una grandezza, anche su di un piano storico, superiore a quella di Giovanni. La spiegazione, qui, ci trasferisce da un piano storico ad uno transtorico. Cambiano, infatti, radicalmente i termini, che indicano il primato: si passa da un “prima” storico, espresso con l'avverbio “émprosten” ad un “prima” trascendente, espresso non più con un avverbio, bensì con un attributo, “prîtÒj” (prôtos), che qualifica la natura e l'essere del soggetto a cui si riferisce. La differenza, qui, tra “émprosten” e “prôtos” è sostanziale, poiché se il primo indica una successione storica, il secondo parla di un “prima” che va ben al di là della storia, poiché indica un inizio, un'origine in senso assoluto e che ci riconduce ai vv.1-2 del Prologo. La Parola Incarnata, dunque, viene definita come colei che è “Prima” (prîtÒj), lanciando con quel “prîtÒj” un forte richiamo ai vv. 1,17 e 2,8 dell'Apocalisse, in cui il Risorto (2,8c) si autodefinisce (1,7) e viene definito (2,8) come “il Primo e l'Ultimo” (Ð prîtoj kaˆ Ð œscatoj, o prôtos kaì o éscatos).
Il v.18, che conclude il prologo innico, si ripropone come finalità primaria quella di accreditare a Gesù, colto come la Parola Incarnata, la massima credibilità riguardo alle cose di Dio e, quindi, attribuirgli la qualifica di testimone privilegiato di Dio, a motivo del suo rapporto unico ed esclusivo con Dio stesso, che gli è Padre, e di cui, per questo, è l'esegeta credibile, cioè “quello che lo ha spiegato” (™ke‹noj ™xhg»sato, ekeînos exeghésato). Con questo versetto Giovanni fornisce al suo lettore la chiave di lettura dell'intero vangelo, aiutandolo a comprendere la figura, la parola e l'operare di Gesù come azione rivelativa del Padre, che lo interpella in prima persona e che, quindi, gli chiede di prendere esistenzialmente posizione.
Il versetto è divisibile in tre parti:
a) una negazione perentoria e assoluta, che esclude ogni possibile concorrenza, rimarcata da quel “Nessuno ... mai” (oÙdeˆj ... pèpote, udeìs … pópote), aprendo in tal modo la strada all'unicità ed esclusività della peculiare testimonianza di Gesù: “Nessuno ha mai visto Dio”. L'espressione si richiama alla tradizione biblica, che ha sempre escluso la possibilità per l'uomo di poter vedere Dio e rimanere vivo. Il richiamo a Mosè, di cui al v.17, è stato probabilmente l'ispiratore dell'apertura del v.18. In Es 33,18-23, infatti, Dio respinge la pretesa di Mosè di vedere la sua gloria: “Gli disse: <<Mostrami la tua Gloria!>>. Rispose: <<Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia>>. Soggiunse: <<Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo>>. Aggiunse il Signore: <<Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere>>”.
b) la natura della Parola Incarnata, colta nella sua relazione privilegiata ed esclusiva con il Padre costituisce la seconda parte del v.18, che presenta le credenziali della Parola stessa, le quali, nel contempo, forniscono anche la motivazione della sua credibilità. La Parola Incarnata viene qui definita come “l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre”. Con l'espressione “Unigenito di Dio” viene esclusa ogni possibilità di fraintendimento circa la figliolanza divina della Parola Incarnata. Essere figli di Dio era una peculiarità degli appartenenti al popolo d'Israele45, ma l'essere Unigenito Dio significa parlare di una generazione divina diretta, non più metaforica. Una generazione che non nasce per elezione, ma per intrinseca e propria dinamica interna di Dio, come suggerisce il successivo “kólpon” (seno, utero); significa, pertanto, riconoscere che essa è l'unica uscita da Dio46, di cui possiede il DNA e, pertanto, l'identica natura. Significa che, in quanto generata direttamente da Dio, Dio le è Padre e lei ne è Figlia, stabilendo tra i due una relazione privilegiata, unica ed esclusiva, definita dalla seconda parte del v.18b: “Ð ín e„j tÕn kÒlpon toà patrÕj” (o òn eis tòn kólpon tû patròs, colui che è nel seno del Padre). Significativi sono i due termini: “Ð ín e„j”, il participio presente del verbo essere “òn”, che indica una condizione di vita, uno stato dell'essere, preceduto dall'articolo determinativo “o” e seguito dalla particella “eis”; e “kólpon”. Quanto alla prima espressione, essa delinea il dinamico orientamento, per propria natura, della Parola Incarnata, definita letteralmente come “l'ente rivolto verso” o che “si muove dentro”. La particella “eis”, infatti, è una preposizione che indica moto e direzione, per cui si può correttamente tradurre con “verso, in, a, dentro”, ma sempre in senso dinamico. La Parola Incarnata, pertanto, non è soltanto colei che si trova presso Dio e rivolta a Dio, come ricorda quel “prÕj tÕn qeÒn” (pròs tòn tzeón) ripetuto due volte nei vv.1-2, ma è anche colei che si muove all'interno della più profonda intimità del Padre, definita con il termine “kólpon”, che significa seno, grembo, utero, viscere materne; quanto, dunque, c'è di più intimo e materno in una donna. Ed è proprio questo suo essere nelle profonde intimità del Padre, il quale le è anche madre, che insignisce la Parola Incarnata di testimone privilegiato del Padre, per la sua profonda conoscenza, che è essenzialmente esperienza del Padre.
c) La missione della Parola, esegeta del Padre viene sinteticamente indicata nella terza parte del v.18: “™ke‹noj ™xhg»sato” (ekeînos exeghésato), “quello (lo) mostrò”. Già l'uso del pronome “ekeînos”, caratteristico in Giovanni47, qualifica l'azione espressa dal verbo “exeghésato”, il cui soggetto è “ekeînos”, cioè “quella” Parola di cui si è detto qui sopra, nella seconda parte del v.18. La testimonianza di un tale soggetto, pertanto, è credibile perché altamente qualificata dalla sua natura, di generazione divina, e dal suo esclusivo e privilegiato rapporto con il Padre. Significativo è quel “exeghésato”, un verbo posto all'aoristo, che rimanda a quel tempo storico in cui ha operato la Parola Incarnata e che ci radica alle origini e all'evento della nostra fede. Il verbo greco, che ho tradotto con “mostrò” per sottolineare la natura rivelativa del Quarto Vangelo, ha tuttavia anche altri significati simili, che approfondiscono le diverse sfaccettature di “exeghésato” (mostrò): “esporre, spiegare, dare spiegazioni, raccontare, narrare, descrivere, dichiarare”. Per questo la Parola Incarnata può essere qualificata come l'esegeta del Padre.
IL LIBRO DEI SEGNI
IL PROLOGO NARRATIVO (1,19-2,11)
Note generali
Dopo l'ardita contemplazione della Parola, colta sia nel suo eterno splendore di gloria divina (vv.1-5.18b), sia nel suo farsi carne (v.14a) e nel suo dispiegarsi storico (v.9), provocando diverse e contrapposte reazioni di indifferenza (v.10), di rifiuto (v.11) e di accoglienza (vv.12-13.14b); dopo averne cantata la missione rivelatrice (v.18c) e salvifica (v.16-17), Giovanni con il v.19, dismessi i panni del cantore lirico del Logos eterno ed incarnato, introduce il suo lettore in un nuovo contesto storico, in cui la narrazione prende il posto della poesia e della lirica, benché l'intero vangelo giovanneo sia un incessante canto lirico al Verbo Incarnato, da cui traluce inconfondibile la sua divinità.
Con il v.19 l'autore si riaggancia, ma in modo del tutto personale e singolare, alla tradizione sinottica, che suole introdurre il racconto su Gesù con la figura del Battista e la sua predicazione, il battesimo di Gesù, le tentazioni nel deserto e la chiamata dei primi discepoli. Di tutta questa sequenza in Giovanni rimane ben poco. La predicazione escatologica del Battista viene sostituita dalla sua testimonianza (vv.19-34); la descrizione della sua figura austera viene completamente oscurata; il battesimo di Gesù è soltanto richiamato vagamente e indirettamente (vv.32-33); il racconto delle tentazione è omesso, mentre viene dato ampio spazio al racconto della formazione del gruppo dei primi discepoli (vv. 1,35-2,11), benché il quadro narrativo cambi radicalmente: nei Sinottici i primi discepoli sono quattro (soltanto tre in Luca: 5,1-11) e tutti direttamente chiamati da Gesù in riva al lago, mentre erano intenti al loro lavoro di pescatori; in Giovanni nessun accenno all'attività dei primi chiamati, anzi sembra che questi avessero già dismesso la loro attività lavorativa per seguire il Battista, dal cui gruppo essi provengono (vv.35-37); il gruppo, inoltre, si forma non per chiamata diretta bensì per passa parola (vv.41-42.45-46); soltanto Filippo viene chiamato direttamente da Gesù (v.43). I discepoli, poi, non sono tre o quattro, ma cinque; vengono introdotti due nomi nuovi: Filippo e Natanaele (vv.43.45), mentre il nome di uno dei cinque viene taciuto (v.40). Coincidono con i Sinottici soltanto i nomi dei due fratelli, Andrea e Simone, mentre non vengono menzionati i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni.
Già da questa breve introduzione si intuisce come l'ampia sezione del prologo narrativo (1,19-2,11) si sviluppa attorno a due nuclei fondamentali, strettamente intrecciati l'uno all'altro:
a) la testimonianza del Battista (vv.19-34);
b) la formazione del primo gruppo dei discepoli (vv.1,37-2,11).
I vv.35-37 fungono sia da transizione da un nucleo narrativo all'altro che da loro collegamento, dando continuità logica e temporale ai due tempi salvifici, veterotestamentario e neotestamentario, in cui l'uno confluisce nell'altro, trovando in questo la sua pienezza. Quanto all'unità narrativa 2,1-11, essa si sviluppa come una propaggine complementare del secondo nucleo (b) e conclusiva del prologo narrativo, ma nel contempo come elemento narrativo di transizione alla vita pubblica di Gesù. Gesù, sua madre e i suoi primi discepoli, che formano la prima comunità messianica, sono inseriti nel contesto delle nozze messianiche dei tempi nuovi, in cui Gesù mostrerà loro la sua gloria (v. 2,11b), che essi contempleranno. Un forte richiamo a 1,14.
La novità dei tempi
messianici, già presenti in qualche modo nella testimonianza del
Battista, sono scanditi da Giovanni secondo una sequenza temporale di
sette giorni, raccolti in cinque quadri, che richiamano da vicino la
settimana della creazione genesiaca, facendo dell'evento Gesù e
della nuova comunità messianica una nuova creazione:
1) primo giorno (1,19-28): l'identità di Giovanni: egli è una voce che grida la sua testimonianza;
2) secondo giorno (1,29-34): l'identità di Gesù e il senso della sua missione: egli è l'Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo (v.29b), nonché Figlio di Dio (v.34b), ripieno di Spirito Santo (v.32.33); senso e finalità della missione di Giovanni (vv.31.34);
3) terzo giorno (1,35-42): i primi discepoli: da Giovanni a Gesù (vv.35.37); precisazioni sull'identità di Gesù: egli è l'Agnello di Dio (v.36b) e il Messia, detto Cristo (v.41);
4) quarto giorno (1,43-51): altri discepoli aderiscono a Gesù. Altre indicazioni sull'identità di Gesù: egli è il preannunciato dalle Scritture (v.45), il figlio di Giuseppe (v.45), figlio di Dio e re d'Israele (v.49);
5) settimo giorno (2,1-11): le nozze di Cana, in cui avviene il primo segno. Se questo segno, da un lato, conclude il prologo narrativo, dall'altro, apre, con l'espressione “a Cana della Galilea”, una nuova sezione narrativa, caratterizzata dall'inclusione data dalla citata espressione in 2,11 e in 4,46, tradizionalmente definita come “sezione da Cana a Cana”
Primo Quadro e primo giorno: l'identità di Giovanni (vv. 1,19-28)
Testo
19-
E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei inviarono a
lui da Gerusalemme sacerdoti e Leviti affinché lo interrogassero:
<<Tu chi sei?>>;
20-
e confessò e non negò, e confessò che <<Io non sono il
Cristo>>.
21-
E lo interrogarono: <<Che cosa, dunque? Tu sei Elia?>>; e
dice: <<Non (lo) sono>>. <<Sei tu il profeta?>>.
E rispose: <<No>>.
22-
Gli dissero dunque: <<Chi sei? Affinché diamo una risposta a
quelli che ci hanno mandato: che cosa dici di te stesso?>>.
23-
Dichiarò: <<Io (sono) voce di colui che grida nel deserto:
raddrizzate la via del Signore>>, come disse il profeta Isaia.
24-
E degli inviati erano dai Farisei.
25-
E lo interrogarono e gli dissero: <<Perché, dunque, battezzi
se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?>>.
26-
Rispose loro Giovanni dicendo: <<Io battezzo in acqua; in mezzo
a voi ci sta (uno), che voi non conoscete,
27-
colui che viene dietro di me, del quale io non sono degno di
sciogliere la striscia di cuoio del suo sandalo>>.
28-
Queste cose avvennero in Betania, al di là del Giordano, dove c'era
Giovanni che battezzava.
Note generali
La pericope (vv.19-28) riguarda la testimonianza che Giovanni dà su se stesso alle autorità religiose. Essa si sviluppa su due parti: la prima (vv.19-23) riguarda l'identità di Giovanni ed è caratterizzata dalla presenza delle espressioni “Chi sei?”, “Sei tu …?”, “Io non sono” o “Io sono”; la seconda (vv.24-28) riguarda l'attività del Battista: il significato del suo battezzare e la sua sibillina e, come vedremo, allusiva testimonianza.
La pericope, che introduce alla figura del Battista e al prologo narrativo, si apre, in modo anomalo e tronco, con una congiunzione, “Kaˆ” (Kaì, E), che, in quanto tale, presuppone che essa leghi il testo seguente ad uno precedente. Non si può dire che il testo precedente sia il prologo poetico, poiché ben diverse sono le due nature e le finalità dei due prologhi. A cosa, dunque, quel “Kaì” lega il prologo narrativo? Molto probabilmente ai vv. 6-8, che erano stati da noi definiti come interpolati nel prologo poetico48. Essi dovevano formare inizialmente l'apertura del vangelo di Giovanni, mentre il v.15 è stato duplicato dal v.30. Pertanto, l'apertura originale del vangelo giovanneo doveva suonare in questo modo:
Venne
un uomo, inviato da Dio, egli (aveva) nome Giovanni;
questi
venne per testimonianza, per testimoniare sulla luce, affinché tutti
credessero per mezzo di lui.
Non
era quello la luce, ma (venne) per testimoniare sulla luce. (vv.6-8)
[...]
E
questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei inviarono a
lui da Gerusalemme sacerdoti e Leviti affinché lo interrogassero:
<<Tu chi sei?>> (v.19) …..
Il contesto, nel
delineare l'identità e l'attività del Battista, assume sfumature
giuridiche; l'aria che qui si respira è quella dell'ufficialità. Si
parla, infatti, di Sacerdoti e Leviti (v.19b), di Farisei (v.24),
inviati da Gerusalemme; il tono è inquisitorio (v.19c). Ci troviamo,
quindi, di fronte ad una sorta di commissione d'inchiesta, che deve
raccogliere informazioni per poi riferire all'autorità centrale, da
cui è stata inviata (v.22). Significativa, in tal senso, è la
chiusura della pericope (v.28), che rileva il luogo dove è avvenuto
l'interrogatorio, quasi che si fosse di fronte ad un documento di
tipo giuridico, sul quale si deve annotare scrupolosamente il
contesto in cui sono avvenuti i fatti.
La ricerca dell'identità
del Battista si accentra su tre figure veterotestamentarie, le quali,
secondo la tradizione giudaica, avevano a che fare con gli ultimi
tempi e la costituzione del regno di Dio in mezzo ad Israele. Ma
nessuna di queste si adatta al Battista. La sua identità, quindi, si
svincola dalle tradizioni e dalle attese di Israele, per collocarsi
in un'area completamente nuova, come nuovo è il messaggio che sta
gridando in mezzo al suo popolo; come nuovo e completamente inatteso
è il personaggio, su cui egli sta rendendo testimonianza. La
testimonianza, dunque, ha colto di sorpresa Israele, le cui attese
furono elaborate lungo i secoli, ma pensate secondo schemi umani. I
progetti di Dio non sono come gli uomini li pensano, poiché abissale
e incolmabile è lo scarto che intercorre tra Dio e l'uomo; lo
ricordava Jhwh al suo popolo: “Perché i miei pensieri non sono i
vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del
Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri
pensieri” (Is 55,8-9). Fu proprio questo scarto e la presunzione di
avere in mano il sapere di Dio (la Torah scritta e orale), che,
paradossalmente, portò Israele al rifiuto di Dio, che si presentò a
lui secondo schemi e parametri diversi da quelli che la Tradizione
aveva elaborato e che Gesù taccerà come precetti di uomini (Mt
15,9; Mc 7,7).
Commento a Gv 1,19-28
Il v.19 si apre con un'affermazione categorica, che funge da titolo e da tema dell'intera pericope: “questa è la testimonianza di Giovanni”. Il termine testimonianza e testimoniare ricorre nei primi 34 versetti del primo capitolo sette volte49 e ha a che fare con la sola figura di Giovanni, che in tal modo viene relegato alla funzione di mero testimone della Parola Incarnata. Quasi certamente questa insistenza cela una nota polemica nei confronti dei discepoli del Battista, che probabilmente avanzavano pretese di messianismo a favore del loro maestro, messo in concorrenza con Gesù e il suo discepolato (3,26; 4,1-3). Similmente il non identificare il Battista con il Cristo, Elia o il profeta lo esclude dalle attese della tradizione giudaica, relegandolo di fatto al suo ruolo principale di testimone, su cui tanto si insiste, e, quindi, di precursore della vera luce, che illumina gli uomini; la sua, pertanto, è una posizione di subordine a Gesù, risultando in sua funzione. In tal modo la testimonianza, che Giovanni dà su se stesso e sulla sua attività battezzatoria, prepara il campo a Gesù, sgombrandolo dalla propria presenza e da qualsiasi altra pretesa. Significativo è quanto l'autore del QV metterà sulla bocca del Battista, il quale ai suoi discepoli, che si lagnavano della concorrenza di Gesù nel battezzare, risponderà: “Bisogna che quello aumenti, che io invece sia diminuito. Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; colui che è dalla terra è dalla terra e parla dalla terra. Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti;” (3,30-31). Si tratta, dunque, di una testimonianza tutta a favore di Gesù e grazie alla quale la figura del Battista ne uscirà circoscritta e ridimensionata, per lasciare spazio a quella di Gesù.
Tale testimonianza viene data “quando i Giudei inviarono a lui da Gerusalemme sacerdoti e Leviti affinché lo interrogassero”. Questa seconda parte del v.19 fornisce il contesto giuridico entro cui avviene la testimonianza, che proprio per tale contesto, assume i contorni dell'ufficialità e della veridicità provata. Il termine Giudei, che in Giovanni si carica molto spesso di una connotazione negativa, divenendo sinonimo di incredulità invincibile, fa qui riferimento alle autorità giudaiche50. La commissione d'inchiesta è formata da sacerdoti e leviti51, cioè persone preposte al culto, i primi, e alla cura del Tempio e al servizio dei sacerdoti, i secondi. Si trattava, comunque di persone esperte di abluzioni, di purificazioni e di purità (Lv 11-15) e, quindi, in grado di valutare l'operato del Battista. La purificazione e la purità, tuttavia, non riguardavano soltanto aspetti meramente fisici, ma assumevano anche contorni spirituali e morali, per cui si rendeva necessario, una volta all'anno, nello Yom Kippur, nel giorno dell'espiazione, celebrare un rito di perdono per le proprie colpe (Lv 16), amministrato dai sacerdoti. Giovanni battezzava, cioè esercitava pubblicamente un'attività, che aveva a che fare con le abluzioni e la purificazione, riservata ai sacerdoti. La sua attività battezzatoria, infatti, aveva una valenza di penitenza e di conversione (At 13,24; 19,1-5). A questo aspetto meramente rituale se ne aggiungeva, probabilmente, un altro di ordine pubblico. Erano tempi, quelli, in cui sorgevano con frequenza sedicenti messia, che, smuovendo la creduloneria delle masse, sobillavano il popolo, provocando sanguinosi interventi repressivi di Roma52. Un accenno in tal senso ci viene fornito dallo stesso Giovanni in 11,47-50: “I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>. Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote di quell'anno, disse a loro: <<Voi non capite niente, né considerate che a voi giova che un uomo muoia in favore del popolo e non che tutto il popolo perisca>>”53. Giustificata, quindi, o, quantomeno, verosimile la costituzione di una commissione d'inchiesta su Giovanni e la sua attività.
vv.20-21. Il v.20 fa seguito alla domanda, che evidenzia il tema di questa prima parte (vv.19-23): la ricerca dell'identità del Battista, espressa da quel sintetico “Tu chi sei?”, che risuonerà in vario modo fino al v.23. La risposta-testimonianza è introdotta da un giro di parole, unico in Giovanni, che il Brown liquida tout-court come una tautologia redazionale54, ma che un'attenta analisi potrebbe portare ad una diversa conclusione: a) i due verbi “æmolÒghsen” (omológhesen, confessò), ripetuto due volte, e “oÙk ºrn»sato” (uk ernésato, non negò), sono verbi propri, anche se non esclusivi, del linguaggio giuridico; b) il contesto in cui essi sono inseriti è quello di una confessione, a cui il Battista non può sottrarsi (v.22), ma che deve rilasciare ad una commissione d'inchiesta legalmente costituita, che deve, d'autorità, stabilire la sua identità e il significato della sua attività battezzatoria; c) l'inchiesta, a mo' di un documento legale, termina con l'indicazione del luogo in cui è avvenuta . Il contesto in cui avviene la testimonianza, dunque, è quello proprio legale. L'espressione, pertanto, “e confessò e non negò, e confessò” che introduce la confessione del Battista va colta, a nostro avviso, come una sorta di formula di giuramento, che imprime alla confessione stessa il sigillo della veridicità e, quindi, della credibilità55.
La prima risposta è rivelatrice: “Io non sono il Cristo”. Nessuno gli aveva chiesto, come diversamente avviene per il successivo v.21, se egli fosse il Cristo, cioè il messia. Giovanni, tuttavia, comprende bene le intenzioni di quella commissione d'inchiesta, che sta indagando su di lui; ne comprende le ragioni e i timori e, pertanto, sgombra il campo, negando la sua messianicità56, ma nel contempo l'autore manda a dire ai battisti che il loro Maestro non è il messia atteso e lo fa proprio per mezzo suo, rintuzzando in tal modo le loro pretese57. L'indagine sull'identità di Giovanni prosegue con il v.21, accertando che egli non né Elia né il profeta. Anche queste due figure sono strettamente legate alle attese messianiche ed escatologiche, la cui presenza avrebbe significato l'imminente avvento del Messia e con lui la fine dei tempi e la restaurazione del regno d'Israele. Secondo una tradizione attestata da 2Re 2,11 Elia non morì, ma fu rapito da un carro di fuoco. Proprio questa sparizione misteriosa, che introdusse Elia nel mondo del divino, alimentò nel tempo l'idea che egli sarebbe ritornato per annunciare l'avvento del Messia e la restaurazione del Regno di Dio in mezzo ad Israele. Traccia di questa tradizione si trova in Malachia (450 a.C.) sia in 3,1, in cui si parla di un anonimo messaggero, che viene mandato a preparare la via del Signore; sia in 3,23, in cui l'anonimo messaggero assume il volto di Elia: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io venendo non colpisca il paese con lo sterminio” (Ml 3,23-24). La figura di Elia, dunque, assunse una valenza messianica e venne identificato da Marco e da Matteo con il Battista58, mentre Luca, più vicino a Giovanni, attesta soltanto che il Battista si muoveva con lo spirito e la forza di Elia (Lc 1,13-17). Giovanni nega, invece, anche questa possibilità: il Battista non è l'atteso Elia. Le contraddizioni e le dissonanze all'interno degli evangelisti non vanno mai radicalizzate, tenendo sempre presente che non ci troviamo di fronte a delle attestazioni storiche e tantomeno cronachistiche, ma a dei semplici racconti, finalizzati a smuovere alla fede gli uomini e a rafforzarla nelle comunità dei primi credenti. Ogni evangelista, pertanto, si muoveva secondo gli interessi teologici e contingenti propri. Volerne fare una questione storica o di critica letteraria mi sembra eccessivo. Le cose, in genere, vanno in modo più semplice di quello che si pensa. Comunque, se una scelta si dovesse fare, propenderei senza alcun dubbio per Luca, che forse ha saputo dare il giusto significato alla figura del Battista: egli era animato dallo spirito di Elia. Escludo Marco e Matteo, perché, in quanto ebrei, troppo condizionati dalla tradizione e dalla stessa formazione delle loro comunità, quasi interamente giudeocristiana quella di Matteo, mista quella di Marco; escludo inoltre Giovanni, perché troppo preso dalla sua polemica contro i battisti.
La terza domanda verte su di un'altra figura messianica, ricorrente nella tradizione giudaica, quella del Profeta. Una tradizione che trae la sua origine da Dt 18,15-18: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore tuo Dio, sull'Oreb, il giorno dell'assemblea, dicendo: Che io non oda più la voce del Signore mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia. Il Signore mi rispose: Quello che hanno detto, va bene; io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò”; e che in qualche modo risuona anche in 1Mac 4,46 e 14,41: “e riposero le pietre sul monte del tempio in luogo conveniente finché fosse comparso un profeta a decidere di esse”; e ancora: “[...] i Giudei e i sacerdoti avevano approvato che Simone fosse sempre loro condottiero e sommo sacerdote finché sorgesse un profeta fedele”. Il tema del Profeta atteso viene ripreso nuovamente da Giovanni in 6,14 e 7,40 riferendolo a Gesù. Forse una traccia, simile a quelle di Giovanni, si può trovare anche in Mt 21,11: “E la folla rispondeva: "Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea”. Tutti segnali questi che stanno ad indicare come le attese messianiche di questo Profeta fossero ancora molto vive e presenti in mezzo al popolo ai tempi di Gesù.
Con i vv.22-23 si entra nel vivo della questione. Escluso Giovanni dalle attese messianiche, proprie della tradizione giudaica e, proprio per questo, più pericolose per l'ordine pubblico, si apre nuovamente la questione per la commissione d'inchiesta: chi è veramente il Battista, considerato che egli non si colloca in nessuna posizione definita dalla tradizione. Qualcosa di nuovo sta comparendo all'orizzonte, un qualcosa che, tuttavia, non è del tutto nuovo, poiché Giovanni definirà la sua identità con le parole stesse di Isaia. Ci si trova, dunque, di fronte ad un modo nuovo di rileggere le Scritture, che aprono a nuovi orizzonti e nuovi scenari inattesi o, quanto meno, non attesi così come tradizionalmente si sono pensati. Proprio per questo il “Chi sei?”, con cui si apre il v.23, viene subito corretto con quel “che cosa dici di te stesso?”. Là dove le diverse tradizioni, le diverse attese messianiche e le diverse comprensioni scritturistiche hanno sistematicamente fallito nell'identificazione del Battista, si rende necessario tralasciare la tradizione per poter accedere alla comprensione del nuovo che sta per sorgere. Un nuovo che, tuttavia, non è completamente tale, poiché le Scritture in qualche modo ne avevano già parlato (Gv 20,9; Lc 24,27), ma che l'eccessiva selettività della Tradizione e la sua rigida dottrina condizionante ne aveva impedito la piena comprensione. Spesso gli evangelisti riportano i modi propri della tradizione giudaica nel comprendere il messianismo e il messia, comprensioni che non collimavano affatto con la figura di Gesù e che, anzi, scandalizzavano. Lo stesso Battista imprigionato manderà i suoi discepoli da Gesù per chiedere se è lui colui che deve venire o se si debba aspettare un altro (Mt 11,3; Lc 7,19-20); la gente si interroga su chi è Gesù, ne intuisce la grandezza, ma non ne comprende l'origine59; Natanaele disdegna l'approccio con Gesù perché proviene da Nazareth (Gv 1,46); si ritiene che il Messia sia inconoscibile, mentre di Gesù si conosce tutto e, quindi, non può essere lui (Gv 7,27); così la sua provenienza galilaica determina la sua esclusione da qualsiasi tipo di messianismo (Gv 7,52). Tutte comprensioni elaborate dalla Tradizione, ma del tutto insufficienti per spiegare le novità che stanno per accadere. Anche il Battista attinge inaspettatamente da Is 40,3-5. Già il Maestro di Giustizia fece ricorso a questi versetti per operare la sua scelta escatologica, ritirandosi nel deserto, dove fondò la comunità essenica di Qumran, tutta protesa verso i tempi messianici e l'avvento di Jhwh (135 a.C.-70 d.C.). Il contesto deuteroisaiano, da cui il Battista trae l'inattesa definizione di se stesso, è quello di un popolo in schiavitù a Babilonia (597-538 a.C.) a cui è preannunciata la liberazione. Qui risuona, dunque, la voce del Deuteroisaia60, voce di Jhwh che annuncia al popolo la fine della sua lunga schiavitù. Ecco perché il Battista non è il Cristo, non Elia, non il Profeta; nessuna di queste figure, elaborate dalla Tradizione gli si addice. In lui risuona, invece, la voce di Isaia allorché annunciava al popolo la sua liberazione. Non è la Parola, ma ne è la voce, che come allora, così oggi grida al popolo la sua liberazione da parte di Jhwh, creando in tal modo un parallelismo tra il contesto deuteroisaiano e quello in cui Giovanni si trova a predicare l'avvento di una nuova liberazione, così come allora: “<<Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati>>. Una voce grida: <<Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato>>. Una voce dice: <<Grida>> e io rispondo: <<Che dovrò gridare?>>. [...] Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: "Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono” (Is 40,1-6a.9-10). Questo è il contesto a cui il Battista si richiama, facendo risuonare nella sua voce quella del Deuteroisaia. Una nuova figura, non contemplata dalla Tradizione, la quale, di fronte a Giovanni e alla sua predicazione, rimase incapace di una qualsiasi comprensione (Mt 21,25.32; Mc 11,31; Lc 20,5), ma lo rigettarono, definendolo indemoniato (Mt 11,18; Lc 7,33).
vv.24-27. Appurato che Giovanni esula dalle figure messianiche tradizionali, collocandosi in un'area scritturistica, quella del Deuteroisaia, del tutto inattesa dalla Tradizione (vv.19-23), ora l'attenzione si accentra sull'attività del Battista e fornisce all'autore l'occasione per una prima testimonianza sul Messia atteso. L'attenzione, quindi, si sposta dal Battista ad un anonimo personaggio, che qui viene definito in tre movimenti, ma la cui figura emergerà lentamente e gradualmente, sempre più nitida, man mano che scorrono i vv.29-51:
a) è uno che sta in mezzo al suo popolo, ma da questo non è conosciuto;
b) è uno al seguito di Giovanni e che si affermerà dopo di lui;
c) la grandezza di questo tale sorpassa di gran lunga quella del Battista.
Anonimato e grandezza caratterizzano questo personaggio, che in qualche modo sembra, a diversità del Battista, inserirsi nelle logiche della Tradizione, che pensava ad un messia nascosto, di cui abbiamo anche un'eco in Gv 7,2761 e nel Dialogo con Trifone (II sec.): “Quanto al Messia, anche se è nato ed esiste effettivamente da qualche parte, è uno sconosciuto” (Dialogo VIII,4).
Il v.24, creando uno stacco narrativo, che prelude all'introduzione di una diversa tematica, presenta una nuova categoria di personaggi, che compaiono per la prima volta nel vangelo giovanneo: i Farisei. Con questo apprendiamo che la commissione d'inchiesta inviata dalla autorità giudaiche era formata non soltanto da sacerdoti e leviti, ma anche da Farisei o, comunque, da persone provenienti dalla loro area, come suggerisce la particella ™k (ek, da), che indica l'origine, la provenienza. All'origine, dunque, di questa commissione d'inchiesta vi sono due gruppi: i Sacerdoti e i Farisei, che qui compaiono per la prima volta. Ci stanno loro sotto agli anonimi Giudei, che inviarono la commissione d'inchiesta (v.19b). La citazione di questi due gruppi è significativa poiché, a differenza dei Sinottici, Giovanni ravvisa esclusivamente in loro i nemici irriducibili di Gesù e che assieme complotteranno contro di lui fino a farlo morire62. Non a caso il termine Farisei ricorre nel vangelo giovanneo 20 volte, mentre quello di sacerdoti compare 22 volte e come gruppo unico complottante 5 volte. Per Giovanni, dunque, sono loro i principali responsabili dell'avversione verso Gesù. Scompaiono, invece, completamente il gruppo degli Anziani e degli Scribi, che, invece, nei Sinottici hanno una parte attiva nei complotti contro Gesù ed essi, assieme ai sacerdoti, sono i fautori della sua morte. Diversamente da Giovanni, i Sinottici non assegnano nessun ruolo attivo ai Farisei nella morte di Gesù.
Il v.25 introduce il nuovo tema: il significato dell'attività battezzatoria di Giovanni. Si tratta di una domanda deduttiva e coerente con quanto dichiarato precedentemente dal Battista circa la sua identità. Quel “T… oân” (Tí ûn, perché, dunque), con cui si apre la richiesta dei Farisei, aggancia, infatti, la domanda all'identità di Giovanni e da qui trae le sue conclusioni: “Perché, dunque, battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”. Questo è il problema, Giovanni si poneva fuori dalle attese messianiche, che la Tradizione giudaica aveva elaborato lungo i secoli, ma operava come un messia o come un suo precursore. Dalla domanda posta dai Farisei sembra che essi attribuiscano un significato messianico al battesimo, quasi che questo fosse legato all'attività propria del Messia o, in qualche modo, gli si riferisse. Benché dalla Tradizione giudaica non ci venga nessun segnale in tal senso, tuttavia, il legare il battesimo del Battista all'escatologia e al messianismo non sembra del tutto fuori luogo se si pensa al contesto in cui questo battesimo venne amministrato. Dai Sinottici sappiamo come la predicazione di Giovanni avesse dei forti toni escatologici molto duri (Mt 3,7b.9-10.12); la sua stessa figura ascetica richiamava da vicino il profetismo antico (Mt 3,4); il deserto, quale luogo della predicazione (3,1); la chiamata alla conversione per evitare il giudizio imminente, che pesava su tutti come una scure posta alla radice dell'albero, si imponeva a tutti in modo drastico e ineluttabile (Mt 3,2.10.12); la necessità di riconoscere pubblicamente le proprie colpe e, infine, l'immersione nelle acque del Giordano (3,5-6), un rito che avveniva una volta soltanto, quasi a significare l'irripetibilità di quel perdono escatologico, contrariamente alle abluzioni che ognuno, da se stesso, praticava sovente o anche quotidianamente, come gli adepti della comunità di Qumran. È probabilmente questo contesto che porta i Farisei a leggere il battesimo di Giovanni come un'azione escatologica, legata strettamente al Messia.
I vv.26-27 sono riservati alla risposta di Giovanni, il quale esordisce con “Io battezzo in acqua”, che forma inclusione con la finale del v.33: “colui che battezza in Spirito Santo”. All'interno di queste due parentesi viene a delinearsi, a varie riprese, la figura del Messia: dapprima, richiamandosi ad una credenza popolare, viene presentato come il Messia nascosto (vv.26.31), che lo stesso Giovanni non ha conosciuto (v.33a); poi, esso è indicato come “L'Agnello di Dio”, la cui missione è quella di “togliere il peccato del mondo” (v.29); non solo, ma egli è anche colui che è ripieno di Spirito Santo (v.32a), uno Spirito che caratterizza la sua condizione di vita e sostanzia il suo agire, poiché lo Spirito permane su di lui (vv.32.33). Infine, la graduale e sempre più crescente manifestazione del Messia trova il suo vertice nella professione di fede, che diventa testimonianza: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio” (v.34). Il lento e progressivo disvelamento di questo anonimo personaggio aiuta a comprendere anche il significato e il senso del suo battesimo di Spirito Santo, che immergerà l'uomo in una nuova dimensione63, accorpandolo alla vita divina (Rm 6,3-9); un battesimo consono, pertanto, alla sua figura messianica ed escatologica e che meglio la esprime, poiché il dono dello Spirito riguarda i tempi escatologici, infatti: “Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito” (Gl 3,1-2). Uno Spirito che egli riverserà sul nuovo credente, rivelandogli il senso delle sue parole (Prv 1,23b; Gv 16,13); parole di sapienza, che effonderà come pioggia sulla nuova comunità messianica, ricolmandola di spirito di sapienza e di intelligenza (Sir 39,6). Egli, infatti, come “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese. La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio. Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà” (Is 11,1-5). È l'annuncio di una nuova realtà, segnata dallo Spirito, che inaugura i tempi messianici, escatologici ed apocalittici e che introduce l'uomo nella dimensione divina proprio attraverso lo Spirito, significato dall'acqua e in qualche modo da essa prefigurato.
Pertanto, l'affermazione di Giovanni “Io battezzo in acqua” non si contrappone al battesimo nello Spirito, ma soltanto lo precede e in qualche modo lo preannuncia. Acqua e Spirito in Giovanni formano un forte connubio al punto tale che l'una diventa in qualche modo figura dell'altro. Gesù rivolgendosi a Nicodemo, lo redarguisce: “In verità, in verità ti dico, se uno non è generato da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (3,5). Così similmente, nel racconto della Samaritana Gesù parla di un'acqua viva, che disseta e genera alla vita eterna (4,10-15); ma vi è anche un'acqua, quella della piscina di Bethzatà, che, agitata dallo Spirito, guarisce e rigenera a vita nuova gli uomini, che in lei si immergevano (5,1-4); si tratta di un'acqua viva che sgorga da Gesù (7,37-38) e che richiama quella che uscirà dal suo fianco, colpito dalla lancia del soldato (19,34) e che fu preceduta dall'emissione del suo Spirito (19,30); si tratta di un'acqua con cui Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli, un'acqua capace di rigenerare e di purificare (13,10), senza la quale non si può aver parte alla vita divina (13,8). Acqua e Spirito, un connubio che troviamo anche in Isaia, che profetizza la diffusione dello Spirito su Israele, come lo scorrere dell'acqua su di un suolo arido, così che i suoi figli “cresceranno come erba in mezzo all'acqua, come salici lungo acque correnti” (Is 44,1-4). Acqua e Spirito, un connubio primordiale, che vede fin da principio lo Spirito di Dio aleggiare sulle acque, dalla cui unione fu generata la creazione. Non, dunque, battesimi tra loro contrapposti, ma l'uno prefigurante l'altro, così come il Battista testimonia e preannuncia il Messia e, in qualche modo, anticipa in se stesso la sua triste sorte (Mt 14,3.10; 17,12-13) e in cui Gesù si riconosce (Mt 17,10-13). Due battesimi, di cui il primo è un segno sacramentale dell'altro.
Aperta la parentesi del battesimo di acqua (v.26a), che si chiuderà con quella del battesimo di Spirito Santo (v.33), l'autore sposta, ora, l'attenzione del suo lettore dall'attività del Battista a quella dell'oscuro e sconosciuto personaggio, che, come si è visto sopra, richiama in qualche modo il Messia nascosto, di cui si ignora la provenienza. Tuttavia, non è da escludersi che Giovanni stia puntando il dito contro la chiusura di Israele, il quale “non conosce colui che è in mezzo al popolo”. Il richiamo tematico dei vv. 1,5.10-11 è qui molto forte. Del resto, i verbi oŒda (oîda, conosco) e gignèskw (ghignósko, conosco) ricorrono in Giovanni numerose volte e quasi sempre hanno attinenza con il conoscere la fede, con il processo di adesione a Gesù; mentre al negativo denunciano l'inintelligenza, cioè l'incapacità di cogliere il mistero del divino, andando oltre alle apparenze dell'uomo Gesù64.
Con il v.27 l'enigmatico personaggio perde un po' del suo anonimato e viene definito in un triplice modo:
a) egli è colui che viene, l'espressione resa in greco con il participio presente “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, colui che viene, lett. il veniente) preceduto dall'articolo determinativo “Д, indica un personaggio preciso, che animava le attese e le speranze del popolo: il Messia, sentito come “colui che doveva venire”65;
b) dietro di me, in greco “Ñp…sw mou” (opíso mu). Un'espressione questa ambigua poiché può indicare una successione temporale, ma anche una sequela. Essa risuona 15 volte in tutto il N.T. e si ritrova quasi esclusivamente nei vangeli e una volta soltanto nell'Apocalisse (1,10), in cui indica il luogo fisico da dove proviene la voce: “dietro di me”. Nelle altre 14 volte essa compare quasi sempre in un contesto di sequela66. Non è, dunque, da escludersi che l'autore qui abbia voluto indicare come colui che era seguace del Battista e, quindi suo discepolo, sarebbe emerso nella sua grandezza in tempi a lui successivi.
c) non sono degno esprime la posizione del Battista nei confronti di Gesù e ne misura tutta la distanza, poiché il rapporto Battista-Gesù non può essere qualificato neppure come quello che intercorre tra schiavo e padrone.
Nel suo insieme il versetto sfodera una sottile, ma neppure tanto velata polemica con il gruppo dei battisti, poiché con l'espressione “colui che viene dietro/dopo di me” risponde probabilmente alle loro pretese, reclamando essi il titolo di messia per il loro Maestro, poiché Gesù era suo discepolo e, in quanto tale, inferiore a Giovanni. Tuttavia, se quel “dietro di me” dice sequela, con quel “colui che viene” si indica il Messia; pertanto, Gesù, seppur discepolo di Giovanni, viene indicato come il Messia, la cui grandezza apparirà “dopo” Giovanni (1,15); una grandezza che dice tutta la distanza che intercorre tra i due (3,27-31) e tale che non può essere neppure equiparata (“non sono degno”) a quella che si frappone tra lo schiavo e il padrone.
Il v.28 chiude bruscamente la testimonianza di Giovanni sulla propria identità, che si conclude facendo scivolare l'attenzione del lettore su quella di un anonimo e sconosciuto personaggio (v.26), da cui tralucono in qualche modo i primi bagliori di grandezza messianica (v.27).
Il v.28 assume toni giuridici e notarili, annotando il luogo in cui è avvenuta l'indagine della commissione d'inchiesta, inviata dalle autorità di Gerusalemme, nelle cui mani Giovanni ha deposto la sua testimonianza, assegnandole, in tal modo, un tono di ufficialità incontestabile67. La località in cui avvenne l'episodio è Betania, che Giovanni precisa trovarsi al di là del Giordano e, quindi, in Perea. Due sono le Betanie citate nel racconto giovanneo, questa e il villaggio di Lazzaro, che Giovanni precisa distare da Gerusalemme quindici stadi, poco meno di tre Km68. Poiché Origene (inizi III sec.) non riuscì a trovare nessuna località corrispondente alla descrizione, ritenne di dover sostituire la lettura di Betania di Perea con Bethabara, un guado del Giordano nei cui pressi fu battezzato Gesù. Tuttavia, riteniamo che se Giovanni si premurò di specificare le due Betanie, definendo la prima come “al di là del Giordano” e la seconda come “distante quindici stadi da Gerusalemme”, significa che egli aveva ben presente le due diverse Betanie e che per non confonderle le definì nei modi suddetti. La Betania, al di là del Giordano dove Giovanni battezzava del v.1,28 verrà richiamata anche in 10,40, il quale forma inclusione con 1,28 e che probabilmente, in uno stadio precedente del vangelo, segnava la fine dell'attività pubblica di Gesù69, prolungata successivamente al cap.12.
Secondo Quadro e secondo giorno: l'identità di Gesù (vv. 1,29-34)
Testo
29-
Il giorno dopo vede Gesù che viene verso di lui e dice: <<Ecco
l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo.
30-
Questi è colui sul qual io dissi: “dietro di me viene un uomo, che
è diventato davanti di me, poiché era prima di me”.
31-
E io non l'ho conosciuto; ma affinché fosse manifestato ad Israele,
per questo io venni a battezzare in acqua.
32-
E Giovanni testimoniò dicendo: <<Ho contemplato lo Spirito che
discendeva come colomba dal cielo e rimase su di lui.
33-
E io non l'ho conosciuto; ma colui che mi ha mandato a battezzare in
acqua, quello mi disse: <<Su chi vedrai lo Spirito che discende
e che rimane su di lui, questi è colui che battezza in Spirito
Santo>>.
34-
E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio.
Note Generali
La pericope 1,29-34 è molto densa e si muove su due filoni paralleli strutturati su un doppio pensiero a spirale, che affrontano due tematiche, tra loro poste a confronto e che tra loro si intrecciano: il battesimo di Giovanni, la cui natura e il cui senso vengono qui precisati; e l'identità di Gesù, che imprime un nuovo significato al battesimo stesso, caratterizzandolo come battesimo nello Spirito, distinguendolo nettamente da quello di Giovanni, ma, come si è visto sopra, senza contrapporlo ad esso70. Entrambi i battesimi rispecchiano le rispettive identità dei due battezzatori, dai quali sono caratterizzati e che nel contempo ne rivelano la vera natura.
La pericope è contraddistinta da tre verbi e delimitata da due titoli, che ne definiscono il contenuto. Quanto ai verbi, essi sono blšpw (blépo) in 1,29, qe£omai (tzeáomai) in 1,32 e Ñr£w (oráo) in 1,34; tutti significano “vedere”, ma la loro forma determina le modalità del vedere stesso, per cui “blépo” indica un vedere fisico, materiale; un vedere che ha attinenza con la storia; un vedere che è squisitamente umano e che non va al di là di una semplice comprensione umana delle cose. Tzeáomai, invece, significa guardare, osservare, contemplare. Si tratta di un vedere, quindi, attento, scrutatore, meditativo, che si interroga su quanto “blépo” sottopone ai sensi. Diversamente, “oráo” parla di un vedere superiore, qualitativo, che sa trascendere le apparenze umane, la storia, le sue forme, la sua materialità, per cogliere la verità che si cela dietro ad essa. Esso è il verbo proprio della fede71. Abbiamo, quindi, una gradualità qualitativamente crescente di vedere: da un vedere fisico (1,29), si passa ad un vedere riflessivo e meditativo, che apre il credente alla contemplazione del mistero (1,32) e si conclude con un vedere che coglie la verità, che si nasconde dietro la mera apparenza della forma fisica e la trascende (1,34). Tutti tre i verbi vengono usati in modo appropriato e significativo in relazione ai due titoli: “Agnello di Dio” a cui è associato “blépo” (v.29); e “Figlio di Dio”, a cui è associato “oráo” (v.34). Di mezzo ai due titoli si colloca la comprensione di Gesù come colui che è rivestito della potenza di Dio e per questo battezza in Spirito Santo. A questa comprensione intermedia di Gesù, che aiuterà il credente a passare dall'Agnello di Dio al Figlio di Dio, è legato il verbo “tzeáomai” (v.32). La comprensione di Gesù come “Agnello di Dio”, con cui si apre la pericope, più che una comprensione dettata dalla fede è una comprensione squisitamente umana, che attribuisce a Gesù determinati parametri scritturistici, conseguenti ad una precedente comprensione di fede, che muove il credente a ricercare nelle Scritture testi in cui si possa rispecchiare in qualche modo il significato del muoversi storico di Gesù. L'espressione “Agnello di Dio”, pertanto, diventa una metafora di Gesù, che aiuta a comprendere la sua dimensione storica e il senso della sua missione. Il verbo “blépo” ha quindi attinenza con la storia. Non ci si muove ancora propriamente su di un piano di fede. Ben diversa è l'espressione “Figlio di Dio”, con cui si chiude la pericope ed è il punto di arrivo della comprensione di Gesù. Qui non ci si muove più su di un piano metaforico, ma su di una realtà spirituale ed ontologica storicamente impercettibile, non raggiungibile e scritturisticamente non provabile. Vedere nell'uomo Gesù il “Figlio di Dio” e, quindi, Dio lui stesso, richiede una capacità di comprensione delle cose, che le trascende. Giustificato, quindi, è l'uso del verbo “oráo”. Non si tratta più, infatti, di un vedere umano, ma qualitativamente superiore, poiché la fede non è mai la conclusione di un bel ragionamento, benché non contraria alla ragione, ma implica un salto di qualità, che ti proietta in un mondo che non ti appartiene, ma a cui sei chiamato.
La struttura della pericope si sviluppa su due pensieri tematicamente a spirale in parallelo tra loro, e tra loro si intrecciano e si rincorrono e i cui rispettivi temi si confrontano, ma in modo capovolto: il battesimo di Giovanni definisce e completa l'identità e il senso della missione del Battista (vv.26.31.33); viceversa, l'identità di Gesù non solo qualifica il suo battesimo, ma aiuta a comprenderne la diversa natura rispetto a quello di Giovanni (29.30.31.33).
Per cui si avrà:
a) primo pensiero tematico a spirale: il battesimo di Giovanni. Annunciato in 1,26, come un battezzare in acqua, viene ripreso al v.31, che definisce la natura rivelativa di questo battesimo e, quindi, il senso della missione del Battista: per rendere manifesto ad Israele; a sua volta il v.31 viene ripreso e completato in 1,33 in cui si asserisce come il battezzare in acqua sia una missione voluta da Dio, da presso il quale Giovanni proviene (1,6).
b) secondo pensiero tematico a spirale: l'identità di Gesù. Il v.29 annuncia l'identità e la missione di Gesù come Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo; con il v.30, da cui è stato mutuato il v.15, si attesta la preesistenza e, quindi, la divinità di dell'Agnello di Dio, dimorante presso il Padre (1,1-2); con i vv.31a.33a si riprende il tema del Messia nascosto, che anche Giovanni condivide insieme ad Israele (v.26); il v.32 attesta l'unzione messianica di Gesù per opera dello Spirito Santo, che rimane su di lui. Gesù, pertanto, è ricoperto della potenza di Dio con cui opera. Il v.33b riprende e completa il v.32, rivelando Gesù come colui che battezza nello Spirito Santo, cioè con la potenza di Dio, da cui Gesù proviene72. La definizione, pertanto, dell'identità di Gesù e del senso della sua missione fungono da premessa alla vera natura del suo battesimo, spiegando perché il suo, rispetto a quello di Giovanni, è un battezzare in Spirito Santo e che cosa ciò significhi.
L'intera pericope, dinamicamente percorsa da due pensieri a spirale, viene prepotentemente sospinta verso il suo vertice conclusivo, il v.34, in cui la comprensione di fede (˜èraka, eóraka) si fa testimonianza (memartÚrhka, memartíreka).
Commento a Gv 1,29-34
Il v.29 si apre con una annotazione temporale, che scandirà, quasi con la ripetitività del gesto della creazione genesiaca, l'intera sezione 1,19-2,1173. Da un punto di vista narrativo l'espressione “Il giorno dopo” è di marca squisitamente redazionale e serve all'autore per introdurre diversi quadri narrativi, legandoli tra loro cronologicamente.Tuttavia, la singolarità di questo ripetersi della formula di tempo, che assomma complessivamente sette giorni, lascia intendere che non vi sia soltanto un tentativo redazionale di dare unità narrativa al racconto, ma che si intenda stabilire una sorta di parallelismo tra gli eventi qui narrati e quelli della creazione genesiaca, quasi ad indicare questi come una sorta di nuova creazione in atto. Già Isaia annunciava al popolo prigioniero Babilonia (597-538 a.C.), la sua ricostituzione a nuova creatura (Is 43,18-21), come una nuova creazione (Is 65,17; 66,22), a cui fa eco Giovanni nella sua grande visione apocalittica: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro>>. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate". E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose"; e soggiunse: "Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>>” (Ap 21,1-5).
Tutti i verbi di questo versetto sono posti all'indicativo presente, quasi ad indicare la concretezza e l'attualità dell'accadere degli eventi testimoniati da Giovanni, la cui valenza non è relegata ad un ricordo, seppellito nell'oblio di un polveroso passato, ma continua a interpellare nel suo oggi ogni credente. Giovanni vede venire verso di lui Gesù. La visione qui è squisitamente storica ed è rilevata dal verbo “blšpei” (blépei, vede), che, come si è visto poc'anzi (pagg.41-42), parla di un vedere concreto, fisico, che lega il credente alla storia e all'evento storico Gesù (1Gv 1,1-4). Esso non è un'invenzione, una mistificazione, ma un evento costantemente presente, anzi è “colui che viene” e che continua a venire. Il participio presente “™rcÒmenon” (ercómenon, il veniente), che qui, come al v.27a, compare nuovamente, sottolinea non solo la natura messianica di Gesù, che, ora, per la prima volta, viene menzionato esplicitamente, ma ne indica la dinamicità della sua natura, il suo continuo farsi in mezzo agli uomini, il suo continuo andare verso di loro, il suo continuo rinnovarli nello Spirito, che continuamente promana dalla sua Parola. Non va dimenticato, infatti, che egli è la Parola eterna del Padre (1,1-2), il suo Dabar creatore, che attua continuamente ed efficacemente ciò che dice (Eb 4,12a). Gesù, dunque, è qui colto dinamicamente nel suo “venire verso”. Egli si muove verso Giovanni, quasi a raccogliere da lui il testimone delle promesse veterotestamentarie, contenute nelle Scritture, che in qualche modo parlavano di lui (Lc 24,27; Gv 5,39), dandone compimento in se stesso (Mt 5,17; 4,34; Gv 19,28.30). E Giovanni accoglie il Veniente, designandolo scritturisticamente come “l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. L'espressione “agnello di Dio” è singolare e ricorre in tutta la Bibbia soltanto due volte, qui in Gv 1,29 e 1,36. La prima volta ne viene specificata la missione ed è rivolta ad un pubblico anonimo di ascoltatori, sottolineando, quindi, l'universalità dell'annuncio; la seconda volta Gesù viene indicato solo con il titolo, ma soltanto ad un uditorio ristretto e selezionato di ascoltatori: due discepoli del Battista (1,37).
L'avverbio “”Ide” (Ide, Ecco), con cui si apre la testimonianza del Battista su Gesù, merita attenzione. Ciò che noi abbiamo definito avverbio, in realtà è l'imperativo presente, II pers. sing., del verbo “Ðr£w” (oráo, vedo). La forma “íde” sostituisce talvolta quella normalmente usata e più ricorrente “idù”, dal forte impatto narrativo74. Tuttavia, l'uso preferenziale che Giovanni fa di “íde”, 19 volte contro soltanto 4 volte di “idù”, lascia intendere che l'autore attribuisce a questa forma esortativa un significato rivelativo. La traduzione corretta, pertanto, sarebbe “Vedi”, un'esortazione ad aprire gli occhi della fede per accedere ad una visione e ad una comprensione superiore delle cose. Già lo si è detto più volte, il verbo oráo è il verbo proprio della fede e si contrappone al blépo con cui il Battista si relazione a Gesù: il Battista vede (blépei) Gesù venire verso di lui e dice: “Vedi (íde) l'Agnello di Dio, che toglie il peccato dal mondo”. Il blépei, quindi, per comprendere la vera natura di Gesù, quale “agnello di Dio” deve trasformarsi in “íde”. Per comprendere la vera natura e la vera identità dell'uomo Gesù ci dobbiamo, quindi, trasferire su di un piano di fede.
L'espressione “agnello di Dio” ricorre in tutta la Bibbia soltanto due volte in Gv 1,29 e 1,36. A cosa allude l'autore con questa espressione? Il termine agnello/i compare in tutta la Bibbia 182 volte (140 volte nell'A.T. e 42 volte nel N.T. Soltanto 4 volte al femminile75). Il termine agnello nell'A.T. è quasi sempre associato all'idea del sacrificio e già in Gen 22,7.8 fa la sua prima comparsa nel racconto, cristologicamente molto significativo76, del sacrificio di Abramo (Gen 22). Sarà soltanto nei libri sapienziali e in quelli profetici, che diventerà, talvolta, figura poetica e metaforica77 e di annuncio messianico (Is 11,6; 65,25). L'idoneità al sacrificio e alla ritualità in genere è determinata da tre caratteristiche: l'agnello deve essere maschio, di un anno e senza difetti. È sempre l'agnello che compare nel contesto pasquale di liberazione del popolo dalla schiavitù (Es 12,3-6) e il cui sangue, asperso sugli stipiti delle case, individuerà il popolo, che Jhwh si è scelto e che consacrerà a se stesso, salvandolo dalla morte (Es 12,7.12-13); una scelta che, ai piedi del Sinai, varrà per Israele una nuova identità e una missione divina: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Ma ecco una nuova figura di agnello compare nel quarto cantico del Servo di Jhwh78 (Is 53,1-12). Anche qui il contesto è quello della sofferenza e del sacrificio espiatore a favore di tutti (Is 53,4-6.10). Anche Geremia, il profeta solitario, amante della pace e della tranquillità, ma costretto ad annunciare una Parola violenta e minacciosa di Jhwh, a motivo della quale viene perseguitato (Ger 15,17-21; 20,7-10), presenta se stesso “come un agnello mansueto che viene portato al macello79, non sapevo che essi tramavano contro di me, dicendo: <<Abbattiamo l'albero nel suo rigoglio, strappiamolo dalla terra dei viventi; il suo nome non sia più ricordato>>” (Ger 11,19); una metafora di agnello, in cui la tradizione cristiana vede raffigurato Gesù. Nel N.T. il tema agnello viene ripreso con chiaro riferimento cristologico. Il termine compare 40 volte e anche qui la sua figura non è mai disgiunta dall'aspetto sacrificale80, benché l'Apocalisse, unico esempio nella letteratura biblica, pur ricordando un Agnello immolato, ne sottolinea prevalentemente la sua glorificazione, la sua signoria e la sua onnipotenza. Collocato in questo contesto, anche l'Agnello di Dio, con cui il Battista designa Gesù, non può essere letto che in una prospettiva sacrificale. Non è un caso, infatti, che Giovanni ponga la morte di Gesù nel giorno della Parasceve, dopo mezzogiorno, il momento in cui gli agnelli venivano uccisi e preparati per la cena pasquale (19,14). Tuttavia non va trascurata la rilettura peculiare ed esclusiva che ne fa l'Apocalisse, che colloca l'Agnello nell'area della potenza divina. Questo agnello, infatti, è “di Dio”. Ci troviamo di fronte ad un complemento di specificazione. Questo, da un lato, precisa la proprietà e l'appartenenza di questo Agnello; dall'altra qualifica questo agnello come di origine divina, indicandone la provenienza e la natura. Una simile lettura inverte i poli sacrificali: il sacrificio dell'agnello, che dall'uomo sale a Dio, qui, in quanto Agnello di Dio, proviene da Dio ed è offerto all'uomo da Dio stesso. Non più, dunque, l'uomo sacrifica a Dio, bensì Dio sacrifica all'uomo. Giovanni ricorda questo momento in 3,16: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”. Il Figlio, dunque, è il dono di amore del Padre, offerto all'uomo e consumatosi a suo favore.
Benché il contesto sia, a nostro avviso, chiaramente sacrificale, tuttavia il motivo di questo sacrificio non è, stranamente, quello di togliere i peccati degli uomini o di redimerli o, in qualche modo riscattarli, ma di “togliere il peccato del mondo”. L'uso del singolare “peccato” anziché “peccati”, preceduto dall'articolo determinativo “il” (t¾n ¡mart…an, tèn amartían, il peccato), lascia intendere che Giovanni, qui, stia pensando a un peccato particolare e, probabilmente, proprio perché singolare nel suo genere, sia, per sua natura, preclusivo della salvezza. Di quale colpa si tratta? Ci vengono in soccorso i vv.1,5.10.11 del Prologo innico: “e la luce apparve nelle tenebre, e le tenebre non la colsero. [...] Era nel mondo, e il mondo avvenne per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. [...] Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero”. Si tratta, dunque, di non riconoscere, di non accogliere e di non saper cogliere Gesù come l'inviato Figlio di Dio e Rivelatore del Padre. La colpa, dunque, consiste in un atteggiamento di preclusione, di rifiuto e di inintelligenza dell'uomo nei confronti della mano tesa di Dio, rivelatasi in Gesù. In ultima analisi, si tratta dell'incredulità, sottesa dall'ignoranza di Dio, del suo disegno di salvezza e delle logiche che lo muovono. È ciò che Matteo e Marco chiamano “la bestemmia contro lo Spirito”81, che per sua natura è imperdonabile82, non tanto per la durezza di un Dio fustigatore e giustiziere, ma per l'impenetrabilità dell'incredulo, che si rende impermeabile al Dono di Grazia manifestatosi e offerto in Gesù (1,16.17b). A fronte di questo atteggiamento ostile nei confronti di Dio neppure Dio può più fare niente, abbandonando, suo malgrado, l'uomo al suo triste e drammatico destino di perdizione. In questo contesto Gesù è presentato come “Ð a‡rwn” (o aíron), “colui che toglie; che porta via; che toglie di mezzo; che leva via” l'ignoranza invincibile dell'incredulo, rendendolo definitivamente responsabile della sua incredulità. Si noti come Giovanni indichi Gesù con un participio presente, preceduto da un articolo determinativo, per evidenziarne la vera natura e la sua missione: Gesù è il rivelatore del Padre (14,9-11), la luce vera degli uomini (1,4.9) e in quanto tale egli è venuto in mezzo agli uomini per togliere l'ignoranza di Dio e l'incredulità, offrendo all'uomo la possibilità di rientrare, per suo mezzo, nella vita stessa di Dio (14,6).
Il v.30, posto immediatamente dopo il v.29, specifica la natura preesistente dell'Agnello di Dio; Agnello che viene agganciato, in tal modo, ai vv.1,1-2, di cui egli è l'attuazione storica, e la cui missione è togliere il peccato del mondo, cioè l'ignoranza di Dio, attraverso un'azione rivelativa che sottende l'intero vangelo giovanneo, caratterizzandolo come un vangelo apocalittico. E il Battista sottolinea questa preesistenza, richiamandosi al v.15, che qui, v.30, viene riportato sostanzialmente identico e per il cui commento noi rimandiamo a quello del v.15. Cambia solo il modo di presentare il soggetto: là, al v.15, il soggetto era “ `O Ñp…sw mou ™rcÒmenoj” (o opíso mu ercómenos), sottolineando la natura messianica di Gesù; qui, al v.30, si dice “'Op…sw mou œrcetai ¢n¾r” ( opíso mu ercatai anèr), cioè “dietro di me viene un uomo”. “Il Veniente” (o ercómenos), che qualifica la natura messianica di Gesù, diventa qui “un uomo che viene”, indicando con ciò la venuta storica del messia; come dire che Gesù attua le attese messianiche di Israele. L'uso di “anér” anziché di “ántzropos” (¥nqrwpoj), termine generico per indicare un uomo qualsiasi, sta ad indicare che Giovanni qui si riferisce ad un uomo particolare, di cui si è già parlato, riferendosi probabilmente a quanto detto ai vv.15.26.27.29. Va esclusa, a mio avviso, ogni altra diversa interpretazione, come il vedere in quel “anér” l'allusione allo sposo o altri significati messianici, poiché il contesto non lo consente. In questo caso il termine “anér” si riferisce soltanto a persona già nota, di cui si è già parlato e che qui, in qualche modo, viene richiamata.
I vv.31-33 presentano una doppia struttura: a spirale, agganciandosi al v.26, come si è visto sopra (pag.42, II capoverso); e a parallelismi concentrici in B), per cui si avrà:
A) v.31: il battezzare di Giovanni è finalizzato a rendere manifesto il Messia nascosto;
B) v.32: attesta come la potenza di Dio dimori su Gesù, qualificandolo, quindi, come il Messia per eccellenza;
A') v.33: il battesimo di Giovanni, finalizzato a rendere manifesto il Messia nascosto, ha radici divine così come la sua testimonianza.
A) e A') sono tra loro paralleli e complementari e servono a supportare e a giustificare la testimonianza in B), verso cui convergono. Come motivare, infatti, l'attestazione su Gesù del v.32? Ecco, dunque, i vv.31.33 che spiegano come Giovanni fu inviato da Dio (vv.6.33b), il quale gli rivelò come Gesù fosse l'atteso Messia nascosto, che avrebbe inaugurato i tempi messianici ed escatologici, caratterizzati dall'effusione dello Spirito sui credenti83 e che proprio all'interno del suo battesimo di acqua si sarebbe rivelata l'identità del Messia, mosso dallo Spirito. Similmente, anche per i Sinottici il battesimo di Giovanni è rivelativo, manifestando, all'interno di una teofania, la vera natura di Gesù, quale Figlio del Padre, sul quale si posa lo Spirito, che lo consacra nella potenza di Dio, così che l'operare di Gesù diventa un operare trinitario84, mentre il suo muoversi sarà posto sotto l'azione dello Spirito85. Il battesimo di acqua, quindi, diventa rivelativo delle nuove realtà, che in esso si inaugurano. Battesimo di acqua e battesimo di Spirito, pertanto, non sono tra loro contrapposti, ma si integrano l'uno nell'altro, mentre l'acqua diventa in qualche modo segno sacramentale dello Spirito86.
I vv.31.33 vanno coniugati assieme, poiché strettamente imparentati e complementari tra loro. Entrambi, infatti, incominciano con un'identica dichiarazione, che li aggancia l'uno all'altro: “E io non l'ho conosciuto”; entrambi ruotano attorno al battesimo di acqua; entrambi, partendo da queste due basi comuni, sviluppano un unico tema, quello della rivelazione (v.33), che diventa manifestazione (v.31) e che trova il suo culmine nella testimonianza del v.32, posto al centro dei vv.31.33.
Da un punto di vista letterario, probabilmente, in origine, i due versetti ne formavano uno solo, il v.31, poi diviso in due parti dal redattore per interpolare il v.32, che costituisce il cuore della testimonianza del Battista. Il ritmo della testimonianza diretta di Giovanni, infatti, viene spezzato dalla voce dell'autore. In tal modo si può spiegare come il v.33 si apra, riprendendo la stessa apertura del v.31, per poi completarlo con la frase rimasta in sospeso. È molto probabile che in origine il testo del v.31 fosse il seguente: “E io non l'ho conosciuto; ma affinché fosse manifestato ad Israele, per questo io venni a battezzare in acqua; e colui che mi ha mandato a battezzare in acqua, quello mi disse: <<Su chi vedrai lo Spirito che discende e che rimane su di lui, questi è colui che battezza in Spirito Santo>>”. Lo stacco redazionale ha ottenuto l'effetto di accentrare l'attenzione del lettore sulla parte più rilevante della testimonianza: l'unzione profetica e messianica di Gesù per mezzo dello Spirito, con il quale egli è rivestito della potenza di Dio, che in lui opera direttamente. In altri termini: Gesù è l'agire di Dio in mezzo agli uomini.
“E io non l'ho conosciuto”, un'affermazione strana questa che se, da un lato, richiama il tema del Messia nascosto, che doveva, secondo una credenza popolare, imporsi pubblicamente e in modo irresistibile e inequivocabile87; dall'altro, denuncia la non conoscenza da parte di Giovanni proprio di quel Messia, che egli doveva annunciare, testimoniare, rendendolo noto a tutti. Una sorta di contraddizione in terminis: come annunciare e testimoniare ciò che non si conosce? Ma è proprio questa nescienza, attestata per ben due volte, che, per assurdo, rende credibile la testimonianza del Battista, poiché qui il protagonista non è il Battista, bensì Dio stesso. Due gli elementi che vi concorrono: a) al v.31 il verbo “fanerwqÍ” (fanerotzê, fosse manifestato) è posto al passivo, che nel linguaggio neotestamentario rimanda l'azione del manifestare a Dio stesso; b) al v.33 appare evidente che la rivelazione, di cui Giovanni ha beneficiato, proviene direttamente da Dio, dal quale non solo il Battista proviene (1,6), ma dal quale è stato anche inviato (v.33). Il Battista, pertanto, è investito di una missione divina: rendere noto a Israele la rivelazione che egli ha ricevuto da Dio stesso e lo strumento rivelativo è proprio il “battezzare in acqua” (v.31), che già come si è visto sopra (pagg.39-40), preannuncia e prefigura il battesimo nello Spirito. In questo contesto, la missione del Battista è rivestita anche di una sacralità unica ed esclusiva, che lo pone, se non alla pari, almeno a fianco di Gesù. Come Gesù, infatti, egli venne da presso Dio (1,6) e come Gesù, egli è stato mandato da Dio. L'espressione “colui che mi ha mandato” (Ð pšmyaj, o pémpsas) ricorre nel vangelo giovanneo 26 volte88; essa ha per soggetto sempre il Padre e ha per oggetto sempre Gesù, eccetto in questo caso che, invece, significativamente riguarda il Battista, che in tal modo, viene assimilato a Gesù nel progetto salvifico del Padre e nella comune missione di salvezza, di cui l'uno è precursore e testimone dell'altro (Gv 1,15.30; Lc 1,76).
Il v.32, come si è detto, si colloca all'interno della risposta, che Giovanni dà alla commissione d'inchiesta. Lo stacco redazionale è voluto di proposito, poiché in tal modo balza subito all'occhio del lettore sensibile, riportando alla sua attenzione un'affermazione di rilevante importanza, poiché qualifica non solo la persona di Gesù, ma anche il suo operare: “E Giovanni testimoniò dicendo: <<Ho contemplato lo Spirito che discendeva come colomba dal cielo e rimase su di lui”. Il v.32 riprende la rivelazione del v.33, ma la ripropone non più come rivelazione, bensì come testimonianza. Ci si trova, dunque, di fronte ad una rivelazione che si fa testimonianza; una testimonianza che ha i contenuti di una rivelazione e che affonda le sue radici nel divino.
La testimonianza del Battista, mediata dal redattore, si apre con un verbo caro all'evangelista “Teqšamai” (Tetzéamai), “Ho contemplato”. Non si tratta, dunque, di una visione diretta, quasi un vedere fisicamente una realtà metafisica, spirituale, ma di una contemplazione del mistero di Dio in Gesù, pensato come avvolto e permeato dalla potenza di Dio. Il verbo, del resto, significa anche osservare, contemplare, riconoscere, esaminare, cercare. È lo stesso verbo che troviamo in 1,14, in cui la comunità giovannea contempla la gloria della Parola incarnata. Si tratta di un verbo che è strettamente imparentato con “qewršw” (tzeoréo), che tra i suoi molteplici significati, annovera anche l'osservare, investigare, esaminare, meditare. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una contemplazione, ad una riflessione e ad una ricerca, che è supportata non da esperienze fisiche, ma soltanto dall'intellectus fidei, cioè da una comprensione sorretta dalla fede e non dai sensi.
Ciò che Giovanni contempla è “lo Spirito che discendeva dal cielo e rimase su Gesù”. Si tratta di uno Spirito colto nella sua dinamicità e che delinea il suo rapporto con Gesù. Il suo discendere dal cielo, luogo della dimora divina, dice la sua appartenenza alla realtà di Dio. Il verbo usato, infatti, è “kataba…nw” (katabaíno), che compare undici volte nel racconto giovanneo, nove delle quali esprimono un movimento, che ha una stretta attinenza con il mondo del divino89. Il suo rimanere su Gesù, espresso con un aoristo di tipo ingressivo (œmeinen, émeinen) parla di un evento che ha avuto origine nel passato, ma i cui effetti persistono anche nell'oggi. Si parla, dunque, di un profondo connubio tra Gesù e lo Spirito di Dio, che richiama da vicino la visione messianica di Is 11,1-5, di cui lo stesso Luca si è servito, riferendolo espressamente a Gesù (Lc 4,17-21). Si tratta di quello Spirito, che opera in Gesù e con Gesù, il quale battezza in Spirito Santo (1,33), cioè immergerà90 il credente e l'intera creazione nello Spirito Santo, facendone nuove creature. Il battezzare di Gesù, dunque, cioè il suo operare, il suo annunciare, il suo nascere, il suo morire e il suo risorgere hanno operato e operano una nuova creazione, che Giovanni contempla nella sua Apocalisse: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate". E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>>” (Ap 21,1-5). Una visione che richiama quella del Deuteroisaia91, che rivolto al popolo in esilio a Babilonia (597-538 a.C.), gli prospetta il suo ritorno come una nuova creazione, collocato all'interno di una visione messianica: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,18-21).
Ed è proprio questo aspetto di nuova creazione, che viene richiamato attraverso l'immagine poetica dello Spirito “come colomba dal cielo” (æj perister¦n ™x oÙranoà, os peristeràn ex uranû). Perché Giovanni paragona lo Spirito ad una colomba? Innanzitutto si parla di una colomba “dal cielo”, che è il luogo della dimora divina; e la colomba, che tradizionalmente noi conosciamo, è di colore bianco, il colore che indica l'appartenenza al mondo di Dio92. Già questa semplice immagine ci trasferisce nella dimensione divina. Ma questa figura ha richiami biblici molto significativi, in particolar modo per il contesto in cui essi vengono inseriti. In Gen 1,2b si parla dello Spirito di Dio che aleggiava sulle acque. È l'immagine che precede immediatamente il primo atto creativo (Gen 1,3). Un secondo momento si trova in Gen 8,8-12 nel contesto del diluvio universale, in cui la terra venne ricoperta dalle acque primordiali, cancellando la prima creazione. Ed ecco, anche qui, vediamo aleggiare sulle acque una colomba. Il suo aleggiare si ripete per tre volte, intervallato da un ripetersi di sette giorni. “Tre”, “Sette” i numeri del compimento e della perfezione93. È, dunque, una colomba che scandisce i tempi di Dio, i tempi di una nuova creazione. Non è un caso, infatti, che il cap.9 riprenda il sostanzialmente identico linguaggio della prima creazione, ivi compreso il dramma dell'omicidio di Abele, con il divieto di versare sangue umano (Gen 9,1-7). Anche qui, in Gv 1,32, vengono riprese in qualche modo e significativamente quelle immagini genesiache, comparse, come si è visto, nell'immediato contesto di due nuove creazioni. Anche qui, in Gv 1,32, vi è una colomba che aleggia sulle acque del Giordano, dove Giovanni sta amministrando un battesimo di penitenza e di conversione. Anche qui, come là, l'aleggiare della colomba sulle acque del Giordano prelude ad una nuova e definitiva creazione, sognata da Isaia (Is 65,17; 66,22), contemplata da Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1-5) e sperata dai credenti di ogni tempo (2Pt 3,13). Collocata in questo contesto, non è difficile pensare all'immagine della colomba come l'esprimersi della vita stessa di Dio, che riveste della sua potenza creatrice il suo prediletto Figlio unigenito94. Ed ecco che la colomba richiama anche quest'ultima immagine, che viene mutuata dal Cantico dei Cantici, in cui l'amata viene definita dall'amato come l'unica, la perfetta e la preferita di sua madre (Ct 6,9).
Il v.34 chiude la pericope riguardante il secondo giorno e con questa si concludono anche le due testimonianze, che il Battista ha dato su se stesso (1,19-23) e su Gesù (1,24-34) alla commissione d'inchiesta venuta da Gerusalemme (1,19.24). In quanto ultimo, è anche il versetto più importante perché si pone al termine e al vertice di un cammino di fede ideale, scandito dai tre verbi, blšpw (blépo) in 1,29, qe£omai (tzeáomai) in 1,32 e Ñr£w (oráo) in 1,34, che abbiamo preso in esame in apertura del commento (pag.42) a questa pericope (1,29-34); o forse è meglio parlare di come si è formata la fede nella divinità di Gesù. Una tecnica molto simile Giovanni la userà al cap.20,1-10, dove i tre verbi, posti nell'ordine citato, indicheranno, come vedremo, in quale modo si è formata la fede nella risurrezione di Gesù.
Il v.34 è caratterizzato dalla presenza di due verbi, cari a Giovanni: Ñr£w (oráo, vedere) e marturšw (martiréo, testimoniare), posti significativamente in ordine logico: il Battista, prima vede, cioè coglie nella fede la verità trascendentale e ontologica che sostanzia la persona di Gesù, cioè il suo essere Figlio di Dio; poi, dà testimonianza di ciò che crede. Due verbi uno successivo all'altro, ma concatenati tra loro, poiché il vedere della fede richiede che tale fede venga testimoniata, cioè resa manifesta con la propria professione, ma ancor più con il conformare il proprio vivere ad essa. Oggetto della testimonianza è l'essere di Gesù “Figlio di Dio”. Il fatto che Giovanni ponga alla fine della pericope questa testimonianza lascia intendere come questa realtà non è immediatamente coglibile, ma deve passare prima attraverso un cammino di fede e di evoluzione spirituale, che l'evangelista ha scandito e significato nei i tre verbi sopra citati: dapprima vi è il cogliere Gesù come l'Agnello di Dio, una costatazione che nasce certamente dalla fede, ma non tocca ancora l'ontologia di Gesù, poiché l'appellativo datogli è soltanto una metafora, una lettura di Gesù, la quale ancora non rileva la sua essenza. Qui (1,29), il rapporto credente-Gesù si muove ancora a livello orizzontale ed è segnato dal verbo “blépo”. Un ulteriore passo in avanti nella comprensione di Gesù è testimoniato dal verbo “tzeáomai” (1,32), che comporta un vedere riflessivo e interrogantesi sull'evento storico Gesù, intuendo come egli, in quanto inviato da Dio, sia rivestito del suo Spirito, così come lo erano gli antichi profeti, anche se in modo diverso da questi. Vi è qui l'intuizione di qualcosa di superiore, ma ancora non si è raggiunta la vetta, che viene, invece, colta soltanto con il verbo “oráo”, il verbo della fede giunta a pienezza, che consentirà di cogliere la verità che dimora nell'uomo Gesù: egli è il Figlio di Dio; un'attestazione che risuonerà nel racconto giovanneo 9 volte. “Figlio di Dio”, un appellativo che nella tradizione ebraica era riservato ai componenti del popolo di Israele e che, poi, il cristianesimo ha fatto proprio, attribuendolo ai nuovi credenti95. Tuttavia, l'espressione “Figlio di Dio” non va annacquata, mettendola nella scia della tradizione, poiché la figliolanza divina di Gesù non è metaforica, ma reale e l'evangelista non lascia dubbi in merito, attribuendo a Gesù una preesistenza, sconosciuta tra gli uomini (8,58; 17,5); mentre la relazione che intercorre tra Gesù e il Padre manifesta un'esclusività unica e irripetibile (10,30; 14,9-11) al punto tale che egli viene accusato di bestemmia, perché si fa uguale a Dio (5,18; 10,33); egli, tuttavia, è realmente Figlio di Dio, perché è uscito dal Padre (3,13; 8,42b; 13,3b; 16,28a), presso il quale dimorava (1,1-2.18).
L'espressione “Figlio di Dio” compare qui, al v.34, per la prima volta, e forma inclusione con 20,31, abbracciando l'intero vangelo giovanneo, ponendolo sotto l'egida della divinità di Gesù, che dal vangelo verrà raccontata e gradualmente manifestata “affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (20,31).
Da Giovanni a Gesù: i primi discepoli (1,35-51)
Testo
35-
Il giorno dopo,
di nuovo Giovanni stava (là) con due dei suoi discepoli
36-
ed avendo visto Gesù che stava passeggiando, dice: <<Ecco
l'agnello di Dio>>.
37-
E i due discepoli l'udirono mentre parlava e seguirono Gesù.
38-
Ma Gesù, voltatosi, e avendo osservato quelli che (lo) seguivano,
dice a loro: <<Che cosa cercate?>>; quelli gli dissero:
<<Rabbi, che tradotto significa maestro, dove stai?>>.
39-
Dice a loro: <<Venite e vedrete>>. Andarono, pertanto, e
videro dove sta e rimasero presso di lui quel giorno; era circa l'ora
decima.
40-
Era Andrea, il fratello di Simon Pietro, uno dei due che avevano
udito da Giovanni e lo avevano seguito.
41-
Questi trova per primo il proprio fratello Simone e gli dice:
<<Abbiamo trovato il Messia>>, che tradotto è Cristo.
42-
Lo condusse da Gesù. Vedutolo, Gesù disse: <<Tu sei Simone,
il figlio di Giovanni, tu sarai chiamato Cefa>>, che tradotto
significa Pietro.
43-
Il giorno dopo
volle uscire verso la Galilea e trova Filippo. E gli dice Gesù:
<<Seguimi>>.
44-
Ora Filippo era di Betsaida, dalla città di Andrea e di Pietro.
45-
Filippo trova Natanaele e gli dice: <<Abbiamo trovato colui del
quale Mosè scrisse nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di
Giuseppe, quello da Nazareth.
46-
E gli disse Natanaele: <<Da Nazareth può esserci qualcosa di
buono?>>. Gli dice Filippo: <<Vieni e vedi>>.
47-
Gesù vide Natanaele che veniva verso di lui e dice di lui: <<Ecco
un vero Israelita in cui non c'è inganno>>.
48-
Gli dice Natanaele: <<In quale modo mi conosci?>>.
Rispose Gesù e gli disse: <<Prima che Filippo ti chiamasse, ti
ho visto mentre eri sotto il fico>>.
49-
Gli rispose Natanaele: <<Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei
re d'Israele>>.
50-
Rispose Gesù e gli disse: <<Perché ti ho detto che ti ho
visto sotto il fico, credi? Vedrai cose più grandi di queste>>.
51-
E gli dice: <<In verità, in verità vi dico, vedrete il cielo
aperto e gli angeli di Dio, che salgono e che scendono sul Figlio
dell'uomo>>.
Note Generali
Con il v.35 si apre la
seconda parte del prologo narrativo (vv.35-51), che è scandita,
similmente alla prima, in due pericopi, introdotte dall'espressione
redazionale “Il giorno dopo” (vv.35.43). Se la prima parte era
dedicata alla definizione e al confronto delle identità del Battista
(vv.19-28) e di Gesù (vv.29-34), questa seconda parte è riservata
alla formazione del primo nucleo del discepolato ed è caratterizzata
da un concentrato di titoli cristologici, che completano l'identità
di Gesù e che verranno successivamente ripresi nel corso della
narrazione. In tal modo essi qualificano, fin da subito, la sua
personalità e il suo agire, fornendo al lettore la chiave per una
sua corretta comprensione. Vediamo sfilare, infatti, uno dietro
l'altro, espressioni come “Agnello di Dio” (v.36), “Rabbi”
(v.38), “Messia”/“Cristo” (v.41), una circonlocuzione “colui
del quale Mosè scrisse nella Legge e nei Profeti” (v.45), “figlio
di Giuseppe” (v.45), “Figlio di Dio” (v.49), “re d'Israele”
(v.49). Una titolatura molto densa, che viene posta
anacronisticamente sulle labbra dei primi discepoli nel loro primo
impatto con Gesù. Non è, infatti, possibile che i primi discepoli
avessero compreso, di primo acchito, la vera identità di Gesù,
definendolo, poi, in quei modi, che soltanto la comunità credente,
in tempi successivi alla risurrezione, gli ha attribuito. Si tratta,
evidentemente, di un espediente narrativo operato dall'autore per
introdurre, fin da subito, il proprio lettore alla comprensione della
reale dimensione di Gesù.
Questa seconda parte va,
tradizionalmente, sotto il titolo di “la chiamata dei primi
discepoli”, agganciandosi in tal modo a quella narrataci dai
Sinottici6.
Tuttavia, il racconto giovanneo, circa la formazione del primo nucleo
del discepolato, si discosta notevolmente da quello dei Sinottici.
Questi, infatti, hanno come luogo comune della chiamata il lago di
Tiberiade; le modalità della chiamata, il numero e il nome dei
chiamati coincidono perfettamente in Marco e in Matteo, dipendente da
Marco; già diverso si fa il racconto in Luca, che inserisce la
chiamata nel contesto della pesca miracolosa. Anche per Luca, come
per Giovanni, non vi è una vera e propria chiamata, ma soltanto una
sorta di investitura di Pietro, che assieme a Giacomo e Giovanni,
suoi soci nella pesca (Lc 5,10), seguono Gesù. Dal numero dei primi
discepoli Luca non nomina Andrea, fratello di Pietro. In Giovanni,
invece, luogo, contesto della chiamata, numero dei discepoli e i loro
nomi differiscono notevolmente dai Sinottici. I discepoli sono
cinque, contro i quattro di Mt e Mc e i tre di Lc; i nomi dei
discepoli coincidono con quelli dei Sinottici soltanto per Andrea e
Simone, mentre ne compaiono tre di nuovi: uno non nominato, Filippo e
Natanaele, completamente sconosciuto dalla tradizione sinottica. Il
contesto della formazione del primo nucleo è duplice: Betania, al di
là del Giordano, per Andrea, il discepolo innominato e, forse, per
Simone; in questo caso è da ipotizzare che Simone fosse anche lui,
come suo fratello, un seguace di Giovanni, trovandosi da quelle
parti; seguono, poi, Filippo e Natanaele durante il viaggio di Gesù
verso la Galilea. Cinque, dunque, è il numero dei primi discepoli,
tuttavia soltanto per Filippo vi è una chiamata diretta (v.43b) in
senso tradizionale: “E gli dice Gesù: <<Seguimi>>”.
Come si vede, la formazione del primo nucleo, secondo Giovanni, non
avviene per chiamata, ma per propagazione e per testimonianza dei
diretti interessati, che, occasionalmente, hanno incontrato Gesù,
indicandolo, poi, ai propri compagni. Forse Giovanni in questo
riproduce un po' la storia della formazione della sua comunità o il
metodo con cui essa si muoveva per fare del proselitismo. Niente,
dunque, azioni missionarie, niente comunità organizzate per
l'annuncio, nessuna vocazione all'evangelizzazione in grande stile,
come per la comunità matteana, che con il cap. 10 aveva anche
delineato regole comportamentali dei missionari. L'afflato
missionario per la comunità giovannea era solo un concetto
teologico, che proclamava l'universalità della salvezza. Del resto,
già lo si è detto nella Parte Introduttiva, quella di Giovanni era
una piccola comunità elitaria, raccolta attorno al proprio maestro,
il discepolo prediletto; rientrava, dunque, nelle sue logiche essere
selettiva nel proselitismo, che si esprimeva a livello di
testimonianza personale97.
La struttura di questa seconda parte del prologo narrativo si snoda, come già si è sopra accennato, in due pericopi, introdotte dall'espressione temporale “il giorno dopo” (TÍ ™paÚrion, Tê epaúrion).
Prima pericope: vv.35-42
a) vv.35-37: Cambia radicalmente il contesto narrativo e i personaggi. Sono, questi, versetti di transizione: dal Battista a Gesù; dalla testimonianza offerta alla commissione d'inchiesta (vv.19-34), si passa, ora, alla testimonianza offerta da Giovanni ai propri discepoli. La prima spinta verso Gesù viene data dal Battista, poi, tutto il resto si sussegue come le onde sonore di un'eco, che si diffonde ad onde sempre più ampie, propagandosi tutt'intorno.
b) vv.38-40: l'esperienza di Gesù e la sua sequela.
c) vv.41-42: dall'esperienza di Gesù alla sua testimonianza: come opera il proselitismo all'interno della comunità giovannea; l'investitura di Simone.
a) v.43a: versetto di transizione. Nuovo cambia di scenario: Gesù diventa protagonista, lascia il Battista e si dirige verso la Galilea;
b) v.43b: Gesù trova Filippo e lo chiama alla sequela;
c) v.44-46: l'esperienza di Gesù apre alla testimonianza; prosegue il proselitismo per passa parola: l'incontro tra Filippo e Natanaele;
d) v.47-51: l'esperienza di Gesù da parte di Natanaele lo apre alla sua comprensione e lo predispone a comprendere il senso del suo operare.
In questo breve schema l'autore illustra la dinamica del proselitismo, finalizzato alla sequela: centralità dell'esperienza di Gesù, che diventa fondativa della fede del discepolo e che lo sospinge alla testimonianza, finalizzata al proselitismo; l'ascolto accogliente di questa testimonianza, a sua volta, predispone il nuovo candidato all'esperienza di Gesù, che lo trasforma in discepolo e in testimone annunciatore a sua volta. Al centro di tutto ci sta l'incontro trasformante con Gesù. Un incontro che è scandito in due tempi: a) la testimonianza-annuncio del discepolo, che racconta l'esperienza del suo incontro con Gesù; b) l'invito ad incontrare Gesù, che se accettato, consente al candidato, a sua volta, di farne esperienza. Si tratta, dunque, non di un annuncio missionario, ma di un proselitismo fondato sul passa parola all'interno della cerchia degli amici e dei conoscenti. Un movimento proselico che nasce da un ascolto di una parola testimoniata, così come avvenne anche per i primi due discepoli di Giovanni, che seguirono Gesù dopo aver ascoltato il Battista mentre parlava (v.37). L'ascolto della parola, dunque, muove il discepolo all'incontro con Gesù, che lo trasforma in testimone annunciante.
Commento a Gv 1,35-42
Con i vv.35-37 si cambia radicalmente scenario: dalla testimonianza di Giovanni alla commissione d'inchiesta si passa alla testimonianza di Giovanni indirizzata ai propri discepoli e da qui a Gesù, che diventa, da questo momento in poi, sempre più protagonista, imponendosi all'attenzione dei lettori.
Il v.35 si apre con un'annotazione redazionale di tempo “TÍ ™paÚrion” (te epaúrion), “Il giorno dopo”, che introduce il lettore in un nuovo contesto narrativo, mentre con il suo ripetersi (vv.29.35.43) scandisce l'intero prologo narrativo (vv.19-51); ma, nel contempo, ritma i tempi della storia della salvezza, nel suo silenzioso e quasi impercettibile scorrere storico, che si insinua nella storia umana, intrecciandola in un dialogo divino, che interpella l'uomo nel suo vivere quotidiano, spingendolo a prendere esistenzialmente posizione nei confronti di Dio.
“Il giorno dopo” nulla è cambiato per il Battista, che “di nuovo stava là”, ma tutto sta per cambiare. Quel “di nuovo” (p£lin, pálin) dice il ripetersi di una situazione e di un tempo che per Giovanni, come una barriera, diventano insuperabili. Egli, l'uomo che proviene dal mondo dei profeti, della Promessa e delle attese, è il testimone dei nuovi eventi e attesta che le attese sono terminate, che le promesse si sono attuate, poiché egli vede lo Spirito Santo discendere e rimanere su Gesù (vv.32.33), e lo indica ai suoi due discepoli: “Ecco l'Agnello di Dio”; ma egli non segue il nuovo evento compiuto, non se ne fa discepolo, poiché egli “stava là”. Quel “eƒst»kei” (eistékei), un piuccheperfetto, che esprime sempre un'azione giunta a suo compimento, che lega al passato chi la compie. Giovanni, dunque, “stava là”; il suo stare lo colloca nell'A.T., ne costituisce il vertice compiuto e lo fa testimone e annunciatore dei tempi nuovi, ma non ne prende parte. Egli è come Mosè, che, morente sul monte Nebo, vide la terra promessa e la indicò ad Israele, ma egli non vi entrò (Dt 32,49-52; 34,1-5). Il suo “stare là” lo rende prigioniero di un passato, superato e ormai reso obsoleto dal dinamismo di un presente nuovo, che apre la storia della salvezza ad un nuovo corso, dandone compimento (Mt 5,17), e che egli, alla stregua degli antichi profeti, chiamati a rendere la loro testimonianza, aveva scrutato con attenzione (™mblšyaj, emblépsas). Lo “stare là” di Giovanni, infatti, si contrappone al “peripatoànti” (peripatûnti, passeggiare) di Gesù. Due verbi a confronto, che designano due contrapposti comportamenti: lo “stare là” immobile di Giovanni, che dice il raggiunto compimento di un tempo, di cui egli è l'ultimo esponente; e il “passeggiare” di Gesù, che indica l'avvio di un tempo nuovo segnato da un nuovo dinamismo, provocato dalla persona stessa di Gesù, che con questo suo muoversi richiama Ap 21,5a: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” ed Is 43,19a: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. Il passeggiare di Gesù è definito in greco con un participio presente, che delinea sia la natura di chi compie l'azione che la persistenza del comportamento stesso. Gesù, dunque, è colui che passeggia. Il verbo “peripatšw”, tuttavia, è composto da due termini “per…” + “patšw”, che letteralmente significa “girare attorno”, “andare attorno”, “girovagare”. Il muoversi di Gesù, dunque, da un lato, esprime un movimento allo stato puro: “un girare” senza meta; dall'altro, indica come il muoversi di Gesù non ha ancora raggiunto il suo pieno compimento. Sembra quasi che egli sia in attesa di qualcosa che dia senso al suo movimento. Egli attende l'aggancio del Battista, il quale, osservatolo attentamente (emblépsas), lo indica ai suoi due discepoli come “l'Agnello di Dio”; attende che il Battista gli passi il testimone delle attese veterotestamentarie, delle promesse, delle speranze degli antichi Padri, delle quale si fa carico e ne diviene il compimento. Un movimento quello di Gesù che dice il dinamismo della storia della salvezza, di cui egli è il motore (peripatûnti).
Una nota va spesa per il verbo “™mblšyaj” (emblépsas, avendo osservato). Esso è composto di due parti da “en” + “blépo”, che letteralmente significa “guardare dentro”; si tratta di un guardare fisico, come suggerisce il verbo blépo, ma in modo penetrante, come attesta la particella “en”, una realtà, un evento nel suo apparire storico. È il guardare proprio del profeta, che cerca e indaga negli eventi della storia l'agire di Dio, per poi indicarlo al popolo. Ed è così che il Battista, dopo aver scrutato attentamente (emblépsas) il muoversi di Gesù (peripatûnti), rivolto ai due suoi discepoli “dice: <<Ecco l'Agnello di Dio>>”. Anche qui vi è un contrasto di tempi nei due verbi usati: l'aver guardato (emblépsas, participio passato) si contrappone al “dice” (léghei, presente indicativo); segno questo che la voce del Battista, pur provenendo dal passato dei profeti e delle Scritture, conservava ancora nell'oggi della comunità giovannea tutto il suo peso e la sua valenza. Nella storia della salvezza vi è, infatti, una continuità logica, in cui il passato, che racchiude in sé il futuro e in qualche modo lo indica, si coniuga con il presente e in esso trova il suo compimento. Nella logica della storia della salvezza passato, presente e futuro costituiscono lo spazio temporale dell'attuarsi di un unico atto salvifico, che viene scandito secondo i ritmi propri della storia. “Ecco l'Agnello di Dio”, un'espressione che già si è rilevata in 1,29b; ma mentre là l'Agnello di Dio viene indicato e qualificato come “colui che toglie il peccato del mondo”, qui, in 1,36b, si accentra l'attenzione soltanto su Gesù, colto come l'Agnello di Dio. La differenza va attribuita al diverso contesto in cui Gesù è stato annunciato. Il contesto del v.29 è a sfondo universale, non venendo citato il destinatario dell'annuncio; qui, invece, i destinatari sono due discepoli del Battista, già iniziati agli eventi escatologici, e l'intenzione dell'autore, quindi, è aiutare la comunità messianica incipiente a leggere la figura di Gesù, ad entrare, quindi, nel suo mistero. Ecco, quindi, il sollecito a “guardare” a Gesù non con gli occhi degli antichi profeti (emblépsas), che vedono l'accadere di un evento storico e lo interpretano secondo quanto suggerisce loro lo Spirito, ma con l'occhio del credente, che sa trascendere le parvenze della storia per cogliere e sperimentare direttamente le nuove realtà inaugurate con la venuta di Gesù. Ecco, quindi, il sollecito “”Ide” (Ide, vedi) imperativo di Ðr£w, il verbo della fede, che invita a cogliere la verità di Gesù, letto, parafrasando le Scritture, come l'Agnello che appartiene a Dio e da Dio proviene.
Il v.37 costituisce la risposta dei due discepoli di Giovanni. Essa è scandita in due tempi: a) l'ascolto della Parola annunciata dal loro maestro (“l'udirono mentre parlava”); b) la sequela (seguirono Gesù). Viene presentato lo schema fondamentale del proselitismo, che trova il suo fondamento nell'annuncio della parola, nel suo ascolto accogliente e nella sequela, come risposta esistenziale all'ascolto. Uno schema, su cui anche Paolo insisteva, scrivendo alla comunità di Roma (Rm10,14-17). Vi è, dunque, una sorta di continuità logica tra l'ascolto e la sequela, la quale viene sancita dalla congiunzione “kaˆ” (kai, e), che lega inscindibilmente tra loro i due momenti. L'autore sottolinea che i due discepoli di Giovanni “seguirono Gesù”. Il verbo usato, qui, è posto all'aoristo ingressivo, per indicare come il momento della sequela si origina dall'ascolto. Il tipo di verbo usato per indicare la sequela è “¢kolouqšw” (akolutzéo), il verbo tecnico con cui si indica nei vangeli la sequela dei discepoli. Si tratta di un verbo ricco di significati. Esso significa seguire, tener dietro, accompagnare, andare assieme, lasciarsi guidare, aderire, conformarsi, ma soprattutto significa mettersi al servizio di qualcuno e, quindi, porre la propria vita a disposizione di qualcuno. Il verbo al participio presente, infatti, indica il servo o lo schiavo. È, quindi, un verbo che definisce bene la figura dello stesso discepolo. Si noti, infine come l'autore non dice che i due discepoli del Battista lo lasciarono per andare con Gesù, prospettando in tal modo un rifiuto il loro maestro, ma, per una sorta di continuità e di linearità della storia della salvezza, che unisce tra loro i due Testamenti, per cui l'uno prosegue nell'altro, anche i due discepoli migrano da Giovanni a Gesù, conformando la loro scelta alla parola del loro maestro. Non Gesù li chiama, ma Giovanni li proietta verso il N.T.
vv.38-39 : Il contesto entro cui si muovono questi versetti è chiaramente quello vocazionale e di sequela. Essi, pertanto, vanno letti e interpretati tenendo conto di tale contesto. Giovanni raccontando la formazione della prima comunità messianica, sta pensando probabilmente a come si sono svolte le cose presso la sua comunità, come questa si è formata e continuava a formarsi; ma non è escluso anche un accenno al rapporto tra cristianesimo nascente e Giudaismo. I due discepoli, infatti, provengono dalle fila del Battista e appartengono al mondo giudaico e ad un giudaismo di tipo escatologico ed apocalittico, considerata la loro sequela del Battista. Questa doppia figura dei due discepoli, battisti e giudei, spiega anche il significato di quel “voltarsi” (strafeˆj, strafeìs) di Gesù verso di loro. A mettere in moto le cose vi fu la predicazione del Battista (v.37) e i due discepoli, che già avevano operato una conversione, seguono, ora, Gesù e Gesù si volta verso di loro e li osserva attentamente. Il verbo qui usato è “qšaomai” (tzéaomai, vedere), che indica un vedere attento, riflessivo, un vedere che si interroga, un vedere selettivo. E Gesù diviene, qui, la metafora di quel cristianesimo, che si rivolse con attenzione e premura a quel giudaismo sensibile al Regno di Dio, alle speranze annunciate dai profeti, che ravvivavano le attese dei pii ebrei (Lc 2,25.38)98. Significativa è, infatti, la domanda che Gesù rivolge ai due: egli non chiede “Che cosa volete?”, ma “Che cosa cercate?”. Vi è nei due, dunque, un atteggiamento di disponibilità interiore ai valori del Regno, che sotto la spinta della predicazione del loro maestro, li muove alla ricerca, che li porta alla sequela-servizio di Gesù. Quel seguire Gesù diviene, pertanto, la metafora di quel cammino di ricerca, che approda, finalmente, all'incontro e all'esperienza di quel Cristo tanto cercato. Il passaggio, quindi, da Giovanni a Gesù non fu una scelta superficiale o di convenienza, ma il frutto di una ricerca, che ha alla sua origine l'ascolto attento e meditato della parola annunciata dal Battista, per il quale già avevano operato una scelta esistenziale, divenendone discepoli.
La risposta dei due discepoli è altrettanto significativa, poiché rivela l'oggetto della loro ricerca: “Rabbi, […] dove stai?”. L'espressione “dove stai” è resa in greco con “poà mšneij” (pû méneis). Di certo ai due discepoli non interessava l'indirizzo di Gesù, dove egli abitasse abitualmente. Quel “poà mšneij” rivela l'orientamento della loro ricerca: comprendere l'origine e la natura di Gesù. Non va dimenticato, infatti, come si è conclusa la vicenda della testimonianza, che Giovanni ha rilasciato alla commissione d'inchiesta e con la quale si concludeva anche la prima parte del prologo narrativo: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio” (v.34). Ed è proprio quest'ultima testimonianza che formerà l'oggetto della ricerca dei due discepoli. Il verbo “mšnw” (méno), infatti, significa rimanere, restare in modo persistente, stare saldo, avere il pieno vigore, mentre il “dove” (poà, pû) rimanda al luogo della dimora di Gesù, che è presso il Padre (14,9-11), da cui proviene e verso cui è rivolto (16,28) e con il quale forma una cosa sola (10,30; 17,22). La domanda che essi pongono a Gesù ha la sua contropartita in quella che Pilato pose, a sua volta, a Gesù: “PÒqen e‹ sÚ;” (Pótzen eî sí?), “Di dove sei?”. Anche qui la richiesta di Pilato era quella di conoscere l'origine, la provenienza di Gesù, che nel gioco equivoco dei fraintendimenti, che caratterizza lo stile di Giovanni99, lascia intendere la sua origine soprannaturale. E così, similmente, nel racconto del cieco nato, questi risponde ironicamente ai farisei, che lamentavano di non sapere da dove provenisse Gesù: “Rispose l'uomo e disse loro: <<In questo, infatti, sta lo stupendo che voi non sapete di dov'è e aprì i miei occhi”. Ancora una volta, Giovanni rimanda il suo lettore all'origine divina di Gesù, che verrà riconosciuta dal cieco nato al termine del racconto (9,35-38). La ricerca dei due discepoli, dunque, verteva sulla sua origine e la sua natura divine. La risposta di Gesù, infatti, lascia intendere proprio questo: “Venite e vedrete” (”Ercesqe kaˆ Ôyesqe, ércheste kaì ópseste). Due imperativi esortativi, l'uno posto al presente indicativo, l'altro al futuro ed indicano lo scarto di tempo, che rappresenta il cammino del discepolato, che porta all'esperienza di Gesù e, di conseguenza, alla sua comprensione. Soltanto se i due discepoli vanno con Gesù e ne condividono la vita, consacrando la loro per lui, soltanto allora essi potranno vedere e comprendere la sua vera dimensione, dove egli dimora e di dove venga. Non è un caso, infatti, che Gesù sottolinei la comprensione che i discepoli hanno avuto di lui soltanto al termine della sua vita: “poiché le parole che mi hai dato ho dato a loro, ed essi (le) accolsero e hanno conosciuto veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato” (17,8). L'accoglienza di Gesù nella propria vita porta, dunque, a comprenderne la sua vera origine e la sua vera natura. Soltanto al termine di quel cammino di ricerca e di esperienza di Gesù il discepolo riuscirà a “vedere” Gesù. Significativo il verbo che Giovanni qui usa per indicare il vedere dei discepoli: “Ôyesqe” (ópseste, vedrete), futuro di “Ðr£w”, che indica un vedere superiore, un vedere che sa andare oltre le apparenze delle cose per coglierne la verità profonda, quella vera. È il verbo della fede100. È lo stesso verbo che ritroviamo ai vv. 50 e 51, dove Gesù dirà a Natanaele che “vedrà” cose più grandi (v.50), arrivando alla solenne affermazione della sua divinità: “In verità, in verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio, che salgono e che scendono sul Figlio dell'uomo” (v.51). Anche qui i verbi sono posti al futuro, perché i discepoli sono all'inizio del loro cammino, che li porterà a “vedere”.
All'invito di Gesù di venire e di vedere, abbinati nei tempi presente-futuro, seguono gli stessi verbi, ma, questa volta, posti all'aoristo, un tempo compiuto, che colloca l'azione nel passato, evidenziandone il suo realizzarsi: “Andarono, pertanto, e videro dove sta”. Il ripetersi dei verbi all'aoristo, caratteristico modo di narrare semitico, indica l'esecuzione fedele del comando, ma nel contempo dice il compiersi della promessa (vedrete) e, quindi, l'importanza primaria dell'esperienza della sequela, esclusiva strada maestra, che porta il discepolo alla comprensione autentica di Gesù, dove egli dimori e di dove venga.
Giovanni chiude l'esperienza di questi due discepoli, con un'annotazione di tempo: “era circa l'ora decima”. È una caratteristica esclusiva di Giovanni quella di sottolineare alcuni eventi di rilievo con annotazioni temporali101, che ben lungi dall'essere semplici registrazioni notarili o cronachistiche di certi eventi, qualificano l'evento stesso come un momento significativo all'interno di un disegno rivelativo. Il dieci102 è un numero che ricorre molto spesso nella Bibbia (159 volte nell'A.T. E 23 volte nel N.T.), forse perché esso era alla base del sistema numerico ebraico, ma forse anche, da un punto di vista simbolico, perché è un numero a tutto tondo, un numero pieno, un numero che contiene tutti gli altri, dai quali si attinge per formare qualsivoglia numero; esso può essere composto dal tre + sette, il primo indicante la completezza, il secondo la perfezione. Il dieci, dunque, è un numero che dice pienezza e se questo è associato ad un sostantivo di tempo dice che quel tempo esprime la pienezza, la compiutezza. L'incontro, quindi, dei discepoli con Gesù e l'esperienza che essi hanno avuto con lui e di lui non fu un caso, ma esso si colloca all'interno di un progetto divino salvifico, che si sta attuando con e in Gesù, di cui essi sono i con-protagonisti. Il contesto temporale è quello del marciano “tempo compiuto” (Mc 1,15) o del paolino “pienezza dei tempi” (Gal 4,4).
Il v.40 potremmo definirlo di transizione, poiché stacca dai precedenti versetti e introduce alla narrazione successiva. Esso apporta diversi elementi di novità: il nome di uno dei due discepoli, che incontrarono Gesù, Andrea, mentre l'altro viene semplicemente taciuto; viene precisato il grado di parentela che lo lega (ed ecco apparire un secondo nome) a Simon Pietro. Un versetto che commette anche un'ingenuità, poiché definisce Simone con il soprannome di Pietro, mentre tale nomignolo costituisce proprio l'oggetto del racconto che sta introducendo. Un'ingenuità che va perdonata, poiché Pietro è definito in tale modo in tutto il racconto giovanneo, dove l'abbinamento dei nomi “Simon Pietro” compare ben 19 volte. L'accoppiata, pertanto, era diventata un modo comune per identificare Pietro, per cui è da pensare che all'autore qui sia sfuggito il particolare narrativo, che formava l'oggetto della narrazione. Il nome Andrea, come quello successivo di Filippo (v.43), è di derivazione greca, segno che la cultura ellenica ha inciso profondamente il mondo della Palestina dei pescatori e della gente semplice103. Il discepolo taciuto, secondo il nostro parere, è quel discepolo prediletto da Gesù, che, qui taciuto, farà la sua prepotente apparizione a partire dal cap.13 e, benché mai espressamente nominato, tuttavia esso si caratterizza proprio per il suo anonimato104. Un versetto questo che forma inclusione con il v.37, che qui viene ripreso in 40b, ribadendo ancora una volta come questo grande movimento proselico, fondato sul passa-parola, sia stato messo in moto dal Battista ed ha alla sua origine l'ascolto della parola; è questa che ha provocato la sequela, che spinge all'esperienza di Gesù e alla sua testimonianza, che, a sua volta, provoca altra sequela. L'autore ha qui voluto riportare questo meccanismo caratteristico del proselitismo, poiché sarà quello che formerà la trama narrativa fino al v.51.-
I vv.41-42 sono incentrati sulla figura di Pietro, il primo proselita conquistato sul passa-parola. I due versetti anticipano qui ciò che per i Sinottici avviene, ma in forme e modalità alquanto diverse, in fase molto avanzata dei loro racconti105: il riconoscimento di Gesù come Messia. Esso, qui, avviene da parte di Andrea e non di Pietro; l'incontro Gesù-Pietro non è diretto, ma mediato da Andrea, che lo conduce da Gesù; nessun riconoscimento ufficiale di Pietro da parte di Gesù come per Mt 16,15-19, ma neppure nessuna anatemizzazione per la sua inintelligenza106. Vi è soltanto, a suo favore, il cambio di nome da Simone in Cefa, che vale come una sorta di investitura. Nell'insieme, Pietro non ne esce bene e il suo primato viene completamente appannato, ridotto soltanto a quel “prîton” (prôton, per primo), che lo fa il primo tra i proseliti, ma non certo il primo tra i discepoli. Del resto ben si sa che la figura di Pietro nel Quarto Vangelo è completamente oscurata a tutto favore del discepolo prediletto, dal cui confronto ne esce sempre perdente, lasciando intuire una certa rivalità all'interno delle prime comunità credenti, che già stavano istituzionalizzandosi, al contrario di quella giovannea107.
Una nota va spesa circa le forme verbali, che ricorrono in Giovanni almeno otto volte: il soggetto interlocutore è in prima persona singolare, ma i verbi che gli si riferiscono sono in prima persona plurale. Due esempi li abbiamo qui: “Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: <<Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)>>” (v.1,41); e similmente in 1,45: “Filippo incontrò Natanaele e gli disse: <<Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth>>”. Altri esempi simili sono riscontrabili in 1,16; 3,2.11; 4,22; 20,2; 21,24. Perché questa incongruenza ricorrente? Di certo non si tratta di una svista e lo escludiamo per la ripetitività del fenomeno; né tantomeno riteniamo si tratti di un pluralis majestaticus. È molto probabile, invece, che dietro quel plurale in prima persona si celi la stessa comunità giovannea che, di tanto in tanto, emerge di prepotenza per far sentire la sua voce di testimonianza.
Il verbo, che maggiormente ricorre in questi ultimi versetti del primo capitolo (vv.41-45) è il verbo “trovare”, che si ripete cinque volte nei due racconti paralleli di proselitismo: Andrea-Pietro (vv.41-42); Filippo-Natanaele (vv.44-45); ma di mezzo vi è anche un trovare di Gesù nei confronti di Filippo, l'unico vero chiamato alla sequela, per via diretta, da parte di Gesù (v.43). Un trovare che costituisce una sorta di risposta a quel “Che cosa cercate”, rivolto da Gesù ai discepoli (v.38a). Il cammino di ricerca da loro intrapreso è approdato, ora, a Gesù, compreso non solo come il Messia, ma anche come “colui del quale Mosè scrisse nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, quello da Nazareth” (v.45). Una comprensione, dunque, a tutto tondo.
Ci troviamo, ora, di fronte a Simon Pietro, espressione consueta solo in Giovanni, ricorre una volta soltanto in Mt 16,16, una in Lc 5,8 e una in 2Pt 1,1, contro le 19 volte del Quarto Vangelo. Simone viene qui presentato come un soggetto totalmente passivo, che subisce silenziosamente sia l'iniziativa di suo fratello Andrea (v.42a), che l'investitura di Gesù (v.42b). Stando al racconto giovanneo, egli doveva aver seguito nel discepolato del Battista il proprio fratello Andrea. Questi, infatti, incontra Simone nei pressi di Betania di Perea (vv.28.35), ben lontano da quella Galilea, verso la quale Gesù si dirigerà soltanto il giorno dopo l'incontro con Simone (v.43a).
Andrea trova il fratello “per primo” (prîton, prôton). Come già si è accennato poc'anzi, questo avverbio non va letto nel senso di un primato petrino, ma suona come un primato ironico: Simone è il primo tra i proseliti. Nessuna chiamata da parte di Gesù, ma viene condotto da Andrea a Gesù. E Gesù lo scruta (™mblšyaj, emblépsas). Anche qui il verbo usato non è lo stesso che Giovanni ha usato nei confronti dei primi due discepoli. Là avevamo il verbo “qe£omai” (tzeáomai), che indica un vedere attento e riflessivo, che si interroga, che seleziona e, in qualche modo, parla di elezione. Qui con Pietro, l'autore usa il verbo “™mblšyaj”, lo stesso verbo che ha usato per il Battista nei confronti di Gesù e che, come si è detto sopra (pag.54), parla di uno scrutare a livello storico e con un atteggiamento critico, caratteristico del profeta, che legge gli eventi cercando di cogliere in essi l'agire di Dio. Per Pietro non vi è una immediata elezione, come per i primi due discepoli, ma soltanto una promessa: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni, tu sarai chiamato Cefa”. Per il mondo semita il nome esprimeva l'essenza stessa della persona e cambiare nome significava un radicale cambiamento di vita, una trasformazione della stessa. Ma questa elezione per Pietro non è immediata: “Tu sei Simone [….], tu sarai Cefa”. L'accostamento dei due verbi, uno al presente, l'altro al futuro, indica tutto il cammino di conversione e di trasformazione a cui Simone dovrà sottoporsi per diventare Cefa. Sembra quasi che l'autore voglia esprime con ciò una velata diffidenza verso un personaggio molto impulsivo e che, alla fine dei giochi, ha pure rinnegato il suo Signore (18,17.25-27).
Commento a Giovanni 1,43-51
Il v.43 si apre nuovamente con la stessa locuzione di tempo “Il giorno dopo”, che già abbiamo trovato nei vv.29.35. La storia della salvezza prosegue nel suo ritmo incalzante, giorno dopo giorno. Ogni giorno è una pagina nuova in cui Dio e gli uomini scrivono, a due mani, la storia della salvezza; ogni giorno si riempie di avvenimenti, che nella loro semplicità quotidiana, ripetitiva, scontata, interpellano l'uomo, che deve prendere posizione nei loro confronti, dare la sua risposta esistenziale … e ogni risposta, per quanto banale, logica o illogica o scontata possa essere, è sempre una risposta, che rivela l'orientamento esistenziale di quell'uomo; è sempre una risposta che intesse la trama della storia della salvezza propria e dell'intera umanità. Per questo ogni giorno, ogni evento e ogni risposta, di cui “il giorno dopo” è riempito, non è mai insignificante, ma determinante.
Il v.43 è caratterizzato da tre verbi significativi: “volle uscire”, “trova”, “dice”. Una nota va spesa su chi è il soggetto dei primi due verbi, poiché per alcuni esegeti, come per il Léon-Dufour108, esso è Andrea. Ci sembra di poter affermare che il soggetto di questi verbi sia Gesù, per una questione di logica narrativa. Il v.42 afferma che Andrea (soggetto sottinteso) conduce Pietro da Gesù e Gesù, rivolto a Pietro, lo investe di una nuova futura missione. Qui chiaramente il soggetto principale è Gesù, verso il quale Andrea e Pietro convergono; è sempre Gesù che si fa parte attiva in modo importante e determinante, cambiando il nome di Simone in Cefa. Il successivo v.43 presenta, come si è detto, tre verbi molto significativi, il cui soggetto non può essere il marginale Andrea, proprio per l'importanza di questi verbi, come vedremo subito. C'è, inoltre una logica narrativa da rispettare, la quale vuole che sia Gesù, qui al v.43, il soggetto principale. Infatti, se ipoteticamente al “volle uscire” e “trova” si assegnasse come soggetto Andrea, non si capisce come all'improvviso salti fuori Gesù, che dice a Filippo di seguirlo. Sembrerebbe quasi che Gesù stia seguendo silenziosamente Andrea, il quale ha deciso di uscire verso la Galilea e trova Filippo. Gesù semplicemente si accoda e ne approfitta. Francamente non me la sento di sottoscrivere una simile interpretazione. Gesù è l'attore principale, che versetto dopo versetto, sta crescendo e imponendosi sempre più, da dopo che Giovanni lo ha indicato ai suoi discepoli come l'Agnello di Dio. Questa è la logica narrativa e teologica che l'autore sta usando.
Il primo verbo che si presenta è “volle uscire” (ºqšlhsen ™xelqe‹n, etzélesen exeltzeîn). Il verbo ™qšlw (etzélo) significa desiderare, volere, bramare. È un verbo di volontà, che determina e orienta il sentire profondo e l'agire della persona, mentre il verbo che segue, “™xelqe‹n” (exeltzeîn, uscire) costituisce l'oggetto del volere, nonché l'obiettivo da raggiungere e da realizzare. “Exeltzeîn”, un verbo molto significativo. Esso, nella sua prima accezione, significa “andare fuori”, “uscire”, ma anche, in seconda battuta, “compiere”, “eseguire”. Uscire, dunque, da che cosa? Eseguire o compiere che cosa? Si tratta di un verbo che si contrappone all' “eƒst»kei” (eistékei, stava là) del Battista (v.35). Giovanni, infatti, rimane là, al confine estremo ed ultimo del Primo Testamento, a cui appartiene e da cui non esce; Gesù, invece, ne esce fuori, inaugurando il Secondo Testamento, eseguendo e compiendo, in tal modo la volontà del Padre, per cui è venuto109. Quel “exeltzeîn”, dunque, parla di un progetto che sta per compiersi e manifestarsi per mezzo della persona di un Gesù, uscito dal Primo Testamento, da cui a lungo fu attesto e sperato110. Quel “etzélesen” (volle), da cui dipende il verbo “exeltzeîn”, esprime tutta la determinazione e il deciso orientamento, che porta Gesù fuori dal Primo Testamento per accedere verso una nuova realtà, il cui inizio è posto nella regione della Galilea. La particella “e„j” (eis), che precede il nome Galilea, esprime un moto verso luogo e, quindi, meglio adatta per indicare l'orientamento di quel “volle uscire”. E sarà proprio in questa regione, a Cana di Galilea, che Gesù, uscito, compirà il primo segno, grazie al quale egli “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11), dando, in tal modo inizio, alla sua missione rivelativa e attuativa di un progetto di amore, che ha le sue radici nel Padre e la sua manifestazione e il suo compimento nel Figlio (3,16).
“Volle uscire”, un aoristo ingressivo, che indica l'inizio di un evento compiutosi nel passato, ma che ne travalica i confini, collocando i suoi effetti nel presente, espressi nei verbi “trova”, “dice”. Il verbo trovare si ripete tre volte nei vv.43-45: Gesù trova Filippo (v.43); Filippo trova Natanaele (v.44); tutti, la comunità credente, trovano Gesù (v.45). Si crea in tal modo un circolo virtuoso, che partito da Gesù, riconduce a lui, ricompreso nel suo mistero. Trovare diventa, in tal modo, sinonimo di sperimentare esistenzialmente l'evento Gesù, cogliendone il mistero. In tal modo, infatti, egli verrà riconosciuto come l'Agnello di Dio (v.36), come il Messia (v.41), come il preannunciato dalle Scritture (v.45), come il Figlio di Dio, come il re d'Israele (49), senza per questo negare la sua dimensione storica e umana di “figlio di Giuseppe, da Nazareth” (v.45c). Ci troviamo di fronte ad un concentrato di titoli cristologici, che formano la carta d'identità di Gesù, fornendone al lettore giovanneo la chiave di lettura. Il Gesù, che qui viene presentato, è attivo e determinato; un Gesù, che sta diventando sempre più protagonista in espansione, occupando tutta la scena narrativa. Non sono più gli altri che trovano lui (vv.29.36.37.42a), ma è lui che trova Filippo; un Gesù che non si limita a dire “venite e vedrete” (v39) o ad osservare chi gli viene presentato (v.42b), ma ordina ed esorta alla sua sequela (v.43b).
Il v.44, agganciandosi al nome di Filippo, citato per la prima volta al v.43, ne introduce brevemente l'identità: egli è di Betsaida111, dalla città di Andrea e Pietro. Filippo, come Andrea, sono due nomi greci, il primo significa “amico dei cavalli”, il secondo “uomo valoroso o virtuoso”. I loro nomi greci denunciano la profonda ellenizzazione che subì la Galilea, e sarà proprio a loro che si rivolgeranno dei greci per conoscere Gesù (Gv 12,20-22). Il suo nome comparirà ancora in occasione della seconda pasqua (6,4), quando Gesù lo metterà alla prova sul come sfamare un'immensa moltitudine di persone, ma sarà Andrea a dare la risposta giusta (6,5-10). Sarà, infine, lui, Filippo, a chiedere a Gesù di mostrargli il Padre (14,7-10). Citato dai Sinottici soltanto negli elenchi degli apostoli, il nome di Filippo compare nel vangelo giovanneo ben dodici volte.
I vv.45-46 introducono un nuovo personaggio, che sarà co-protagonista insieme a Gesù fino al v.50: Natanaele. Filippo, trovato e chiamato da Gesù, ora, si fa suo portavoce e diviene, a sua volta, colui che trova e chiama all'incontro e all'esperienza di Gesù, secondo le caratteristiche proprie del proselitismo, che si fonda sul passaparola, che doveva caratterizzare l'annuncio della comunità giovannea. L'incontro Filippo-Natanaele è riprodotto sullo stesso schema dell'incontro Andrea e Simon Pietro (v.41). Anche qui Filippo si rivolge a Natanaele annunciandogli: “Abbiamo trovato colui del quale Mosè scrisse nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, quello da Nazareth”. L'annuncio che Filippo fa risente di una elaborazione squisitamente cristiana. Innanzitutto quel “Abbiamo trovato”, in cui risuona la fede della comunità giovannea, e che è sinonimo di “abbiamo esperimentato e scoperto”. Ciò che segue costituisce l'oggetto della duplice comprensione credente del mistero di Gesù: da un lato, egli è il preannunciato dalle Scritture; dall'altro è il figlio di Giuseppe, da Nazareth. Messianismo e origine umana inattesa (1,46; 7,27.52 ); divinità e umanità di Gesù (5,18; 10,33), due aspetti, secondo le logiche giudaiche e rabbiniche del tempo, decisamente contrastanti e inconciliabili tra loro, se non blasfeme, ma che la fede della comunità credente ha saputo coniugare tra loro, grazie alla scoperta del mistero, che vive in Gesù (9,38; 11,27; 16,30; 20,28): “abbiamo trovato”. Che Gesù sia il compimento delle Scritture è convinzione comune delle prime comunità credenti. Si pensi a Matteo, che riporta una quarantina di citazioni scritturistiche, applicandole a Gesù; pensiamo a Luca che in 24,27 riproduce, in buona sostanza, ponendola sulle labbra di Gesù, l'identica affermazione di Filippo. Anche lo stesso Giovanni insiste su questo concetto, non soltanto qui, ma anche in 5,39 dove il suo Gesù attesta che le stesse Scritture gli rendono testimonianza; in 5,46 dove si attesta che Mosè scrisse di Gesù o là dove i discepoli, scoperta la tomba vuota, se ne tornano alle loro case, poiché non avevano ancora capito le Scritture (20,9-10).
Alla confessione di fede, testimoniatagli da Filippo, Natanaele risponde con una frase ironica, dal sapore tutto giovanneo112: “Da Nazareth può esserci qualcosa di buono?”. La risposta data da Natanaele non va sottovalutata, poiché egli risponde ad una confessione di fede, propria del nascente cristianesimo, con un'altra, la sua, propria del giudaismo, la cui convinzione era che il Messia non poteva venire dalla Galilea (7,41.52) e tanto meno da Nazareth, uno sconosciuto villaggio galilaico. Le attese erano per Betlemme, luogo di nascita di Davide (Gv 7,42; Mt 2,5-6), sulla cui credenza si allinearono Matteo (Mt 2,1a) e Luca (Lc 2,4.15). Di fronte l'uno all'altro, quindi, abbiamo la tipizzazione di due rappresentanti di due diverse fedi: quella cristiana e quella giudaica. Questa diversità diventerà insanabile contrapposizione nel confronto Gesù-Giudei, ma non qui, tra Filippo e Natanaele, che viene sollecitato a venire e a vedere (”Ercou kaˆ ‡de, Èrcu kaì íde, vieni e vedi). Il motivo di questa accondiscendenza all'annuncio cristiano da parte di Natanaele viene spiegata al v.47: Natanaele è definito come uno “che andava verso Gesù” e da Gesù è definito come “un vero Israelita in cui non c'è inganno”. Il “Vieni e vedi” di Filippo è l'identica espressione pronunciata da Gesù verso i due discepoli: “Venite e vedrete” (v.39). Ma mentre quella pronunciata da Gesù contiene un verbo al presente indicativo e uno al futuro, per indicare il cammino di trasformazione, che i suoi discepoli dovevano operare in loro stessi per cogliere il mistero di Gesù; qui abbiamo due imperativi esortativi, posti al presente indicativo: “Vieni e vedi”. Ciò che può convincere il giudeo Natanaele non sono le disquisizioni e i sofismi rabbinici, che ingabbiavano il giudaismo, ma l'esperienza diretta e immediata, ma nel contempo costante (questo dice il presente indicativo) di Gesù. Solo così egli avrebbe capito il senso e la verità della testimonianza offertagli da Filippo. Anche qui il verbo “vedere” è reso in greco con Ðr£w, il verbo della fede. L'esortazione, quindi, rivolta a Natanaele è “vieni e credi”, apriti, cioè, al mistero del Dio fatto uomo.I vv.47-50 sono riservati all'incontro e al dialogo tra Gesù e Natanaele, in cui Gesù si muove come il protagonista principale del racconto: non è Natanaele che vede lui, ma è Gesù che lo vede venire; è Gesù che esprime il proprio pensiero su di lui; Gesù che intreccia un dialogo con lui; Gesù che conosce in modo straordinario; Gesù che predice ciò che i suoi seguaci vedranno. L'impressione che se ne ricava è un Gesù dominante, onnipotente e prorompente, che ha ormai soppiantato la figura di Giovanni, che “stava là” (v.35) e che continua a rimanere là, legato al mondo dei profeti, al mondo delle attese e delle speranze, dal quale Gesù, invece, “volle uscire” (v.43) per dare compimento a questo mondo. Il verbo che che predomina nei vv.46-51 è il “vedere”, che ricorre sei volte ed è reso in greco con Ðr£w (oráo), che esprime un vedere qualitativamente superiore, un vedere che sa andare oltre le apparenze per cogliere la verità profonda delle cose. Se riferito al credente, esso ne esprime la capacità di fede; se riferito a Gesù o a Dio ne esprime l'onniscienza e l'onnipotenza. Natanaele si dirige verso Gesù per vedere, ma è Gesù che vede lui e lo coglie nel suo venir verso di lui, espresso in greco con un participio presente, “™rcÒmenon” (ercómenon), il veniente, evidenziando in tal modo la natura e lo stato di vita di Natanaele in quel momento: egli è colui che va verso Gesù, esprimendo la sua apertura e la sua disponibilità nei suoi confronti. Gesù, dunque, coglie ciò che sta avvenendo in Natanaele e ne esprime l'elogio: “Ecco un vero Israelita in cui non c'è inganno”. “Israelita” un termine non molto ricorrente nel N.T., soltanto cinque volte113 e ogni volta che esso compare esprime tutta l'essenza che tale nome può esprimere: l'essere discendenza di Abramo, appartenere all'alleanza, avere la filiazione divina, possedere il dono della Torah, essere erede delle promesse, l'essere stato eletto e liberato. Definire, quindi, Natanaele come Israelita è riconoscere in lui il meglio del giudaismo, che viene colto in una persona che vive questa sua condizione con autenticità e senza formalismi religiosi. Natanaele è per definizione l'esatto opposto di ciò che esprime il termine “Giudei”, che assume in Giovanni l'accezione fortemente negativa di incredulità invincibile114. Ed è proprio a questo mondo giudaico che il cristianesimo nascente si rivolgeva, a quanti erano “giusti e timorati di Dio ed aspettavano il conforto d'Israele e la redenzione di Gerusalemme; a quanti, ricolmi dello Spirito, si lasciavano condurre da esso” (Lc 2,25-27.38). E Natanaele è il rappresentante di questo giudaismo, ben disposto verso Gesù e sensibile al suo annuncio.
Natanaele si sente smascherato da Gesù e con il suo fare, tra l'ironico e lo stupito, lo incalza: “In quale modo mi conosci?” (PÒqen me ginèskeij;, Pótzen me ghinóskeis?). Significativa la domanda di Natanaele poiché quel “Pótzen”, che ho tradotto “in quale modo”, significa in realtà “Da dove” e indica il luogo di provenienza della conoscenza di Gesù e quindi, la sua origine. L'avverbio “Pótzen” ricorre in Giovanni 13 volte e, ogniqualvolta compare, allude sempre, in modo più o meno esplicito, alla provenienza e all'origine divina di Gesù. Natanaele, dunque, intuisce in Gesù una superiorità spirituale, testimoniata dalla sua conoscenza straordinaria, che assimila Gesù al Messia qumranico, il quale possedeva la capacità di conoscere gli uomini e i loro segreti115. La conoscenza, infatti, non è propria degli uomini, ma di Dio. In Gen. 2,9.17; 3,22 si parla di un albero della conoscenza del bene e del male, metafora dell'onniscienza divina, prerogativa di Dio. E quando Adamo ed Eva ne presero, cadde su di loro la condanna divina, mentre Dio constata: “Ecco l'uomo è diventato come uno di noi” (Gen 3,22). Il conoscere, quindi, appartiene a Dio. E la risposta di Gesù conferma la sua onniscienza e, quindi, la sua provenienza divina: “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto mentre eri sotto il fico”. Chiamare e vedere, due verbi, l'uno dipendente dall'altro, o, forse, è meglio dire l'uno è causa dell'altro. Gesù vede, di conseguenza, Filippo chiama. Infatti Gesù vede Natanaele prima che Filippo lo chiami. Il vedere di Gesù è qui reso in greco con Ñr£w (oráo), che riferito a Gesù, indica, come si è sopra accennato, alla conoscenza e all'onniscienza divina; ma quello di Gesù è anche un vedere selettivo ed elettivo ed equivale ad una sorta di chiamata. Prima di chiamare alla sequela, Gesù vede sempre il chiamato e il verbo usato è sempre “oráo”116. Ciò che Gesù vide fu Natanaele mentre era sotto il fico. Non si dice in quale posizione Natanaele si trovasse sotto il fico, se seduto o in piedi, o cosa stesse facendo. Era sotto il fico, questo è ciò che importa, ed è proprio questo che lo qualifica. Il termine fico ricorre 47 volte nell'A.T. e 21 volte nel N.T. Il fico era il simbolo della terra di Israele e con esso è talvolta identificato, così che diviene anche metafora di Israele. Esso è il simbolo della fecondità, della prosperità e della pace, così come, per contro, era segno della punizione divina quando la terra era spogliata dei suoi fichi o questi non davano più i loro frutti. Gesù stesso userà questa immagine per denunciare sia l'aridità spirituale di Israele che il tempo del suo giudizio117. Stare sotto il fico significava, pertanto, vivere con serenità nella pace, nella sicurezza e nell'abbondanza118. Immagini queste che vengono applicate dai profeti all'era messianica (Mi 4,4; Zc 3,10). Il fico raffigura, dunque, il meglio della terra di Israele e degli Israeliti, di quel Israele che è aperto all'era messianica e scruta i segni dei tempi escatologici. Nella letteratura rabbinica lo stare seduto sotto il fico era divenuto metafora di studiare o insegnare la Torah, mentre il fico era diventato il simbolo della stessa Torah119. Natanaele, pertanto, definito come un vero israelita in cui non c'è inganno e collocato sotto il fico, diviene il tipo di quel Israele che cercava con sincerità di cuore e lontano dai formalismi cultuali o religiosi, il suo Dio, a cui aveva consacrato la sua vita studiando le Scritture, scrutando in esse i segni di un nuovo messianismo e di una nuova escatologia, che non poteva più essere ridotta ad una visione storica delle cose. Natanaele è l'espressione dello spirito libero del ricercatore, intuitivo, aperto, pronto, disponibile, attento all'evolversi delle cose, non impastoiato in formalismi religiosi e dottrinali, che soffocano l'autentico slancio spirituale verso Dio, imprigionando l'uomo in paure o in sicurezze, che lo illudono della sua superiorità spirituale, rendendolo cieco. Proprio per questo Giovanni coglie il suo Natanaele come colui che “sta andando verso Gesù” (™rcÒmenon, ercoménon), cioè aperto al suo nuovo messaggio e pronto ad accoglierlo nella propria vita. Una simile tipizzazione consente all'autore di proclamare con una certa solennità, per mezzo di questo simbolico israelita, la sua professione di fede: “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei re d'Israele”. Tre i titoli concentrati in questa breve espressione: Rabbi120, che riconosce l'autorevolezza storica di Gesù; Figlio di Dio: più che la professione di fede nella filiazione divina di Gesù e, quindi, nella sua divinità, il titolo, qui, va letto, a nostro avviso, in termini messianici, associandolo a quello successivo di “re d'Israele”. Il re d'Israele, infatti, è colto come “figlio di Dio” e come “messia”121. Non va dimenticato, infatti, che chi proclama la figliolanza divina non è un credente, giunto al termine del suo cammino di fede, ma il vero israelita, che sa riconoscere in Gesù i tratti fondamentali del messianismo. L'associazione, poi, dei due titoli (figlio di Dio e re d'Israele) spinge a pensare a questo. “Figlio di Dio”, quindi, possiamo pensarlo, qui, come una sorta di titolo complementare a quello di “re d'Israele”. Tuttavia, Giovanni, nel corso della sua opera, non mancherà di dare un diverso significato e una diversa sostanza al titolo “Figlio di Dio”, che indicherà la divinità stessa di Gesù. Un titolo che si pone al centro degli interessi dell'autore e che costituirà la finalità per cui egli ha scritto la sua opera: “ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (20,31).Re d'Israele: un titolo carico di messianismo, che vede il realizzarsi in Gesù la promessa che Dio, per mezzo del profeta Natan, fece a Davide: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò con verga d'uomo e con i colpi che danno i figli d'uomo, ma non ritirerò da lui il mio favore, come l'ho ritirato da Saul, che ho rimosso dal trono dinanzi a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2Sam 7,12-16). Una regalità messianica che apparirà sempre più evidente e insistente verso la fine del racconto giovanneo (capp. 12; 18-19), dove si concentrerà maggiormente il termine “re”, 14 volte sulle 18 complessive del vangelo. Già con il cap. 12 Gesù, entrando in Gerusalemme, è accolto come il messia regale: “Osanna! benedetto colui che viene nel nome del Signore, e il re di Israele!” (12,13b), in cui riecheggia il Sal 117,25-26 e Giovanni riconosce l'attuarsi della profezia di Zc 9,9 (12,14-15); mentre l'intero racconto della passione (18-19) è incentrato sulla regalità di Gesù, presentato da Pilato al popolo come il suo re (19,14.15). Una regalità il cui senso balza prepotente dal dialogo tra Gesù e Pilato (18,33-38).
Alla testimonianza entusiastica di Natanaele Gesù risponde facendo ruotare la sua risposta attorno al verbo vedere: “ho visto”, “vedrai”, “vedrete”. Tutti tre i verbi sono resi in greco con oráo, il verbo del vedere qualitativo, superiore; il verbo della fede, ma anche della conoscenza divina. Il primo verbo, posto all'aoristo, indica la scelta e l'elezione divina posta su Natanaele: “ti vidi”; di conseguenza egli “vedrà” cose più grandi. Il verbo al futuro parla di una visione, che è comprensione del mistero, che si cela in Gesù, frutto della disponibilità di Natanaele nei confronti di Gesù, una disponibilità, che si fa sua sequela. Ciò che egli vedrà sarà ciò che accadrà nei successivi capitoli, nei quali, attraverso il progressivo disvelarsi dei sette segni, si manifesterà la gloria di Gesù, quale Figlio di Dio. Sarà quella gloria, che apparirà nella sua pienezza “al terzo giorno”, allorché Gesù “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,1a.11b).
Il v.51 introduce una dichiarazione solenne di Gesù, una sorta di giuramento, la cui formula, caratteristica di Giovanni, ricorre 25 volte nel suo vangelo: “In verità, in verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio, che salgono e che scendono sul Figlio dell'uomo”. Dal “vedrai” si passa, ora, al “vedrete”. Chi siano gli interlocutori, il soggetto di quel “vedrete” non ci è dato di sapere. Forse i discepoli, la comunità giovannea? Difficile poterlo affermare. Non vi è alcun indizio che porti a queste conclusioni. Chi, dunque? Considerato il contesto in cui si sta svolgendo il dialogo in questi ultimi versetti (vv.45-50), mi sembra di poter dire che gli interlocutori siano quegli ebrei, di elevata ed evoluta spiritualità, che, affascinati dalla figura e dai discorsi di Gesù, si sono resi disponibili a seguirlo. Un esempio si ha in Nicodemo (3,1; 19,39) e un altro in Giuseppe d'Arimatea (19,38). Certo, Natanaele è la metafora di questo nuovo Israele, ma qui il Gesù giovanneo, al v.51, parla fuori da ogni metafora e sembra voler lanciare un appello alla fede del vero Israele, di cui già si era accennato ai vv.1,12-13, sancendo con solennità la sua promessa: “In verità, in verità vi dico, vedrete”; vedrete quello che avete sempre sperato, vedrete quello che avete sempre atteso (Lc 2,25.38b). Il contesto è chiaramente apocalittico e rivelativo, in cui all'aprirsi dei cieli (aspetto apocalittico), fa riscontro il vedere del vero Israele (aspetto rivelativo), cioè il suo comprendere, infine, il senso delle Scritture, di quello scendere e salire degli angeli su Gesù, che richiama da vicino il sogno di Giacobbe: “Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse ….” (Gen 28,12-13a). Il richiamo non è casuale poiché qui Giovanni si sta rivolgendo al vero Israele, quello che conosce le Scritture e attende la sua redenzione. Gli angeli che scendevano e salivano collegavano Dio con la terra e in qualche modo lo rendevano presente su di essa. Il v.13a, infatti, annuncia la presenza di Jhwh, che stava davanti a Giacobbe e gli si rivelava parlando; proprio quel Giacobbe, il cui nome, venne cambiato, poi, in Israele (Gen 32,29). Significativo è il commento di Giacobbe, con cui termina il racconto della scala: “Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: <<Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo>>. Ebbe timore e disse: <<Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo>>” (Gen 28,16-17). Giacobbe, il capostipite di Israele, si sveglia dal sonno, esce dalla sua inconsapevolezza e prende coscienza come quello è il luogo della presenza di Dio, la porta del cielo, quella che mette in comunicazione e in comunione Dio e gli uomini. Ciò che accadde al padre Giacobbe viene ora richiamato da Giovanni, qui, al v. 1,51. Anche qui, come là, gli angeli salgono e scendono su Gesù nel quale, come per Giacobbe, il Signore stava davanti ad Israele e gli parlava. E come il padre Giacobbe, anche il vero Israele è chiamato ad uscire dal suo sonno, dalla sua inconsapevolezza per scoprire come Gesù sia il luogo sacro della presenza di Jhwh, la vera porta del cielo, da cui egli è uscito e a cui ritorna (16,28). È Gesù, dunque, il nuovo punto di riferimento del Padre, lo spazio storico, in cui il Padre si rende presente e tende nuovamente la sua mano agli uomini. È Gesù il punto di mediazione tra Dio e gli uomini. Egli, infatti, è la via, la verità e la vita e nessuno viene al Padre se non per mezzo suo (14,6), così come nessuno va a lui se non è il Padre a sospingerlo (6,44.65). E' lui, dunque, la porta del cielo, attraverso la quale l'uomo è chiamato a passare per raggiungere il Padre e attraverso la quale il Padre raggiunge ogni uomo. Ma il salire e lo scendere degli angeli su Gesù dicono anche la sua divinità, poiché, da un lato, rimandano al suo essere disceso dal cielo e al suo esservi salito (3,13); dall'altro, richiamano, in qualche modo, l'episodio, riportato da Matteo e Marco, al termine delle tentazione, allorché gli angeli gli si accostarono e lo servivano (Mt 4,11b; Mc 1,13c). Questi angeli, che salgono e scendono, alludono, dunque, alla profonda comunicazione e comunione che c'è tra Dio e Gesù. Angelo, infatti, significa il messaggero. Gesù, dunque, è il luogo rivelativo di Dio e il suo dire e il suo operare è lo stesso dire ed operare del Padre (5,19; 14,9-11).
1Probabilmente, come si vedrà più avanti, i vv.1,6-8.19ss costituivano l'inizio del Vangelo di Giovanni.
2Tutte le lettere paoline iniziano con un prescritto, seguito subito, ad eccezione della Lettera ai Galati, da un ringraziamento. Così, similmente, anche altre lettere, che tali sono da considerarsi, si aprono con un prescritto.
3Il proemio è l'introduzione ad un'opera di cui preannuncia i temi fondamentali.
4Cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, pag.35 – op. cit.
5Cfr. la voce “Il Vangelo di Giovanni e i Sinottici” pagg.96-101 del capitolo Questioni Introduttive.
6A nostro avviso, molti autori, dediti all'analisi storico-critica, filologica e letteraria incentrano eccessivamente la loro attenzione sui testi oggetto della loro analisi, perdendo, forse, il contesto d'insieme e le dinamiche entro cui sono nati e si sono sviluppati questi testi. Qualsiasi analisi letteraria o storico-critica non può prescindere, a nostro parere, dalle considerazioni di seguito riportate, che hanno un loro fondamento storico e di logica storica. Simili analisi devono tener conto del quadro d'insieme, che si apprestano ad analizzare. In altri termini, esse non devono mai violare la logica della storia, anche se, talvolta, necessariamente ipotetica, entro cui si pongono i fatti, oggetto delle ricerche e delle analisi stesse.
7Sulla questione cfr. il capitolo della Parte Introduttiva.
8Cfr. la voce “La comunità giovannea”, pag. 30, nella Parte Introduttiva.
9Cfr. Fil. 2,5-11; Col. 1,15-20; Ef. 1,3-14; 1,20-23; 2,14-18; 4,4-6; 1Tm 3,16; 2Tm 2,11-13; Rm 11,33-36; Tt 3,4-7
10Plinio il Giovane fu inviato in Bitinia da Traiano per il periodo 111-113 d.C., quale legatus pro praetore, allo scopo di reprimere le “eterie”, cioè le associazioni segrete, che turbavano l'ordine pubblico.
11“[...] Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti [...] ” (Epist. X, 96, 1-9)
12Nell'elencare i temi del prologo e i versetti di corrispondenza nel vangelo, ci siamo serviti del testo di Santi Grasso, il Vangelo di Giovanni, op. cit. - pagg.34-35, anche se una nostra rapida ricerca ne ha evidenziati altri ancora. Questo dice quanto sia radicato il prologo nel vangelo giovanneo e quanto lo rispecchi.
13Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pagg. 31-33 – op. cit.
14Cfr. Angelico Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico – pag. 554 – op. cit.
15Il “nove” è tre al quadrato, con cui si indica la perfezione nella sua definitiva compiutezza e il dispiegamento della potenza creatrice della Parola. - Sul significato metaforico e simbolico del numero “tre” e dei suoi multipli cfr. la voce “Tre” in Manfred Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline Srl, Cinisello Balsamo (MI) 1989.
16Cfr. Gv 1,19.29.35.43; 2,1a.
17Cfr. Gv 1,18; 5,18; 6,27.45; 8,54; 10,36; 20,17
18Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva alla voce “Il Padre”, punto 14), sotto il titolo “Il vocabolario giovanneo”.
19Il parallelismo antitetico è una forma caratteristica della poetica ebraica in cui una stessa affermazione viene posta in forma positiva e negativa, come nel nostro caso in cui si afferma che tutto è avvenuto per mezzo della Parola e niente e avvenuto senza di lei. Si dice esattamente la stessa cosa, ma in forme uguali contrarie. Quanto alla forma chiasmica essa è data dai due estremi del versetto uguali contrari “p£nta” e “oÙdš ›n”, mentre il punto d'incrocio è dato dalle due espressioni, anch'esse uguali contrarie, “di' aÙtoà ™gšneto” e “ cwrˆj aÙtoà ™gšneto”, poste tra “p£nta” e “oÙdš ›n”, che si sovrappongono tra loro.
20Sulla questione cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.; Yves Simoens, Secondo Giovanni, una traduzione e un'interpretazione, op. cit.; Xavier Léon-Dufour, Letterua dell'evangelo secondo Giovanni, op. cit. R. E. Brown, Giovanni, op. cit.
21Il concetto della mediazione creatrice non è nuovo, ma già nell'A.T. viene riconosciuto tale ruolo alla Sapienza (Sap. 7,21; 9,1-3.9-11; 11,24-26; Pro 3,19; Ger 51,15), così come nel N.T. (Cfr. Rm 11,36a; 1Cor 8,6b; Ef 1,10.11.22-23; Col 1,16-20; Eb 1,2; 2,10; Ap 4,11)
22Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni, op. cit.- pagg. 61-62
23Sul significato e l'uso del termine “vita” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva, alla voce “Il vocabolario giovanneo”, punto 20).
24Cfr. Gv 3,20-21, 8,12; 11,9-10; 12,36
25Sulla questione cfr. il titolo “Il contesto storico e culturale in cui si e formato il vangelo”, alla voce “Lo gnosticismo”, pag.15 della Parte Introduttiva.
26Cfr. Is 45,7; cfr. Anche il termine “Tenebre” in Dizionario delle Immagini e dei Simbolismi biblici, op. cit.
27L'aoristo greco corrisponde al nostro passato remoto.
28Il v.10 riporta per tre volte il termine “mondo”, assegnandogli, tuttavia, un triplice significato, similmente a quanto era avvenuto per il termine “tenebre” al v.5. Nella prima posizione il sostantivo mondo indica il luogo fisico e il contesto storico in cui è apparsa la Parola; la seconda posizione inerisce alla creazione, avvenuta per mezzo della Parola (v.3ab); nella terza posizione il termine “mondo” assume contorni personalizzati, in quanto soggetto della non conoscenza e, quindi, della sua inintelligenza. Esso, dunque, si riferisce al mondo pagano, che pur non illuminato dalla fede e dalle Scritture, come lo fu Israele, poteva, comunque, cogliere la divinità nella creazione.
29Cfr. anche Dt 7,6-8; 14,2; 26,18-19; Sal 135,4; Sap 15,2; Is 43,1; 44,5; Ml 3,17.
30Cfr. 1Cr 16,24; Tb 12,6; 13,3-4; Sal 95,1-3
31Cfr. Gen 9,4-5; Lv 17,11.14; Dt 12,23
32Sulla questione cfr. Yves Simoens, Secondo Giovanni, una traduzione e un'interpretazione, op. cit.
33Cfr. la Parte Introduttiva, pagg.55 e 67
34Cfr. Es 16,10; 24,16; 40,34.35; Nm 17,7; 1Re 8,11; 2Cr 5,13.14; 2Mac 2,8; Is 4,5; Ez 10,4.
35Sul tema della gloria in Giovanni, cfr. la voce “Gloria” nella Parte Introduttiva, pag. 64
36Cfr. la voce “gloria” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
37Cfr. Gv 8,42a; 16,28a.30b; 17,8.
38Cfr. Gv 10,30.33; 14,9-11; 17,11.21.22
39Circa il significato del termine “verità” cfr. pag. 83, punto 19) della Parte Introduttiva di questo studio.
40Cfr. il titolo “Lingua e stile letterario” a pag.48 della Parte Introduttiva.
41Sulla questione cfr. R. E. Brown, Giovanni, pag.23, op. cit.
42Nel linguaggio biblico il verbo posto al passivo rimanda l'azione a Dio stesso.
43Cfr. Gv 1,45; 3,14; 5,45-46; 6,32.
44Cfr. Gv 8,5; 9,28.29
45Cfr. Dt 14,1; Os 2,1; Est 12t-12-q; Sap 2,18; 5,5; 12,7; 18,13; Gb 38,7; Sal 29,1
46Cfr. Gv 8,42; 16,28.30; 17,8.
47Il pronome “™ke‹noj” è usato 70 volte in Giovanni, contro le sole 104 volte dei Sinottici.
48Cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, pag.563; R. E. Brown, Giovanni, pag. 56; opp. citt.
49Cfr. 1,7.8.15.19.32.34
50Sul significato del termine “Giudei” cfr., sotto il titolo “Il vocabolario giovanneo”, la voce “Giudei” della Parte Introduttiva; pag. 63.
51L'abbinata “sacerdoti e leviti” compare soltanto qui. Con questa espressione Gv probabilmente intende indicare in senso generico la classe sacerdotale degli addetti al culto. Quando, invece, parla di sacerdoti in senso proprio, egli ricorre sempre all'espressione “sommi sacerdoti”, che compare complessivamente nel suo vangelo 21 volte, indicando quasi certamente la classe specifica dei Sadducei, che costituivano la parte nobile del sacerdozio ebraico e dai cui ranghi proveniva il Sommo Sacerdote. Del resto il termine Sadducei non compare mai in Giovanni, forse perché sostituito dalla suddetta espressione.
52Sulla questione cfr. il titolo “Il contesto storico e culturale in cui si è formato il vangelo” a pag.3 della Parte Introduttiva della presente opera.
53Cfr. anche Lc 13,1
54Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.56
55Cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, pag.74; Yves Siomens, Secondo Giovanni, una traduzione e un'interpretazione, pag.169; opp. citt.
56Sulla questione cfr. il titolo “Il contesto storico e culturale in cui si è formato il vangelo” a pag.3 della Parte Introduttiva della presente opera.
57Non abbiamo testimonianze dirette nel I sec. che indichino che i discepoli del Battista pretendessero che il loro Maestro fosse il Messia atteso. Tuttavia l'insistenza del QV nel sottolineare come Giovanni non fosse lui la vera luce, ma soltanto un suo testimone (Gv 1,6-8), contrapponendolo alla “luce vera” (Gv 1,9) e sottolineando più volte come Gesù fosse più grande del Battista (Gv 1,15.30; 3,30.31) e che il Battista non era né il Cristo, né Elia, né il profeta, tutto ciò lascia intendere come queste affermazioni non fossero casuali, ma dirette contro delle pretese del gruppo dei battisti, con cui il primo cristianesimo era in forte contrasto. Testimonianze dirette in tal senso, benché tardive, ma molto significative, si riscontrano nelle Ricognitiones o Pseudo-clementine, opera del III sec., che si rifà a fonti del II sec., in cui l'autore è a conoscenza che i discepoli del Battista proclamavano il loro Maestro, e non Gesù, il vero Messia. In tal senso cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag. LXXVII della parte introduttiva e pagg. 61-62 del commento; op. cit.
58Cfr. Mt 11,14; 17,10-13; Mc 9,11-13
59Cfr: Mt 7,29;8,27; 21,10.23; Mc 1,27; 4,41; Lc 4,32.36; 7,49; 8,25; 9,9; 20,2.-
60Secondo gli studiosi il Libro di Isaia, composto da 66 capitoli, non è attribuibile ad un unico autore, poiché diverse sono le epoche che vi si rispecchiano (circa due secoli e mezzo, dal 740 al 500 a.C.). La suddivisione proposta, pertanto, segue questo schema: Protoisaia, capp.1-39, epoca databile 740-700 a.C.; Deuteroisaia, capp.40-55, databile in epoca esilica (597-538 a.C.), più precisamente tra il 550 e il 539 a.C. Periodo in cui sembra abbia operato l'anonimo profeta; Tritoisaia, capp. 56-66, databile in epoca postesilica dal 537 a.C in poi. Questa, chiaramente, è una suddivisione di massima. Siamo ben coscienti che la questione del Libro di Isaia e della sua formazione è molto più complessa e ancora lontana dalla sua conclusione. Si è voluto, tuttavia, dare una rapida delucidazione molto semplificata per un primo orientamento sul Libro. Sulla questione cfr. la voce “Isaia” in nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia e Nuovo Dizionario di Teologia Biblica; tutte le opere citate.
61Cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, pag.78; op. cit.
62Cfr. Gv 7,32.45; 11,47.57; 18,3
63Il verbo bapt…zw (baptízo) significa immergere.
64Cfr. La voce “Conoscere” a pag.57 della Parte Introduttiva, sotto il titolo “Il vocabolario giovanneo”.
65L'espressione “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, colui che viene o il veniente) con riferimento a Gesù, ricorre nel N.T. 32 volte e compare sempre in contesti dai forti richiami messianici, escatologici e apocalittici.
66Cfr. Mt 4,19; 10,38; 16,23.24; Mc 1,17; 8,33.34; Lc 9,23; 14,27; o in modo ambivalente di sequela e successione temporale come in Mt 3,11; Mc 1,7; Gv 1,15.27;
67Non è raro, comunque, che Giovanni concluda i suoi racconti con citazioni geografiche come in 1,28; 2,11.12; 3,22; 4,43.54; 6,59; 8,20; 10,40; 11,54.
68Lo stadion alessandrino fu introdotto all'epoca dei Maccabei (circa 170 a.C.) e misurava 184,9 mt. Per cui 15 stadi corrispondono a 2.773 mt. - Sulla questione cfr. la voce “Pesi e Misure” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
69Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.71; op. cit.
70Cfr. il commento ai vv.26-27, pag.39.
71Sul verbo “vedere” in Giovanni cfr. il titolo “Il vocabolario giovanneo”, pag. 80 della Parte Introduttiva della presente opera.
72Cfr. Gv 3,2; 6,46; 8,42; 13,3; 16,27-28
73L'annotazione temporale si trova direttamente espressa in 1,29.35.43; 2,1. Nel v.1,19, benché non sia rilevata in modo diretto, tuttavia è lasciata sottintesa da quella enunciata in 1,29, che presuppone il giorno prima.
74L'espressione verbale/avverbiale “”‡de” è una forma inusuale, che sta talvolta per quella più corrente “”„doÝ” (idù). Quest'ultima si riscontra 1036 volte in A.T. e 193 volte nel N.T., mentre la prima ricorre nell'A.T. soltanto 68 volte e 33 volte nel N.T., di cui 4 in Mt, 8 in Mc, 0 in Lc, 19 in Gv, 1 in Rm e 1 in Gal.
75Cfr. Gen 21,28.29.30; Lv 14,10
76I Padri della Chiesa vedono nel sacrificio di Isacco una prefigurazione di quello di Cristo. La figura di Isacco, infatti ha dei tratti molto somiglianti a quelli di Gesù. Come Gesù, Isacco è figlio unico e molto amato dal padre, richiesto in sacrifico ad Abramo da parte di Dio (Gen 22,1-2). Isacco, che sale sul monte Moira con la legna del sacrificio sulle spalle (Gen 22,6), richiama da vicino Gesù che sale sul Golgota con il legno della croce; giunto sul monte Isacco sta per essere sacrificato, ma il suo sacrificio viene sostituito da un ariete, che assume funzioni vicarie ed espiatorie, figura di un altro capro e di un altro sacrificio espiatorio e vicario, che si compirà sul Golgota..
77Cfr. Sal 113, 4.6; Prv 27,26; Sap 19,9; Sir 13,17; 47,3; Is 5,17; Ger 51,40; Dn 3,39; Os 4,16;
78Nel 1892 Bernhard Duhm (1847-1928), teologo luterano tedesco, famoso per i suoi studi esegetici sui profeti dell'Antico Testamento e in particolar modo di Geremia e Isaia, individuò nel libro di quest'ultimo quattro testi che presentavano un misterioso Servo di Jhwh, che adempie una particolare missione divina: soffre, ma non si ribella e muore per i nostri peccati, ma viene glorificato da Dio. I testi sono: Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53.12
79L'immagine si ritrova anche Is 53,7
80Cfr. At 8,32; 1Pt 1,19; Ap 5,6.12; 7,14; 12,11; 13,8.-
81Sulla questione cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, , commento sinottico: pagg. 152 e 279-280; op. cit. - Jaques Hervieux, Vangelo di Marco, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo (MI) 1993, pag.81; Rinaldo Fabris, Matteo, Edizioni Borla srl, Roma, 1996, pag. 290; Ortensio da Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 1998, pagg. 366-367.
82Cfr. Mt 12,31.32; Mc 3,29
83Cfr. Is 32,15-20; 44,3-4; Gl 3,1-5
84Cfr. Mt 3,16-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22
85Cfr. Mt 4,1; Mc 1,12; Lc 11,20
86Sul raffronto battesimo di acqua e di Spirito cfr. le pagg. 39-40, poste a commento dei vv.26-27
87Cfr. 1Enoch 48,6; Esdra 7,28
88Cfr. Gv 1,33; 4,34; 5,23.24.30.37; 6,38.39.44; 7,16.18.28.33; 8,16.18.26.29; 9,4; 12,44.45.49; 13,16.20; 14,24; 15,21; 16,5.-
89Cfr. Gv 1,32.33.51; 3,13; 6,33.41.50.51.58.
90Il verbo bapt…zw (baptízo) significa immergere, sommergere
91Circa il Deuteroisaia cfr. nota 59 del presente scritto.
92Cfr. Dn 7,9; Zc 3,5; Mt 17,2; 28,3; Mc 9,3; 16,5; Lc 9,29; Gv 20,12; At 1,10; Ap 1,14; 2,17; 3,4.5; 4,4; 6,2.11; 7,9.13.14; 14,14; 19,11.14; 20,11.-
93Sul significato dei numeri tre e sette cfr. le voci corrispondenti in Manfred Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, Edizioni Paoline srl, Cinisello Balsamo (MI), 1990
94Per i termini “Unigenito” e “prediletto” cfr. Gv 1,14.18; 3,16.18; 15,9a; 17,23d.24b.26b;
95Cfr. Mt 5,9; Lc 20,36; Gv 1,12; 11,52; Rm 8,14.16.19.21; 9,28; Gal 3,26; Fil 2,15; 1Gv 3,1.2.10; 5,2.-
96Cfr. Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-11
97Cfr. il titolo “La comunità giovannea” nella Parte Introduttiva della presente opera (pag 32)
98Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, alla voce “Il contesto storico e culturale in cui si è formato il vangelo”, pag.3 e ss.
99Cfr. il titolo “Il fraintendimento o malinteso” - pag.53 – della Parte Introduttiva della presente opera.
100Cfr. il titolo “Il vocabolario giovanneo”, alla voce “vedere” - pag 80 – della Parte Introduttiva della presente opera.
101 Cfr. Gv 1,39; 4,6.52; 19,14;
102 Sul significato simbolico del “dieci” cfr. la voce “Dieci” in Manfred Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici; e la voce “Numeri” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; tutte le opere citate.
103 Cfr. il titolo “L'ellenismo” della Parte Introduttiva della presente opera; pagg. 13-15
104 Sulla questione del discepolo prediletto cfr. la Parte Introduttiva della presente opera alle pagg. 28-30
105 Cfr. Mc 8,27-29; Mt 16,13-19; Lc 9,18-20.
106 Cfr. Mt 16,22-23; Mc 8,32-33; Lc 9,
107 Sul conflitto Pietro-Discepolo Prediletto cfr. pagg.28-29.33.36 e nota 78 della Parte Introduttiva della presente opera.
108 Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni, pag.181. Sulla questione si cfr. anche R. E. Brown, Giovanni, pag.107. Tutte le opere citate.
109 Cfr. 4,34; 5,30; 6,34
110 Cfr. 1,45; 5,39b.46-47; 12,41; cfr. anche Lc 24,27.
111 Betsaida, il cui nome significa “casa dei pescatori” (bēt sayyādāh), è una cittadina posta sulla riva nord occidentale del lago di Genezaret e sulla riva orientale del Giordano, nelle vicinanze delle sue foci; essa è in prossimità di Cafarnao, dove, secondo Matteo, Gesù venne a stabilirsi dopo aver lasciato Nazareth (Mt 4,13); e di Corazin con la quale, assieme a Cafarnao, condivide il duro rimprovero di Gesù per la sua resistenza all'annuncio (Mt 11,21.23; Lc 10,13.15). Essa venne elevata al grado di città da Filippo, il quale, secondo Giuseppe Flavio: “ingrandì Panea, la città vicino alle fonti del Giordano e la chiamò Cesarea; e la zona di Bethsaida sul lago di Genezareth la eresse al grado di città aumentandone gli abitanti e irrobustendone le fortificazioni; e la chiamò Giulia dal nome della figlia di Cesare” (Ant. Jud. 18,28). Betsaida ricevette anche il nome di Iulia, dal nome della figlia dell'imperatore Augusto.
112 Sul tema dell'ironia cfr. il titolo “Lingua e stile letterario”, pagg. 52-54, della Parte Introduttiva della presente opera.
113 Cfr. Gv 1,47; Rm 9,4; 11,1; 2Cor 11,22; Eb 11,28
114 Sul termine “Giudei” cfr. la voce “Il vocabolario giovanneo” a pag. 61 della Parte Introduttiva della presente opera.
115 Cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, pag.98
116 Cfr. Mt 4,18-22; 9,9; Mc 1,16-20; Lc 5,1-3
117 Cfr. Mt 21,18-19; Mc 11,12-14.21; Lc 13,6-9
118 Cfr. 1Re 5,5; 2Re 18,31; 1Mac 14,4-12;
119 Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag. 110.
120 Rab significa “grande” e unito alla desinenza personale “i” significa “mio grande”. Si tratta di un titolo di rispetto e non di un riconoscimento accademico, come avverrà successivamente, nel passaggio tra il I e il II sec. d.C.
121 Cfr. 2Sam 7,14a; Sal 2,2.7; 88,27-28;109,3