IL VANGELO DI MATTEO
Capp. 8 – 9
La Parola si fa Azione
Introduzione
Potremmo considerare i capp. 5-9 come un’unica grande sezione suddivisa in due parti tra loro complementari e di forte valenza teologica, le quali presentano la figura di Gesù come il vero Dabar[1] del Padre, che da un lato dice (5,1-7,29) e dall’altro opera (8,2-9,35). Sono due aspetti di un’unica realtà, che possiamo sinteticamente definire come la Parola che si fa azione.
Questa Parola, somministrata sul monte (5,1-2), scende ora tra la gente (8,1) e provoca due effetti fondamentali:
a) l’uomo viene rigenerato dall’ascolto accogliente di questa Parola e si apre a Dio;
b) la Parola produce da un lato la sequela e, dall’altro, incomprensione e rifiuto da parte di chi si ostina a pensare e a giudicare secondo i vecchi schemi dell’insegnamento mosaico e non capisce che ora c’è un nuovo Mosè, del quale il primo era figura.
L’unità e la complementarietà dei capp. 8-9 è data da due elementi fondamentali:
a) tematico: i capp. 5-7 presentano il primo grande discorso di Gesù, qualificato come un insegnamento (5,2) elargito da sopra un monte (5,1), che ci richiama da vicino l’episodio delle dieci parole che Jhwh dà a Mosé sul monte Sinai e che costituiscono il fondamento dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo (Es 20,1-17; Dt 5,1-22); mentre i capp. 8-9 formano quella che potremmo definire come la grande sezione dei miracoli[2], in cui si rileva come la parola pronunciata da Gesù in 5-7 diviene ora tangibile nei suoi effetti in 8-9.
b) letterario: l’unità dei capp. 5-9 è data dall’inclusione di 4,23-25 e 9,35, che li abbraccia come un unico grande racconto, scandito in due momenti tra loro complementari, qualificati non solo dal tema (parole e miracoli), ma anche dall’inclusione, data per contrapposta azione di 5,1a (Gesù sale sul monte) con 8,1 (Gesù scende dal monte). Ed è proprio questo versetto 8,1 che forma letterariamente da imbastitura e da legame tra 5-7 e 8-9, evidenziando come il contenuto di 5-7 (primo discorso di Gesù) confluisce e si attua ora in 8-9 (opere di Gesù). Tale versetto infatti non solo forma da chiusura a 5-7, ma sinteticamente indica gli effetti della parola annunciata: la sequela, colta come risposta a tale annuncio.
Quattro sono i temi predominanti che Matteo affronta in questi due capitoli:
1) Le guarigioni, colte come rigenerazione e riconciliazione dell’uomo con Dio operate dalla Parola accolta, ed anticipano in qualche modo gli effetti della risurrezione;
2) La sequela, quale risposta esistenziale all’annuncio della Parola (8,1b.18-22.23b; 9,9-10)
3) I Titoli dati a Gesù, che lo proiettano in una prospettiva messianica: “Signore” (8,2.6.8.21.25; 9,28); “Figlio dell’uomo” (8,20; 9,6); “Figlio di Dio” (8,29); “Figlio di Davide” (9,27); “Maestro” (8,19); “Sposo” (9,15). Altri titoli dati indirettamente sono quelli di “medico” (9,12) e l’attribuzione di “servo di Jhwh” (8,17).
4) Fede, stupore e rifiuto costituiscono le reazioni e le prese di posizione della gente al manifestarsi di Gesù (8,10-13.27.34; 9,8.14.24b.28.31.33.34).
Sono temi fondamentali che inquadrano la figura di Gesù e la qualificano nel suo operare tra la gente: miracoli e titoli lo definiscono come l’inviato di Dio in mezzo agli uomini; mentre fede, stupore, sequela e rifiuto sono le molteplici risposte al suo disvelarsi. Un quadro molto sintetico, che guiderà il lettore nel corso dell’opera e lo aiuterà a comprendere la persona di Gesù.
La struttura dei capp. 8-9
la struttura dei capp. 8-9 è caratterizzata dall’alternarsi del racconto di nove miracoli di guarigione, suddivisi in tre gruppi, intercalati da pericopi narrative. Vi è inoltre un decimo miracolo (la tempesta sedata: 8,24-27) che non è stato computato nel presente elenco sia perché di natura diversa rispetto agli altri nove, sia perché collocato nella parte narrativa.
La struttura dei due capitoli è la seguente:
A) v. 8,1: l’autore conclude il primo grande discorso di Gesù (5-7) ed evidenzia la sequela delle folle, quale risposta all’annuncio della parola accolta. Versetto di transizione.
B) vv. 8,2-15: primo gruppo di miracoli: 1) guarigione di un lebbroso: 8,2-4;
2) il servo del centurione: 8,5-13;
3) la suocera di Pietro: 8,14-15;
vv. 8,16-17: Sommario di guarigioni nelle quali Matteo vede il realizzarsi della profezia
di Is 53,4. Con questo sommario si chiude la prima parte della sezione 8-9.
C) vv. 8,18-27: parte narrativa scandita in due momenti: a) le due sequele (8,18-23)
b) la tempesta sedata (8,24-27)
Gesù prende la distanza dalle folle ed evidenzia le difficoltà della sequela: la scelta del discepolato espone il credente a critiche, rifiuti e persecuzioni.
D) vv. 8,28-9,8: secondo gruppo di miracoli: 1) i due indemoniati di Gadara (8,28-34)
2) il paralitico guarito (9,1-8)
E) vv. 9,9-17: parte narrativa: Gesù chiama alla sequela anche i peccatori e li accoglie al banchetto messianico. La questione del digiuno offre l’occasione per sottolineare la novità della missione di Gesù, che apre l’accoglienza divina anche ai peccatori ed evidenzia come non si può più valutare l’operato di Gesù secondo i vecchi schemi della legislazione mosaica.
F) vv. 9,18-34: terzo gruppo di miracoli: 1) Guarigione della figlia del capo sinagoga (9,18-19.23-26);
2) Guarigione dell’emorroissa (9,20-22);
3) Guarigione di due ciechi (9,27-31);
4) Guarigione di un indemoniato muto (9,32-34)
G) v. 9,35: Sommario dell’attività di Gesù che predica, annuncia e guarisce.
H) vv. 9,36-37: versetti di transizione e introduttivi alla sezione seguente: il secondo grande
discorso di Gesù, che occuperà l’intero cap. 10.
Commento al cap. 8
v. 8,1: il versetto è redazionale e costituisce una transizione dalla sezione della parola (capp. 5-7) a quella dei fatti (capp. 8-9). Funge quindi da imbastitura tra le due sezione dando una continuità logica e, in particolar modo, teologica ai capp. 5-9, facendo confluire la Parola nelle opere. Si ha pertanto una sorta di incarnazione della Parola in mezzo agli uomini; una Parola che non si limita a dire, ma anche fa, compie, opera e produce ciò che dice. è una Parola, quindi, efficace e, proprio per questo, vivificante (Eb 4,12). Questo discendere di Gesù dal monte, che anticamente era considerato sede della dimora divina, per incontrarsi con le folle, dice tutto il senso della missione di Gesù: egli è uscito dal seno del Padre (Gv 3,13; 16,28a) per tendere la mano all’uomo e recuperarlo dal suo triste destino per ripristinarlo nella stessa vita divina da cui proviene (Gv 3,16b; Mt 11,4-6). Qui Gesù è all’inizio della sua missione e l’accostamento della discesa di Gesù dal monte con le folle evidenzia il senso universale della sua missione e indica il luogo dove egli è chiamato a realizzare il disegno salvifico del Padre. Il primo atto che Gesù compie dopo la sua discesa dal monte è la purificazione di un lebbroso. Questo accostamento della discesa di Gesù con la purificazione richiama da vicino Es 19,13 dove, su comando di Jhwh (Es 19,10), Mosè scende dal monte per purificare il popolo. E qui, per indicare la purificazione, la LXX usa significativamente il verbo ¡gi£zw (aghiàzo, santificare). Non si tratta, quindi, di una purificazione fisica, ma di una santificazione del popolo attraverso il rituale purificatore del lavaggio delle proprie vesti, che simbolicamente esprimono il vivere dell’uomo. Le folle, alle quali Gesù è destinato, non sono apatiche, ma colte nel dinamismo della sequela, quale risposta esistenziale immediata alla Parola annunciata. Il verbo che Matteo usa per esprimere tale sequela è ºkoloÚqhsan (ekolùtzesan), un aoristo ingressivo che sottolinea l’inizio di un’azione destinata ad ampliarsi nel corso della missione di Gesù e che trova la sua origine proprio nell’ascolto accogliente della Parola (Rm 10,17; Ef 1,13).
La guarigione del lebbroso (8,2-4)
Premessa
Con il racconto di questo primo miracolo Matteo apre una serie di dieci prodigi concentrati nei capp. 8-9, mentre altri 8 sono variamente sparsi nel resto del vangelo[3]. La chiave di lettura di tali prodigi ci viene offerta da Matteo stesso nella risposta che Gesù dà ai discepoli di Giovanni venuti ad interrogarlo se egli fosse “colui che deve venire”: “Gesù rispose: <<Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me>>” (Mt 11,4-6). Il senso dei miracoli risiede tutto nell’espressione “colui che deve venire”, in greco Ð ™rcÒmenoj (o ercòmenos, il veniente) con cui si indicava l’uomo inviato da Dio e atteso dal popolo, cioè il messia. E Gesù risponde indicando, quale segno inconfutabile, due elementi fondamentali: le guarigioni e l’annuncio della parola. I miracoli, quindi, unitamente alla parola dalla quale non sono mai disgiunti, anzi da questa defluiscono e traggono la loro forza rigenerante, vanno colti principalmente come l’irrompere della potenza di Dio in mezzo agli uomini e sono un segno visibile di una rigenerazione spirituale che ricolloca l’uomo in seno a Dio.
I tre racconti di guarigione sono legati tra loro da una logica che evidenzia il campo d’azione della missione di Gesù: a) la guarigione del lebbroso è collocata lungo il cammino che separa la discesa di Gesù dal monte alla sua entrata in Cafarnao. Non vi è una collocazione geografica precisa come nel secondo e terzo miracolo (Cafarnao, casa del centurione e casa di Pietro); l’uomo è totalmente anonimo ed è qualificato soltanto per la sua tragica condizione di vita; non si sa se sia un ebreo o meno. Questa assenza di particolari pone questo disgraziato come l’emblema dell’umanità deturpata e degradata dal peccato. Il porsi del lebbroso sul cammino di Gesù e il muoversi di Gesù verso quest’uomo mette in rilievo il senso stesso della missione di Gesù: egli è venuto per gli uomini, per riscattarli dal loro stato miserevole di vita in cui li ha posti il peccato. b) con gli altri due miracoli, la guarigione del servo del centurione e la guarigione della suocera di Pietro, Matteo specifica le aree di azione in cui opera Gesù: egli è venuto per rigenerare l’umanità, sia essa appartenente al mondo pagano (centurione) che a quella del popolo eletto (suocera di Pietro), evidenziando l’aspetto universalistico della sua missione (Mt 28,18-20). Per il popolo pagano la discriminante fondamentale per accedere alla salvezza sarà la sola fede nella potenza della Parola. Nessun’altra qualifica o attestato servono.
Introduzione e analisi testuale
Il racconto è scarno, essenziale, libero da sentimenti di sofferenza, di pietà, di entusiasmi ed è tutto incentrato sulla potenza di un gesto e di una parola, che operano su di uno stato di vita miserevole e privo di ogni speranza e restituita alla sua primitiva originalità. Da un lato il lebbroso che invoca; dall’altro Gesù che risponde. Il dialogo tra i due è scarno, ma pregno di significati, come vedremo. Il ritmo è incalzante, rapido e il tutto si risolve in soli due versetti (vv. 8,2-3). L’essenzialità del racconto punta a mettere in rilievo l’efficacia della potenza rigeneratrice di Dio che opera nel suo Cristo e che non ha bisogno di intermediari o di rituali per arrivare all’uomo, poiché in Gesù l’uomo è raggiunto direttamente da Dio. Vi è un diretto parallelismo tra il bisogno dell’uomo e la risposta immediata di Dio, che trova il suo luogo più appropriato in Gesù, così che Gesù si costituisce come la risposta ultima e definitiva del Padre ai bisogni e alle esigenze più vere e profonde dell’uomo.
Il motivo fondamentale dell’incontro è il bisogno di purificazione, insito nell’uomo stesso; per tre volte in due versetti viene citato il verbo purificare, che possiede in sé una profonda dinamica: dapprima esso è l’oggetto di una invocazione e di un desiderio, la cui risposta non si trova nell’uomo, ma altrove; poi diviene oggetto di una precisa volontà divina, dalla quale esso trae tutta la sua potenza rigenerante; ed infine esso diviene oggetto di constatazione. Soltanto in questo ultimo caso il verbo è posto al passivo (™kaqar…sqh, ekatzarìste), che nel linguaggio biblico indica l’intervento divino. Pertanto, la purificazione invocata dall’uomo trova in Gesù la sua risposta risolutiva e definitiva ed è sempre il frutto conseguente di un dinamismo divino speso a favore dell’uomo, affinché l’uomo sia pienamente tale in ogni aspetto del suo essere.
I due versetti sono costellati di verbi, che danno al breve racconto una forte spinta dinamica e indicano l’irrompere irrefrenabile del disegno salvifico di Dio nella storia fino a raggiungere il suo compimento nella purificazione dell’uomo: giungere, prostrarsi, dire, stendere la mano, toccare, dire, volere, purificare, essere purificata.
Commento del testo 8, 2-4
v. 2: il versetto si apre con un redazionale “kaˆ „doÝ” (ed ecco), con cui Matteo richiama l’attenzione del suo lettore sulla scena che si sta per aprire e nella quale si svolge e si attua ora la storia della salvezza. Essa è qui sintetizzata dall’incontro disponibile dell’uomo con il suo Dio.
Questo versetto è riservato alla presentazione di quest’uomo sfortunato. Egli è innanzitutto un lebbroso, cioè un essere immondo, reietto dalla società, per sua natura impuro e, quindi, incapace di relazionarsi con Dio e con gli uomini. Il lebbroso, infatti, era escluso dalla società civile e religiosa e la lebbra ne decretava la morte civile e religiosa, mentre lo consumava fisicamente e lo deteriorava spiritualmente[4]. Triste destino quello del lebbroso, reietto dagli uomini e impossibilitato ad accostarsi a Dio.
Ma con l’avvento di Gesù Dio si è reso immediatamente raggiungibile da ogni uomo, che si apre a Lui nella fede e riconosce ed accetta Gesù nella sua divinità. Matteo, dopo aver presentato lo stato civile e religioso di quest’uomo, lo qualifica ora nel suo comportamento definito da tre verbi: “proselqën” (avvicinatosi), “prosekÚnei” (si prostrava dinnanzi) e “lšgwn” (dicendo). Vi è nei verbi un crescendo continuo: dapprima egli si avvicina a Gesù. Questo avvicinarsi è reso in greco con il verbo prosšrcomai il cui significato è molto denso. Il verbo infatti è composto dalla particella avverbiale prÒj, che significa “verso” e dal verbo œrcomai, che significa avvicinarsi, andare, venire, ritornare. Un verbo di moto che contiene in sé una precisa direzione “verso”. Il primo atto per la salvezza pertanto è un orientare la propria vita verso Gesù, luogo della dimora del Padre e sua azione salvifica qui nella storia. Il secondo movimento è il prostrarsi dinnanzi a Gesù, di cui riconosce la divinità. Il verbo proskunšw, infatti, significa prostrarsi dinnanzi, ma il suo senso specifico è adorare e supplicare. Questa prostrazione pertanto non va letta come l’atteggiamento del suddito nei confronti del suo re, ma come un vero e proprio atto di adorazione che si pone a conclusione di un cammino di orientamento esistenziale verso Gesù (proselqën), riconosciuto come fonte primaria della propria salvezza. Significativo è il tempo del verbo, posto all’imperfetto indicativo (prosekÚnei), che indica una continuità di azione nel tempo. Non si tratta, quindi, di un’adorazione momentanea e interessata per ottenere un beneficio immediato, che si esaurisce nell’ambito della richiesta soddisfatta, bensì esprime una vera e propria scelta esistenziale al cui centro viene posto Gesù, colto nella sua divinità salvatrice. Il terzo movimento è dato dal verbo lšgw, che significa dire, parlare, esprimere. È il momento conclusivo di un lungo processo di conversione, la quale apre in un dialogo salvifico il nuovo credente con il suo Dio, che riconosce in Gesù, origine e fonte della propria salvezza. Tutti tre i verbi sottolineano l’atteggiamento orante ed umile, che parte dalla presa di coscienza del proprio stato di grave indigenza (lebbroso), che abbisogna di salvezza, e preparano l’invocazione finale: “<<Signore, se vuoi, puoi purificarmi>>”. Quattro sono gli elementi che la qualificano: Il titolo di“Signore”[5], che viene attribuito a Gesù e che lo colloca in un tempo post-pasquale, collegandolo alla sua risurrezione. Il riconoscimento della divinità di Gesù e il titolo attribuitogli tradiscono gli intenti di Matteo, che da buon pastore sta indicando alla sua comunità, con questa scena, la strada da percorrere. Il secondo elemento è quel “se vuoi”, che precede immediatamente la richiesta finale, a lungo preparata e attesa. Questa breve espressione dice la totale dipendenza del nuovo credente nei confronti di Dio, a cui si affida fiducioso per ottenere una salvezza, che sa non appartenergli e per lui irraggiungibile. Il terzo elemento è dato da quel “puoi”, con cui si riconosce in Gesù una potenza salvifica operante, che il lettore di Matteo sa essere divina, perché preceduta dall’atto di adorazione del lebbroso e dal titolo di “Signore” con cui il lebbroso si è rivolto a Gesù. La potenza divina operante in Gesù trova il suo obiettivo finale in quel “purificarmi” (me kaqar…sai), posto al termine di un lungo percorso composto da cinque tappe: a) dapprima vi è la presa di coscienza del proprio stato di bisogno (lebbroso); b) poi l’inizio di un cammino esistenziale che viene orientato verso Gesù (proselqën) in cui c) si riconosce la divinità della sua persona (prosekÚnei e il titolo di “Signore”); d) il riconoscimento della propria totale dipendenza da Dio per il bene della salvezza (se vuoi); e) il riconoscimento in Gesù della potenza salvifica operante di Dio stesso (puoi). Soltanto al termine di questo percorso si colloca la purificazione[6], il cui concetto è strettamente legato allo stato di santità della persona e quindi al suo rapporto con Dio.
È ormai evidente come questo breve racconto ha assunto per Matteo un significato squisitamente metaforico e delinea lo stato di vita dell’uomo e in particolar modo del nuovo credente, che viene incitato dal suo pastore ad accostarsi con umiltà a Gesù, quale fonte unica della sua vera salvezza, che lo ricolloca in seno al Padre e in piena comunione con Lui. Questo è il concetto di purificazione che è sinonimo di santificazione, ossia di comunione con la stessa vita divina.
v. 3: questo versetto presenta la risposta immediata alla supplica del lebbroso ed è scandito in due momenti: la guarigione (v. 3a) e la constatazione della stessa (v. 3b). Molto densa teologicamente è la prima parte, che contiene in sé la dinamica stessa della storia della salvezza, sintetizzata in tre battute: Gesù stende la mano; tocca il lebbroso; dicendo. Questo stendere la mano verso il lebbroso esprime l’avvicinarsi di Dio alla triste condizione dell’uomo e nel toccarlo, indica tutta la sua condivisione e la sua solidarietà con l’uomo peccatore[7] che convoca alla sua sequela (Mt 9,9) e lo accoglie con lui per condividere il banchetto messianico (Mt 9, 10). Ma è su quel “dicendo” che l’autore fa cadere l’accento, poiché è dalla potenza della Parola che sgorga la salvezza per quel povero disgraziato. E il dire di Dio nel suo Figlio rivela tutta la sua volontà salvifica nei confronti dell’uomo: “Voglio, sii purificato”. La potenza rigeneratrice e restaurante della Parola trova la sua immediata conferma con quanto segue, esprimendone l’efficacia: “E subito la sua lebbra fu purificata”. Questo dire della Parola e la constatazione immediata della sua efficacia, ci riporta in qualche modo alla prima pagina della Genesi, dove la Parola risuona per la prima volta nel suo atto creativo: “Dio disse: <<Sia la luce!>>. E la luce fu” (Gen 1,3). Anche qui, come nel nostro passo, l’autore constata l’immediata efficacia della Parola, che produce quello che dice, tanto da far coincidere il suo dire con il fare, poiché in Dio non vi è distinzione tra il dire e il fare. È questa l’esclusiva peculiarità propria del Dabar, la Parola-Azione (Eb 4,12). Ancora una volta la Parola opera efficacemente in mezzo agli uomini e li ricostituisce nella vita divina, rigenerandoli ad essa e facendone una nuova creazione in Cristo[8].
È significativo, inoltre, come l’evangelista specifichi che non il lebbroso fu guarito, bensì la sua lebbra. Essa, infatti, esprime la condizione e lo stato di vita in cui quest’uomo, suo malgrado, si trovava. Non è l’uomo, quindi, in quanto tale che è intrinsecamente cattivo, poiché, benché decaduto, egli è e rimane sempre immagine e gloria di Dio (Sal 8,6; 1Cor 11,7), ma è la sua condizione ontologica ed esistenziale che è radicalmente degradata, al punto tale da porlo fuori dalla vita stessa di Dio, precludendogli ogni salvezza (Rm 5,12-14). Gesù infatti non è venuto a togliere i singoli peccati degli uomini, ma la fonte primaria da cui questi vengono generati: la colpa originale (Rm 5,12-21). Gesù opera proprio sulla condizione umana e la rigenera con la sua parola, ne fa una nuova creazione e la apre agli orizzonti divini, così che “Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Lo stesso Giovanni nel suo vangelo fa esclamare al Battista “Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Non si parla di peccati, intesi come singoli atti peccaminosi, dettati dalla fragilità della natura umana, bensì di peccato, con chiara allusione alla triste condizione dell’uomo[9].
Significativa, infine, è questa singolare guarigione che Gesù compie, poiché essa avviene in totale violazione di quanto la Torah disponeva: il divieto, da un lato, di avvicinarsi da parte del lebbroso alle persone sane (Lv 13,45-46); e dall’altro dichiarando contaminato, e a sua volta immondo, colui che toccava il lebbroso (Lv 5,2-3; 7,21). Ma è proprio qui, in questa eclatante violazione, che appare la novità portata da Gesù, che si pone come superamento delle antiche regole, che toglievano all’uomo ogni speranza, condannandolo nella sua disperazione.
v. 4: Alla potenza della Parola purificatrice, che restituisce all’uomo la sua dignità primordiale, si contrappone ora il silenzio dello stesso. Quando la Parola si manifesta nel suo agire, quella umana deve tacere per lasciare lo spazio alla nuova creazione che si sta compiendo, così come la prima creazione genesiaca si è compiuta nel più assoluto silenzio, avvolta dalla luce divina (Gen 1,3). L’ordine, pertanto, è di non dirlo a nessuno. Un comando che non ha senso, se si pensa che la guarigione è avvenuta di fronte ad una folla numerosa (8,1b). Questa incongruenza ha una duplice spiegazione: a) la dipendenza di Matteo da Marco (Mc 1,44), che da quest’ultimo mutua in modo identico il versetto; b) accentuare la preminenza dei fatti sulla parola e la contrapposizione (¢ll¦, ma). Il tempo della parola (gli annunci dei profeti), infatti, è terminato per lasciare spazio al suo attuarsi in Gesù. L’ordine che segue è quello di andare. Questo verbo di movimento va collegato non tanto all’ordine di presentarsi al sacerdote, per la constatazione dell’avvenuta guarigione, quanto alla testimonianza che deve essere data a loro (e„j martÚrion aÙto‹j). Ciò che funge da collegamento tra l’andare e la testimonianza è la particella e„j (eis) che indica un muoversi verso, un muoversi contenente in se stesso una finalità precisa, che va ben al di là delle espletazioni rituali prescritte da Mosè[10]: la testimonianza dell’avvenuta guarigione di un lebbroso, che esprime in sé l’attuarsi dell’annuncio messianico di Isaia[11], riportato da Matteo in 11,2-6: “Giovanni intanto, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: <<Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?>>. Gesù rispose: <<Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me>>”. La guarigione dei lebbrosi rientra proprio in quel segno messianico che indica la presenza di “colui che deve venire” (Ð ™rcÒmenoj), espressione questa con la quale si designava il Messia.
La guarigione del servo del centurione (8,5-13)
Introduzione
Il racconto è essenziale nel suo svolgersi e si incentra tutto sul dialogo tra Gesù e il centurione. Non vi sono gesti particolari da parte di Gesù come nel racconto del lebbroso e della suocera di Pietro, nei quali Gesù tende la mano verso i due ammalati. Qui preminente su tutto è la parola. Dodici sono i termini che hanno attinenza con questa: chiamare, dire, rispondere, parola, che si ripetono continuamente, quasi richiamandosi l’un l’altro, intessendo una trama che costringe l’attenzione del lettore sulla centralità del dire sul fare. Il cuore stesso del racconto (vv. 8-9) è l’invocazione del centurione, finalizzata a mettere in luce l’efficacia della parola e la sua potenza rigeneratrice.
Due sono qui i protagonisti: Gesù e il centurione o forse più corretto sarebbe dire che protagonista assoluto nel racconto è l’incontro di Gesù con il mondo pagano e la risposta di fede di quest’ultimo al manifestarsi della Parola. Vi è un terzo protagonista anonimo, il discepolato (“quelli che lo seguivano” v. 10a), che, da un lato, funge da cornice e da cassa di risonanza alle parole di Gesù, le quali mettono in rilievo l’importanza fondamentale della fede nella potenza della Parola; dall’altro, l’anonimo ascoltatore, per la pochezza della sua fede, viene contrapposto al mondo pagano, che invece si è mostrato immediatamente disponibile ad accogliere l’annuncio salvifico. Si va delineando un po’ alla volta nel racconto matteano il superamento da parte di Gesù dei normali standard di pensiero e culturali di Israele, che lo inducevano a ritenersi un popolo eletto e, quindi, salvato di diritto (Mt 3,9; 21,33-41). La dimensione universalistica della salvezza in Matteo si fa sempre più netta e incalzante, man mano che il racconto evangelico progredisce, fino al vertice finale con cui si conclude significativamente: “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>.” (Mt 28,18-20).
Questo racconto trova delle analogie con la guarigione della figlia della cananea[12] (Mt 15, 21-28). Anche qui Gesù si rivolge al mondo pagano e l’invocazione nasce dall’appello accorato di una madre per la figlia, come dal centurione nasce l’invocazione di aiuto per il suo servo; anche qui, come per i centurione, Gesù si stupisce per la fede di questa donna.
Commento a 8,5-13
v. 5: Il racconto si apre con l’entrare di Gesù a Cafarnao, sua terra elettiva (Mt 4,13) da cui parte la sua azione missionaria. Non sappiamo dove Gesù abitasse realmente, ma questa assenza di un qualsiasi punto di riferimento topografico evidenzia maggiormente la dimensione universale della sua figura e della sua attività, libera da ogni vincolo e standard umani (Mt 8,20). E così deve essere anche per i suoi discepoli: itineranti (Mc 6-7; Lc 10,1), cioè senza fissa dimora e in continuo movimento, liberi da punti di riferimento che li possano in qualche modo vincolare alle sicurezze proprie degli uomini (Mt 10,9-10; 19,21), costringendoli ad un ritorno (Mt 8,21-22; Lc 9,62). Gesù è un maestro itinerante e questo suo muoversi continuamente ha una profonda valenza teologica, poiché mette in rilievo il forte dinamismo della salvezza, il muoversi di Dio in mezzo agli uomini, di un Dio che non ha dimora terrena se non in mezzo agli uomini stessi (Gv 14,23). È il Dio che non aspetta il ritorno dell’uomo alla casa del Padre, ma lo raggiunge nel suo habitat naturale e lo sollecita ad aprirsi alla sua offerta gratuita di salvezza. Ed è proprio nell’ambito di questo movimento salvifico che Gesù incontra il mondo pagano: “gli venne incontro un centurione[13]” (prosÁlqen aÙtù). Significativo è il verbo usato da Matteo per esprimere tale incontro: “prosÁlqen”, un verbo composto da due parole, la particella proj (verso) che esprime l’orientamento, la direzione; e il verbo “Álqen” (andò) che predica il movimento del mondo pagano che si sta aprendo verso Gesù. Il verbo è posto all’aoristo ingressivo, per indicare l’inizio di un movimento che ha come meta finale Gesù. Questo muoversi del centurione è accompagnato dal verbo parakalîn, che significa “chiamare”, ma anche chiamare in aiuto, pregare, invocare, supplicare, scongiurare, con il quale Matteo sottolinea l’esigenza di salvezza da parte del mondo pagano, che ormai non ottiene più nessuna risposta dai suoi idoli. Il verbo è posto al participio presente ed esprime un’azione costante e continuativa nel tempo. Non si tratta quindi di uno sporadico ed occasionale momento, in cui il centurione approfitta della presenza fortunata di questo taumaturgo ebreo, ma di un persistente cammino di conversione verso un Gesù che è invocato con il titolo di “Signore”, che le prime comunità credenti attribuivano al Risorto, per indicare la sua intronizzazione presso il Padre, il quale gli ha assegnato ogni potere in cielo e in terra (Mt 28,18b).
v. 6: questo versetto si apre con il verbo “dire” e introduce un dialogo serrato tra il centurione e Gesù, costituito da un alternarsi di battute introdotte tutte dallo stesso verbo, che si ripete, quasi in modo ossessivo, anche all’interno del dialogo stesso. In tutto esso è riportato nove volte. Non vi sono gesti particolare compiuti da Gesù, non vi è uno prostrarsi del centurione come nel caso del lebbroso; ogni azione, ogni gestualità viene esclusa per mettere in rilievo la preminente centralità della parola e la sua potente efficacia. L’unico movimento che l’autore consente è l’avvicinarsi del centurione a Gesù, condizione necessaria questa per poter instaurare il dialogo salvifico; questo movimento di avvicinamento simboleggia il cammino della fede del mondo pagano che sia apre alla Parola rigeneratrice del Padre operante in Gesù (Gv 14,9-11).
La prima parola pronunciata dal centurione è molto significativa: “Signore”, un atto di riconoscimento della signoria divina di Cristo, che la prima comunità credente attribuiva al Risorto e che qui Matteo mette in bocca ad un pagano. È chiaro, fin dalla prima battuta, che le logiche che sottendono questo dialogo sono quelle proprie della fede incipiente, che sta coinvolgendo anche il mondo pagano, verso il quale la comunità matteana si sente portata nel suo slancio missionario, che la caratterizza (Mt 28,19-20). Tutto il miracolo di guarigione ruota attorno a questo fondamentale riconoscimento: Gesù è il Signore. Già la prima comunità credente legava la propria salvezza al testimoniare con le labbra ciò che si credeva nella profondità del proprio cuore: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9). La confessione di fede del centurione, pertanto, si inserisce in questa tradizione di testimonianza primitiva. Essa costituisce il preambolo indispensabile alla salvezza, che qui si attuerà attraverso la potenza della Parola accolta e creduta.
Fatta la sua professione di fede, il centurione esordisce non con un’invocazione, che invece avverrà al v.8, bensì con una semplice constatazione, che è una sorta di presa di coscienza dello stato esistenziale debilitato e debilitante in cui si trova il suo servo: “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente". Il servo giace in casa. Il termine casa acquista spesso nei vangeli una valenza simbolica e diviene, di volta in volta a seconda del contesto, una sorta di metafora della chiesa, del mondo domestico, del mondo pagano o ebraico, dello stato della propria vita.
Il servo viene definito con tre pennellate significative: giace in casa; è paralizzato; soffre molto. Al centro di tutto ci sta il suo stato di paralitico, che spiega e giustifica il suo giacere quasi inanimato e la sua conseguente sofferenza. La paralisi rende inabile l’uomo ad ogni rapporto sociale, riducendolo ad uno stato larvale e prigioniero del suo corpo. Un racconto che trova la sua eco in Mt 9,1-7. Benché diversi siano i contesti e le finalità che l’autore si propone con i due racconti, tuttavia in entrambi i casi vengono evidenziati due elementi importanti, che accomuna i due racconti: entrambi sono paralitici; in entrambi i casi sono guariti dalla potenza della sola Parola. Lo stato di paralisi e di sofferenza descrive bene la condizione dell’uomo degradato esistenzialmente dal peccato e offeso nella sua dignità, incapace di rapportarsi a Dio. Soltanto la Parola è in grado di restituire l’uomo alla sua dignità originale.
v. 7: il versetto contiene la scarna risposta di Gesù ed è composta da soli due verbi essenziali: “dopo essere venuto” e “guarirò”. I tempi dei due verbi sono tra loro contrastanti: il primo è un participio aoristo e si rifà, quindi, ad un evento che si colloca nel passato e da qui trae la sua origine e la sua forza; il secondo è al futuro e allude ad un evento che ancora non si è compiuto, ma che si sta realizzando grazie alla venuta. Quest’ultimo dipende, quindi, necessariamente dal primo. In altri termini la guarigione dipende dalla venuta di Gesù. L’aoristo richiama in qualche modo l’attività missionaria di Gesù, mentre la salvezza, posta al futuro, si lega all’evento della morte e risurrezione, che ancora deve compiersi. La venuta di Gesù e la conseguente sua attività missionaria trovano il loro compimento redentivo e rigenerante soltanto nella risurrezione, in cui anche il mondo pagano è direttamente coinvolto per mezzo della fede, che qui si manifesta come un evento già compiuto in quel “Signore” che il centurione attribuisce a Gesù.
vv. 8-9: i due versetti introducono il lettore nel cuore del racconto. Alla decisione di Gesù di entrare nella casa del centurione, quasi a voler materializzare la salvezza con la sua presenza fisica e con un qualche gesto guaritore, si contrappone la dichiarazione di fede nella sola parola di Gesù. Un forte richiamo, forse, alla comunità matteana, la cui fede era ancora troppo legata al toccare e al vedere, mettendo in secondo piano l’efficacia della sola Parola. La pochezza della fede di questa comunità viene rilevata da Matteo anche alla fine del suo lungo racconto, là dove, con una certa amarezza, constata che “questi però dubitavano” (Mt 28,17b).
Il v.8 si apre con una rinnovata professione di fede nella signoria di Gesù, fatta seguire da una dichiarazione di indegnità da parte del centurione, che dice tutta la distanza che lo separa dal Risorto. Da un lato la sorgente della salvezza, a cui il centurione si affida, dall’altro la coscienza di tutta la propria fragilità. Sono i due elementi fondamentali che necessariamente devono coniugarsi assieme perché da questi scaturisca la scintilla rigeneratrice dell’uomo. La seconda parte del v. 8 si apre con una contrapposizione “ma” (¢ll¦), che si riferisce alla decisione di Gesù di rendersi presente fisicamente presso il servo ammalato; una decisione che forse rispondeva alle naturali attese del credente dalla fede ancora troppo legata ai sensi. Quel “ma” , quindi, da un lato, contesta queste pretese di una fede che vola troppo bassa; dall’altro, la introduce in una dimensione completamente nuova: quella della Parola potente, la cui efficacia è stimolata dalla fede in lei. La guarigione pertanto è strettamente legata alla fede, che il nuovo credente ripone nella sola Parola: “dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”. Sono quindi le parole dette da Gesù (dì) e soltanto queste che producono la salvezza. Matteo, quindi, vede la salvezza del credente strettamente dipendente dalla sola Parola.
Stabilito con il v. 8 il principio e la dinamica della potenza rigeneratrice della Parola sul credente, Matteo si premura, ora, con il v. 9 di spiegare alla sua comunità il senso dell’efficacia: la Parola è efficace perché produce quello che dice. La spiegazione si svolge attraverso un confronto parallelo implicito tra la parola efficace del centurione e quella di Gesù. Il confronto serve a mettere in rilievo, da un lato, il significato di efficacia e, dall’altro, la superiore efficacia della parola di Gesù. Il centurione, infatti, introduce il suo discorso sottolineando come egli, pur essendo un semplice uomo sottoposto ad altri, tuttavia la sua parola è efficace sui suoi subalterni. Il confronto si pone proprio su quel “sono un uomo sottoposto” che indica tutta la limitatezza del suo essere, da cui tuttavia scaturisce una parola efficace, benché umana. L’altro termine di paragone non è immediatamente coglibile, ma è sottointeso nella duplice invocazione rivolta a Gesù, chiamato Signore, e nel riconoscergli, a motivo della sua signoria, una parola efficace e per questo guaritrice (v. 8b). In altri termini, Matteo vuol far capire alla sua comunità il significato di parola efficace e come questa parola, che è Gesù stesso, il Signore, sia di molto superiore in potenza di quella del centurione, che pur tuttavia è anch’essa efficace.
v. 10: la pochezza di fede della comunità matteana viene ora messa a nudo. Gesù, infatti, si rivolge a “quelli che lo seguono”, cioè ai nuovi credenti che, si badi bene, nella comunità matteana sono di origine ebraica: “In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande”. È un chiaro atto di accusa, la cui introduzione solenne (“In verità vi dico”) fa pesare notevolmente l’intera frase che segue. Siamo di fronte ad una netta presa di posizione di Gesù nei confronti di quegli ebrei dalla dura cervice, che faticano a comprendere la sua figura e il senso della sua missione. In altri termini, la fede di questi nuovi credenti, provenienti dal giudaismo e quindi da una forte tradizione di fede, è dichiarata perdente nei confronti degli etnocristiani. L’intento di Matteo qui è velatamente polemico non solo nei confronti della sua comunità, ma anche del mondo giudaico, che non ha saputo leggere in Gesù il Messia inviato da Dio, “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43). È la netta contrapposizione tra il mondo giudaico e quello pagano, un confronto che vede perdente Israele.
Lo stupore di Gesù di fronte alla risposta di fede del mondo pagano al suo annuncio, gli farà ricomprendere il senso della sua missione, che inizialmente aveva compreso come riferita esclusivamente ad Israele (Mt 10,6; 15,24).
vv. 11-12: la serpeggiante polemica del v. 10 esplode ora in modo eclatante con toni molto duri e inaspettati. Lo stupore iniziale di Gesù per la pronta accoglienza ricevuta dai pagani (v. 10), si tramuta in un’ira minacciosa contro il suo popolo, che onora Dio con le labbra, ma lo tradisce nel suo cuore (Mt 15,8-9), rendendosi impermeabile e impenetrabile alla sua Parola (Mt 21,32; 23,13.37).
I due versetti si sviluppano sulla linea di una netta contrapposizione, costituita dal confronto tra i popoli provenienti da ogni parte della terra (oriente-occidente), il mondo pagano, con i figli del regno, Israele, ma non sono da escludersi gli stessi membri della comunità matteana, composta da giudeocristiani[14]; i loro destini saranno diametralmente opposti: il banchetto escatologico nel regno dei cieli per i primi; l’espulsione dal regno per i secondi. Benché questo duro confronto sia giunto qui del tutto inatteso, tuttavia esso era già stato in qualche modo preannunciato nel racconto dell’infanzia: “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: <<Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo>>. All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme” (Mt 2,1-3). Anche qui abbiamo da un lato i Magi, provenienti dall’oriente pagano per adorare lo sconosciuto bambino, del quale riconoscono la divinità regale; dall’altro Erode e l’intera Gerusalemme che rimangono turbati di fronte all’evento Gesù, un turbamento che avrà tragiche conseguenze e si tradurrà in una strage di innocenti, nella quale l’evangelista vede prelusa la morte di un altro Innocente (Mt 2,16). La polemica, che Matteo ha innescato con il mondo giudaico fin dalle prime pagine del suo racconto, non si esaurisce qui, ma sarà ripresa verso la fine della sua opera con una trilogia di parabole (Mt 21,28-31.33-43; 22,1-13) che si richiamano per molti aspetti ai vv. 8,11-12 e ne costituiscono una sorta di sviluppo narrativo e teologico conclusivo.
Con il v. 8,11 Matteo, nell’ambito della dinamica del suo racconto, al di là della polemica con il mondo giudaico, sta preparando anche i vv. 9,9-11 in cui Gesù mostra tutta la sua attenzione verso il mondo dei peccatori, non solo chiamandoli alla sequela (Mt 9,9), ma accogliendoli anche alla sua mensa (Mt 9,10-11), che allude al banchetto messianico, al quale anch’essi avranno parte. Il sedersi infatti alla mensa di Abramo, Isacco e Giacobbe, capostipiti di Israele e portatori privilegiati della Promessa sancita nell’Alleanza, significa condividere l’elezione che Dio aveva riservato al suo popolo ai piedi del Sinai (Es 19,5-6). Non vi è più quindi distinzione tra ebrei e non ebrei, tra popolo eletto e pagani, ma tutti formano un’unica realtà in Cristo (Gal 3,28-29; Ef 2,14). L’autore della lettera agli Efesini ricorda proprio questo passaggio fondamentale da Israele verso l’umanità cristificata, che sottolinea una volta di più l’universalità dell’azione salvifica di Cristo: “Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,11-22).
L’universalità della missione di Gesù sta lentamente emergendo nel corso dell’opera matteana, in cui si stanno preparando le motivazione sulle quali poggerà la scelta universalistica compiuta da Gesù. Essa troverà il suo vertice finale in Mt 28,19-20a, in cui si rispecchia la stessa comunità matteana, una chiesa giovane, piena di dubbi (Mt 28,17b), ma dalla forte vocazione universale.
v. 13: il versetto chiude il miracolo di guarigione e si apre con un verbum dicendi, che mette in rilievo la potenza della parola, la principale attrice dell’intero racconto. Esso costituisce la risposta all’invocazione di salvezza del v.8 . L’efficacia della Parola viene evidenziata dall’affermazione finale che “In quell’istante il servo fu guarito”, sottolineando la contemporaneità tra il dire della Parola e l’accadere (genhq»tw soi) della guarigione. Il verbo guarire è posto all’aoristo passivo (gr. „£qh) per indicare da una lato l’intervento divino[15] e, quindi, la natura stessa della Parola che opera concretamente con il suo dire; dall’altro lega l’evento ad un accadimento preciso e puntuale nel tempo: il dire della stessa Parola. Significativo, poi, il parallelismo che Matteo sviluppa, nelle parole di Gesù, tra l’accadere della salvezza e la fede: “Va, ti avvenga come hai creduto”. La guarigione, quindi, avviene tramite un dialogo salvifico formato dalla potenza divina, che opera efficacemente per mezzo della Parola, in risposta alla fede dell’uomo, che si apre esistenzialmente alle esigenze di Dio.
La guarigione della suocera di Pietro (8,14-15)
Introduzione
Si conclude con questa guarigione la prima terna di miracoli. I personaggi destinatari della salvezza sono emblematici: un lebbroso, un pagano e una donna, tutti messi al bando o ai margini della società ebraica ed espressione di un’umanità variamente degradata dal peccato. La venuta di Gesù punta proprio su questi e al loro riscatto (Mt 9,12-13; Gv 10,10)
Il racconto, secondo lo stile di Matteo, è essenziale e scarno, accentrando in tal modo tutta l’attenzione del lettore sull’evento salvifico che si sta compiendo: Gesù da una parte, la donna dall’altra, presentata in un pietoso stato di bisogno (giaceva febbricitante). Se nei precedenti due racconti i miracoli si compiono attraverso un intreccio dialogico, in cui si mette in rilievo da un lato la necessità della fede e dall’altro la potente efficacia della parola divina, che rigenera il malcapitato, restituendogli la sua dignità e reintroducendolo nel flusso della vita, qui nessuna parola viene pronunciata. Non vi è, infatti, nessuna richiesta di guarigione, Gesù non dice nulla, ma soltanto vede ed opera, mettendo in rilievo il senso più genuino e più vero della sua missione: la salvezza dell’uomo fine a se stessa e indipendentemente dalla sua richiesta e dai suoi meriti. Tuttavia, a fronte di ciò, l’uomo non può rimanere indifferente, ma è chiamato a dare la sua risposta esistenziale, a prendere in qualche modo posizione.
Se la guarigione del servo del centurione era finalizzata a mettere in luce la potenza e l’efficacia della Parola, che compie ciò che dice, qui Matteo sembra voler mettere in rilievo il solo operare della Parola, qui presentata come pienezza dell’azione divina. L’agire di Gesù, infatti, è qualificato da tre verbi, il cui valore numerico indica la completezza dell’azione in sé: Gesù entra, vede, afferra … e la salvezza è compiuta: la donna è restituita alla sua integrità originale.
Parole e azioni non sono due realtà contrapposte, come possono esserlo per noi le chiacchiere e i fatti, ma sono i due aspetti coincidenti che caratterizzano il Dabar, la parola-azione, attribuibile soltanto a Jhwh. Il parlare e l’agire di Dio sono due identici aspetti che caratterizzeranno l’intera missione di Gesù, l’autentico Dabar del Padre rivolto agli uomini.
Il commento a 8,14-15
v.14: il versetto si apre con un verbo all’aoristo (™lqën), che indica un’azione puntuale nel tempo e, quindi, già compiuta: Gesù è già entrato e la sua presenza nella casa di Pietro è un dato di fatto. Nel linguaggio evangelico spesso la casa indica la comunità credente, in cui Gesù non è sentito come un ricordo antico e lontano, destinato a sfumare nel tempo, ma come presenza viva ed operante. La “casa di Pietro”, espressione che si trova soltanto in Matteo, allude qui alla comunità credente, colta come chiesa già istituzionalizzata, in cui Pietro è pietra fondativa (Mt 16,18a).
Il secondo movimento è il vedere di Gesù. Anche qui il verbo è all’aoristo (eŒden) e indica, da un lato, l’avvenuta presa di possesso di Gesù e, dall’altro, l’elezione del discepolo, su cui Gesù posa lo sguardo[16]. Il verbo usato da Matteo, infatti, non è blšpw, che indica un semplice vedere fisico, né qewršw, che esprime un vedere attento, un esaminare o più semplicemente un assistere da semplice spettatore, bensì Ðr£w, che designa un vedere superiore: quello della fede, se riferito al credente; quello della consapevole e autorevole presa di possesso, se riferito a Gesù. Il verbo Ðr£w, infatti, mutua il suo aoristo da oŒda, che significa sapere, conoscere ed esprime una sorta di elezione salvifica, che abbraccia tutti i credenti.
Dal breve racconto di guarigione (solo due versetti) lo stato di salute della suocera di Pietro non appare poi così grave: essa ha soltanto un po’ di febbre e si sta curando stando a letto. Non si capisce, quindi, come Gesù abbia impegnato la sua potenza guaritrice per sollevare la suocera da una indisposizione, che l’ha costretta a letto; né si comprende la grandiosità di questo miracolo, tale da essere menzionato nel vangelo. Qui, infatti, non abbiamo un cieco, uno storpio, un indemoniato, un lebbroso o un morto, ma soltanto una donna fisicamente indisposta. In realtà la situazione non è così semplice come appare. Per comprendere la gravità della situazione e, in realtà, a cosa essa allude, bisogna riferirsi a tre elementi fondamentali: a) il termine febbre, con il quale nell’antichità si indicavano tutti quei mali che provocavano un rialzo termico[17]. La suocera, pertanto, non è affetta da una malattia precisa, ma è un qualcosa di vago che le sta minando la salute e le impedisce di condurre una vita normale; b) gli altri due elementi sono i due participi verbali tra loro contrapposti: l’uno è al perfetto passivo (beblhmšnhn, gettata a terra, colpita, prostrata) ed indica un’azione compiuta, che si radica nel passato, ma che esercita la sua influenza anche nel presente. Esso è posto al passivo, segno che la suocera è vittima di un male oscuro, che l’ha ridotta in uno stato di vita precaria; l’altro è un participio presente attivo, che descrive lo stato di disagio che opera persistentemente nel presente (puršssousan, che ha la febbre). I due verbi, così combinati tra loro, dicono che la causa dell’essere così prostrata non risiede nella febbre, ma, al contrario, questa è soltanto un sintomo che affonda le sue radici nella prostrazione stessa della suocera. In altri termini, la suocera “è stata colpita e prostrata”, per questo “ha la febbre”, cioè è resa invalida.
C’è, quindi, in questa donna un male oscuro, che la sta consumando e che la minaccia esistenzialmente, invalidandola. La febbre, infatti, esprime nel linguaggio biblico, più che una vera e propria malattia, legata alla condizione fisica, uno stato di vita spirituale, che rende l’uomo incapace di rapportarsi con il suo Dio ed è conseguenza del peccato, del ribellarsi a Jhwh, che con la sua potenza si scaglia contro l’uomo ribelle[18]. La febbre, quindi, ha degli agganci con il mondo dello spirito ed è, essa stessa, un male spirituale, che esprime uno stato di vita lontano da Dio e rivolto contro di Lui. Non a caso, infatti, nello stesso racconto lucano (Lc 4,38-39), la febbre è trattata come un essere animato, che attanaglia l’uomo e lo riduce in stato di schiavitù: “Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò” (Lc 4,39a). I toni qui sono quelli propri di un esorcismo.
Il racconto prosegue: “e afferrò la sua mano e la febbre la lasciò; e fu alzata in piedi e lo serviva”. L’afferrare la mano, da un lato, indica l’incontro della donna con Gesù e, dall’altro, una sorta di presa di possesso che Gesù compie su questa donna, che viene afferrata da Gesù; la conseguenza immediata è la scomparsa della febbre, questo male spirituale che la invalidava e la prostrava spiritualmente. Gesù, quindi, rimette in piedi la suocera di Pietro. Il verbo usato per esprimere questo concetto è ™ge…rw (egheìro), che significa destare dal sonno, risvegliare, stimolare, risuscitare, destare da morte. Un verbo tecnico, questo, usato presso la chiesa primitiva per indicare la risurrezione di Gesù. Ora gli intenti di Matteo appaiono più chiari: egli qui sta parlando del risveglio spirituale del nuovo credente, che, abitando nella “casa di Pietro”, dove incontra Gesù, passa, da uno stato di prostrazione spirituale e di sonno di morte, ad uno di nuova vita in Cristo.
In uno sconosciuto ed antico inno cristiano, di cui abbiamo soltanto una traccia in Ef 5,14, probabilmente usato nelle liturgie battesimali della chiesa primitiva, si esortava il neofita a risvegliarsi dal sonno del paganesimo per abbracciare la luce di Cristo: “Svègliati, o tu che dormi, dèstati dai morti e Cristo ti illuminerà”. Paolo nella sua Lettera ai Romani sembra parafrasare proprio questo inno: “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,11-14).
Significativo, infine, è come questo verbo (™ge…w) sia posto al passivo (ºgšrqh), che nel linguaggio biblico indica l’azione di Dio che si compie sull’uomo. La guarigione rigenerante, dunque, ha come sua fonte primaria la potenza salvifica di Dio stesso, che si manifesta ed opera in modo pieno nel suo Cristo.
A fronte di questo intervento, che rigenera l’uomo alla vita divina, ecco pronta la risposta di questa donna: “lo serviva”. Questo verbo, posto all’indicativo imperfetto, indica una persistenza di un’azione che ha avuto origine nel passato, nell’incontro della donna con Gesù. La rigenerazione dell’uomo a Dio, pertanto, comporta un suo riorientamento spirituale: dalle cose verso Dio, a cui viene posta a disposizione la propria vita; un servizio che si attua primariamente nel servizio ai propri fratelli. Quello del servizio fu un tema molto sentito nella chiesa primitiva, al punto tale che, al suo interno, fu istituito una sorta di ordine diaconale, la cui funzione era proprio il servizio speso a favore della comunità credente (At 6,1-6).
A conclusione, potremmo dire che il significato ultimo di questo breve racconto di guarigione (vv 14-15), avvenuto nella “casa di Pietro”, dove Gesù è entrato ed è presente, sta nell’evidenziare che, da un lato, soltanto l’incontro con Gesù può rigenerare l’uomo nella sua dignità perduta con il peccato; dall’altro, si sottolinea come questo incontro può essere certo e garantito soltanto all’interno della “casa di Pietro”, la nuova comunità messianica dei credenti: la Chiesa.
vv. 16-17: questi due versetti, da un punto di vista letterario, costituiscono la chiusura della breve sezione dei miracoli (8,2-15), che segue immediatamente il primo grande discorso di Gesù (5,1-7,29) e sono un sommario di guarigioni (v.17). Essi hanno una duplice funzione: a) evidenziare l’attività guaritrice di Gesù (v.17); b) spiegarne il significato (v.18).
il v.16 si apre con una indicazione di tipo temporale, posta in genitivo assoluto, che forma da cornice entro cui vengono collocate le varie guarigioni: “giunta la sera”. Questa precisazione assume un duplice significato: da un lato segna la fine di una giornata di attività di Gesù e, quindi, predispone il lettore ad una nuova sequenza di racconti, creando in tal modo uno stacco narrativo; dall’altro, da un punto di vista teologico, dice come con Gesù sia giunta la sera del male, cioè la sua fine. Concetto questo che verrà ripreso dal successivo racconto di esorcismo (8,28-34), nel quale i demoni si lamentano con Gesù: “Cominciarono a gridare: "Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?” (8,29). La venuta di Gesù, quindi, decreta la fine del regno di satana, sul quale è scesa ormai la sera.
Due sono le categorie di sofferenti che si rivolgono a Gesù: “molti indemoniati” e “tutti quelli che stavano male” (p£ntaj toÝj kakîj œcontaj), espressione quest’ultima con la quale si ricomprende ogni sorta di sofferenza e servirà a Matteo per agganciarsi alla profezia del v.17. Si noti come a Gesù vengono portati soltanto gli indemoniati, nei quali più appariscente è l’azione del Male, fonte di ogni disagio e degrado umano; mentre la sua azione guaritrice coinvolge “tutti quelli che stavano male”. L’accostamento degli indemoniati con i sofferenti indica come le malattie, nelle intenzioni dell’evangelista, siano conseguenza ed espressione di un profondo disagio e degrado spirituali; in qualche modo esse hanno la loro radice più profonda nel diavolo.
Di fronte a queste infermità Gesù fa uso soltanto della sua parola: “e scacciò con la sua parola gli spiriti”. La concisione dell’intervento di Gesù, ridotto alla semplice parola, esprime in realtà tutta la potenza di cui essa è pregna, ma dice anche come sia proprio da questa Parola che sgorga una umanità rigenerata e ricostituita in Dio. In buona sostanza, si tratta di una nuova creazione, in cui l’uomo è nuovamente costituito immagine e somiglianza di Dio e in Lui viene insignito nuovamente della sua dignità. Memore della grandezza dell’uomo, appena uscito dalle mani di Dio e incandescente della sua luce, il salmista contempla il capolavoro della creazione e, rivolto a Jhwh, esclama: “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato” (Sal 8,5-6). È proprio questa gloria e questo onore, di cui l’uomo era rivestito, che Gesù è venuto a restituirgli per mezzo della potenza rigeneratrice della sua parola creatrice. Essa anticipa in qualche modo quella della risurrezione, dalla quale sgorgherà una nuova umanità, che affonda le sue radici nel nuovo Adamo, del quale Paolo afferma che fu “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, […]” (Rm 1,4) e nel quale ogni credente viene ricostituito figlio di Dio.
Se il v.16 mette in luce l’opera risanatrice e restauratrice di Gesù, il v.17 ne evidenzia il significato. Esso, infatti, si apre con una preposizione di tipo finale “Ópwj” (affinché), che spiega e motiva l’attività guaritrice di Gesù e ne fornisce il senso: “perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia”. Gesù, quindi, obbedisce ad un progetto iniziale, che già in qualche modo era stato preannunciato nelle Scritture[19]. Egli, pertanto, nello svolgimento della sua missione non si dà alla libera interpretazione e alla discrezionale esecuzione, ma si pone a servizio di un piano salvifico, che non è suo, ma del Padre suo (Gv 15,10), che lo ha pensato fin dall’eternità e lo ha realizzato nel suo Cristo e per suo mezzo (Ef 1,4). Per questo Gesù è percepito da Matteo come il Servo sofferente di Jhwh e vede realizzarsi in lui la parola dei profeti. Non a caso, infatti, l’evangelista comprende Gesù come il compiersi e il compimento delle Scritture: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Tra Gesù e il Padre vi è una perfetta identità, che fa di Gesù l’azione stessa del Padre e che Giovanni esprime mirabilmente nel suo vangelo: “Gli rispose Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre” (Gv 14,9-12). Quella che Gesù compie, dunque, è una missione che l’evangelista legge come un servizio di redenzione speso a favore dell’uomo (Mt 20,28; Mc 10,45). Per farlo Matteo cita Is 53,4a[20]: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie”; per questo “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2Cor 5,21), mentre l’autore della lettera agli Ebrei vede in questo un motivo di misericordia e di comprensione presso Dio: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come a somiglianza di noi, escluso il peccato” (Eb 4,15).
vv. 18-22: tra la prima triade di miracoli (vv.8,2-17) e il secondo gruppo di due (vv. 8,28-9,8) Matteo inserisce una breve considerazione sulle difficoltà che sequela (8,19-20) e discepolato (8,21-22) comportano. Lo fa attraverso due sentenze inquadrate[21], che fungono da avvertimento alle numerose folle che seguono Gesù, ammagliate dalla sua parola e dalla sua opera di taumaturgo. Questa facile e perfino scontata sequela, avvolta nell’anonimato della folla e che pertanto non impegna personalmente, non produce discepoli, ma soltanto dei fans. Gesù, infatti, prende le distanze dalla sequela delle folle (v.18).
Il v.18, da un punto di vista narrativo, funge da filo di imbastitura delle varie pericopi, che si snodano tra 8,19 e 9,1 , giustificando anche il breve racconto della tempesta sedata (8,24-27).
Il versetto è scandito in due momenti: a) Gesù vede attorno a sé la folla. Il verbo vedere, in greco, è espresso con orao ('Idën), che non indica un semplice vedere fisico, ma una presa di coscienza, un rendersi conto di tutto quello che sta accadendo attorno a sé. Il verbo è un aoristo, participio attivo, e indica un’azione puntuale nel tempo da cui si origina, poi, una scelta; b) da questa presa di coscienza, infatti, scaturisce una presa di posizione di Gesù: “ordinò di passare all'altra riva”. Il testo greco è molto più significativo e incisivo: “ordinò di allontanarsi verso la parte opposta”. Non si tratta più, quindi, di una semplice attraversata, di un semplice trasferimento fisico da una riva all’altra, ma di un allontanamento, tale da portare Gesù “verso la parte opposta”. In altri termini, Gesù si rende conto che queste folle lo seguono, ma nessuno dei loro componenti è disposto a fare una scelta decisiva e radicale, preferendo rimanere nel comodo nascondiglio della folla anonima. Gesù, pertanto, prende le distanze da questo tipo di sequela, comoda e priva di rischi, e si pone esattamente dalla parte opposta. Quale sia questa “parte opposta”, cioè la posizione di Gesù circa la sequela e il discepolato, verrà spiegata subito nei vv.19-22.
Il v.19 presenta un’autocandidatura al discepolato e si apre con un verbo di movimento: “avvicinatosi”, che indica l’incipiente aprirsi alla fede di questo scriba[22], conoscitore esperto delle Scritture, che esce dall’anonimato della folla e si dichiara pronto a rispondere con la propria vita alla predicazione di Gesù: “Maestro, io ti seguirò dovunque tu vada”. Egli sa bene che questa sua scelta lo porterà a perdere la sua posizione privilegiata, lo porrà in contrapposizione al potere civile e religioso, poiché egli si è avvicinato a Gesù, si è posto, quindi, “verso la parte opposta” dove sta andando Gesù. Ma è deciso a farlo. Quel “dovunque” dice la sua totale dedizione a questo Rabbi e delinea la vera natura del discepolato: lo sposare fino in fondo e in modo incondizionato la causa del proprio maestro, assumendola su di sé, quasi in una sorta di identificazione.
Il v.20 offre una visione sintetica di che cosa significhi essere seguaci di Gesù: “Le volpi hanno una tana e gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo”. Tana e nidi sono i punti di ritrovo e i ripari degli animali; sono luoghi di riferimento importanti per la loro sopravvivenza, luoghi che dànno certezze e sicurezza. Sono anche i luoghi della vita, dove gli animali lasciano la loro prole, la allevano e la custodiscono. Ebbene, niente di tutto questo per il Figlio dell’uomo, nessuna sicurezza, nessuna garanzia, nessun luogo di ritrovo, nessun punto di riferimento che gli possa in qualche modo dare sicurezza o in qualche modo legarlo alle cose della terra. Nulla! La spogliazione, quindi, di tutto ciò che gli uomini ricercano per la loro vita: la propria sicurezza nelle cose. Ma è proprio questa perfetta libertà dalle cose che caratterizza il muoversi di Gesù ed è posta a fondamento essenziale della sua missione. Si badi bene, libertà non indipendenza dalle cose. Gesù, infatti, qui si presenta come “figlio dell’uomo[23]”, cioè appartenente alla razza umana e in quanto tale ne subisce tutte le limitazioni e le imposizioni. Ma ciò che distingue Gesù e lo caratterizza è il non porre la propria vita alla ricerca delle cose, affidando ad esse le sue sicurezze. Al centro degli interessi di Gesù ci sta la volontà del Padre e il suo compiersi (Gv 4,34). Una centralità che Gesù evidenzia anche nella preghiera del Padre nostro (Mt 6,9-13), che funge da programma spirituale sul quale il credente è chiamato a modulare la propria vita: “Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” (Mt 6,9-10), una preghiera che trova subito una sua eco in 6,19-21: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. Le cose del cielo e non quelle della terra devono sostanziare il vivere dei nuovi credenti. La motivazione più vera e profonda di questo nuovo orientamento esistenziale (verso il cielo e non verso al terra) ce la fornisce l’autore della lettera ai Colossesi: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e eletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza” (Col 3,1-12).
Gesù, dunque, ha aperto all’uomo una nuova prospettiva ed lo ha proiettato in una nuova dimensione, in cui il credente già vive in virtù della sua fede (Col 1,12-13). La sequela di Gesù, pertanto, comporta una spogliazione a partire dal cuore. A Pietro che lo sollecitava ad un messianismo trionfalistico, Gesù risponde: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). La conditio sine qua non più vera della sequela è dunque il liberarsi dalla mentalità umana e incominciare a vedere le cose dalla prospettiva di Dio, in cui riporre ogni sicurezza.
Il secondo aspetto, conseguente alla sequela, è il discepolato, in cui la sequela è divenuta la nuova dimensione di vita del credente. Anche questo aspetto racchiude in sé una sua propria radicalità.
Il v.21 si apre con un discepolo che si rivolge direttamente al suo maestro. È significativo come questo discepolo, a differenza dello scriba, non si avvicini a Gesù, poiché il discepolo, proprio per la sua natura, è già uscito dall’anonimato della folla ed ha già operato una sua scelta vita; per lui la sequela è già stata sedimentata nella sua vita e ne è parte integrante. Per questo Matteo non parla più di avvicinamento a Gesù, ma di un rivolgersi direttamente a lui. Vi è quindi un filo diretto che mette in comunione il discepolo con il suo Maestro.
Alla richiesta di questo discepolo di avere una sorta di permesso per partecipare ai funerali del padre, Gesù risponde: “Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. La risposta è incredibilmente dura, direi quasi spietata. Nella fede del pio ebreo il seppellire i morti faceva parte del dovere della pietà ed era un modo di onorare il padre e la madre. L’ingiunzione di Gesù, quindi, è una sorta di sacrilega empietà, che si pone contro la stessa Torah[24]. La durezza con la quale Gesù si esprime va colta nel contesto letterario dei vv. 20-21, che costituiscono una sentenza inquadrata. Nella redazione dei vangeli si ricorreva in genere a questa forma letteraria quando il detto di Gesù giungeva al redattore privo di ogni contesto storico. Era, quindi, cura del redattore contestualizzare alla meglio il detto, cercando di renderlo consono ai suoi intenti di annuncio e alla sua teologia. Ed è ciò che è avvenuto anche nel nostro caso. L’attenzione, pertanto, va incentrata tutta sul detto di Gesù e non sulla contestualizzazione che ne ha offerto l’evangelista, che serve soltanto da aggancio al detto stesso..
Il v.22 riporta il detto di Gesù: “Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. Esso è scandito in due parti, costituite da due verbi molto significativi: “seguimi” e “lascia”, come dire che il seguire Gesù comporta, ipso facto, un lasciare qualcos’altro. Si tratta dunque di compiere una scelta, la cui radicalità sta proprio nel lasciare che i morti seppelliscano i loro morti. I morti a cui Gesù fa riferimento sono coloro che hanno optato per una scelta diversa dalla sequela di Gesù. Questi, proprio per la loro diversa scelta, che li pone dalla parte opposta dove sta andando Gesù, sono considerati “morti”, cioè facenti parte di un mondo che Gesù ha vinto e al quale ha tolto ogni velleità di vittoria e di speranza (Gv 16,33). Questi non fanno parte della vita eterna, alla quale ogni uomo è chiamato in Cristo in virtù della sua scelta di fede. Giovanni nel suo vangelo significativamente esprime questo concetto di morte e di vita, strettamente legato alla scelta o meno di Cristo: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,14-21).
Con l’invito, pertanto, a “lasciare che i morti seppelliscano i loro morti” Gesù spinge il discepolo a compiere una scelta radicale e definitiva, quella di abbandonare il mondo, avvolto nella sua incredulità, che lo ha assegnato fin d’ora al regno dei morti, a cui è relegato. Chi intraprende, pertanto, il cammino di Gesù non deve più avere rimpianti per il passato, che ha lasciato, poiché ogni sguardo, rivolto al passato, rende inadeguato e inidoneo il discepolo alla sequela. Lo stesso concetto, meno macabro e più agreste, verrà ripreso da Luca: “Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62).
v. 23: nel v.18 abbiamo lasciato Gesù attorniato da una folla, espressione di un discepolato non ancora maturo per una sequela personale e responsabile, tale da mettere in discussione la propria vita; per questo Gesù prende le distanze da questo tipo di discepolato anonimo e a buon mercato, mentre nei successivi vv. 19-22 indica le caratteristiche distintive sulle quali deve modellarsi il vero discepolo.
Il v.23 completa il discorso della sequela, iniziato con il v.18, ed è scandito in due parti: a) Gesù sale sulla barca, b) i suoi discepoli lo seguono. Esso si apre con un “kaˆ” redazionale, che lo aggancia alla pericope 8,18-22; come dire che la riflessione sulla sequela e sul discepolato continua, dando in tal modo una sequenza logica a tutto contenuto.
La scena si apre con un Gesù già entrato sulla barca. Il participio aoristo (™mb£nti), infatti, descrive un’azione già compiuta nel passato e che si impone ora nel presente. L’entrare nella barca indica il compiersi di una scelta. La barca, infatti, è un luogo circoscritto e angusto, privo di comodità, che separa dalla terraferma chi vi sale, quasi staccandolo da tutte le sicurezze, che essa in qualche modo rappresenta: la solidità e la certezze della vita quotidiana, la società con tutte le sue complesse relazioni, la sua organizzazione, l’accoglienza sicura di una casa o di un qualsiasi punto di riferimento certo e rassicurante. Per contro, la barca colloca il navigante in una situazione di precarietà: essa traballa sulle onde, poggia su una superficie continuamente mutevole, scivola sull’acqua, che nasconde nelle sue profondità numerose insidie, che attentano continuamente alla vita del navigante e continuamente la mettono in discussione, mentre il naufragio è sempre una realtà drammaticamente presente. Ebbene, Gesù è salito sulla barca, ha compiuto, dunque, questa scelta difficile, entro la quale colloca la sua missione. Una scelta che egli aveva già operato nel racconto delle tentazioni (4,1-11). Egli per compiere la volontà del Padre suo ha scelto il cammino più difficile, che si concluderà sulla croce. Per questo chi lo segue deve compiere una scelta coraggiosa, una scelta che metterà in discussione tutta la sua vita, le sue relazioni, il suo modo di pensare e di vedere le cose; per questo Gesù, rivolto ai suoi discepoli, sottolinea la necessità di una decisione drastica e per niente rassicurante: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).
La seconda parte del v.23 presenta la sequela dei discepoli. Un versetto breve, ma molto denso. I discepoli sono, innanzitutto, indicati come coloro che seguono Gesù. Il verbo qui è posto all’aoristo ingressivo (ºkoloÚqhsan, seguirono), che dice un’azione originatasi nel passato, ma che continua produrre i suoi effetti anche nel presente. Essi, inoltre, sono definiti da un aggettivo possessivo “suoi”, che indica la totale appartenenza al loro maestro. Quindi, non si appartengono più, ma la loro vita è totalmente dipendente da Gesù, quasi una sorta di consacrazione esistenziale a lui, un mettersi al suo esclusivo servizio, al punto tale che la missione del loro Maestro è diventata la loro missione. Si produce, in tal modo, una sorta di identificazione che fa dei due una cosa sola. Paolo esprimerà mirabilmente tale concetto nella sua Lettera ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Un concetto questo che l’Apostolo completerà nella sua Lettera ai Romani, scritta nel 58, circa un anno dopo: “Chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; anche chi non mangia, se ne astiene per il Signore e rende grazie a Dio. Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,6-8). Il vivere del discepolo, quindi, non è più per se stesso, ma per il Signore, a cui appartiene per la sua scelta esistenziale totale e totalizzante, che lo consacra a Lui.
vv. 24-27: Che cosa significhi seguire Gesù e che cosa ciò comporti viene ora illustrato metaforicamente con il racconto della tempesta sul lago, il cui dramma è sintetizzato in tre versetti. Già si era detto della precarietà del navigare in barca e come questa scelta chiedeva ai naviganti di lasciare ogni sicurezza, promessa dalla terraferma. La struttura del breve racconto è architettata per mettere in luce il dramma dei discepoli, che si trovano al centro, loro malgrado, di una titanica lotta tra Gesù e le forze a lui avverse. Una scelta, quindi, quella del discepolato, per niente rassicurante e che mette in discussione la stessa vita di chi la compie:
A) v. 24: il grande sconquasso delle acque che stanno per inghiottire la barca;
B) v. 25: l’angoscia attanaglia i discepoli, che si vedono già perduti;
C) v. 26: la solenne e maestosa calma di Gesù, che con la sua sola parola pone fine alle tumultuose e arroganti minacce delle acque.
il v.24 si apre con l’espressione redazionale “kaˆ „doÝ” (ed ecco). È l’aprirsi di un sipario sulla scena di un dramma sconvolgente: la potenza scatenata delle acque del mare[25], che richiamano da vicino il caos primordiale della creazione, là dove “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1,2). Da una parte il caos di una terra deserta e informe, avvolta dalle tenebre e ricoperta da grandi acque; dall’altra lo Spirito di Dio che le domina con il suo alleggiarvi sopra. Queste immagini grandiose e titaniche si agitavano nell’inconscio e nell’immaginario collettivo del popolo ebreo. L’ebreo, infatti, non fu mai un grande navigatore, né amante delle grandi distese di acqua. La sua stessa penetrazione in Palestina avvenne via terra e l’unico mare che attraversò fu quello preventivamente e miracolosamente prosciugato da Mosé (Es 14,21-22), così come avvenne per la traversata del Giordano nell’entrare a Gerico (Gs 3,15-17).
Se l’acqua in sé è considerata una benedizione divina[26], le grandi distese di acqua sono sempre state percepite come una grande minaccia, sia per il loro potere sconvolgente, sia per gli abissi che esse racchiudevano in loro stesse, simbolo delle forze del male avverse a Dio, che le domina[27]. Esse erano viste anche come espressione della potenza divina con la quale Jhwh si imponeva sul mondo e sopra i suoi nemici[28].
Queste immagini dovevano risuonare in qualche modo anche nell’animo di Matteo, profondo conoscitore delle Scritture. Egli è quello scriba[29] che “divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52), riproducendo, così, nel suo racconto della tempesta sedata lo schema di quel titanico scontro tra Dio e il caos primordiale. Anche qui, nella tempesta sedata, abbiamo l’agitarsi di grandi acque sulle quali aleggia la Parola di Jhwh, che le domina e le vince, ristabilendo l’ordine della primitiva creazione. Un racconto questo che si snoda sulla falsariga del salmo 106: “Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi, tutta la loro perizia era svanita. Nell'angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie. Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare. Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed egli li condusse al porto sospirato” (Sal 106,27-30).
Al centro del suo racconto (v.25) Matteo pone in evidenza tutta la fragilità di quei discepoli che si trovano sulla stessa barca del loro Maestro, cioè hanno condiviso la sua stessa scelta.
Il versetto è scandito in tre parti:
a) i discepoli si avvicinano. Il verbo proselqÒntej (proseltzòntes), che letteralmente significa “andare verso”, è posto al participio presente, esprimendo in tal modo un movimento che non si esaurisce nel presente, ma è persistente nel tempo, quasi a dire che i veri discepoli sono coloro che nella loro vita vanno verso Gesù, testimoniando in tal modo il loro orientamento esistenziale di fondo. Non ha importanza se questo movimento è dettato, ora, dalla loro poca fede, la cui pochezza si pone come una variante della loro fragilità umana. Ciò che conta è che essi si trovano assieme con il loro Maestro nella stessa barca e questo dice tutta la loro fedeltà alla scelta iniziale. Per questo essi “vanno verso” di lui, sia pur con una fede resa traballante dall’imporsi violento degli eventi.
b) Essi svegliarono quel Gesù che si trovava nella barca con loro e che, in modo innaturale, dormiva nel bel mezzo di una tempesta che stava per affondare la barca. Quel risvegliare Gesù dormiente all’interno della barca dice il risvegliare quell’immagine viva ed operante che sta all’origine della scelta di fondo, che ha fatto del seguace di Gesù un vero discepolo e, ancor prima, un vero credente. Si tratta, quindi, di una sorta di ritorno alle motivazioni originali, che hanno dettato la scelta di seguire Gesù e di consacrargli la vita. Le vicende della vita e la durezza delle difficoltà, che essa impone a tutti gli uomini e in particolare a coloro che hanno operato una scelta difficile, possono aver oscurato, proprio per l’affievolirsi della fede, l’evento Cristo. Vi è, dunque, la necessità di un ritorno alle origini della propria scelta, che avviene con il riavvicinarsi a Cristo e il risvegliarlo in se stessi attraverso la Parola Vivente. Elia, perseguitato da Gezabele, si rifugiò, sconsolato e vinto, nel deserto, invocando la morte su di sé. Ma Dio gli infuse forza sufficiente per intraprendere un lungo viaggio verso il monte Oreb, là dove ebbe origine l’avventura della fede di Israele in Jhwh (1Re 19,1-8). Questo ritorno alle origini della propria fede risvegliò in Elia nuova forza e nuovo coraggio per portare a compimento la sua missione.
c) L’invocazione è il terzo movimento di riavvicinamento a Gesù, con cui Matteo descrive il dramma dei discepoli: “Signore, salvaci, siamo perduti”. Risuona in queste parole tutta la fede primitiva della chiesa antica, che vedeva in Gesù il suo salvatore e come tale lo professava[30]. Nella sua Lettera ai Romani Paolo riporta tale testimonianza attraverso un’antichissima formula di fede: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9). Ma la pochezza di fede dei discepoli, scossi dalle avversità della sequela, trova la sua eco in quel “siamo perduti”, dando per scontata la propria fine. Il vero credente, infatti, non vede mai se stesso come uno perduto, anche se travolto dalle difficoltà; il suo soffrire non è mai un soffrire da solo, ma un con-soffrire con Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Ma è proprio in questa debolezza che Paolo trova la sua forza: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9b-10).
Il v.26 è scandito in due momenti: da un lato, Gesù stigmatizza la paura che attanagliava i discepoli e che li aveva spinti a credere che per loro non ci fosse più via di scampo (“siamo perduti”); dall’altro, Gesù si alza e con la sola potenza della sua parola domina gli sconvolgimenti delle grandi acque minacciose.
Il rimprovero che Gesù muove ai suoi è posto dall’autore in forma interrogativa, quasi a voler spingere i discepoli a interrogarsi sul loro porsi di fronte agli eventi. Matteo definisce i discepoli timorosi come degli “ÑligÒpistoi” (oligòpistpoi), cioè gente che è caratterizzata dalla poca fede. La loro paura, quindi, ha la sua origine nella poca fede. La sequela e il loro discepolato, dunque, non è ancora maturo perché è legato ad un Gesù sveglio, cioè ancora tangibile e vivo in mezzo a loro. Ma è proprio su questo tipo di rapporto, che ricerca gli aspetti appariscenti e su di essi si fonda, che i discepoli devono interrogarsi. Il dormire di Gesù, mentre attorno a lui si sta scatenando una tempesta, la quale sembra travolgere la fragile imbarcazione, che ha appena preso il largo, diventa la metafora del grande sconquasso che la sua passione e morte ha provocato in mezzo a loro: tutti lo hanno abbandonato, Giuda lo ha tradito e Pietro ripetutamente rinnegato. Gesù non c’è più in mezzo a loro ed essi si trovano già perduti[31], come le pie donne che, dopo la sepoltura di Gesù, tornano alla tomba a cercare il suo corpo per inumarlo. Questi discepoli sono ancora legati al passato, mentre la loro fede ha ancora bisogno del supporto del sensibile; ha bisogno di emozioni, di sentimenti, di prove che diano loro sicurezza e certezza e che li sostengano nelle difficoltà. Questa fede è del tutto insufficiente e inadeguata per far loro vincere le vertigini che la sequela e il discepolato possono dare alle persone spiritualmente fragili.
La paura dei discepoli, di fronte di fronte all’aggressività del mondo nei loro confronti, trova la sua risposta nella seconda parte del v.26: “Allora alzatosi, sgridò i venti e il mare e vi fu una grande calma”. Due sono le azioni che Gesù compie: a) si alza; b) rimprovera. Il verbo greco usato per indicare il levarsi di Gesù è “™gerqeˆj” (eghertzeìs), un verbo tecnico, che nella chiesa primitiva era usato per indicare la risurrezione di Gesù. Il verbo è un participio aoristo passivo, che significa risvegliarsi e alzarsi. Il verbo in sé ha una doppia valenza: in quanto posto al participio passato (aoristo) esso indica un’azione puntuale nel tempo e, di per sé, irripetibile; in quanto posto al passivo esso richiama in sé un intervento divino. Ciò che questo verbo indica, dunque, è un’azione già avvenuta nel passato, unica e perfetta in se stessa, un’azione che ha la sua origine in un intervento divino. È chiaro ciò a cui allude Matteo: la risurrezione di Gesù. L’azione è posta nel passato (aoristo) e si colloca nel tempo prima di un’altra conseguente: il rimproverare, che presuppone un’azione compiuta con la parola. Quindi Gesù “viene risvegliato e viene rialzato” (™gerqeˆj) solo successivamente rimprovera. Un’azione è conseguente e dipendente dall’altra. Le indicazioni di Matteo alla sua comunità in difficoltà sono ora evidenti: due sono i capisaldi su cui deve poggiare la loro fede: la risurrezione e la Parola. La successione non è casuale: la fede è innanzitutto fede nella risurrezione, dalla quale la stessa Parola del Maestro trae la sua forza vitale, capace di vincere il mondo. Essa (la risurrezione) è il fondamento del credere cristiano, senza la quale tutto diviene inutile e la stessa parola perde ogni sua efficacia (1Cor 15,14.17).
Il racconto della tempesta sedata diventa, dunque, per Matteo la storia della chiesa nascente: i discepoli, dopo aver compiuto la loro scelta di seguire Gesù, vengono travolti dagli eventi della sua passione e morte al punto tale che abbandonano il loro maestro, qualcuno lo tradisce, mentre altri lo rinnegano. Ma sarà soltanto la risurrezione di Gesù, da cui sgorga lo Spirito Santo, che dà certezza alla fede, mentre la Parola del Maestro, ripiena dello Spirito del Risorto, diventa il nuovo punto d’incontro e di convergenza dei veri discepoli e di ogni futuro credente. Attorno a questi due capisaldi l’intera Chiesa ritrova se stessa e la sua compattezza: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!" (Gv 16,33); mentre Paolo, lasciando la sua eredità spirituale alla chiesa di Efeso, sprona il timido e titubante Timoteo: “Egli che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo, del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro” (2Tm 1,10b).
Il v.27 chiude il racconto della tempesta sedata e funge da sua cassa di risonanza: “E gli uomini stupirono, dicendo: <<Da dov’è costui che anche i venti e il mare gli obbediscono?>>”. Ci troviamo di fronte ad un evento straordinario che infonde stupore e timore negli uomini. È questa la reazione propria dell’uomo di fronte all’irrompere del divino nel mondo[32]. È la stessa reazione che tutti i Sinottici descrivono nei rispettivi racconti della risurrezione[33]. L’evento della tempesta sedata, quindi, è per Matteo rivelativo della potenza di Dio, che irrompe nel mondo e lo vince nella persona stessa di Gesù (Gv 16,33). Su tale manifestazione dell’onnipotenza divina, che prorompe in Gesù, la comunità matteana è invitata a riflettere: “Da dov’è costui … ?”. L’avverbio greco usato dall’autore è molto significativo: “potapÒj” (potapòs); esso ha una doppia valenza: significa “di che razza è”, ma anche “di dov’è”. È la stessa domanda che Pilato pone a Gesù, quando sente dai Giudei che egli “si è fatto Figlio di Dio” (Gv 19,7-9). Matteo, quindi, invita la sua comunità a interrogarsi sia sulla natura di Gesù (“di che razza è?”) che sulla sua provenienza (“di dov’è?”). La potenza pacificatrice, che promanava da Gesù, doveva richiamare in qualche modo a Matteo, scriba[34] conoscitore delle Scritture, la sovrana potenza che Jhwh deteneva sui venti, sulle acque, sui mari, sui monti, sulle colline, nei cieli come nelle profondità marine e sull’intera creazione[35]. Tale potenza sulla creazione viene riprodotta qui, ora, nel suo racconto, perché la sua fragile comunità, formata da giudeocristiani, come lui conoscitori delle Scritture, veda il trasparire della potenza di Jhwh dalla persona di Gesù, così come da Mosè traspariva l’irresistibile luce di Dio (Es 34,29-30.35). Attorno a questa onnipotenza divina, operante in Gesù, la comunità matteana doveva ricompattarsi e ritrovare la pienezza della sua fede e il senso del suo credere.
vv. 28-34: il racconto, che introduce il secondo gruppo di miracoli[36], sembra narrare il primo esorcismo di Gesù. Uno strano esorcismo sia perché si parla solo di due indemoniati, sui quali Gesù, di fatto, non compie nessun esorcismo (non fa gesti, né impartisce ordini), ma acconsente soltanto ad una richiesta dei demoni, il cui numero non viene precisato; sia perché nulla si dice delle persone liberate dai demoni. Di fatto qui non si parla mai di una liberazione, bensì di una possessione: quella della mandria di porci. L’attenzione qui è tutta incentrata su due livelli: a) sulla mandria dei porci, alla quale i demoni si uniscono, precipitandola nelle profondità delle acque; b) sulla reazione degli abitanti di Gadara, che escono in massa dalla loro città. Uno strano esorcismo che, in realtà, non ne possiede le caratteristiche, al punto tale che qui Matteo non sembra voler parlare di esorcismo. Di fatto si costituisce un profondo parallelismo tra i movimenti dei due indemoniati e quello degli abitanti di Gadara. I primi escono dalle loro tombe e vanno incontro a Gesù, mostrandosi ostili nei suoi confronti; i secondi escono dalla loro città e vanno incontro anch’essi a Gesù, mostrandosi parimenti ostili a lui. In entrambi i casi i movimenti sono identici e identico è l’uso dei verbi che accomuna gli indemoniati con i Gadareni: ™xšrcomai (exércomai: uscire) e Øp£ntaw (üpàntao: andare incontro).
Il racconto si muove su tre livelli tra loro paralleli e concentrici:
a) vv. 28-29: l’incontro degli indemoniati con Gesù;
b) vv. 30-32: la possessione della mandria dei porci e la loro rovina;
a1) vv. 33-34: l’incontro dei Gadareni con Gesù.
Il v.28 si apre con un movimento narrativamente logico e, nel contempo, simbolico: Gesù giunge “dall’altra parte”. Gesù, infatti, approdando su questa riva del lago, conclude la sua prima parte del viaggio iniziato in 8,18b.23. Ma se in 8,18b Gesù si allontana dalla folla andando dalla “parte opposta” dove essa si trovava, indicando in tal modo la presa di distanza da un certo tipo di sequela, qui in 8,28a, Gesù giunge dall’altra parte, cioè a Gadara, una cittadina posta a sud-est del lago nel territorio della Decapoli. Siamo dunque in territorio pagano, opposto a quello da cui Gesù proviene, che invece è terra dei Giudei, a cui Gesù appartiene. Il primo impatto che Gesù ha con questa terra pagana è decisamente negativo: il comitato di accoglienza è formato da due indemoniati. Questi sono definiti in triplice modo: a) escono dalle tombe; b) sono molto ostili; c) impossibilità di transitare da quei luoghi. Il linguaggio metaforico indica la triste realtà in cui essi sono avvolti: a) sono persone queste che abitano in luoghi di morte; il loro mondo è quello dei morti; b) ciò li rende ostili e refrattari a qualsiasi forma di vita; e c) di comunicazione. Il loro mondo è impermeabile alla stessa salvezza che Gesù è venuto ad offrire loro. In altri termini è gente senza speranza, ripiegata su se stessa e chiusa in se stessa. La drammaticità della situazione trova il suo concreto riscontro nei vv. 33-34 dove “tutta la città” (p©sa ¹ pÒlij, pàsa e pòlis), compatta, quasi a formare un muro invalicabile, si oppone e si chiude a Gesù, invitandolo a passare oltre.
I vv. 30-32, posti centralmente e verso cui convergono a) e a1), costituiscono il cuore del racconto. La breve pericope si apre indicando che “lontano” c’era una mandria di porci. È una mandria, quindi, che si trova lontano da Gesù e presso la quale i demoni vogliono rifugiarsi, poiché il luogo dove essi si trovano (vicino a Gesù) non è più adatto a loro. Il termine mandria poi è un nome collettivo, così come lo è quello di “città”. Con il termine porci o cani gli ebrei indicavano i pagani[37], persone immonde e con i quali non si doveva entrare in contatto per evitare ogni contaminazione, che richiedeva, secondo le prescrizioni mosaiche, un rito di purificazione (Gv 18,28). Gadara, quindi, è una terra pagana, dove pascolano i porci, ai quali sono associati i demoni. Quale sia il loro destino e la loro condizione di vita viene descritto dal precipitare della mandria indemoniata giù dal dirupo, inghiottita dalle acque profonde, dove, secondo l’immaginario ebraico abitavano le forze del male.
Questi tre versetti, pertanto, descrivono lo stato esistenziale e la condizione di vita spirituale in cui si trovava il mondo pagano ai tempi di Gesù, chiuso in se stesso e pervicacemente compatto contro di lui. Per l’aprirsi del paganesimo al messaggio evangelico dobbiamo aspettare il tempo susseguente la risurrezione di Gesù e l’azione apostolica di Paolo, chiamato per convocare i gentili all’obbedienza della fede (Rm 1,5; 15,18; Gal 1,15-17). Per questo gli indemoniati, rivolti a Gesù, lo redarguiscono duramente per essere venuto anzitempo a tormentarli.
Commento al Cap. 9
vv. 1-8: se nel racconto dei due indemoniati di Gadara si sottolineava la triste condizione del mondo pagano ancora avvolto dalle tenebre, sordo e avverso a Dio così da essere sprofondato nelle regno del Male (acque del mare v.8,32), qui, in questo racconto della guarigione del paralitico, viene presentata un’umanità, la quale, benché avvezza alla fede mosaica, è ancora tuttavia avvolta dagli effetti paralizzanti del peccato, che la Legge, per quanto osservata, non è in grado di risolvere. In altri termini, la Torah, per sua natura, è del tutto insufficiente e inadeguata a mettere l’uomo nel giusto rapporto con Dio[38]. Anzi, afferma Paolo, proprio dalla Legge prende vita il peccato: “Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte” (Rm 7,7-11). E tutto ciò a motivo della fragilità della carne decaduta, che rende l’uomo incapace di fare il bene (Rm 7,14-25), perché la morte, da Adamo in poi, ha raggiunto ogni uomo (Rm 5,12-21). Soltanto l’avvento di Cristo è in grado di restituire l’uomo alla vita e di porlo nel giusto rapporto con Dio, così che “Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Al centro di tutto, dunque, ci sta il potere rigenerante e salvifico di Cristo, capace di ricollocare l’uomo nella dimensione divina.
In termini più accattivanti, questo afferma Matteo nel suo racconto della guarigione del paralitico.
Il v.1 serve da stacco tra un racconto e un altro e vi è un radicale cambio di scena: Gesù rientra in terra giudaica dove la gente è sensibile ai valori dello spirito ed è aperta all’azione salvifica di Jhwh. Gesù, quindi, torna nella sua città[39]. L’ambiente qui è totalmente diverso: infatti, sbarcato nel territorio dei Gadareni viene accolto da due indemoniati furiosi che lo aggrediscono e lo respingono; qui, a Cafarnao, invece, è accolto da un gruppetto di persone, che gli si avvicinano mosse dalla fede. Le scene sono diametralmente opposte. Qui Gesù, infatti, parla molto, entra in rapporto con le persone che lo circondano e manifesta tutto il suo potere salvifico, contrariamente a quanto era avvenuto a Gadara, dove Gesù quasi scompare, travolto da un’aggressività terminata nel rifiuto della sua persona, limitandosi ad un semplice e quasi impercettibile “Andate” (8,32a).
Il racconto si sviluppa in quattro scene:
a) v. 2: Gesù rimette le colpe al paralitico;
b) vv. 3-5: diatriba sul potere perdonativo di Gesù;
c) vv. 6-7: Gesù rende visibile il suo potere e la sua autorità guarendo il paralitico;
d) v. 8: le folle riconoscono in Gesù il potere operante di Dio.
Vi sono nel racconto delle parole chiave attorno alle quali ruota l’intero racconto. Esse sono tre, ripetute più volte: “™xous…a” (exusìa, autorità, potere, potenza: vv. 6.8), termine che in Matteo ricorre 9 volte, di cui 8 riferentisi a Gesù e una ai suoi discepoli (10,1). La seconda parola è “¢f…hmi” (afìemi, sciogliere, rimettere: vv. 2.5.6). la terza parola è “™ge…rw” (egheìro, destare, risvegliare, elevare, innalzare, sollevare: vv. 5.6.7). Già queste sono sufficienti da sole per indirizzare il lettore: Gesù ha in se stesso un potere ed una autorità tali da sciogliere l’uomo dai suoi vincoli e rigenerarlo alla vita divina.
Il v.2 si apre con un “kaˆ „doÝ” (kai idù: ed ecco), che, da un lato, attira l’attenzione del lettore sulla scena che gli si para davanti: l’agire salvifico di Gesù; dall’altro, esso si contrappone al secondo “kaˆ „doÝ” del successivo v.3 che apre, a sua volta, una seconda scena parallela alla prima, ma ad essa contrapposta: gli avversari di Gesù contestano la sua autorità, disconoscendone il potere salvifico, che da lui promana. Il racconto, quindi, si muove al suo interno su due linee tra loro parallele incidenti, utili all’autore per mettere in rilievo il potere salvifico di Gesù, poiché proprio attraverso questo contrasto, con una crescente drammatizzazione, si arriverà al vertice del v.8 in cui vi è il riconoscimento pubblico (le folle) dell’agire divino in Gesù, che assume i contorni di un’azione liturgica e cultuale di lode e di ringraziamento a Dio, per il suo manifestarsi in Gesù.
Il v.2 è scandito in tre parti:
a) il paralitico viene presentato a Gesù ed è disteso su di un letto. Il verbo beblhmšnon (bebleménon) è un perfetto ed indica uno stato presente che proviene da un’azione passata. Esso, quindi, coniuga in sé sia il passato che il presente, un presente che è vittima del passato e che pregiudica anche il futuro. Il verbo usato è b£llw (bàllo) che significa “lanciare, spingere, gettare a terra, buttare giù, gettare via, colpire”. Esso, dunque, dice lo stato di grave prostrazione in cui il paralitico si trova: immobile, incapace di qualsiasi gesto e bisognoso di tutto e da tutto dipendente dagli altri. Egli è un escluso dalla vita sociale e religiosa, impossibilitato a relazionarsi con gli altri, prigioniero del suo stesso corpo. Egli certo vive, ma lo stato della sua vita è larvale. In qualche modo esso esprime la condizione dell’uomo degradato dal peccato e nel peccato, che lo rende incapace sia di relazionarsi a Dio che agli uomini. Una colpa che ha origini lontane e che gli preclude ogni speranza.
b) Il secondo movimento è il vedere di Gesù. Ciò che lo colpisce non è lo stato pietoso in cui versa l’uomo, ma la fede che anima e muove verso Gesù i suoi soccorritori. Una fede, quindi, che non è del paralitico, ma degli altri, quasi ad indicare, da un lato, lo stato di prostrazione spirituale in cui il paralitico versa e che lo rende incapace di qualsiasi slancio spirituale; dall’altro, l’aspetto comunitario ed ecclesiale della fede, capace di essere salvifica per ogni suo singolo componente. Anche qui il verbo usato è specifico: “„dën“ (idòn), che indica un vedere che trascende il semplice vedere fisico[40] per arrivare a cogliere le segrete profondità del cuore dell’uomo. Il rapporto uomo - Gesù, quindi, non si basa sullo stato di necessità fisica o spirituale che sia, ma sulla fede. E’ proprio questa, infatti, che muove i soccorritori del paralitico verso Gesù.
c) Il terzo movimento è costituito dalla risposta di Gesù: “Coraggio, figliolo, i tuoi peccati sono rimessi”. È il momento conclusivo di un cammino ecclesiale, sorretto dalla fede, con il quale la comunità avvicina a Gesù un suo membro gravemente ammalato, paralizzato e per questo incapace di esprimere dignitosamente la propria vita e che proprio per questo ha perso ogni sua dignità. Soggetto, quindi, di questa impetrazione non è il paralitico, bensì la comunità ecclesiale, alla quale questo disgraziato si è affidato. Per poter comprendere la risposta che Gesù dà è necessario rifarsi al concetto di malattia che gli antichi avevano. In genere l’interesse che la Bibbia ha della malattia è più teologico che psico-fisico, poiché essa tende a vedere nella malattia la fragilità dell’uomo conseguente al peccato e l’azione punitiva di Dio sul peccatore[41]. C’è quindi uno stretto legame tra il mondo dello spirito e lo stato di salute dell’uomo. Dopo la colpa, infatti, l’equilibrio divino uomo-Dio si spezza e l’uomo viene precipitato nella sofferenza e nel dolore. Tutto diviene più difficile, più complicato e nulla più è dato per scontato, mentre l’uomo viene gettato in uno stato di precarietà esistenziale (Gen 3,16-19). Fin dagli inizi, quindi, l’autore sacro pone uno stretto collegamento tra dolore, sofferenza e peccato, inteso come decadenza dell’uomo dal suo stato di vita divina partecipata (Gen 2,7-8.15) e suo conseguente allontanamento da Dio (Gen 3,8.23-24). Da questo momento la malattia o la sventura in genere divengono anche degli strumenti di potere con i quali Dio colpisce il ribelle e gli animali, che gli forniscono sostentamento[42], mentre chi gli è fedele, Jhwh lo preserva dalla malattia (Es 23,25; Dt 7,15;). Ma la malattia viene vista anche come l’attività del Maligno sull’uomo e, quindi, una forma di possessione demoniaca, così come in Gb 1,9-12; 2,4-7 e in At 10,38 o in Mt 4,24 e Lc 13,16. La malattia, dunque, con il suo carico di sofferenza e di dolore, è conseguenza del peccato, per questo Gesù va a colpire direttamente la fonte stessa del dolore e la condizione di degrado di quel paralitico, che, per la sua anonimità, dice il degrado in cui versa l’intera umanità: “Coraggio, figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati”. Con l’avvento di Gesù, dunque, il peccato, che esercita il suo potere di sofferenza e di morte sull’uomo, viene sconfitto, così che “se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini” (Rm 5,15b).
I vv. 3-5 aprono il secondo fronte, quello avverso a Gesù, e creano, attraverso un escamotage letterario, un forte legame e un parallelismo con il v.2. Già abbiamo visto sopra il significato dei due “kaˆ „doÝ” con cui si aprono i vv. 2 e 3-5, che introducono due eventi tra loro paralleli, ma contrapposti; ora vediamo come l’autore usa anche due espressioni che si ritrovano identiche sia in 9,2 che in 9,3-5: “kaˆ „dën Ð'Ihsoàj” (kaì idòn o Iesus: avendo visto Gesù). Questo vedere di Gesù nel cuore dell’uomo e nei suoi pensieri, che trascende l’apparire delle cose (il paralitico posto alla sua presenza e il criticare a voce alta degli scribi) richiama da vicino la sovranità stessa di Dio sull’uomo[43]: “Infatti il Signore con gli occhi scruta tutta la terra per mostrare la sua potenza a favore di chi si comporta con lui con cuore sincero” (2Cr 16,9a). Il vedere di Gesù, dunque, è il vedere stesso di Dio. E ciò che Gesù vede nel primo gruppo di persone, che gli si avvicinano con il paralitico, è la fede, da cui sgorga la salvezza; mentre nel secondo gruppo egli vede dei pensieri malevoli rivolti contro di lui. Ne esce così un confronto tra due contrapposti atteggiamenti, che si stanno delineando nei confronti di Gesù: c’è chi si avvicina a lui con la fede, ricevendone in cambio la salvezza (v.2); chi, invece, critica Gesù e gli oppone la propria chiusura, rendendosi impermeabile ad ogni azione salvifica, vanificandola in tal modo (vv. 3-5).
L’accusa che viene mossa a Gesù è di bestemmia. Il motivo, che Matteo non sente di dover spiegare alla sua comunità formata da giudeocristiani e quindi ben addentro alle questioni religiose e alle prescrizioni della Torah, è che il perdono dei peccati è un atto riservato esclusivamente a Dio; di conseguenza, Gesù si è messo al posto di Dio e ne ha, in qualche modo, usurpato il potere, facendosi uguale a Dio[44]. Marco e Luca, invece, scrivendo a comunità di diversa composizione[45], sentono entrambi la necessità di completare l’accusa di bestemmia con la motivazione: “Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?” (Mc 2,7; Lc 5,21), lasciando filtrare attraverso questo interrogativo, quasi suggerendola, la verità della persona di Gesù, cioè che egli è Dio.
Il v.4 si apre con l’identica espressione di 9,2b: “kaˆ „dën Ð'Ihsoàj”. Anche qui, in 9,3-4, c’è una sorta di incongruenza come nel v.9,2 , dove a Gesù viene presentato il paralitico, ma egli vede soltanto la fede che è nei cuori; similmente nei vv. 3-4 alcuni scribi parlano tra loro, ma Gesù non sente quello che dicono, ma “vede” ciò che c’è nei loro cuori: non c’è fede, ma solo pensieri malvagi. Questa insistenza dell’evangelista nel presentare un Gesù che va oltre gli aspetti visibili o le questioni contingenti per soffermarsi in ciò che si muove nel cuore e nella mente dell’uomo, dice la preminenza dell’atteggiamento interiore dell’uomo rispetto a ciò che appare all’esterno. È l’interiorità che determina il suo rapporto con Dio e che lo rende buono o malvagio, bene accetto e gradito a Dio o da Lui respinto. Infatti è dal cuore dell’uomo che esce il bene o il male (Mt 15,11.17-20; Mc 7,20-23). Il primo atto di guarigione che Gesù opera, quindi, è guarire l’uomo partendo dal suo cuore, inaridito da un formalismo religioso, che lo paralizza nei suoi rapporti con Dio, impedendogli di rapportarsi a Lui con la sincerità della vita. Il significato, quindi, di quel “ti sono rimessi i tuoi peccati” è il primo atto che va a colpire l’immobilismo di un uomo ingessato nelle sue sicurezze, che lo allontanano da Dio e lo rendono impermeabile ai suoi richiami, lanciatigli nel suo Cristo. C’è, dunque, in questo racconto un confronto tra due gruppi di persone, tra due tipi di comunità: l’una, che si muove nella fede in Gesù, la nuova comunità messianica, formata dai discepoli, che, avvicinandosi a Gesù nella fede, ottengono la rigenerazione della loro vita in Dio; l’altra, l’antico Israele, rappresentato dagli scribi, legata alla rigidità degli schemi della Legge mosaica, rimane chiusa in se stessa e non riesce a cogliere la novità di un Dio che sta operando in Gesù. Tale chiusura nasce da una profonda malvagità di un cuore che solo apparentemente adora Dio, ma in realtà è chiuso alle vere esigenze divine, rendendosi in tal modo impermeabile alla salvezza: “Perché mai pensate cose cattive nel vostro cuore?”. Giovanni nel suo prologo lamenterà proprio quest’ultimo aspetto: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11), mentre il Gesù marciano redarguisce duramente il suo popolo per il formalismo del culto reso a Dio, tutto esteriore, senza coinvolgere il vivere nella sua quotidianità: “"Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Mc 7,6)[46].
Il v.5 sintetizza la questione, ma nel contempo introduce un principio di integrità: “Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina?”; in altri termini: è più facile riconciliare l’uomo con Dio, restituendogli una rigenerata spiritualità, o è più facile restituirgli quella salute fisica che lo aveva socialmente e religiosamente ghettizzato? L’aut aut, posto da Gesù, sembra mettere in rilievo un confronto tra due situazioni solo apparentemente diverse e contrastanti tra loro: la condizione spirituale dell’uomo con il suo stato di salute, che lo condiziona in ogni sua espressione esistenziale. In realtà il Gesù matteano collega, invece, tra loro i due livelli fondamentali e costitutivi dell’essere umano, sancendone le indissolubili solidarietà e integrità: i due aspetti si compenetrano tra loro così che l’uno diviene il riflesso dell’altro[47]. In tal modo viene fornita al lettore una chiave di lettura dell’agire salvifico di Gesù, che non mira a salvare l’anima dell’uomo, bensì l’uomo nella sua integralità, sotto ogni aspetto del suo essere, cercando di restituirgli in pienezza quella dignità di cui godeva nei primordi e, poi, drammaticamente perduta[48]. Il v.5, pertanto, costituisce un passaggio importante e fondamentale, poiché prepara il lettore alla guarigione dell’uomo nella sua integralità, che si completa nei successivi vv. 6-7.
Il v.6 si apre con la preposizione di tipo finale †na (ìna, affinché): la guarigione fisica del paralitico è finalizzata a dare visibilità storica a quella salvezza che è stata prima operata a livello spirituale. In definitiva la guarigione spirituale dell’uomo ha dei riflessi anche sulla sua esistenza e si esprime in un rinnovato rapporto con Dio, che si manifesta e si attua anche nei rapporti sociali, religiosi e personali. A giochi finiti, pertanto, non abbiamo più un paralitico risanato spiritualmente, ma un uomo restituito a se stesso, a Dio e agli altri nella sua più piena e più completa integrità originale. Il potere salvifico di Gesù, dunque, si esprime nella sua pienezza come atto integralmente salvifico per l’uomo. In tale atto viene anticipato in qualche modo l’azione salvifica del Padre su Gesù, che non è stato risuscitato nello spirito, ma nella sua interezza di persona. Su questo schema (spirito-corpo) si attuerà anche la risurrezione dell’uomo (1Cor 15,12-20). E che Matteo volesse indicare in questo racconto della guarigione del paralitico, proprio il recupero integrale dell’essere dell’uomo per mezzo della risurrezione, ne è prova il ripetersi per tre volte di seguito del verbo ™ge…rw (egheiro), un termine tecnico con il quale la chiesa del primo secolo indicava la risurrezione di Gesù. Il verbo è posto una volta in forma attiva (v.5) e viene associato al verbo “af…enta…” (afìentai, sono rimessi), indicando in tal modo la stretta dipendenza di ™ge…rw da af…enta…, cioè la rigenerazione esistenziale (™ge…rw) dell’uomo dal suo essere riconciliato con Dio (af…enta…); le altre due volte (vv. 6b.7a) il verbo ™ge…rw è posto all’aoristo passivo (™gerqeˆj), indicando l’azione divina che opera sull’uomo. La diversità dei tempi in cui è posto il verbo ™ge…rw (presente indicativo attivo e aoristo passivo) di fatto evidenzia due aspetti fondamentali della salvezza, che si compie in Gesù: con il presente indicativo viene sancito una sorta di principio costantemente valido: la riconciliazione con Dio porta alla riconciliazione con se stessi e con gli altri; con l’aoristo passivo, di tipo ingressivo[49], vengono indicati due aspetti importanti di questa salvezza: in quanto passivo, il verbo indica in quel “™gerqeˆj” l’agire di Dio[50]; in quanto aoristo ingressivo dice come questa azione salvifica del Padre ha avuto la sua origine e la sua manifestazione in Gesù.
L’efficace potenza della Parola[51], che promana da Gesù e investe il paralitico, viene espressa letterariamente dal susseguirsi senza interruzioni tra comando e sua conseguenza: “Alzato, prendi il tuo letto e vai a casa tua. E dopo essere stato alzato, se ne andò a casa sua”. Questo diretto e immediato succedersi di comando-compimento richiama da vicino l’azione creativa di Dio: “Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu” (Gen 1,3). Anche qui il comando divino, espresso attraverso la Parola (disse), evidenzia tutta l’efficacia della Parola nel suo immediato attuarsi: “La luce fu”. La guarigione del paralitico, quindi, in qualche modo dice che qui abbiamo avuto una sorta di nuova creazione, con la quale l’uomo è stato ricostituito nella sua integrità primordiale, e come questa trovi il suo manifesto compimento nella risurrezione stessa di Gesù, punto di origine di cieli nuovi e terra nuova[52].
Il v. 8, da un punto di vista letterario, funge da coro esterno ed è posto a commento dell’evento di guarigione. Attore principale sono le folle, questa massa anonima, che rappresenta un discepolato non ancora maturo e non ancora ben definito nelle sue scelte, ma che tuttavia segue a modo suo, da spettatore, il compiersi degli eventi della salvezza. La reazione è triplice ed è scandita da altrettanti verbi: “„dÒntej” (idòntes, avendo visto), “™fob»qhsan” (efobétzesav, furono prese da timore), “™dÒxasan” (edòxasan, lodarono, glorificarono). Risuona in questo versetto il clamore dell’irrompere divino nella storia, che provoca diverse reazioni negli uomini, a seconda dei contesti dai quali essi provengono: in 8,33-34 (Gadareni) e in 9,3 (scribi) vi è il rifiuto; qui, invece, c’è il prorompere di una lode a Dio. Questa contrapposizione è letterariamente espressa, oltre che dai rispettivi atteggiamenti, anche dalla particella avversativa dš (dé), che segue immediatamente il verbo “„dÒntej”. Essa dice, anche per la natura stessa del verbo[53], come il vedere di queste folle vada ben oltre ad un semplice vedere fisico, ma proprio per la loro fede, sia pur essa incipiente, riescono a cogliere il manifestarsi del divino in Gesù. La paura che pervade queste folle è caratteristica delle teofanie dove, all’irrompere del numinoso in mezzo agli uomini, questi sono presi da paura, tremore e timore[54] ed evidenzia come nella guarigione del paralitico ci sia stato l’irrompere salvifico di Dio, che è riconosciuto dal potere prorompente e irresistibile che egli ha concesso a Gesù (dÒnta ™xous…an toiaÚthn, dònta exusìan toiaùten). La conclusione è il costituirsi, hinc et nunc, di una sorta di assemblea liturgica che celebra l’evento salvifico, traducendosi in una lode a Dio.
vv. 9-17: tra i due gruppi di miracoli, posti in 8,28-9,8 (gli indemoniati di Gadara; il paralitico) e in 9,18-34 (risuscitazione della figlia del capo; guarigione dell’emoroissa, dei due ciechi e di un indemoniato muto), Matteo interpola i vv. 9-17, finalizzati a mettere in luce l’azione rinnovatrice e rigenerante di Gesù, che apre anche ai peccatori e che si manifesta visibilmente nei miracoli, concepiti dai Sinottici come la potenza divina in atto[55]. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5b). È questo il senso dei vv. 9-17, che preannunciano fin d’ora nell’operare di Gesù, quasi anticipandoli, gli effetti della sua risurrezione.
Questa breve sezione è scandita in tre momenti:
a) v. 9: la chiamata di Matteo, che costituisce una sorta di prologo ai vv. 10-13;
b) vv. 10-13: Gesù siede a mensa con i pubblicani e i peccatori, aprendo la salvezza anche a loro, considerati come degli esclusi;
c) vv. 14-17: la questione del digiuno. La presenza di Gesù inaugura tempi nuovi e rende incompatibile il vecchio modo di rapportarsi a Dio.
Il v.9 racconta la chiamata di Matteo ed è strutturato sullo schema narrativo proprio dei racconti di vocazione, che troviamo anche in 4,18-22 (la chiamata dei primi quattro discepoli). Il versetto è costellato da sette verbi, che gli impongono un forte dinamismo; tre hanno per soggetto Gesù (passando, vide, dice) e quattro Matteo (chiamato, seduto, levatosi, seguì). Il numero[56] dei verbi (sette) e la loro ripartizione tra Gesù (tre) e Matteo (quattro) sono molto significativi e dicono qualcosa della natura e della dinamica di questo incontro. Il 3 parla di un movimento in se stesso compiuto e perfetto nel suo svolgersi, che non ha bisogno di aggiunte. Esso possiede in sé una sacralità che tutto comprende e inerisce alla perfezione divina; il 4 indica la totalità, l’interezza; mentre il 7, che è dato dalla somma di 3+4, cioè dalla somma di Gesù e Matteo, dice la pienezza e la perfezione dell’incontro, tale da fare dei due una sorta di cosa nuova. Esso esprime la totalità e la compiutezza volute da Dio. Sette, infatti, furono i giorni della creazione, ma soltanto nel settimo giorno Dio portò a compimento la sua opera creatrice (Gen 2,2-3). In altri termini, l’azione elettiva di Gesù esprime in se stessa un’azione divina, che coinvolge Matteo nella sua totalità e ne fa una nuova creazione. La chiamata di Matteo alla sequela e la gratuita offerta di salvezza, che Gesù opera nei confronti dei peccatori, sono il settimo giorno in cui Dio, nel suo Cristo, porta a compimento la nuova creazione. Il dinamismo della chiamata-sequela è, pertanto, rinnovatore e rigeneratore, collocando il chiamato nella stessa dimensione divina, costituendolo nuova creatura in Cristo (2Cor 5,17).
La scena si apre con Gesù in movimento: “passando Gesù di là” (par£gwn Ð'Ihsoàj ™ke‹qen – paràgon o Iesùs ekeîtzen). È significativo come l’agire salvifico di Gesù sia sempre preceduto da un verbo di movimento[57], quasi ad indicare una salvezza che si sta muovendo e attuando in mezzo agli uomini. Anche qui, come in 4,18, Gesù sta passando e il suo sguardo si posa su di un uomo. Il verbo “vedere” è espresso con Ñr£w, per indicare un vedere che trascende le apparenze e va a cogliere le profondità e le verità nascoste in ogni uomo. È un vedere che dice elezione e si fa chiamata; una chiamata che interpella l’uomo nella sua stessa identità, nella sua storia, nel suo essere più vero e profondo; per questo l’autore precisa che l’uomo, che Gesù vede, si chiama Matteo. Non è quindi un uomo generico e anonimo come le folle, ma l’essere nominato dice la particolare elezione, che coinvolge Matteo nella sua stessa essenza e nella sua totalità e il particolare rapporto consacrante e santificante in cui esso è coinvolto.
Matteo è presentato come un uomo “seduto al banco delle imposte”. È sufficiente questo particolare per definirlo come un “telènhj” (telònes), cioè un pubblicano, un addetto alla riscossione delle tasse[58]. Una figura questa che ricorre soltanto nei Sinottici ed è sovente associata ai termine “peccatore”, “prostituta” e “pagano”[59] ed è contrapposta al termine “fariseo” [60], quasi ad indicare in modo tangibile tutta la distanza che intercorreva tra lui e chi era, invece, considerato ai vertici della perfezione religiosa. Ciò lascia comprendere lo stato sociale e il livello morale in cui questo personaggio era posto. Certamente era considerato fuori dalla comunità degli eletti e, pertanto, per definizione, escluso dalla salvezza[61]. Egli è definito come “un uomo seduto” (¥nqrwpon kaq»menon – àntzropon katzémenon), quasi trincerato dietro il suo tavolo, che lo separava in qualche modo dal resto del popolo, creando una sorta di barriera di incomunicabilità. Ma la sua condizione di “uomo seduto” dice anche lo stato di immobilismo morale e religioso in cui si trovava e che gli toglieva ogni speranza di salvezza e ogni possibilità di riscatto. In definitiva, quel suo essere seduto trascende la sua figura professionale e diventa metafora dello stato di prostrazione morale e spirituale in cui quest’uomo giaceva, così come il paralitico nel suo lettuccio e la suocera di Pietro stesa sul suo letto o come il servo del centurione, anche lui giacente paralizzato nel suo letto. Sono tutte immagini che descrivono la condizione di sofferenza spirituale e morale in cui veniva a trovarsi l’uomo avvolto dal peccato. Ma la salvezza in atto gli passa canto, gli intima un ordine e il miracolo si compie: “<<Seguimi>>. E levatosi in piedi, lo seguì”. Il verbo greco per indicare l’alzarsi di questo pubblicano è ¢n…sthmi (anìstemi), che indica un risollevarsi, un sorgere, un aprirsi ad una nuova vita, quasi un risorgere, che introduce il pubblicano in una dimensione completamente nuova, quella divina. La conseguenza di questo suo “alzarsi”, infatti, è la sequela. Quest’uomo “seduto” ora si mette in movimento, supera il suo tavolo di lavoro, quella sorta di barriera spirituale e sociale che lo relegava tra i peccatori e acquisisce i ritmi propri della salvezza. Anche qui il verbo greco, ¢kolouqšw (akolutzéo), contiene in sé un significato che va ben oltre al semplice seguire qualcuno e dice anche “servire, mettersi a disposizione”. È, dunque, un seguire che si fa servizio, come in servizio si è trasformata la guarigione della suocera di Pietro. Ora quest’uomo non prende più alla gente, ma si fa dono per gli altri.
I vv. 10-13, introdotti dal v.9, fungono da cornice a due detti di Gesù (vv. 12-13) e indicano il senso della sua missione.
La pericope si divide in due parti:
a) vv. 10-11 presentano due scene tra loro contrastanti: Gesù e i suoi discepoli si trovano a mensa e sono raggiunti da pubblicani e peccatori, che siedono insieme a loro; dei farisei criticano con fare accusatorio il comportamento di Gesù.
b) vv. 12-13 contengono due sentenze di Gesù e costituiscono la risposta alle accuse mossegli dai farisei, ma nel contempo indicano il senso della sua missione.
Il v.10 inizia con un verbo di accadimento: ™gšneto (eghéneto). L’espressione, qui tutta redazionale, si trova nei vangeli 115 volte[62]. Essa, narrativamente, introduce un racconto, ma sovente, particolarmente in Luca, dice l’accadere di un evento che è strettamente legato alla salvezza. L’accadimento annunciato da questo verbo, similmente all’avverbio “„doÝ” (ecco), apre una sorta di sipario e incentra l’attenzione del lettore sull’evento che sta accadendo. L’evento indicato da Matteo è un banchetto, che avviene “nella casa” e in cui presenziano, inizialmente, soltanto Gesù e i suoi discepoli. Si noti come l’autore dice che Gesù e i suoi discepoli si trovano “nella casa” (™n tÍ o„k…v, en tè oikìa); l’articolo è determinativo e, quindi, indica una casa ben precisa. Nel racconto parallelo di Lc 5,29 l’evangelista precisa, unico tra i Sinottici, che la casa è quella di Levi, il pubblicano. Matteo, tuttavia, non lo dice, né lo lascia intendere in qualche modo. Di quale casa, dunque, l’autore parla? Nel linguaggio dei vangeli sovente il termine casa indica la comunità messianica, formata da Gesù e dai suoi discepoli; in altre parole indica il primo nucleo della comunità credente[63]. È dunque al’interno di questa casa che avviene un banchetto, in cui presenziano inizialmente soltanto Gesù e i suoi discepoli, ai quali, successivamente e senza alcun invito formale, si uniscono anche “molti pubblicani e peccatori”. Quest’ultima espressione indica una quantità rilevante di persone, senza precisarne il numero, e quindi una quantità che non ha confini o limitazioni ed è in continua implementazione, dando in tal modo l’idea di un banchetto aperto a tutti coloro che desiderano parteciparvi. Non vi sono formalità per aderirvi se non il desiderio di esserci. Tale banchetto, pertanto, diviene il luogo d’incontro tra la nuova comunità messianica, formata da Gesù e dai suoi discepoli, e quanti, indipendentemente dal loro stato di vita, desiderano parteciparvi. Matteo in questo racconto vede, dunque, il futuro della casa, cioè della neo-comunità credente, destinata ad essere il luogo di raccolta di un’umanità profondamente segnata dal peccato, ma rigenerata attorno a questo banchetto, dove sono già seduti Gesù e i discepoli, nucleo fondante di questa casa-comunità, che Matteo, unico tra gli evangelisti, definisce per tre volte con il termine ™kklhs…a (ekklesìa) (Mt 16,17; 18,17).
Risuona, in qualche modo, in questo inusuale e irrituale banchetto la lontana visione messianica di Isaia: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6). Ma ogni banchetto, ogni pasto, in Israele si caricava di una sacralità, che spesso sfociava in una ritualità cultuale[64]. Ogni pasto iniziava con una preghiera di lode al momento dello spezzare il pane e terminava con una preghiera di ringraziamento[65]. Non di rado, al suo interno, si faceva una sorta di anamnesi, di memoria delle gesta salvifiche di Jhwh, così che i cibi diventavano il segno di sollecitudine di Dio e della sua azione salvifica nei confronti del suo popolo. Esso, pertanto, si trasformava in un luogo di culto e di celebrazione, in cui si compiva una sorta di quotidiana liturgia di lode e di ringraziamento a Dio. Ma anche le alleanze si concludevano con un pasto di comunione[66] che suggellava l’accordo raggiunto tra le parti, così come l’alleanza sinaitica si concluse con un pasto consumato dai settanta davanti a Jhwh. Egli, tuttavia, non partecipò al pasto, ma soltanto vi presenziò per indicare la distanza che intercorreva tra Lui e il popolo. In tal modo nessuno poteva pensare a Jhwh come ad un partner alla pari[67].
Collocato, dunque, in questa cornice di sacralità cultuale e celebrativa, e avvolto da un alone di messianicità, questo strano e inusitato banchetto, in cui Gesù si costituisce con i suoi discepoli come la nuova comunità messianica, nella quale si attua il progetto salvifico di Dio, pensato a favore degli uomini fin dall’eternità (Ef 1,4), diventa il luogo privilegiato in cui Dio si incontra con pubblicani e peccatori, condividendo con loro la sua vita divina, raffigurata da questo banchetto, che esprime la profonda comunione tra Dio e i nuovi credenti.
Il v. 11 presenta l’immediata reazione da parte farisaica. Proprio per la sacralità del banchetto, che richiedeva una purità rituale e un astenersi da ogni forma di contaminazione con il mondo dell’impuro, i farisei contestano questa promiscuità con i pubblicani e i peccatori, che rende immondi sia Gesù che i discepoli[68]. Il mangiare assieme, infatti, dice l’essere accolti e il fare comunione tra tutti i commensali. Il pasto insieme, infatti, racchiude in se stesso una forza vincolante, che unisce profondamente tutti i commensali tra loro, quasi a farne un’unica famiglia, un corpo unico, attingendo tutti ad un unico cibo e ad un unico nutrimento[69]. Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinti ricorda questa profonda comunione che lega tutti i commensali tra loro, cibandosi tutti dello stesso pane e dello stesso vino: “Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l'altare?” (1Cor 10,15-18). È proprio questa promiscuità e questa comunione della nuova comunità credente con il mondo del peccato, che scandalizza i Farisei. Ma, dall’altra parte, è anche proprio questa apertura al mondo dei peccatori, che costituisce la scandalosa novità portata da Gesù.
I vv. 12-13 costituiscono la risposta all’interrogativo degli scandalizzati Farisei. Gesù non guarda più le cose dalla parte di Mosé, ma da quella del Padre suo. I due versetti si richiamano ad un detto popolare (v.12) e ad Osea 6,6 (v.13a) e si sviluppano in modo parallelo convergente in B):
A) v.12: enunciazione del detto;
B) v.13a: citazione scritturistica (Os 6,6);
A1) v.13b: decifrazione del detto del v.12.
Il v.12 afferma, infatti, che gli ammalati hanno bisogno del medico e non i sani, per questo Gesù è venuto per i peccatori e non per i giusti (v.13b). Il senso del v.12, quindi, trova la sua spiegazione e la sua conclusione logica in 13b[70]. Tuttavia, se A) e A1) rendono coerente il comportamento di Gesù da un punto di vista umano e giustificano la sua presenza in mezzo ai pubblicani e ai peccatori, ancora non spiegano il significato più vero e profondo del suo operare e quale ne sia il senso. A questo risponde la citazione scritturistica di 13a: “Misericordia io voglio e non sacrificio”. È il contesto di un culto e di un’osservanza della legge senza amore, senza compassione e senza misericordia che qui forma da collante tra Gesù ed Osea e giustifica la citazione del profeta da parte di Gesù. In 12,7 Matteo completa il concetto riprendendo la stessa espressione di 9,12: “Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato persone senza colpa”. L’applicazione della Legge e lo sviluppo del culto, che ne consegue e l’accompagna, devono essere sempre letti in funzione dell’uomo e sempre vanno spesi a suo favore. Torah e culto devono, quindi, trovare le loro radici nel cuore dell’uomo e lo devono sostenere e perfezionare nel suo cammino verso Dio. Sono questi strumenti di elevazione spirituale e morale che sono posti a servizio dell’uomo e non viceversa. Il Gesù marciano lo ricorderà in un suo detto: “E diceva loro: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!” (Mc 2,27). Il vero culto a Jhwh, quindi, si radica nel cuore e parte da esso, esplicitandosi nell’amore verso il prossimo e nel rispetto della dignità dell’uomo. Un uso della Torah e del Culto che non tenga conto dell’uomo, ma anzi gravi su di esso, svilisce e svuota di ogni senso la stessa Legge e lo stesso Culto, rendendoli azioni vuote e offensive verso Dio, perché lesive e offensive verso l’uomo[71]. Similmente S.Tommaso nella sua Summa Theologica avverte che “quando un precetto nella sua applicazione, cessa di essere ragionevole e di servire il bene dell’uomo, sia individualmente che socialmente, cessa pure di essere un precetto morale[72]”. Tale avvertenza dell’Aquinate viene giustificata dal fatto che “Nell’applicazione della legge universale, più si scende al particolare e più difetti si trovano[73]”. La Legge e la sua applicazione, quindi, devono essere poste al servizio dell’uomo e al suo bene, ma non devono schiavizzarlo né tanto meno umiliarlo nella sua dignità, poiché questo rende inutile anche il culto e l’osservanza stessa della Torah. Gesù, infatti, contrappone e antepone la misericordia, la compassione (œleoj) allo stesso culto a Dio, la cui sincerità e validità si radicano proprio nella stessa misericordia e nella stessa compassione. Una contrapposizione questa che risuona nella dura requisitoria di Isaia contro i capi di Israele: “Udite la parola del Signore, voi capi di Sòdoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! "Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero?" dice il Signore. "Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova" (Is 1,10-17).
La venuta di Gesù, dunque, e il suo porsi in mezzo ai peccatori, il suo accoglierli al di là delle loro possibili dichiarazioni di pentimento e di conversione e indipendentemente da queste, indicano il senso della sua stessa missione: una gratuita offerta di riconciliazione dell’uomo a Dio, indipendentemente dalla condizione morale e spirituale in cui esso si trovi. C’è, dunque, una possibilità di riscatto per tutti e ciò indipendentemente dal proprio stato o dalla propria condizione di vita. Tale possibilità trova la sua radice nell’incondizionato amore di Dio per l’uomo, un amore che “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7); un amore che è tutto incluso in quel “˜autÕn ™kšnwsen”(eautòn ekénosen, svuotò se stesso; Fil 2,7). Su questa base si comprende l’azione di Dio in Gesù, che non ha esitato a sporcarsi le mani pur di tenderle all’uomo, per poterlo afferrare e ricollocare nella sua stessa vita divina. Un amore che tende ad affermare l’uomo nella sua dignità. Su questo principio si deve fondare ogni morale, che al di là di questo principio diventa solo oppressione degradante per l’uomo: misericordia voglio, non sacrificio!
I vv.14-17 portano a termine la nuova visione delle cose instaurata da Gesù con la sua venuta. Con 9,10-13 sono venute a cadere le barriere tra puro e impuro, che dividevano gli uomini buoni da quelli cattivi, presentando in sua sostituzione soltanto un uomo bisognoso della misericordia divina, manifestatasi e attuatasi nella persona di Gesù[74]. La misericordia, il perdono e l’amore costituiscono i nuovi parametri su cui si devono fondare i rapporti tra Dio e l’uomo e questo con i suoi simili. Di mezzo non ci deve più essere una legge giudicante e accusante, che discrimina gli uomini tra di loro, ponendoli in una posizione sbagliata nei confronti di Dio e, certamente, non li rendono giusti davanti a Lui. Tutti, quindi, sono accolti al banchetto messianico, presieduto da Gesù, in cui viene ammannita la stessa vita di Dio, indipendentemente dallo stato di vita in cui i partecipanti si trovano..
Ora con i vv. 14-17 si costituisce un nuovo confronto tra il vecchio e il nuovo modo di vedere le cose e di rapportarsi a Dio e, di conseguenza, la necessità di rinnovarsi interiormente, passando da un conformismo di tipo legalistico ad uno più autentico, che va diritto al cuore dell’uomo e che lo interpella nell’autenticità del suo vivere quotidiano.
Similmente ai vv. 10-13, anche qui tutto ruota attorno a due detti di Gesù, incorniciati da un episodio: la questione sul digiuno posta dai discepoli di Giovanni a Gesù. Questa pericope, tuttavia, ha il suo fulcro centrale nel v.15 dove Gesù è presentato come lo sposo, su cui si adombra un triste destino.
Anche la struttura di questa pericope si snoda in un parallelismo convergente in B):
A) v.14: viene posta dai rappresentanti del mondo giudaico, i battisti e indirettamente dai farisei, citati nella domanda, la questione del digiuno: essi lo rispettano, Gesù e i suoi discepoli lo violano. Si impone, dunque, un confronto tra due diversi e incompatibili modi di porsi di fronte a Dio;
B) v.15: Gesù è lo sposo che è venuto ad inaugura un nuovo tempo: quello della gioia messianica, che dura finché lo sposo è presente, benché un’ombra si allunghi su di lui.
A1) vv. 16-17: due detti di Gesù, due brevi parabole che illustrano l’incompatibilità tra l’A.T. fondato sulle regole mosaiche e il N.T. fondato sulla persona di Gesù, costituendo in tal modo la risposta ai discepoli di Giovanni.
Il v.14 si apre con un “TÒte” (tote, allora), tutto redazionale, che serve all’autore come punto di imbastitura tra questo episodio e il precedente (vv.10-13), creando una sorta di continuità narrativa e tematica. Tutto si muove attorno alla questione del digiuno[75], che in realtà funge solo da pretesto narrativo, poiché l’accento qui non è posto tanto sul digiuno quanto su di un confronto tra due diversi modi contrapposti di intendere il rapporto con Dio. Il versetto, dunque, apre un confronto tra il mondo veterotestamentario, rappresentato da Giovanni Battista, nella persona dei suoi discepoli[76], e dai Farisei e quello nuovo che Gesù è venuto a inaugurare e che ha come centro propulsore la sua stessa persona.
Il v.15, che costituisce il cuore dell’intera pericope, legge la figura di Gesù associandola alla suggestiva immagine veterotestamentaria dello “sposo”, ma nel contempo proiettandola in un tragico futuro, che in qualche modo lo lega alla misteriosa figura del Servo di Jhwh, violentemente tolto di mezzo (½rqh) e consegnato alla morte (Is 53,8).
Nel linguaggio profetico e dell’alleanza il profondo legame che univa Dio al suo popolo[77] veniva definito attraverso la metafora del rapporto sponsale: Jhwh era lo sposo, Israele la sposa[78]. Ora, Gesù attribuisce a se stesso questo titolo. Si viene in tal modo a creare un parallelismo e una stretta connessione tra Jhwh e Gesù e tra il rapporto, che Dio intratteneva con Israele, e quello con il quale Gesù si rapporta alla nuova comunità credente. E la Chiesa avrà questa comprensione di se stessa nel suo relazionarsi con Gesù[79], evidenziando così la profonda comunione che lega i due in un rapporto compenetrante e tale da fare dei due, metaforicamente parlando, una sola carne (Gen 2,24). La Chiesa, infatti, si percepisce come il corpo vivo di Cristo (Ef 5,23; Col 1,24) e i credenti come sue membra vive[80], così che essi non si appartengono più (1Cor 6,19).
Al tema del banchetto messianico aperto a tutti, in particolare ai peccatori (9,10), si aggiunge ora il tema della gioia (9,15a), che caratterizzerà i tempi messianici. La presenza dello sposo e il rapporto che lo unisce alla sua sposa sono, infatti, fonte naturale di grande gioia[81], che unisce profondamente i due e li apre ad una esaltazione spirituale; per questo gli invitati alle nozze non possono piangere. Non si può, quindi, coniugare il digiuno, segno della penitenza e della sofferenza, con la presenza di una nuova realtà che è inaugurata in Gesù e che introduce l’uomo nella nuova dimensione divina. L’era messianica è vista sia nell’A.T.[82] che nel N.T. come caratterizzata dalla gioia, così che la gioia diventa il segno inequivocabile di tali tempi. Ma mentre nell’A.T. la gioia è vista sempre in una prospettiva futura, come una promessa che si attuerà, nel N.T. essa è presentata come una realtà già attuata, già presente[83]. I verbi che l’accompagnano e ad essa si riferiscono, infatti, sono posti sempre al presente, contrariamente a quanto avviene nell’A.T. che sono espressi sempre al futuro. È questo il segno inequivocabile che i tempi messianici sono stati percepiti come già attuati nell’evento Gesù.
La seconda parte del v.15 stende un’ombra sull’esultanza e sulla gioia che pervade il nuovo credente per la presenza di Gesù, a cui egli è esistenzialmente legato: “Ma verranno giorni, quando lo sposo sarà tolto da loro, e allora digiuneranno”. Se la presenza di Gesù in mezzo ai suoi li porta a non digiunare, poiché essa è assimilata al banchetto messianico, il suo essere portato via dai discepoli produce digiuno. Il verbo posto al passivo (¢parqÍ, apartzé) dice che qui si è nell’ambito di un’azione divina[84], che compie questo allontanamento di Gesù dalla comunità credente; si tratta, dunque, del compiersi di un disegno su Gesù e sulla stessa comunità dei discepoli. L’essere portato via allude sia alla passione e morte di Gesù, sia alla sua risurrezione e ascensione, che priva definitivamente la comunità dei discepoli della presenza fisica di Gesù, ma la apre a nuove dimensioni. Allora essi digiuneranno! Un digiuno che è strettamente legato alla presenza-assenza di Gesù e che impegnerà il credente nel difficile esercizio della fede e nel ricercare la presenza del suo Maestro in modo nuovo: nel fare memoria di lui e nella sua Parola. Questa assenza fisica provocherà una modificazione dei rapporti Gesù-discepolo, basati ora non più sulla facile e immediata constatazione sensibile e rassicurante della sua presenza, ma mediati dalla fede e sostenuti dallo Spirito del Risorto, che condurrà il credente alla verità tutta intera (Gv 16,13). Da questa radicale trasformazione dei rapporti, dal piano della sensibilità a quello dello spirito, la nuova comunità credente, ricompattata attorno alla Parola e al suo farne memoria, comprende come il Maestro, ora, non le sarà più tolto, poiché egli sarà sempre con lei tutti i giorni fino alla fine del tempo (Mt 28,20). Da questo momento tutto dovrà essere ricompreso e relazionarsi sul piano dello spirito, poiché le cose di un tempo sono passate ed erano soltanto un’ombra di quelle future (Rm 15,4). La comunità credente, ora, accompagnata e sostenuta dall’azione della Parola e della Memoria, è incamminata verso i cieli nuovi e la terra nuova, verso quella nuova dimensione in cui essa è già entrata in virtù della fede, benché soltanto nella speranza (Rm 5,2; 8,24). Questo è il tempo del digiuno, il tempo della fede illuminata dalla speranza, che sostiene la comunità dei credenti nel suo cammino, là dove “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5).
I vv.16-17 nel concludere la sezione 9,9-17 riportano due detti di Gesù, che sottolineano la necessità di porsi in una prospettiva radicalmente nuova, che comporta l’abbandono dei vecchi schemi mentali, dell’antico modo di credere e di relazionarsi a Dio, ormai resi incompatibili con la nuova dimensione in cui Gesù ha introdotto i suoi credenti. Non si può più adattare una pezza nuova su di un vestito vecchio, né il vino nuovo può essere contenuto negli otri vecchi. Le due parabole diventano quindi una forte spinta al rinnovamento spirituale ed esistenziale, che deve produrre un radicale mutamento di mentalità, un modo nuovo e diverso nel proprio porsi davanti a Dio, agli uomini e alle cose. È un forte richiamo che Matteo rivolge alla sua comunità, composta da giudeocristiani, i quali dovevano trovare una notevole difficoltà a spogliarsi del vestito vecchio della Legge mosaica per assumere quello nuovo portato da Gesù. Vi era, infatti, in loro una tendenza a leggere la figura di Gesù e il suo messaggio attraverso il filtro della Torah e delle norme mosaiche, svuotandone in tal modo la sua novità e la sua originalità. Ecco, quindi, il secondo duro richiamo: non si può mettere del vino nuovo in otri vecchi; non si può costringere il messaggio di Gesù e il suo culto entro gli spazi del giudaismo. Serve, quindi, un radicale cambiamento di vita, sia interiore che esteriore. Se il vestito, infatti, nel linguaggio metaforico, indica il proprio modo di essere e di comportarsi, l’otre simboleggia il contenitore mosaico della Torah e del culto a Jhwh. Si deve, quindi, compiere una scelta radicale, che porta il nuovo credente a staccarsi dal suo antico mondo per abbracciare la dimensione divina inaugurata da Gesù nella sua morte-risurrezione, in cui il credente è già introdotto in virtù della sua fede.
Questa radicale posizione, che poneva il giudeocristiano di fronte ad un imperativo aut aut, verrà stemprata da Matteo, il quale completerà queste due parabole con una terza molto simile, che ne formerà la sintesi: "Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt 13,52). Come dire che l’A.T., parte fondamentale e integrante della storia della salvezza, va ripreso e riconsiderato alla luce del Cristo risorto in cui esso trova il suo compimento (Mt 5,17). Non si tratta, dunque, per il giudeocristiano di rinnegare le proprie origini e la propria identità religiosa, ma di riconsiderarle e rileggerle, filtrandole attraverso la persona di Gesù, vertice dell’intera storia della salvezza, in cui esse giungono a compimento.
vv.18-26: con il v.18 Matteo introduce il terzo gruppo di miracoli[85], il cui tema dominante è la rigenerazione dell’uomo nel suo incontro con Gesù.
La struttura dei vv.18-26 si articola in tre parti, che intrecciano e accomunano tra loro due racconti di risurrezione o forse è meglio dire di rigenerazione:
a) vv.18-19: supplica di un capo a Gesù in favore della figlia morta e pronta risposta di Gesù, che intraprende insieme al “capo” un cammino che si terminerà con la salvezza della figlia;
b) vv.20-22: intermezzo dell’emorroissa, incontrata durante il viaggio e sua guarigione;
c) vv.23-26: la salvezza entra nella casa del capo.
La cornice entro cui si collocano i due racconti è quella di un viaggio, che lentamente condurrà Gesù fin dentro la casa del capo, dove incontrerà la fanciulla, che verrà risvegliata. È dunque un movimento che va dall’esterno verso l’interno fino a raggiungere il cuore di quella famiglia, dove verrà collocato il germe della salvezza. È il movimento della storia della salvezza.
Il v.18 si apre con un aggancio ai vv. 9-17. Il richiamo non è casuale, ma costituisce il prologo a quanto ora viene raccontato nei quattro miracoli. In 9,10-13 Gesù aveva affermato che il senso della sua missione era rigenerare i peccatori rendendoli partecipi alla vita stessa di Dio (tema del banchetto), facendo prevalere la misericordia sulla giustizia; mentre in 9,14-17 sottolineava la necessità di un approccio completamente e radicalmente nuovo a Dio. Che cosa significhi concretamente tutto ciò viene ora spiegato attraverso il linguaggio del racconto di miracoli. È, dunque, in questo contesto che si colloca il primo dei quattro miracoli: “Ecco, un capo, dopo essere venuto, gli si prostrava davanti dicendo”. A differenza degli altri due sinottici (Mc 5,22; Lc 8,41), Matteo non precisa di che cosa questo tale sia capo. La mancata precisazione dà un senso di generalità a questo termine, acquisendo in tal modo una valenza simbolica. Esso si riferisce ad un capo, cioè ad un responsabile, che deve aver già operato in se stesso un profondo processo di conversione. Tre sono gli elementi che inducono a pensare ciò: a) il verbo “™lqën” (eltzòn), posto al participio aoristo per indicare un’azione già da tempo compiuta, un fatto puntuale nel tempo. Questo capo, quindi, è uno che già da tempo è giunto a Gesù; b) il verbo “prosekÚnei” (prosekìnei), poi, posto all’imperfetto indicativo, dice un’azione che ha avuto inizio nel passato e continua ancor oggi, nel presente: si prostrava; è un’azione, quindi, continuativa e persistente nel tempo. Il significato del verbo indica un prostrarsi che richiama da vicino l’atto di adorazione, che la prima comunità credente riservava a Gesù in quanto Figlio di Dio; c) nel v.19, infine, Gesù è presentato già “levato” (™gerqeˆj, eghertzeìs), cioè risorto. Il verbo qui è posto all’aoristo passivo e letteralmente significa “dopo che fu levato”, ma anche “dopo che fu risvegliato”; ™ge…rw (egheiro), infatti, ha entrambi i significati ed è lo stesso che viene usato per indicare il risveglio (risurrezione) della fanciulla in 9,25 (ºgšrqh, eghértze), lo stesso verbo con il quale le prime comunità cristiane indicavano la risurrezione di Gesù. Ebbene, è proprio questo Gesù risorto che, assieme ai suoi discepoli, si accompagna con questo “capo”, un convertito al Cristo risorto.
Il capo rivolto a Gesù formula la sua richiesta: “Mia figlia è morta ora; ma venuto, imponi la tua mano su di lei, e vivrà”. La frase è strutturata su tre livelli paralleli convergenti in B):
A) la presentazione di uno stato di morte, che dice l’attuale condizione in cui viene a trovarsi la figlia;
B) la fede in Gesù, fonte della vita ed evento di salvezza, che vince la morte;
A1) lo stato di vita, che sgorga da Gesù e si trasfonde in pienezza nella fanciulla.
I punti A) e A1) sono tra loro paralleli per contrapposizione: stato di morte – stato di vita; due stati che fanno parte dell’esistenza e che l’esperienza dell’uomo dice che sono tra loro incompatibili e irriducibili l’uno all’altro. Di mezzo, in B), c’è la presenza di Gesù, dono di amore del Padre all’uomo e risposta ai suoi problemi; in lui convergono i due stati, che in Gesù, morto-risorto, trovano la loro salvifica ricomposizione: la morte assunta da Gesù viene trasformata in vita per il credente. Gesù, quindi, posto di mezzo tra la morte e la vita, diviene il filtro redentivo capace di rendere possibile l’impossibile: trarre la vita dalla morte. Lo strumento essenziale per compiere il miracolo è soltanto la fede. Giovanni ricorda questa verità nel suo vangelo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). In Gesù, quindi, la morte non è più un elemento incompatibile e contrario alla vita, ma un passaggio essenziale verso quest’ultima, anzi ne è la conditio sine qua non: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio” (Rm 6,3-10).
La contrapposizione dei due stati di morte e di vita è data sia dalla natura dei verbi usati da Matteo che dai tempi in cui sono stati posti. Lo stato di morte, in cui si trova la fanciulla, è espresso con il verbo “™teleÚthsen” (eteleùtesen). Esso è posto all’aoristo, che indica un avvenimento compiuto definitivamente, un fatto puntuale nel tempo ormai non più raggiungibile né modificabile. Il significato del verbo è “compiere, finire, terminare, portare a termine, portare a compimento”, di conseguenza “morire”. Lo stato di morte di quella fanciulla esprime il compimento definitivo di una vita alla quale è stata tolta ogni speranza, perché essa “finì”. È dunque una morte che si è compiuta nel passato e ha reso l’attuale stato della fanciulla irrecuperabile per l’uomo. In realtà, Matteo descrive qui la triste condizione dell’uomo decaduto, che ha ereditato dal passato adamitico il suo attuale stato di decadimento spirituale e fisico, per cui la sua vita è finita, senza speranza: ™teleÚthsen (Rm 5,12-14).
La contrapposizione a questa condizione esistenziale (™teleÚthsen) è data dal verbo “z»setai” (zésetai, vivrà). Il verbo vivere in greco viene espresso in due modi: con b„Òw, che indica il vivere una vita di tipo fisico, ristretta nell’ambito della storia; e z£w, che esprime il vivere una vita di tipo superiore, come può essere quella intellettuale, culturale, morale, spirituale o la vita stessa di Dio. Matteo qui usa questo secondo verbo e lo pone al futuro. Si tratta, dunque, di una vita che ha attinenza con il mondo dello spirito e l’uso del futuro indica lo sconfinato orizzonte entro cui questa vita si muove. Questi attributi, che il verbo greco esprime in se stesso, indicano la vita stessa di Dio.
Tra questi due stati di vita si pone la figura di Gesù, che viene definita con due verbi: ™lqën (eltzòn, dopo essere venuto) e ™p…qej (epìztes, imponi). I due verbi sono strettamente collegati tra loro e l’uno (™lqën) è posto in funzione dell’altro (™p…qej). La venuta di Gesù, dunque, è finalizzata a imporre le mani. Un gesto questo che nell’antichità indicava la trasmissione di un potere, ma nel caso di Gesù definiva la sua attività taumaturgica, che consisteva in una sorta di trasfusione di energia benefica e salvatrice, segno e metafora di una salvezza dai tratti divini, che stava operando in mezzo agli uomini (Mt 11,5; Lc 7,22; 11,20). Il ponte, dunque, che fa passare l’uomo da uno stato di morte ad uno di vita duratura, perché divina, è Gesù e trova la sua massima espressione nella pasqua. Essa dice proprio questo passaggio trasformante dalla morte alla vita, che si è compiuto in Gesù a favore di tutti coloro che credono in lui.
Il v.19 ha come attori 3 personaggi: Gesù, il capo e i discepoli. Tutti tre sono presentati in movimento, che inizia soltanto dopo che Gesù “fu alzato” (™gerqeˆj). Qui non è Gesù che guida il gruppo, ma egli si accompagna agli altri (ºkoloÚqhsen), quasi ne segue le orme. È questa la metafora del cammino ecclesiale dopo la sua risurrezione di Gesù, presentato come colui che fu alzato o fu risvegliato: ™gerqeˆj. È dunque il Gesù risorto che si accompagna al gruppo dei discepoli e dei nuovi credenti, realizzando la promessa di essere con i suoi ogni giorno fino alla fine del tempo (Mt 28,20b). Il v. 19, pertanto, presenta questo movimento salvifico, in cui è presente il Risorto e che ha preso le mosse dalla sua risurrezione. Esso ha un obiettivo: entrare nel cuore dell’uomo per risvegliarlo dal suo sonno di morte, che metaforicamente è rappresentato dalla fanciulla addormentata e risvegliata (ºgšrqh).
I vv. 20-22 sembrano interrompere d’improvviso questo cammino, creando una sorta di rottura logica nell’ambito dell’economia del racconto. Il Kaˆ „doÝ (kaì idù, ed ecco) incunea, inaspettatamente, un secondo racconto, intrecciandolo con il primo. Benché si tratti narrativamente di due racconti diversi, essi, tuttavia, sono identici nella sostanza. È durante questo cammino, finalizzato a risvegliare il dormiente (ºgšrqh), che avviene l’incontro con Gesù, il quale si sta accompagnando con il gruppo dei discepoli e con il capo convertito, metafora della prima comunità credente, in cui viva era percepita la presenza del Risorto (™gerqeˆj), che camminava con loro. Quindi la donna non incontra un Gesù tutto solo, ma assieme agli altri, che con lui formano il gruppo-comunità, che si sta muovendo in mezzo alla gente. È significativo come la donna non arrivi a toccare direttamente Gesù, né parla con lui, ma si limita a toccare soltanto il lembo del suo vestito, quindi la parte estrema di questo abito, ed è attraverso ad esso che defluisce verso di lei la salvezza e la guarirà. L’abito nel linguaggio degli antichi è metafora dello stato di vita, della condizione in cui si viene a trovare chi lo indossa[86]. Questo è l’abito del Risorto (™gerqeˆj), di cui si sono rivestiti i suoi discepoli[87] attraverso la potenza dello Spirito Santo. Luca nel suo vangelo ricorda l’incontro del Risorto con i suoi discepoli, chiusi nel cenacolo, che raccomanda loro: “E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto” (Lc 24,49). È proprio questa potenza che defluirà dalla comunità dei credenti, rivestiti di Cristo e della sua potenza, che salverà, rigenerandoli a Dio, chiunque la tocchi. Emblematico è il racconto lucano degli Atti in cui Pietro, posto in parallelo con Gesù, passando tra la gente, la guarirà sfiorandola con la sua ombra (At 5,15), mentre il Gesù giovanneo ricorda ai suoi discepoli: “In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre” (Gv 14,12). Anche qui Matteo sta raccontando la storia di una guarigione, metafora della rigenerazione che si sta compiendo in mezzo alla gente ad opera della chiesa nascente, rivestita di Cristo e dalla quale defluisce la salvezza per tutti.
Ci troviamo di fronte ad una donna, la cui identità non è precisata, assurgendo quindi a simbolo e a metafora di un’umanità sofferente e incapace di darsi la guarigione. Essa è definita con tre battute: a) soffre di una perdita di sangue da dodici anni; b) si accosta dietro a Gesù; c) tocca il lembo del suo vestito. La condizione di vita di questa donna è ben più disperata di quanto non appaia. Essa ha una perdita di sangue[88] inarrestabile che, da un lato, le sta minando l’esistenza e, dall’altro, la rende impura (Lv 15,19.25) e, quindi, incapace di partecipare alla vita religiosa e cultuale, mentre socialmente è ghettizzata per la sua inguaribile impurità (Lv 15,20-27). Questa donna, di fatto, è civilmente e religiosamente morta, mentre la sua vita fisica è allo stremo. La pesantezza di questo suo stato esistenziale viene espresso dal numero degli anni della sua afflizione: dodici. Un numero simbolico, che si ottiene moltiplicando il 3 con il 4. Il primo indica la compiutezza, la perfezione, mentre il secondo esprime la totalità. Il risultato che si ottiene è 12, cioè la perfezione e la compiutezza della totalità. Un linguaggio figurato per indicare la grande sofferenza di questa donna, che non ha uguali e che le invade tutta la vita ad ogni livello non dandole nessun scampo e togliendole ogni speranza.
Essa si avvicina (proselqoàsa, proseltzùsa) da dietro. Un modo strano per realizzare il suo incontro con Gesù. Tutti gli altri ammalati si avvicinano a Gesù andandogli incontro. L’avverbio “Ôpisqen” (òpisten) se di luogo significa “dietro”, ma se di tempo esso significa “dopo, in seguito, successivamente”. Il contesto in cui si snodano i due racconti è di un Gesù già risorto (™gerqeˆj), che si sta muovendo in mezzo alla gente attraverso la sua comunità di discepoli e di neocredenti, rivestiti della potenza del Risorto per mezzo dello Spirito Santo. È da questa comunità, in cui Gesù continua a vivere, che defluisce la salvezza per tutti. Questa donna si avvicina, dunque, a questa comunità successivamente (Ôpisqen) a Gesù, che incontra in essa toccando il lembo del suo vestito. In realtà il verbo greco ¼yato (épsato) dice ben di più che un semplice toccare; esso significa prendere, afferrare, ma anche mangiare e bere, di conseguenza “toccare”. La densità del verbo indica la vera natura del suo incontro con l’abito di Gesù, cioè la chiesa dei neocredenti nella quale essa ora è entrata e ne fa parte grazie alla sua fede, poiché toccare la chiesa significa, ipso facto, incontrare e afferrare Gesù stesso, che in essa vive e continua il suo cammino nella storia, sanando e santificando chiunque incontra lungo il cammino della storia, rendendosi a lui disponibile nella fede. Il breve racconto della guarigione dell’emoroissa si conclude con una constatazione dell’evangelista: “E la donna da quel momento fu salvata”. Il momento è quello della fede, che la rende partecipe della chiesa, in cui ogni credente condivide la salvezza che promana dal Risorto, che in essa vive e continua operare. Il verbo posto al passivo (™sèqh, esòtze) dice l’intervento divino che ha operato in lei la salvezza.
Con i vv.23-26 si riprende e si conclude il racconto della risuscitazione della figlia del capo, lasciato in sospeso per dare spazio a quello dell’emorroissa. Guidato dal capo convertito, il piccolo gruppo-comunità, formato dal capo stesso, da Gesù e dai discepoli, giunge nei pressi della casa dove vi trova i suonatori di flauto e una folla rumoreggiante[89]. Tutto, quindi, è pronto per l’inumazione e si sta preparando il corteo funebre. Siamo, dunque, di fronte ad un caso di morte certa. Gesù intima l’allontanamento della folla e dei suonatori di flauto motivando il suo ordine con una spiegazione sconcertante: la fanciulla non è morta, ma dorme. La derisione dei presenti è inevitabile e giustificata. Tra l’imperativo “allontanatevi” (¢nacwre‹te, anacoreìte) e la derisione di Gesù (kategšlwn aÙtoà, kataghélon autù) si pone di mezzo una constatazione “la fanciulla non è morta, ma dorme”. È questa la condizione dell’uomo prima dell’incontro con Gesù: in lui non c’è la vita, ma in lui dimora, tuttavia, la possibilità di averla. Ecco perché non è morto, poiché la morte toglie ogni possibilità di recupero della persona. Ma la presenza del Risorto all’interno del gruppo-comunità, in cui egli vive, dà all’uomo la capacità del riscatto e lo sollecita a destarsi dallo stato di chi si è addormentato nelle ristrette logiche delle cose, della materialità e del peccato per entrare nella nuova dimensione di vita inaugurata dal Gesù “alzato” (™gerqeˆj). È un sonno che è strettamente imparentato con lo stato di morte, a cui si accede soltanto attraverso il rifiuto di Gesù. Ma la buona disposizione del capo convertito, unito alla comunità dei discepoli, in cui vive Gesù, fa sì che quella fanciulla morta in realtà sia soltanto addormentata. È la disponibilità ad entrare nella comunità credente, a cui si accede per mezzo della fede, che apre alla speranza. Serve, quindi, la fede nel Risorto (™gerqeˆj), donata alla fanciulla dal capo-padre convertito, per essere risvegliata dal sonno (ºgšrqh), che la teneva rinchiusa in se stessa. Dall’ ™gerqeˆj (v.19) scaturisce, pertanto, l’ ºgšrqh (v.25). Non a caso i due verbi formano tra loro inclusione, dando in tal modo ai due racconti di guarigione il senso di una rigenerazione, colta come risveglio, che scaturisce dall’incontro con Gesù, risorto e vivente nella comunità ecclesiale).
Un antico inno cristiano, di cui abbiamo un frammento riportato nella lettera agli Efesini in 5,14 e facente parte, forse, di una primitiva liturgia battesimale, esortava il candidato al risveglio in Cristo: “Svègliati, o tu che dormi, dèstati dai morti e Cristo ti illuminerà”. Anche qui ricorre lo stesso verbo ™ge…rw (egheìro, risvegliare) rafforzato dal verbo ¢n…sthmi (anìstemi, alzare, sollevare), due verbi tecnici con i quali le prime comunità cristiane indicavano la risurrezione di Gesù, alla quale erano associati tutti i credenti in virtù della fede e del battesimo (Rm 6,3-9; Ef 1,13-14).
Ma ciò che impedisce che il miracolo del risveglio si compia è la mancanza di fede, che si esprime nella derisione del Crocifisso-Risorto, per questo Gesù allontana imperativamente la folla incredula. Matteo commenta che essa “fu buttata fuori” (™xebl»qh Ð Ôcloj; exeblétze o òclos). È lo stesso verbo che l’autore usa nell’espressione “saranno gettati fuori nella tenebra ove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 8,12) (™kblhq»sontai e„j tÕ skÒtoj). Entrambi i verbi sono posti al passivo, lasciando intendere come il soggetto sia Dio stesso, che compie sugli increduli il suo giudizio di condanna per il loro pervicace rifiuto di accogliere il suo Inviato. Soltanto dopo che la casa fu purificata dall’incredulità sbeffeggiante, Gesù è potuto entrare. Si tratta di fatto di una sorta di esorcismo che libera la casa dall’incredulità in virtù della fede del capo-padre, consentendo a Gesù di prenderne possesso, compiendo il miracolo del risveglio, che rigenera a nuova vita la fanciulla, presa per la mano da Gesù. La mano è la parte più importante e più significativa dell’uomo, attraverso la quale egli opera ed esprime tutto se stesso, divenendo una sorta di metafora e di simbolo di se stesso. Non a caso nelle lingue semitiche il termine che indica la mano significa anche potenza[90]. La sua importanza è testimoniata dalla stessa Bibbia, nella quale il termine ricorre circa 1685 volte[91]. Gesù, dunque, prende la mano della fanciulla e questa fu risvegliata. Il verbo “prendere” in realtà non esprime tutta la densità di quello greco “™kr£thsen” (ekràtesen), che nel nostro caso regge il genitivo (tÁj ceirÕj aÙtÁj; tés cheiròs autés) e che, pertanto, significa “avere potenza, avere dominio su qualcuno, dominare, signoreggiare, impossessarsi, impadronirsi, occupare”. L’incontro, quindi, di Gesù con la fanciulla dormiente, che avviene attraverso la presa della sua mano, indica il possesso che Gesù ha preso di questa fanciulla, facendola tutta sua, diventandone il signore della sua vita. La conseguenza di questa presa di possesso è il risveglio della fanciulla. Il verbo ºgšrqh (eghértze), posto all’aoristo passivo di tipo ingressivo, dice da un lato l’intervento divino che ha operato su quella fanciulla, risvegliata alla vita di Dio; e dall’altro, che da quel momento la fanciulla risvegliata rimase sveglia. Tutto ciò si compì grazie alla fede del capo-padre, presentato all’inizio del racconto con i segni propri della conversione: “™lqën prosekÚnei aÙtù”, “venuto da Gesù si prostrò in adorazione davanti a lui”. Questi portò Gesù nella sua casa, che fu liberata dall’incredulità, risvegliata e resa credente.
Da come il racconto si è mosso sembra che Matteo abbia voluto esortare soprattutto i responsabili di comunità o gli stessi capi-famiglia convertiti a farsi, a loro volta, portatori della nuova fede presso i gruppi familiari o comunitari di cui essi erano responsabili. Infatti, l’indeterminatezza entro cui si muovono i personaggi e l’assenza di un preciso contesto storico fa assurgere l’intero racconto a metafora e a simbolo del dovere di annuncio di cui i convertiti, in particolar modo se ricoprono anche delle responsabilità, sono tenuti per la loro stessa natura di credenti.
Il v.26 funge da conclusione e da cassa di risonanza del miracolo del risveglio, costituendo una sorta di eco che si propaga in tutta quella regione. Il testo greco letteralmente dice che “Quella notizia usci fuori per tutta quella regione”. In altri termini, il v.26 testimonia il diffondersi non tanto della fama di Gesù, bensì dell’annuncio della fede, che uscito da quella casa, in cui era presente la comunità credente raccolta attorno al Risorto, s’irradia per tutta la terra (e„j Ólhn t¾n gÁn, eis òlen tèn ghén). Il termine greco “f»mh” (féme) ha come significati primi quelli di “voce profetica, voce celestiale, parola fatidica, presagio, oracolo, profezia, notizia”. Un versetto questo che richiama da vicino il commento che Luca fa negli Atti degli Apostoli circa la testimonianza e l’annuncio apostolico della Parola: “Intanto la parola di Dio si diffondeva, e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede” (At 6,7).
vv. 27-34: questi versetti presentano gli ultimi due miracoli del gruppo di nove, contenuti nei capp. 8-9: si tratta di due ciechi e un muto indemoniato. Sono due miracoli conclusivi, che denunciano e sintetizzano in loro stessi la triste condizione dell’uomo, nella quale si è imbattuto Gesù. In totale gli uomini interessati nei due racconti di miracoli sono tre, ma sarà soltanto con l’incontro del quarto uomo, Gesù, che essi troveranno la loro guarigione-salvezza. Benché, quindi, siano due tipologie distinte di miracoli, tuttavia, esse hanno uno stesso fondo comune e tale da far si che l’una disgrazia, il mutismo, dipenda dalla cecità.
Un’attenzione va, poi, riservata ai numeri che, posti in contesti narrativi, possono assumere (e in genere assumono) valenze simboliche[92]. Il due dei ciechi dice il primo e l’ultimo, una sorta di A e W, di inizio e fine, in cui Matteo racchiude tutta una categoria di persone incapaci di vedere la divinità e la messianicità di Gesù e, quindi, cieche quanto alla fede. La conseguenza è che questo genere di persone sono anche mute, cioè incapaci di esprimere la dovuta lode a Dio e di annunciare con la propria vita le meraviglie, che Egli ha operato nel suo Cristo. Emblematico, in tal senso, è il racconto lucano, in cui l’angelo Gabriele, rivolto a Zaccaria, gli dice che sarà muto perché non ha creduto; e soltanto quando egli si aprirà alla fede, riprenderà a parlare (Lc 1,20.64) prorompendo in un inno di lode e di ringraziamento a Dio per la salvezza portata in Israele (Lc 1,67-79). Il due dei ciechi, pertanto, confluisce nell’uno del muto, che ha la radice del suo male nel fatto di essere un posseduto dal demonio, che gli impedisce ogni apertura al mondo divino. Ma due + uno dà tre, che simbolicamente indica la completezza (inizio, metà e fine) di un ciclo o di uno stato di vita. Ci troviamo quindi di fronte ad una categoria di persone incapaci di avvicinarsi a Dio per la loro incredulità e proprio per questo incapaci di dare lodo a Dio. Ma il loro incontro con il quarto personaggio, Gesù, trasforma tutti in vedenti e capaci di aprirsi alla lode divina. A giochi finiti si hanno quattro persone, una salvante e tre salvate, che formano una nuova entità ristabilita in Dio per mezzo di Cristo, dal quale defluisce una nuova umanità, espressa dal numero quattro, che indica la totalità e la pienezza, che abbraccia tutti i credenti in Cristo (Gv 12,32; Gal 3,27-28).
A questa nuova realtà, generata dalla fede in Gesù, se ne contrappone sempre e comunque un’altra, incapace di aprirsi a Dio per la sua pervicace e impermeabile chiusura ai suoi appelli a lei profferti nel suo Cristo (v.34).
I due racconti di miracoli sono caratterizzati fondamentalmente da tre elementi: a) l’invocazione messianica “Abbi pietà di noi, Figlio di David”[93]; b) il rivolgersi dei due ciechi a Gesù con il titolo post-pasquale di “Signore”[94] e c) l’accostarsi a Gesù per mezzo della fede, che collocano i racconti in un contesto post-pasquale e messianico.
Come sempre, la sinteticità con cui Matteo narra i suoi racconti, privi di particolari narrativi se non essenziali all’economia del suo pensiero teologico, e l’assenza di agganci storici, geografici o personali dei suoi personaggi, caricano tali racconti di simbolismo che li trasforma in metafora, l’unico linguaggio che meglio si adatta a raccontare l’irrompere del divino nell’umano. Gesù stesso, infatti, quando parla del Regno dei cieli fa sempre precedere l’annuncio dall’espressione “Il regno dei cieli è simile a …”, così anche quando parla del senso o degli effetti del suo messaggio[95]. Ciò è dovuto all’impossibilità di esprimere con parole umane, agganciate all’esperienza della storia, realtà divine che la superano di gran lunga, rendendo il linguaggio umano del tutto inadeguato ad esprimerle (2Cor 12,3-4).
Il v.27 presenta un Gesù che si allontana dalla casa del capo-padre, creando, nell’ambito dell’economia narrativa, una sorta di continuità logica con i racconti precedenti, ma in particolar modo per indicare la vera natura di Gesù, che qui continua ad operare anche nei confronti dei due ciechi e un muto indemoniato: egli è sempre lo stesso Gesù nelle sue vesti di risorto (™gerqeˆj Ð'Ihsoàj, v. 9,19). Vi è, dunque, una continuità sia narrativa che teologica. Questo continuo muoversi di Gesù, che verrà particolarmente evidenziato anche nel v.35, rileva il potente dinamismo della salvezza in atto in mezzo agli uomini, che seguono Gesù, indipendentemente dal loro stato di vita. Matteo, il pubblicano, peccatore per definizione, si fa discepolo di Gesù (v.9), mentre i peccatori si associano, così come sono, al banchetto messianico, che Gesù apre e condivide con loro, indipendentemente dalla loro condizione esistenziale. Anche qui, nel racconto dei due ciechi, questi vengono presentati in una sorta di sequela-servizio, espresso dal verbo “ºkoloÚqhsan” (ekolùtzesan)[96]. Essi non sono ancora vedenti, ma si trovano ancora in uno stato di cecità. La salvezza non è ancora aperta a loro, tuttavia già sono in qualche modo al servizio di Gesù. Sono questi una sorta di categoria di persone che gli ebrei, con riferimento alla propria religione, definivano come i “timorati di Dio”, cioè delle persone che pur non avendo ancora aderito pienamente al giudaismo con la circoncisione, tuttavia simpatizzavano per esso e lo sostenevano[97]. Similmente i due seguivano Gesù da ciechi, cioè ancora non avevano aderito apertamente e pienamente alla sua sequela, non facevano ancora parte della comunità cristiana[98]. Infatti essi “si avvicinarono a lui, che stava entrando nella casa”. L’espressione generica (“nella casa”) preceduta da un articolo determinativo “e„j t¾n o„k…an” (eis tèn oikìan) indica come questa casa non è un’abitazione qualsiasi, ma “la casa” per eccellenza, che nel linguaggio metaforico dei vangeli simboleggia spesso la comunità credente[99]. È proprio in questo frangente, che essi si rivolgono al “Gesù entrante” (™lqÒnti, eltzònti) e decidono il loro passo definitivo, per il quale è necessario fare la propria pubblica professione di fede nel Risorto: “Credete voi che io possa fare questo?". Gli risposero: "Sì, o Signore!”. Soltanto allora Gesù li potrà toccare sugli occhi.
Gesù toccò i loro occhi, che si aprirono, potendo in tal modo vedere il Gesù risorto presente nella casa-comunità, in cui egli stava entrando e di cui essi, ora, fanno parte. In altri termini, i due sono entrati nel Mistero e ora ne sono in qualche modo posseduti. Il verbo greco usato per indicare il “toccare”, infatti, è ¼yato (épsato), un aoristo che indica un evento puntuale nel tempo da cui si è originata la luce che ora li illumina: l’incontro con Gesù. Il verbo possiede in sé una densità che va ben oltre ad un semplice toccare fisico, indicando un afferrare, un prendere, un fare proprio, un possedere, quasi un introiettare (il verbo, infatti, significa anche mangiare e bere)[100]. Pertanto, se da un lato il verbo toccare indica l’esperienza che i due hanno fatto di Gesù, dall’altro, esso dice la natura di questo incontro e di questa esperienza: Gesù si è impossessato di loro, accorpandoli a sé. Paolo esprimerà questo concetto in Gal 2,20a: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”; e similmente, nella stessa lettera, dirà che non esistono più separazioni sociali o religiose, né discriminazioni sessuali, poiché tutti sono un unico essere in Cristo, a lui associati nell’unico battesimo e nell’unica fede (Gal 3,26-28; Ef 4,4-6).
La guarigione dei due ciechi si chiude con un severo quanto duro monito di Gesù: “Guardate, che nessuno conosca”. Se questa pretesa di Gesù è comprensibile nell’economia narrativo-teologica di Marco, che la lega al segreto messianico, invitando il lettore a scoprire gradualmente la reale dimensione divina che opera in Gesù, del tutto sconcertante è la trasposizione di tale divieto qui in Matteo. In questa sezione dei miracoli (capp.8-9), che ne comprende 9, troviamo un doppio divieto a non parlare (8,4) e a non far conoscere (9,30b): il primo posto in apertura della serie dei miracoli; il secondo in chiusura. Una sorta di parentesi che di fatto abbraccia tutti i miracoli, includendoli in qualche modo sotto il vincolo del silenzio, che assume, tuttavia, diverse sfumature. Nel primo miracolo Gesù si rivolge al lebbroso con fare esortativo, quasi paterno, affinché il lebbroso non dica a nessuno della sua guarigione se non ai sacerdoti, per l’espletamento delle prescrizioni di rito. Il verbo, infatti, qui è posto all’aoristo congiuntivo (e‡pVj, eìpes) con un senso finale: “Guarda di non dire a nessuno”. Che cosa poi abbia fatto il lebbroso guarito non ci è dato di sapere. Nel secondo richiamo lo scenario cambia radicalmente: Gesù non si rivolge ai due ciechi con esortazioni benevoli, ma con una dura presa di posizione, che richiama da vicino il comportamento di una persona fortemente adirata. Il verbo usato per definire il comportamento di Gesù nei confronti dei due ciechi, infatti, è “™nebrim»qh” (enebrimétze), un aoristo passivo: “fu preso da ira”, per cui la traduzione letterale è “Gesù fu preso da ira contro di loro, dicendo …”. L’atteggiamento di Gesù, qui, è minaccioso. L’esortazione che ne segue è totalmente diversa dalla prima: “Guardate, nessuno conosca”. Il verbo qui è posto all’imperativo, che racchiude in sé il senso di un comando secco e indiscutibile (ginwskštw, ghinoskéto). I verbi usati nei due ordini impartiti sono esattamente opposti: il primo ha a che fare con il dire e riguarda il dire del lebbroso; il secondo ha a che fare con la conoscenza e il soggetto non sono i due ciechi, ma gli altri, che non devono conoscere. La diversa tipologia di divieti è strettamente legata alla natura del miracolo stesso: lo stato di lebbroso è la metafora della condizione del vivere dell’uomo, degradato dal peccato, in cui egli ha perso ogni sua dignità. La guarigione ottenuta è semplicemente un fatto interiore, spirituale, che ha rigenerato l’uomo alla vita stessa di Dio e lo impegna esistenzialmente in una vita nuova e in nuovi rapporti con Lui. L’evento per la sua grandezza, che coinvolge la dimensione spirituale e divina, va avvolto pertanto in una sorta di discreto silenzio perché le perle non devono essere gettate ai porci, che non ne comprenderebbero il valore e le calpesterebbero. Quanto al secondo caso, i due ciechi, la situazione è completamente diversa: ad essi furono aperti gli occhi e sono entrati nella casa al seguito di Gesù. In altre parole essi hanno conosciuto e sperimentato il Mistero del Risorto all’interno della casa-comunità di cui essi fanno parte. Ad essi è imposto un rigoroso silenzio, poiché tale Mistero coinvolge non soltanto il loro vivere, ma anche quello dell’intera comunità in cui vive, attraverso la Parola e il rito, Cristo stesso, che in mezzo ad essa opera a favore di tutta l’umanità. Il rivelare la conoscenza del Mistero di Cristo, che essi hanno ottenuto con l’apertura degli occhi, equivarrebbe a buttare ai porci Cristo stesso e l’intera sacralità che si muove attorno al suo Mistero, celebrato nella comunità stessa, compromettendo e pregiudicando la vita stessa della comunità. Non va dimenticato, infatti, che la comunità matteana viveva in una condizione di forte conflittualità sia con il mondo giudaico che con quello pagano ed era una comunità arroccata in se stessa, benché avesse al proprio interno una forte spinta missionaria[101].
A fronte di questo duro richiamo il comportamento dei due ciechi si è adeguato e indica alla comunità matteana quale sia la strada da percorre: “Ma quelli, usciti, lo fecero conoscere in tutta quella regione”. Il verbo usato per “far conoscere” non è gignèskw (ghighnòsko), che ha attinenza con la conoscenza profonda, intellettuale, con l’apprendimento e il discernimento (l’ordine impartito da Gesù riguarda proprio con questo tipo di conoscenza), ma con l’annuncio e la testimonianza di vita. I ciechi resi vedenti, pertanto, al di fuori della comunità (™xelqÒntej, exeltzòntes) non propagano la conoscenza del Mistero di Cristo, ma divulgano Cristo stesso (aÙtÕn, autòn). Il verbo usato, infatti, è “dief»misan”, che ha attinenza con l’annuncio di Cristo e non con la divulgazione di un mistero incarnato nella comunità, di cui fanno ormai parte. In altri termini, i due ciechi, resi vedenti, sono diventati testimoni del Risorto.
Il v.32 introduce l’ultimo miracolo: la guarigione di un muto indemoniato, che va a completare quello della guarigione dei due ciechi. Cecità e mutismo, infatti, nel linguaggio metaforico dei vangeli indicano l’assenza della fede, che da un lato impedisce di vedere il mistero di Cristo e, dall’altro, di conseguenza, impedisce di rendergli la dovuta lode e testimonianza.
Il versetto si apre con un genitivo assoluto “AÙtîn de ™xercomšnwn” (autòn de erkoménon, “dopo che furono usciti”) e si aggancia, in qualche modo, al v.19 dove il Gesù alzato (™gerqeˆj, cioè risorto) con i suoi discepoli, assieme al capo-padre si avviano in un cammino di salvezza, lungo il quale il gruppo-comunità si implementa con la fanciulla rialzata/risvegliata alla nuova fede (ºgšrqh) e con i due ciechi resi vendenti, seminando in tal modo salvezza e raccogliendo proselitismo, quale risposta all’offerta di salvezza. Lungo questo movimento salvifico un muto indemoniato viene portato davanti a Gesù, presente nel gruppo-comunità e con questo in qualche modo identificato dal genitivo assoluto, che abbraccia l’intero gruppo. Il soggetto di questa azione sembrano essere le folle che, al v.33, manifestano tutta la loro ammirazione e il loro stupore per quanto hanno veduto. L’uomo viene definito in un duplice modo: esso è muto e indemoniato. Quest’ultimo termine evidenzia la causa della mutismo che affligge l’uomo: egli è muto perché indemoniato. Spesso nel mondo antico la malattia era attribuita a forze demoniache, ma qui ci troviamo di fronte ad un demone particolare, che rende l’uomo incapace di accogliere Dio nella propria vita, rendendolo muto nei suoi confronti: esso è il demone dell’incredulità, che rinchiude l’uomo in se stesso, rendendolo impermeabile agli appelli divini. Il verbo, infatti, che qui viene usato per indicare la cacciata del demonio (™kblhqšntoj) è lo stesso che Matteo usa per indicare la cacciata delle folle incredule dalla casa del capo-padre (™xebl»qh). Non a caso, del resto, il racconto della guarigione del muto terminerà con un’amara constatazione di incredulità: “Ma i farisei dicevano: "Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni” (v.34). Si viene, pertanto, a creare un parallelismo tra le folle cacciate per la loro incredulità e la cacciata del demonio: come le folle incredule e beffarde vennero espulse dalla casa e la fanciulla poté in tal modo essere risvegliata alla fede e da essa rigenerata ad una nuova vita (v.25), così qui il demonio viene espulso da quest’uomo, il quale incominciò a parlare.
I vv.33b e 34 costituiscono la cassa di risonanza dell’operare di Gesù e delineano la duplice e contrapposta reazione al suo manifestarsi: da un lato, abbiamo lo stupore delle folle di fronte al rivelarsi dell’azione di Dio in mezzo agli uomini (il verbo usato qui è ™f£nh (efàne), il verbo della rivelazione divina, mentre lo stupore indica la reazione dell’uomo di fronte al manifestarsi del divino); dall’altro abbiamo la critica dei nemici tradizionali di Gesù, i Farisei, che accusano Gesù di operare in nome del capo dei demoni. Ma sono proprio questi demoni che rendono incapaci di riconoscere in Gesù l’operare di Dio e di aprirsi quindi alla sua lode. In ultima analisi i veri indemoniati sono proprio loro. È questa l’amara conclusione, ma anche la sottile e mordace ironia che Matteo riserva ai capi del giudaismo.
vv. 35-38: questi quattro versetti si dividono in due parti: la prima, v.35, costituisce un sommario dell’attività missionaria di Gesù e forma inclusione con il v.4,23, che viene qui riprodotto quasi identico. I capp. 5-9, pertanto, posti entro la parentesi dei vv. 4,23 e 9,35, vanno compresi come lo svolgersi dell’intera missione di Gesù e manifestano il senso del suo operare e della sua stessa natura: egli è colui che rivela con il suo insegnamento (capp. 5-7) e rigenera alla vita stessa di Dio l’uomo profondamente segnato dal peccato, chiamandolo alla sua sequela, indipendentemente dal suo stato di vita (capp. 8-9). Gesù, dunque, si presenta come un’opportunità unica e irripetibile di salvezza, di fronte alla quale si è chiamati a dare la propria risposta esistenziale. La seconda parte, vv.36-38, costituisce una sorta di prologo al cap.10, di fatto introducendolo e dettando sinteticamente le linee fondamentali entro le quali si muoverà.
Il v.35, che da un punto di vista letterario conclude un primo ciclo narrativo, iniziatosi con il cap. 5,1, presenta in modo sintetico la figura di Gesù e la sua missione, scandendola in quattro movimenti, qualificati da altrettanti verbi:
a) Gesù percorreva tutte le città e i villaggi: il verbo, posto all’imperfetto indicativo (periÁgen, periéghen), esprime una continuità e una persistenza del muoversi di Gesù, il cui nome significa “Jhwh salva”[102]. Ges, pertanto, è il muoversi salvifico di Dio in mezzo agli uomini, che egli incontra nel loro habitat naturale, formato da città e villaggi. L’assenza di una precisa collocazione geografica e storica, caratteristica questa di Matteo, unitamente all’aggettivo quantitativo indeterminato “tutte” (p£saj, pàsas) dànno un senso universalistico all’agire di Dio nella persona di Gesù. La comunità matteana, infatti, è animata da una forte spinta missionaria verso tutte le genti ed ha la profonda coscienza che il suo operare è quello stesso di Gesù, che lei sente come costantemente presente in mezzo ad essa (28,18-20).
b) Insegnando nelle loro sinagoghe: il muoversi di Gesù non è un macinare a vuoto, come potrebbe suggerire il verbo peri£gw (priàgo, girare attorno, aggirarsi) ma è sostanziato dall’insegnare, dal proclamare e dal guarire. È questa attività rivelativa e salvifica che viene portata in giro (periÁgen) in mezzo agli uomini. Il primo atto che Gesù compie è l’insegnare nelle sinagoghe[103]. La sinagoga, quale succursale e surrogato del tempio, era il luogo ufficiale dell’incontro di Dio con il suo popolo, in cui esso era ammaestrato dalla Torah, avvolta in panni ricamati e custodita al suo interno in un apposito armadio, lo ‘aron ha-qodesh (arca santa), orientato verso Gerusalemme. Essa fu anche un punto di riferimento sociale e culturale del popolo. È da qui, dal cuore sociale e religioso del popolo, che Gesù lancia il suo insegnamento quale Rabbi e nuovo Mosé[104]. Egli iniziò la sua attività d’insegnamento già al cap. 5,1-2, dove venne presentato da Matteo in un contesto che richiamava da vicino sia l’insegnamento di Mosé che quello di Dio, che dal Sinai lo impartiva al suo popolo[105]. Ora questo Dio è sceso dal suo monte ed è venuto nel suo Figlio (Gv 14,9-11) ad insegnare personalmente e direttamente al suo popolo, incontrandolo nei luoghi che il suo popolo gli ha riservato; mentre come nuovo Mosé torna nuovamente a condurre il popolo (Mt 23,37) che il Padre gli ha affidato (Gv 17,12) verso la nuova terra promessa: l’eternità stessa di Dio.
c) Proclamando il lieto annuncio del Regno: vi è una sostanziale differenza tra insegnamento e proclamazione: il primo ha attinenza con il trasmettere un sapere e l’ammaestrare, rendendo edotti, fornendo un sapere finalizzato ad evolvere culturalmente e spiritualmente il discepolo, incamminandolo sulla strada del proprio maestro. L’autorevolezza dell’insegnamento viene direttamente dal maestro. Il secondo ha attinenza con l’annunciare e il rivelare delle realtà e i loro contenuti, che non appartengono alla persona proclamante, ma essa ne è soltanto portavoce, mentre la sua attività di proclamazione rimanda ad un terzo. C’è, inoltre, nell’ambito della proclamazione un’autorevolezza di cui è investito colui che proclama e che non proviene da se stesso, ma da colui che lo ha inviato e dal contenuto stesso del suo proclama; mentre dal suo proclama si rivela e si impone un’autorità, che chiede e pretende di essere accolta ed eseguita. Il verbi usati per esprimere l’insegnare e il proclamare sono diversi: quanto al primo, il greco usa did£skw (didàsko) che richiama il rapporto maestro-discepolo e trasmissione di un sapere; quanto al secondo, viene usato il verbo khrÚssw (kerìsso), che è un verbo tecnico per indicare l’attività propria del banditore, il cui compito non è ammaestrare il popolo o trasmettergli un sapere, bensì annunciare, notificare e manifestare la volontà del re. Per questo l’araldo è rivestito di autorevolezza e il messaggio che egli bandisce è carico di autorità e manifesta, rendendola presente in mezzo al popolo, una volontà, che attende di essere imperativamente eseguita. Colpire il banditore è colpire il re stesso; disattendere o beffeggiare il suo proclama significa disprezzare e rifiutare la volontà stessa del re, poiché nel banditore vive e opera il re stesso, ne è quasi un suo prolungamento. Per questo Gesù, rivolto a Filippo, che gli chiedeva di mostragli il Padre, dirà: “Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse” (Gv 14,9b-11). Gesù, dunque, è il banditore, il proclamatore della volontà del Padre, del quale non solo è un inviato (Mt 28,18; Gv 20,21), ma l’incarnazione e l’attuazione stesse della sua volontà, per cui in Gesù opera il Padre stesso (Gv 4,34; 5,30; 6,38-40; 7,17; 14,10). Il contenuto di tale proclama è un lieto annuncio (tÕ eÙaggšlion, tò euanghélion). Il termine proviene dal mondo greco ed era utilizzato per annunciare una lieta notizia come la vittoria sui nemici, la nascita del figlio del re o il matrimonio dello stesso re e simili notizie. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un proclama che, in Gesù, manifesta al popolo di Dio una notizia che non è soltanto lieta, ma è carica di ogni bene, cioè della stessa salvezza. Il suffisso eá (eù) infatti, anteposto al termine “aggšlion” (anghélion), qualifica questo annuncio come portatore di salvezza, per questo è lieto. Insomma, finalmente una buona notizia per l’uomo e questa viene direttamente da Dio per mezzo del suo Cristo: Dio è tornato ad essere con l’uomo, mentre l’uomo è tornato ad essere, in Gesù, nuovamente figlio e immagine di Dio, sua somiglianza. Ed è proprio questo ritorno di Dio in Gesù e il riallacciare i suoi rapporti con loro, che dice l’inaugurazione del Regno di Dio e la sua costituzione in mezzo agli uomini e con gli uomini. Il Regno di Dio, infatti, altro non dice che Dio è venuto a riprendersi ciò che era suo fin dall’eternità per ricollocarlo in Se stesso. Questo progetto, coesistente con il Padre ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e attuato in Cristo morto-risorto (Ef 1,5.7), viene mirabilmente illustrato da Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinti: “Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15, 20-28). È questo il lieto annuncio: tutto viene ricostituito in Dio per mezzo di Cristo (Ef 1,10), così che Dio sarà nuovamente tutto in tutti.
d) Guarendo ogni malattia e ogni debolezza: la Parola, che si muove in mezzo ai luoghi del vivere quotidiano dell’uomo, quasi avvolgendoli (periÁgen) con la sua presenza, che insegna (did£skwn) e annuncia (khrÚsswn), si fa ora attento servizio e amorevole cura di salvezza nei confronti dell’uomo. Il verbo qerapeÚw (tzerapéuo), infatti, possiede al suo interno un forte senso di servizio, di un mettersi a disposizioni di qualcuno, di un darsi pensiero, quasi un corteggiare[106]. I miracoli di guarigione operati da Gesù, pertanto, vanno colti come un servizio di salvezza e di redenzione, che il Padre compie nel Figlio a favore dell’uomo. L’azione guaritrice di Gesù è finalizzata a liberare l’uomo da ogni malattia e da ogni debolezza. Malattia, sofferenza, dolore, morte nella Bibbia sono sempre espressioni di uno stato di vita, che sono posti in stretto riferimento alla loro origine, che l’agiografo vede nella condizione esistenziale di decadimento, a cui l’uomo fu sottoposto alle origini. Vi è innanzitutto un’opposizione insanabile tra l’uomo e l’origine del suo male, posta da Dio come condizione propria della vita: là dove c’è la vita non vi può essere il male, che ne è la negazione, per cui l’uomo è naturalmente chiamato a fuggirlo e a combatterlo in ogni sua forma: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gen 3,15). È significativo come l’opposizione non avvenga tra l’uomo e il serpente, ma con la donna, che per sua natura è la fonte e la genitrice della vita. Ma lo stato di vita dell’uomo è ormai irrimediabilmente compromesso: “Alla donna disse: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà. All'uomo disse: "Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre” (Gen 3,16-19). Tutto è diventato più difficile: l’insicurezza, l’instabilità e l’incertezza del vivere, posto sotto il segno della precarietà, divengono i parametri entro cui si muove la vita dell’uomo. Malattia, sofferenza, dolore e morte ne sono l’espressione concreta. L’azione terapeutica di Gesù, pertanto, punta a risanare il male incurabile dell’uomo, che nasce dalla sua originale lontananza da Dio. La guarigione, pertanto, dice la rigenerazione dell’uomo al suo stato primordiale, quando, uscito dalle mani divine, era ancora incandescente di Dio. Matteo evidenzia come l’azione rigenerante di Gesù punta su ogni malattia e su ogni fragilità (malak…an), cioè su ogni aspetto del vivere umano, che trae la sua origine dalla colpa primordiale. Così che “[…] se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,17-19). L’azione guaritrice e rigenerante di Gesù troverà la sua manifestazione e la sua pienezza nella risurrezione, così che il sanare di Gesù diventa una sorta di sua anticipazione e segno che rimanda ad essa.
I vv. 36-38 formano una sorta di prologo al cap. 10. Essi, tuttavia, non sono disgiunti dal v.35, ma ne dipendono strettamente da un punto di vista contenutistico. Si è visto, infatti, come il v.35 sintetizzi l’attività missionaria di Gesù in quattro verbi fondamentali: “periÁgen” (girava), “did£skwn” (insegnando), “khrÚsswn” (proclamando), “qerapeÚwn” (sanando), che devono formare e sostanziare il contenuto proprio dell’apostolato.
Questi versetti si snodano strutturalmente su tre livelli strettamente concatenati e interdipendenti tra loro:
a) Il v.36 ha una duplice valenza: costituisce, narrativamente, una transizione dai capp. 8-9 verso il cap. 10, agganciandosi, come vedremo subito, al v.35; e, tematicamente, presenta una constatazione dello stato di abbandono in cui versa il popolo e nel contempo fornisce il motivo di fondo, che consentirà a Gesù di introdurre il discorso sul discepolato.
b) Il v.37 è conseguente e dipendente, sul piano della logica e della narrazione, dal v.36. Esso introduce, sotto forma constatativa, la questione della necessità di un numero adeguato di persone che si occupi della messe. La sua importanza è evidenziata dal posto centrale che gli viene assegnato nell’ambito della narrazione: esso, infatti, fornisce la giustificazione della pastoralità e ne stabilisce l’obiettivo primario: la cura della messe.
c) Il v.38 diventa la logica conseguenza del v.37 e indica la strada per implementare il numero degli addetti alla cura della messe: la preghiera, quale forma di sollecito divino da cui scaturiscono gli operai. Si introduce in tal modo un’importante principio: la cura della messe, benché operata dagli uomini, non dipende da essi né dalle loro capacità organizzative, ma da Dio (1Cor 3,6). Lui, infatti, è il padrone della messe.
Il v.36 si apre con il verbo Ðr£w ('Idën), che indica un vedere attento e profondo, uno scorgere tra le pieghe delle cose; è, quindi, un vedere che supera le apparenze fisiche per posarsi nelle profondità del cuore dell’uomo. È lì che Gesù scorge la stanchezza e la sfinitezza, che minano l’esistenza delle folle. Matteo, per definire la situazione esistenziale delle folle, usa due verbi al participio perfetto medio-passivo “™skulmšnoi kaˆ ™rrimmšnoi” (eskilménoi kaì erriménoi: stancate e sfinite). Il tempo di tali verbi indicano una situazione presente che risulta come conseguenza di un’azione passata. Ciò che vede, dunque, Gesù è la spossatezza e la sfinitezza spirituali di un popolo logorato e oberato da una religiosità legalistica, che lo ha dissecato nei suoi rapporti con Dio. Per questo Gesù punta il dito contro i pastori, definendo le folle “come pecore senza pastore”. L’immagine è biblica e contiene in se stessa un atto di accusa contro i capi religiosi e politici di Israele, ma nel contempo preannuncia l’avvento di un Pastore, mandato da Dio, che si prenderà cura del gregge abbandonato, aprendolo alla speranza[107]. Con questa espressione, dunque, Matteo accusa la pochezza spirituale e religiosa dei capi del popolo, che in 23,16.24 definisce come guide cieche, tutte dedite ad una esasperante osservanza legalistica, che impone sulla gente pesi che loro non sfiorano neppure con un dito (23,4); mentre indica in Gesù il Pastore inviato dal Padre per le perdute pecore d’Israele (15,24). Il v.36, pertanto, mette in rilievo una situazione sociale e religiosa pesante e priva di prospettive salvifiche, in cui il popolo si trovava ai tempi di Gesù. Sarà questo il campo assegnato da Gesù ai suoi, ai quali Matteo indica come modello di apostolato il Gesù presentato nel v.35.
Se il v.36 ha presentato il campo in cui devono lavorare i futuri operai, i vv.37-38 vedono ora le cose dalla prospettiva del Padrone e degli operai, che sono definiti pochi in rapporto alla quantità della messe. Viene, quindi, denunciato uno squilibrio nel rapporto di forze. Se questo nell’ambito delle logiche umane può creare dei problemi fino a pregiudicare gli obiettivi stessi della missione, non è così da parte di Gesù, che intende far capire ai suoi discepoli che la situazione è in mano al Padrone stesso della messe e non a loro. È dunque lui, il Padrone, che gestisce le cose e non gli operai, che devono, invece, soltanto eseguire, al meglio delle loro capacità, i progetti salvifici del padrone. La quantità degli operai, infatti, dipende dal Padrone, a cui gli stessi devono rivolgersi per il compimento della loro missione.
Vi è nei vv. 36-38 la presentazione di una struttura narrativa a piramide rovesciata: si parte dalla constatazione della moltitudine dei credenti (v.36); si passa alla valutazione delle forze operaie, limitate rispetto alle esigenze di lavoro (v.37); e si finisce con il Padrone della messe, da cui tutto dipende (v.38). Da un punto di vista storico, i vv. 35-38 sembrano collocarsi in un contesto di difficoltà missionaria e apostolica, che i responsabili della comunità matteana vivevano. Essi forse si lamentavano della loro scarsità numerica e delle difficoltà in cui dovevano muoversi. L’evangelista li invita a rivolgersi non a lui, ma al Padrone della messe dal quale essi erano stati mandati, facendo loro capire che il loro apostolato dipendeva da due elementi fondamentali: dalla loro fede e, conseguentemente, dalla coscienza di essere degli inviati dal Padre, fonte di ogni apostolicità (Gv 20,21), da cui tutto dipende e verso il quale essi devono essere costantemente rivolti nello svolgimento della loro missione.
La natura e il senso della missione apostolica sono indicati dall’oggetto stesso della missione: le folle dei credenti, definite come “messe”. È significativo, infatti, il passaggio che Matteo opera dal v.36 al v.37. Nel primo si definiscono le folle come pecore; nel secondo come messe. La logica vorrebbe che al posto di messe ci fosse nel v.37 il termine “gregge”. Per cui il gregge è molto, ma i pastori sono pochi. Matteo, invece, sposta l’attenzione del suo lettore sul termine messe, ripetuto tre volte nei vv. 37-38, probabilmente per un duplice motivo: a) continuare il ragionamento in termini di pastori-pecore, a cui si è dato un’accezione negativa, significava in qualche modo proseguire nella vecchia logica dei capi religiosi giudaici, creando una sorta di continuità e di loro implicita sostituzione da parte della comunità matteana, oscurando in tal modo il senso del nuovo portato da Gesù; b) con l’introduzione dell’appellativo di “messe” attribuito alle folle, Matteo spinge a leggere il lavoro apostolico dei responsabili della sua comunità in un contesto escatologico e di giudizio finale[108], perché il Regno di Dio è già venuto nella persona di Gesù stesso, che si pone in mezzo agli uomini come elemento discriminante tra chi lo accoglie e chi invece lo rifiuta[109], attuando fin da subito il giudizio escatologico sull’uomo (Gv 3,16-21). L’operare apostolico, pertanto, non è in vista di un Gesù che deve venire, ma che è già venuto e chiede pertanto all’uomo di prendere posizione nei suoi confronti: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Nell’annuncio del Regno, dunque, si pone l’indicativo della salvezza, mentre nella conversione e nel credere al vangelo si impone l’imperativo della salvezza. In tal modo “Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18).
Verona, 6 aprile 2008
Giovanni Lonardi
[1] Il termine ebraico dabar indica una cosa concreta che si fa e si attua. Tale espressione è applicata alla Parola di Jhwh, la cui parola non è un semplice flatus vocis, bensì una parola viva ed efficace (Eb 4,12) che produce ciò che dice. Questo aspetto essenziale e costitutivo della Parola viene indicato dal racconto della creazione , in cui ogni atto creativo è introdotto dalla formula ripetitiva (dieci volte) “E Dio disse”, costituendo in tal modo una stretta connessione tra l’esserci della cosa creata e la Parola da cui essa defluisce.
[2]Matteo riporta nel suo Vangelo diciotto miracoli, di cui dieci sono contenuti nei capp. 8-9, che a ragione potremmo definirli come la sezione dei miracoli. Di seguito vengono elencati i miracoli riscontrati nel racconto matteano. Tra questi ho inserito anche l’episodio della Trasfigurazione, in quanto matrice rivelativa della potenza divina operante in Gesù e della quale i miracoli sono una testimonianza. Essi, in ordine di apparizione, sono: 1) guarigione di un lebbroso: 8,2-4; 2) il servo del centurione: 8,5-13; 3) la suocera di Pietro: 8,14-15; 4) la tempesta sedata: 8,24-26; 5) guarigione dei due indemoniati: 8,28-34; 6) guarigione del paralitico: 9,2-8; 7) risuscitazione della figlia di un capo e guarigione dell'emoroissa: 9,18-26; 8) guarigione di due ciechi: 9,27-31; 9) guarigione di un indemoniato: 9,32-34; 10) l'uomo dalla mano inaridita: 12,9-14; 11) l'indemoniato cieco e muto: 12,22-28; 12) prima moltiplicazione dei pani e dei pesci: 14,15-21; 13) Gesù cammina sulle acque: 14,24-33; 14) la figlia indemoniata della Cananea: 15,22-28; 15) Seconda moltiplicazione dei pani e pesci: 15,32-28; 16) la trasfigurazione: 17,1-8; 17) il figlio epilettico: 17,14-18; 18) guarigione dei due ciechi: 20,29-34.
[3] Cfr. nota 2
[4] Nei confronti della lebbra Lv 13-14 istituisce tutto un rituale sia per il suo riconoscimento sia per il caso di sua guarigione. Tale rituale era demandato al sacerdote, sia perché questi era il profondo conoscitore della Torah, che regolamentava tutta la questione inerente alla purità; sia perché la lebbra rendeva totalmente impuro l’uomo ad ogni livello, rendendolo inabile a relazionarsi con la sfera del sacro. Una inabilitazione che aveva anche drammatici riflessi sociali. Era pertanto il sacerdote che doveva avere la discrezionalità su tali ammalati. Ciò è meglio comprensibile se ci si pone all’interno di una società teocentrica o, comunque, fortemente influenzata dai complessi meccanismi religiosi che la regolamentava.
[5] Il termine “Signore” è un titolo che la comunità primitiva attribuiva al Risorto. Con tale titolo si riconosceva la sovranità di Dio, stabilità definitivamente in mezzo agli uomini nel suo Cristo. In tal senso cfr. Rm 1,3-4.
[6] Il concetto di purezza e impurità nell’A.T. definiscono lo stato esistenziale che determina se l’uomo può o meno comparire davanti a Dio, sia per compiere atti rituali e di culto nell’ambito della celebrazione liturgica, sia nel suo rapportarsi personale con Dio. Nel primo caso si parla di purezza o impurità rituali, nel secondo l’impurità ha attinenza con il peccato. L’impurità rituale poteva essere acquisita in duplice modo: o per contatto esterno, come nel caso del mangiare carni di animali proibite (Lv 11; Dt 14,3-23), per contatto con cadaveri sia animali (Lv 11,8.11.24-28.31-38) che umani (Nm 19,11), per contatto con il sangue o con particolari secrezioni umane come lo sperma fuori della vagina (Lv 15,16) o il sangue mestruale (Lv 15,19-24). Il contatto con cose impure rendeva impuri. L’impurità poteva essere comunque acquisita anche per stati propri e condizioni di vita come nel caso della lebbra (Lv 13), delle mestruazioni (Lv 15, 19) o particolari emorragie patologiche della donna (Lv 15,25), del parto (Lv 12,1-5). Nel caso di impurità acquisita per contagio, la purificazione si risolveva in una abluzione e lo stato d’impurità veniva risolto nell’ambito di un giorno o in alcuni casi anche sette giorni (Lv 11,31-32; 15,11-13.16-28; Nm 19,11-12). Nella situazione di un’impurità non acquisita, come nel caso della puerpera o del malato di lebbra, di gonorrea o di emorragia era necessario, al termine dello stato di impurità, sottoporsi ai riti di purificazione, che in questi casi prevedevano anche l’uso di sacrifici di espiazione (Lv 12,6-8; 14,19-32.49-57; 15,13-15,28-30). Da quanto si è fin qui visto, la purità e l’impurità rituali hanno una stretta relazione con il mondo del sacro e del divino e sono d’impedimento nello stabilire un rapporto pieno con la divinità, lasciando intendere che esiste anche una stretta relazione con il peccato. Infatti, i termini stessi di puro (ebr. tahor) e impuro (ebr. tamé) designano rispettivamente degli stati di vita: luminoso, brillante, nel primo caso; sommerso, melmoso, sporco nel secondo caso. Espressioni queste che venivano riferite anche alla condizione etica dell’uomo. Il trasferimento dal piano di contaminazione rituale a quello spirituale e più propriamente morale vede origini diverse: esterne nel primo caso, interne all’uomo stesso nel secondo caso. Proprio sulla differente posizione della contaminazione e dell’impurità dei cibi Gesù prenderà posizione, evidenziando come la vera impurità non nasce dalle cose, ma dal cuore dell’uomo (Mt 12,34; 15,11.17-20; Mc 7,14-15).
[7] Cfr. 2Cor 5,21; Fil 2,6-8; Eb 4,15
[8] Cfr. Mt 19,28; 2Cor 5,17; Ap 21,1.5
[9] Cfr. R. E. Brown, Giovanni, Ed. Cittadella Editrice, Assisi – pag.73
[10] Il riconoscimento sia dello stato di lebbroso come quello della guarigione era demandato al sacerdote, quale esperto della Legge. Constatata l’avvenuta guarigione, il sacerdote sottoponeva il lebbroso guarito ad un complesso rituale di purificazione prima di restituirlo alla vita civile e religiosa. Veniva immolato un uccello sopra un vaso contenente dell’acqua sorgiva o di torrente, alla quale venivano aggiunti legno di cedro, rosso cocciniglia e issopo. Nell’acqua così trattata veniva immerso un uccello, che poi veniva lasciato libero nella campagna, mentre il lebbroso viene asperso e dichiarato puro. Il rituale si completava con il lebbroso, che si radeva i peli del corpo, lavava i suoi abiti e faceva un bagno. L’ottavo giorno il lebbroso guarito offriva un sacrificio per il peccato e un olocausto. Il sacerdote con il sangue del primo sacrificio toccava l’orecchio, il pollice e l’alluce destri del lebbroso guarito ed ungeva le stesse parti con dell’olio, spargendogli il rimanente sulla testa. Sono rituali dal forte valore apotropaico in cui l’acqua, il sangue, il rosso, il valore catartico del cedro e dell’issopo, l’acqua viva e l’uccello liberato nella campagna sono finalizzati a portare via il male; mentre i peli vengono rasati perché portano le tracce del male. – Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell’Antico Testamento, Ed. Marietti – Genova – III edizione 1977 – ristampa 2002.
[11] Il testo matteano 11,5 è in realtà una sorta di zibaldone, che raccoglie varie espressioni di Isaia, pronunciate dal profeta in contesti messianici ed escatologici e che Matteo qui raccoglie, finalizzandole a Gesù in cui vede l’attuarsi delle Scritture.
[12] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli – Commento sinottico, ed. Messaggero di S. Antonio – Padova, 1998
[13] Il termine centurione (gr. ˜katÒntarcoj, letteralmente “capo di cento”) viene citato nel N.T. 19 volte, sei nei Vangeli e 13 negli Atti degli Apostoli. Il termine indica il comandante di una centuria. L’esercito romano aveva la sua forza portante nella legione, composta all’incirca di 6.000 uomini, più verosimilmente tra i 4.000 e i 6.000 soldati. Ogni legione era formata, a sua volta, da dieci coorti e ogni coorte da sei centurie di 70-100 uomini circa, comandate ognuna da un centurione.
[14] Cfr. Ortensio da Spinetoli, Matteo, Ed. Cittadella Editrice, Assisi – 1998 e R. Fabris, Matteo, Ed. Borla, Roma – 1996.
[15] Nel linguaggio biblico il verbo posto al passivo indica quasi sempre l’intervento di Dio e tecnicamente viene definito passivo teologico o divino..
[16] Il verbo “vedere”, riferito a Gesù, è normalmente usato nelle chiamate alla sequela e indica l’elezione. In tal senso si cfr. Mt 4,18.21; 9,9; Mc 1,16.19; 2,14; Lc 5,27; 19,5; Gv 1,42.
[17] Cfr. il lemma “malattia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[18] Cfr. Lv 26,14-16; Dt 28,15-22; 32,17-24; Ab 3,5
[19] Similmente Luca nel suo racconto dei discepoli di Emmaus, commenta: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). Luca, pertanto, vede annunciato nelle Scritture il piano salvifico di Dio, che si attua in Gesù.
[20] Il deutero Isaia nel suo Libro presenta una enigmatica figura di servo sofferente di Jhwh, in cui la Tradizione cristiana, fin dalle sue origini, legge la figura stessa di Gesù. I quattro cantici sono compresi in Is 52,13-53-12. Il testo a cui fa riferimento Matteo è tratto dal quarto canto del Servo sofferente di Jhwh (Is 53,1-12).
[21] Da un punto di vista letterario e narrativo la sentenza inquadrata è un detto di Gesù inserito in un breve racconto costruito appositamente per dargli rilevanza narrativa, teologica e storica.
[22] Lo scriba di questo breve racconto è probabilmente Matteo stesso che qui, in 8,19 e in 13,52 ricorda la sua vocazione e la sua sequela. Infatti, il termine scriba in Matteo è ripetuto 22 volte ed è sempre posto al plurale. Soltanto in questi due versetti il termine compare al singolare. Per un approfondimento in merito si cfr. la parte introduttiva di quest’opera al titolo “Autore”.
[23] L’espressione “figlio dell’uomo” o “figlio d’uomo” si trova nell’A.T. 107 volte di cui 94 in Ezechiele e una sola volta in Dn 8,17. Con tale espressione Jhwh chiamava i due profeti per indicarne tutta la fragilità e la finitezza, implicitamente raffrontate con la sua sublime ed eterna Essenza divina, di fronte alla quale essi si trovavano. Le rimanenti 12 volte sono variamente sparse in altri testi biblici veterotestamentarii con il semplice significato di uomo. Tra queste ne spicca una in particolare in Dn 7,13-14, collocata in una cornice apocalittica, la cui eco ritroviamo anche in Ap 1,13 e 14,14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14). Questa immagine misteriosa dai contorni escatologici ed apocalittici venne poi riferita nel N.T. (81 volte) alla persona di Gesù.
[24] Cfr Es 20,12; Dt 5,16; Sir 3,8; 7,27; Mc 7,10; Lc 18,20; Ef 6,2.
[25] La scena qui è posta sul lago di Genezaret, che viene definito dall’autore “mare”. Il semita, infatti, definiva qualsiasi distesa delle acque con il termine ebraico yām (mare). Con tale espressione venivano designati anche i grandi fiumi, come il Tigri (Ger 51,36) e il Nilo (Na 3,8) o, più semplicemente, gli stessi grandi bacini d’acqua all’interno del Tempio (1Re 7,23). Cfr. la voce “mare” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[26] Cfr. Gen 2,6; 27,28; Es 17,6; 23,25; Dt 8,7; Sal 64,10; 104,41; Sir 29,21; Is 33,16; 35,6; 41,18; 43,20; 44,3; 49,10; 58,11; Gl 4,18; Zc 14,8.
[27] Cfr. Sal 28,3; 31,6; 64,8; 68,2-3.15-16; 76,17; 87,18; 88,10; 92,4; 106,29; 123,4-5; 143,7; Is 8,7; 17,12-13; Gn 2,6; Ab 3,10;
[28] Cfr. Gen 6,17; Es 7,17-19; 14,28; 15,8-10; Sal 73,13; 76,18; Sir 24,6; Is 28,2.17; 30,25; Ger 51,16; Ez 26,19; 43,2;
[29] Cfr. il titolo “L’autore” nella parte introduttiva della presente opera.
[30] In tutto il N.T. il termine salvezza, salvatore, salvare ricorre circa 180 volte.
[31] Cfr. Mc 16,8; Lc 24,21.25; Gv 20,9-10;
[32] Cfr. Gen 28,17; Es 3,6; 19,16; 20,18; 34,30; Lv 9,24; Nm 20,6; Dt 5,5; Tb 12,15-16; Dn 8,17-18.
[33] Cfr. Mt 28,4.8; Mc 16,5.8; Lc 24,5.12.
[34] Cfr. il titolo “L’Autore” nella parte introduttiva della presente opera.
[35] Cfr. Sal. 28; 32,6-9; 64,7-8; 73,13-17; 76,17-20; 88,10; 103,2-7; 106,23-30; 148,8.
[36] Cfr. il titolo “la struttura dei capp. 8-9” nella parte introduttiva, sopra riportata.
[37] Cfr. Sal 21,17.21; Mt 7,6; 15,26-27; Fil 3,2; Ap 22,15
[38] In tal senso Paolo nella sua lettera ai Galati afferma acutamente: “… infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano” (Gal 2,21b).
[39] La città elettiva di Gesù, secondo il racconto matteano, è Cafarnao (Mt 4,13).
[40] Sul triplice significato del verbo greco “vedere” si cfr. il commento al versetto 8,14 sopra riportato.
[41] Cfr. La voce “malattia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[42] Cfr. Es 5,3; 9,3.15; Lv 26,25; Nm 14,12; Dt 28,59; 2Sam 24,15; 1Cr 21,14; Ger 14,12.
[43] Cfr. 1Cr 28,9; 2Cr 16,9; Sal 10,5; 32,14; Prov 16,2; Sir 42,18.
[44] Tale pretesa di Gesù viene sottolineata con particolare vigore nel vangelo giovanneo: “Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18).
[45] La comunità di Marco è formata sia da giudeocristiani che etnocristiani; mentre quella di Luca è composta prevalentemente da ellenisti.
[46] Cfr. anche Mt 15,8.
[47] Secondo l’antropologia ebraica l’uomo è uno spirito incarnato e una carne spiritualizzata.
[48] Il salmista, parafrasando in termini poetici la creazione dell’uomo, canta proprio questo aspetto di splendore primordiale e di grande dignità divina in cui l’uomo era stato collocato: “[…] che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti,tutte le bestie della campagna; Gli uccelli del cielo e i pesci del mare,che percorrono le vie del mare. O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra” (Sal 8,5-10).
[49] L’espressione “aoristo ingressivo” indica un’azione presente che ha avuto la sua origine in un preciso punto storico.
[50] Nel linguaggio biblico i verbi al passivo indicano in genere l’agire stesso di Dio. L’espressione viene tecnicamente definita con “passivo divino” o “passivo teologico”.
[51] Cfr. Eb 4,12
[52] Cfr. Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1.5
[53] Il verbo Ñr£w (orào) dice un vedere superiore, che va al di là delle apparenze ed esprime il vedere proprio della fede.
[54] Circa il tema delle teofanie cfr. il commento al v. 8,27.
[55] Circa i miracoli, è significativa la diversa denominazione che Sinottici e Giovanni attribuiscono ad essi. I primi definiscono i miracoli con il termine “dun£meij” (dinàmeis), poiché vedono in essi l’irrompere della potenza di Dio, operata a favore egli uomini (Mt 7,22; 11,20-21.23 13,58; 14,2; Mc 6,2.14 Lc 10,13; At 8,13; 19,11); mentre Giovanni nel suo vangelo preferisce l’espressione “shme‹on” (semeìon), cioè segni (Gv 2,18.23; 3,2; 4,54; 6,2.14; 11,47; 12,18.37; 20,30). Egli, infatti, concepisce i miracoli operati da Gesù come dei segni visibili che, proprio per la loro natura di segni, invitano il credente ad andare oltre le apparenze per cogliere la divinità di Gesù e il mondo divino che in essi si manifesta ed opera, spingendo in tal modo gli uomini ad aprirsi alla fede. Il miracolo-segno per Giovanni è dunque finalizzato a smuovere la fede, una finalità che lo stesso evangelista ci attesta a conclusione del suo vangelo: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31).
[56] Circa il significato e il valore simbolico dei numeri e in particolare del tre, quattro e sette si confronti le rispettive voci in Manfred Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli, Ed. Paoline Srl, Cinisello Balsamo (MI) – 1990.
[57] Cfr. Mt 4,18.23; 8,1.5.14.18.23.28; 9,1.9.19.23.27.32; 11,1; 12,1.9.15; 13,1; 14,25.32; 17,1.14; 19,1-2; 20,29.
[58] Sulla questione degli esattori delle tasse vedasi la Parte Introduttiva dell’opera, nota 29.
[59] Cfr. Mt 11,19; 18,17; 21,31.32; Mc 2,15.16; Lc 5,30; 7,34; 15,1.
[60] Cfr. Lc 18,10
[61] Mt 18,17.
[62] Il verbo ™gšneto ricorre 13 volte in Mt; 17 volte in Mc; 69 volte in Luca; 16 volte in Giovanni.
[63] Cfr. la voce “casa” in M.Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, op. cit. e J.Mateos – F.Camacho, Vangelo: figure e simboli, Citadella Editrice, Assisi (PG) – 1997.
[64] Sulla sacralità del pasto in Israele cfr. G. Stemberger, La religione ebraica, Centro editoriale dehoniano, Bologna 1996; Franz-Josef Nocke, Dottrina dei Sacramenti, Editrice Queriniana, Brescia – 2000.
[65] La sacralità del pasto quotidiano in Israele emerge in particolar modo dopo la distruzione del Tempio (70 d.C.), allorché il tavolo sostituiva idealmente l’altare del Tempio e molte delle prescrizioni vigenti nell’ambito del Tempio si trasferirono in quello familiare. Prima di magiare ci si lavava le mani recitando una preghiera di benedizione. Il pasto incomincia con la preghiera di benedizione: “Lodato sii tu, Signore, nostro Dio, che trai il pane dalla terra”. Ma la preghiera vera e propria, denominata la Preghiera della Mensa, segue il pasto, in ottemperanza al Deuteronomio: “Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato” (Dt 8,10). In questa preghiera si loda innanzitutto Dio come colui che nutre il mondo intero; Lo si ringrazia, poi, della terra in cui ha introdotto il suo popolo, per l’alleanza e per la Torah; segue un’invocazione a Dio perché usi misericordia a Gerusalemme e alla casa di Davide; ed infine, una benedizione di lode a Dio come colui che è buono e fa il bene e sui benefici del quale si può contare anche in futuro. La Preghiera della Mensa, dunque, va ben al di là della semplice circostanza del pasto comunitario, in cui si ricostruisce e si celebra il popolo dell’alleanza. Essa spazia dalle origini del popolo d’Israele fino alla riedificazione di Gerusalemme nel suo antico splendore. (il contenuto di questa nota è stato liberamente tratto da G. Stemberger, La religione ebraica, Centro editoriale dehoniano, Bologna 1996).
[66] Cfr. Gen 14,18; 26,27-30; 31,44-54; Es 18,8-12; 24,3-9.
[67] Anticamente i riti di alleanza si concludevano con l’uccisione di animali. Questi venivano squartati e una parte veniva offerta in sacrificio a Dio, mentre la parte restante veniva consumata in un pasto. In tal modo si celebrava un rito di comunione con la divinità. In tal senso cfr. il lemma “Alleanza” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[68] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli – Commento sinottico, Ed. Messaggero di S. Antonio, Padova - 1997
[69] Cfr. la voce “mangiare” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, op. cit.
[70] Israele non aveva sviluppata una propria medicina come l’Egitto (Gen 50,2), Babilonia, l’Assiria e la Grecia. Sarà soltanto con la civiltà greca che arriverà in Palestina anche la medicina. All’epoca del N.T. la professione medica è infatti molto diffusa. Lo testimonia il termine stesso, citato sei volte: una volta è riferito a Luca “il caro medico” (Col 4,14), una seconda è citato al plurale, con riferimento professionale applicato senza successo, anzi come causa di molte sofferenze (Mc 5,26) e, infine, altre quattro volte, quale oggetto di proverbi (Mt 9,12; Mc 2,17; Lc 4,23; 5,31). Nell’A.T. malattia e cura medica sono sempre poste in riferimento a Jhwh, che viene presentato non solo come colui che preserva dalle afflizioni che hanno colpito l’Egitto, ma anche come colui che guarisce (Es 15,26). Per questo il ricorrere al medico o ai maghi anziché al Signore si incorre nella morte (2Re 1,16; 2Cr 16,12-13), anche se il Siracide conosce un grande rispetto per i medici (Sir 38, 1.3.7.12) benché li guardi con un certo sospetto e come forieri di sventura (Sir 38,15). Lo stesso Marco in 5,26 li presenta come una categoria poco affidabile e spesso impotente di fronte alla malattia, che invece Gesù sa guarire con la sua potenza. (Cfr. la voce medico in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.)
[71] Cfr. Is 1,10-17; Am 5,21-25.
[72] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica I-II, q. 90, a. 1
[73] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica I-II, q. 94, a. 4
[74] Una simile visione è presentata anche da Paolo nella sua lettera ai Romani dove egli, dopo un lungo ragionamento contenuto in 1,18-3,31, dimostra come tutti, ebrei e pagani indistintamente, sono stati racchiusi sotto la colpa, ma tutti sono stati riscattati per la sola grazia e la sola fede in Cristo Gesù: “Che dunque? Dobbiamo noi ritenerci superiori? Niente affatto! Abbiamo infatti dimostrato precedentemente che Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del peccato, come sta scritto: Non c'è nessun giusto, nemmeno uno, non c'è sapiente, non c'è chi cerchi Dio! Tutti hanno traviato e si son pervertiti; non c'è chi compia il bene, non ce n'è neppure uno. […] Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù” (Rm 3,9-12.21-24).
[75] Sul tema del digiuno cfr. il commento ai vv. 6,16-17 della presente opera.
[76] In questo breve episodio è sottesa una sottile vena polemica tra il discepolato del Battista e quello di Gesù. Si riteneva, infatti, che Gesù in qualche modo fosse debitore del Battista, essendo stato egli, agli inizi della sua attività, un discepolo di Giovanni (Gv 3,22-23) e in quanto tale non era a lui superiore, bensì da lui dipendente. In altri termini, il gruppo battista non vedeva di buon occhio il movimento di Gesù, così autonomo e libertario. Tra i due gruppi non correva buon sangue, proprio per il diverso modo di porsi nei confronti della Torah e delle prescrizioni mosaiche. Il contrasto tra i due gruppi, che nei Sinottici è serpeggiante e appena accennato, è posto in termini inequivocabili e aperti nel vangelo di Giovanni (Gv 3,22-30) e sarà tale che Gesù preferirà staccarsi dal gruppo di Giovanni e proseguire autonomamente con i suoi discepoli la propria missione (Gv 4,1-3). Toni polemici in Giovanni nei confronti del Battista si possono rilevare in Gv 1,8 in cui si attesta che “Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce” come in Gv 3,30 in cui si rileva la superiorità di Gesù sul Battista: “Egli deve crescere e io invece diminuire”.
Per una più completa trattazione sul tema, vedasi la parte introduttiva al commento dei capp. 3-4, sotto il titolo “La figura di Giovanni Battista” della presente opera.
[77] Cfr. Es 19,3-6
[78] Cfr. Is 54,5.6; 61,10; 62,4; 62,5; Ger 2,1-3.32; 3,1.20; Os 2,18.21-22.
[79] Cfr. Mt 25,1-12; Mc 2,19-20; Gv 2,1-11; 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,22-33; Ap 19,7; 21,2.9; 22,17.
[80] Cfr. 1Cor 6,15.17; 12,27; Ef 5,29b-30.
[81] Cfr. 61,10; 62,4-5; Ger 7,34; 16,9; 25,10; 33,11; Bar 2,23; Ct 1,4; 3,11; Sap 8,16.
[82] Is 9,1-2; 12,1-6; 29,18-19; 35,2.6.10; 49,13; 51,3; 52,9; 56,7; 66,10; Ger 33,10-11; Bar 4,29.36; 5,29; Sof 3,14.17; Zc 2,14; 8,19.
[83] Mt 2,10; 13,44; 25,21; 28,8; Lc 1,14.44; 2,10; 10,17; 19,5-6; 24,41.52; Gv 3,29; 15,11; 17,13; At 8,8.39; 13,52; 16,34; Rm 4,17; 15,13; 2Cor 1,24; Gal 5,22; 1Ts 1,6; 1Pt 1,6.8; 1Gv 1,4; 2Gv 1,12.
[84] Nel linguaggio biblico il verbo al passivo indica un’azione divina.
[85] Circa la distribuzione dei miracoli nei capp. 8-9 vedasi il titolo “la struttura dei capp. 8-9”.
[86] Cfr. il vocabolo “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.
[87] Cfr. Rm 13,14; Gal 3,27;
[88] Il sangue presso gli antichi era la sede della vita, una sorta di sua materializzazione (Lv 17,11.14a). In quanto sede della vita ed espressione della stessa, il sangue assumeva una valenza sacrale, che aveva una stretta attinenza con Dio. Per questo era fatto divieto assoluto di bere del sangue, perché ciò significava appropriarsi in qualche modo della vita stessa, che, invece, per definizione, apparteneva a Dio (Lv 7,26-27; 17,14b). Per lo stesso motivo, nell’ambito della ritualità cultuale, il sangue aveva anche una capacità espiatoria (Lv 4,25.34; 6,23; 17,11), consacratoria (Lv 8,23-24) e purificatrice (Lv 14,5-7.14). Cfr. anche il termine “sangue” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei simboli biblici; e in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, opp. citt.
[89] Nella Palestina del N.T. il defunto veniva seppellito il giorno stesso della sua morte (At 5,6-10). Nell’occasione della morte, i familiari ingaggiavano musicisti e lamentatrici di professione, che si percuotevano il petto, per offrire una pubblica dimostrazione del loro dolore. Dalla casa del defunto, poi, il lamento funebre si estendeva a tutto il corteo. Si preparava, quindi, il corpo per la cerimonia di inumazione, lavandolo, cospargendolo di aromi e avvolgendolo, poi, in un sudario di lino. La sepoltura era organizzata dai parenti stretti, mentre tutti coloro che incontravano il corteo funebre erano tenuti a seguirlo. Un oratore a pagamento, poi, teneva un discorso commemorativo del defunto sulla tomba o nella sinagoga. Dopo la sepoltura, vi era l’usanza di far visita al defunto alcuni giorni dopo per accertarsi della sua morte e per dare gli ultimi ritocchi all’inumazione (Gv 11,17.39). Al termine della sepoltura la casa del defunto veniva purificata e il lutto, accompagnato da preghiere e digiuni (Mt 9,15), durava solitamente sette giorni. Dopo che il cadavere si era decomposto, le ossa venivano raccolte e poste in un’urna.
Sulla tumulazione del cadavere cfr. pagg 56-57 in James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), 2004; e la voce “Sepoltura e usi funebri” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, op. cit.
[90] Cfr. il termine “Mano” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei simboli biblici, op. cit.
[91] Il conteggio è stato fatto sul testo greco e non su quello italiano, prendendo in considerazione anche le parole composte di mano, come “manufatto”, “manodopera” e simili.
[92] Cfr. J.Mateos – F.Camacho, Vangelo: figure e simboli, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1997; M.Lurker, Dizionario delle Immagini e dei simboli biblici, op. cit. ; Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[93] Il titolo “Figlio di Davide”, attribuito a Gesù, ricorre nel N.T. 16 volte, soltanto nei Sinottici. Tra questi Matteo lo riporta 8 volte. Espressioni simili come “Stirpe di Davide” o “Casa di Davide” ricorrono complessivamente altre 6 volte, rispettivamente 4, per la prima, in Gv 7,42; Rm 1,3; 2Tm 2,8; Ap 22,16 e 2, per la seconda, in Lc 1,27.69. L’espressione ha in sé una valenza squisitamente messianica e si aggancia alla profezia di Natan al re Davide: “ […] Il Signore ti farà grande, poiché ti farà una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò con verga d'uomo e con i colpi che danno i figli d'uomo, ma non ritirerò da lui il mio favore, come l'ho ritirato da Saul, che ho rimosso dal trono dinanzi a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2Sam 7,11b-16). Attribuire a Gesù il titolo di “Figlio di Davide” significava, quindi, riconoscere come la promessa fatta da Dio al re Davide si sia di fatto realizzata nella persona stessa di Gesù. Quindi era a lui che Dio pensava quando parlava a Davide per mezzo di Natan. Da quel momento gli ebrei attendevano il messia, cioè l’unto, il consacrato di Jhwh, dalla discendenza di Davide. La professione di fede in Gesù “Figlio di Davide” significava che le promesse e le attese si erano definitivamente compiute in Gesù.
[94] Con questa espressione la chiesa primitiva si rivolgeva al Gesù risorto, elevato dal Padre alla sua destra con potenza e costituito Signore universale, davanti al quale “ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,10-11). Paolo in Rm 1,3-4 ricorda la dimensione di onnipotenza divina con cui Cristo fu rivestito nella risurrezione: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”, per questo se “se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9). La suprema signoria cosmica di Cristo viene riconosciuta in Ef 1,10-11, in cui si parla di un progetto del Padre realizzato nel Figlio, costituito cuore stesso dell’universo: “ […] egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà, […]” . La signoria di Gesù, acquisita nella risurrezione, non è fine a se stessa, ma è finalizzata a sottomettere tutte le cose al Padre, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti. Essa, quindi, ha una dimensione squisitamente escatologica: “Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,25-28).
[95] Cfr. Mt 13,44.45.47; 18,23; 20,1; 22,2; 25,1; Lc 6,49; 13,18
[96] Circa il significato del verbo ¢kolouqšw (akolutzéo) e il muoversi di Gesù in mezzo alla gente, cfr. il commento del v. 9,9.
[97] Cfr. At 10,1-2 in cui il centurione Cornelio viene descritto come un simpatizzante del giudaismo, che accoglierà presso di sé Pietro e si aprirà con tutta la sua famiglia al cristianesimo (At 10,44-48): “C'era in Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio”.
[98] Forse nei due ciechi Matteo fa un’allusione al catecumenato, dove si imparava a conoscere e a servire Gesù, invocandolo con i suoi titoli, che lo qualificavano come il salvatore e inviato del Padre, e ci si preparava al risveglio, nella luce del Risorto, nella notte pasquale, dopo un cammino che generalmente durava tre anni. La domanda che Gesù pone e la risposta che i due ciechi dànno ci riportano nell’ambito della catechesi e della liturgia battesimale: “ "Credete voi che io possa fare questo?". Gli risposero: "Sì, o Signore!" ”.
[99] Cfr. nota 63
[100] Cfr. il termine greco ¤ptw in Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco - Italiano, Soc. Editrice Dante Alighieri, Roma 1993.
[101] Circa il tema della riservatezza sulla vita della comunità matteana si cfr. il commento al v. 7,6 e la parte introduttiva della presente opera alla voce “La comunità matteana”.
[102] Nel mondo semitico il nome esprime l’essenza della persona che lo porta e ne rileva, in un certo qual modo, la sua missione esistenziale.
[103] Il termine sinagoga ancor prima di indicare un luogo pubblico di culto, definiva la riunione convocata del popolo di Dio. Il vocabolo greco sunagwg» (sinagoghé) è la traduzione dei LXX al corrispondente vocabolo ebraico qahal o edah, che si riferisce sia a tutto il popolo che alla comunità locale. Successivamente il termine incominciò a designare anche il luogo dove l’assemblea convocata si riuniva. Benché la sua origine sia incerta, tuttavia la maggior parte degli esperti la vede nascere durante il periodo esilico babilonese (597-538 a.C.) in sostituzione del Tempio e della stessa Terra santa palestinese. Essa ben presto divenne il luogo del ritrovo del popolo in esilio e svolgerà un ruolo fondamentale nell’ambito del Giudaismo, movimento ebraico nato intorno al 395 a.C., e in particolare del Giudaismo rabbinico, originatosi nel 70 d.C. a seguito della distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Essa nella storia svolse, e svolge tuttora, un ruolo catalizzatore del popolo ebreo, rafforzandone l’identità ed evitando in tal modo la sua dispersione e la sua estinzione. Ogni ebreo della diaspora, quindi, cercherà di porre la sua residenza là dove ci sia la possibilità di frequentare una sinagoga. Il culto sinagogale verteva su due elementi fondamentali: lettura e commento della Torah e preghiera comune. Ne era, invece, escluso il sacrificio, atto cultuale riservato soltanto al Tempio. Dopo la sua distruzione i rabbini si incentrarono sullo studio della Torah e consideravano tale studio come un vero proprio sacrificio, sostitutivo di quello degli animali. Il culto sinagogale non era presieduto da sacerdoti, ma da laici. Ogni persona, quindi, indipendentemente dalla sua posizione sociale, poteva presiedere o guidare la preghiera, il canto, la lettura della Torah e il suo commento. Non vi erano, pertanto gerarchie da rispettare nell’ambito del culto, ma soltanto un numero minimo da garantire (minjàn) perché l’assemblea cultuale fosse valida: 10 maschi di età adulta, che si raggiungeva a 12 anni per le femmine e a 13 per i maschi, attraverso la cerimonia del Bar mitzwah (figlio del comandamento). Ma oltre al culto, incentrato sulla Torah e sulla preghiera, la sinagoga era diventata anche una sorta di centro scolastico per i bambini e di studio della Torah per gli adulti. Benché all’interno del culto sinagogale non vi fossero gerarchie da rispettare, ciò non significa che la sinagoga non avesse una sua organizzazione, formata da un’assemblea permanente di sette anziani, presieduta da un capo sinagoga; ma soltanto tre di questi rappresentavano validamente la sinagoga. Per quanto riguarda il culto, già ancora in epoca rabbinica, questo era gestito da due persone: l’arcisinagogo e il servitore. Il primo, denominato rosh ha-kenesset, organizzava le funzioni sinagogali e gli aspetti amministrativi e organizzativi della sinagoga stessa. La funzione non era una professione vera e propria, ma un impegno gratuito e volontario. Non è ben chiaro come uno diventasse arcisinagogo, ma sembra che venisse eletto dalla comunità. L’incarico in Palestina era una sorta di vitalizio, mentre nelle regioni della diaspora era un incarico temporaneo e messo in vendita, poiché dava lustro e autorità alla famiglia dell’arcisinagogo. Per quanto riguarda il servitore, in ebr. hazzan, era l’aiutante dell’arcisinagogo: annunciava l’inizio e la fine del sabato con squilli di tromba, consegnava al lettore i rotoli della Torah e poi li riponeva (Lc 4,20), si prendeva cura dell’edificio, ecc. A differenza dell’arcisinagogo, lo hazzan era talvolta stipendiato dalla comunità perché potesse prendersi cura stabilmente della sinagoga. Vi era poi una terza figura, che gravitava intorno alla sinagoga, quella del rabbino. Benché questi non dipendesse dalla sinagoga, né in qualche modo vi era legato, tuttavia poteva essere invitato a prendere parte ad alcuni atti del servizio, come il leggere e il predicare, atti questi che tuttavia erano aperti indistintamente a tutti. (Cfr. Antonio Rodriguez Carmona, La religione ebraica, op. cit.; La Sinagoga” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; Roland De Vaux, Le Istituzioni dell’Antico Testamento, Ed. Marietti Spa, Genova – 2002.)
[104] In tal senso è significativo rilevare come all’interno di alcune sinagoghe vi era anche un posto d’onore riservato al capo della comunità, chiamato la cattedra di Mosé. Forse a questo particolare il Gesù matteano fa riferimento nella sua invettiva lanciata contro gli Scribi e i Farisei, accusandoli di essersi seduti sulla cattedra di Mosé (Mt 23,2).
[105] Cfr. “Analisi e Commento a 5,1 - 8,1”: vv. 5,1-2 della presente opera.
[106] Cfr. il verbo qerapeÚw (tzerapéuo) in Lorenzo Rocci, op. cit.
[107] Cfr. Nm 27,16-17; 1Re 22,17; Ger, 23,1-6; Ez 34,1-16; Zc 10,2; Gv 10,1-30;
[108] Messe, mietitura, mietitori, grano, granai, pula sono tutti termini che nel linguaggio profetico sono legati alla metafora del giudizio finale o, comunque, ad una resa di conti. In tal senso cfr. Is 27,12; Ger 51,33; Os 2,11; 6,11; Gl 4,13; Mt 3,12; 13,30.39; Lc 3,17; 22,31; Ap 14,15.
[109] Cfr. Mt 10,32-40; 12,30; Mc 16,16; Lc 2,34; Gv 3,18.36; 8,24.