IL VANGELO DI MATTEO

 

 

 

 

Analisi esegetica e teologica

 

 

 

a cura di Giovanni Lonardi

 

 

 

 

  

 

 

 

PARTE INTRODUTTIVA

 

 

 

 

 

Introduzione

 

 

Dopo aver affrontato il Vangelo di Matteo da un punto di vista narrativo (v. il titolo “Il racconto di Matteo” presente in questo sito), limitandoci all'analisi della macrostruttura e a quella di alcuni dei suoi numerosi personaggi che lo popolano, ci accingiamo, ora, a studiarlo da un punto di vista storico-critico e teologico.

 

Considereremo qui di seguito l'Autore, la comunità matteana, il luogo e la data di composizione dell’opera, la sua formazione e la sua struttura. Passeremo, quindi, ad un’attenta e dettagliata analisi dell’opera di Matteo, mossi da una grande passione per la Parola di Dio e per il mondo in cui essa si è incarnata.

 

Fin dai primi tempi della chiesa il vangelo di Matteo ha sempre goduto di una posizione privilegiata, molto probabilmente per la maturità della sua riflessione teologica e della sua cristologia ed ecclesiologia. Rispetto al racconto marciano, molto sintetico e letterariamente più grezzo e dotato di un linguaggio più immediato e popolare, anche se narrativamente molto vivace, tanto da far credere a S.Agostino che fosse una sorta di riassunto di Matteo[1], quello matteano si presenta più ricco e completo, l’ecclesiologia è più esplicita e decisamente più evoluta. Rispetto al vangelo di Luca quello di Matteo si presenta maggiormente e meglio strutturato, sicuramente possiede una più precisa geografia palestinese, piuttosto carente in Luca, anche se va riconosciuto al racconto lucano un’impronta tipicamente narrativa, eleganza e fluidità di stile e una particolare ricchezza di materiale che gli è proprio[2].

 

L'Autore

 

La tradizione canonica ci ha passato questo vangelo sotto il nome di Matteo, benché esso, come tutti gli altri vangeli e la maggior parte degli scritti neotestamentari, sia nato anonimo[3] all’interno delle varie comunità credenti che si andavano formando nel I secolo. L’esigenza di nominarli è sorta nel corso del II sec. d.C. per questioni legate prevalentemente alla formazione del canone[4].

Chi fosse esattamente questo Matteo non ci è dato di sapere, anche se la Tradizione ce lo indica inequivocabilmente come l’apostolo Matteo. A nostra disposizione abbiamo soltanto due fonti: la tradizione patristica e il testo stesso dell’autore.

 

Quanto alla Tradizione patristica, questa sembra rifarsi in modo pressoché esclusivo e acritico ad una espressione di Papia[5] (70-150 d.C.), vescovo di Gerapoli, riportataci da Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesistica[6]: “Perˆ d toà Matqa…ou taàt' e‡rhtai: Matqa‹oj mn oân `Ebradi dialšktJ t¦ lÒgia sunet£xato, ¹rm»neusen d' aÙt¦ æj Ãn dunatÕj ›kastoj”.  (“Quanto a Matteo dice (Papia) queste cose: Matteo pertanto mise in ordine le cose dette in lingua ebraica, ma ognuno le interpretò come era capace”). La frase è sibillina anche perché riportata fuori dal contesto in cui si trovava originariamente. L’espressione pertanto va interpretata. Innanzitutto il termine lÒgia è un aggettivo al neutro plurale[7] che deriva dal verbo log…zomai o da lÒgoj. Ha quindi a che fare con il dire, il parlare, predicare, pensare, ragionare, certamente non con il fare o l’operare per i quali il greco userebbe verbi come poišw o ™rg£zomai. Potremmo quindi tradurre il termine lÒgia con “cose dette” o più semplicemente con “discorsi”, ricomprendendo in questi anche detti,  sentenze e brevi parabole. La questione è ora capire a quali discorsi si fa riferimento, se a quelli pronunciati da Gesù o a quelli su Gesù. La cosa non è irrilevante, poiché se si tratta di discorsi o detti pronunciati da Gesù o a lui comunque attribuiti, allora Papia faceva riferimento esplicito alle cinque grandi raccolte[8] di detti e discorsi di Gesù nonché all’attività redazionale di Matteo e non a tutto il suo vangelo[9].

Diversamente, se si tratta di discorsi o detti su Gesù che in vario modo circolavano nelle varie comunità primitive, allora Papia doveva riferirsi all’intera opera matteana così come la conosciamo noi oggi. Comunque, sia nella prima che nella seconda ipotesi è comprensibile e giustificato il verbo “sunet£xato”, cioè mise assieme, coordinò, costruì, mise in ordine, coordinando i detti secondo una certa logica, sempre con riferimento all’attività redazionale dell’evangelista.

La seconda parte dell’espressione di Papia: “¹rm»neusen d'aÙt¦ æj Ãn dunatÕj ›kastoj”  lascia del tutto sconcertati. A cosa facesse riferimento Papia è impossibile sapere essendo la sua espressione, come si è detto, estrapolata dal suo contesto originale. Si può soltanto dire come l’intera espressione è scandita in due parti tra loro contrapposte dalle particelle “mn” e “”, per cui mentre Matteo si dava da fare per dare un ordine logico secondo una sua propria visione alla sua opera, rendendone il messaggio facilmente raggiungibile alla sua comunità (mn) , dall’altra () sembra che ciascuno la interpretasse o la comprendesse a modo proprio. La contrapposizione (mn -) va a cadere in particolar modo sui due verbi: “sunet£xato” e  “¹rm»neusen”. In tal modo si ha, da un lato, da parte dell’evangelista, un’azione ordinatrice dei detti secondo una determinata logica e comprensione degli stessi, che vanno a formare l’opera dell’autore; dall’altro, una libera e disordinata interpretazione dell’opera matteana.  A cosa faceva riferimento Papia? L’interrogativo rimane. Sembra comunque che sull’opera matteana ci fossero delle cattive o non corrette interpretazioni che ognuno liberamente dava[10], creando difficoltà e confusione all’interno della stessa comunità che rischiava in tal modo di disgregarsi e a cui Matteo sembra in qualche modo fare riferimento nella sua opera (Mt 7,6.16-29).

 

Quanto all’espressione “`Ebradi dialšktJ” si interpreta che Matteo scrisse in lingua ebraica le cose dette da Gesù. Ma è una interpretazione, a nostro avviso, molto improbabile innanzitutto perché non aveva senso scrivere un’opera in ebraico, cioè in una lingua che non era più conosciuta ed era relegata ormai alla sacralità del culto e della liturgia. Probabilmente l’espressione “`Ebradi dialšktJ” può essere compresa come dialetto ebraico, cioè  aramaico. Anche questa interpretazione tuttavia ha scarsa attendibilità poiché da un’attenta analisi letteraria risulta che il vangelo di Matteo è un’opera scritta in un greco elegante e fluente, la quale cosa lascia pensare che l’autore fosse un ebreo della diaspora ellenistica; un’opera che non è di traduzione, quindi, ma scritta di getto in lingua greca. Come allora interpretare l’espressione “`Ebradi dialšktJ”? È molto probabile che la frase di Papia non vada letta come se Matteo scrisse in lingua ebraica i discorsi di Gesù, poiché non si parla mai di un Matteo che scrive in ebraico i detti di Gesù, ma semplicemente che dette ordine, coordinò, mise assieme detti di Gesù che Matteo trovò scritti in lingua ebraica/aramaica presso le comunità della Palestina, che lui raccolse ed elaborò successivamente e in modo diretto in greco. Non è da ritenere corretto infatti che prima della stesura dei vangeli non esistesse nessuno scritto su detti e opere di Gesù, ma soltanto un’esclusiva trasmissione orale. Probabilmente le singole comunità avevano dei propri scritti su Gesù e sulla sua attività sia predicatoria che missionaria in genere e che serbavano per proprie esigenze liturgiche, cultuali, catechistiche, apologetiche, per far fronte alle polemiche, o simili occasioni. Non vanno poi dimenticati i predicatori itineranti che nelle loro predicazioni si servivano di alcuni schemi che ritroviamo anche negli Atti degli Apostoli (At 10,37-43).

 

Ci siamo soffermati a lungo su questo testo di Papia poiché tutta la Tradizione patristica successiva ne fa riferimento e da esso dipende, dando origine alla convinzione di un primitivo vangelo matteano scritto in lingua ebraica per gli Ebrei[11] e successivamente tradotto in greco. L’esegesi moderna, tuttavia, da un’attenta analisi interna al testo, ritiene che questo vangelo sia stato scritto direttamente in greco e che il suo autore non sia identificabile con l’apostolo Matteo, poiché sembra chiaro che egli sia un ebreo della diaspora appartenente all’area ellenistica.

 

L’autore è pertanto un ebreo e ne dà prova non soltanto nella sua arte letteraria[12], nel suo accentuato e spesso feroce antagonismo (Mt 23) con il giudaismo rabbinico di Jamnia[13] al quale contende il primato e il diritto esclusivo sull’eredità religiosa lasciata dal giudaismo stesso dopo il 70 e sulla sua capacità di interpretazione della Torah (Mt 5,17.21-48; 23,2), ma anche con la sua perfetta e profonda conoscenza scritturistica, riportando nella sua opera una quarantina di citazioni veterotestamentarie che riferisce a Gesù, vedendo in lui il compimento delle Scritture e pertanto il Messia, l’atteso da Israele. Lo stesso lessico[14], di cui è disseminata l’opera matteana, tradisce l’origine ebraica dell’autore: “regno dei cieli”, “Padre nostro”, “Padre celeste”, “Legge e Profeti” per indicare le Scritture, “casa” e “figli d’Israele”, “legare e sciogliere”, “carne e sangue”, “Le Porte dell’Ade”, “pianto e stridore di denti”, “fuoco della Geenna”, “dodici tribù d’Israele”, “tenebre esteriori”, “consumazione del secolo”.

Egli inoltre conosce molto bene gli usi e i costumi giudaici e parla con precisione di frange[15], di filatteri[16] (23,5), delle abluzioni rituali (Mt 15,2.20; 23,25)[17], del cammino permesso in giorno di sabato[18] (24,20); menziona il pagamento delle decime[19] (23,23), l’uso di imbiancare le tombe[20] (23,27). Dimostra di conoscere la distinzione dei precetti gravi e precetti leggeri, le diverse modalità di formulare un giuramento[21] (5,33-36; 23,16-22), le opere tradizionali di pietà come l’elemosina, la preghiera e il digiuno[22]; è al corrente anche della disputa delle due scuole rabbiniche di Shammai e Hillel[23] circa le questioni riguardanti il divorzio[24] (5,31-32; 19,3-9). Tuttavia l’autore non spiega queste usanze, come invece avviene per Marco in 7,1-4, perché presuppone che i suoi lettori ne siano al corrente, segno questo che la comunità matteana era composta prevalentemente se non esclusivamente da giudeo-cristiani. L’autore quindi dà di sé la chiara idea di uno che è ben addentro alle faccende giudaiche e non solo per sentito dire.

 

Sempre secondo la tradizione patristica[25] Matteo rientra nel numero dei dodici apostoli[26] scelti da Gesù e più precisamente egli è quel Levi, pubblicano, che Gesù invitò alla sua sequela[27]. La credibilità di tali affermazioni tuttavia non è supportata né da indizio né tanto

meno da prova certa, ma sembra piuttosto un comodo escamotage per facilitare l’entrata nel canone dell’opera matteana[28]. L’analisi letteraria e alcune valutazioni sulla figura di Matteo, che da questa traspare, sconsiglia di associare l’autore all’apostolo Matteo o al pubblicano Levi. Innanzitutto l’autore dipende per le sue fonti da Marco, che riporta quasi integralmente nella sua opera. Diventa pertanto difficile pensare che un discepolo, apostolo di Gesù, che egli ha seguito da vicino fin dagli inizi della sua attività pubblica, si affidi a Marco, che non è mai stato né discepolo né tanto meno apostolo, per trarre le sue informazioni primarie sul Maestro. In seconda battuta, Matteo dimostra una profonda conoscenza delle Scritture che sa interpretare ed applicare molto bene, conosce inoltre le tecniche letterarie rabbiniche e la tecnica della disputa rabbinica, tutte cose queste che mal si addicono ad un pubblicano[29], esattore delle tasse. Anzi è proprio per questa sua abilità scritturistica e conoscenza di tecniche letterarie rabbiniche, che si pensa a Mt 13,52 come ad una sorta di cammeo che abilmente l’autore, a mo’ di firma, ha inserito nella sua opera: “Ed egli disse loro: "Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche". E l’autore del primo vangelo si dimostra proprio tale per saper coniugare abilmente le Scritture con la figura di Gesù, in cui vede il loro compimento[30] (Mt 5,17). Non è neppure da escludere che Matteo parli di se stesso anche in 8, 19: “Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: "Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai". Tale intervento esprime tutto l’entusiasmo di questo scriba incantato e stupito dal messaggio di questo Rabbi e decide di seguirlo; ed è proprio questo scriba che si ritroverà in 13,52 in cui viene definito “discepolo”. Sembra quindi esserci uno stretto collegamento tra lo scriba di 8,19, che decide di farsi discepolo e quello di 13,52, in cui invece si nota uno scriba già “divenuto discepolo”. Va notato infine che in tutta l’opera matteana il termine scriba viene citato 22 volte, ma soltanto due volte (8,19; 13,52) al singolare e in un contesto decisamente positivo; mentre per le altre venti volte il termine è citato al plurale e in un contesto negativo e persecutorio nei confronti di Gesù ed è spesso associato ai farisei, anziani e sacerdoti, noti per la loro avversione a Gesù.

 

La comunità matteana

 

Ogni vangelo è nato all’interno delle prime comunità credenti per esigenze proprie di quelle comunità, che cercavano in tal modo di darsi un punto di riferimento certo e delle risposte ai vari problemi sorti al loro interno e nelle loro relazioni con il mondo esterno. I vangeli, pertanto, non vanno pensati come opere avulse da quelle realtà, né sono il frutto della pietà di qualche biografo, né sono da considerarsi come opere di edificazione morale o spirituale destinate ai cristiani per incrementarne la pietà, ma sono il momento conclusivo, il punto di arrivo di una lunga riflessione, gestazione e selezione[31] operate all’interno delle numerose comunità e sono da considerarsi una risposta decisiva alle esigenze e ai problemi che le travagliavano. All’interno dei vangeli pertanto troviamo non solo la comprensione e la testimonianza del mistero di Cristo, che queste comunità hanno avuto e ci hanno tramandato, ma anche i tratti storici che le caratterizzavano, i problemi interni ed esterni che le agitavano, le motivazioni del loro credere, le difficoltà che avevano nell’affrontare la nuova fede e quelle del passaggio dalla fede dei Padri a quella del nuovo Rabbi; un passaggio non sempre facile e scontato e che molti dubbi lasciava ancora nei nuovi credenti (Mt 28,17b). In breve, possiamo affermare che nei vangeli si riflettono le prime comunità nelle loro complesse dinamiche. Affronteremo pertanto la questione della comunità matteana a partire da un’analisi interna al vangelo stesso, ritenendo scarsamente attendibili le fonti esterne, e la considereremo sotto alcuni aspetti, quali la sua composizione sociale, la sua provenienza, i suoi problemi interni e quelli causati dalla transizione da una fede ad un’altra, conseguentemente le sue relazioni conflittuali con l’ambiente circostante e la sofferenza delle persecuzioni a cui era soggetta, ma anche la sua notevole maturità e forte identità cristiana, nella consapevolezza che se queste cose sono state scritte e non altre è perché proprio queste rispecchiano esattamente le dinamiche profonde che muovevano e agitavano quelle comunità. E in queste cose noi cercheremo di trovare la loro eco profonda giunta fino a noi.

 

La composizione sociale della comunità di Matteo e la sua collocazione ambientale sembra essere quella propria di una ricca e benestante comunità cittadina, basata sul commercio e il latifondo. Il termine città (gr. pÒlij) nell’opera matteana ricorre ben 27 volte contro le sole 8 di Marco e di Giovanni, ma tuttavia ben poche volte contro il greco cosmopolita Luca che ne conta ben 41 solo nel suo vangelo e 45 negli Atti degli Apostoli. Matteo inoltre è l’unico in tutta la Bibbia che cita il termine banchiere[32] al plurale (trapez…tai) e il termine interesse (tÒkoj[33]) mettendo così in  rilievo una realtà molto diffusa nell’ambiente in cui si collocava la sua comunità e con la quale essa probabilmente aveva a che fare normalmente. È una comunità in cui si parla di talenti[34] e Matteo è l’unico in tutto il N.T. che usa questo termine. Nella parabola lucana corrispondente (Lc 19,12-25) non si parla di talenti, bensì di mine il cui valore era molto esiguo, corrispondendo una mina a circa un sessantesimo di talento[35]. Unico tra gli evangelisti Matteo parla di oro e di argento, mentre il Gesù matteano invita i propri discepoli a non portare con sé monete d’oro, d’argento o di rame (Mt 10,9). Il termine moneta o denaro ricorre negli evangelisti complessivamente 35 volte di cui ben 18 volte nel solo Matteo. Una comunità, quindi, dove i valori venali e materiali scorrevano in abbondanza. Una comunità che doveva essere fondata oltre che sul commercio, si parla infatti di un tale che va alla ricerca di perle preziose o di tesori o della tendenza in genere di ricercare l’accumulo di beni materiali[36], anche sul latifondismo[37]. La ricchezza inoltre doveva essere una forte tentazione per questa comunità, sul cui pericolo Matteo mette ripetutamente in guardia[38]. Da ultimo si noti come Matteo, unico, nelle sue beatitudini parla di “beati i poveri in spirito” (5,3), contrariamente a Luca che parla solo di “poveri” (6,20), segno questo che Matteo non poteva estendere la beatitudine soltanto ai poveri materialmente, probabilmente per la prevalenza di ricchi o benestanti rispetto a questi ultimi. Il termine povero e povertà, infatti, ricorre 38 volte in tutto il N.T. , ma soltanto 4 volte in Matteo nel senso di povertà materiale.

 

È quella matteana una comunità che proviene dal giudaismo. Matteo infatti dissemina la sua opera di una quarantina di citazioni scritturistiche, che applica a Gesù, e non sente il bisogno di spiegarle, poiché ne presuppone la conoscenza, così come non spiega, a differenza di Marco (Mc 7,2-4), gli usi e costumi degli ebrei circa la questione della purità (Mt 15,2.20; 23,25), l’usanza dell’imbiancare le tombe sotto la festività della Pasqua (Mt 23,27), la questione della decima (Mt 23,23), menziona senza spiegare termini come frange e filatteri (Mt 23,5). Affronta questioni specificatamente ebraiche come la pratica della giustizia nella sua triplice e comune espressione dell’elemosina, preghiera e digiuno (Mt 6,1-19); riprende la Torah, la cita senza spiegazioni e la reinterpreta alla luce della nuova fede (Mt 5,18-48), ma prima di farlo rassicura i suoi ascoltatori che la nuova fede non abroga la Legge, ma ne dà il senso compiuto e la valorizza (Mt 5,17), anzi “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.” (Mt 5,19); usa parole aramaiche senza tradurle[39], segno che i suoi ascoltatori lo conoscevano, anche se si rivolge loro in greco, forse per dare una anche dimensione universalistica alla sua opera. Ritiene che Israele sia il destinatario esclusivo del disegno di salvezza (Mt 10,5-6; 15,24) e questo di certo non l’avrebbe detto così palesemente  e per due volte se i suoi interlocutori fossero stati dei pagani; ed infine presenta la figura del pio israelita che va alla ricerca della salvezza che Gesù indica nella fedele osservanza della Torah (Mt 19, 16-20).

 

Ci troviamo di fronte ad una comunità che è in una fase di transizione: dal giudaismo alla nuova fede. Innanzitutto la nuova fede non rinnega la Torah (Mt 5,17) anzi ne incita la fedele osservanza (Mt 5,19; 19,16-17; 23,2-3a), ma tuttavia, nel contempo, essa viene reinterpretata alla luce di Gesù, distaccandosi dalla consueta interpretazione rabbinica, anzi contrapponendosi ad essa e dandole una maggior coerenza nella sua osservanza[40]. Una Torah a cui viene riconosciuto il potere di dare salvezza, ma non la perfezione di vita davanti a Dio; questa risiede soltanto nella sequela di Gesù (Mt 19,16-21), aprendo in tal modo una nuova dimensione nel proprio rapportarsi a Dio. Si pone in tal modo un confronto tra Mosé e Gesù, dal quale esce vincente il nuovo Rabbi[41]. In Gesù il mondo del giudaismo, pur non venendo soppresso, subisce un’evoluzione radicale e sconvolgente[42] che non tutti sono in grado di recepire e sopportare, per questo il progetto iniziale del Padre, che vedeva in Israele il depositario delle promesse (Gen 12,1-3; 2Sam 4,7-17) e veicolo di salvezza per gli altri popoli (Es 19,5-6), viene esteso ora anche ai non giudei (Mt 21,28-31.33-43), che saranno equiparati ad Israele (Mt 20,1-16), mentre il nuovo criterio di discriminazione non sarà più la circoncisione e la Torah, ma la fede in Gesù[43].

 

È questa una comunità che sta consumando la rottura con il giudaismo ed è in forte contrasto con questo. Ricorrono spesso le espressioni “le loro sinagoghe” e “le vostre sinagoghe”[44] in cui si sente il distacco e l’estraneità della nuova comunità credente da quella giudaica. La sinagoga non è più sentita come il luogo del culto, ma diventa soltanto il luogo degli ipocriti che la usano per mettersi in mostra, luogo quindi di esibizione personale (Mt 6,2.5; 23,6), mentre il culto a Dio, come un fico lussureggiante di foglie, ma privo di frutti, è sentito come una sfarzosa manifestazione della propria religiosità, che non produce però nessun frutto di vera pietà nella vita (Mt 15,7-9; 21,18-19). Gerusalemme, la città santa, è definita come un covo di malfattori e di assassini, sorda ai richiami di Dio, manifestatisi in Gesù (Mt 23,37), per questo la sua distruzione da parte dei suoi nemici[45] viene letta da Matteo come la conseguente punizione per la sua pervicace incredulità (Mt 23,38). Continue ed estenuanti sono le polemiche sulla questione del sabato (Mt 12,1-2.8.10-12), del digiuno (Mt 9,14-17), della purità (Mt 15,1-20), della pratica della giustizia (Mt 6,1-8.16-18), sul ripudio (Mt 19,3-9), sulla risurrezione (Mt 22,23-33), sulla liceità di pagare le tasse all’invasore romano (Mt 22,16-21), sulla messianicità di Gesù (Mt 22,41-46). Viene mossa l’accusa al giudaismo di aver fallito la sua missione per non aver saputo riconoscere in Gesù il Messia, inviato dal Padre, e colui che portava a compimento le promesse fatte ad Abramo e a Davide; per questo verrà destituito dalla sua elezione a favore dei pagani[46]. Pesante e violenta l’invettiva dell’intero cap. 23 in cui vengono impietosamente messe in luce tutte le contraddizioni di un giudaismo obsoleto, legato alla lettera della Legge e soprattutto ai propri interessi.

 

Proprio per la dura polemica con il mondo giudaico e per la scelta della nuova fede sorta all’interno di un giudaismo che la contrastava, la comunità matteana divenne oggetto di persecuzioni. Il clima di tensione e di difficoltà risuona nelle stesse beatitudini dove beati sono definiti gli afflitti (5,4), quelli che hanno fame e sete di giustizia (5,6) e quelli che sono perseguitati a causa della giustizia e per la loro sequela di Gesù (5,10-11). È una comunità che ha coscienza del proprio ruolo missionario, ma sa anche ciò che l’attende: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: ...” (Mt 10,16-19). La nuova fede sta creando anche situazioni conflittuali all’interno delle stesse famiglie in cui “Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire” (Mt 10,21) e, assurdamente, l’annuncio dell’amore del Padre manifestatosi in Gesù sta seminando l’odio dappertutto  (Mt 10,22). Ma tant’è, e la comunità matteana deve farsene una ragione, poiché lei sta testimoniando e predicando un maestro che è stato per primo perseguitato, incompreso, rifiutato e infine crocifisso come il peggiore dei delinquenti e rivoluzionari. Così come è successo a lui succederà anche a lei (Mt 10,24-25; 13,57). La sequela pertanto comporta una scelta radicale fino al necessario rinnegamento di se stessi: “Allora Gesù disse ai suoi discepoli: <<Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l'uomo potrà dare in cambio della propria anima? Poiché il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Mt 16,24-27). La profonda coscienza missionaria che anima la comunità matteana sarà la causa di molte sue tribolazioni, ma la pervicace fedeltà al proprio Maestro alla fine sarà per essa motivo di salvezza (Mt 24,9-14).

 

Luogo e data di composizione

 

Numerose sono le proposte circa il luogo della composizione del vangelo matteano. Generalmente esso viene individuato nell’alta Galilea o nella Siria meridionale, benché la maggioranza degli esegeti proponga Antiochia di Siria dove era rilevante la presenza dei giudeocristiani. Contro quest’ultima ipotesi il Gnilka osserva che la comunità antiochena era fin dall’inizio aperta alla missione verso i pagani e non presentava la conflittualità che invece si rileva in Matteo. Il Gnilka ritiene invece che la comunità matteana sia situata in un ambiente cittadino e indica come probabile  la città di Damasco[47].

 

Da un’attenta analisi interna al testo matteano ci sembra di poter individuare tale località in Palestina e più precisamente a Cesarea Marittima[48], in cui forte era la presenza di Greci siri e di una consistente minoranza ebraica; inoltre, all’epoca, essa era da tempo (6 a.C.) sede dei procuratori romani e stazione delle guarnigioni romane. Era una città portuale posta sulla via che collegava l’Egitto con Damasco e che inseriva la Palestina nel circuito dell’impero romano. Una città quindi importante e di fiorente commercio, dalle dimensioni cosmopolite se non per numero di abitanti almeno per la centralità della sua posizione geografica, politica ed economica.

 

Elementi indicativi a favore di Cesarea Marittima[49] ci sembra di poterli individuare nel fatto che:

 

-         Matteo è un giudeocristiano ed è profondamente legato culturalmente al mondo del giudaismo, che dà a vedere di conoscere molto bene;

-         Scrive in un greco fluente e ciò dà a pensare che egli provenga dal giudaismo della diaspora o da ambienti palestinesi con forte presenza di Greci e/o ellenisti in cui è bene inserito. Si pensi in tal senso alla regione della Decapoli o alla stessa Cesarea Marittima;

-         L’ambiente in cui scrive è sicuramente cittadino, formato da una consistente componente giudaica, ma anche pagana;

-         Il fatto che l’autore scriva in greco dice due cose: a) i suoi lettori lo capiscono perfettamente e conoscono nel contempo l’aramaico, visto che l’autore grecizza termini aramaici senza bisogno di spiegarli. La disinvolta conoscenza del greco e dell’aramaico fa pensare ad una comunità di origine giudaico-palestinese, ma ormai inserita in un contesto cosmopolita, con forte e radicata presenza di componenti sociali pagane, con cui ha che fare quotidianamente. Non si tratta quindi di una comunità inserita in qualche sperduto villaggio della Palestina o comunque di secondaria importanza, vista anche la presenza al suo interno di ricchi proprietari e persone comunque benestanti, dediti al commercio e al latifondo. b) Il secondo motivo per cui Matteo scrisse in greco fu per dare un respiro universalistico alla sua opera, così che essa potesse essere compresa anche dai non giudei[50]. Non va dimenticato infatti che la comunità matteana possiede in sé una forte spinta missionaria e quindi aperta in qualche modo anche al mondo pagano, benché questa spinta sembra essersi prodotta in seguito ad una sua evoluzione interna nell’ambito di una ricomprensione della propria identità e della propria missione, sviluppatasi probabilmente sul finire del I sec. Infatti agli inizi della sua costituzione essa sembra rivolgersi ai soli ebrei[51], ma successivamente essa si apre alle genti[52]. Tutto ciò dà a vedere come questa comunità giudaica si muova in un ambiente con forte presenza pagana verso la quale sente il dovere e la necessità di aprirsi.

-         La comunità matteana, poi, non poteva che essere all’interno della Palestina proprio per il radicale contrasto con il giudaismo rabbinico. Si noti, infatti, come Matteo nella sua opera, sicuramente composta dopo il 70 d.C. , come vedremo, non se la prende con il giudaismo in genere, verso il quale mostra deferenza, lo difende e lo ossequia[53]; i suoi strali, invece, sono rivolti verso un particolare e nuovo tipo di giudaismo che si stava formando e diffondendo: quello rabbinico, sorto a Jamnia. Fondamentale in tal senso è l’espressione con cui si apre il cap. 23 e ne dà l’intonazione: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei” (Mt 23,2), espressione questa che forma un preciso atto di accusa proprio verso quel gruppo di dottori della Legge capeggiato da Jochanan ben Zakkaj e stabilitosi a Jamnia nel 70 d.C. , a seguito dei i tragici eventi della guerra giudaica. Considerato, poi, che il vangelo matteano è stato composto, nella sua prima edizione, intorno agli anni 80 d.C. , cioè a soli dieci/dodici anni dalla fondazione della comunità rabbinica di Jamnia, non è pensabile come la formazione di tale nuova e inedita dimensione del giudaismo sia stata immediatamente operativa, ampiamente diffusa e radicata anche al di fuori della Palestina, così da scatenare le dure invettive di Matteo, ma deve aver avuto sicuramente un lungo e travagliato periodo di incubazione durato almeno alcuni decenni[54]. L’affermazione di tale giudaismo infatti troverà il suo apogeo soltanto con la fondazione, intorno al 170 d.C. , delle accademie di Usha e Bet Shearim in Galilea[55]. È pensabile ed è credibile, invece, che questo abbia fatto sentire il suo primo influsso nelle aree palestinesi vicine a Jamnia, come Cesarea Marittima, posta a circa 75 Km da questa e facilmente raggiungibile, grazie alla via commerciale che collega l’Egitto alla Siria e che passa attraverso le due città.

-         Cesarea Marittima[56], pertanto, sembra possedere tutti i requisiti presupposti nell’opera matteana: è una città portuale, sede del potere imperiale, popolata prevalentemente da pagani di lingua greca, la quale cosa può giustificare l’uso del greco in Matteo e la sua apertura al mondo pagano circostante; vi è inoltre una forte presenza, anche se di minoranza, di giudei, presso i quali doveva essersi diffuso e radicato, di recente, il nuovo giudaismo rabbinico per la vicinanza con Jamnia; e ciò giustifica la forte e vivace polemica e l’opposizione, che permeano tutta l’opera matteana, con questi nuovi “padroni” del giudaismo, che Matteo attacca duramente nel cap. 23 e che apostrofa senza remore, accusandoli di essersi impadroniti arbitrariamente della cattedra di Mosé (Mt 23,2). La vivacità poi dell’accusa (“Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei”) fa pensare ad un nuovo giudaismo, riconiugato e ricompattato attorno alla sola Torah, che si è insediato di recente e che già in qualche modo fa sentire la sua presenza e le sue pretese esclusiviste, che Matteo, alla pari dei Samaritani ed di altri giudei ellenisti, rifiuta e alle quali si contrappone con determinazione. Non dobbiamo pensare infatti alla fondazione del nuovo giudaismo rabbinico come una sorta di marcia trionfale che nel giro di qualche anno ha infiammato di entusiasmi tutto il mondo giudaico. Gli stessi fondatori non dovevano avere esattamente idea di quanto stavano generando e certamente la loro attività era finalizzata solamente a dare una temporanea compattezza al giudaismo per evitare che i disastri provocati dalla guerra giudaica portassero allo sfaldamento e quindi alla definitiva estinzione del giudaismo stesso con tutta la sua Tradizione e le sue promesse[57]. Cesarea Marittima, inoltre, proprio per la sua importanza politica e commerciale, doveva essere popolata anche da numerosi ceti ricchi o quantomeno benestanti, la cui eco si sente risuonare più volte nel vangelo di Matteo. La numerosa presenza di pagani di lingua greca, poi, nonché la posizione geografica di Cesarea (porto di mare e posta sulle grandi vie di comunicazione dell’impero) deve aver spinto la comunità matteana nella sua fase evolutiva, probabilmente verso la fine del I sec. , a rivolgere il nuovo annuncio messianico anche a loro, sentendolo come aspetto fondamentale della propria missione e facente parte della sua identità credente, per la quale si sente investita dello stesso potere del loro Maestro: “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>” (Mt 28,18-20).

 

Quanto alla data di composizione dell’opera matteana, la questione è piuttosto complessa per il variegato contenuto e la composizione dell’opera stessa. Riteniamo che il vangelo di Matteo non sia stato composto di getto nella forma che oggi conosciamo, ma abbia avuto quanto meno due fasi fondamentali: una prima edizione, intorno agli anni 80, composta dai cinque grandi discorsi, che costituiscono, a loro volta, altrettanti contenitori di detti, sentenze e parabole; una seconda edizione, che forma la redazione finale del vangelo stesso, così come oggi lo conosciamo. Essa si pone intorno alla metà degli anni 90 o comunque molto vicina all’anno 100 se non oltre[58].

 

La questione è già stata sopra accennata nel tentativo di decifrare l’enigmatica affermazione di Papia, riportata da Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica, circa il vangelo di Matteo. In quell’occasione si diceva che Papia facesse riferimento all’attività di composizione (sunet£xato) del vangelo matteano, che, in una sua prima stesura, probabilmente molto diffusa e conosciuta presso le prime comunità, raccoglieva e combinava insieme, cercando di darne una sequenza logica preordinata, i vari discorsi o detti attribuiti a Gesù. In tal caso sarebbe necessario capire da dove Papia trasse la sua informazione, poiché se l’espressione da lui riportata fa riferimento all’attività redazionale di Matteo, come suggerisce il verbo stesso (sunet£xato), allora è necessario concludere che il vangelo di Matteo non fosse ancora conosciuto e ampiamente diffuso nel I sec. nella versione a noi giunta, ma soltanto come una semplice raccolta di detti di Gesù, che formava in origine un blocco unico a se stante, così come lo fu il Vangelo di Tommaso[59], e soltanto in un tempo successivo, probabilmente sul finire del I sec. e forse anche oltre, si diffuse per quello che noi ora lo conosciamo. Vi furono dunque almeno due redazioni di tale vangelo: la prima come elaborata raccolta di cinque grandi gruppi di discorsi, che successivamente furono integrati con racconti sull’attività missionaria di Gesù, nei quali si riflette un’evoluta e consolidata maturità della comunità matteana. Del resto è la stessa struttura del vangelo di Matteo che suggerisce tale ipotesi. Tale opera infatti si presenta oggi come una sorta di sandwich composto da cinque grandi raccolte di discorsi, che originariamente formavano un corpo a se stante, alternate da altrettante sezioni  riguardanti i racconti sull’operare di Gesù e la sua missione, successivamente aggiunti e combinati assieme ai discorsi[60]:

 

 

1)      Primo discorso: 5,1 - 8,1

                                                                             a) Racconti sull’attività di Gesù:   8,2 – 10,4

2)  Secondo discorso: 10,5 – 11,1      

      b) Racconti sull’attività di Gesù: 11,2 – 13,2

      3) Terzo discorso: 13,3 - 53

      c) Racconti sull’attività di Gesù: 13,54 – 17,27

      4) Quarto discorso: 18,1 – 19,1

                                                                            d) Racconti sull’attività di Gesù: 19,2 – 23,29

      5) Quinto discorso: 24,1 – 26,1

                                                                            e) Racconti sull’attività di Gesù: 26,2 - 16

 

 

Questa ipotesi ci sembra sostenibile per un triplice motivo a cui si aggiunge una semplice considerazione:

 

1)      se osserviamo attentamente le conclusioni dei primi quattro discorsi notiamo come questi terminino tutti con una formula sostanzialmente identica e preconfezionata: “Kaˆ ™gšneto Óte ™tšlesen Ð'Ihsoàj toÝj lÒgouj toÚtouj (7,28) ... diat£sswn (11,1) ... t¦j parabol¦j taÚtaj (13,53) ... toÝj lÒgouj toÚtouj (19,1)” (“E accadde che quando Gesù terminò questi discorsi / ... di dare disposizioni / ... queste parabole /... questi discorsi”). Il quinto discorso termina in modo significativamente diverso, anche se apparentemente simile agli altri: “Kaˆ ™gšneto Óte ™tšlesen Ð'Ihsoàj p£ntaj toÝj lÒgouj toÚtouj, epen to‹j maqhta‹j aÙtoà” (“E avvenne che quando Gesù terminò tutti (p£ntaj) questi discorsi ...”). Qui nella conclusione di quest’ultimo discorso, e soltanto qui, l’autore aggiunge l’aggettivo quantitativo onnicomprensivo p£ntaj, con chiaro riferimento ai discorsi che lo precedono e che in qualche modo li abbraccia per intero.

2)      I cinque discorsi, inoltre, sono compattati tra loro anche dall’inclusione di 7,28 e 26,1, che costituisce la fine del primo e dell’ultimo discorso e che letterariamente, come due grandi parentesi, salda assieme i cinque discorsi formandone un unico blocco.

3)      L’affermazione di Papia, poi, parla di  lÒgia, cioè di discorsi, di detti, di sentenze o di brevi parabole, poiché il termine lÒgia, come si diceva sopra, può essere inteso solo in questo senso e non nel senso più estensivo di racconti sulla vita di Gesù. I cinque discorsi pertanto formavano un corpo unico a se stante, sorto probabilmente intorno agli anni 80 d.C. , come vedremo di seguito.

4)      Ai tre punti precedenti va aggiunta una considerazione di ordine generale che guida le logiche dell’esegesi: gli sviluppi non vanno mai dal più al meno, bensì dal meno al più; dal meno evoluto, dal più primitivo al più evoluto, al più complesso. È pensabile quindi che, per le motivazioni sopra addotte, il primo nucleo del vangelo matteano consistesse in una complessa e ben coordinata raccolta di detti di Gesù, che Matteo ha offerto, quale stimolo di riflessione dai toni squisitamente sapienziali, alla sua comunità perché in essi trovasse dei rapidi e concisi punti di riferimento da far giocare nelle dinamiche del proprio vivere personale, all’interno della comunità e nel proprio rapportarsi al mondo esterno. La raccolta di questi detti in cinque grandi discorsi non è casuale, ma essi sono stati raggruppati assieme con l’intento di formare cinque grandi temi di riflessione spicciola e pronta all’uso per orientare la propria comunità nel suo vivere quotidiano. Le cinque tematiche che i detti sviluppano ci sembrano essere le seguenti:

 

A)    Primo discorso (5,1-8,1): Le nuove regole comportamentali esigite dal Regno nei confronti del credente;

B)     Secondo discorso (10,5-11,1): Codice comportamentale della nuova comunità inviata ai non credenti;

C)    Terzo discorso (13,3-53): il Regno: che cos’è, la sua dinamica e le sue esigenze;

B’) Quarto discorso (18,1-19,1): Alcune regole comportamentali da osservare     

       tra i membri all’interno della comunità credente;

A’) Quinto discorso (24,1-26,1): Le regole comportamentali del credente dopo

       Gesù

 

L’ordine originale dei cinque discorsi doveva essere questo a motivo delle considerazioni di cui ai precedenti punti 1) e 2)  e se così è allora possiamo rilevare in essi una struttura parallela e convergente sulla lettera C), che forma peraltro il tema fondamentale del vangelo matteano. A questi doveva far riferimento il vescovo Papia nella sua espressione riportata da Eusebio di Cesarea, quando parlava di lÒgia.

 

Questo gruppo di cinque discorsi sembra potersi collocare intorno all’anno 80 poiché in esso si riflette una situazione di profonda e vivace conflittualità con il giudaismo rabbinico. Questo, infatti, iniziatosi nel 70 d.C. , è probabile che incominci ad imporre le proprie pretese, dopo circa un decennio, nei territori vicini a Jamnia, come quello di Cesarea Marittima da noi considerato, e con il quale la comunità matteana, di provenienza giudaica, è chiamata ad un duro confronto. All’interno di questi discorsi si percepisce la presenza di una comunità in fase di prima evoluzione, se sente il suo ruolo missionario ancora ristretto ai giudei (Mt 10,5-6); è ancora una comunità che si sta formando e soffre di grandi conflittualità anche all’interno della cerchia familiare (Mt 10,21-22.34-38). Si adombra la distruzione del Tempio (Mt 24,1-3) avvenuta nel 70 d.C. e se ne parla come di un evento ormai abbastanza lontano, ma che è ancora molto vivo nella mente della gente e le cui conseguenze sono ancora presenti (Mt 24,7-13). Si sente l’eco del diffondersi delle prime cattive interpretazioni del messaggio cristiano e delle pretese di sedicenti maestri e profeti che predicano il ritorno di Cristo come evento già compiuto (Mt 24,23-28). Dall’insieme si ha l’impressione di una comunità che è ancora in una prima fase di formazione, piuttosto disorientata e in cui c’è ancora confusione, grandi difficoltà e gente che rimesta nel torbido; una comunità quindi che sta vivendo in un ambiente civile e religioso difficile, per le conseguenze devastanti della prima guerra giudaica (66-70 d.C.). I discorsi poi si presentano come un insegnamento di Gesù (Mt 5,1-2) che Matteo impartisce alla sua comunità, il cui intento è quello di fondarla e formarla; e ciò si verifica preferibilmente quando la comunità non ha ancora una sua solida identità e una sua robusta personalità, che invece appare nelle unità narrative. Il contenuto dei discorsi infatti ha un ritmo sapienziale e sembra formato quasi da pillole di saggezza cristiana con cui la comunità credente è chiamata a confrontarsi e a tenere sottomano per ogni evenienza quotidiana.

Ci sembra pertanto che questo primitivo nucleo del vangelo matteano possa collocarsi intorno agli anni 80, un tempo questo non molto lontano dai disastri della guerra giudaica e contemporaneamente un tempo sufficiente perché il nuovo giudaismo, privato del Tempio e consolidatosi esclusivamente attorno alla Torah, faccia sentire le sue prime pretese nella Palestina e in particolar modo nei territori limitrofi a Jamnia.

 

L’edizione definitiva dell’opera matteana, caratterizzata dall’integrazione dei cinque gruppi dei discorsi con altrettante unità narrative sull’opera di Gesù, ci sembra di poterla collocare tra il 95 e il 100 d.C. in un’epoca comunque molto tardiva[61].

 

Tale datazione alta è dettata da una ecclesiologia che già risente di una forte istituzionalizzazione e che vede in Pietro e negli apostoli il gruppo fondante della Chiesa (Mt 10,2-5a; 16,16-18), che Gesù ha insignito del suo potere (Mt 10,1; 16,19; 28,18-19a); una comunità che sente il bisogno di avere persone dedicate a continuare la missione del suo maestro e che per questo deve invocare l’aiuto divino (Mt 9,36-38). Si sente l’eco di una liturgia che ha già elaborato delle formule teologicamente ricche e ben definite (Mt 6,9-13; 26,26-28; 28,19b); il vangelo inoltre usa espressioni proprie di una comunità ormai matura e ben strutturata con una personalità e identità proprie ben affermate; una comunità che sente molto forte il problema della missione alle genti e che di questa ha già fatto una sorta di suo statuto specifico (Mt 28,18-20) ed ha già abbandonato pertanto l’idea di una missione ristretta ad Israele, avendo ormai compreso come la salvezza legata all’annuncio è un dono che presuppone soltanto la fede (Mt 8,5-13; 15,22-28) e non più l’appartenenza genealogica ad Israele (Mt 3,7-9). Si sente una comunità animata da una sua propria identità già ben consolidata e tale da potersi contrapporre con fermezza e durezza al giudaismo (Mt 23,1-39) contendendogli addirittura la sua legittimità (Mt 23,1-2), che Matteo invece attribuisce a Gesù, riconoscendogli autorità e potere superiori a quelli del rabbinismo di Jamnia (Mt 7,29; 9,6.8; 28,18) e che dà a chi vuole (Mt 10,1). In queste unità narrative risuonano ormai come un’eco lontana gli eventi salvifici compiutisi in Gesù, che viene adorato già come il Signore, vissuto e celebrato nel culto e predicato alle genti, che la comunità matteana cerca di fare discepole[62].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

[1] Nella sua opera “De consensu evangelistarum” (I,2) S.Agostino definiva il vangelo di Marco come il “valletto e compendiatore” di Matteo: “Marcus eum (Matteo) subsecutus tamquam pedisequus et breviator. Tale giudizio sbrigativo e dispregiativo pesò negativamente sulla tradizione successiva. Dopo la pubblicazione degli altri vangeli, quello di Marco subì una sorta di oscuramento dal quale fu tratto soltanto dalla critica della metà del XIX secolo. Questa lo considerò non solo il più antico dei vangeli, datandolo tra il 65-70 d.C. , ma la fonte stessa di Matteo e Luca, nonché l’inventore della forma letteraria “vangelo”. Con l’avvento del Concilio Vaticano II (1962-1965) al vangelo di Marco venne riservato un posto di tutta attenzione nell’ambito della liturgia alla pari degli altri due sinottici (Lezionario Anno B); prima della riforma il vangelo marciano era utilizzato nel lezionario domenicale soltanto 4 volte. Lo studio storico-critico della Formegeschichte (Studio delle forme) prima e della Redaktiongeschichte (Studio della redazione dei vangeli) poi ne rilevò la complessa struttura e la ricca teologia.

[2] Cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico – il Vangelo di Luca - op. cit.

[3] La questione dell’anonimato degli scritti neotestamentari assume una notevole rilevanza da un punto di vista della loro formazione e della formazione della fede primitiva. Ciò significa che il contenuto di questi scritti non è frutto di alcune menti particolarmente dotate di fantasia, ma di una lunga riflessione teologica e di una grande e profonda comprensione della figura di Gesù e del suo messaggio e del suo operare salvifici, maturate all’interno delle stesse comunità credenti. Questi scritti pertanto vanno compresi come una testimonianza di fede delle prime comunità credenti.

[4] La questione del canone (dal gr. canon = regola) si è posta nel corso del II sec. d.C. quando ormai numerosi si presentavano gli scritti neotestamentari il cui contenuto teologico e dottrinale non sempre era affidabile. Si trattava quindi di dare base comune certa e indubitabile alla fede delle chiese in fase di formazione. I criteri su cui si basarono le valutazioni della canonicità degli scritti neotestamentari furono sostanzialmente tre: 1) L’Apostolicità, cioè lo scritto doveva essere fatto risalire direttamente o indirettamente agli Apostoli o alla loro predicazione; 2) L’Universalità, cioè la diffusione e l’uso dello scritto presso le comunità credenti; 3) La Fedeltà, ossia la conformità del contenuto degli scritti ai principi dottrinali e teologici della fede. 

Una prima testimonianza del canone neotestamentario ci viene offerta dal frammento muratoriano, datato intorno al 170 d.C. che ci testimonia come già alla fine del II sec. il canone scritturistico fosse sostanzialmente fissato. La denominazione di “Frammento Muratoriano” dipende dal fatto che il testo fu scoperto nel 1740 da Ludovico Antonio Muratori presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Tuttavia l’elaborazione del canone durò fino al IV sec. Si considera, per motivi di semplicità, come data di chiusura del canone cristiano il 367 d.C. , anno in cui il patriarca Atanasio di Alessandria nella sua XXXIX lettera pasquale diretta alle comunità, si atteneva ai 27 libri neotestamentari (4 vangeli, gli Atti degli Apostoli, le 7 lettere canoniche, le 14 lettere di Paolo, di cui faceva parte anche quella agli Ebrei, e l’Apocalisse) che egli considerava come “fonti della salvezza” in cui veniva “annunciata la dottrina della beatitudine”. Successivamente il Concilio di Trento (1545-1563) l’ 8 aprile del 1546, IV sessione, con suo apposito documento definiva nuovamente, confermandolo, il canone cristiano-cattolico in opposizione alle pretese della Riforma luterana.

[5] Papia fu vescovo di Gerapoli tra il 110 e il 130 circa d.C. – Nacque a Gerapoli, nella Frigia (l’attuale Pamukkale in Turchia). Ireneo nella sua opera Adversus Haereses (5,33,4) lo fa discepolo di S.Giovanni e amico di Policarpo, vescovo di Smirne; mentre Eusebio, nella sua Storia Ecclesiastica (3,39,3), lo presenta come un “uomo di intelligenza assai mediocre, come dimostrano i suoi libri”. I libri di cui Ireneo parla sono probabilmente i cinque libri dal titolo “Spiegazione delle parole del Signore” che Papia compose intorno al 130 d.C. e di cui ci sono giunti soltanto pochi frammenti. Esso è venerato come santo dalla Chiesa Cattolica che ne celebra la memoria il 22 febbraio. (Cfr. Johannes Quasten, Patrologia, I vol. ,  Ed. Marietti, 1980, ristampa 1992. Traduzione italiana del Dott. Nello Beghin).

[6] Cfr. Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, III, 39,16.

[7] Il termine potrebbe anche essere fatto derivare dal sostantivo tÕ lÒgion che significa sentenza, oracolo, vaticinio, rivelazione divina. Abbiamo preferito far derivare t¦ lÒgia dall’aggettivo neutro plurale, traducendolo con “cose dette” perché più generico e onnicomprensivo, estendibile quindi anche non soltanto a detti e sentenze, ma all’intera attività predicatoria di Gesù.

[8] I cinque grandi discorsi sono contenuti nei seguenti versetti: 5,1-8,110,5-11,113,3-13,5318,1-19,124,4-26,1 .

[9] Sulla questione vedasi l’argomento circa la “data di composizione” del vangelo di Matteo nella presente opera.

[10] Una simile tendenza viene anche denunciata dall’autore della Seconda Lettera di Pietro: “La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt 3,15-16).

[11] In tal senso cfr. Ireneo, Adv. Haer. III,1,1 (in Eusebio, Hist. Eccl. V,8,2): “Matteo, fra gli Ebrei nella loro stessa lingua, pubblicò anche un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo a Roma evangelizzavano e fondavano la chiesa”. Origene, Comm. Mt. (in Eusebio, Hist. Eccl. VI,25,4): "Per primo fu scritto [il Vangelo] secondo Matteo, una volta pubblicano, ma dopo apostolo di Gesù Cristo; lo ha pubblicato per i credenti venuti dal giudaismo, composto in lingua ebraica"; Gerolamo, Vir. ill. 3: "Matteo ..., per primo compose il vangelo di Cristo, in lettere e parole ebraiche".  Eusebio, Hist. Eccl. V,10,3, che parla di un Vangelo di Matteo scritto in lingua ebraica e portato dall'apostolo Bartolomeo in India. (Per questa citazione cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli ..., op. cit. e Clementina Mazzucco, dispense di Filologia ed Esegesi neotestamentaria, a.a. 2003-2004, Modulo 1 o Parte Istituzionale, Introduzione al Nuovo Testamento – nota 49).

[12] Matteo è uno che ama i parallelismi, anzi i suoi cinque grandi discorsi sono posti tra loro in forma di un parallelismo concentrico, come vedremo più avanti, mentre il suo vangelo si apre significativamente con una genealogia per stabilire, secondo le logiche del giudaismo da Esdra in poi, la diretta discendenza di Gesù da Abramo e da Davide, facendo capire chiaramente fin da subito che è lui la realizzazione di tutte le promesse divine. (Dopo il rientro dall’esilio di Babilonia nel 538 a.C. Esdra si trovò di fronte ad una situazione nazionale disastrosa in cui il popolo ebreo rimasto in Palestina era sostanzialmente scomparso, fagocitato dai matrimoni misti con il mondo pagano e deturpato nella sua cultura religiosa e nella sua religiosità dai culti pagani dei popoli confinanti. Per ristabilire l’identità ebraica Esdra aveva imposto di dimostrare la propria ebraicità attraverso la propria discendenza, desumibile dalla propria genealogia di appartenenza. Grande importanza infatti viene data alle genealogie nei libri di Esdra e Neemia e grande cura agli elenchi di nomi. Cfr. in merito: Esd 2,1-70; 2,62; 7,1-6; 8,1-14; Ne 7,7-73; 10,1-28; 12,1-26)

[13] Matteo è l’unico dei quattro evangelisti che si mostra molto polemico e in forte lotta con il mondo del giudaismo rabbinico uscito da Jamnia. Anche il vangelo giovanneo evidenzia tra le sue righe un certo atteggiamento polemico e finemente ironico contro i Giudei. Ma mentre la polemica di Matteo si rivolge contro l’intero sistema religioso giudaico e tende a disconoscerlo e a screditarlo, quello di Giovanni punta il dito contro l’incredulità del mondo giudaico, incapace di saper cogliere la novità portata da Gesù. Insomma, se a Giovanni dispiace che i Giudei abbiano rifiutato il messaggio innovativo di Gesù, da parte sua Matteo tende, invece, a minare alla radice l’intero sistema del nuovo giudaismo rabbinico e a distruggerlo per istaurare sulle sue ceneri la novità del cristianesimo, concepita come un’evoluzione innovativa del giudaismo precedente quello rabbinico.

[14] Per il lessico cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli ..., op. cit.

[15] Le frange erano quelle del tallit un mantello che l’ebreo indossava nel momento della preghiera e che i farisei ostentavano per attirare l’attenzione sulla loro devozione.

[16] I filatteri erano capsule in cuoio legate con cinghie al braccio sinistro e al capo e contenevano quattro passi della Torah scritti su pergamena: Dt 6,4-9; 11,13-21; Es 13,1-10 e 13,11-16. Essi vengono citati in tutta la bibbia soltanto una volta in Mt 23,25.

[17] La cura quasi ossessiva con cui gli ebrei lavavano il vasellame prima di utilizzarlo per purificarlo da eventuale contaminazione con cose immonde o si lavavano le mani prima di mettersi a tavola, di cui abbiamo un esempio in Mc 7,1-4 e in Mt 23,25, era dettata non da norme igieniche, ma rituali. Circa tali norme cfr Lv 11-15.

[18] Il cammino consentito di sabato era di 2000 cubiti pari a circa 900 metri. Il cubito (ebr. ‘ammah) è la distanza che intercorre tra l’estremità del gomito e quella del dito indice. La sua misura equivale ai nostri 45 cm. circa – Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell’A.T. , Ed. Marietti Spa, Genova, ristampa della III edizione 2002.

[19] La decima era una sorta di tributo molto diffuso nel mondo biblico. Essa poteva essere versata una tantum o a intervalli regolari ed ammontava alla decima parte del proprio patrimonio o reddito. Era presente presso i Fenici, i Cartaginesi, i Neobabilonesi, i Persiani, gli Arabi, Greci e Romani. Essa era praticata anche presso Israele benché il suo significato fosse più religioso che civile. Solo in 1Sam 8,15.17 la decima è per il re, mentre altrove è sempre collegata al mondo divino. Era quindi una sorta di riconoscimento che i beni che si possedeva appartenevano a Dio e da Lui l’uomo dipendeva (Lv 27,20). La questione della decima è regolamentata in Lv 27,30-34. Altri testi parlano di decima come istituzione già in atto e scontata (A titolo esemplificativo cfr. Gen 14,20; 28,22; Nm 18,21.24.26.28; Dt 12,6.11.17; 14,22-24.28; 26,12; 2Cr 31,6.12; Ne 10,38-39; 13,12; Am 4,4; Ml 3,8.10  .

[20] L’uso di imbiancare le tombe si riallaccia alla questione della purità. Infatti, se un pellegrino giungendo a Gerusalemme per celebrare la Pasqua avesse toccato anche involontariamente una tomba o un ossario, si contaminava e non poteva più quindi celebrare il rito della Pasqua. Il contatto con un cadavere infatti causava un’impurità che durava sette giorni e rendeva necessaria una duplice aspersione con l’apposita acqua nel terzo e settimo giorno (Nm 19,11-12). Da qui l’uso di imbiancare le tombe per renderle ben visibili. Cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli ... ; e Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, opp. citt.

[21] Circa il tema del giuramento cfr. il commento di Mt 5,33-37 nella presente opera.

[22] Circa il tema della pratica della giustizia cfr. il commento di Mt 6,1-34 nella presente opera.

[23] Circa il divorzio la scuola rigorista di Shammai lo ammetteva soltanto nel caso di adulterio o di cattiva condotta da parte della moglie; mentre quella più permissiva di Hillel lo ammetteva per una qualsiasi ragione, anche futile come, ad es., se la moglie avesse cotto male un cibo o più semplicemente se il marito avesse trovato un’altra donna più piacente della propria moglie. (Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell’Antico testamento, op. cit.

[24] Circa il tema del divorzio cfr. il commento di Mt 5,32-33 nella presente opera.

[25] Cfr. Origene in Eusebio, Hist. Eccl. V,8,2; Gerolamo, Vir. Ill. 3

[26] Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13.

[27] Cfr. Mc 2,14; Lc 5,27-29.

[28] Uno dei criteri fondamentali di canonicità (cfr. nota 4) era l’Apostolicità, cioè la dipendenza diretta o indiretta dell’opera dalla predicazione degli Apostoli, quali diretti testimoni di Gesù e quindi indiscutibilmente degni di fede. Era quindi giocoforza che la Tradizione attribuisse, spesso anche con forzature, l’opera ritenuta canonica alla figura di qualche apostolo.

[29] Il termine gr. telènhj letteralmente significa appaltatore, riscuotitore di tasse o pubblicano, ma a differenza del publicanus romano, esattore delle grandi imposte che egli riscuoteva da un’intera provincia, il telènhj era un piccolo esattore che comperava il diritto di riscuotere le tasse e imposte locali. Per una migliore comprensione cfr. la voce “Pubblicano” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[30] Si pensi in tal senso alle numerose citazioni veterotestamentarie che Matteo applica in varie occasioni a Gesù; si pensi come il Gesù matteano riprende le principali norme della Torah e, ben lungi dal ripudiarle (Mt 5,17-19), le reinterpreta in un nuovo contesto e in una nuova prospettiva (Mt 5,21-48).

[31] Cfr. Gv 20,30-31; 21,25

[32] Anche Luca, riportando il versetto matteano, cita in 19,23 il termine banca (tr£peza) anziché il matteano “banchieri” e riporta parimenti quello di “interesse”.

[33] Il termine greco, nel senso di interesse legato al denaro, si riscontra 9 volte in tutto l’A.T. (Es 22,24; Lv 25,36-37; Dt 23,20; Prv 28,8; Ez 18,8.13.17)  

[34] Cfr. Mt 18,24; 25,15-28. Il talento (ebr. Kikkar: rotondo; e gr. Talanton) era l’unità di misura di peso più grande. Il nome deriva probabilmente dalla forma con cui venivano forgiati i grandi pezzi di metallo (oro, argento ferro e rame) a cui corrispondeva un determinato valore venale. È difficile fare un raffronto con le nostre attuali misure, tuttavia per farci un’idea si pensi che la rendita annua dei possedimenti di Archelao corrispondeva a 600 talenti, mentre quella di Erode Antipa era di 200 (cfr. G.Flavio, Antichità Giudaiche, 17,318-320). Per una maggiore comprensione, un talento valeva 6.000 denari, pari ad altrettante giornate di lavoro, cioè circa 16 anni di lavoro. (cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli; la voce “Pesi e Misure” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; R. de Vaux, Le Istituzioni dell’antico Testamento. Tutte le opere sono già citate).

[35] Cfr. R. de Vaux, Le Istituzioni dell’antico Testamento, op. cit.

[36] Cfr. Mt 6,19-21; 7,6; 12,35; 13,44-46.52; 19,21; 27,6.

[37] Cfr. Mt 6,26; 13,24-30; 18,23-32; 20,1-15; 21,28-31a.33-41.

[38] Mt 6,19-21; 13,22; 19,22-24.

[39] Cfr. 5,22; 27,6

[40] Cfr. Mt 5,21-48; 6,1-7.16.18; 12,1-8.10-12; 15,1-12.17-20; 19,3-11; 23,16-24

[41] Significativo in tal senso è il racconto della Trasfigurazione (Mt 17,1-8) in cui appaiono assieme a Gesù Mosé ed Elia, la Legge e i Profeti, che conversavano con lui; ma al termine dell’episodio l’evangelista commenta che i discepoli “Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo” (Mt 17,8). Alla fine, quindi, i due scompaiono e rimane solo Gesù, quale unica sintesi evolutiva e innovativa delle Scritture.

[42] Il racconto della cacciata dei venditori dal Tempio (Mt 21,12-13), colto nel suo significato metaforico, raffigura come l’avvento di Gesù porta ad un rovesciamento del culto, riportandolo alla sua purezza iniziale e indicando il Tempio non più come un centro religioso-sociale e commerciale, ma come il peculiare luogo d’incontro tra Dio e l’uomo. Tale gesto profetico di Gesù, pertanto, evidenzia la sua azione rinnovatrice nei confronti di un vecchio e stanco giudaismo, ridotto ormai ad un cumulo di norme da osservare, ma del tutto incapace di ricondurre l’uomo a Dio nella sincerità del suo cuore.

[43] Cfr. Mt 8,5-13; 9,2.22.29; 15,22-28; 21,22

[44] Cfr. Mt 4,23; 9,35; 10,17; 12,9; 13,54; 23,34

[45] Si fa qui probabilmente riferimento alla rivolta giudaica iniziata nel 66 d.C. e terminata drammaticamente con al conquista e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 ad opera di Vespasiano e Tito.

[46] Cfr. Mt 21,28-31.42-45; 22,1-13; 23,37-38

 

[47] Cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli – commento sinottico, op. cit.

[48] Cesarea Marittima sembra essere stata fondata dai Fenici nel IV sec. a.C. come piccolo porto con il nome di Torre di Stratone. Nel 31 a.C. Augusto diede la regione ad Erode il Grande che, tra il 22 e il 9 a.C. , vi fece costruire una città completamente nuova del cui splendore Giuseppe Flavio parla nella sua opera Guerra Giudaica (1, 408-415). Il porto si trovava presso l’importante via commerciale che collegava l’Egitto a Damasco, inserendo la Palestina nel grande circuito dell’impero romano. A partire dal 6 a.C. divenne sede dei procuratori romani, che durante le festività, per ragioni di sicurezza, si trasferivano a Gerusalemme. Cesare Marittima era quindi anche sede di stazione delle guarnigioni romane. La popolazione, di circa 50.000 persone, era composta prevalentemente da Greci siri e da una forte minoranza giudaica. Durante la guerra giudaica (66-70 d.C.) essa divenne la sede del quartier generale di Vespasiano. Insegnì la città dello status di colonia romana e ai suoi abitanti diede l’esenzione dalle tasse, cosa questa che ne favorì notevolmente lo sviluppo. (Cfr. la voce “Cesarea Marittima” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.).

[49] Questi elementi vanno colti nel loro insieme e intrecciati tra loro. Soltanto in tal modo ne può uscire un quadro significativamente indicativo.

[50] Per lo stesso motivo Flavio Giuseppe (37-105 d.C. ca), giudeo per nascita e cultura, scrisse le sue opere in lingua greca, anziché nel più limitante aramaico.

[51] Cfr. Mt 10,5b-6; 15,24.26.

[52] Cfr. Mt 28,19-20; 8,10-12; 15,28, versetto quest’ultimo in cui sembra riprodursi in qualche modo la situazione di 8,10-12.

[53] In tal senso è significativo il passo 5,17-19: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli”; così pure là dove esorta la comunità a compiere le opere predicate dagli scribi e farisei, ma a non imitarne però la condotta: “Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno” (Mt 23,3).

[54] Circa la questione della formazione del giudaismo rabbinico e delle problematiche inerenti cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, pagg. 160-181 – op. cit.

[55] Cfr. A.R. Carmona, La Religione ebraica, Storia e teologia, pag. 160 - op. cit.

[56] La centralità di Cesarea Marittima nell’ambito della diffusione del cristianesimo viene testimoniata in particolar modo anche dagli Atti degli Apostoli, che la citano per ben 15 volte dal cap. 8,40 a 25,13. La città doveva essere per i cristiani sufficientemente sicura sia perché qui vi era la sede dei procuratori romani sia perché forte era la presenza dell’esercito romano. Lo stesso Paolo, che si trovava a Gerusalemme, vi verrà trasferito dal tribuno Claudio Lisia per sottrarlo al complotto ordito dai giudei (At 23,12-23).

[57] Il Carmona in tal senso afferma: “In linea di principio, il giudaismo rabbinico non rinuncia a nessun caposaldo della sua tradizione, specialmente al tempio e ai suoi sacrifici, ma con realismo sa assumere e organizzare  quelli rimasti disponibili per poter continuare a vivere come popolo di Dio. è l’inizio di un cammino segnato dalla provvisorietà, fino a quando non sarà possibile ristabilire altri elementi importanti. Il giudaismo rabbinico è vissuto dai suoi fondatori non come realizzazione di un programma ben riflettuto e definitivo, ma come un modo di rispondere alle esigenze quotidiane , appunto come un qualcosa di transitorio, senza peraltro poter prevedere che sta prendendo corpo una nuova modalità destinata a vedere destinata a durare sino ai nostri giorni” – Cfr. La Religione ebraica, Storia e teologia, pag. 161.

[58] La tendenza della critica è quella di contenere tutti gli scritti neotestamentari entro il primo secolo. Il motivo di fondo è quello di non distanziare troppo gli scritti dagli eventi storici a cui essi si riferiscono. Più vicino è lo scritto all’evento, infatti, più l’indice di garanzia della sua attendibilità sale.

[59] Il Vangelo di Tommaso è un’opera di origine gnostica databile intorno al II sec. Essa si presenta come un elenco di 114 detti di Gesù, ognuno dei quali è genericamente introdotto con l’espressione “E Gesù disse”.

[60] Non è da escludersi che al momento della redazione finale del vangelo anche il blocco dei lÒgia sia stato rimaneggiato con aggiunte o modifiche di altri detti per renderli più compatibili con l’insieme del quadro generale dell’opera finale.

[61] Abbiamo posto come limite il 100 d.C. , ma non sono da escludersi interventi anche successivi a tale data, sotto forma di interpolazioni o aggiunte vere e proprie. Infatti quando un vangelo è molto utilizzato e diffuso presso le comunità che, variamente sparse su diversi territori e diversi contesti socio-culturali, se ne servono per gli usi e le esigenze proprie, soprattutto in una prima fase di formazione e di consolidamento del canone neotestamentario, è pensabile che queste lo abbiano parzialmente adattato alle proprie esigenze e alle proprie questioni interne. A nostro avviso, infatti, i vangeli nel loro sorgere non avevano tutta quella sacralità e quella rigida definitività che conosciamo noi oggi, ma è pensabile invece che questi scritti, sorti anonimamente, girassero tra le varie comunità e subissero dei ritocchi di adattamento alle comunità stesse. Non va mai dimenticato infatti che i vangeli non sono opere dottrinali rivolte alla Chiesa universale del tempo, ma sono singole opere sorte per esigenze pastorali e rivolte alle comunità specifiche a cui erano destinate.

[62] Significativi in tal senso sono i vv. 28,16-20 in cui si sente la lontananza dagli eventi storici salvifici: “[16]Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. [17]Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. [18]E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. [19]Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, [20]insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>”. L’orizzonte entro cui si muovono i vv. 16 e 17 è essenzialmente ecclesiale. Infatti la cornice storica caratteristica delle apparizioni (Gesù appare, i discepoli non lo riconoscono, lui che si fa riconoscere con qualche gesto, la gioia del riconoscimento, ecc.) qui è completamente assente; l’impatto con Gesù è immediato: “E vedendolo”. Matteo quando scrive è ormai lontano dalle vicende storiche. L’impatto delle emozioni e dei ricordi si sono attenuati lasciando spazio alla fede della tradizione. Il vedere dei “discepoli” (il verbo usato qui è il participio presente di oraw, che è il verbo proprio della fede) ora è solo quello della fede; e i discepoli a cui Matteo qui allude non sono più i primissimi seguaci di Gesù, bensì coloro che compongono la comunità dei credenti, probabilmente la stessa comunità di Matteo, la quale crede e adora (prosekÚnhsan) Gesù come Figlio di Dio, ma nutre dei dubbi sulla sua figura di risorto; ecco perché “vedendolo si prostrarono, ma dubitarono”.

Il dubbio è una costante che accompagna le apparizioni del Risorto e viene superato da un gesto materiale di Gesù, come il mangiare (Lc 24,40-43); o da una verifica empirica, come per Tommaso (Gv 20,27); o da una nuova apparizione, come in Mc. 16,14ss. Qui, in Matteo, niente di tutto questo. Ciò che fa superare il dubbio è la parola, il messaggio che Gesù lascia ai discepoli. Siamo, quindi, ben lontani dai tempi dei fatti: la cornice storica è sostituita dalla Parola; la fede poggia, ora, solo sull’annuncio. È evidente, dunque, che qui Matteo si sta rivolgendo alla sua comunità che è ormai lontana dalla risonanza degli avvenimenti che hanno sconvolto quel tempo e che, invece, risuonano ancora vivi in Marco.

Per Matteo il dubbio è sempre un segno di fede piccola e non ancora matura che sembra caratterizzare la sua comunità. Su di un piano religioso, il dubbio si insinua quando la realtà divina si scontra con le logiche umane. Matteo, dunque, sostiene  questa piccola fede della sua comunità con la solenne proclamazione dei vv. 18-20.