IL VANGELO DI MATTEO
IL PRIMO GRANDE DISCORSO DI GESù
Introduzione, analisi e commento
dei capp. 5,1 - 7,29
Premessa
Il v. 4,23 ci ricordava come l'intera attività di Gesù si svolgeva su tre livelli, tra loro complementari, così che ognuno può essere compreso come l'esplicitazione integrante dell'altro; per cui avremo l'insegnamento che si fa annuncio e questo si attua e si manifesta nelle guarigioni. In tal modo la parola diventa azione divina che rigenera l’uomo, aprendolo alle prospettive di Dio e lanciandolo verso i suoi orizzonti.
I cinque grandi discorsi si presentano come l'ammaestramento che Gesù impartisce ai nuovi credenti e si snodano tra loro su di una struttura parallela convergente secondo lo schema seguente:
A) Primo discorso, 5,1-8,1: Le nuove regole comportamentali esigite dal Regno;
B) Secondo discorso, 10,5-11,1: Codice comportamentale della nuova comunità inviata ai non credenti;
C) Terzo discorso, 13,3-53: Il Regno, che cos'è, la sua dinamica e le sue esigenze;
B') Quarto discorso, 18,1-19,1: Alcune regole comportamentali da osservare tra i membri all'interno della nuova comunità credente;
A') Quinto discorso, 24,1-25,46: Le regole comportamentali del credente dopo Gesù.
Questi discorsi si presentano come una grande raccolta di detti (loghia) di Gesù e di parabole giustapposti l'uno accanto all'altro, apparentemente senza logica, ma tra loro coordinati in modo da trattare un unico tema, che funge da filo conduttore, così che ognuno occupa il suo giusto posto nell'ambito del discorso e ne costituisce un progressivo sviluppo.
Introduzione
Il tema di fondo che domina questo primo grande discorso si muove su di un triplice livello: a) l'identità del nuovo credente, definito beato (5,3-12); b) il suo ruolo in mezzo agli uomini (5,13-16); c) la definizione della giustizia superiore, che deve caratterizzare il vivere concreto del nuovo credente (6,1-18) e che trova la sua giustificazione e le sue radici più profonde in Gesù stesso, colto come il nuovo interprete delle Scritture (5,17-6,34).
Si nota sullo sfondo un'accentuata polemica con il mondo giudaico circostante[1]. Matteo infatti parla di giustizia superiore con evidente contrapposizione a quella legalistica e riduttiva degli scribi e farisei (5,20). Gesù è inoltre presentato come l'autentico e autorevole interprete delle Scritture (5,21-48) in contrapposizione alle pretese dei dottori della legge, che secondo Matteo hanno usurpato la cattedra di Mosé (23,2-3) e contro i quali egli punta il dito in modo molto duro e sferzante (23,3-39).
La struttura di questo primo discorso può essere così definita:
· 5,1-2: Introduzione;
· 5,3-12: l'identità del nuovo credente, definito come beato e colto nei suoi diversi aspetti sociali, morali e religiosi;
· 5,13-16: il compito primario del credente: essere sale e luce in mezzo agli uomini;
· 5,17-20: la necessità per il nuovo credente di una nuova e superiore giustizia, che lo deve contraddistinguere e che si basa sulle Scritture, rivisitate e reinterpretate in modo autorevole da Gesù, che ne dà il senso pieno e compiuto. Questa pericope funge da introduzione e giustificazione delle sei successive antitesi;
· 5,21-48: le sei antitesi sono un esempio di rivisitazione e reinterpretazione della Legge, che supera il mero legalismo farisaico. Su queste logiche si fonda la giustizia superiore esigita da Gesù;
· 6,1-34: come deve essere praticata la giustizia superiore. Questo tipo di giustizia spinge il credente ad orientare la propria vita a Dio e non verso gli uomini o alle cose della terra. Le due realtà sono tra loro contrastanti e inconciliabili e comportano una scelta radicale (6,24);
· 7,1-27: questa pericope è una raccolta di sei brevi discorsi, giustapposti gli uni accanto agli altri senza legame alcuno tra loro. Essi costituiscono le ultime raccomandazioni sul come deve comportarsi il credente e si chiude con la considerazione che la parola di Gesù è fondante e certa.
· 7,28-8,1: Conclusione.
Il discorso presenta una solida unità strutturale e un suo sviluppo logico. Il contenuto è chiaramente fondativo della nuova comunità credente e ne traccia i tratti essenziali e distintivi. La caratteristica di fondo è il superamento di una interpretazione meramente legalistica del concetto di giustizia per aprirsi alle esigenze dell'uomo nel suo rapporto con Dio e con gli altri. Come dire che ogni interpretazione della Legge, per essere autentica, ha come fine la salvaguardia dell'uomo, il suo sviluppo e la sua affermazione in ogni aspetto della sua vita. In altre parole, parafrasando il detto di Gesù di Mc 2,27: la Legge è stata fatta per l'uomo e non l'uomo per la Legge[2].
Un particolare accenno va fatto circa i vv. 6,22-23 collocati all'interno di un contesto con cui non hanno nulla da spartire e con cui non legano in alcun modo, anche se di seguito tenteremo una interpretazione che ne giustifichi la collocazione in quel contesto. E' probabile che siano una interpolazione redazionale dell'ultimo momento o successiva. Era più logico, quindi, inserirli all'interno del cap. 7, che raccoglie senza alcun ordine e svincolati tra loro sei brevi discorsi attribuiti a Gesù.
Analisi e Commento a 5,1 - 8,1
vv. 5,1-2: questi due versetti costituiscono l'introduzione al primo discorso di Gesù, che si qualifica come un ammaestramento (™d…dasken), che si attua attraverso la parola (lšgwn). Esso è di fondamentale importanza. Il verbo d„d£skw infatti è qui posto in un contesto solenne ed unico, che non ritroviamo negli inizi degli altri quattro discorsi. Esso è preceduto da quattro fondamentali e significative azioni di Gesù: Gesù vede le folle, sale sul monte, si siede, apre la bocca e, infine, impartisce l'insegnamento. Tutto ciò dà una valenza unica e irripetibile a quanto segue.
Il v. 5,1 si apre con un verbo che già abbiamo incontrato in 4,18: 'Idën, participio aoristo di Ñr£w, che esclude un guardare generico, ma sottolinea come questo sia in realtà una sorta di selezione ed elezione che Gesù opera.
Abbiamo visto nella nostra precedente opera[3] come queste folle anonime formano da sfondo al peregrinare di Gesù e abbiamo evidenziato come esse fossero costituite da anonimi discepoli, che provavano interesse per la figura di Gesù e il suo messaggio, senza per questo uscire dal loro anonimato con un preciso impegno pubblico di sequela. Esse rappresentano, in qualche modo, le folle dei futuri credenti. Per questo Gesù le guarda con attenzione, quasi abbracciandole con il suo sguardo.
L'interesse di Gesù per le folle è provato dal suo lamento su Gerusalemme, da cui traspare il suo intento di radunare i figli di Israele attorno a sé (Mt 23,37); ne prova compassione[4] (Mt 9,36; 14,14; 15,32); cammina in mezzo ad esse guarendo le loro infermità[5]. Ma è soprattutto l'anelito missionario con cui si chiude il racconto matteano ad evidenziare il particolare interesse di Gesù per questa categoria di persone (28,19-29).
Quell' 'Idën, dunque, è un guardare che lega profondamente Gesù alle folle e lo coinvolge nel suo più profondo sentire verso di loro. Non a caso, infatti, per ben due volte il verbo splagcn…zomai (sono mosso a compassione), rivolto alle folle, è preceduto dal verbo Ñr£w (9,36; 14,14).
Dopo aver raccolto attorno a sé le folle, abbracciate con il suo sguardo, Gesù compie significativamente tre azioni consecutive: sale sul monte, vi si siede sopra e apre la sua bocca. Questa scena sottende due significati profondi: da un lato, ci riporta alla figura di Mosé, che salito sul Sinai va ad accogliere la Parola di Jhwh e la ammannisce al popolo (Es 24,12-13), raccolto ai piedi del monte; dall'altro, il porsi di Gesù sul monte e il sedervisi sopra, aprendo la sua bocca, ci richiama Jhwh che sul monte impartisce la sua Torah, il suo insegnamento al suo popolo (Es 19,18-20), quasi a dire che in Gesù non solo viene raffigurato il nuovo Mosé, ma ne viene anche sancito il suo superamento, poiché in Gesù è Dio stesso che parla ora direttamente al suo popolo, senza più bisogno di intermediari.
Un'ultima scena presenta i discepoli che si avvicinano a Gesù. Questa nuova figura compare per la prima volta qui in 5,1 ed è qualificata da due elementi: dal verbo avvicinarsi (prosÁlqan) e dall'aggettivo possessivo suoi (aÙtoà). I veri discepoli, dunque, sono coloro che compiono la scelta di avvicinarsi a Gesù e di condividere con lui la sua vita e la sua missione, così che essi diventano suoi, nel senso che gli appartengono e fanno un tutt'uno con lui. Questo particolare aspetto ci richiama ad Es. 19,5: "Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli ...". L'ascolto accogliente della Parola, dunque, trasforma Israele in proprietà divina, divenendo in qualche modo parte di Dio stesso e compartecipe della sua vita. Vedremo come anche negli Atti degli Apostoli, tornerà questo criterio di intima appartenenza, quando Pietro afferma che Gesù, dopo la sua risurrezione, apparve "non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui ..." (At 10,41), così come la scelta dell'apostolo, che destinato a sostituire Giuda, doveva compiersi soltanto tra coloro che avevano condiviso fedelmente il cammino terreno di Gesù (At 1,21-22). I discepoli, quindi, si distinguono dalle folle, che sembrano rimanere ai piedi del monte, chiuse nel loro anonimato, proprio per quell'intimo rapporto con Gesù, che li lega a lui e li qualifica come "suoi". Da lui ricevono l'insegnamento, che poi dovranno, a loro volta, impartire a tutte le genti (28,19a), così che il discepolo nel tempo dopo Gesù si qualificherà come la sua fedele prosecuzione.
vv. 5, 3-12: questi versetti riportano quelle che la tradizione chiama le beatitudini; esse definiscono la nuova identità del vero credente.
Il tema della beatitudine non è sconosciuto all'A.T. che per 45 volte ripete l'espressione 'ashré, beato, di cui 25 si trovano nei salmi. L'intonazione di questa proclamazione è di tipo sapienziale[6]. Non a caso infatti essa si riscontra prevalentemente in tali libri: Tobia, Giobbe, Salmi, Proverbi, Siracide, ma anche in Deuteronomio (33,29) e soltanto una volta in alcuni profeti come Isaia (56,2), Baruc (4,4), Daniele (12,12) e Malachia (3,12).
Similmente nel N.T. il termine mak£rioj, beato, ricorre circa una cinquantina di volte. Tuttavia, mentre nell'A.T. la beatitudine nasce dalla corretta conformazione della propria vita alla Torah e dal giusto rapportarsi del credente a Jhwh, nel N.T. è Gesù che definisce i parametri della beatitudine e lui ne diventa il polo catalizzatore e determinante. Gesù, dunque, senza avere la pretesa di sostituirsi alla Torah e a Jhwh, si costituisce come l'elemento che riepiloga in sé l'antico (Mt 5,17-19), rilanciandolo in modo nuovo e irripetibile (Mt 5,21-48), diventando lui stesso l'unico parametro con cui il credente, da questo momento in poi, è chiamato a confrontarsi e su cui riconformarsi (Gv. 14,6; 15,6; Mt 12,30), così che Gesù stesso definisce beato chi non si scandalizza di lui (Mt 11,6; Lc 7,23).
L'attributo viene sempre riferito, sia nell'A.T. che nel N.T. , all'uomo[7], e sottolinea il corretto rapporto che egli intrattiene con il suo Dio, ponendolo sulla linea della giustizia gradita a Dio. E' proprio questo che lo rende beato, cioè ben voluto da Dio e a Lui, in qualche modo, configurato. Il termine beato, dunque, indica che l'uomo è giusto, cioè conforme alla volontà divina, e lo colloca nella sua alea, anticipando nell'oggi quella beatitudine futura, che è condivisione piena e definitiva della vita di Dio.
I vv. 5,3-12, introdotti da 5,1-2 e posti nel loro contesto, formano una sorta di parallelismo con Es 19,5-6. Israele, liberato dall'oppressione egiziana, viene condotto da Dio ai piedi del Sinai e da Lui attratto a sé (Es 19,4). E quella che era un'anonima accozzaglia di schiavi riceve proprio qui, ai piedi del Sinai, una nuova identità: "Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli israeliti" (Es 19,5-6).
"Se vorrete ascoltare ...", la frase è posta al condizionale: Dio non impone niente, ma rimanda la sua offerta di salvezza alla libera scelta dell'uomo. Da questo ascoltare accogliente nasce la nuova identità. E', pertanto, il Dabar, la Parola creatrice, che, se accolta, trasforma l'uomo, rigenerandolo e ricollocandolo nella stessa dimensione divina (nazione santa) e lo costituisce sacro mediatore di Dio in mezzo agli uomini (regno di sacerdoti). Una nuova identità, dunque, in cui è racchiusa anche una missione.
Similmente avviene anche qui in 5,3-12: chi si avvicina a Gesù e ne accoglie esistenzialmente la Parola viene trasformato in suo discepolo (Mt 5,1b), cioè proprietà di Gesù, di cui fa parte, condividendone in tal modo la vita e assumendone l'identità[8], i cui tratti essenziali sono qui delineati.
E' molto probabile che in 5,3-12 Matteo abbia raccolto e sistemato in un unico discorso i vari "beati", che Gesù doveva aver disseminato nel corso della sua intera missione. Si crea in tal modo una forte concatenazione di macarismi[9] paradossali, che urtano contro le logiche del vecchio mondo, e dai quali viene tratteggiata la figura del nuovo credente, così come pensata da Gesù o, quanto meno, in linea con il suo pensiero.
Strutturalmente i vv. 5,3-12 sono divisibili in tre parti:
· 5,3-10: le beatitudini propriamente dette sono composte da otto enunciazioni, raccolte e delimitate da una inclusione in 5,1b e in 5,10b: poiché di loro è il regno dei cieli.
· 5,11: ripresa e sviluppo di 5,10 e conclusione dei vv. 5,3-10, con verbi posti tutti al futuro, che richiamano il tempo della chiesa dopo Gesù e certamente rispecchiano la situazione in cui si veniva a trovare la comunità matteana;
· 5,12: versetto complementare di 5,11 che delinea l'atteggiamento proprio del nuovo credente, con verbi posti al presente, nella prima parte; mentre nella seconda parte non viene enunciato nessun verbo, che però potrebbe essere posto sia al presente che al futuro, quasi a voler abbracciare il credente di ogni tempo.
Ogni beatitudine è strutturata in due parti: a) enunciazione della beatitudine (beati) seguita dalla definizione di chi è beato. In questa prima parte i verbi sono sempre posti al presente, per indicare come un certo modo di vivere deve sempre caratterizzare e contraddistinguere, hinc et nunc, il vero e nuovo credente di ogni tempo e latitudine; b) enunciazione delle conseguenze di tale beatitudine, quasi una sorta di naturale evoluzione dello stato esistenziale definito in a). I verbi in b) sono sempre posti al futuro, proiettando il credente nella realtà divina del nuovo mondo, che Gesù sta preparando e che inaugurerà nella sua morte-risurrezione, a cui essi fin d'ora sono in qualche modo associati, grazie al loro stato di vita (Rm 6,3-6; 8,17-18). Per questo essi sono beati, perché partecipi e appartenenti al mondo divino. In tal senso le beatitudini collocano i credenti in un orizzonte escatologico.
In questa seconda parte della beatitudine soltanto due verbi sono posti al presente: nei vv. 5,3b e 5,10b per indicare che questo nuovo e paradossale stile di vita colloca fin da subito il credente nel regno dei cieli, che è la dimensione divina stessa, qualificandolo in tal modo come beato.
Si è detto sopra come i vv. 5,1b e 5,10b formano tra loro inclusione dando compattezza letteraria alle otto beatitudini. Tale unità è tuttavia scandita in due momenti dai vv. 6 e 10, che contengono un comune riferimento alla giustizia, ma con diversa prospettiva, individuale l'uno (v. 6), sociale l'altro (v. 10). In tal modo il corpo delle beatitudini viene diviso in due parti: la prima, 5,3-6, riguarda il beato in rapporto a se stesso ed è sottesa e qualificata da chi ha fame e sete di giustizia; il secondo, 5,7-10, coglie il beato in relazione agli altri e lo fa da questi un perseguitato per la sua sete e fame di giustizia:
· poveri
· sofferenti
· miti
· bramosi di giustizia
· misericordiosi
· puri di cuore
· costruttori di pace
· perseguitati a causa della giustizia
Beati i poveri in spirito[10]. Così si apre la prima beatitudine, forse la più importante sia perché posta in prima posizione da Matteo, ma forse ancor più perché il termine povero ('ani) in ebraico abbraccia una vasta gamma di significati, tutti dipendenti da uno stato di contingenza materiale, che mette il povero in una triste condizione personale e sociale.
La parola povero, tradotta nei LXX con ptwcÒj, è spesso associata ed esplicitata con espressioni quali indigente, orfano, vedova, forestiero, misero, umile, oppresso, afflitto, stanco, infelice, solo, sofferente, gemente, debole; prigioniero, schiavo. Ma povero è anche colui che passa la sua vita nel dolore (Sal 30,11; 87,10) ed ha un cuore ferito nell'intimo (Sal 108,22), mentre fatica nelle sue privazioni per non cadere nell'indigenza (Sir 31,4). Il Siracide dà una significativa definizione dello stato di povertà: "C'è chi è debole e ha bisogno di soccorso, chi è privo di beni e ricco di miseria" (Sir 11,12a). Sono tutte espressioni che mostrano l'identico e triste volto della povertà, il cui solo ricordo rattrista profondamente la vita di chi l'ha sperimentata (Lam 3,9).
Benché, secondo il pensiero veterotestamentario, ricchezza e povertà provengano in ugual modo dal Signore e si incontrino tra loro (Sir 11,14; Prv 22,2), tuttavia ben diversa è la loro sorte, che le vede sempre nettamente contrapposte l'una all'altra in un rapporto di forze impari a tutto svantaggio del povero, angariato e schiacciato dall'avidità e dall'orgoglio del ricco[11]. Proprio per questo l'A.T. si mostra sensibile alla categoria dei poveri, a favore dei quali la stessa Torah impone attenzioni particolari[12]. Sui di essi veglia Jhwh e prende le loro difese[13], impegnando se stesso a loro favore (Sal 11,6; 34,10), restituendo loro la dignità violata dal loro stato di povertà[14]. Così godrà della benedizione del Signore chi si mostra benevolo verso i poveri e soccorre gli indigenti[15], anzi l'accudire i poveri diventa un vero e proprio atto di culto gradito a Dio (Prv 14,31b), mentre chi li disprezza offende direttamente Dio (Prv 14,31a; 17,5a), che ascolta il grido del povero e viene in suo aiuto[16]. A loro, infatti, è riservato il messaggio di salvezza e di riscatto (Is 61,1), Jhwh è il loro futuro, il loro riposo e la loro ricompensa (Is 41,17).
Per il N.T. il concetto di povero, radicato prevalentemente nell'assenza di beni materiali e necessari per una vita dignitosa, viene esteso ad altre categorie ad esso assimilabili, come i ciechi, sordi, storpi, lebbrosi, oppressi, prigionieri, vedove, orfani, paralitici, morti. Povertà, quindi, intesa anche come stato di degrado fisico e materiale, metafora e simbolo di quello morale e spirituale. Gesù è venuto proprio per restituire dignità a questa un'umanità esistenzialmente degradata; per questo egli siede a mensa con questa categoria di persone (Mt 9,10-12) e nelle sue parabole li fa convocare al banchetto del re (Mt 22,8-10; Lc 14,21). Anzi, proprio la particolare cura ed attenzione che Gesù rivolge a loro diventa il segno inequivocabile che il regno di Dio è venuto in mezzo agli uomini e i tempi messianici sono giunti a compimento (Mt 11,2-6; Lc 7,20-22). Ad essi, infatti, è riservato l'annuncio di salvezza e il tempo del riscatto (Lc 4,18).
Ma nel messaggio di Gesù la povertà acquista una nuova dignità, sconosciuta fino a quel momento, che conduce l'uomo che l'abbraccia ad uno stato di perfezione, così che essa diventa la condizione necessaria per seguire Gesù[17], il quale non ha una pietra ove posare il capo (Mt 8,20). E' necessario, infatti, per Gesù liberarsi dall'attaccamento dei beni terreni per poter abbracciare pienamente e degnamente la sua causa, che porta l'uomo ad un livello di vita superiore e compiuto. Ma per Gesù non è sufficiente questo primo livello di povertà materiale per poterlo seguire e raggiungere in tal modo la perfezione di vita. Serve un ulteriore passo: lo spogliarsi del proprio modo di pensare e di giudicare e di vedere le cose, per assumere quello proprio di Dio; è necessario collocarsi dalla parte di Dio e vedere le cose dalla sua prospettiva[18].
C'è in tutto ciò un salto di qualità sostanziale: dalla povertà materiale ad una interiore, che coinvolge l'intera persona ad ogni livello, così che la rinuncia dei beni materiali diventa la testimonianza e il segno concreto, potremmo dire il segno sacramentale di una profonda evoluzione e mutazione interiori: dalle cose a Dio; dalle logiche umane a quelle divine.
In questa prospettiva la povertà diventa sinonimo di libertà spesa per il Regno; e ciò che prima era il segno tangibile del degrado di un'umanità travolta e umiliata dal peccato, diventa ora la chiave essenziale per poter accedere alla dimensione divina. Gesù ricorderà questo aspetto in due parabole: quella del tesoro nascosto e della perla preziosa. Chi li trova si spoglia di ogni suo bene pur di averli (Mt 13,44-46). La povertà in tal modo diventa la nuova dimensione di salvezza, lo spazio necessario che l'uomo riserva in sé per il suo Dio. In tal senso Paolo esclamerà: "Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte" (2Cor 12,9b-10). Un paradosso che trova la sua logica nelle parole di Cristo stesso, rivolte all'apostolo: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2Cor 12,9a).
La povertà, pertanto, diventa un tratto essenziale e indispensabile, che deve caratterizzare lo stile di vita proprio del discepolo. Per il Gesù matteano, infatti, la povertà, intesa come penuria di beni, non è sufficiente per ereditare il regno. Essa deve designarsi come un atteggiamento interiore che coinvolge la persona ad ogni livello e deve trovare le sue radici più profonde nel cuore stesso dell'uomo. Per questo Matteo sottolinea, a differenza di Luca, beati i poveri nello spirito. La povertà, pertanto, configura il credente come appartenente al regno dei cieli, che è la dimensione stessa di Dio; un'appartenenza che si attua hinc et nunc e che non ha bisogno di attendere la fine dei tempi. Si tratta, dunque, di una escatologia già in atto anche se non ancora pienamente compiuta. Il verbo infatti, "loro è il regno dei cieli", è posto al presente, a differenza delle altre sei beatitudini (vv. 4-9), in cui il verbo, al futuro, rimanda la pienezza del compimento in una diversa dimensione, le cui dinamiche tuttavia sono già in azione qui nel presente e sono implicite nel segno della povertà.
La povertà diventa il sacramento della presenza del Regno, l'annuncio che l'umanità e la sua storia sono entrate in una nuova fase, quella escatologica, in cui ognuno sarà giudicato in base alla sua opzione esistenziale di fondo (Mt 6,21): o per Dio o contro di Dio, poiché nessuno può servire a due padroni con esigenze così nettamente contrapposte (Mt 6,24; Lc 16,13). Tutte le altre sette beatitudini altro non sono che delle varianti sul tema della povertà, i diversi volti poliedrici dello stato di povertà.
Ma ciò che caratterizza la vera povertà e le consegna il certificato di autenticità è la fame e sete di giustizia. Fame e sete sono i primi due bisogni fondamentali propri di ogni essere vivente, uomo o animale che sia. Esse si radicano nella natura stessa e formano la base del primordiale istinto di sopravvivenza. Senza lo stimolo della fame e della sete l'essere vivente perirebbe in brevissimo tempo e ogni specie si estinguerebbe.
Ricorrendo, pertanto, alla metafora della fame e della sete Matteo intende legare e radicare il bisogno di giustizia nella parte più vitale e profonda dell'uomo, quasi a dire che essa fa parte della natura stessa del vero credente e ne è il segno distintivo, anzi ne è la conditio sine qua non .. L'autenticità della vera povertà non si misura, quindi, sul possedimento o meno dei beni materiali, ma sul bisogno profondo di una vita fondata sulla giustizia.
Il termine giustizia, dikaiosÚnh, si riscontra nell'A.T. 292 volte e ha un ampio spettro di applicazioni. Essa è rivolta indistintamente a Dio e all'uomo ed è colta come un elemento qualificante del rapporto inscindibile e solidale che lega Dio agli uomini e gli uomini tra loro.
Innanzitutto Dio è la Giustizia stessa per eccellenza, da cui ha origine ogni altra giustizia. Essa si manifesta nei confronti dell'uomo sotto forma e sinonimia di fedeltà, misericordia, grazia, bontà, salvezza, benevolenza, favore, verità, rettitudine nel giudicare ed equità nel retribuire il giusto e il peccatore. È alla base del dono di pace, di alleanza e del potere stesso di Dio ed è il luogo della manifestazione della sua gloria e della sua santità. È fonte di vita per l'uomo, su di essa si basa il governo del mondo ed è il segno della lealtà divina[19].
Tale giustizia di Dio, rivolta verso l'uomo, reclama ed esige, a sua volta, una risposta concreta da parte dello stesso. Questa si pone necessariamente su due livelli tra loro vincolati da un inscindibile principio di solidarietà, per cui non può esistere l'uno senza l'altro: nei confronti di Dio e del prossimo.
La giustizia dell'uomo si manifesta nei confronti di Dio nell'aprirsi esistenzialmente a Lui nella fede e nell'accordargli fiducia; nell'osservare la sua via e nell'eseguire la sua giustizia e i suoi decreti. Giustizia è servirlo con integrità, fedeltà e rettitudine di cuore; nel ricordarsi del Signore, nel non peccare, compiendo invece il bene, convertendosi e operando la giustizia davanti a Lui, amandolo nella verità, offrendogli sacrifici di giustizia e confidando in Lui; nell'agire con retta coscienza e rettitudine di vita, ed è ciò che Dio si attende dall'uomo. In tal modo, questa giustizia aprirà l'uomo a Dio e ne farà contemplare il volto. Una giustizia che si fa ricerca del bene, introducendo l'uomo nelle vie del bene e si fa porta attraverso cui egli raggiungerà il suo Dio in un canto di lode e di ringraziamento. In tal modo essa diventerà atto di culto a Dio e riflesso della sua giustizia. Ma la perfezione della giustizia è conoscere Dio, ricercarlo ogni giorno, bramare di conoscere le sue vie e desiderare la sua vicinanza[20].
Se tutto ciò pone l'uomo in un giusto rapporto con Dio, tale rapporto può trovare la sua correttezza, la sua completezza e la sua piena giustificazione soltanto se questa giustizia si riflette anche nel rapporto dell'uomo con il suo prossimo.
Nel suo linguaggio concreto e figurato l'A.T. definisce il giusto come colui che "cammina nella giustizia e parla con lealtà, chi rigetta un guadagno frutto di angherie, scuote le mani per non accettare regali, si tura le orecchie per non udire fatti di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male" (Is 33,15). Esso, dunque, è la persona retta di cuore, che cammina alla luce del Signore, spendendo la propria vita per l'affermazione di chi è oppresso dall'iniquità e dall'ingiustizia (Ger 22,3). Così che la giustizia gradita a Dio è il digiuno, cioè l'astenersi non tanto dal cibo, ma da una vita iniqua, spesa a danno del prossimo: "Non è forse questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire chi è nudo, senza distogliere gli occhi dalla tua gente? Allora la tua luce sorgerà come l'aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà" (Is 58,6-8).
Chi ha fame e sete di giustizia viene inserito nel ciclo vitale di Dio stesso, ne viene configurato e si qualifica come il riflesso di Dio in mezzo agli uomini. Per questo l'uomo giusto è essenzialmente un povero, cioè uno libero dalla materialità delle cose e dal dominio dei propri egoismi e dei propri interessi, diventando spazio riservato a Dio e agli uomini, luogo della loro abitazione. Ma è anche proprio per questo che egli subirà delle persecuzioni (Mt 5,10), per la sua dissonanza con il mondo. Anzi saranno proprio le persecuzioni a causa della sua giustizia, che certificheranno l'autenticità di tale giustizia e lo costituiranno autentico discepolo di Gesù (Gv 15,20).
vv. 5,11-12: questi due versetti sono posti a conclusione di 5,3-10 e per darne continuità logica il v. 11 riprende il v. 10, precisando il significato di persecuzione: persecuzione sono lo scherno e le malvagità calunniose a cui saranno sottoposti i credenti in Cristo, con tutte le conseguenze sociali, civili e religiosi che tutto ciò comporta, in particolar modo l'espulsione dalla sinagoga, che decretava la morte civile e religiosa dell'espulso[21].
Questa breve pericope sembra essere, più che parole prese dalla predicazione di Gesù, un apposito inserto redazionale voluto da Matteo per rispondere alle sofferenze a cui era sottoposta la sua comunità, formata da giudeo-cristiani. Infatti, il contesto in cui questi due versetti ci collocano è quello proprio del tempo successivo a Gesù: i verbi della persecuzione sono posti al futuro, rispetto al tempo della predicazione di Gesù, mentre la causa è l'aver scelto di credere in Gesù, abbandonando il vecchio credo giudaico. Quindi anche i credenti futuri sono partecipi dello stato di beatitudine proclamato a suo tempo da Gesù, beati siete, da cui nasce un'intima e profonda gioia ed esultanza, che vincono lo stesso stato di sofferenza.
Questa contrapposizione di persecuzione-sofferenza (v. 11b) e gioia esultante (v. 12a), che introducono il credente in uno stato di beatitudine (v. 11a) richiama da vicino la morte e risurrezione di Gesù e la sua entrata definitiva nella beatitudine eterna nell'ascensione, a cui il vero discepolo è associato[22] per la sua stessa natura di credente[23].
vv. 5,13-16: con i vv. 5,3-12 Matteo ha delineato la nuova identità del vero credente (vv. 3-10), che viene associato a Cristo, morto-risorto-asceso al cielo (vv. 11-12). Ora con questa pericope (5,13-16) l'autore definisce la posizione del discepolo nel mondo e la sua missione verso gli uomini. Vi è pertanto una continuità logica tra 5,3-12 e 5,13-16, che viene sottolineata dalla ripresa del pronome voi, con cui termina il v. 12 (prÕ Ømîn), da parte del v.13 (`Ume‹j). Le due pericopi confluiscono così l'una nell'altra completandosi a vicenda.
Questi quattro versetti (13-16) raccolgono due detti di Gesù, che definiscono la natura missionaria dei nuovi credenti, i quali, posti in mezzo agli uomini, necessariamente sono chiamati a spendersi per loro. Un forte richiamo, dunque, che Matteo rivolge alla sua comunità, la cui vita era resa dura da una persecuzione, che rischiava di isolarla e di rinchiuderla in se stessa[24]. Il respiro di questi versetti, infatti, è squisitamente missionario e la spinge ad impastarsi con gli uomini, verso i quali è mandata (28,19-20).
Il v. 13 è posto in parallelo con i vv. 14-16 e benché apparentemente simili tra loro, tuttavia, essi si riferiscono a posizioni diverse: il v. 13 si rivolge al credente singolo, in quanto persona che ha operato una certa scelta, grazie alla quale fa parte ora della nuova comunità messianica; mentre i vv. 14-16 pongono il credente nei confronti degli uomini in genere. Il denominatore che li accomuna è la loro posizione nei confronti della comunità e nei confronti del mondo.
Quanto al v. 13, esso definisce un aspetto della natura del credente, per essere stimato tale ed essere considerato un membro degno della nuova comunità. Egli deve essere sale e se tale non è più (qualora diventi insipido), perde la sua identità all'interno della comunità, diventandone un corpo estraneo (ha valore per il nulla), per questo egli viene espulso dalla comunità (ha valore se non per essere gettato fuori); e proprio a seguito di questo suo fallimento non può che trovare disprezzo presso gli uomini (ed essere calpestato dagli uomini), da cui prima si distingueva. Al di fuori della comunità, infatti, il discepolo, da un lato, perdeva la propria identità, poiché non era più stimato suo membro; dall'altro non poteva più rientrare neppure nella comune società giudaica, in quanto considerato apostata e traditore, né poteva pensare di associarsi alla comunità pagana, della quale non ha mai fatto parte e che culturalmente aveva sempre disprezzato, mentre religiosamente si era sempre sentito estraneo. In altre parole non era più né carne né pesce e sia religiosamente che socialmente poteva considerarsi finito.
Questa prassi dell'espulsione dalla comunità doveva essere già presente presso la comunità matteana; essa ci viene ricordata in 18,15-17, in cui vengono elencati i vari gradi della correzione fraterna: "... Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano" (18,17)
Una simile prassi non è nuova nel variegato mondo giudaico e ci richiama da vicino il comportamento degli Esseni nei confronti di quei membri della comunità che commettevano delle gravi mancanze. Questi venivano espulsi dalla comunità, così che il loro triste destino era segnato[25].
I vv. 14-16 delineano similmente il comportamento dei membri della nuova comunità sia al proprio interno (v. 15) che nei confronti degli uomini (vv. 14.16). Duplice quindi è qui la dimensione considerata. Il v. 14, come il suo corrispondente v. 13, si apre con un'affermazione che sottolinea la nuova natura del credente: "Voi siete la luce del mondo" - "Voi siete il sale della terra". L'enfasi delle due espressioni cade su quel "Voi siete", che evidenzia la nuova natura (il verbo essere rimanda allo stato ontologico del discepolo) che i credenti possiedono ora e che si contrappone alla terra e al mondo, verso i quali essi si qualificano come sale e luce, mentre acquista il proprio senso il loro essere sale e luce. Si noti come Matteo non dice "Voi siete come il sale" o "Voi siete come la luce", ma "siete sale; siete luce", rimarcando, da un lato, la nuova condizione esistenziale, che scaturisce dalla fede nel Cristo risorto e in cui il credente è collocato; dall'altro delineando il senso missionario del loro vivere in mezzo ai pagani.
Nei vv. 14-16 i credenti, che qui sono colti nella loro dimensione comunitaria, sono definiti in duplice modo: luce e lucerna. Il significato è identico, poiché anche la lucerna ha a che fare con la luce che illumina, ma diversa è la loro illuminazione. In quanto luce la comunità è riferita al mondo e deve rendersi visibile in mezzo agli uomini come una città che è posta sul monte; mentre i singoli credenti, definiti nei loro rapporti intracomunitari, sono chiamati ad essere come una lucerna nei confronti dei membri che abitano la casa comune. La luce, quindi, deve brillare sia all'interno che all'esterno della comunità, benché l'accento cada preferibilmente sul concetto di una comunità testimone della luce del Risorto nei confronti del mondo (vv. 14.16). E' significativo, inoltre, come il v. 15, riguardante il corretto comportamento del nuovo credente all'interno della propria comunità, così da esserne lampada che illumina, sia posto al centro dei due versetti che riguardano il brillare della comunità nei confronti del mondo, quasi a dire che la luce che illumina gli uomini deve partire dall'interno della comunità, per poi irradiarsi su tutti. E' una luce, quindi, che sgorga dall'intimo stesso di ogni credente, radicato nel Cristo risorto, che permea l'intera comunità, espandendosi, poi, sul mondo.
Benché, quindi, l'attenzione venga incentrata sul compito dell'intera comunità di illuminare gli uomini, tuttavia il fondamento e la responsabilità della comunità sono demandati ad ogni suo singolo componente. Solo se questo brilla della luce del Risorto, l'intera comunità ne sarà illuminata e diventerà luce per il mondo.
Strettamente legato a questo concetto, quasi a formarne una sorta di inclusione, sono i vv. 6,22-24: "La lucerna del corpo è l'occhio. Pertanto se il tuo occhio è puro, tutto quanto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto quanto il tuo corpo sarà tenebroso. Pertanto se la luce in te è tenebra, quanto grande la tenebra". Anche qui si parla di lucerna attribuita all'occhio, colto come la parte responsabile della luminosità dell'intero corpo, o meglio come il mezzo attraverso cui viene veicolata la luminosità interiore dello spirito. La luce e la sua luminosità, quindi, sono sempre un fatto spirituale, che nasce dallo stretto rapporto del credente con il Risorto, su cui egli ha riparametrato e conformato il proprio vivere.
Il v. 5,16 chiude il discorso sul senso della missione, che caratterizza la comunità credente e i suoi singoli componenti, sottolineando la necessità della testimonianza, espressa da quel "davanti agli uomini". Si noti come il verbo "brillerà" è posto al futuro rispetto al presente del "voi siete il sale ... voi siete la luce". Ciò significa che Il credente è già posto in uno stato esistenziale nuovo, solo per il fatto di essere diventato discepolo di Gesù ed averlo accolto nella propria vita per mezzo della fede; mentre il "brillerà" indica la sua missione, il compito che lo aspetta dopo la dipartita del suo maestro; quasi a dire che quella luce accesa con la risurrezione di Cristo, deve ora riflettersi nel credente ed espandersi a tutti gli uomini, così che il credente diventa testimonianza e proseguimento di quella luce.
La conseguenza immediata di questa luce è il vedere: "perché vedano", cioè l'accorgersi di una nuova dimensione che ha incominciato a palpitare in mezzo agli uomini e li induce a cogliere attraverso "le vostre opere buone" l'agire stesso di Dio tra di loro. Queste opere buone operate dal credente richiamano da vicino il costante ritornello della creazione: "E Dio vide che ciò era cosa buona". La bontà della cosa creata dice come questa sia conforme al volere di Dio e in qualche modo ne riflette la luce. Le opere buone compiute dal credente mettono questo sulla stessa linea creatrice di Dio, lasciando trasparire da queste la nuova creazione che si sta attuando proprio attraverso le sue opere buone.
E' significativo come l'atto creatore di Dio incominci proprio con la luce (Gen 1,3), questo spazio, questo contesto divino in cui, poi, viene collocata l'intera creazione, che per ciò stesso diviene cosa buona, perché permeata della stessa gloria divina (Rm 1,20). Così il compiersi delle opere buone da parte del discepolo diventa la nuova dimensione in cui l'intera umanità, rigenerata dalla risurrezione di Cristo, è chiamata ad entrare. E sono proprio queste opere buone, che generano un nuovo spazio divino in mezzo agli uomini, che diventano la causa di una nuova umanità rivolta verso Dio in un unico atto di lode, così che "onorino il Padre vostro, che è nei cieli".
vv. 5,17-20: con questi versetti entriamo nel cuore del grande discorso della montagna. Esso, delimitato dall'inclusione "La Legge e i Profeti" in 5,17 e 7,12, delinea il nuovo stile di vita che i credenti devono far trasparire dal loro modo di vivere.
Da un punto di vista narrativo, essi assolvono ad una quadruplice funzione: a) presentano il senso della missione di Gesù nei confronti del Giudaismo (5,17); b) sono un forte richiamo a quella parte di comunità, che in virtù della nuova predicazione e della nuova fede riteneva la Legge mosaica ormai superata (5,17-19); c) lasciano trasparire la forte polemica in atto tra il nascente cristianesimo e il giudaismo (5,20), che meglio apparirà in 5,21-48; d) fungono da introduzione alle sei antitesi (5,21-48);
La struttura di questa breve pericope sembra presentare una certo parallelismo concentrico per contrapposizione dei vv. 17 e 20:
A - Le Scritture ricevono in Gesù il loro senso pieno e compiuto (v. 17);
B - La Scrittura va sempre osservata scrupolosamente senza eccezioni (vv. 18-19);
A' - La Scrittura, così come vissuta dal Giudaismo, che prescinde da Gesù, è priva
della sua pienezza e non è utile al conseguimento di una giustizia superiore (v. 20).
I vv. 17 e 20 vanno pertanto colti in stretta correlazione tra loro e danno la chiave di lettura della ormai aperta polemica che si era innescata tra la comunità matteana e il Giudaismo[26]. Di certo vi è che la Scrittura con la venuta di Gesù non è stata superata, ma deve essere rivisitata e ricompresa alla luce della sua predicazione. Ricollocata pertanto in questo nuovo contesto, essa deve costituire un costante punto di riferimento per il nuovo credente. Non a caso questo elemento viene posto al centro della pericope. Infatti la questione centrale che si pone è quale valore hanno le Scritture dopo Gesù? Con la sua venuta esse hanno trovato il loro compimento e, pertanto, esaurito il loro compito? Chi è, infine, alla luce dei drammatici eventi che hanno sconvolto e posto fine ad un certo modo di intendere e vivere il giudaismo, il vero interprete della Torah? E, di conseguenza, dopo il disastro della guerra giudaica (66-73 d.C.) quale tipo di giudaismo si profila? L'intero cap. 23 di Matteo denuncia la dura polemica con la sinagoga, mentre il v. 23,2 lascia intravedere la questione su chi è il vero erede del giudaismo e, quindi, il suo vero interprete.
Questi dovevano essere gli interrogativi e la polemica che laceravano la comunità religiosa e civile di quel tempo e che traspaiono in particolar modo in Matteo e Giovanni.
Bastano questi brevi accenni per comprendere non solo la complessità tematica di questi versetti, apparentemente semplici e lineari, ma anche, da un punto di vista critico-letterario, la loro complessa formulazione. Essi infatti sembrano essere un’imbastitura di più detti di Gesù[27].
Il v. 17 si apre in modo velatamente polemico e lascia trasparire come all'interno della comunità matteana, composta prevalentemente da giudei convertiti al cristianesimo, fosse in qualche modo filtrata la convinzione che la venuta di Gesù avesse posto fine alla Legge mosaica e alle sue pretese e che un nuovo capitolo religioso e cultuale si fosse aperto per i nuovi discepoli[28]. Questo modo di pensare doveva creare certamente un qualche problema alla comunità e non di poco conto, se Matteo interviene in modo così deciso[29]. Quel "non crederete che ..." toglie dunque ogni dubbio e tronca ogni polemica o illazione. Matteo precisa subito il senso della venuta di Gesù: non abbattere, non distruggere, ma dare compimento. Il verbo qui usato per dire compimento è plhrÒw, che in Matteo ricorre almeno quindici volte[30] ed è utilizzato in questi casi esclusivamente per sottolineare come Gesù sia il compimento delle profezie e delle Scritture in genere[31]. Per Matteo, quindi, non c'è contrapposizione tra l'operare di Gesù e la tradizione religiosa e cultuale ebraica, ma l'una è in funzione dall'altro, così che Gesù non solo ne diventa la chiave interpretativa, ma dalla Scrittura viene illuminata la sua stessa persona. Era, infatti, questa la comprensione che la chiesa primitiva, alla luce della risurrezione, ebbe della figura di Gesù. Significativi in tal senso sono Lc 24,25-26 e Gv 20,9a.
Gesù e Scritture sono, dunque, per Matteo due realtà che si integrano e si illuminano reciprocamente, poiché entrambi sono l'unica e identica Parola uscita dal Padre, quell'unico Verbo che Giovanni (1,1-2) contempla nel principio eterno come rivolto verso il Padre (Ð lÒgoj Ãn prÕj tÕn qeÒn). E' dunque l'identica Parola che nel corso del tempo assume forme sacramentali diverse (creazione, alleanza, patriarchi, popolo, Torah, profeti e infine Gesù). In questa prospettiva Gesù diventa ad essere il punto ultimo culminate, pienamente perfetto, di una lenta e graduale incarnazione della Parola nella storia.
Posta in questi termini la figura di Gesù diventa il polo catalizzatore, in cui confluisce l'intera storia veterotestamentaria e con lei quella dell'intera umanità, mentre in lui queste ricevono il loro senso più pieno e compiuto. Perché la creazione? Perché la chiamata di Abramo? Perché la storia dei Patriarchi? Perché l'elezione di Israele? Perché la Terra Promessa? Perché i Profeti? Perché ... Ora tutto è chiaro perché tutto ha trovato il suo compimento nell'unico e irripetibile evento-Cristo, perché tutte le cose furono create per mezzo di lui e in vista di lui (Col 1,16c).
La chiesa primitiva, già fin dai primi decenni della sua esistenza, ci ha trasmesso questa sua convinzione, la centralità esclusiva di Cristo, in cui tutto si compie ed è stato compiuto secondo il progetto salvifico del Padre, che investe e coinvolge non solo l'intera umanità di ogni tempo, ma l'intero cosmo.
Cristo, innanzitutto, è colto come il preesistente insieme al Padre e sua immagine visibile (Col 1,15a) nonché irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3a). Generato prima di ogni creatura (Col 1,15b.17a; Gv 1,1-2) è diventato il luogo della nostra elezione ancor prima della creazione stessa (Ef 1,4). Lui, Verbo eterno del Padre (Gv 1,1-2), è concepito come lo strumento creatore per mezzo del quale tutto è stato creato, sia le realtà invisibili che quelle visibili (Col 1,16; Gv 1,3) e tutto l'esistente è stato chiamato all'esistenza in vista di lui e grazie a lui (Col 1,16c) e tutto in lui è posto e in lui sussiste (Col 1,17b). Questa centralità esclusiva ed unica di Cristo rivela il progetto segreto del Padre: fare di Cristo il luogo privilegiato della ricapitolazione di tutte le cose, siano esse visibili che invisibili (Ef 1,10). A lui quindi viene sottomesso tutto (Ef 1,22) perché in lui tutto venga ricondotto al Padre così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,24-28), come lo fu nei primordi della creazione, quando Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31), cioè risplendeva della sua stessa luce divina, in cui l'intera creazione era stata posta (Gn 1,3).
Questa centralità ricapitolatrice cosmica di Cristo diventa anche il luogo privilegiato in cui si attua e si compie pienamente quel disegno salvifico sognato e progettato dal Padre fin dall'eternità e che trova la sua attuazione piena e compiuta nella croce stessa (Ef 1,7): ricondurre l'uomo, redento e rigenerato, in seno a Dio. Non a caso Giovanni fa terminare la vicenda storica di Gesù sulla croce, mettendo sulle sue labbra quel tetšlestai: è compiuto (Gv 19,30b), proprio perché lì sulla croce trova il suo pieno e definitivo compimento il disegno redentivo del Padre, l'attuazione ultima, e quindi il senso pieno, della Legge e dei Profeti. E immediatamente l'evangelista fa seguire quel tetšlestai dall'ultimo atto del progetto redentivo: paršdwken tÕ pneàma, restituì lo Spirito (Gv 19,30c). Proprio perché ormai tutto è stato compiuto e ha trovato la sua pienezza sulla croce, ora non rimane che restituire al Padre l'anima stessa del suo progetto salvifico: lo Spirito Santo. Questo è l'estremo atto con cui si chiude definitivamente non solo l'avventura spazio-temporale di Gesù, ma sancisce anche il compimento pieno e definitivo del progetto redentivo, di cui lo Spirito, che accompagnò operativamente il Verbo eterno del Padre nel suo cammino storico (Lc 4,18-29) fin dal suo nascere (Mt 1,20; Lc 1,35), fu ed è il motore.
Il v. 18 si apre con un'affermazione di principio dall'intonazione solenne: "Pertanto in verità vi dico", da cui dipende la formulazione sentenziale del seguente v. 19. Il versetto in analisi, inoltre, ha uno stretto legame con il precedente v. 17, in cui si è visto come la venuta di Gesù sia finalizzata alla piena realizzazione delle Scritture. Tale legame è dato da due elementi: dal g£r, che aggancia in senso logico e conseguente il v. 18 al v. 17; e dall'espressione "›wj ¨n p£nta gšnhtai" del v. 18, che in qualche modo ci rimanda al significato primario della venuta di Gesù "¢ll¦ plhrîsai" di 5,17.
Il v. 18 pertanto potremmo definirlo come un momento di passaggio tra il v. 17 e il v. 19. Nel v. 17 si afferma che la venuta di Gesù dà pienezza "alla Legge e ai Profeti", creando in tal modo una continuità logico-complementare e storica all'interno del disegno di salvezza, mentre il v. 18 afferma "finché tutte le cose non accadano". Ma quali sono queste cose che devono accadere?
La comprensione che la chiesa primitiva ha avuto di Gesù, come abbiamo visto sopra, è quella della sua unicità, della sua centralità ricapitolatrice nel disegno di salvezza, quella di una presenza che dava piena attuazione e completezza a tutte le attese veterotestamentarie (Lc 2,25.29-32.38). Gesù, dunque, è percepito come il punto di arrivo e culminante della Scrittura stessa, da cui egli non solo viene illuminato e rivelato nel mistero della sua persona (Lc 24,27; Gv 20,9), ma egli stesso, la sua stessa persona nel suo attuarsi storico, diventa la rivelazione del segreto annuncio che la Scrittura racchiude in sé e che proprio Matteo, con abbondanza di citazione veterotestamentarie, vede compiersi in Gesù. In tal senso l'evento Gesù, il suo operare, la sua predicazione e la sua missione diventano il completamento unico e definitivo di quel lento e graduale incarnarsi storico della Parola e che troverà la sua piena e definitiva realizzazione proprio sulla croce: tetšlestai, è compiuto (Gv 19,30b). Quel disegno, dunque, concepito dal Padre fin dall'eternità, trova proprio qui la sua pienezza definitiva. Ma fintantoché tutto ciò non si compie, anche la Scrittura non può dirsi compiuta; anche la Scrittura è posta quindi in uno stato di attesa "finché tutto non si sia compiuto", finché Gesù, cioè, non avrà pronunciato il suo definitivo tetšlestai.
La "Legge e i Profeti" ha innanzitutto una validità e una cornice squisitamente storiche, date da quel "finché non sia passato il cielo e la terra" a cui è legata. La Legge, dunque, è associata alla dimensione spazio-temporale e opera validamente nel tempo "finché tutto non si sia compiuto", cioè fino alla venuta di Gesù e Gesù crocifisso, in cui si è attuato anche il tetšlestai delle Scritture. Paolo ricorda come "... il termine[32] della legge è Cristo, perché sia data giustizia a chiunque crede" (Rm 10,4), "... poiché se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano" (Gal 2,21b); "Perché allora la legge? Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa ..." (Gal 3,19), così che "prima che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati dalla fede" (Gal 3,23-24). Così che "... quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli" (Gal 4,4-5). In tal modo nella carne crocifissa di Cristo viene annullata la legge con tutte le sue prescrizioni, così che ogni barriera e ogni vincolo viene tolto di mezzo, perché tutti possano ritrovarsi liberamente nell'unico Cristo (Ef 2,15), in cui "Non c'è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna ..." poiché tutti noi siamo una sola cosa in lui (Gal 3,28).
Pertanto fino al tetšlestai della croce la Legge ha la sua piena validità ("non passerà dalla Legge neppure uno iota o un segno"), ma dal tetšlestai in poi essa viene riscritta in Cristo e in lui soltanto va riletta e ricompresa.
Matteo, pertanto, in questo contesto non sembra voler prorogare in modo indeterminato la validità della Legge veterotestamentaria, prescindendo da Cristo, ma ne afferma l'eterna validità soltanto in Cristo, dove ha trovato la sua piena pienezza e la sua nuova comprensione, che verrà presentata nelle sei antitesi immediatamente successive (5,21-48) e di cui la presente pericope è preparatoria.
Il v. 19, dal sapore sentenziale, è la traduzione pratica e conseguente dei due precedenti. Esso presenta al proprio interno un parallelismo caratteristico del modo di procedere della retorica ebraica, che qui pone a confronto il trasgredire con l'osservare, il minimo con il grande, il relativo con il tutto, evidenziando come il più piccolo dei comandamenti riesca a rendere piccolo chi non lo osserva, evidenziando in tal modo la grande forza spirituale che riveste questo comandamento, stimato piccolo dai sofismi umani, ma comunque grande, perché in esso si rispecchia e si esprime la volontà di Dio, che va sempre eseguita. Ma nel contempo si pongono in rilievo due correnti di pensiero, che dovevano essere in qualche modo presenti all'interno della comunità matteana: chi riteneva alcuni comandamenti di poco conto, così da poter essere trascurati e in tal modo relativizzati; altri, invece, sostenevano l'obbligatorietà dell'osservanza radicale di tutti i comandamenti, in tal modo assolutizzandoli[33].
Si noti inoltre come questa sentenza si dispieghi in due momenti i quali, benché tra loro radicalmente contrapposti, trovano tuttavia il loro comune punto di ricongiunzione nel verbo "insegnare". Per essere minimi o grandi non sembra sufficiente violare o eseguire, ma ci deve essere anche l'insegnare. E', quindi, il mio modo di porsi e di relazionarsi (insegnare) all'interno della comunità, colta qui come luogo del Regno dei cieli, che rende minimo o grande in essa.
Non è sufficiente una semplice violazione personale del comandamento per essere degradato, ma questa deve essere accompagnata (kaˆ) anche da un ammaestramento speso in tal senso. La violazione personale di per sé non sembra assumere qui un livello di gravità tale da condannare la persona, ipso facto, forse perché tale violazione è considerata frutto della stessa fragilità umana[34]; ma quando la violazione diventa pubblica testimonianza, che è una forma di ammaestramento, o peggio, l'errore viene trasmesso attraverso uno specifico insegnamento, allora vi è un radicamento in esso e una volontà precisa di espanderlo, che diventa pertanto motivo d'inciampo per l'altro.
Parimenti, l'osservare scrupolosamente i comandamenti nella propria vita privata non giova se ciò non è accompagnato da una pubblica testimonianza, poiché la lampada va sempre posta sul lucerniere perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa. In una comunità spiccatamente missionaria come quella di Matteo (Mt 28,16-20) in cui prevale sempre la dimensione comunitaria su quella personale (Mt 18,15-18), sembra venir imposto l'obbligo della testimonianza.
Matteo sembra qui risentire anche della propria cultura ebraica. In Israele infatti l'osservanza o la violazione della Torah non fu mai considerata un fatto privato, benché impegnasse personalmente ogni singolo israelita nella sua pratica, ma costantemente collettivo. L'alleanza sinaitica infatti fu un patto sancito con il popolo e la sua violazione è sempre stata colta prevalentemente come una colpa collettiva a cui seguiva sempre un castigo collettivo, come ce ne dà testimonianza lo stesso esilio babilonese (597-538 a.C.) e, ancor prima, la totale e definitiva distruzione del regno del nord (722 a.C.). In tutta la storia sacra Dio, poi, non parla mai alla singola persona, ma soltanto al popolo o ai suoi legittimi rappresentanti. Per questo l'insegnare è ciò che qualifica la violazione o l'osservanza, determinando la rispettiva posizione di ogni membro all'interno del Regno dei cieli, di cui la nuova comunità è sacramento.
Ma al di là dei contingenti aspetti storici che probabilmente agitavano la comunità di Matteo, vi è anche un altro elemento fondamentale, secondo l'evangelista, che dà ancora nuovo vigore e nuovo impulso alla Legge e ai Profeti, vincolando indistintamente il credente. Questo elemento è Cristo stesso in cui Legge e Profeti sono confluiti, trovando in lui il loro pieno e nuovo significato. Cristo infatti è il tetšlestai della Scrittura nonché la sua chiave di lettura. Per questo la Legge e i Profeti trovano in lui la loro eternità e, quindi, la loro eterna validità.
Il v. 20 ha un'intonazione spiccatamente polemica: il regno dei cieli richiede una giustizia decisamente superiore a quella praticata dagli scribi e dai farisei. Come dire che le nuove realtà portate da Cristo possiedono in se stesse delle esigenze e delle pretese che la Scrittura da sola non è in grado di soddisfare. Significativo in tal senso è il racconto matteano del giovane ricco (19,16-22) che chiede a Gesù cosa deve fare per avere la vita eterna; e Gesù gli risponde di osservare i comandamenti, tuttavia se il giovane vuole essere perfetto deve andare ben al di là di una rigorosa osservanza legalistica: egli deve abbandonare tutto, chiudere con il suo passato e seguire Gesù. Deve compiersi, quindi, una svolta inusitata, impensabile, traumatica, che se da un lato dice la radicale novità portata da Gesù, incompatibile con le esigenze veterotestamentarie (Mt 9,16-17), dall'altro fa capire come la Legge, pur nella sua santità, non riesce a dare quella perfezione, che solo la sequela di Cristo sa dare.
La questione di fondo, dunque, che il v. 20 pone è un confronto tra le nuove esigenze di giustizia portate da Gesù, a cui è chiamato a conformarsi il nuovo credente, e quelle invece predicate e praticate dai dottori della Legge, che qui vengono indicate come perdenti.
Ma che cosa si intende qui per giustizia? Il concetto di giustizia nel mondo ebraico, con particolare riferimento alla Bibbia, indica primariamente una relazione che si pone tra Jhwh e il suo popolo, che trova il suo fulcro primario nell'Alleanza. Infatti i termini sedeq e sedaqah, che letteralmente indicano la giustizia, la rettitudine, l'integrità, fanno sempre riferimento ad una norma, ed è tradotta nella LXX con dikaiosÚnh, espressione con cui abbiamo a che fare nel nostro testo in esame. Essa va ben oltre al nostro moderno concetto di giustizia, che esprime soltanto un "dare unicuique suum" e che richiama molto da vicino quanto dice S.Tommaso, secondo il quale la giustizia è "habitus secundum quem aliquis constanti et perpetua voluntate ius suum unicuique tribuit"[35]. Presso il mondo biblico essa ci rimanda alle azioni salvifiche di Dio, che esprimono e testimoniano la sua fedeltà all'Alleanza. Di conseguenza giusta è la persona che osserva fedelmente la Torah, in cui si colloca la stessa volontà divina; un'osservanza che si esprime e coinvolge non solo il rapporto di Dio con l'uomo, ma anche di questi con il proprio simile. Vediamo, dunque, come il concetto primario di giustizia presuppone una relazione, che si fa comunicazione e che ha come fulcro fondamentale di riferimento del proprio agire e del proprio vivere la stessa Legge, segno sacramentale dell'Alleanza[36].
Ebbene, questa giustizia, questa fedeltà alla Legge e ai Profeti deve essere qualitativamente e sostanzialmente diversa da come normalmente viene praticata dagli scribi e farisei.
Per il giudaismo l'osservanza della Torah si limitava ad una mera esecuzione formale di quanto essa comandava. Questa, infatti, esprime la volontà divina che, in quanto tale, attende solo di essere adempiuta. Non è primario quindi sviluppare su di essa una riflessione teologica, né capire perché Jhwh comanda determinate cose. Fondamentale, invece, è eseguire fedelmente e correttamente il commando, in cui è contenuta la volontà stessa di Dio. Significativo in tal senso è quanto risponde il popolo a Mosé: "Tutto quanto il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo"[37] (Es 24,7). L'accento in questa espressione cade sul faremo, soltanto dopo, in un secondo tempo, viene l'ascolto, cioè la riflessione su ciò che il Signore ha detto. Tuttavia tale riflessione non si traduce mai una speculazione filosofica o teologica, ma in una mera comprensione del comando per poterlo eseguire il più correttamente possibile[38]. Vi è dunque il primato dell'ortoprassi sulla teologia.
Similmente Luca nella sua parabola del fariseo e del pubblicano, ci presenta il primo che elenca davanti a Dio i suoi meriti: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come glia altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo" (Lc 18,11). Vediamo come la giustizia per questo fariseo consiste nell'eseguire fedelmente quanto Mosé aveva comandato. Questo legalismo, che doveva garantire la santità e la salvezza del pio israelita, in realtà renderà sterile il suo cuore nei confronti di Dio e provocherà la dura lamentela di Gesù: "Ipocriti, bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: questo popolo mi onora con le labbra, ma tiene il suo cuore lontano da me; ..." (Mt 15,7-8).
La giustizia superiore, di cui Matteo qui parla, è una fedeltà alla Parola che va al di là di una mera esecuzione legalistica. Essa, al contrario, deve profondamente coinvolgere nel cuore e nella vita il nuovo credente, così che cuore e vita siano plasmati dalla Legge e dai Profeti e da questa configurati, nella consapevolezza che oggi la Scrittura ha trovato il suo pieno compimento, il suo tetšlestai in Cristo stesso, morto e risorto, che includendola in se stesso ne ha dato nuovo impulso ed una nuova configurazione.
I vv. 5,21-48 si incaricheranno di dare concretezza alla novità della Legge in Cristo. Essa verrà colta al di là della lettera e ricompresa nell'ambito del messaggio rivelatore di Gesù, indicandoci in che cosa consista la giustizia superiore su cui i beati, cioè i nuovi credenti, sono chiamati a sintonizzarsi.
vv. 5, 21- 48: introdotti dai vv. 5,17-20, che ne forniscono la chiave di lettura, ora essi dànno corpo alla novità interpretativa portata da Cristo e ne sono una esemplificazione.
Qui il legalismo farisaico viene spezzato e la Legge viene liberata dalla schiavitù della lettera per essere agganciata alla profondità e alla sincerità del cuore, superando in tal modo la stessa fragilità dell'uomo, incapace per sua natura di darne pieno compimento, lasciandolo così schiavo del peccato (Rm 7,7-24). Proprio qui si attua la profezia di Ezechiele: "... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi" (Ez 36, 26-27).
C'è dunque un radicale cambiamento di parametro storico: non più la Legge mosaica, che nella durezza della sua lettera denunciava e misurava tutta la fragilità dell'uomo[39], ma una nuova Torah, che si radica non più in Mosé, ma in Cristo, il vero autore delle dabarim sinaitiche, poiché egli è il Dabar del Padre, quel Logos che Giovanni pone al principio di tutto e da cui tutto discende (Gv 1,1-3). Quella Legge imperfetta, perché non riusciva a far fare all'uomo quello scatto di qualità che lo avrebbe ricondotto a Dio, trova ora la sua perfezione, la sua pienezza in Cristo.
Si apre per l'uomo una nuova stagione spirituale e di vita. Egli è chiamato a misurarsi con la pienezza della Torah, Cristo, che se da un lato lo libera dalla schiavitù della lettera, dall'altro lo apre ad un mondo più esigente, che non si accontenta più della mera esecuzione formale, sia pur perfetta, del comandamento, ma lo lega al senso più vero e profondo della Legge, là dove si trova Dio. Essa ha esigenze che coinvolgono il nuovo credente in ogni espressione del suo vivere e ad ogni livello del suo essere. Essa non guarda più alla perfezione dell'esecuzione, ma alla sincerità di cuore, quella sincerità di cuore che crea uno stile di vita nuovo; questa sì deve esserci, anche se accompagnata dalla fragilità della natura umana, poiché tutto è stato perdonato in Cristo. Sarà proprio questa sincerità di cuore che salva l'uomo nuovo "Poiché non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).
I vv. 5,21-48 sono scanditi da sei antitesi, che si concludono con un'esortazione: "Siate pertanto voi perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto", che in qualche modo si aggancia a 5,17, completando il tema della pienezza della Legge in Cristo.
La struttura dell'antitesi è semplice: esposizione della tesi, che si rifà a dei noti comandamenti mosaici, "Avete udito che fu detto agli antichi", e contrapposizione ad essa con un'altra tesi, che riprendendo il tema della prima lo amplia in modo innovativo: "ma io vi dico".
Soltanto la terza antitesi (v. 31) esordisce in modo diverso con "Fu detto poi"; ma questa va letta strettamente unita e a completamento della seconda. Infatti quel "poi" (d) dice aggiunta, agganciandosi così a quella immediatamente precedente. La seconda e la terza, pertanto, sono coordinate tra loro e tematicamente complementari.
Il verbo "fu detto" (™rršqh) è posto sempre al passivo teologico o divino, che ha come soggetto implicito Dio stesso; mentre il termine antichi richiama probabilmente Mosé, che ricevette da Dio la Legge e successivamente Giosué e gli anziani, che a loro volta la ricevettero da Mosé[40].
L'enunciato veterotestamentario è sempre breve, quasi lapidario, dall'intonazione giuridica; mentre quello di Gesù occupa più versetti. La diversità di lunghezza sta ad indicare, a nostro avviso, non tanto la maggiore attenzione che Matteo presta alle parole di Gesù, quanto piuttosto la maggiore complessità della novità portata da Gesù, che si discosta dalla semplicità materiale della Legge, coinvolgendo e interpellando in modo più ampio e profondo il vivere dell'uomo.
L'antitesi si pone al lettore come un confronto duro e immediato tra ciò che fu detto agli antichi e ciò che invece viene detto da Gesù. La contrapposizione qui non viene ovviamente posta tra Dio e Gesù, ma tra ciò che Dio ha detto agli antichi, rimasto vincolato ad un modo limitato di comprendere le pretese divine, e quello che invece dice Gesù, il quale cerca di far emergere da quel che Dio ha detto le sue reali esigenze, che non chiedono di essere meramente eseguite, bensì di essere vissute nella sincerità del cuore. Poiché a Dio non si arriva mai per mezzo di una perfetta esecuzione di una disposizione giuridica, ma attraverso la sincerità del cuore.
Sono, quindi, due mondi che si contrappongono, due visioni della vita e del proprio relazionarsi a Dio opposte e irriducibili l'una all'altra.
La contrapposizione, come già abbiamo più volte sopra accennato e trattato, lascia trasparire inoltre la dura polemica che la comunità di Matteo e il mondo del cristianesimo della fine del primo secolo avevano innescato con quello giudaico, da cui si distaccheranno definitivamente.
Le sei antitesi sono suddivise in due gruppi di tre ciascuno. La cesura che segna la divisione è l'avverbio p£lin, di nuovo, con cui inizia il v. 33, mentre la diversità delle tematiche caratterizzano i due gruppi. Il primo (5,21-32) prende in esame il quinto e sesto comandamento e, implicitamente, anche il nono; il secondo (5,33-48), invece, si rifà ad altre prescrizioni variamente sparse nella Torah:
Primo gruppo (5,21-32):
· Non uccidere (vv. 21-26).
Testi di riferimento: Es 20,13; Dt 5,17
· Non commettere adulterio (vv. 27-30).
Testi di riferimento: Es 20,14; Dt 5,18
· Non ripudiare la moglie (vv. 31-32)
Testo di riferimento: Dt 24,1
Secondo gruppo (5,33-47):
· Non giurare il falso (vv. 33-37).
Testo di riferimento: Lv 19,12; Nm 30,3; Dt 23,22
· La giustizia vendicativa (vv. 38-42)
Testo di riferimento: Es 21,24s; Lv 24,20; Dt 19,21
· Amore per il prossimo (vv. 43-47)
Testo di riferimento: Lv 19,18
La prima e l'ultima antitesi presentano un parallelismo per contrapposizione, formando una sorta di inclusione, che comprende tutte le altre antitesi. La prima infatti, posta al negativo, non uccidere, è la negazione assoluta della persona, che racchiude in se stessa tutte quelle sfumature negative che vanno in vario modo e in varie forme contro il prossimo e a suo detrimento, fino a negargli quell'unico bene da cui tutti gli altri dipendono: la vita.
L'ultima, invece, posta al positivo, mette in evidenza un amore che va oltre le logiche umane: amerai il tuo prossimo anche se questo e soprattutto se questo è un tuo nemico. In questa iperbole dell'amore c'è l'affermazione assoluta dell'altro, che viene colto come un valore in sé e per sé, indipendentemente da come esso si pone di fronte al credente.
La prima antitesi (5,21-26) è strutturalmente sviluppata su tre livelli:
· vv. 21-22: esposizione della tesi: non ucciderai; contrapposizione alla tesi con estensione del significato di uccidere: anche l'ira e l'insulto sono forme di uccisione;
· vv. 23-24: conseguente necessità della riconciliazione in contesto religioso;
· vv. 25-26: necessità di riconciliazione in contesto di relazioni sociali, con una sottile intonazione escatologica.
La tesi non ucciderai è tratta da Es 20,13 e dal suo corrispondente Dt 5,17. La formulazione è assoluta, atemporale e non circostanziata per indicare il divieto assoluto di arrecare danni gravi e irreparabili. Si noti come non viene specificato l'oggetto verso cui l'azione dell'uccidere è rivolta, per lasciare intendere come tale divieto è posto a totale tutela della vita sotto qualsiasi forma essa si presenti, in quanto che la vita e ogni sua forma è espressione e in qualche modo estensione di quella divina, da cui essa trae origine (Gen 1,1a).
Dio infatti chiede conto a Caino del sangue sparso di suo fratello Abele e per la prima volta cade sull'uomo la maledizione stessa di Dio (Gen 4,9-11). Neppure il grave atto di ribellione di Adamo ed Eva, che ha travolto l'intera umanità e lo stesso cosmo, era riuscito a strappare a Dio una maledizione su di loro. Ma quando la vita viene gravemente lesa, questa si trasforma in una maledizione divina per l'uomo, poiché in qualche modo nel colpire la vita si colpisce e si attenta alla stessa vita divina, di cui l'uomo è rivestito per mezzo del soffio di Dio, da cui è generato (Gen 2,7). Non a caso il castigo che colpirà Caino è l'identica ripetizione di quello che ha colpito i suoi genitori (3,17b-18): "Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti;" (Gen 4,12a).
Ma l'atto di aggressione alla vita non si manifesta soltanto con la soppressione fisica della stessa. Anche la parola, che per l'ebreo è un dabar, cioè un'azione che in qualche modo produce i suoi effetti, talvolta devastanti, se diretta contro l'altro è soggetta ai vari gradi di giudizio fino alla condanna al fuoco della Geenna. E questa è la novità portata da Gesù: ogni forma di aggressione e ogni attentato alla vita, sia pur con la semplice parola, colta come azione propria dell'uomo, sono soggetti ad un giudizio di condanna.
La violazione della vita, quale bene primario ed assoluto che governa l'intero creato, rompe un equilibrio sia nei rapporti con Dio, che ne è la fonte, sia nei confronti dell'uomo, che ne è il diretto beneficiario. Da ciò nasce l'esigenza di una imprescindibile riconciliazione profonda e sincera, quale atto indispensabile per ricostituire il preesistente ordine delle cose.
Gesù ricorda, infatti, che non ci si può unire a Dio, autore della vita, attraverso un atto liturgico di culto, se l'uomo violato si contrappone al suo simile. Si noti come l'accento in 5,23 non cade su chi compie l'azione cultuale, bene intenzionato e libero da rancori, ma su chi non la sta compiendo e che è pertanto fuori dal cerchio cultuale. Per cui se l'altro ha qualcosa contro di te, non tu ma l'altro, tu non puoi dirti riconciliato e per questo non puoi entrare in comunione con Dio. Il cerchio della vita in qualche modo spezzato crea uno squilibrio cosmico, che non lascia indifferente nessuno, né Dio, né l'uomo, né il creato tra loro vincolati in solido.
Non a caso il primo dono che il Risorto fa ai suoi discepoli è quello della pace, che si ripete per ben tre volte in pochi versetti (Gv 20, 19.21.26), per sottolineare l'importanza di questa riconciliazione avvenuta proprio nella risurrezione, in cui tutte le cose sono state rigenerate in Dio e in Lui ricostituite. La diretta conseguenza di questa pace fatta tra Dio e gli uomini è il potere e il dovere di estenderla a tutti i propri simili (Gv 20,23).
Similmente è avvenuto nella guarigione del paralitico (Mt 9,1-8). Il primo atto che Gesù compie nei confronti del paralitico è quello di rimettergli i peccati, cioè di riconciliarlo con Dio. Conseguentemente tale riconciliazione si riflette anche sui rapporti sociali del paralitico, la cui guarigione diventa non solo conseguenza della precedente riconciliazione con Dio, ma ne è anche segno sacramentale e testimoniale.
Tutte le guarigioni operate da Gesù sono un segno sacramentale e anticipatore degli effetti della risurrezione: la guarigione dell'uomo dice la sua rigenerazione ad una nuova vita che lo mette nuovamente in grado di ristabilire efficacemente i suoi rapporti con Dio, con se stesso e con gli altri, così che nell'uomo rigenerato e riconciliato Dio vede nuovamente che "quanto aveva fatto, ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31a). L'uomo, dunque, viene ripristinato nella sua integrità primordiale.
I vv. 5,25-26, come si è accennato sopra, si muovono su di uno sfondo escatologico, caratterizzato da due elementi: l'urgenza della riconciliazione (Sii da subito ben disposto), che viene richiamata, sia pur velatamente, anche nel precedente v. 23: lascia colà il tuo dono; e il giudizio incombente con l'immediata esecuzione della sentenza.
Quattro sono i personaggi che agiscono in questi due versetti: tu, l'avversario, il giudice e la guardia. Il contesto è quello di un giudizio che va a finire male per l'interlocutore.
Tutti i personaggi qui sono anonimi e definiti per il loro ruolo e ciò dà un tono di universalità a questa breve parabola, lasciandone trasparire immediatamente il senso. Il tu è contrapposto ad un avversario, indicando in tal modo lo stato persistente di una contesa inconciliabile. L'esito è triste: su tale contesa pesa un giudizio che terminerà con una condanna. Si noti come questa condanna non colpisce l'avversario, ma soltanto e inesorabilmente il tu, quasi questo fosse la vittima designata. Verrebbe da chiedersi: ma perché soltanto il tu viene colpito e non viene invece messo in discussione anche l'avversario, che qui sembra intangibile? Il motivo è semplice, perché l'avversario del tu è il tu stesso colto nella sua incapacità di perdonare e, quindi, di riconciliarsi. Per questa sua incapacità il tu soccomberà sotto il giudizio divino.
Una condizione questa che ci rimanda direttamente alla parabola matteana del debitore spietato (Mt 18,23-35), il quale a fronte del perdono ricevuto dal suo signore non ha saputo perdonare e riconciliarsi con il suo simile. Ciò sta ad indicare come il perdono e la riconciliazione devono avere una loro obbligatoria e obbligata ciclicità. Se un anello soltanto della catena si interrompe è l'intero ciclo che viene annullato, poiché l'armonia della riconciliazione non è stata ristabilita e perché questa o è totale e totalizzante o è totalmente inesistente e, pertanto, inefficace.
Vediamo, dunque, come in questa antitesi il non ucciderai assume dei significati e delle valenze molto più ampi ed esigenti, totalmente più coinvolgenti del semplice astenersi dal sopprimere una vita, mentre la stessa incapacità di perdonare e di riconciliarsi viene equiparata all'uccidere.
I vv. 5,27-32 comprendono la seconda e la terza antitesi in cui si presentano due aspetti dell'adulterio, il primo parla di caso conclamato, cioè uno dei due coniugi tradisce l'altro; e il secondo, del tutto inaspettato, perché si insinua tra le pieghe di un atto legale, il ripudio.
Il tema dell'adulterio è affrontato giuridicamente da Es 20,14, Lv 20,10 e Dt 5,18 e non presenta equivoci nella sua interpretazione: esso si verifica quando uno dei due coniugi tradisce l'altro o, comunque, entrambi si tradiscono reciprocamente. In tal caso viene gravemente offeso il vincolo matrimoniale che fa dei due una sola carne e trova il suo fondamento in Gen 2,23-24 e Gesù lo ricondurrà a questo principio genesiaco (Mt 19,4-5). Nella Scrittura, inoltre, esso viene preso come parametro di raffronto per configurare il rapporto tra Dio e il suo popolo, celebrato nell'ambito dell'alleanza. Il matrimonio, pertanto, viene ad assumere in se stesso un significato e una sacralità che vanno ben al di là del semplice decorso naturale delle cose.
L'adulterio, di cui si parla nei testi citati, è quello consumato. Ma Gesù vuole ricondurre l'uomo alla sincerità del cuore, là dove nel suo segreto egli si incontra con il suo Dio ancor prima di celebrarlo nel culto del Tempio o della Torah, poiché ciò che lo contamina è ciò che esce dal suo cuore, "Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie" (Mt 15,19). Gesù, dunque, va al di là della Torah e della sua osservanza legalistica e riformula la sentenza mosaica: "... ognuno che guarda una donna per desiderarla, avrà già commesso adulterio con lei nel suo cuore".
La questione che qui si pone è che cosa il Gesù matteano intendesse dire con l'espressione "guardare una donna per desiderarla". Ridurre il desiderio ad un semplice moto intimo e interiore non ancora palesemente attuato in qualche modo, mi pare non possa essere sostenuto, in quanto che il testo parla di un adulterio in cui è coinvolta espressamente una donna, e non mi sembra che si possa parlare di valido adulterio commesso a sua insaputa e quindi con un semplice moto interiore, che trova la sua origine nel naturale impulso sessuale, soddisfatto con la fantasia.
Tre sono gli elementi che spingono a pensare che questo desiderio sia ben più che di un semplice sguardo o di qualche fugace pensiero occasionale.
Innanzitutto il testo greco: "p©j Ð blšpwn guna‹ka prÕj tÕ ™piqumÁsai ...". Qui si tratta di una persona che guarda una donna e la sua attenzione è rivolta verso (prÕj tÕ) un preciso obiettivo che, si guardi bene, non è la donna, ma il deisderarla (™piqumÁsai). Questo desiderarla esprime già una tensione concreta, che presuppone un piano operativo già elaborato o in fase di elaborazione, poiché il prÕj tÕ dice movimento, azione che spinge l'uomo verso il suo obiettivo. Già qui abbiamo superato la barriera del semplice moto interiore, siamo in una fase di progettualità in avanzato stato di attuazione.
Il secondo elemento ci è fornito dal testo dei vv. 29-30 in cui si parla di occhio e di mano, e altrove anche di piede (Mt 18,8), che viene associato all'occhio. Questi sono colti come strumenti di scandalo, cioè d'inciampo nel cammino dell'uomo verso Dio (Lv 19,2).
Questi versetti sono una interpolazione redazionale voluta appositamente da Matteo[41] e sono strettamente associati a quello precedente (v. 29). La loro funzione sembra essere quella di dare corpo a quel desiderare, definendone i tratti e i lineamenti essenziali. Esso ha la sua origine nello sguardo e la sua attuazione nella mano, che è lo strumento con cui si attua e si consuma in qualche modo l'adulterio. Pertanto, il senso del desiderare è spiegato e in qualche modo sostanziato dai due elementi che sono d'inciampo al matrimonio: l'occhio e la mano; essi danno corpo e concretezza al desiderio, qualificandolo, quindi, come già azione propria di adulterio. Il desiderio di cui qui si parla non è pertanto un semplice sentimento o un segreto moto interiore.
Del resto la drasticità con cui Gesù si rivolge verso l'occhio e la mano è finalizzata a bloccare per tempo un'azione già posta in essere.
Il terzo elemento ci viene fornito dalla stessa cultura ebraica, che per sua natura tende alla concretezza dell'espressione, rifuggendo i sofismi, le elucubrazioni, le idealizzazioni, le concettualizzazioni, le filosofie e le astrazioni in genere proprie del pensiero occidentale, favorendo invece il parlare figurato, metaforico, simbolico e quello proprio del racconto. Pertanto, quando Matteo, di cultura e formazione ebraica, parla di desiderare intende un desiderio che si fa e si attua e, quindi, si rende già manifesto e sufficientemente chiaro da coinvolgere il consenso della donna, anche se tecnicamente l'adulterio non è stato ancora fisicamente consumato, come invece prevede la legge. Tuttavia, già in questa fase preliminare Gesù dichiara che l'adulterio è consumato.
Una seconda sentenza sulla questione dell'adulterio (la terza antitesi, 5,31-32) nasce da un aspetto legale, quello del ripudio, che ha il suo fondamento in Dt 24,1. Essa è un'inattesa e sconcertante sortita del Gesù matteano, che va a cozzare direttamente contro le disposizioni della Torah e soprattutto contro l'autorità stessa di Mosé. Non si capisce pertanto perché Gesù debba dichiarare adultero chi, sciolto legalmente dal suo matrimonio, pensa di ricreare la propria vita, dandole un nuovo futuro e un nuovo senso.
Infatti, così facendo Gesù, di fatto, abroga una disposizione mosaica, contraddicendo in tal modo quanto aveva dichiarato in 5,17: la sua venuta non è finalizzata ad abrogare la Torah, ma a darne compimento. In realtà la contraddizione è solo apparente, poiché Gesù vuole soltanto ricondurre questo aspetto della Legge alla sua purezza originale da cui si è allontanato "per la durezza del vostro cuore" (19,8). Quindi con Mosé vi fu uno scostamento, mentre con Gesù le cose vengono ricomposte nella loro integrità primordiale, quando Dio, contemplando la sua opera creativa, "... vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31).
Il v. 5,32, qui espresso in una dura e secca forma sentenziale e privo di qualsiasi motivazione, trova la sua giustificazione nell'ambito del contesto in cui è posto, quello della decisa contrapposizione alla giustizia legalistica degli scribi e farisei, evidenziando in tal modo la superiore autorità di Gesù. Un riconoscimento questo che verrà esplicitato a conclusione di questo primo grande discorso, fornendone la chiave di lettura e rivelando un tratto importante della figura stessa di Gesù: "Infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi" (7,29).
Tuttavia Matteo si riserverà di fornire la motivazione teologica e giuridica in 19,3-9, inquadrando questa sentenza di Gesù nella cornice di una disputa: "E' lecito ad un uomo ripudiare sua moglie per qualsiasi motivo?" (19,3).
La breve sentenza di Gesù si compone di due parti, che si completano a vicenda e che vedono al centro la donna, da un lato ripudiata e dall'altro desiderata. Si forma così una sorta di triangolo che ha come vertice la donna, punto di passaggio dell'adulterio e della dissacrazione del matrimonio. Colpevoli, quindi, per Gesù sono tutti e tre: il marito perché, ripudiando la moglie, la espone all'adulterio; la donna, da un lato vittima e dall'altro attrice dell'adulterio; il secondo marito che consuma con lei l'adulterio.
Questa dinamica dissacrante era già presente in qualche modo in Dt 24,1-4 nel divieto della donna, passata a seconde nozze, di ritornare al primo marito, perché "essa è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore". Infatti, se la donna è considerata contaminata dopo che è passata a seconde nozze, ciò lascia intendere che il primo matrimonio è stato violato, ma non annullato, nella donna, resa impura dalla violazione del secondo marito. Ricostituire, quindi, il primo matrimonio dissacrato con una carne violata e resa impura dalla violazione, significava profanare la sacralità e la santità del matrimonio stesso, che trova il suo fondamento e la sua chiave di lettura in Gen 2,23-24.
Questa presa di posizione di Dt 24,1-4, del resto, lascia intendere come, di fatto, il primo matrimonio possiede in se stesso una dignità e una sacralità che lo rendono unico e inviolabile nonostante le violazioni subite.
Per questo la disposizione di Mosé viene riconosciuta da Gesù come un abuso, a cui Mosé fu costretto "per la durezza del vostro cuore" (Mt 19,8). Gesù, pertanto, con autorità propria, ma ancor prima con l'autorità fondativa di Gen 2,23-24, a cui Gesù stesso si appella, restituisce alla norma la sua integrità originale, riconducendo il matrimonio nell'alveo della sua santità primordiale.
No, dunque, al divorzio "eccetto il caso di lussuria" (parektÕj lÒgou porne…aj).
L'espressione è propria di Matteo, che, inserita in un contesto antidivorzista e per questo rivoluzionario, muovendosi in senso contrario alla Torah e la tradizione ormai consolidata, creando un certo allarme negli stessi ascoltatori (Mt 19,10), apre un varco inaspettato a favore del divorzio stesso. Quindi il divieto di ripudio non è assoluto.
E' indubbio, quindi, che l'inciso matteano crei una certa perplessità. Del resto il testo sembra concordare perfettamente con Mt 19,9 (m¾ ™pˆ porne…v). Non c'è quindi dubbio che Matteo intendesse escludere dal divieto di divorzio questo specifico caso.
Ma si tratta di una vera e propria esclusione?
Innanzitutto va rilevato che questa eccezione (parektÕj - m¾ ™pˆ) è riportata soltanto da Matteo e da un punto di vista letterario si tratta chiaramente di un inciso specifico voluto da Matteo o forse introdotto anche successivamente da qualche responsabile di comunità. L'inciso, quindi, ha una valenza squisitamente pastorale[42]. E' molto probabile che con questa introduzione particolare Matteo facesse riferimento a casi o a situazioni presenti nella sua comunità.
L'attenzione, a nostro avviso, va invece spostata non tanto sull'eccezione, quanto su quel porne…a. Che cosa intendeva dire Matteo o a che cosa si riferiva con questa espressione? E' difficile dirlo esattamente.
Il termine porne…a è piuttosto vago e ampio, tuttavia circoscrive chiaramente l'area che l'evangelista intende colpire. Certamente non si riferisce soltanto al caso di concubinato, perchè altrimenti avrebbe usato il termine proprio pallakšia, che definisce lo stato di concubinato; e Matteo è uno che conosce molto bene il greco. Ponendo quindi l'accento sull'espressione porne…a, che letteralmente significa prostituzione, fornicazione, lussuria, Matteo voleva porre all'indice come lussuriosi o come forme di prostituzione quei comportamenti e quei rapporti umani, che apparentemente, da un punto di vista sociale, si presentavano come un accettabile rapporto simile al matrimonio, ma che in realtà erano fondati su di un disordine morale e umano, inaccettabile per la novità di vita portata dal cristianesimo e che erano diffusi tra i pagani, come il concubinato o la convivenza tra persone con legami di parentela o persone che, benché regolarmente sposate, convivevano con altre donne, una sorta di famiglia allargata; o pur avendo già una famiglia propria, ne avevano costituita parallelamente un'altra, mantenendole entrambe; o simili situazioni.
Matteo quindi non fa riferimento al semplice concubinato, ma ad un insieme di comportamenti disdicevoli e immorali, che definisce brevemente con porne…a, qualificandoli come comportamenti lussuriosi, che prostituiscono l'uomo, degradandolo nella sua dignità.
Non si tratta quindi di un'eccezione, di un varco o di una scappatoia aperti nell'ambito del matrimonio, ma di un inciso che si costituisce come un formale atto di accusa contro un certo modo di vivere e di relazionarsi. Come dire: questo modo di vivere non è un matrimonio e non ha nulla a che vedere con questo, anzi tale modo di comportarsi va immediatamente sciolto e abbandonato. Quindi quel parektÒj non va inteso come un'eccezione posta all'interno del matrimonio, ma come un'esclusione da questo. Sarebbe quindi più opportuno tradurre con "eccettuato il caso di ...".
Il giuramento: 5,33-37
Con il v. 5,33 si apre la seconda terna delle antitesi (Mt 5,33-48), introdotta dall'avverbio p£lin (di nuovo, ancora, inoltre), che indica una ripresa aggiuntiva. Se le prime tre riguardavano, in senso generico, il non uccidere e in termini più specifici i rapporti sociali primari all'interno della famiglia, nucleo fondante e vitale della società, queste ultime tre toccano alcuni aspetti importanti del proprio relazionarsi con l'altro e del rapporto sociale in genere: il giuramento, espressione sacrale della parola data; la giustizia vendicativa dell'occhio per occhio e l'amore superiore ad ogni sentimento.
Il primo tema affrontato è il giuramento o, meglio, il divieto di giurare il falso, previsto dalla stessa Torah[43].
Benché il giuramento sia sempre stato presso gli uomini di ogni tempo un istituto per avvalorare la loro parola, caricandola di un senso sacrale, poiché con questo veniva convocato a testimonianza Dio stesso, tuttavia presso gli ebrei doveva essere una sorta di consuetudine, che spesso degenerava in abuso. Lo stesso Marziale nella sua opera Epigrammi (XI, 94) se la prendeva con gli ebrei per la loro propensione sfrenata al giuramento[44]. E così doveva essere se il Siracide[45] sollecitava a "non abituare la bocca al giuramento, non abituarti a nominare il nome del Santo" (Sir 23,9) e questo perché "Un uomo dai molti giuramenti si riempie di iniquità ..." (Sir 23,11a); infatti "il linguaggio di chi giura spesso fa rizzare i capelli, e le loro questioni fan turare gli orecchi" (Sir 27,14).
Si giurava per tutto e su tutto. Giuravano gli uomini, ma anche Dio caricava le sue promesse o legava la sua parola al giuramento[46].
Agli ebrei era fatto divieto di giurare per gli dèi stranieri (Gs 23,7), mentre dovevano riferirsi sempre e soltanto al nome del Signore (Dt 6,13; 10,20).
Poiché il giuramento chiama in causa sempre un'Entità superiore a se stessi, Dio non può che giurare per se stesso[47] o per la sua santità (Sal 88,36; Am 4,2) o per il suo stesso nome (Ger 44,26) o per la sua stessa vita (Ez 14,16; 17,16).
La formula del giuramento era molto semplice e varia. In genere si introducevano le parole da avvalorare dalla formula "giuro per Dio" (Gen 21,23), "giuro per il Terrore" (Gen 31,33); "giuro per il Signore" (2Sam 19,8); oppure con formule un po' più elaborate come "Com'è vero che vive il Signore che ci ha dato questa vita ..." (Ger 38,16), "Giuro per colui che vive in eterno" (Dn 12,7), "Per la vita del Signore, con verità, rettitudine e giustizia" (Ger 4,2).
Matteo stesso si richiama a delle formulazioni di giuramento correnti nel suo tempo: il giurare per il cielo, trono di Dio; per la terra, considerata sgabello dei piedi del Signore; per Gerusalemme, sua città santa e luogo della sua dimora; per la propria testa o per la propria vita, sulle quali l'uomo non ha alcuna disponibilità.
Il giuramento assumeva talvolta la forma di un'imprecazione: "Il Signore faccia di te un oggetto di maledizione e di imprecazione in mezzo al popolo, facendoti avvizzire i fianchi e gonfiare il ventre" (Nm 5,21), "Maledetto davanti al Signore l'uomo che ..." (Gs 6,26), "Maledetto chiunque ..." (1Sam 14,24).
Il giuramento veniva in genere accompagnato da una gestualità per rimarcarne anche esteriormente l'importanza mettendo una mano sotto la coscia di colui al quale si prestava il proprio giuramento (Gen 24,9), oppure alzando una mano, probabilmente la destra (Es 6,8; Ez 20,58); dando la mano destra a colui al quale si dava il proprio giuramento (Ez 17,8; 2Mac 14,33); talvolta alzando la mano su colui o coloro a cui si prestava il giuramento (Sal 105,26) o alzando il braccio e la mano destra (Is 62,8; Ez 20,3) o più semplicemente alzando le mani verso il cielo (Dn 12,7).
Il significato e il valore del giuramento, specialmente se reciproco, assumeva una valenza di promessa solenne, di alleanza che univa inscindibilmente i due contraenti e rendeva debitore il giurante verso l'altro che beneficiava del giuramento e che lo costituiva in qualche modo creditore. Era quindi una sorta di patto[48].
Lo spergiuro era caricato di negatività e di sventure che si abbattevano su di lui (Sir 23,11) perché offendeva il nome stesso di Dio, chiamato in causa quale garante (Lv 19,12) per ciò che aveva giurato.
Ma il mancato giuramento su di una qualunque cosa veniva anche punito pecuniariamente con la restituzione di ciò per cui si era giurato, aggiungendovi anche un quinto del suo valore, ed erano previsti dei sacrifici di riparazione ed una specifica ritualità di espiazione (Lv 5,24-26).
Giuramenti che diventavano strumenti di oppressione nei confronti del popolo[49]. Si era infatti stabilito, attraverso sottili distinzioni che riflettevano i dibattiti delle varie scuole farisaiche, ciò che rendeva valido un giuramento, per cui se si giurava per l'oro del tempio o per le offerte poste sull'altare, l'ebreo rimaneva vincolato al suo giuramento, mentre se giurava per il tempio o per l'altare questo non lo impegnava. In tal modo la validità del giuramento veniva legata al valore venale delle cose, trascurando invece ciò che le rendeva sante e dava loro validità spirituale e dignità morale: il tempio e l'altare.
Contro questo sofisticato sistema di giuramenti e contro questo diffuso malvezzo del giurare, spesso ingannatore, Gesù si impone con autorità: "Ma io vi dico di non giurare affatto" (Mt 5,34a), riconducendo l'uomo alla sincerità del proprio cuore: "sia la vostra parola si si, no; il superfluo viene dal maligno".
Probabilmente questo detto di Gesù è autentico, se trova la sua eco anche in Giacomo: "Soprattutto, fratelli miei, non giurate, né per il cielo, né per la terra, né per qualsiasi altra cosa; ma il vostro <<si>> sia si e il vostro <<no>> no, per non incorrere nella condanna" (Gc 5,12). Poiché al di fuori di questa semplice e genuina verità, che deve sgorgare dal cuore , c'è soltanto la menzogna, che ha per padre satana stesso "perché è menzognero e padre della menzogna" (Gv 8,44).
I nuovi rapporti sociali: 5,38-48
Introduzione
Le ultime due antitesi (5,38-48), il cui tema di fondo sono i rapporti sociali che devono qualificare e caratterizzare il nuovo credente, formano un blocco unico che si snoda gradualmente in un crescendo continuo di perfezione e, passando attraverso i vv. 39a.42.44 va a confluire nel v. 48 in cui trova il suo vertice e la sua pienezza: "Siate pertanto voi perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto".
Pertanto si avrà il seguente svolgimento:
· Si parte dagli enunciati veterotestamentari di 5,38 e 5,43, che costituiscono la base minima su cui si fondano i rapporti sociali e che Gesù accoglie e riformula in modo completamente nuovo, mettendone in luce la verità più vera che li anima.
· Primo passo evolutivo: "non contrapponetevi al malvagio" (5,39a), la cui finalità è disinnescare il dinamismo della vendetta, che porta ad offendere in pari modo l'altro.
· Secondo passo: "A chi domanda dài; e chi vuol prendere in prestito da te, non abbandonarlo" (5,42), che spinge ad accentrare la propria attenzione sulle necessità degli altri e fare della propria vita una pane che viene spezzato per l'altro, prendendosene cura ("non abbandonarlo).
· Terzo passo: "amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano" (5,44), che porta a superare i ristretti limiti del sentire umano e delle sue comuni logiche, portando i rapporti sociali ad un livello qualitativamente superiore e redentivo per l'uomo e per la stessa società.
· Obiettivo finale: "Siate pertanto voi perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto" (5,48), che riconduce l'uomo a quella primordiale pienezza divina di cui godeva fin da principio, quando Dio lo aveva creato sua immagine e somiglianza, rendendolo partecipe della sua stessa vita (Gen 1,26a.27)
Queste due antitesi, quindi, delineano un cammino di perfezione entro cui devono muoversi i rapporti sociali del nuovo credente, chiamato a rifondare, ma soprattutto a riqualificare con il suo comportamento la società, riconducendola nel suo dinamismo di fondo alla stessa dinamica che opera in Dio: l'amore. Non a caso infatti Matteo chiuderà l'attività pubblica di Gesù con la parabola del giudizio finale che ha come oggetto principale proprio i rapporti che l'uomo ha saputo tenere nei confronti dei suoi simili (25,31-46).
All'interno di tale blocco le due antitesi sono tra loro correlazionate da un parallelismo dinamicamente evolutivo e trovano il loro punto di contatto e di transizione dell'una nell'altra nel v. 42: "A chi ti domanda dài; e chi vuol prendere in prestito da te, non abbandonarlo".
Tale versetto infatti sollecita a tenere un comportamento generoso, benché ancora troppo passivo (soltanto "a chi ti chiede dài"). Tuttavia esso in quel "non abbandonarlo", che spinge a farsi parte attiva, perché il bisognoso che si è rivolto a te non soccomba, già contiene in se stesso un accenno di generosità dinamica, che si costituisce quale preambolo a quanto segue immediatamente: "Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano".
Tale comportamento quindi è introduttivo alla seconda antitesi, imperniata su di un amore senza confini. Infatti senza una solida base di generosità e di abnegazione non può trovare un suo valido fondamento l'amore universale, poiché l'amore trae il suo alimento dalla natura propria della generosità, che è il sapersi spendere per l'altro senza riserve.
Nella prima antitesi (5,38-42) si parla di una giustizia vendicativa, che si basa su di un'equità retributiva corrispondente ed equivalente. Questa ancora non conosce il valore del perdono, della misericordia e della compassione; mentre la seconda ci richiama ad un amore selettivo, rivolto esclusivamente al prossimo e proprio per questo limitante e, quindi, lesivo della natura stessa dell'amore, che non conosce barriere o quanto meno tende a spostarle sempre più in là.
Le due antitesi, dunque, mettono in rilievo i limiti della Legge, incapace di superare il ristretto sentire umano, ma finalizzata soltanto ad amministrarlo e a correggerlo, senza tuttavia fargli fare quel salto di qualità necessario per far crescere spiritualmente e moralmente l'uomo, lanciandolo decisamente verso Dio, rendendo invece asfittico e gracile il suo rapporto con i propri simili e con Dio stesso.
La proposta d Gesù rompe i limitati spazi della Torah e in due battute segna le due tappe attraverso le quali l'uomo è chiamato a volare alto: la prima è il non contrapporsi al malvagio (5,39,a); la seconda è l'amare i propri nemici e il pregare per loro (5,44).
La prima tappa, il non contrapporsi, è già di per sé un atto positivo nel senso che non persegue le offese ricevute, ma si limita a sopportarle pazientemente. Il suo intento di fondo è di disinnescare la giustizia fondata sulla vendetta, proponendo al nuovo credente un atteggiamento passivo nei confronti delle offese ricevute, lasciandole cadere.
La seconda tappa, l'amore esteso anche al nemico, supera decisamente la passiva e inerme inoffensività del non contrapporsi, per passare ad un dinamico e dirompente amore, che impegna esistenzialmente il credente ad ogni livello, aprendolo non solo al prossimo amico, ma anche verso quello nemico.
Non si tratta più di sopportare pazientemente le offese ricevute, ma di farsi parte attiva per ricercare il bene e l'affermazione di chi invece ci ha offesi. Si tratta di conquistare con l'amore chi ci ha offeso, interpellandolo e mettendolo a duro confronto con un nuovo e inaspettato comportamento: non più occhio per occhio e dente per dente, non più la dura legge del taglione, non più la vendetta compensatoria, ma un'altra legge non meno dura e sconcertante, perché esce dai limitati schemi e aspettative umani per raggiungere l'uomo nella sua parte più vera e profonda: amore, perdono, misericordia, compassione contro l'odio e l'offesa. Il male va vinto con il bene, attivando la parte migliore dell'uomo, che punta a redimerlo, riconducendolo nella vita stessa di Dio.
Si tratta in ultima analisi di rifondare i rapporti umani, non più sulla legge della vendetta, ma su quella dell'amore.
L'analisi di 5, 38-48
Il v. 38 si richiama alla legge del taglione: "Occhio per occhio, dente per dente". E' questa una legge primitiva, propria di una società arcaica e che punta a ristabilire, attraverso una ritorsione diretta ed equivalente, l'ordine sociale e individuale violato, salvaguardando dagli abusi.
Il suo intento quindi è quello di limitare la vendetta al danno subito, evitando reazioni sproporzionate, che rischiano di creare un danno maggiore rispetto a quello subito, aprendo la strada ad una faida senza fine. In tal senso Gen. 4,23 ricorda la figura di Lamech che si vantava di aver ucciso un uomo per una scalfittura subita e un ragazzo per un livido da lui procuratogli.
Non si può ancora parlare in tale ambito di vera e propria giustizia perché non c'è la considerazione e il rispetto di chi ha sbagliato, né il tentativo di recuperarlo e riscattarlo dal suo male, ma semplicemente di una rivalsa vendicativa, che tende ad infliggere al colpevole un danno di pari entità, compensando il danno con un altro danno[50].
Siamo dunque ben lontani dalla compassione e dalla misericordia, al contrario si sollecita a non averne per niente, ma di procedere senza remora alcuna verso l'applicazione dell'occhio per occhio, cercando di incutere paura (Dt 19,20-21).
In risposta a queste logiche primitive, Gesù propugna il non contrapporsi al malvagio, aprendo in tal modo ad un disarmo unilaterale che, trascendendo la semplice resistenza passiva ("non contrapponetevi"), suggerisce di andare al di là dello stesso oggetto del contendere, soddisfacendo il malvagio nelle sue inique pretese ben oltre a quanto egli si propone, creando nello stesso uno sconcerto.
Matteo fa seguire l'imperativo ("non contrapponetevi al malvagio") da tre esempi paradossali, il cui senso non è quello di obbligare il credente ad un determinato comportamento estremo e, proprio per questo, paradossale, ma sono semplici esempi indicativi che vanno a cogliere tre aree personali ben precise, che possono costituire l'obiettivo delle offese.
· "Chiunque ti colpisce sulla guancia destra, volgigli anche l'altra". Il volto di una persona esprime la persona stessa. Percuoterla sulla guancia significa recare una grave offesa che va a colpire direttamente la persona nella sua stessa intimità. Il colpire una persona sulla guancia sembra essere stato presso il mondo giudaico un gesto particolarmente offensivo[51]. L'autore delle Lamentazioni sollecita: "porga a chi lo percuote la sua guancia e si sazi di umiliazioni" (Lam 3,30), associando lo schiaffo sulla guancia alla sazietà delle umiliazioni, cioè alla più grande umiliazione che un uomo possa ricevere; mentre Isaia nel suo cantico del Servo sofferente di Jhwh indica la degradante umiliazione, che il Servo subisce nella sua persona: "Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi" (Is 50,6). La percossa sul volto era anche un sinonimo di una bruciante ed umiliante sconfitta inflitta al nemico: "Sorgi, Signore, salvami, Dio mio. Hai colpito sulla guancia i miei nemici, hai spezzato i denti ai peccatori" (Sal 3,8). Con questo primo esempio, dunque, Gesù invita a non contrapporsi alle offese che in qualche modo possono ledere anche gravemente la dignità della propria persona.
· "E a chiunque vuole che tu sia giudicato e prendere la tua tunica, lasciagli anche il mantello". La tunica era un indumento a contatto con la pelle e copriva la nudità della persona e ne esprimeva in qualche modo la dignità. Giacobbe regalò a Giuseppe una tunica dalle lunghe maniche, quale espressione del suo amore particolare (Gen 37,3). I fratelli invece, quando lo vendono come schiavo, gliela tolgono (Gen 37,23), spogliandolo in tal modo della sua posizione di prediletto del padre; così come si toglieva la tunica agli schiavi, spogliandoli in tal modo della loro dignità di uomini liberi. La tunica dunque esprime la dignità della persona e ne indica la posizione sociale[52]. Anche di fronte ad un affronto che punta a privare giudizialmente una persona della sua dignità, che gli deriva dai propri beni essenziali per sostenere dignitosamente la propria vita, Gesù suggerisce di non contrapporsi con la violenza, ma di superarla andando al di là delle ingiuste pretese del malvagio: "lasciagli anche il mantello". Quest'ultimo è un indumento di uso comune e tutti ne possedevano uno ed era un bene importante, che aiutava l'uomo nel suo vivere quotidiano. Esso infatti era utilizzato come coperta per la notte, per questo non poteva essere pignorato (Es 22,25-26; Dt 24,13), diversamente si commetteva una grave ingiustizia. Esso serviva anche come contenitore per il trasporto delle proprie cose (Rut 3,9; 2Re 4,39). Non possedere un mantello era un segno di grave povertà e indigenza (Is 3,7). Stendere il proprio mantello su di una persona significava prenderla sotto la propria protezione (Ez 16,8) ed era lo stesso gesto con cui si dichiarava l'intenzione di sposare una donna (Rut 3,9; Es 23,1; 27,20) ed esprimeva il diritto dell'uomo sulla sua donna. Il mantello dunque nella società antica costituiva un bene essenziale del proprio vivere. Gesù spinge a lasciare all'ingiusto aggressore anche questo ultimo bene. Con questo paradosso il Maestro indica una seconda area in cui la persona può essere colpita ingiustamente: i beni essenziali per il suo vivere. Anche in questo caso il nuovo credente deve deporre l'arma della vendetta e della rivalsa.
· "E chiunque ti costringerà per un miglio[53], vai con lui per due". Il verbo greco "¢ggareÚw" è un termine tecnico per indicare i lavori forzati e quindi uno stato di perduta libertà[54] e di costrizione personale, che tende a privare la persona della sua naturale e dovuta libertà. Anche in questo caso la persona offesa, deposta la sua sete di vendetta, deve far ricorso alla sua generosa disponibilità verso la persona che tende a prevaricarla ingiustamente.
Sono chiaramente tre paradossi che se da un lato vogliono spiegare il significato di quel "non contrapporsi al malvagio", dall'altro tendono a togliere, in senso positivo, la connaturata passività della non resistenza. Non si tratta quindi di lasciarsi sbeffeggiare e angariare a piacimento e a tutto vantaggio dell'ingiusto aggressore, ma, deposta l'arma offensiva della vendetta e dell'odio, tendere in qualche modo la mano al proprio nemico, cercando una collaborazione con lui, per venire incontro alle sue esigenze, che lo hanno spinto ad una ingiusta e iniqua aggressività.
Ed ecco che il v. 5,42 dà il vero senso di quel "non contrapporsi al malvagio", che aiuta a superare la fase istintiva e primordiale di una risposta vendicativa all'aggressione, predisponendosi in tal modo ad una comprensione delle esigenze più profonde dell'aggressore: "A chi ti domanda dài; e chi vuol prendere in prestito da te, non abbandonarlo".
In ultima analisi l'aggressione denuncia sempre uno stato di frustrazione in cui viene a trovarsi l'aggressore; è in buona sostanza una risposta sbagliata che egli dà ad un suo stato di bisogno, un modo sbagliato e sproporzionato di chiedere aiuto. Per questo Gesù conclude il suo triplice paradosso con un invito ad accogliere le richieste che vengono rivolte, indipendentemente dal modo con cui queste vengono presentate. La genericità con cui viene posto l'invito ("a chi ti domanda, dài") lo toglie da un qualsiasi contesto in cui può nascere la richiesta e prescinde da una qualsiasi forma con cui può venire formulata la richiesta.
I vv. 5,38-42, quindi, fungono da prologo preparatore ai successivi 5,43-48. Non si può infatti giungere all'amore incondizionato verso l'altro se prima non si riesce a disarmarsi e purificarsi da una mentalità vendicativa; se prima non si riesce a porre davanti al proprio Io le esigenze del Tu.
"Avete udito che fu detto: amerai il tuo prossimo e disprezzerai il tuo nemico". E' una singolare affermazione che Matteo pone sulla bocca di Gesù. L'A.T. infatti comanda l'amore del prossimo, ma non impone mai l'odio o il disprezzo dei nemici o gli stranieri, anzi li tutela (Dt 10,19; 24,17-18). Perché allora Matteo presenta il disprezzo verso i nemici come fosse un comandamento dettato dalla Torah?
Nell'ambito della Tradizione ebraica l'odio (o forse è meglio parlare di disprezzo) verso i nemici era una logica conseguenza della restrittiva interpretazione che veniva data al comandamento di amare il prossimo e in particolare al significato che veniva attribuito al termine "prossimo".
Chi era per l'ebreo il prossimo?
Nella LXX il termine plhs…on (prossimo) ricorre 188 volte e acquisisce, a seconda delle circostanze, significati diversi:
· nel senso di "altro" con cui si intrattiene una qualche relazione diretta amichevole, talvolta anche avversa[55];
· nel senso di connazionale, correligionario o fratello in senso metaforico (Es 2,13; Lv 25,17);
· nel senso di vicinanza fisica, di chi sta attorno o frequenta o abita nei dintorni[56];
· nel senso de "l'altro" che appartiene allo stesso popolo[57];
· nel senso di compagno o amico[58];
· nel senso di parente stretto (2sam 12,11).
Prossimo quindi è colui che è vicino o abita vicino, che è amico o compagno, che appartiene allo stesso popolo. Potremmo in buona sostanza pensare al prossimo come a colui che condivide la stessa sorte ed è accomunato sotto la stessa Alleanza e la stessa fede.
Tale concetto viene rafforzato, per contro, dal concetto opposto di straniero maturato presso il popolo ebreo, per cui straniero:
· è colui che non appartiene al popolo di Jhwh[59];
· è colui dal quale non si possono accettare vittime per i sacrifici a Jhwh (Lv 22,25);
· è colui nei confronti del quale vige il divieto per Israele di legarsi in qualche modo a lui o immischiarsi in rapporti di convivenza o di sposarne le donne, per evitare di cadere nella sua idolatria, tradendo la purezza della fede[60], poiché è fatto divieto in Israele di servire a dèi stranieri[61].
Israele invece è il popolo che il Signore si è scelto come sua proprietà, come popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19, 5-6), un popolo quindi a lui consacrato (Dt 4,20).
Questa profonda coscienza di appartenere al Signore, maturata soprattutto sotto i profeti e nel periodo esilico e postesilico, lo contrapponeva ai popoli pagani, considerati impuri, per cui Israele cercava di evitarne i contatti per non rimanerne contaminato (Gv 28,18b), mentre era disdicevole e riprovevole entrare in contatto o banchettare con gli incirconcisi (At 11,2-3; Gal 2,11-13).
Vi era dunque un'idea molto restrittiva di prossimo, che si contrapponeva a chi non apparteneva al popolo dell'alleanza, ritenuto straniero o nemico.
Gesù rompe questo ferreo cerchio, che isolava Israele da tutti gli altri popoli e lo spingeva a guardarli con orgogliosa superiorità e compassionevole distanza allo stesso tempo (Rm 2,17-20), e lo invita a considerare prossimo anche colui che non appartiene all'Alleanza o che si oppone con persecuzioni a questa: "Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano"[62].
Anzi Gesù arriverà a rovesciare il concetto di prossimo, passando da uno stato di passività statica dettata dalla presenza dell'altro e dall'appartenenza al popolo dell'alleanza, ad una posizione attiva: prossimo non è più colui che appartiene ad Israele, ma è l'israelita stesso che deve farsi prossimo verso gli altri, anche se questi e soprattutto se questi sono dei pagani (Lc 10,29-37). In tal modo Israele viene posto in un orizzonte universalistico, divenendo un vero popolo di sacerdoti in mezzo agli altri popoli, riaprendosi alla sua originaria missione e rigenerandosi nella sua primitiva identità, acquisita ai piedi del Sinai (Es 19, 5-6): Israele infatti doveva essere nei progetti di Jhwh lo strumento divino di santificazione per gli altri popoli.
Paolo riprenderà questo nuovo concetto di prossimo, ampliandolo ulteriormente, e togliendo ogni privilegio a Israele, lo estenderà a tutti gli uomini: "Infatti, Giudeo non è colui che appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera. La sua gloria non viene dagli uomini, ma da Dio" (Rm 2,28-29). Tale apertura trova il suo vertice nel discorso che Pietro fa presso il centurione romano Cornelio: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35).
Non vi è più distinzione tra Israele e mondo pagano, ma tutti sono posti sotto l'egida salvifica di Cristo e tutti accomunati nell'unico Padre per mezzo dell'unico Spirito: "Perciò ricordatevi che voi un tempo, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano d'uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazi al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizione e decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunciare pace a voi che eravate i lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito" (Ef 2, 11-18).
Di conseguenza ogni divisione e ogni classe sociale viene meno, infatti "Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa" (Gal 3,28-29).
Vediamo dunque come il concetto di prossimo, dapprima racchiuso nei ristretti e asfittici spazi di un popolo, è stato rifondato da Gesù, facendo dell'intera umanità un unico popolo, scelto e consacrato al Padre in lui (Ef 1,4) per mezzo dello Spirito, in cui tutti sono prossimo gli uni verso gli altri e tutti soggetti all'unica legge del reciproco amore, in cui ognuno è chiamato ad essere e a farsi prossimo verso l'altro (Rm 13,8).
Il Gesù matteano, quindi, spinge i suoi ascoltatori, prevalentemente ebrei, a superare i ristretti confini di un amore riservato soltanto a coloro che ci fanno del bene o che appartengono allo stesso popolo dell'alleanza (5,46-47), per estenderlo ad ogni uomo. Il motivo di fondo è l'avere tutti lo stesso Padre, che ama di un amore indistinto sia i buoni che i cattivi. Soltanto in questo modo il nuovo credente si distinguerà sia dai pagani che dai giudei.
Ciò che deve muovere quindi il discepolo verso l'altro non è un amore che ha la sua origine in uno specifico interesse personale (il ricevere del bene o la stessa identità di appartenenza), ma il riconoscerlo come figlio dell'unico Padre, al di là delle sue qualità morali (buoni e cattivi) e della sua appartenenza al popolo eletto (giusti e ingiusti[63]), tutte divisioni e barriere queste stabilite dagli uomini, ma che non valgono presso Dio, il quale guarda tutti con un unico e indistinto amore accogliente.
I nuovi rapporti sociali, quindi, devono fondarsi guardando l'altro dalla prospettiva di Dio, superando quella limitata e fautrice di divisioni propria dell'uomo vecchio, sia esso giudeo che pagano: "Siate pertanto voi perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto".
Questo loghion finale, con cui Matteo chiude le sei antitesi e che riassume l'intero insegnamento di Gesù circa la Legge mosaica, portandola a compimento, non è chiaramente un invito a riprodurre in noi la perfezione divina del Padre, cosa umanamente impossibile per l'infinita distanza che separa Dio dall'uomo, ma nell'ambito delle sue limitate capacità l'uomo deve lavorare per togliere ogni ostacolo e ogni divisione sociale, in un continuo atteggiamento di conversione verso Dio per raggiungere la pienezza e la perfezione di se stesso, per quanto gli è concesso dai suoi limiti.
La perfezione di cui Matteo ci parla non è un idilliaco stato di vita in cui tutto va bene e tutti gli uomini sono felici; ma la perfezione, al di là della povertà e della caducità umane, consiste proprio nell'impegno da parte di ogni vero discepolo a superare le divisioni e le barriere sociali, che contrappongono gli uomini gli uni agli altri, per accedere ad un amore globale e indiviso.
Il termine téleioi (perfetti), infatti, trova il suo corrispondente ebraico in tamin, che racchiude in sé un senso cultuale di integrità e santità, richiamando quindi in qualche modo il "Siate santi perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo" (Lv 19,2)[64].
Capitolo 6, 1-34
I rapporti dell'uomo con Dio
Introduzione
Dopo le sei antitesi (5,21-48) con cui Gesù reinterpreta la Torah in alcuni suoi aspetti fondamentali, dandone un nuovo e più compiuto significato (5,17) che coinvolge l'uomo nella profondità del suo essere e lo interpella nella sincerità del suo cuore, con il cap. 6 il Gesù matteano parimenti reinterpreta il modo di praticare la Torah in alcuni suoi aspetti largamente diffusi presso il popolo: a) la pratica della giustizia in senso generale; b) quella dell'elemosina; c) quella della preghiera e d) quella del digiuno.
Si passa dunque dalla teoria dei principi enunciati e rivisitati di 5,21-48 alla pratica della giustizia riformulata dell'intero cap. 6, che troverà una sua propaggine complementare e innovativa nel cap. 7.
I capp. 5,21-48 e 6,1-34 sono pertanto tra loro strettamente connessi e complementari: il primo prende in esame il modo di comprendere la Torah e ha come tema di fondo i rapporti sociali (il divieto di uccidere; l'adulterio; il ripudio e il divorzio; il giuramento; la giustizia vendicativa; l'amore del prossimo); il secondo prende in analisi il modo di praticare la Torah e ha come tema di fondo i rapporti con Dio e l'importanza di questi su ogni altro interesse umano.
Lo stretto legame tra i due capitoli, tuttavia, non è dato solo dal loro contenuto, ma anche da una visione più ampia e complessiva, che risponde alla teologia propria di Matteo: Gesù è il nuovo Mosé, di cui il primo Mosé era solo una sua prefigurazione. Lui è il vero interprete della Torah, venuto a darne pieno compimento (5,17) e non gli Scribi e Farisei, che ne hanno usurpato la cattedra (23,2).
Al di là dei toni polemici con il giudaismo, che caratterizzano l'opera matteana, la struttura di 5,21-6,34 si richiama in qualche modo alle dieci dabarim[65], fondamento dell'Alleanza veterotestamentaria (Es 34,27-28), suddivise in due aree: rapporti con Dio (Es 20,1-11; Dt 5,6-15) e rapporti con il prossimo (Es 20,12-17; Dt 5,16-21), ma che in Matteo vengono invertite: rapporti con il prossimo (5,21-48) e rapporti con Dio (6,1-34), quasi a voler significare che i rapporti con Dio passano attraverso quelli con l'uomo. Risuonano qui come un'eco lontana le parole di Giovanni: "Se uno dicesse: <<Io amo Dio>> e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che no vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello" (1Gv 4,20-21). Per cui abbiamo:
- Rapporti con il prossimo (5,21-48): 1) divieto di uccidere
2) non commettere adulterio
3) ripudio e divorzio
4) il giuramento e la falsa testimonianza
5) la giustizia vendicativa
6) l'amore per il prossimo
- I rapporti con Dio (6,1-34) : 7) la pratica della giustizia
8) la pratica dell'elemosina
9) la pratica della preghiera
10) la pratica del digiuno
Altro elemento di continuità tra i due capitoli e che in qualche modo li accomuna è la struttura stessa della formulazione delle sei antitesi che si riproduce similmente in 6,2-17.
Lo schema dell'antitesi è "Avete udito che fu detto agli antichi ... ma io vi dico"; nella prima parte si enuncia il comandamento, nella seconda parte la sua riformulazione. Così pure in 6,2-17: nella prima parte si enuncia il modo corrente con cui si pratica la giustizia; nella seconda, introdotta sempre da un "ma tu" (sÝ dš) viene riformulato il modo corretto del praticare.
La struttura del cap. 6
v. 1: Introduzione del tema: la pratica della giustizia
La pratica della giustizia applicata in alcuni casi ricorrenti di vita quotidiana: vv. 2-18
vv. 2-4: l'elemosina
vv. 5-15: la preghiera
vv. 16-18: il digiuno
Una riflessione sulla inconciliabilità dei due diversi modi di praticare la giustizia e i loro diversi e contrapposti effetti: vv. 19-24
vv. 19-21: sono versetti di transizione che da un lato riepilogano e spiegano il senso del praticare la giustizia, che non deve essere rivolto ad accogliere i consensi umani, ma a costruire un sincero ed autentico rapporto con Dio, l'unico che rimane; dall'altro preparano il passaggio ai vv. 25-34, sottolineando la necessità di vivere una vita alla ricerca delle cose che contano e che hanno valore per il cielo.
vv. 22-23: presentano un loghion, una breve parabola, che lascia intendere come sia ciò che l'occhio cerca, che rende luminosa o meno la vita del discepolo. Inserita nel contesto del cap. 6 pone una discriminante sul comportamento del praticare: se la pratica è sincera e tende a stabilire un autentico rapporto con Dio, tutta la vita del credente ne sarà illuminata. Diversamente, se l'occhio cerca il prestigio e i consensi umani, allora anche l'intera vita ne rimarrà vittima. Tutto dunque dipende dal senso che noi imprimiamo al nostro praticare la giustizia: se rivolto verso gli uomini e verso se stessi o verso Dio. Questa è la discriminante tra la luce e le tenebre.
v. 24: presenta un secondo loghion di Gesù a completamento del primo, che evidenzia l'inconciliabilità di un doppio comportamento che da un lato tende a soddisfare Dio nella pratica della giustizia, dall'altro cerca in essa di trarre dei vantaggi personali, mettendosi in mostra presso gli uomini, svuotando in tal modo di significato religioso e salvifico il proprio praticare. La ricerca di Dio e quella degli uomini sono tra loro inconciliabili.
Il giusto orientamento esistenziale nei confronti di Dio e delle cose: vv. 25-34
vv. 25-34: sono una sorta di lunga riflessione sapienziale che cerca di metter in luce il giusto comportamento verso le cose e verso Dio, nonché la preminente importanza dell'uno sulle altre.
Analisi e commento di 6, 1-34
La pratica della giustizia
Il v. 1 apre il cap. 6 e ne imposta i tratti essenziali e la tematica. Esso si struttura in due momenti: nella prima parte si denuncia la pratica di una giustizia finalizzata ad acquisire visibilità e prestigio presso gli uomini; la seconda emette il suo giudizio su di un simile comportamento.
Vengono messe in evidente contrapposizione tra loro le due parti che ruotano attorno alle rispettive espressioni "davanti agli uomini" e "presso il Padre". Vi è dunque un confronto tra due mondi, l'uno posto sulla terra (gli uomini) e l'altro nei cieli (il Padre). Essi sono messi in concorrenza tra loro, ma il primo è chiaramente perdente nei confronti del secondo, che gli nega il suo riconoscimento e la sua ricompensa, esprimendo in ciò un giudizio di condanna, evidenziando in tal modo la vacuità e l'inutilità di un certo tipo di giustizia, che viene privata di ogni forza salvifica.
Il versetto si apre con un verbo all'imperativo esortativo "badate". L'espressione greca è "Prosšcete" che sollecita a rivolgere la propria attenzione, la propria mente e il proprio cuore verso ciò che viene ora detto, dando all'intero cap. 6 il tono di una sorta di ultimatum, ma anche di un deciso sollecito a riorientare in modo nuovo i propri rapporti con Dio.
Lo sfondo quindi è velatamente apocalittico ed escatologico e si inquadra, da un lato, nell'ambito del grande ammaestramento del discorso della montagna (5,2), che è rivelativo delle nuove esigenze del regno; dall'altro, nella più ampia cornice dell'intera predicazione di Gesù, che in Matteo ha come tema di fondo l'avvento del regno di Dio, a cui l'uomo è chiamato a rispondere, hinc et nunc, con la propria conversione: "Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: <<Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino>>" (4,17). Un annuncio che dà il tono a tutta la prima ed ampia sezione del vangelo matteano (4,17-16,20). Tutto ciò che qui viene detto è una forte spinta a prendere coscienza che sono giunti i tempi nuovi, quelli di Dio, in cui l'uomo è chiamato a prendere esistenzialmente posizione, poiché su di lui è già stato posto il giudizio divino. Non a caso infatti il Gesù matteano avverte "poiché in verità non avete ricompensa (misqÕn oÙk œcete) presso il Padre vostro che è nei cieli", usando qui un verbo al presente indicativo, che coinvolge l'uomo e lo interpella nel suo oggi quotidiano.
Il tema di fondo del presente capitolo è il modo di praticare la giustizia[66], dal quale, fin da subito, Gesù prende le distanze: "Badate di non praticare la vostra giustizia". Qui si parla della "vostra giustizia", cioè di una giustizia così come pensata e attuata dagli uomini, ma che si scosta notevolmente da quella esigita da Dio. Quell'attributo "vostra" dice tutta la distanza che separa l'uomo da Dio, che gli indica il cammino di conversione a cui egli è chiamato.
Si tratta qui di una giustizia colta in senso lato, anche se nei versetti seguenti verrà esemplificata in tre momenti diversi (elemosina, preghiera e digiuno), che costituiscono il fondamento della vita di pietà dell'israelita (Tb 12,8). Sotto accusa quindi è l'intero modo di praticare la giustizia, cioè di intrattenere i propri rapporti con Dio; rapporti che l'uomo è chiamato a riconsiderare integralmente.
Praticare la giustizia per essere considerati dagli uomini significa vanificare il senso stesso del praticare, svuotandolo del suo intero significato e del suo contenuto salvifico, poiché in tal modo l'uomo non è più rivolto a Dio, ma verso se stesso, facendo della giustizia uno strumento a servizio del proprio Ego. Al centro di questa salvezza quindi non ci sta più Dio, ma l'uomo, il quale non è in grado di darsi quella salvezza, che gli è preclusa da Dio stesso: "non avete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli". Un tale modo di comportarsi chiude l'uomo nel suo triste destino, togliendogli ogni speranza e rendendo inutile il progetto salvifico pensato da Dio fin dall'eternità: recuperare in Cristo l'uomo alla dimensione divina da cui proviene (Ef 1,4).
vv. 6, 2-17: questa ampia pericope abbraccia i tre fondamentali modi con cui il pio ebreo viveva la quotidianità della sua giustizia: elemosina, preghiera e digiuno, elementi questi che troveranno ampia ospitalità anche presso le prime comunità cristiane.
Lo schema letterario, su cui si snoda la presentazione della pratica della giustizia, è scandito in tre momenti:
a) Presentazione del modo scorretto con cui viene praticata: rendersi visibili all'uomo, per riceverne la lode. Questa costituisce, per l'ebreo che si ritiene giusto, la sua ricompensa, che lo esclude però da quella divina.
b) Presentazione del modo corretto di praticare la pietà, introdotto sempre dalla contrapposizione "sÝ dš", "ma tu", che oppone l'uno all'altro, in modo irriducibile, i due tipi di pratica.
c) Il nuovo modo di praticare la giustizia è sempre caratterizzato dal fondamentale elemento della segretezza, che non dà visibilità ed esclude la persona pia dalla lode umana, ma lo apre a quella più proficua e salvifica del Padre.
Al centro dei tre elementi della pietà si pone la preghiera, a cui Matteo dedica ben undici versetti, evidenziandone in tal modo l'importanza nella vita di pietà del credente, poiché essa mette in stretta relazione l'uomo con Dio, ne definisce il rapporto, nonché il suo orientamento esistenziale.
Ogni trattazione inizia con l'avverbio di tempo “Otan (quando), (6,2.5.16) che da un lato fornisce la cornice temporale ed esistenziale entro cui si colloca l'agire religioso e, dall'altro, richiama l'attenzione dell'ascoltatore, delimitandone lo spazio di attenzione e di ascolto.
Le motivazioni del vecchio modo di praticare costituiscono il comune denominatore di tale comportamento:
· "per essere glorificati" (doxasqîsin);
· "per mostrarsi agli uomini" (fanîsin to‹j ¢nqrèpoij);
· "per far vedere agli uomini" (fanîsin to‹j ¢nqrèpoij);
C'è dunque una ostentata ricerca di visibilità presso gli uomini per ottenere da loro delle lodi e dei riconoscimenti.
Significative sono le diversità delle ricompense, conseguenti alla radicale diversità dei comportamenti tenuti nel praticare:
· per chi cerca l'appariscenza davanti agli uomini, in tutti tre i casi considerati (elemosina, preghiera e digiuno), la ricompensa è immediata; il verbo qui è significativamente posto al presente indicativo: "ricevono la loro ricompensa"; un presente, tuttavia, che li esclude dal futuro di Dio (6,2b.5.b.16b). Tale sentenza è aggravata dalla solennità giurata: "¢m¾n lšgw Øm‹n", "in verità vi dico", ripetuto per tre volte (6,2b.5.b.16b);
· per chi pratica nel segreto, invece, la ricompensa non è immediata, ma posticipata, proiettata nel futuro escatologico di Dio, a cui il nuovo credente già appartiene per la sua fede: "ti ricompenserà", "¢podèsei soi" (6,4b.6b.17b).
La diversità della ricompensa è sottolineata non soltanto dalle diverse motivazioni che sottendono il praticare, ma anche dalla diversità dei soggetti che offrono la loro ricompensa e che dicono tutta la grande distanza che separa i due diversi modi di praticare, nonché il loro valore e il loro significato: da una parte gli uomini; dall'altra il Padre.
Significativi, infine, sono i due verbi che animano l'azione del ricompensare: l'uno, quello degli uomini, è posto al presente (¢pšcousin) per indicare come gli effetti del praticare si esauriscono entro gli spazi della storia, senza lasciare più traccia. Come dire che per tale modo di comportarsi non c'è futuro né speranza; l'altro, quello del Padre, è posto al futuro (¢podèsei), un tempo questo che trascende gli stretti limiti della storia, riconducendo l'uomo direttamente nella vita futura, in Dio.
Anche la diversità dei due verbi usati per indicare la ricompensa (¢pšcw e ¢pod…dwmi) esprimono tutta la distanza che separa i due modi di praticare:
· per la ricompensa data dagli uomini l'autore usa il verbo ¢pšcw, che indica l'ottenere, l'avere, il conseguire un qualche cosa di concreto e immediato e, quindi, il possedere, che ha come centro e meta del beneficio l'uomo stesso. C'è qui una sorta di interscambio di tipo economico: il presentare una certa immagine di sé, il dare un certo spettacolo di se stessi per ottenere in cambio il pagamento con moneta morale: la lode, l'ammirazione, il plauso degli uomini.
· Per quella data dal Padre Matteo usa il verbo ¢pod…dwmi che assume una valenza tutta particolare: restituire, rendere. L'azione quindi non ha come centro e come meta finale il proprio Ego bensì Dio, che restituisce come un dono[67] di benedizione e di vita il praticare a Lui rivolto. Questo verbo implicitamente racchiude in sé un significato di culto e di azione liturgica compiuti da chi pratica volgendo il suo cuore a Dio. Non a caso il verbo usato dall'evangelista possiede anche il significato di compiere, adempiere nei confronti di Dio.
In tal modo viene definito il significato profondo dei due modi di comportarsi: l'uno, posto su di un piano commerciale di interscambio, è finalizzato all'acquisizione di una certa posizione sociale; l'altro, rivolto segretamente a Dio, trasforma la vita in un atto di culto divino e in una celebrazione liturgica di lode e ringraziamento, che ha come conseguenza un ritorno di benedizione e di vita.
L'elemosina: 6,2-4
Il v. 6,2 si apre con l’avverbio "oân" (pertanto), che lega i tre temi (elemosina, preghiera e digiuno) a quello più ampio e generale della pratica della giustizia, di cui sono una specificazione e da cui dipendono.
Il primo argomento è l'elemosina: "quando fai l'elemosina" (™lehmosÚnhn).
Il termine, tradotto con elemosina, ha la sua radice nel verbo ™lešw, che significa avere pietà, compassione, compiangere. L'elemosina quindi definisce il gesto di pietà e di compassione verso l'altro; un gesto che è sotteso da un comportamento compassionevole, che dice condivisione di un certo stato di disagio con chi è meno fortunato. Già il Siracide esortava a "non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto" (Sir 7,34); parole che trovano una loro eco nella lettera di Paolo ai Romani: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto" (Rm 12,15)[68].
Ma questo gesto di pietà e di compassione era stato svuotato di ogni suo significato e valore davanti a Dio e si era trasformato in un atto di culto rivolto verso il proprio Ego.
Matteo con 6,2 ci testimonia di un'usanza che doveva essere piuttosto diffusa nel suo tempo, se l'ha presa come esempio da non imitare. Chi faceva dell'elemosina si metteva in bella mostra nei luoghi pubblici (sinagoghe e strade), gettando delle monete in appositi contenitori. Queste rimbalzavano contro una sorta di imbuto in bronzo, che le raccoglieva, convogliandole in un contenitore. In tal modo si produceva un forte tintinnio metallico che attirava l'attenzione dei passanti, così che tutti venivano a conoscenza del pubblico gesto di generosità.
Questi personaggi sono definiti da Gesù come Øpokrita… [69], cioè attori che recitano la parte di coloro che piamente fanno la loro offerta, ma in realtà essi tendono ad attirare l'attenzione della gente su se stessi per farsi ammirare nella loro generosità. Tale gesto perde ogni significato di pietà, che è atto di culto rivolto a Dio, tingendosi di empietà, poiché la sacralità dell'elemosina viene trasformata in un atto di culto al proprio Io. Si cade quindi nella peggiore idolatria, quella di se stessi.
In questo preciso istante si compie un giudizio sull'ipocrita: riceve immediatamente la ricompensa da parte degli uomini, sotto forma di ammirazione e di lode, ma si preclude, hinc et nunc, l'approvazione divina. Il verbo infatti è al presente, "ricevono", che chiude l'ipocrita nell'effimero mondo della storia, escludendolo dal futuro di Dio, che invece viene riservato a chi opera nel segreto, cioè esclusivamente per Dio: "ti renderà il contraccambio". Quest'ultimo gesto possiede in sé la forza di superare gli stretti spazi della storia, collocando l'uomo fin da subito in quelli di Dio. Il verbo posto al futuro infatti dice tutta la potenza di tale atto di culto, che si fa liturgia di lode a Dio, e spinge chi lo compie in una diversa dimensione, quella divina.
La preghiera: 6,5-15
La pericope 6,5-15 mette in rilievo il tema della preghiera, elemento centrale della vita di pietà e di relazione con Dio. I vv. 5-6 presentano uno schema che si ripete identico sia in 6,1, in 6,2-4 e in 6,16-17. In ogni caso viene condannata la strumentalizzazione degli atti di pietà che, spesi nella ricerca della propria visibilità, si trasformano in empietà, cioè in culto a se stessi.
La pericope è scandita in tre momenti ed è finalizzata a mettere in rilievo e a confronto tra loro (l'intento è polemico) i tre modi di approccio alla preghiera diffusi in quel tempo presso il mondo giudaico, di cui si denuncia l'ipocrisia; presso il mondo pagano, di cui si ridicolizza la verbosità; presso il mondo cristiano, di cui si mette in rilievo la novità e l'originalità del pregare.
· Nei vv. 5-6 si parla del comportamento e delle intenzioni di fondo che devono animare il giusto atteggiamento orante: esso deve orientare l'uomo verso Dio e non essere speso alla ricerca di un proprio effimero tornaconto. Qui il dito viene puntato contro un certo modo di pregare, che era piuttosto diffuso presso il mondo giudaico.
· i vv. 7-8 sono una sorta di transizione verso un nuovo tipo di preghiera: da quella di semplice richiesta, che ha come finalità propria il soddisfacimento delle esigenze del proprio Io, ad un altro più completo e di più ampio respiro che investe l'intero rapporto uomo-Dio. Le critiche in questi versetti sono rivolte contro la verbosità della preghiera in uso presso il mondo pagano.
· i vv. 9-15 presentano l'esemplificazione tipo della preghiera, in cui vengono indicate, per gradi, le esigenze e le priorità che stanno alla base e a fondamento del rapporto uomo-Dio. Matteo presenta la novità della preghiera inaugurata dal nascente mondo cristiano.
La preghiera è l'elemento fondamentale che caratterizza ogni religione. Essa è lo strumento che pone in diretta comunicazione l'uomo con Dio. Per sua natura è dialogica e si esprime sempre in un Io che va verso il Tu, aprendosi ad una comunione di vita con Lui. Proprio per questo la vera preghiera si può definire come un orientamento esistenziale dell'uomo verso Dio; un orientamento che delinea nell'uomo un atteggiamento orante e qualifica il suo modo di vivere, valorizzandolo.
Posta entro tale cornice la vita assume un profondo significato spirituale di culto divino, una liturgia di lode e ringraziamento a Dio. In tal senso Paolo esorta la comunità di Roma a fare della propria vita una vita sacerdotale celebrante un culto divino: "Vi esorto dunque fratelli per la misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1). Non è pertanto pensabile una preghiera saltuaria od occasionale, relegata in qualche angolo della giornata o della settimana, poiché la vera preghiera si radica nella vita stessa dell'uomo, trasformandola tutta in un unico atto orante, che può assumere nei vari momenti esistenziali forme diverse. Rivolto ai Corinti Paolo li spinge a fare della loro vita quotidiana una preghiera viva, così che il loro vivere sia un vivere per il Signore: "Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio" (1Cor 10,31).
La vera preghiera, dunque, quella autentica, sgorga dalla vita ed è fatta dalle semplici azioni che compongono la quotidianità della vita stessa. In tal modo la preghiera diventa un'azione, una forza consacrante l'intera vita dell'uomo e la lega in una inscindibile comunione con Dio, il Luogo in cui l'Io si incontra e si unisce al suo Tu.
La preghiera veterotestamentaria[70] ha il suo fondamento in due fatti storici e su questi si struttura e si qualifica: la rivelazione del nome di Jhwh (Es 3,13-15), come Dio unico e sovrano sopra tutti gli altri dèi (Es 20,3-6; Dt 6,4); e l'Alleanza, su cui si fonda e si qualifica la relazione e la comunione tra Dio e il suo popolo, scelto e costituito come proprietà di Jhwh, nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,5-6).
La preghiera dell'israelita si pone dunque entro questa cornice di rivelazione-relazione-elezione e si costituisce come risposta esistenziale alla parola di Jhwh, percepita come un Dabar, cioè come una parola-azione, che opera e si compie nella storia ed entra storicamente in relazione con Israele. Essa è rivelatrice e salvatrice. Jhwh, infatti, è sempre colto come un Dio che è strettamente legato a dei fatti storici[71], ad una promessa[72] e a delle persone[73].
L'intera storia di Israele pertanto va colta come una costante ed ampia preghiera che si dispiega lungo i secoli e si costituisce come relazione-risposta al Dabar-Jhwh che interpella storicamente il suo popolo. Tutta la vita del pio israelita, nel suo compiersi quotidiano, è percepita come una preghiera di lode, ringraziamento, benedizione e supplica.
I Salmi si collocano proprio in questa prospettiva. Essi sono una raccolta di centocinquanta composizioni poetiche, cariche dello stesso pathos che sgorga dalla vita di ogni giorno e che abbracciano un tempo di circa dieci secoli[74]. Essi sono l'espressione più vera e genuina dell'anima del pio israelita, che sa leggere e vivere teologicamente la sua storia personale e del suo tempo, e ad essa risponde in ogni occasione con la propria vita costantemente aperta e rivolta al suo Dio, che percepisce e sente palpitare in ogni evento in cui è coinvolto.
La grandezza di questa preghiera era andata perduta nel tempo e si era ridotta ad una formale esecuzione di comandi e prescrizioni della Torah, privata quindi della sua anima e ridotta ad un mero strumento di esaltazione del proprio Io. Essa non era più mossa dalla pietà, ma dall'empietà, perché non più rivolta verso Dio, ma verso se stessi e verso gli uomini.
La sferzata dei vv. 6,5-6 tende quindi da un lato a stigmatizzare un comportamento che profana la sacralità della preghiera e quindi del rapporto con Dio, dall'altro punta a restituire alla preghiera la sua vera identità e la sua vera anima: il sincero aprirsi di un dialogo esistenziale con Dio, che fa della vita un atto di culto e una celebrazione liturgica, qualificandola come azione sacerdotale consacratoria.
Dal tema della preghiera in senso generale e dal corretto atteggiamento orante che la deve sottendere, i vv. 6,7-8 ci introducono gradualmente ad un particolare tipo di preghiera, quella di domanda ("il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno prima che voi glielo chiediate"). E mentre nei vv. 5-6 venivano stigmatizzate le motivazioni che sottendevano il pregare del giudeo ipocrita, che recitava la parte del pio israelita, ma che in realtà cercava soltanto il proprio tornaconto, i vv. 7-8 vanno a colpire non più le motivazioni bensì la forma con cui si esprime la preghiera. Vittime designate questa volta non sono più gli ebrei, ma i pagani.
Come il v. 6 (sÝ dš, "ma tu") anche il v. 7 si apre con una contrapposizione (ProseucÒmenoi dš, "ma quando pregate”). L'accento in entrambi i casi cade su due modi di pregare contrapposti a quello nuovo proposto dal cristianesimo. Quel "dš" (ma) mette in evidenza tutta la diversità dei due mondi, quello giudeo-pagano e quello nuovo cristiano, che si stava affermando e ritagliando degli spazi propri in mezzo ad una realtà che sentiva estranea e avversa. Attraverso questo confronto l'evangelista intende mostrare l'originalità della preghiera e del nuovo modo di rapportarsi a Dio, che trova la sua unicità nella figura e nel messaggio del Cristo.
Matteo, quindi, in questi versetti presenta la novità assoluta della preghiera cristiana, prendendo le distanze sia dal mondo giudaico che da quello pagano; del primo condanna le motivazioni che sottendono il pregare, del secondo la prolissità con cui si esprime. In entrambi i casi viene denunciato un rapporto sbagliato nei confronti di Dio.
Il pregare dei pagani viene definito da Matteo in termini spregiativi con il verbo battologšw; esso pertanto è un cianciare, un parlare a vanvera, un ripetere vanamente sempre le stesse cose, quasi che questa verbosità eccessiva costringesse la divinità a compiere la volontà dell'orante, assegnando alle parole una sorta di potere magico sulla divinità stessa. L'autore fa intendere come non sono le parole a determinare la volontà di Dio, ma il rapporto filiale che nella preghiera il nuovo credente intraprende con la divinità e il suo mondo. In questo nuovo modo di pregare la divinità non è più definita con il nome di Dio o di Jhwh, creando in tal modo una distanza incolmabile con l'uomo, bensì con quello più dolce e familiare di Padre, verso il quale il nuovo credente si rapporta come un figlio. Cambiano quindi radicalmente i rapporti dell'uomo con Dio e le distanze sono ridimensionate e riportate all'interno del rassicurante rapporto familiare: "Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio" (Ef 2,19).
Il v. 6,8 si apre con un'esortazione: "non siate simili a loro"; la motivazione di questa esortazione risiede nel fatto che il Padre conosce già le esigenze del figlio ancora prima che questi le esprima. Questa affermazione sposta l'attenzione dalle parole al rapporto: la preghiera non è una recita di formule preconfezionate dal sapore magico, ma è essenzialmente uno stabilire un rapporto esistenziale con Dio, un mettersi in comunicazione e in comunione con Lui, un abbandonarsi nelle sue mani in modo fiducioso e filiale.
In Cristo ogni barriera viene abbattuta e la distanza che separava l'uomo da Dio, annullata: "Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20,17b). Questa è la dimensione del nuovo rapporto che è venuto a crearsi in Cristo tra l'uomo e Dio, questa è la nuova dimensione della preghiera: un rapporto di paternità e filialità che condividiamo con Cristo e in Cristo.
Preceduto da ben otto versetti preparatori (6,1-8) il v. 9 inizia con "OÛtwj oân", "così pertanto"; due particelle che potremmo definire di transizione da un certo modo vecchio e superato di rapportarsi alla divinità ad uno completamente nuovo. Con l'espressione oân (pertanto), Matteo porta a conclusione tutto il ragionamento precedente, mentre con "OÛtwj" (così) apre e introduce in una nuova dimensione della preghiera, che si distacca e si contrappone nettamente al vecchio modo di pregare del mondo giudeo-pagano.
In questa semplice preghiera, molto densa e profonda, si aprono nuovi spazi e nuove dimensioni, disegnando e prospettando nuovi rapporti con la divinità e con il suo mondo. In tal modo vengono ridefiniti i rapporti dell'uomo con Dio e se ne prospettano le conseguenze, le esigenze e le priorità.
Il Padre nostro: 6, 9b-15
Introduzione
Gli Scritti neotestamentari ci hanno tramandato di questa preghiera due forme molto diverse tra loro. Una, quella matteana (6,9b-13), molto ricca ed elaborata, che risente di un sitz im leben[75] di tipo liturgico, che affonda le sue radici nella liturgia ebraica; l'altra, quella lucana (11,2-4), molto sintetica, essenziale, scarna al punto tale da dubitare che si tratti, a nostro avviso, di una vera e propria preghiera, quanto piuttosto di una indicazione di temi fondamentali che devono animare e sostanziare la preghiera e della loro priorità: prima le esigenze di Dio e poi quelle degli uomini; vedremo poi come queste siano tra loro concatenate.
Il contesto in cui si inserisce il "Padre nostro" lucano, infatti, a differenza di quello matteano, è di tipo didascalico; ricorrono qui insistentemente i termini propri dell'insegnamento: Giovanni e Gesù sono implicitamente presentati come maestri, in quanto soggetti del verbo insegnare (did£skw); i discepoli (maqhtîn, maqht£j) e i verbi dell'insegnamento (d…daxon, ™d…daxen), fatti seguire immediatamente dalle parole di Gesù: "e disse loro:<<Quando pregate, dite ... >>" (Lc 11,2a). Queste parole, quindi, poste in questo contesto, si qualificano come un impartire un insegnamento. Il Gesù lucano, pertanto, non insegna una preghiera, ma definisce priorità e contenuti del pregare, indicando anche il tipo di rapporto e di relazione che intercorrono tra la divinità e l'orante, invitato a rivolgersi a Dio direttamente con il nome di Padre.
Proprio per la sua scarna essenzialità la preghiera lucana sembra rispondere meglio all'insegnamento originale di Gesù[76], che sintetizza e ricapitola in essa i punti fondamentali e qualificanti della sua predicazione, facilitandone in tal modo la memorizzazione e la trasmissione[77].
Totalmente diverso è il contesto matteano in cui si inserisce il "Padre nostro". Esso è innanzitutto posto all'interno del primo grande discorso di Gesù (5,1-8,1), che funge da collettore di loghia attribuiti a Gesù, una sorta di antologia elaborata da Matteo. Il contesto immediato è il modo corretto di praticare la giustizia. Elemosina, preghiera e digiuno sono i tre temi fondamentali che sostanziano la pietà ebraica e quella della cristianità primitiva. Il leit motiv è pertanto come porsi in relazione e comunione con Dio in modo da essere a Lui graditi ed accetti: al centro di tutto ci devono stare le esigenze di Dio e non quelle dell'uomo.
Ecco pertanto il "Padre nostro" che soddisfa a queste esigenze e si pone come esempio del nuovo modo di pregare e di rapportarsi a Dio, colto non più come un'anonima entità trascendente lontana dalle esigenze degli uomini, ma come un Dio che in Gesù si è fatto vicino a loro e su di loro si china con fare materno e paterno, mostrando il suo volto affabile e umano di Padre.
Il "Padre nostro" matteano risente nella sua forma, come si è detto sopra, dell'ambiente liturgico giudaico e trae, a nostro avviso, la sua origine e formazione proprio da questo. Non si può quindi parlare di una preghiera originale, sgorgata dall'inventiva e dalla spiritualità di Gesù, quanto piuttosto di una rielaborazione e una sintetica ricomposizione di preghiere già esistenti nel culto ebraico[78]. Ciò testimonia come il pregare di Gesù non fu un qualcosa che si contrapponeva al suo mondo, ma, al contrario, si radicava profondamente nella tradizione stessa del suo popolo[79], dando ad essa un senso completamente nuovo (Mt 5,17). La sua originalità e il suo nuovo significato vanno ricercati, da un lato nella novità stessa della predicazione di Gesù e del senso della sua missione, dall'altro in quel porsi direttamente in relazione a Dio, colto esclusivamente come Padre nel senso di Abbà[80], cosa inaudita per il pio ebreo, che intende la sua relazione con Dio-Padre in termini di Creatore-creatura, re-suddito, padrone-servo[81], vedendo in Dio prevalentemente un'Autorità assoluta a cui si deve obbedienza.
La struttura e il suo simbolismo
La struttura del "Padre nostro" si compone essenzialmente di due parti qualificate sia da una diversità di soggetti che le abitano, il Padre e noi, sia dalle diverse richieste in esse contenute. Il tutto ruota attorno ad un soggetto principale, il Padre, che funge da perno centrale attorno a cui tutto si muove, tutto trova la sua giustificazione e in cui tutto si ricompone.
L'apertura della preghiera con l'espressione "Padre nostro che sei nei cieli" funge da intonazione introduttiva all'intera invocazione, e già qui preannuncia che essa si suddividerà in due parti: l'una riguardante le esigenze del Padre ("che sei nei cieli"), l'altra riguardante le esigenze proprie dell'uomo, colto in termini comunitari e interelazionali ("nostro").
La figura del Padre pertanto viene qualificata da due elementi fondamentali che verranno poi sviluppati nel corso dell'intera preghiera, ma con ordine inverso: "nostro" e "che sei nei cieli".
L'attributo "nostro" definisce la relazione primaria che intercorre tra il Padre e il noi e troverà la sua precisazione nella seconda parte della preghiera; mentre il "che sei nei cieli" rivela la natura divina di questo Padre e indica tutta la distanza che intercorre tra il Lui e il noi. Questo aspetto occuperà la prima parte.
Il rovesciamento dell'ordine con cui si sviluppa la preghiera ricalca in qualche modo lo svolgimento delle dieci Davarim[82], i dieci comandamenti: i primi tre riguardano le esigenze di Jhwh (Es 20,3-11), i successivi sette definiscono le relazioni tra gli uomini (Es 20,12-17). Questo ordine rispecchia i due comandamenti fondamentali su cui poggia l'intera Torah e che Gesù stesso evidenzierà nel suo dialogo con il fariseo, sottolineando la stretta relazione che intercorre tra i due: "Gesù gli rispose: <<Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente[83]. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso[84]. Da questi comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti>>" (Mt 22-37-40). Da questa priorità ricordata da Gesù e dal parallelismo che egli pone tra i due comandamenti si evince come l'amore per Dio e per il prossimo, pur ponendosi su piani completamente diversi, tuttavia sono tra loro strettamente connessi al punto tale che l'uno non può sussistere senza l'altro. Una posizione questa che anche Giovanni riprende nella sua prima lettera e ricorda alla sua comunità: "Se uno dicesse: <<Io amo Dio>> e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: Chi ama Dio, ami anche il suo fratello" (1Gv 4,20-21).
Il prima Dio e poi noi oltre che indicare l'ordine delle cose e la priorità delle esigenze, che necessariamente vanno rispettate, considerata la distanza che separa Dio dall'uomo, dice anche come le esigenze primarie dell'uomo trovano il loro compimento e la loro soddisfazione nel rispetto delle esigenze divine, poiché l'esigere di Dio è sempre in funzione e a favore dell'uomo.
Da ultimo, una considerazione va posta sul numero delle richieste. Matteo ne elenca sette, di cui tre riferite a Dio (la santificazione del suo nome, la venuta del suo regno e il compimento della sua volontà); e quattro riguardanti l'uomo (il dono del vero pane, il perdono dei propri debiti, l'evitarci la prova e la liberazione dal Peccato, che come vedremo per Matteo è il rinnegamento della propria fede in un contesto di prova).
Il simbolismo dei numeri, considerata l'estrazione culturale di Matteo, non va, a nostro avviso, trascurata. Il sette è qui dato da un tre più quattro. Il tre ricorda l'inizio, ciò che sta di mezzo e la fine, e quindi il compiersi pieno e perfetto di un'azione, che ha la sua origine in Dio stesso. Dice pertanto la perfezione di un compimento. Come dire che i tre elementi che compongono questa prima parte (santificazione del nome, venuta del regno e compimento della volontà) costituiscono il compiersi pieno e perfetto del disegno salvifico di Dio a favore dell'uomo, la cui risposta si fa culto esistenziale a Dio e si manifesta storicamente in un suo impegno perché tale progetto si compia; in esso l'uomo trova la sua piena realizzazione come uomo, così come pensato da Dio nei primordi dell'umanità stessa, in cui Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31).
Il numero quattro allude alla totalità cosmica: quattro infatti sono i venti principali, quattro i punti cardinali, quattro le stagioni, quattro sono gli elementi che compongono il mondo conosciuto (fuoco, acqua, terra, aria). Il quattro quindi simbolicamente definisce la totalità[85]. Le quattro richieste (il dono del pane, il perdono dei propri debiti, l'evitarci la prova e la liberazione dal Peccato) di questa seconda parte sono pertanto colte da Matteo come gli elementi costitutivi e fondamentali che definiscono la nuova comunità messianica, la quale alle esigenze del suo necessario sostentamento terreno affianca anche quelle delle relazioni sociali fondate sull'amore misericordioso e quelle della perfezione spirituale, che introducono ad una vita di relazione con Dio e ne preludono la pienezza.
Il sette dice la pienezza, il compimento realizzato, la perfezione. Dio infatti termina la sua opera e la porta a compimento soltanto nel settimo giorno, che benedice, rendendolo fecondo di vita, e consacra, riservandolo a se stesso, trasformandolo nel luogo della sua abitazione (Gen 2,1-3). Matteo, pertanto, vede in queste sette richieste (tre più quattro), che hanno come cornice strutturale e filo conduttore l'agire del Padre che si intreccia con quello dei figli, la pienezza e la completezza del vivere cristiano, permeato dalla presenza del Padre, che non abbandona mai i suoi figli nel loro cammino quotidiano verso di Lui, secondo la sua promessa: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20b).
Il commento
"Padre nostro che sei nei cieli"
Il Padre, principio di una nuova creazione, in cui ci vede figli
Come la creazione, scandita in sette giornate, inizia con "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1), ponendo all'origine di tutto Dio ("In principio Dio"), da cui tutto discende, prende forma e vita (1Cor 8,6), così la nostra preghiera, (ma forse è meglio chiamarla "relazione di comunione con Dio") pone all'inizio il Padre, colto nella sua trascendenza ("che sei nei cieli") immanente ("nostro"). Anche qui questa preghiera si snoda in sette richieste che qualificano l'uomo come una nuova creazione, ponendolo in una nuova posizione e relazione nei confronti di Dio, non più chiamato con tale nome, ma con quello più semplice, immediato e familiare di Padre, il nuovo nome di Jhwh. Vedremo in seguito come è proprio tale nome di Padre che rivela la nuova creazione avvenuta in Cristo, in cui l'intero cosmo e l'intera umanità, strettamente solidali tra loro, sono posti.
Il concetto di Dio come Padre nell'A.T.
Benché il concetto di Dio come Padre, che è nei cieli[86], non sia sconosciuto al mondo dell'A.T., tuttavia esso non è mai inteso in senso di paternità diretta o adottiva, ma è soltanto un'immagine, una sorta di metafora per descrivere una relazione con un Dio sentito esclusivamente come un'autorità, che ha cura affettuosa del suo popolo e a cui si deve obbedienza (Is 5,1-7). Ed è proprio l'obbedienza, intesa come scrupolosa osservanza della Torah (Es 24,3.7; Dt 5,27), che qualifica Israele come figlio all'interno dell'Alleanza, per cui Jhwh ne è Padre.
La paternità di Dio tuttavia è intesa talvolta anche in senso proprio di un Dio che ha generato Israele a partire dalla promessa fatta ad Abramo fino alla sua entrata nella terra promessa (Dt 32,7-14): "Così ripaghi il Signore, popolo stolto e insipiente? Non è lui il Padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? ... La Roccia che ti ha generato tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato" (Dt 32,6.18). Jhwh dunque è il Padre di Israele in quanto ne è il suo ideatore e creatore. In tale contesto il rapporto di paternità-figliolanza si fonda sul concetto di Creatore-creatura. Va tuttavia rilevato che il concetto di Dio come Padre è sempre stato del tutto marginale nell'ambito della fede ebraica[87], che non ne ha mai fatto un suo caposaldo.
Il concetto di Dio come Padre nel N.T.
Gesù non rinnegherà questa idea di Dio come Padre, formatasi lungo la storia veterotestamentaria e da lui ereditata dalla Tradizione ebraica, ma ne cambierà radicalmente il contenuto e, di conseguenza, ciò influirà sulla relazione stessa con Dio, la cui paternità nel N.T. è posta al centro e a fondamento delle nuove relazioni con Dio stesso, aprendo nuovi spazi ed orizzonti al concetto di figliolanza.
Gesù si rivolgerà a Dio chiamandolo "Padre mio", ma non in senso metaforico o figurato bensì reale, lasciando trasparire un suo rapporto con Dio del tutto particolare, unico ed esclusivo, così da creare imbarazzo e scandalo presso i suoi stessi interlocutori: "Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio" (Gv 5,18).
La paternità di Dio nei confronti di Gesù trova la sua origine ancor prima della creazione del mondo e di ciò Gesù sembra averne pienamente coscienza[88]. Si tratta pertanto di una coeternità con il Padre nel quale Gesù trova la sua identità, mentre in lui si rispecchia quella del Padre in una reciproca compenetrazione divina[89], così che l'operare di Gesù è lo stesso operare del Padre[90] e vedere, conoscere, amare e onorare Gesù è vedere, conoscere, amare e onorare lo stesso Padre[91]. Gesù pertanto è il volto storico del Padre, il luogo storico privilegiato in cui il Padre abita, vive e si muove nella dimensione storica (Gv 16,32b), interpellando gli uomini nel loro stesso habitat naturale, spingendoli, nel Figlio, a prendere posizione nei suoi confronti. Il rapporto che intercorre tra i due è di totale e pieno amore reciproco[92], così che il Padre si consegna nelle mani del Figlio, dandogli ogni potere[93]: "Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa" (Gv 3,35), mentre il Figlio si abbandonerà nelle mani del Padre (Lc 23,46), restituendogli al termine della sua missione terrena lo Spirito (Gv 19,30b[94]) che lo ha sempre accompagnato e in cui e per mezzo del quale Gesù ha sempre operato (Lc 4,1.16-21).
Padre e Figlio costituiscono tra loro, in buona sostanza, una unità inscindibile, pur nella loro diversità e distinzione di persona e di azione, per cui il Padre non è il Figlio, né il Figlio è il Padre.
Vediamo ora come questo rapporto e questa relazione, che si muovono all'interno della comune ed unica divinità, non sono chiusi in se stessi, né fine a se stessi, ma si muovono in funzione e a favore dell'uomo. In altri termini la relazione tra Padre e Figlio è estesa, condivisa e compartecipata, in Cristo e per Cristo, anche all'uomo.
Lo lascia intendere Gesù nel suo rivolgersi alla Samaritana. Questa lo interpella sul luogo in cui bisogna adorare Dio (Gv 4,19-20); Gesù le risponde che "né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre ... ma i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Gv 4,21.23). Già qui Gesù abbandona il tradizionale concetto di Dio indicato dalla Samaritana e lo sostituisce per ben tre volte con quello nuovo di Padre. In Gesù, quindi, l'uomo non si trova più di fronte ad un Dio variamente definito nell'A.T. come El o Elohim (la Divinità), El Elyon (il Dio Altissimo), El Sadday (il Dio Onnipotente o della Montagna), El Olam (il Dio Eterno), El roi (il Dio che vede), El Hai (il Dio vivente), El Kanna (il Dio Geloso) o il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe o il più conosciuto Jhwh, nomi in cui si rispecchiano le varie esperienze che l'umanità veterotestamentaria aveva fatto di Dio. Questa variegata definizione di Dio viene sostituita da Gesù con quella più semplice, unica, immediata e familiare di Padre, che l'uomo ha conosciuto in Gesù stesso. In Gesù dunque Dio perde il suo anonimato e il suo volto dalle numerose ed ambigue sfaccettature per assumere quello unico e inequivocabile di Padre, che nel suo Figlio ama l'uomo e con il Figlio prende dimora presso di lui (Gv 14,23), così che egli, il credente, diventa la nuova dimora del Padre insieme al Figlio (1Cor 6,19). In tal modo Padre, Figlio e credente formano una cosa sola, uniti in un unico flusso di amore (Gv 14,20) in cui tra Padre, Figlio e credente non esistono più segreti e ambiguità, poiché tutto ciò che Gesù ha saputo dal Padre lo ha rivelato a noi e ce ne ha fatti partecipi (Gv 15,15).
Gesù stesso è dono di amore del Padre all'uomo, così che egli, Gesù, si presenta a noi come il volto storico di questo amore (Gv 3,16).
E' un Padre che non abbandona l'uomo, ma per mezzo del suo Figlio gli manda il Consolatore, il cui compito non è solo di fargli comprendere e ricordare tutte le verità insegnategli da suo Figlio (Gv 14,26; 15,26), ma anche di condurlo alla verità tutta intera, alla pienezza della verità (Gv 16,13).
In tal modo il credente ha finalmente ritrovato in Gesù, volto storico del Padre e luogo della sua dimora e della sua rivelazione, la sua originaria e primordiale paternità, quando Dio, il Padre, nello splendore della prima creazione ha fatto risuonare il suo decreto creativo: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza ... allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue nari un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente" (Gen 1,26a.2,7). Un uomo che aveva perso la sua originaria identità di figlio, ritrovandosi nudo (Gen 3,7a), spoglio cioè della stessa vita divina, di cui era stato reso partecipe con il soffio vitale di Dio, rimanendo rivestito della sola animalità (Gen 3,21). Ma l'uomo ritroverà nuovamente questo soffio vitale, che lo ricostituirà figlio di Dio nel Cristo risorto, per mezzo del quale Dio soffia nuovamente sull'uomo e nuovamente lo rende essere vivente: "Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo, ...>>." (Gv 20,22).
In tal modo l'uomo ricreato in Cristo, in lui accorpato per mezzo della fede e del battesimo, acquisisce di diritto la filiazione divina: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli" (Gal 4,5). E proprio perché figli "noi non abbiamo ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma abbiamo ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre" (Rm 8,15-16).
Grazie a questa filiazione divina, l'uomo diventa erede delle promesse della gloria messianica. Infatti, "Se siamo figli, siamo anche eredi : eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria." (Rm 8,17).
Nello splendore di questa seconda creazione, compiutasi nel Cristo risorto, l'uomo è stato quindi ricostituito nuovamente figlio di Dio, a Lui rigenerato e reso nuovamente compartecipe della sua vita divina così che Gesù, rivolto alla Maddalena, la sollecita: "... va dai miei fratelli e di' loro: <<Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro>>" (Gv 20,17b). Gesù ha quindi condiviso con noi suo Padre e noi siamo divenuti in lui veri figli di Dio e non in senso metaforico, ma veri figli nel Figlio: "Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente!" (1Gv 3,1a)
Una figliolanza questa che non è accaduta per caso o come conseguenza secondaria della risurrezione, ma essa costituisce la centralità del progetto salvifico del Padre, pensato fin dall'eternità e attuato sulla croce: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, ... nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,4-5.7).
“ ... nostro”
Questo semplice aggettivo possessivo qualifica e definisce la figura stessa del Padre, ponendolo in una stretta relazione con il “noi”, secondo soggetto di questa Preghiera. Tuttavia il termine “nostro” non dice soltanto una semplice relazione, ma indica anche una duplice dimensione: l’appartenenza e la relazione comunitaria.
La dimensione relazionale
Già l’espressione “Padre”, attribuita a Dio, definisce e qualifica Dio come il principio generatore generante e implicitamente lo pone in stretta relazione con il generato in un rapporto di figliolanza. Dio dunque è per sua natura “Relazione” e lo è fin dall’eternità in quanto coeterno con il Figlio[95], che reclama tale coeternità per se stesso insieme al Padre[96]. Una relazione che si qualifica squisitamente sul piano dell’amore[97]; un amore, che al di là di ogni sentimentalismo, è essenzialmente atteggiamento e comportamento, e definisce l’amante come colui che è totalmente aperto e accogliente verso l’amato, come colui che si fa dono per l’amato. Questa relazione amorosa tra amante e amato si pone su di un piano di reciproca compenetrazione, così che i due sono una cosa sola[98].
L’appartenenza
Questa relazione, che qualifica il rapporto tra Padre e Figlio fin dall’eternità, è stata estesa anche all’uomo in Cristo e per mezzo di Cristo. Tale estensione infatti trova la sua origine e la sua giustificazione in un progetto divino coeterno a Dio Padre: “In lui ci ha scelti (in Cristo) prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5). Un disegno che fu tenuto nascosto da sempre e che fu preordinato prima dei secoli e fu finalizzato alla nostra glorificazione, cioè alla nostra partecipazione alla vita stessa di Dio, che è Padre, è Figlio ed è Spirito Santo (1Cor 2,6-7) e ha trovato la sua piena manifestazione e attuazione nello stesso Cristo.
Già nelle prime pagine della Genesi vediamo come Dio, per suo decreto (Gen 1,26), assimila l’uomo a se stesso, rendendolo partecipe della sua stessa vita e della sua creazione (Gen 1,27-28; Sal 8,5-6), che gli affida (Gen 2,15b; Sal 8,7-9) e con lui fin da subito stabilisce un’alleanza: egli vivrà e potrà rimanere nella stessa vita divina, in cui è stato collocato (Gen 2,15a) se e in quanto rispetterà il comando che gli viene dato e che gli ricorda il suo stato di creaturalità e di dipendenza (Gen 2,15-17). Un’alleanza che verrà disattesa e violata dall’uomo, per questo egli verrà posto fuori dalla dimensione divina (Gen 3,23) e perderà la sua immagine e somiglianza con Dio, assumendo per contro quella di uno stato di animalità, di cui viene rivestito (Gen 3,21).
Ma Dio non abbandona l’uomo al suo triste destino e fin da subito lo cerca e lo rincorre: “Dove sei?” (Gen 3,9) e gli rivela, sia pur velatamente, il suo progetto di salvezza (Gen 3,15), che gradualmente e nascostamente si attua nella storia: il recupero dell’uomo alla sua primordiale condizione in cui egli, in quanto immagine e somiglianza di Dio, condivideva la stessa vita divina.
Ed ecco che quest’uomo, diventato ora popolo, schiavo in Egitto e privo di ogni dignità, si ritrova ai piedi del monte Sinai dove Dio, dopo averlo liberato, stabilirà con lui una nuova alleanza e gli darà una nuova identità, affidandogli una nuova missione: “Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.” (Es 19,5-6).
Dio definisce Israele sua proprietà, indicando con ciò l’appartenenza di Israele a Dio e al suo mondo. In quanto sua proprietà Israele condivide gli stessi destini di Dio, mentre nell’Alleanza Dio si associa a Israele definendolo “mio popolo” (Es 3,7) per questo egli è “una nazione santa”, cioè a Lui consacrata e partecipe della sua Santità, che indica la peculiare qualità stessa della vita di Dio. E per Israele la santità di vita, cioè il conformarsi esistenzialmente alle esigenze di Dio espresse nella Torah, sarà sempre un imperativo costituzionale e fondamentale del suo essere e rimanere proprietà divina, cioè appartenente a Dio: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2; 11,45). E Israele avrà sempre profondamente impresso nella propria coscienza questo carattere di appartenenza divina. Non a caso le espressioni “nostro Dio” o “vostro Dio” ricorrono nell’A.T. ben 212 volte la prima e 170 la seconda.
Ma il significato di questa appartenenza divina assumerà contorni più netti con la venuta di Gesù. C’è innanzitutto un affidamento dell’uomo e con lui, per un principio di stretta solidarietà[99], dell’intera creazione a Gesù da parte del Padre[100], un affidamento che ha la sua origine in una elezione primordiale, ancora prima della creazione del mondo (Ef 1,4a). Secondo il progetto di Dio, dunque, noi gli apparteniamo da sempre e la missione di Gesù è quella di ritornare al Padre la sua proprietà, senza che niente di questa vada perduto[101]. Per questo Gesù l’affida allo stesso Padre perché la custodisca (Gv 17,11b.15). Il compito di Gesù dunque è quello di recuperare in se stesso (Gv 12,32) non solo l’uomo, ma con l’uomo, in stretta solidarietà, anche l’intera creazione per poi ritornarli al Padre integralmente rigenerati nello Spirito (1Cor 15, 28), così com’erano nei primordi. Nel progetto divino infatti Gesù doveva essere ed è il punto di convergenza e di ricapitolazione dell’intero universo creato (1Cor 15,23-28; Ef 1,9-10).
Il progetto di affidamento nella sua pratica attuazione avviene in due momenti fondamentali: da un lato l’accoglienza trasformante di Gesù nella sua parola[102], colta quale elemento primario di rivelazione e veicolo operante di salvezza, dall’altro un’intima unione comunionale alla sua vita espressa in quel cibarsi di lui[103] e in quel rimanere in lui (Gv 15). La finalità di tale affidamento è una incorporazione dell’affidato in Cristo, così da farne una sola cosa con lui e in lui (Gv 6,56) e per mezzo di lui con il Padre (Gv 14,23; 17,20-24) , così che tutti siano nuovamente una cosa sola in Dio (1Cor 15,28), come era nei primordi della prima creazione, quando Dio constatò che quanto aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31). Paolo esprimerà questa profonda unità dell’uomo a Cristo, in lui rigenerato, affermando: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Gal 2,20).
Nell’espressione “Padre nostro” è dunque racchiusa tutta la storia della salvezza, che racconta il lento e graduale accorpamento dell’intero cosmo e di ogni suo abitante[104] a quel Dio-Padre da cui tutto è nato e defluisce (Gen 1,1) e che in Gesù, sua Parola vivente ed operante, ci rivela e nuovamente attua ed efficacemente ristabilisce la sua paternità sull’intero cosmo e nei nostri confronti, ricollocandoci nella sua stessa vita divina, condivisa con noi in Cristo e per Cristo (Gv 20,17b). In quel “nostro” dunque viene professata l’estensione della vita di Dio all’intera umanità, così che noi siamo suoi e Lui ci appartiene in una reciproca compenetrazione, che lega i nostri destini a quelli di Dio e, in Gesù Cristo, Dio lega i suoi a quelli dell’intera umanità (Gv 17,21-22).
La relazione comunitaria
L’estensione all’uomo della Vita stessa di Dio, che per sua natura è relazione d’amore, e la sua reale compartecipazione a tale Vita in Cristo e per Cristo, impongono al credente di incarnare nella propria esistenza tale mistero di Vita e di Amore comunionali, che lo compenetrano profondamente nel suo essere e lo spingono similmente verso l’altro, ricreando nelle sue relazioni comunitarie quel circolo di amore trinitario che vive e palpita in lui (Gv 17,26).
L’uomo in Cristo e per Cristo infatti è stato ricreato ad immagine e somiglianza di Dio, così che egli è diventato in lui una nuova creatura[105]. Una nuova realtà si è innestata nell’uomo che è chiamato ad incarnarla e renderla visibile nella propria vita. Infatti “egli (Cristo) è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Cor 5,15); Paolo dunque ci testimonia come la nostra vita ha subito un profondo e radicale riorientamento che ci ha assimilati al Cristo morto-risorto e in lui ci ha incorporati a Dio, così che noi siamo diventati nuove creature: “Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.” (2Cor 5,17); pertanto “se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.” (Rm 14,8).
Ed è in virtù di questa profonda, radicale e trasformante compenetrazione del vivere cristiano con la vita comunitaria e comunionale di Dio, che il credente è chiamato a sacramentalizzarla, cioè ad attuarla visibilmente, nella propria vita di relazione.
Espressione vivente e certa della sacramentalizzazione di questa vita divina in noi è la carità (1Gv 3,14-18).
Che sei nei cieli: cielo e terra sono i due elementi primordiali della creazione usciti dal primo atto creativo di Dio (Gen 1,1), per cui cielo è tutto ciò che non è terra e terra tutto ciò che non è cielo. Non vi era un confine preciso, che invece viene costituito soltanto nel secondo giorno della creazione: “<<Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque>>. Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno” (Gen 1,6-7). Il firmamento fu pertanto l’elemento separatore delle acque che sono sopra il cielo da quelle che sono sotto il cielo, ma nel contempo individua anche i confini stessi tra il cielo e la terra e gli spazi che apprtengono all’uno e all’altra. Il firmamento si identifica con il cielo stesso (Gen 1,8a), il quale contiene in sé gli elementi essenziali che servono a tutte le creature terrestri per poter alimentare la propria vita, come l’acqua, la neve, la pioggia, la rugiada, la brina, il fuoco, la polvere, la grandine, la manna, il vento, il sole, la luna, le stelle, le nubi, il tuono, i fulmini[106]. Il cielo è pertanto concepito come uno scrigno dove Dio tiene i suoi tesori per la vita dell’uomo sulla terra (Dt 28,12). Da esso viene ogni benedizione per la terra e per l’uomo[107], così come la maledizione o la punizione delle colpe si manifestano con la chiusura del cielo[108]. Dal cielo dunque viene la vita o la morte, poiché esso è il luogo della dimora stessa di Dio[109], anzi Dio spesso è identificato con il cielo stesso[110].
Ma se nell’A.T. il cielo è il luogo esclusivo di Dio a cui l’uomo non può in alcun modo accedere, indicando tutta la distanza che separa i due[111], così non è nel N.T. per il quale la dimensione celeste è estesa anche agli uomini che accolgono Dio nella loro vita e la decidono per Lui (Mt 5,3.10.19), così come chi si chiude a Dio viene escluso dal suo regno celeste (Mt 5,20). L’uomo quindi è chiamato a lavorare e ad impegnarsi per le cose che contano e ad accumulare i suoi tesori per il cielo[112], luogo della sua futura dimora[113], in cui è già stato trasferito in Cristo[114] e da cui riceve ogni benedizione spirituale (Ef 1,3).
Uomo e Dio, Cielo e Terra non sono più separati tra loro, ma trovano la loro rappacificazione e il loro punto di ricongiunzione in Cristo stesso (Col 1,20), la vera porta e la vera via che conduce al Padre che è nei cieli (Gv 14,6). Grazie dunque a Cristo noi siamo diventati concittadini dei santi e familiari di Dio stesso (Ef 2,19) e le porte del cielo ci sono state riaperte, così che il cielo non è più l’esclusiva e irraggiungibile dimensione divina di Dio. Il Padre, che viene collocato nei cieli, diventa pertanto il luogo della nostra dimora e costituisce la viva speranza che attende il credente (Col 1,5). Dal Padre, in Cristo e per Cristo, infatti siamo stati generati alla stessa vita divina e costituiti come suoi figli adottivi ed eredi della sua stessa vita (Ef 1,4-5; Gal 4,4-7) e a Lui apparteniamo. Rivolgersi pertanto a Lui con il nome di “Padre che abita nei cieli”, significa da un lato confessare la sua divinità e la sua santità, cioè tutta la distanza che ci separa da Lui, e implicitamente la nostra appartenenza a tale dimensione, racchiusa tutta nel nome di Padre celeste.
Sia santificato il tuo nome: dopo l’invocazione iniziale che traccia le linee essenziali, le quali demarcano i rapporti e le distanze intercorrenti tra noi e Dio, qualificato nella sua accezione di Padre, cioè fonte primaria da cui tutto proviene e in cui tutto trova il suo fondamento, ponendoci conseguentemente in una relazione filiale e comunionale nei suoi confronti, seguono tre esortazioni rivolte direttamente a Dio. Esse sono costituite da tre verbi, due posti al passivo (¡giasq»tw, genhq»tw), uno all’attivo (™lqštw) e da tre sostantivi che formano il tema di fondo di ogni singola invocazione (Ônom£, basile…a, qšlhma); sia i verbi che i sostantivi girano attorno ad un unico e ripetuto aggettivo possessivo, che in qualche modo li qualifica e li raggruppa tutti: sou (tuo/tua; lett. “di te”). Per cui si avrà:
i verbi i nomi l’aggettivo
tematici possessivo
· ¡giasq»tw tÕ Ônom£ sou
· ™lqštw ¹ basile…a sou
· genhq»tw tÕ qšlhm£ sou
Il verbo passivo nel linguaggio biblico pone Dio come attore principale dell’azione propria espressa dal verbo. Fulcro centrale di ogni invocazione pertanto è esclusivamente Dio, poiché tutto (verbi, sostantivi e aggettivi possessivi) fa riferimento a Lui. Si noti come soltanto il verbo centrale (™lqštw) è posto all’attivo, quasi come logica della santificazione del nome divino. In altri termini la santificazione produce l’accadere del regno.
I temi che compongono le tre invocazioni, poi, non sono soltanto giustapposti l’uno accanto all’altro, ma costituiscono uno sviluppo concatenato e dipendente l’uno dall’altro. Nella prima posizione infatti viene posta la santificazione del nome di Dio, che trova la sua attuazione e piena manifestazione nel compimento del regno, entro il quale Dio colloca la sua presenza e rivela la sua identità; tale regno è caratterizzato dal compiersi sovrano della sua volontà. L’uno non può sussistere senza l’altro.
La prima invocazione che la comunità credente rivolge al Padre è che “sia santificato il tuo nome”.
Che cosa significhi santificare o santità o santo è concetto che abbisogna di approfondimento. Va detto subito che soltanto Dio è Santo[115], anzi Egli è il Santo per eccellenza[116] e per ciò stesso è fonte di ogni santità[117] e sua propria esclusiva è l’azione della santificazione[118]; mentre quando questi vari livelli vengono attribuiti all’uomo essi sono solo una partecipazione e una risposta esistenziale alla Fonte primaria di ogni santità e di ogni azione santificatrice[119], di cui l’uomo beneficia e riflette in se stesso, ritornandola a Dio, il vero e unico Santo santificante[120]. La santificazione operata dall’uomo su se stesso, sulle cose e su Dio dice la sua partecipazione e il suo accesso alla vita divina e si concretizzava nell’A.T. da un lato nel non contaminarsi con le cose impure o purificarsi dalle impurità subite, così che in tale caso la santificazione diveniva sinonimo di purificazione, che contiene in sé un intrinseco concetto di separazione: l’uomo nella purificazione doveva liberarsi, infatti, dalle contaminazioni, distaccarsi dai culti idolatrici, dalle negromanzie e da tutto ciò che lo poteva rendere inidoneo al suo rapporto con Dio[121]. Dall’altro lato, il santificarsi e il santificare dell’uomo è sinonimo di conformare la propria vita alle disposizioni e alle esigenze divine, attraendo all’interno di tali esigenze anche le realtà nelle quali l’uomo è chiamato a vivere[122].
Mentre il santificare il nome del Signore significava riconoscere che il Signore è Dio (Is 29,23).
La santità di Dio ha la sua radice primaria nel fatto che Egli è il totalmente diverso dagli uomini[123]; essa costituisce pertanto il parametro che misura tutta la distanza che Lo separa da questi, così che quando Dio santifica l’uomo lo avvicina a Se stesso, rendendolo in qualche modo partecipe della sua irraggiungibile diversità e facendolo simile a Sé. Da questo concetto di santità come diversità, come l’essere tutt’altro dall’uomo e dal creato, nasce l’idea di consacrazione; essa dice separazione ed elezione ed è l’atto con cui Dio riserva in modo esclusivo per Se stesso l’oggetto della consacrazione, acquisendolo alla dimensione che gli è propria[124]. Non a caso infatti il primo atto che Dio compie nei confronti del suo popolo liberato dalla schiavitù d’Egitto è quello di donargli una nuova identità, facendolo sua proprietà, agganciandolo pertanto ai suoi destini eterni e facendolo partecipe della sua vita, per questo lo definirà nazione santa: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6).
La santità pertanto esprime una misteriosa potenza legata e che lega al mondo divino persone, cose e istituzioni. Santo perciò è ciò che appartiene a Dio e non all’uomo. La santità dunque diversifica e separa i due mondi, l’umano dal divino, così che i due non si possano confondere. Tale separazione tuttavia non è un limite invalicabile, ma diventa il presupposto per l’estensione della santità anche al di là del limite, trasformandosi in attrazione e poi in condivisione della santità stessa. Da qui nasce il concetto di sacro, che da un lato dice separazione dal profano, ma dall’altro afferma l’esclusività della cosa consacrata, decretandone la proprietà divina; uno spazio dunque riservato a Dio, il cui limite è invalicabile (Es 19,12.23). La santità pertanto è essenzialmente riservata a Dio, cioè colui che è il totalmente diverso dall’uomo. Per questo la santificazione da parte divina è un comunicarsi di Dio all’uomo, un condividere e un compartecipare il proprio mondo e il proprio stato di vita all’uomo stesso, così che questo viene santificato, cioè attratto nella dimensione divina.
Per sua natura Dio è Santo, anzi egli è il Santo per eccellenza ed è chiamato e conosciuto in Israele come “il Santo”[125] ed è proclamato tre volte Santo da Isaia (Is 6,3), che ne descrive la gloria e la potenza cosmica (Is 6,1-11), mentre di fronte a tanta maestosa santità egli si sente un peccatore impuro e un uomo fragile. Tale santità divina opera sulla terra con la gloria, cioè manifestandosi come potenza di amore che opera la salvezza, attraendo l’uomo nel mondo di Dio e rendendolo compartecipe della sua gloria e del suo potere (Sal 8,5-9).
Questa santità divina si manifesta in mezzo al popolo e agli uomini con suoi segni propri dai quali Israele viene santificato. Un primo segno qualificante è il sacerdozio, che diviene in Israele il centro diffusore della santità divina, il punto di intermediazione tra Dio e gli uomini. Il sacerdote infatti è l’uomo chiamato, eletto da Dio e che Dio si riserva, rendendolo santo, per donarsi agli uomini[126] (Eb 5,1). Per questo il sacerdote appartiene a Dio ed è attratto nella sua santità, a Lui consacrato. Emblematicamente il sommo sacerdote portava sul capo una lamina d’oro con scritto sopra “Santo per Dio”.
Un altro segno di presenza della santità di Dio in mezzo al popolo fu il nazireato (Nm 6,1-21)[127], cioè l’atto di consacrazione perpetua o temporanea di una persona, uomo o donna, a Dio (Nm 6,2). Durante tale tempo egli apparteneva totalmente a Jhwh (Nm 6,8).
Altro segno della presenza della santità divina sono gli oggetti a Lui consacrati per il suo culto; così come l’Arca, su cui dimora la presenza di Jhwh e da cui Egli parla a Mosé e al suo popolo. E similmente il Tempio dove dimora la presenza gloriosa di Jhwh (1Re 8,10-12; Ez 10,4). Esso è il luogo dell’incontro tra Dio e il suo popolo e nel quale Dio lo avvolge nella sua santità gloriosa.
Altro segno sono ancora le offerte e i sacrifici poiché esprimono l’atto di comunione tra Dio e il suo popolo per mezzo dei quali il popolo consacra a Dio il suo lavoro e il suo mondo. In qualche modo l’uomo per mezzo di queste offerte offre e consacra se stesso a Dio con azione propria sacerdotale (Rm 12,1).
Altro segno della presenza della santità divina in mezzo al popolo sono le festività, quali spazi di tempo riservati a Dio. Primo tra tutte il sabato, assunto quale segno che lega Dio al suo popolo, uno spazio di comunione con Jhwh (Ez 20,20). Le festività dunque sono la consacrazione del tempo, che è lo spazio entro cui l’uomo vive e si muove e in cui, proprio attraverso la celebrazione rituale degli eventi di salvezza, trasforma tale spazio in luogo salvifico per gli uomini di ogni tempo[128].
Se questa è la santità, essa non è mai un luogo statico di contemplazione, ma possiede in se stessa un forte dinamismo relazionale che tende a coinvolgere (Lv 19,2) e che ha come soggetti principali Dio, quale fonte primaria di ogni santità santificante, e l’uomo, quale soggetto capace di relazione esistenziale con il suo Dio. In tal modo la santità di Dio nel suo manifestarsi diventa per l’uomo l’indicativo di salvezza (Es 6,6-8; Lv 11,45), mentre la risposta dell’uomo a tale indicativo, a questo mostrarsi della santità divina, diventa l’imperativo di salvezza[129]. Si viene quindi a creare un rapporto vincolante tra Dio e il suo popolo, una sorta di dialogo storico-salvifico che si attua da un lato nella manifestazione di eventi salvifici (Es 6,6-8; 7,5; 14,4), in cui il popolo vede l’intervento del suo Dio a suo favore, dall’altro la conseguente risposta dovuta da Israele[130]. Questo aspetto relazionale e coinvolgente della santità, che è azione salvifica di Dio, presuppone da un lato il manifestarsi di Dio all’uomo e dall’altro la capacità dell’uomo di accogliere in sé il rivelarsi del suo Dio e di rispondere esistenzialmente alla rivelazione (Lv 11,44-45; 19,2). L’invocazione pertanto che la comunità credente rivolge a Dio, suo Padre, “che sia santificato il tuo nome” è un’esortazione perché Dio si riveli e si manifesti Santo in mezzo agli uomini. Il nome, infatti, per il mondo orientale e semitico esprime l’essenza e la natura stessa della persona ed è sinonimo di persona, storicamente individuata.
La santità pertanto si esprime nella rivelazione della potenza di Dio in mezzo al suo popolo e agli uomini (Sir 36,3), che in tal modo lo riconoscono nella sua santità (Es 7,5; Sir 36,4). Questo suo manifestarsi dice la glorificazione stessa di Dio nella sua potenza e nelle sue opere (Sir 36,5; Is 26,15). Ed è proprio nel N.T. che la rivelazione del Padre trova il suo vertice in Cristo, che glorifica il Padre, manifestandolo con la sua opera e la sua sottomissione a Lui, mentre il Padre glorifica il Figlio, rivelandosi in Lui, una rivelazione che troverà la sua piena manifestazione nella stessa risurrezione di Gesù, a cui Gesù allude quando chiede di essere glorificato dal Padre (Gv 12,23.28; 14,13; 17,1)[131].
Il “sia santificato il tuo nome”, quindi, è un’invocazione della comunità credente che esorta il Padre a manifestarsi a tutti gli uomini, così come loro, i credenti, hanno saputo cogliere il rivelarsi del Padre nel Figlio. La natura quindi di questa invocazione, come quelle successive, è missionaria e troverà la sua attuazione nell’accadere del Regno di Dio in mezzo agli uomini.
Venga il tuo regno[132]: quando si parla di regno si ricorre a parametri storici, politici e geografici che definiscono un determinato spazio terrestre in cui, in modo organizzato, regna un sovrano riconosciuto che impone la sua autorità sul suo territorio e i suoi abitanti. Questo sovrano, tuttavia, per quanto potente, è sempre a sovranità limitata, politicamente e geograficamente ben definita, mentre il suo potere è scandito dal tempo. Ma quando parliamo di regno di Dio le cose cambiano radicalmente. Va subito detto che attribuire a Dio un regno è del tutto improprio e inadeguato e di fatto non si può parlare di regno di Dio, poiché tale presunto regno è inesistente. Sottolinea giustamente il Panimolle[133]: “Nella sacra Scrittura incontriamo assai di frequente le locuzioni “Jhwh regna”, “Il regno di Dio”, “Il Signore è re”. Evidentemente si tratta di un linguaggio simbolico e analogico per esprimere verità e realtà divine partendo dall’esperienza del mondo umano, nel quale il governo, il dominio, il potere, la signoria sono esercitati in modo eminente dai monarchi, dai re, dai reggitori dei popoli. Con tali espressioni concernenti la regalità divina la Bibbia vuole insegnare e rivelare che Dio è il supremo sovrano e dell’universo”[134].
Che cosa significhi “regno di Dio” e che cosa esso sia si può desumere unicamente dalla Scrittura. Non è nostra intenzione qui fare la storia dello sviluppo del concetto di “regno di Dio” nell’ambito delle Scritture, ma soltanto si vuole coglierne il senso all’interno del N.T.
Sia il vangelo di Matteo che quello di Marco pongono nei loro primi capitoli l’annuncio del Regno: “Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino” (Mt 3,2; 4,17) e similmente Marco: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). In entrambi i casi l’annuncio del regno sta alla base dell’esortazione “convertitevi”. Ciò significa che il regno presuppone da parte nostra un radicale cambiamento dei parametri che solitamente sostengono il nostro modo di ragionare e di vedere le cose e richiede un riorientamento esistenziale, poiché diversamente non ci è possibile coglierlo. Giovanni, in termini più espliciti, afferma “se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio" (Gv 3,3). In altri termini, se non sposiamo le logiche di Dio questo regno è per l’uomo inaccessibile. Per questo Marco conclude la sua esortazione alla conversione con il “credete nel vangelo”. Si noti come Marco non dice “credete al vangelo”, bensì “credete nel vangelo”. La preposizione “nel” (gr. en to) designa uno stato in luogo, per cui il credere deve nascere, svilupparsi e muoversi nell’ambito del Vangelo. In altri termini, la fede deve collocare il nostro vivere, in tutte le sue espressioni, nel Vangelo, che è la rivelazione del mistero di salvezza che Dio ha pensato per gli uomini. Se dunque il regno esige un così radicale cambiamento esistenziale da parte dell’uomo ciò significa che in esso si muovono logiche totalmente diverse, sconosciute all’uomo, ma rivelate nel Cristo. Il Gesù giovanneo infatti ricorda che “il mio regno non è di questo mondo; ... il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36); per questo l’uomo deve sapersi rigenerare non più secondo le logiche carnali, ma secondo quelle dettate dallo Spirito Santo (Gv 3,5a), l’unico in grado di collocarci nella dimensione stessa di Dio; diversamente non vi si può accedere (Gv 3,5b).
L’annuncio del regno è accompagnato da concomitanti guarigioni di varie infermità e malattie che affliggono l’uomo e proprio da queste guarigioni si evince che il regno di Dio si è fatto vicino all’uomo[135]. Questo fa comprendere come il regno possiede in sé una potenza capace di rigenerare l’uomo ad una vita nuova, aprendolo ad una nuova dimensione fino ad allora sconosciuta, che trova la sua piena manifestazione nella risurrezione di Cristo. In tal modo le guarigioni conseguenti all’annuncio del regno sono una sorta di anticipazione e prefigurazione di quanto sarebbe avvenuto nell’uomo con la risurrezione di Gesù (1Pt 1,3). In essa è stato inaugurata una nuova creazione nel cui ambito è collocato il credente (Col 1,13). L’annuncio accolto del regno produce dunque una rigenerazione vivificante nell’uomo capace di trasformarlo[136].
Quali dimensioni abbia questo regno e in che cosa esso consista ci viene prospettato da Paolo nella sua lettera ai Romani: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole.” (Rm 14,17-19). Innanzitutto Paolo evidenzia come questo regno non è una questione “di cibo o bevanda”, cioè non ha nulla a che vedere con le realtà umane che conosciamo ed esula completamente dai nostri parametri storici, così che “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità” (1Cor 15,50); per questo “né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio.” (1Cor 6, 9b-10)[137]. Questo regno dunque non ha dimensioni spazio-temporali, ma si colloca su di una diversa dimensione e va ricompreso nell’ambito degli spazi stessi di Dio: infatti “è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” e, quindi, chi conforma il proprio vivere su queste logiche realizza pienamente se stesso ad ogni livello, sia umano che divino e appartiene pienamente a questo regno, anzi ne è un servitore. Un regno quindi che non è definibile con parole umane, che nascendo dal contesto della nostra esperienza difficilmente riescono a superarla. Esso si identifica con la potenza stessa di Dio, proprio perché il “regno di Dio non consiste in parole, ma in potenza.” (1Cor 4,20). Tale regno pertanto è la dimensione stessa di Dio e ha a che fare con la sua stessa vita divina. Conformarsi pertanto alle esigenze di Dio, che si sono manifestate nel Cristo, ci rende partecipi di questa indefinibile e ineffabile dimensione, che ha trovato tuttavia la sua piena manifestazione e attuazione storica in Gesù e in esso si identifica. È significativo infatti quando la gente, rivolta a Gesù che entra in Gerusalemme su di un asino, lo acclama dicendo: “Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mc 11,10), mentre similmente Luca definisce Gesù come il re che viene (Lc 19,38) e Giovanni vede nella crocifissione di Gesù la sua regale intronizzazione, anzi proprio nella passione Gesù rivela pienamente la sua regalità[138].
La santità di Dio, dunque, si manifesta e si rivela nel Cristo morto-risorto ed è proprio in questo suo rivelarsi che accade il regno di Dio ed esso si rende vicino agli uomini al punto tale che gli uomini, rigenerati in Cristo, vi possono accedere e vi appartengono. Pertanto l’invocazione della comunità rivolta al Padre “venga il tuo regno” esorta il Padre a rendere riconoscibile a tutti gli uomini la sua presenza in mezzo ad essi, quale presenza di santità, cioè presenza di vita divina rivelatasi in Gesù e resasi accessibile a tutti in Cristo e per Cristo. Da qui la necessità di conformarsi esistenzialmente ad essa (Rm 12,2), quale realtà già in essere, anche se non ancora pienamente e definitivamente compiuta, ma tuttavia già capace fin d’ora di rigenerare il credente alla vita stessa di Dio in cui è già stato trasferito in virtù della sua fede (Col 1,13).
Sia fatta la tua volontà: anche in questa invocazione, che non contiene in sé alcun senso fatalistico, il verbo è posto al passivo. Attore principale di questa azione di accadimento e compimento quindi è Dio stesso, cioè il Padre che opera per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Siamo giunti pertanto all’ultimo passaggio: dalla santità divina, che dice la natura stessa di Dio, manifestata all’uomo in Cristo, sgorga il regno di Dio, cioè la sua azione rigeneratrice nei confronti dell’uomo e del creato. In tale regno, che è dimensione divina, ora la comunità credente sollecita il Padre ad attuare la sua volontà, portando in tal modo a compimento l’azione santificatrice e rigeneratrice intrapresa nel Cristo per mezzo dello Spirito Santo. L’azione apocalittica[139] partita dal Padre, attuatasi in Cristo, vera apocalisse del Padre e del suo prestabilito disegno di salvezza, assume ora un tono decisamente escatologico[140]: che l’azione intrapresa (già iniziata, ma non ancora pienamente e definitivamente compiuta) sia ora portata a compimento. È dunque sempre il Padre, per Cristo e in Cristo, l’attore primario dell’azione santificatrice, redentrice e salvifica.
C’è dunque un disegno, un progetto salvifico prestabilito[141], pensato da Dio ancora prima della creazione del mondo e che trova la sua attuazione in Cristo, azione storica del Padre, per mezzo dello Spirito. L’autore della lettera agli Efesini ne dà un ampio squarcio nel suo stupendo inno cristologico: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l'ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria.” (Ef 1, 3-14).
Tale progetto, originato nel mistero di amore del Padre fin dall’eternità, attuato e manifestato in Cristo per mezzo dello Spirito Santo e al quale ogni uomo è chiamato a partecipare ed è esistenzialmente e fattivamente coinvolto, trova il suo definitivo compimento e il suo epilogo nella morte e risurrezione di Cristo, dalle quali tale compimento e tale epilogo scaturiscono e procedono fino al loro definitivo esaurimento, quando la storia sfocerà nell’eternità di Dio. Paolo, in una stupenda visione escatologica, ce ne dà testimonianza nella sua prima lettera ai Corinti: “ ... Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.” (1Cor 15,23-28). Questa sottomissione cosmica al Padre per mezzo di Cristo non ha da intendersi come un’imposizione vittoriosa del giogo divino sull’uomo, ma come un ricondurre le cose al loro stato primordiale, quando Dio vide che ogni cosa che aveva creato era molto buona (Gen 1,31).
L’invocazione esortativa della comunità credente rivolta al Padre, “sia fatta la tua volontà”, sollecita il Padre al pieno compimento del suo progetto di salvezza, così che quanto inaugurato con il regno trovi infine la sua definitiva attuazione e il suo compimento.
Non a caso l’intera rivelazione, che ha il suo vertice nel Cristo morto-risorto, si chiude in modo significativo con la voce dell’intera comunità credente che invoca la venuta del suo Signore, verso il quale è fortemente orientata: Marana tha, Vieni Signore Gesù (Ap 22,20b), poiché solo in questo momento l’invocazione “sia fatta la tua volontà” troverà il suo Amen.
Se da un lato il “sia fatta la tua volontà” sollecita il compiersi definitivo del progetto salvifico divino, proiettato in un forte dinamismo escatologico che sintetizza in sé anche le altre due precedenti invocazioni, dall’altro tale sollecitazione al compiersi possiede in se stessa un risvolto morale, che interpella l’uomo nel suo farsi storico e lo spinge a prendere posizione di fronte all’accadere di questa volontà e a dare quindi la sua concreta risposta esistenziale. L’uomo, infatti, e ancor più il credente saranno misurati sul fare (Mt 7,21), cioè sul loro conformarsi esistenzialmente alle esigenze di Dio, storicamente espresse nella persona di Gesù e nella sua Parola. Ed è proprio in questa sua conformazione esistenziale alle esigenze del regno che l’uomo dà spazio da un lato al regno stesso e dall’altro santifica il nome di Dio, cioè ne rende testimonianza e ne dà affermazione in seno alla comunità umana e a quella credente. Questa conformazione dell’uomo alle esigenze divine non va letta come un assoggettamento schiavistico ad un Dio padrone, ma è la conditio sine qua non per accedere alla vita divina stessa e ricreare in se stessi quell’immagine e somiglianza divine originariamente perdute, stabilendo in tal modo un nuovo legame parentale con Dio e il suo mondo (Mt 12,50; Mc 3,35; Ef 2,19).
come in cielo così in terra: questa espressione chiude la prima parte del Padre nostro e le assegna una forte valenza escatologica e universalistica. Essa ci rimanda in qualche modo alla prima creazione in cui Dio creò il cielo e la terra (Gen 1,1) nei quali Egli vide l’attuarsi pieno della sua volontà e il riflettersi della sua luce (Gen 1,3) : “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.” (Gen 1,31) Ogni cosa dunque era incandescente di Dio. Ma l’atto di ribellione dell’uomo precipitò l’intera creazione nella corruzione (Rm 8,20), poiché anch’essa privata dello Spirito di Dio che l’assimilava, assieme all’uomo, al mondo divino. Ma Dio non abbandonò l’uomo al suo triste destino e concepì un progetto salvifico che puntava a recuperarlo insieme al cosmo alla loro originaria bellezza attraverso la loro rigenerazione nella morte e risurrezione di Cristo. Ecco pertanto il prospettarsi di cieli nuovi e terra nuova, vaticinati da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplati da Giovanni nell’Apocalisse (Ap 21,1a). Ci fu dunque una volontà divina salvifica originaria (Ef 1,9), che si attuò in un progetto: “il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10).
Le tre invocazioni pertanto costituiscono una pressante esortazione della comunità credente verso il suo Dio affinché compia definitivamente il progetto salvifico, nascosto nel mistero della sua volontà fin dall’eternità, ma rivelato e attuato nel suo Cristo (Ef 1,4-10). Un progetto che non riguarda soltanto l’uomo, ma l’uomo collocato nel suo contesto cosmico. Per questo “secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13) e per questo “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,19-22). Pertanto l’espressione “come in cielo così in terra” non va limitata soltanto al “sia fatta la tua volontà”, ma abbraccia l’intera triade di invocazioni[142], dando in tal modo alla preghiera escatologica cristiana una dimensione universalistica, poiché l’attuarsi del disegno salvifico, pensato da Dio fin dall'eternità, coinvolge sempre l’uomo nella sua interezza non soltanto individuale, ma anche, per un principio di solidarietà, cosmica.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano: con questa invocazione Matteo introduce la seconda parte del Padre nostro. Se i vv. 9-10 vedono come attore principale ed esclusivo il Padre[143], punto di riferimento verso il quale converge la comunità credente, in questa seconda parte l’attore principale è la comunità stessa colta nei suoi rapporti interni, ma strettamente posti in relazione con Dio. Il Padre è dunque il punto centrale attorno al quale ruota l’intera vita comunitaria e con il quale essa si rapporta nelle relazioni intracomunitarie, qualificate proprio da questo particolare rapporto. La figura del Padre pertanto non è mai un qualcosa che si pone al di fuori della vita comunitaria, ma si intreccia con essa e dà senso al suo vivere e al suo esserci.
Il pane costituiva nell’antichità l’elemento base e indispensabile dell’alimentazione[144] e sovente nell’A.T. era preso come sinonimo di cibo in genere[145]. Per la sua importanza nell’alimentazione e la sua centralità del vivere, a cui è associato, il pane diviene talvolta, nell’ambito della riflessione sapienziale, metafora di particolari condizioni esistenziali dell’uomo[146]. Esso spesso si accompagna assieme all’acqua, così che pane ed acqua simbolicamente costituivano il minimo indispensabile per il sostentamento del povero e del popolo in genere[147]; meno frequente è l’abbinamento del pane con il vino, che compare soltanto 12 volte in tutto l’A.T. con riferimento a situazioni particolari, che richiamano l’abbondanza o il privilegio e comunque non estendibili al comune nutrimento del popolo[148]. Il pane è il frutto di una vita attiva ed operosa, saggiamente condotta[149] e strumento anche di carità verso gli indigenti, che rende l’uomo gradito a Dio[150]. Il pane sovente è colto come oggetto di benedizioni (Es 23,25) e strumento, a sua volta, di particolari benedizioni e attenzioni divine verso l’uomo[151]. Espressione della vita e del sostentamento dell’uomo, il pane assume una sua sacralità all’interno dei rituali e del culto divini[152], divenendo anche sinonimo di sacrifici offerti a Jhwh, che sono definiti come il “pane di Dio”[153]. Ma la sublimità del pane veterotestamentario tocca il suo vertice nella promessa che Dio fa al suo popolo nel deserto e che contiene in sé scenari messianici inattesi e insospettabili, che soltanto la riflessione sapienziale riuscirà in qualche modo ad intuire, ma non ancora chiaramente a dipanare[154]: “Allora il Signore disse a Mosè: <<Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi …>>” (Es 16,4a). Il popolo si nutrirà di questo pane celeste, figura di un altro pane che Dio ha in serbo per i suoi fedeli. Un pane che proviene da Dio e sul quale Egli detterà le sue regole e le sue condizioni per potersene cibare (Es 16,4b-5), per far comprendere al popolo come la vita e il suo sostentamento dipendono da Lui.
Nel N.T. il pane attenua notevolmente la sua concretezza del vivere quotidiano, benché essa non venga negata[155], per assumere prevalentemente sfumature simboliche e metaforiche fino a identificarsi con la persona stessa di Gesù e segno della sua viva e reale presenza.
Il termine pane compare per la prima volta nel N.T. come l’oggetto di prova per Gesù (Mt 4,3; Lc 4,3), che deve scegliere tra un facile messianismo e il compiere in diverso modo la volontà del Padre, rinunciando alle sue prerogative divine[156]. Il pane diviene anche motivo di preghiera da parte della comunità, che riconosce in tal modo come tutto provenga da Dio e tutto sia suo dono (Mt 6,11; Lc 11,3). Come per l’A.T. , proprio per la centralità che ricopre il pane nella vita dell’uomo, esso diviene anche metafora e motivo di esemplificazioni nei racconti evangelici[157]. Il pane diviene il segno della partecipazione al Regno di Dio (Lc 14,15) e all’abbondanza dei tempi messianici[158]; ma sarà soltanto in Giovanni che questo pane acquisirà il suo significato più vero e profondo e si rivelerà come il vero cibo per il credente, assumendo le fattezze della carne e del sangue di Gesù stesso, pane che si spezza per tutti, e in qualche modo prefigurato nell’episodio veterotestamentario della manna[159]. Ma la verità di questo pane si disvela pienamente nell’ultima cena, dove Gesù con la potenza della sua Parola crea una sorta di identificazione tra il pane e la sua persona, legando ad esso la sua reale presenza[160], così che il gesto dello spezzare il pane diviene una sorta di sinonimo della cena del Signore (Lc 24,35). E a questo gesto sono legate le prime comunità credenti, un gesto che è diventato il comune linguaggio per indicare la celebrazione rituale e cultuale dell’ultima cena[161].
In questo sintetico excursus biblico sul pane, necessariamente incompleto, possiamo rilevare l’evolversi della significazione del pane da semplice cibo-base dell’uomo, che lo sostiene e lo nutre quotidianamente, a simbolo di realtà celesti che trovano il loro definitivo compimento nella persona stessa di Gesù, passando attraverso un lento e graduale cammino simbolico-metaforico trasformatore, ma senza mai perdere la sua primaria identità di fondamentale nutrimento quotidiano per l’uomo, da cui anche la nuova significazione mutua parte del suo nuovo significato.
Matteo si inserisce in questo contesto di nuova significazione del pane, che sembra, a nostro avviso, privilegiare rispetto a Luca, che invece si sofferma sulla necessità quotidiana del pane, come alimento corporale dell’uomo e dove il termine pane sta per nutrimento in genere. Il suggerimento ci viene offerto dalla diversa impostazione testuale delle due formule molto simili tra loro, ma profondamente diverse per l’uso del verbo didomi e le due espressioni avverbiali semeron e katz’emeran. Di conseguenza diverso significato va attribuito anche all’espressione epioùsion.
Analisi testuale
tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion d…dou ¹m‹n tÕ kaq' ¹mšran: (Lc 11,3)
tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion dÕj ¹m‹n s»meron: (Mt 6,11)
Notiamo come Luca ponga il verbo didomi all’imperativo presente (didou). L’uso del presente in greco dà all’azione un senso di contingenza e di continuità nell’oggi, un oggi che si protrae nel tempo (katz’emeran). Il verbo al presente pertanto esprime un’azione durativa, evidenziando il compiersi dell’azione, la cui durata tuttavia non si esaurisce nell’azione stessa[162], ma viene perpetuata nell’oggi proprio dall’espressione temporale to katz’emeran, che potremmo tradurre con “di giorno in giorno”[163]. Il senso pertanto della frase lucana è fortemente legato all’oggi, colto nel suo dinamico divenire quotidiano che qualifica il pane, legandolo alle strette e contingenti necessità giornaliere proprie dell’uomo. Non v’è dubbio pertanto, a nostro avviso, che Luca, quando qui parla di pane, intende riferirsi al cibo, colto come un dono proveniente dal Padre, da cui la vita stessa dell’uomo dipende nelle sue necessità. La radicalità dell’oggi oltre che essere evidenziata dall’espressione verbale katz’emeran è rafforzata anche dalla teologia propriamente lucana dell’oggi, quale luogo privilegiato in cui si compie l’azione salvifica di Dio[164].
Diversa è la prospettiva di Matteo. Il verbo didomi qui è posto all’imperativo aoristo (dos), un aoristo che, a nostro avviso, è di tipo ingressivo; una ingressività che gli viene assegnata dall’avverbio temporale semeron (oggi); tale avverbio se da un lato radica nel presente l’azione del dono (oggi), dall’altro le assegna un punto di partenza lontano (dos). Questo donare pertanto viene visto come un’azione puntuale nel tempo (aoristo), colta nel suo punto iniziale[165] che si protrae nell’oggi (ingressività). A cosa dunque pensa Matteo con questa invocazione? Considerando che si tratta di un’azione che si pone nel passato e da lì trae la sua origine, ma che continua anche nell’oggi, sembra di poter concludere che qui Matteo stia pensando al pane dell’ultima cena del Signore. Tale riferimento sembra essere rafforzato da quel semeron. L’invocazione matteana infatti prevede che questo dono non sia dato a piene mani tutti i giorni o in qualsiasi momento, ma soltanto semeron, cioè solo per oggi, perché non si tratta di un pane atto a soddisfare una fame corporale più volte al giorno, ma un pane di comunione che lega e fonde l’intera comunità con il suo Signore ogni giorno, facendo delle due realtà una cosa sola (1Cor 10,17); un pane che è stato dato dal Padre per la vita del mondo (Gv 6,51). Questa unicità del dono, ristretta all’oggi, richiama molto da vicino l’episodio della manna, là dove Jhwh, rivolto a Mosè dice: “<<Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno …>> (Es 16,4a) e questo per far capire al popolo come quel pane è un dono esclusivo di Dio e come la sua vita dipenda esclusivamente da Lui. Non è un dono di cui si possa abusare, farne incetta, riempire i granai e farne commercio. È un pane legato strettamente all’oggi dell’uomo e finalizzato al suo sostentamento nell’oggi, poiché il domani è soltanto nelle mani di Dio. è un pane che va ricercato pertanto nei ristretti confini dell’oggi dove si trova Jhwh, che cammina con il suo popolo. “Io sono colui che sono”, una definizione del suo nome e della sua natura che dice presenza nell’oggi, una presenza che non è quotidianità, non è cioè presenza scontata che si ripete stancamente, ma va ricercata e invocata, poiché “Il Signore è vicino a quanti lo invocano, a quanti lo cercano con cuore sincero” (Sal 144,18). Un dono quindi che si rende presente ogni giorno e si fa nutrimento spirituale per l’uomo che lo cerca. Il pane invocato da Matteo pertanto non è cibo per il corpo, ma forza spirituale che sgorga dal pane eucaristico e che deve sostenere la comunità credente lungo il difficile cammino della fede e della testimonianza. Tale senso viene sostenuto anche nei versetti successivi (Mt 6,25-34), dove l’evangelista invita i suoi discepoli a non spendere il loro tempo in una affannosa ricerca delle cose materiali, ma ad anteporre ad esse la ricerca dei beni spirituali; non una ricerca proiettata nel futuro o aperta ad esso, ma una fatica spesa nell’oggi, poiché il domani avrà già la sua pena. Forse c’è in questa invocazione un richiamo e un monito da parte dell’evangelista alla sua ricca e benestante comunità, troppo sicura di se stessa e troppo occupata nei beni materiali, proiettata troppo verso il futuro alla ricerca di nuovi spazi per ampliare le proprie ricchezze e renderle sicure, legando la sicurezza della propria vita ad esse[166]. Questo slancio verso il futuro probabilmente faceva loro dimenticare la ricerca del vero pane, che si fa presente nell’oggi del cammino dell’uomo. Non a caso infatti Matteo chiuderà il cap. 6 con l’invito a cercare “ … prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà gia le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,33-34). L’esortazione è molto forte e radica il vero discepolo nel presente del suo oggi, dove cercare e testimoniare il regno di Dio. Il verbo cercare, infatti, è posto al presente e non a caso il Gesù matteano invita il giovane ricco a liberarsi delle sue ricchezze per poter seguirlo (Mt 19,16-22). Anche qui tutti i verbi sono posti al presente. È nell’oggi che l’uomo deve porsi e spendersi nella ricerca del pane del cielo e lo deve invocare dal Padre, poiché tale pane non è scontato.
Stabilite le diverse posizioni di Luca e Matteo circa il pane, materiale per Luca ed eucaristico per Matteo, rimane ora da precisare il significato di quel ™pioÚsion (epiousion), che va letto all’interno dei rispettivi contesti lucano e matteano.
Il termine è particolarmente raro, anzi esclusivo di Matteo e Luca e non si trova né nella LXX né in tutto il N.T. Lo stesso Girolamo, autore della Vulgata, evidenzia la particolarità del termine sconosciuto sia al greco letterario che parlato e riportato soltanto in un papiro del V sec. in cui il significato rimane comunque incerto[167]. Secondo i diversi autori[168] l’espressione ™pioÚsion ha una doppia possibile derivazione etimologica da epi-einai, che letteralmente significa sono sopra, sto sopra; e da epi-ienai, che significa mi avvicino, avanzo, sono imminente e, aggiunto al sostantivo giorno, indica il giorno seguente o che verrà. Nella prima derivazione etimologica (epi-einai) il senso è statico e riconduce all’esserci qui nell’oggi; nella seconda (epi-ienai), invece, il senso è dinamico e travalica i ristretti confini dell’oggi per proiettarsi nel futuro. Lo stesso Girolamo nel tradurre i due versetti Mt 6,11 e Lc 11,3 a fronte dell’identico testo greco (tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion) propone due soluzioni diverse legate probabilmente al senso che i rispettivi evangelisti hanno voluto dare:
· panem nostrum supersubstantialem (da nobis hodie) (Mt 6,11)
· panem nostrum cotidianum (da nobis cotidie) (Lc 11,3)
In Matteo il termine tÕn ™pioÚsion viene tradotto da Girolamo con supersubstantialem, che letteralmente significa ciò che va al di là della sostanza stessa del pane. Secondo Girolamo quindi sembrerebbe che Matteo parli non tanto del pane materiale, ma di una realtà che, pur legata alla substantia panis che si attua nell’oggi (hodie), la travalica e la sovrasta proprio perché è super, rimandando il credente a realtà future, che in qualche modo già si attuano nell’oggi. Così facendo, a nostro avviso, Girolamo con questo supersubstantialem, che è una sorta di traslitterazione latina del termine greco (epi = super; ousion = substantialem), dà, forse senza avvedersene, un senso dinamico al termine senza violarne l’altra etimologia dal senso più statico. Con questa traduzione, quindi, Girolamo sembra soddisfare entrambi i significati di epiousion.
Tuttavia, a nostro avviso, il termine tÕn ™pioÚsion in Matteo va legato etimologicamente a epi-ienai, con riferimento al pane che verrà e che già è presente nell’oggi (semeron). Molto similmente i Sinottici, raccontando l’ultima cena, riportano concordemente la seguente espressione di Gesù: “In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”[169] (Mc 14,25). Notiamo qui come Gesù dà un senso escatologico al bere il vino nell’oggi della sua passione e proprio in riferimento al vino presente parla di un vino nuovo che si pone nel futuro compiuto del Regno di Dio. Anche qui il vino diviene il segno presente di una realtà futura che già è iniziata proprio da quel vino che la richiama, proiettando il credente nei tempi nuovi che la risurrezione di Gesù sta per inaugurare. Personalmente ritengo che non è da escludersi che Matteo nella sua invocazione “TÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion dÕj ¹m‹n s»meron:” (Mt 6,11) abbia voluto dare questo senso escatologico, un’escatologia che parte da un punto preciso e ben circostanziato definito da quel aoristo ingressivo “dos” e che si evolve in ogni giorno (semeron) verso il suo pieno compimento. C’è pertanto in quel pane un dinamismo che trae la sua origine e la sua vitalità nell’ultima cena, simbolicamente indicata da quell’aoristo ingressivo “dos”, e si compie nell’oggi, in ogni oggi fino alla pienezza dei tempi. Il Gesù matteano infatti è venuto per dare pienezza e compimento (Mt 5,17) all’A.T. , una pienezza che si è compiuta in lui, ma non ancora definitivamente compiuta. Tale pienezza e compiutezza parte da Gesù, ma troverà la sua definitiva realizzazione nel Regno dei cieli. Tale pane, definito da Matteo come l’ epiousion, evidenzia questo cammino dinamico che si attua e si compie nell’oggi, ma che nel contempo lo supera verso la meta finale dei cieli nuovi e della terra nuova, dove tutto ciò che qui ha avuto il suo inizio troverà là il suo definitivo compimento e dove il simbolo viene sostituito dalla realtà qui significata nei ristretti spazi dell’oggi temporale.
Ben diverso è il contesto in cui si muove Luca, che con quell’imperativo presente (didou), rafforzato dall’espressione temporale katz’emeran, lega il pane alla necessità del presente, che si reitera di giorno in giorno, proprio come il bisogno di nutrimento corporale dell’uomo. E Girolamo, a nostro avviso, sa cogliere bene il pensiero di Luca e non traduce più il termine epiousion con supersubstantialem come ha fatto in Matteo, ma si limita a tradurre con il termine latino cotidianum, rafforzato a sua volta dall’avverbio cotidie, dando in tal modo un senso di contingenza reiterata nel tempo e ad esso strettamente legata, che nasce, si muove e si esaurisce nel tempo, proprio come il vivere dell’uomo e le sue esigenze fisiche e corporali in genere.
Pertanto con questa invocazione “dacci oggi il nostro pane quotidiano” Matteo sembra voler esortare la sua ricca ed opulenta comunità, che certamente non aveva bisogno di invocare da Dio il proprio quotidiano nutrimento corporale, ad alzare lo sguardo verso un altro pane, che se da un lato ha tratto la sua origine da quaggiù (dòs), dall’altro è comunque intimamente e profondamente legato alle cose di lassù (epiousion) verso cui è incamminata la stessa comunità, che ha aderito alla nuova fede. Infatti, non a caso, sarà proprio questo concetto della prevalenza dell’importanza delle cose di Dio su quelle più contingenti dell’uomo che costituirà la conclusione del cap. 6 : “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.” (Mt 6,33) Matteo quindi stabilisce un ordine delle cose e dei valori all’interno di una comunità, che proprio a motivo delle sue ricchezze, aveva delle serie difficoltà a seguire fino in fondo il cammino del suo Maestro[170].
Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori: La seconda parte del Padre nostro si era aperta con l’invocazione dell’intera comunità, rivolta verso l’unico Padre, affinché le facesse dono del vero pane, fondamento e ragione della sua unità (1Cor 10,17). Il rapporto era Padre-Comunità, fondata sull’unico pane e in esso radicata e da esso qualificata. Ora, al v. 12, il rapporto si arricchisce di altri soggetti colti nella loro dinamica individuale: il Padre, il noi comunitario con le sue intrarelazioni, qualificate da creditori e debitori. Il legame tra loro è strettissimo e interdipendente, a tal punto che non si può pensare all’uno senza gli altri. Un rapporto che potremmo definire a cascata: Padre-noi - noi-debitori nostri.
Il v. 12 è strutturato su di un parallelismo che gira attorno a quel æj kaˆ (così anche) e che divide il versetto in due parti accomunate tra loro dallo stesso verbo e dagli stessi vocaboli. Pertanto l’espressione è così strutturata:
kaˆ (su) ¥fej ¹m‹n t¦ Ñfeil»mata ¹mîn,
æj kaˆ
kaˆ ¹me‹j ¢f»kamen to‹j Ñfeilštaij ¹mîn (t¦ Ñfeil»mata)
Vi è corrispondenza di soggetti (Tu-Noi), stessi sono i verbi (perdona-perdoniamo), vi è corrispondenza tra i destinatari dell’azione del verbo (a noi – ai nostri debitori), unico è l’oggetto su cui si compie l’azione del verbo (i debiti). Già in questo gioco letterario di strette corrispondenze l’autore racchiude il significato teologico profondo del suo messaggio, che viene ulteriormente accentuato ed esaltato dalle due particelle æj kaˆ (così anche); queste riproducono, quasi clonano, accentuandone il legame, la prima parte con la seconda, rendendole tra loro inscindibili, ma dicono anche come la seconda parte si radica e trova la sua giustificazione e la sua motivazione più vera e profonda nella prima.
Il linguaggio di questa esortazione è strettamente giuridico: il verbo ¢f…hmi, che significa assolvere, rimettere, lasciar andare, lasciar perdere; l’oggetto del contendere Ñfeil»mata, i debiti; e infine Ñfeilštai i debitori ai quali è destinata l’azione legale. Questo linguaggio richiama da vicino il tema del tribunale e del giudizio che in esso si compie. E forse Matteo, unico a riportare la visione del giudizio universale (Mt 25,31-46), pensa proprio a questo. L’autore è un ebreo che scrive a dei giudeocristinai, ed essi pensano il loro rapporto con Dio come il rapporto tra padrone-schiavo, re-suddito. Non a caso infatti è proprio Matteo, unico tra gli evangelisti, a raccontare la parabola del servo malvagio (Mt 18,23-35), quale eco e dispiegamento di questo v. 12. In questa parabola ricorrono gli stessi autori e la stessa dinamica dei rapporti presenti qui nel v. 12: re-servo debitore; servo debitore con servo debitore. Nella parabola la conclusione è identica a quella dei vv. 6,14-15 che si pongono anch’essi a conclusione e specificazione del v. 12, quasi un suo commento : “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (Mt 18,35); mentre i vv. 6,14-15 concludono, riportando forse un detto di Gesù: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15).
Molto significativi, infine, sono i due verbi ¥fej e ¢f»kamen, entrambi posti all’aoristo: il primo all’imperativo-esortativo, il secondo all’indicativo. Innanzitutto unico è il verbo che accomuna in se stesso due diversi soggetti, tra loro separati da una distanza incolmabile: il Padre e la comunità credente. Entrambi soggetti di un’unica azione: il perdonare, nel senso di rimettere pienamente ogni debito, cancellandolo definitivamente, senza più tenerne conto. È questo il senso del verbo greco ¢f…hmi usato da Matteo. I verbi poi sono posti entrambi all’aoristo, che per sua natura indica un’azione puntuale e ben circostanziata nel tempo. L’autore quindi con quell’¥fej (perdona) pensa ad un evento da cui si è originato e continua ad originarsi il perdono per tutti: l’evento della croce, il cui senso e significato più profondi furono anticipati nell’ultima cena: “perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28). Dalla croce dunque è sgorgato il perdono generale di ogni colpa e la redenzione di ogni uomo[171] così che Paolo con fare solenne e decretativo esclama: “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Tutto dunque il Padre nel suo Cristo e per suo mezzo ha lasciato perdere, di tutto non ha più tenuto conto, tutto ha perdonato e cancellato e l’umanità così perdonata e associata alla morte-risurrezione di Gesù è stata in lui associata anche alla nuova vita divina. In quell’ ¥fej pertanto vi è racchiusa una forza, una potenza generativa divina, che non solo rinnova l’uomo, facendolo una nuova creatura in Cristo, ma in lui lo genera e lo assimila anche alla stessa vita di Dio, escludendolo da ogni condanna futura.
Strettamente connesso all’ ¥fej (perdona) e da questo generato è il verbo ¢f»kamen (perdoniamo). Anche questo verbo è posto all’aoristo, ma si noti bene come esso è posto all’aoristo indicativo. In altri termini esso possiede in sé un senso terminativo e iterativo nel contempo. Infatti ¥fej è un aoristo ingressivo, che esprime un preciso punto di partenza posto nel passato (la croce) e possiede in se stesso una forza espansiva e tale da riprodursi in quel ¢f»kamen; in tal modo quest’ultimo verbo diviene il punto di arrivo (terminativo) di ¥fej e, legato ad un’azione passata da cui origina, si perpetua in un continuo presente (iterativo). Ciò significa che l’¢f»kamen è strettamente conseguente a quel punto iniziale, ¥fej, che lo ha originato e che persistentemente gli fornisce una forza propulsiva ed espansiva nel tempo. Ed essendo essi posti entrambi all’aoristo, significa che il perdono del Padre, attuato nel Figlio morto-risorto, e il perdono del credente riscattato dal sangue di Cristo, hanno entrambi una comune origine che si pone come evento puntuale nel tempo: la croce, quale strumento e origine di ogni perdono. A Pietro, che gli chiedeva quante volte doveva perdonare, Gesù rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Mt 18,21-22), cioè sempre, proprio perché quel perdono originatosi dalla croce è unico e irrepetibile ed è in particolar modo espansivo e dice riconciliazione definitiva tra Dio e gli uomini e gli uomini tra di loro. Per questo non vi può essere vero perdono e vera riconciliazione con il Padre se il credente, investito da tale perdono, non riesce a trasmetterlo agli altri, proprio perché il perdono-riconciliazione-rigenerazione è la nuova realtà di cui il credente è rivestito, la nuova dimensione in cui è chiamato a vivere e a cui deve conformare il proprio vivere. Uscire da questa dimensione divina del perdono perché non si vuol perdonare, significa non farne più parte ed estromettersi di conseguenza dalla dimensione della vita divina stessa. Perdonati, pertanto, i credenti sono chiamati a perdonare, cioè a travasare sugli altri quell’amore perdonativo e redentivo da cui sono stati pervasi abbondantemente e in cui sono immersi. L’¢f»kamen, proprio perché originato dall’¥fej e in esso radicato, ne possiede la medesima natura divina e quindi capace di assolvere, di rimettere la colpa e di riconciliare il perdonato con se e con Dio. Non a caso il Risorto in Giovanni, apparendo ai discepoli nel cenacolo li saluta dicendo “Pace a voi” per ben tre volte in pochi versetti (Gv 20,19-26) e proprio in questo contesto di pace donata alita su di loro lo Spirito di vita, rendendoli capaci di riconciliazione per gli uomini (Gv 20,21-22). Con il dono della pace, generata nella sua morte-risurrezione, Gesù attua la riconciliazione perfetta e definitiva tra Dio e gli uomini e fa testimoni e portatori di questo perdono riconciliante i suoi discepoli, chiamati, attraverso il dono dello Spirito, a farsi a loro volta diffusori e portatori in mezzo agli uomini di questa riconciliazione, sancita dallo Spirito. Il perdono pertanto diventa il segno visibile e la testimonianza più vera della risurrezione stessa. Per questo il perdono negato al proprio fratello diventa il rifiuto implicito e il disconoscimento del perdono della croce di cui i credenti sono mandatari: <<Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi>> (Gv 20,21). Proprio in virtù di questa stretta e concatenata unità comunionale tra il perdono divino (¥fej) e quello credente (¢f»kamen), viene a stabilirsi conseguentemente una diretta corrispondenza tra il perdono donato dal Padre in Cristo per mezzo dello Spirito e quello offerto dal credente a tutti gli uomini, suoi simili. Tale perdono divino, che il credente porta in sé ed è chiamato a farlo transitare proprio attraverso di sé verso gli altri, diventa la misura sulla quale anche lui sarà misurato e che viene espresso con quel æj kaˆ, che costituisce il solido aggancio tra il perdono divino e quello credente.
E non introdurci nella prova, ma liberaci dalla perversione: con questa ultima invocazione Matteo chiude la preghiera della comunità rivolta al Padre. È un’esortazione finale, direi estrema, quasi un ultimo appello che la comunità lancia al Padre. L’intonazione è da ultimi tempi: i verbi usati sono tra loro contrapposti non soltanto nel significato (non introdurre ma liberare), ma anche da quel ¢ll¦ (ma), alludono in qualche modo ad una situazione da cui si cerca di fuggire; così come i due sostantivi peirasmÒn (prova) – ponhroà (malvagità, perversione) ci conducono verso la prova finale (1Pt 1,6-7), quella escatologica, molto sentita tra le comunità del primo secolo, in attesa della venuta finale del Signore, che doveva passare prima attraverso il fuoco purificatore della sofferenza e del dolore e dove la stessa adesione a Cristo sarebbe stata messa in discussione[172]. Ultimi tempi nei quali l’intera comunità si sente coinvolta direttamente; per due volte infatti il pronome ¹m©j (noi) viene riportato nel versetto ed è posto all’accusativo, in quanto oggetto passivo delle azioni espresse dai verbi; segno che la comunità si trova a vivere situazioni di difficoltà per cui invoca da un lato una particolare attenzione da parte del Padre perché le eviti di esservi sottoposta, mentre dall’altro lo esorta a liberarla dalla caduta, cioè dalla perdita della fede. Gesù infatti si interrogherà proprio su questo aspetto della fede al suo ritorno nella gloria (Lc 18,8)[173]. Si noti come sia peirasmÒn che ponhroà sono posti al singolare e non al plurale. Quindi Matteo qui non fa riferimento a delle prove in genere, che accompagnano il normale vivere degli uomini, o al male, che caratterizza lo stato di decadenza della condizione umana, bensì ad una prova presa in senso assoluto (davanti al sostantivo non vi è nessun articolo determinativo) e quindi la prova per eccellenza, che non ha neppure bisogno di essere specificata, tanto era attesa e temuta nel primo secolo e che anche l’Apocalisse (Ap 7,14) e la Prima di Pietro (4,12-19) ricorderanno; mentre al contrario il sostantivo ponhrÒj è preceduto da un articolo determinativo segno che Matteo pensava ad un pericolo specifico, che in qualche modo era legato alla prova: la perdita della fede, definita come una perversione da cui essere liberati (¢pÕ toà ponhroà). Va tenuto presente infine come nell’intera invocazione del Padre nostro ci sia una forte tensione escatologica: si invoca la santificazione del nome di Dio, cioè la rivelazione e la manifestazione della presenza divina agli uomini; così come il Regno di Dio si instauri definitivamente nella storia, ponendo termine a quelli degli uomini, attualizzandosi infine pienamente la sovrana maestà e potenza del Padre, nonché il suo progetto di salvezza nell’intero universo, così che tutto sia nuovamente una cosa sola nel Padre (1Cor 15,23-28); mentre l’invito alla comunità matteana si fa pressante perché sollevi lo sguardo dalle cose terrene per rivolgere la sua attenzione verso le realtà celesti, significate nel pane eucaristico.
Ma a cosa pensa Matteo mentre formula quest’ultima invocazione? A che cosa fa riferimento? Come legge le difficoltà a cui è sottoposta la sua comunità? Vi sono in questa frase due verbi, uno al congiuntivo e l’altro all’imperativo (e„senšgkVj - ràsai) posti entrambi all’aoristo, il quale indica un fatto ed un’azione ben precisi e circostanziati nel tempo. A quale fatto l’evangelista allude? La situazione di prova e di difficoltà in cui versa la comunità matteana, che sta consumando la sua rottura con il giudaismo, a seguito della quale i nuovi credenti sono perseguitati ed espulsi dalla sinagoga e di conseguenza dalla comunità ebraica, decretandone di fatto la morte civile (Gv 9,22; 12,42), riporta l’autore agli eventi drammatici della passione e morte di Gesù e che ora in qualche modo si sta estendendo alla chiesa nascente. L’assimilazione dello stato di persecuzione e di sofferenza per la testimonianza della nuova fede alla passione e morte di Gesù è dato proprio dal tempo verbale, l’aoristo, che lega e accomuna tra loro i due verbi, che esprimono una sorta di contemporaneità e un’identità di azione, per cui il soffrire della comunità è il soffrire di Gesù[174]. Benché il soffrire si collochi nell’oggi della comunità, tuttavia esso con l’aoristo è posto al passato, quasi che fosse una realtà già superata e non presente. In verità Matteo con questo gioco verbale tra passato e presente, coglie il soffrire per la prova come un fatto già storicamente avvenuto e circoscritto (la croce di Gesù) e che ora si ripropone estendendosi alla comunità credente, imprimendone in tal modo il sigillo di autenticità: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,18-20).
Ma vero è anche che in quest’ultima invocazione risuonano in qualche modo le stesse parole che Gesù rivolge al Padre nel Getsemani: “E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: <<Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!>>.” (Mt 26,39.42). Così la comunità credente, proiettata ormai in una dimensione escatologica, prega e si rivolge al Padre di Gesù e suo (Gv 20,17) con la stessa invocazione del suo Maestro: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! - Non introdurci nella prova”; “Però non come voglio io, ma come vuoi tu! - ma liberaci dalla perversione”, fedeltà quindi e adesione piena e sempre pronta al disegno salvifico del Padre.
vv. 6, 14-15: dopo un’ampia e dettagliata analisi dei vv. 9b-13, contenenti l’invocazione per eccellenza della preghiera cristiana, a cui, proprio per la sua rilevanza, abbiamo dedicato una particolare attenzione, riprendiamo ora la nostra analisi sistematica del vangelo di Matteo.
I vv. 14-15 chiudono la pericope riguardante la preghiera (6,5-13) e in particolar modo, riprendendo il v. 12, lo amplificano sottolineandone l’importanza. Una preghiera perché sia gradita a Dio deve nascere da un discepolo perdonato e riconciliato, che si fa perdono e riconciliazione. Sono proprio il perdono e la riconciliazione infatti i frutti primi della risurrezione che evidenziano la novità di vita in cui è coinvolto il credente, frutto egli stesso della risurrezione (Gv 20,19-23), per questo nuova creatura in Cristo. Nessuno può adire al Padre se non è perfettamente riconciliato con i propri fratelli, poiché soltanto in tal modo egli è anche riconciliato con Dio e se ne attesta figlio, mostrando come nel sangue del suo spirito scorra il DNA di Dio (Mt 5,44-45). Il Gesù matteano ricorda che qualunque cosa viene fatta ad uno dei propri fratelli più piccoli viene fatta a lui (Mt 25,40.45). Si viene a creare in tal modo una sorta di identificazione sacramentalizzata uomo-Cristo, uomo-Dio, che dice come nella risurrezione quest’uomo è stato assimilato alla vita divina (Gv 12,32), attratto nel ciclo vitale del Padre con il Figlio nello Spirito Santo (Col 1,12-14), nei quali fluisce un continuo ciclo di amore, che dice totale apertura, totale accoglienza e donazione di sé, l’uno all’altro, l’uno nell’altro. La riconciliazione, pertanto, frutto del perdono, è fondamentale per rimanere in questo ciclo vitale divino. Solo in tal modo l’uomo perdonato perdonante diviene riconciliato riconciliante, lasciando fluire nei suoi rapporti sociali e intracomunitari la stessa vita divina, che è comunione, frutto di perdono riconciliante. Già Matteo lo aveva anticipato in 5,23-24 parlando dell’atto di culto rivolto a Dio: “Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono”. Non può essere diversamente. Per questo Gesù stabilisce una diretta corrispondenza tra il perdono da noi ricevuto e il perdono che noi siamo tenuti a dare, in forza del perdono ricevuto e perché portatori di perdono e riconciliazione.
Benché i vv. 14-15 siano una sorta di cassa di risonanza del v. 12, tuttavia si posizionano ad un diverso livello. Nel v. 12 il tono è legalistico e richiama i rapporti credente-Padre e credente-fratelli in termini di vincoli debitorii (Ñfeil»mata) che non possono essere sciolti se non vi è un corrispondente corrispettivo (æj kaˆ): perdono a fronte di perdono (¥fej - ¢f»kamen), mentre il clima che si respira è quello di un tribunale, che assolve o condanna. Viene pertanto stabilito un principio di tipo giuridico, che viene poi applicato ai vv. 14-15, che ne sono una conseguenza. In questi versetti il clima è diverso e ci riporta nell’ambito dei soli rapporti umani; la dimensione è squisitamente umana, orizzontale. Non si parla più di debiti (Ñfeil»mata), ma di errori, di trasgressioni, di prevaricazioni (paraptèmata) che vengono inflitti al credente. A fronte di tali offese personali il credente ha di fronte a sé due vie: il perdono ('E¦n g¦r ¢fÁte) o l’indisponibilità ad esso (™¦n d m¾ ¢fÁte). Entrambi i verbi sono posti al congiuntivo aoristo. L’aoristo lega il credente ad un fatto iniziale, ben determinato e individuato nel tempo (il perdono per mezzo della croce), a cui egli è legato esistenzialmente e da cui trae la motivazione della sua scelta. Il congiuntivo greco infatti esprime la soggettività che si attua nella libera volontà. C’è quindi una libertà di scelta che presuppone una capacità di autodeterminazione e di conseguenza di responsabilità. Anche i destinatari del perdono e del suo rifiuto non sono più identificati come debitori (Ñfeilštaij), ma sono gli uomini in genere, che travalicano i ristretti confini della stessa comunità credente per abbracciare l’intera umanità (¢nqrèpoij). Lo scenario quindi è quello proprio della concreta quotidianità della vita in cui ogni credente è collocato e impegnato. La sua scelta tuttavia non è indifferente e qualunque essa sia grava su di essa un giudizio finale. Non a caso il verbo dell’essere o meno perdonati (¢f»sei - oÙd ... ¢f»sei) è posto al futuro ed è strettamente correlato al comportamento del credente stesso dalla congiunzione kaˆ (anche), che applica il principio giuridico stabilito dal v. 12 (æj kaˆ): perdono a fronte di perdono.
vv. 6, 16-17: con questi versetti siamo giunti al terzo aspetto del come praticare la giustizia in modo corretto e gradito a Dio: il digiuno. Questa pratica molto in uso presso il popolo ebreo trova la sua origine in Lv 16,29-31, che lo stabilisce una sola volta all’anno in occasione dello Yom Kippur[175], il giorno dell’espiazione[176], che si celebrava il 10 di Tishri, tra settembre-ottobre: “Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, vi umilierete[177], vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese, sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi. Poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati, davanti al Signore. Sarà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne”.
Con il tempo tuttavia la pratica del digiuno si diffuse e divenne uno strumento di penitenza con cui la comunità israelitica o anche un suo singolo membro si poneva davanti a Dio per impetrarne la benevolenza; era quindi un modo di porsi in uno stato di indigenza di fronte a Dio per esprimere la propria totale dipendenza da Lui. Diversi erano i motivi per cui si digiunava: in occasione di eventi nefasti e dolorosi, come la sconfitta in battaglia, le devastazioni ad opera dei nemici, per la morte del re o di parenti ed amici[178]; per scongiurare pericoli incombenti[179]; per implorare da Dio eventi favorevoli[180]; quale atto di pentimento con riconoscimento delle proprie colpe. Tale tipo di digiuno si collocava all’interno di un processo di conversione[181]; per lo stato di vedovanza (Gdt 8,6). Il digiuno comportava l’astensione dal cibo, ma talvolta anche dai rapporti sessuali (Dn 6,19).
Tale pratica non era mai un atto solitario e a se stante[182], ma era quasi sempre accompagnato da olocausti e sacrifici (Gdc 20,26) o da preghiere ed atti penitenziali assieme[183] o da sole preghiere[184] o da soli atti penitenziali[185]. La durata del digiuno variava da uno[186] a tre giorni[187] e fino anche a sette giorni[188] o più semplicemente, con espressione indefinita, parecchi giorni (Ne 1,4).
Con l’avvento del profetismo e in particolar modo nel periodo postesilico il senso del digiuno cambia profondamente nel suo significato: non più astensione dal semplice cibo, ma dal comportamento iniquo (Is 58,4-7; Sir 34,26).
La pratica del digiuno veterotestamentaria rimane sostanzialmente invariata anche nel N.T. e all’annuale digiuno dello Yom Kippur si associa ormai con regolarità il digiuno settimanale con cadenza il lunedì e il giovedì[189], praticato da ogni pio ebreo (Lc 18,12). Assieme alla preghiera il digiuno diviene uno strumento per impetrare grazie e illuminazioni nelle scelte di una certa gravità o importanza (At 13,2-3; 14,23); esso rientra nell’ambito di preparazioni a festività o ricorrenze e nelle celebrazioni di rituali penitenziali (Mt 9,14; Mc 2,18) e di culto (At 13,2), negli esorcismi (Mt 17,21) o anche in occasione di lutti. Tale pratica è sentita come una sorta di sottomissione a Dio ed esprime il costante servizio della propria vita a Lui dedicata (Lc 2,37).
Gesù non disdegna il digiuno, né lo abolisce, anzi anche lui, in preparazione della sua missione, si ritira nel deserto dove si astiene dal cibo e da ogni comodità per quaranta giorni (Mt 4,2; Lc 4,2). Tuttavia Gesù, pur rispettando tale pratica e cercando di perfezionarla, facendola partire dal cuore, al di là di ogni formalismo esteriore (Mt 6, 16-18), non sembra molto propenso al digiuno e a chi gli fa osservare come egli e i suoi discepoli si discostano da tale tradizione Gesù cerca di far capire come con lui siano iniziati i tempi nuovi, quelli messianici dove tutti i popoli, qualificati dalla fede, sono chiamati al banchetto insieme a Dio[190]. La sua venuta quindi inaugura il tempo della gioia perché Dio è ritornato in mezzo agli uomini e li invita ad accedere alla sua stessa mensa (Mt 9,10). Il digiuno dunque è sostanzialmente superato, benché la chiesa primitiva, forse ancora culturalmente influenzata dal giudaismo, continuerà a praticarlo[191] quale corroborante per una forte vita ascetica cristiana (1Cor 7,5).
Anche per la questione del digiuno, come per l’elemosina (6,2-3) e la preghiera (6, 5-6), Matteo usa la tecnica della contrapposizione per meglio mettere in rilievo la diversità degli stili di vita, facendo risaltare la novità del messaggio cristiano inaugurato con Gesù. Diversi sono i destinatari del digiuno: gli uomini e Dio; diversa la finalità del digiunare: apparire-non apparire; contrapposti sono i comportamenti per raggiungere le opposte mete: deturparsi il volto – profumarsi e lavarsi. Digiuna pertanto l’ebreo e digiuna il nuovo credente, ma ben diverse sono le loro finalità (Ópwj fanîsin - Ópwj m¾ fanÍj): il primo adotta un comportamento appariscente per impressionare (Ópwj fanîsin) gli uomini. L’orientamento esistenziale pertanto non è rivolto a Dio, come richiederebbe la pratica del digiuno, ma agli uomini. Diventa quindi una vacua ostentazione di sé che appaga il proprio orgoglio e la propria vanità; l’esatto contrario del significato del digiuno che è un umiliarsi davanti a Dio. I secondi invece assumono un comportamento di festa (ungerai ... laverai) la cui finalità è quella di nascondersi agli uomini (Ópwj m¾ fanÍj) per apparire invece a Dio, che legge il cuore dell’uomo. L’orientamento esistenziale qui pertanto è rivolto a Dio e quindi ogni azione fatta in tale ambito è bene accetta al Padre.
Su tali comportamenti pesa già fin da subito il giudizio; si parla infatti di ricompensa, che si attua nell’immediato per ciò che riguarda gli uomini (il verbo è posto al presente: ¢pšcousin), quasi a dire la vacuità di tale ricompensa, legata all’effimero della storia e muore in essa. Per ciò che riguarda invece il vero credente, che nel silenzio si spende per il suo Dio, a cui ha consacrato nella sincerità del suo cuore la sua vita, la ricompensa si pone al futuro (¢podèsei) ed è strettamente legata alla vita in Dio. L’azione del credente pertanto assume toni escatologici, che superano per la loro stessa natura l’effimero del presente; il nuovo credente infatti con il suo orientamento esistenziale verso Dio, proietta il suo operare in Dio stesso, facendo assumere al suo digiuno una valenza di eternità.
vv. 6, 19-24: a conclusione della lunga riflessione sul corretto modo di praticare la giustizia (vv. 6,1-17), Matteo riporta tre detti di Gesù. Per la loro lapidarietà e il loro andamento sapienziale essi hanno il compito di spingere il credente a riflettere sul senso più vero e profondo del praticare la giustizia, mettendo in rilievo e svelando nel contempo il meccanismo che deve muovere tutto il suo comportamento nei suoi rapporti con Dio. Matteo, infatti, sa bene che di fronte a sé ha una comunità di nuovi credenti che proviene dal giudaismo e sa come il giudeo per sua cultura e tradizione tende ad eseguire in modo pedissequo e legalistico le disposizioni della Torah[192], prediligendo la lettera allo spirito della Legge. Il rischio pertanto che si pone è, ancora una volta, lo svuotamento del corretto relazionarsi con Dio. Pertanto l’evangelista, quale responsabile e pastore della sua comunità, invita ad un cambiamento di mentalità: passare da una mera esecuzione della giustizia al vero senso che la deve invece animare, liberandola dalla lettera che la svilisce e la inaridisce[193]. Ecco pertanto, sotto forma di trilogia sapienziale, i tre detti il cui compito è quello di spingere ad una riflessione la sua comunità che proviene dal giudaismo, fornendole in tal modo la chiave di lettura della nuova fede, che per sua natura, al di là di dottrine e norme, vuole arrivare al cuore dell’uomo e coinvolgerlo nella sua totalità più intima e profonda.
I tre detti formano un unico blocco e si muovono secondo uno schema ben preciso usando la tecnica della convergenza (A-B-A’) e della contrapposizione (Non ... ma):
I vv. 19-21 (A), che aprono e impostano una riflessione sapienziale sul giusto comportamento che il nuovo credente deve tenere nei confronti di Dio, trovano il loro completamento naturale e conclusivo nel v. 24 (A’). Infatti il riorientamento esistenziale, che la nuova fede opera nel credente, va dalle cose (non accumulate tesori in terra) a Dio (accumulate tesori in cielo) e trovano una duplice motivazione: una intrinseca (le cose terrene sono effimere, mentre quelle spirituali portano in loro stesse il germe dell’incorruttibilità e pertanto sono eterne); e un’altra estrinseca, offerta dal v. 24, che evidenzia l’inconciliabilità tra i due comportamenti e pertanto la necessità di operare un radicale cambiamento esistenziale: dalle cose a Dio e di conseguenza (e qui viene ripreso e concluso il tema della pratica della giustizia) l’attenzione va data a Dio piuttosto che agli uomini[194].
I vv. 22-23 (B) risultano centrali e quindi i più importanti, costituendo l’anima del vivere cristiano. Verso questi Matteo vuol far convergere l’attenzione della sua comunità: “La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”. Questo è il cuore non solo del cap. 6, ma anche di tutta la pretesa della nuova fede: la vita del nuovo credente non può più ridursi ad un semplice ritualismo inaridente, preoccupato a seguire dottrine con tutti i loro legalismi ed apparire così buoni e santi davanti agli uomini; la vera religione gradita a Dio, il vero rapporto con Lui, al di là di ogni dottrina e teologia, deve partire dalla sincerità del cuore, poiché è da lì che nasce il vero culto a Dio[195] così come ogni malvagità[196].
Questa di Matteo è una piccola parabola che parte con un’affermazione ben nota agli ebrei: “La lucerna del corpo è l’occhio”. Secondo le concezioni anatomiche ebraiche il corpo umano è come una casa illuminata dalla finestra superiore[197]. Il corpo quindi viene illuminato dalla luce che passa attraverso l’occhio. Importante, quindi, è capire da che cosa questo occhio è illuminato, poiché dal tipo di luce che l’attraversa dipende la luminosità o meno dell’intero corpo, che per l’ebreo non è una componente del proprio Io, ma è l’Io stesso. Vi è quindi una profonda unità nell’uomo tra spirito e corpo. Secondo l’antropologia ebraica[198] infatti l’uomo è uno spirito incarnato e una carne spiritualizzata. Non vi è dicotomia, contrapposizione o inconciliabilità, tutta greca, tra spirito e carne, tra corpo e anima. Di conseguenza la luce che proviene dall’occhio investe nella sua interezza tutto l’uomo e ne rivela la sua essenza profonda. L’occhio, quindi, similmente al cuore, delinea e qualifica il comportamento dell’uomo[199]. Il salmista, nella sua riflessione sapienziale, accomuna il cuore agli occhi che sono investiti dalla luce divina: “Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi.” (Sal 18,9); e gli occhi inondati da questa luce orientano esistenzialmente l’uomo verso Dio, che gli indica la strada sicura e lo libera da ogni inganno: “Tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio piede” (Sal 24,15). Soltanto quindi l’occhio illuminato dalla Parola divina renderà luminosa l’intera vita del credente, che si apre in tal modo, nella sincerità del suo cuore al suo Dio e dalla sua vita trasparirà la luce illuminante della Verità vera, che illumina a sua volta, facendo cogliere la verità della vita e delle cose.
È necessario pertanto capire da quale luce è illuminato il credente: da quella che proviene da Dio, dalla sua Parola, o da quella che proviene dalla sua preoccupazione di piacere agli uomini e di apparire ai loro occhi. Matteo qui tocca il cuore della questione: il vero credente, al di là di ciò che deve o non deve fare, deve sempre lasciarsi guidare ed avvolgere dalla luce che viene da Dio e che lo colloca esistenzialmente nella sua Verità e qualunque cosa egli faccia sarà sempre bene accetta al Padre, sia pur nella povertà dei suoi limiti; diversamente l’intera sua vita viene compromessa ed anche il bene che egli compie viene svuotato di ogni significato e ricade su di lui a condanna, poiché compiendo il bene egli dimostra di saperlo fare, ma non vi aderisce esistenzialmente ed usa il bene soltanto per raggiungere propri vantaggi. Ciò che conta dunque per Matteo è l’orientamento esistenziale, che si fa stile di vita, modo di vivere così che tutto ciò che proviene da esso è santo e gradito a Dio, poiché nasce e si muove nella sua Verità[200].
vv. 6, 25-34: abbiamo visto come i vv. 19-24, introducendo e sviluppando una riflessione di tipo sapienziale, fungono da nucleo di transizione tra la corretta pratica della giustizia (6, 1-17) e la necessità di impostare correttamente anche il proprio rapporto esistenziale con il Padre, affidando la propria vita nelle sue mani piuttosto che in quelle delle cose (6, 25-34). Matteo quindi sembra preoccupato di fondare il giusto comportamento della sua comunità nei confronti di Dio, superando le esigenze e le resistenze religiose e culturali del giudaismo (6,2.5.16) e del paganesimo (6,7.32), sia per quanto riguarda il suo esprimersi religioso (elemosina, preghiera, digiuno: 6, 1-17), sia per quanto riguarda il suo concreto vivere quotidiano, colto nel suo dinamico[201] rapportarsi con le cose e i beni (mangiare, bere, vestire: 6, 25-34). Fulcro centrale sia della pratica della giustizia che del rapportarsi esistenzialmente con Dio è la necessaria e sincera conversione del cuore, la sua onestà e la sua correttezza profonde da cui si genera e si espande la luce divina che illumina la vita nel suo intero esprimersi (6, 22-23), trasformandola in un vero atto di culto a Dio gradito[202]. Perché dunque la vita del nuovo credente sia veramente atto di culto, in cui si celebra la quotidiana liturgia esistenziale di lode e ringraziamento al Padre, non è sufficiente che egli sia impegnato in un corretto praticare la giustizia, ma anche lo svolgersi concreto e quotidiano della sua vita deve subire un radicale riorientamento aprendosi ad un nuovo orizzonte in cui Dio ha il primo ed esclusivo posto.
La pericope in esame si struttura su due brevi sezioni, 6,25-30 e 31-34, ognuna delle quali, a sua volta, possiede una propria struttura; pertanto si avrà di seguito il seguente svolgimento strutturale:
A) Introduzione e sviluppo del tema: vv. 6, 25-30
1) v. 25: Enunciazione del tema in due parti: la prima riguardante la vita; la seconda il vestire. Segue la prima spinta riflessiva;
2) v. 26: Prima parabola tratta dalla natura (uccelli del cielo) che si conclude con una seconda spinta riflessiva;
3) v. 27: Conclusione di questa prima sequenza: terza spinta riflessiva che occupa l’intero versetto.
1’) v. 28a: ripresa della seconda parte del tema (il vestire) e quarta spinta riflessiva;
2’) v. 28b-29: seconda parabola tratta dalla natura (i gigli del campo);
3’) v. 30: conclusione di questa seconda sequenza e quinta spinta riflessiva.
B) Sezione conclusiva: vv. 6, 31-34
1) v. 31: esortazione finale che riepiloga in sé l’intera questione accompagnata da una triplice e consecutiva spinta riflessiva: non affannarsi mai;
2) v. 32: esposizione delle motivazioni a sostegno del non affannarsi;
3) v. 33: che cosa il credente deve cercare e le conseguenze sulle nostre esigenze terrene;
4) v. 34: sentenza conclusiva.
L’intera pericope 6,25-34 costituisce una sorta di sviluppo sapienziale dei vv. 6,19-24 ed è ad essi strettamente legata non solo tematicamente, ma anche da quel Di¦ toàto (Per questo), che fa di questa ampia riflessione sapienziale la conseguenza delle premesse di 6,19-24. La sua finalità è quella di sospingere la comunità ad una profonda riflessione che mira a riconsiderare, a livelli profondi, il suo comportamento per riorientarlo decisamente verso Dio, così che Egli occupi il primo posto nella vita del credente.
Numerosissimi sono infatti i verbi che animano l’intera pericope (6,25-34); essi sottolineano i ritmi stessi del vita, colta nel suo quotidiano svolgersi: affannarsi, mangiare, bere, vestirsi, seminare, mietere, raccogliere, nutrire, angustiarsi, crescere, affaticarsi, filare, rivestire, gettare. Questa ridda di verbi, che per loro natura predicano azione e movimento, testimoniano come l’evangelista voglia parlare alla sua gente e la voglia interpellare e mettere in discussione proprio là, dove si svolge il dramma quotidiano della loro vita. È proprio lì, nel cuore della vita, che deve cambiare radicalmente l’atteggiamento verso Dio e verso i fratelli, così che sul palcoscenico, in cui essa si muove e si esprime, testimoni la luce divina che la avvolge.
Il tema di fondo è indubbiamente la preoccupazione che accompagna il vivere nelle sue concrete esigenze quotidiane. Esso viene scandito in due momenti fondamentali: la vita, che trae il suo sostentamento naturale dal cibo e dalle bevande; e il corpo quale sede naturale che accoglie in sé ed esprime per suo mezzo la vita stessa: esso è difeso e adornato dal vestire. È evidente che Matteo non intende qui trattare la questione della moderazione nel mangiare o nel bere o nella ricerca del vestire, ma riferendosi a questi bisogni primari, attraverso i quali ogni uomo si esprime nella sua quotidianità, intende coinvolgerlo interamente nei suoi interessi per gli aspetti materiali e corporali del suo vivere. La preoccupazione dell’evangelista è stigmatizzare l’eccessivo interesse verso la materialità, di cui la sua comunità sembra essere vittima, e che si traduce in una spasmodica ed affannosa ricerca del benessere materiale e del soddisfacimento della propria corporeità; cose queste che la spingono ad accaparrare e a fondare le proprie sicurezze su di esse così che l’interesse per le cose di Dio viene ineluttabilmente soffocato. Lo aveva già anticipato nella sua introduzione preparatoria: le due cose, Dio e denaro, sono tra loro inconciliabili e irriducibili l’uno all’altro: o c’è l’uno o c’è l’altro. La radicalità con cui la questione viene posta e il suo ritornarci sopra in 19,16-30 denotano la seria preoccupazione che agita questo pastore per questo affannarsi della sua benestante comunità alla ricerca dei beni materiali, ai quali essa è legata e lega le proprie sicurezze. Per ben sei volte infatti si riscontrano in questa riflessione il verbo mermn£w (merimnào: affannarsi) e il corrispondente sostantivo mšrimna (mérimna: affanno) che formano il filo conduttore dell’intera pericope, facendone un’unica solida unità letteraria.
Di certo l’intento dell’autore, nel suo stigmatizzare duramente e persistentemente il comportamento della sua comunità troppo intenta ai beni materiali, non è quello di sospingerla verso un rassegnato fatalismo esistenziale nella speranza che qualcuno provvederà, relegandola in una pacifica ricerca di Dio e del suo Regno. Al contrario, Matteo è vivamente preoccupato per l’atteggiamento di fondo che anima e sostanzia il vivere dei suoi fedeli, che sembrano coniugare tranquillamente gli affari con la nuova fede, relegando quest’ultima ai margini della loro vita o considerandola, al più, come una sorta distintivo sociale o culturale da cui trarre, là dove possibile, un qualche vantaggio.
Con i vv. 6,31-33 l’autore si avvia alla conclusione della sua lunga riflessione e in essi presenta la sintesi e il cuore della questione.
Questi versetti si ristrutturano in forma concentrica:
A) v. 31: esortazione conclusiva a non affannarsi per il mangiare, bere e vestire. In essa vengono posti i tre interrogativi che delineano l’atteggiamento mentale della comunità matteana, che sembra porre i propri interessi primari in cima alla lista, relegando quelli di Dio in seconda posizione. Questo versetto pone in rilievo il comportamento negativo della comunità e si lega, per contrapposizione, al v. 33.
B) v. 32: siamo al cuore della questione. Questo versetto giustappone in modo antitetico le due realtà tra loro incompatibili, riprendendo in qualche modo il v. 24: da un lato si evidenzia la ricerca del benessere materiale che caratterizza il mondo dei pagani e che ha come attore principale l’uomo; dall’altro vi è la realtà del nuovo credente che invece ha come elemento fondante Dio, che si qualifica nei suoi confronti come Padre amorevole e provvido. Da una parte l’uomo fautore dei suoi destini; dall’altro un Padre che opera amorevolmente a favore dei propri figli, da Lui generati per mezzo della loro fede in Cristo e che li conduce verso di Lui; da una parte abbiamo una concezione antropocentrica della storia, dall’altra teocentrica.
A’) v. 33: con questa esortazione, che si contrappone antiteticamente a quella del v. 31, l’autore indica la strada che il nuovo credente deve percorrere e che si pone esattamente a 180° rispetto a quella che egli oggi sta seguendo: al primo posto gli interessi di Dio ed Egli provvederà ai loro. Di fatto questo versetto indica una nuova via che coniuga in sé le due esigenze primarie del nuovo credente, che fino a quel momento sembravano contrapposte e inconciliabili: il primario interesse per le cose di Dio, che si esprime nella sua ricerca; e i bisogni primari dell’uomo, a cui Dio provvede. Si crea in tal modo una sorta di scambio reciproco: il credente, poste in secondo piano le proprie esigenze materiali, colloca al centro della propria vita quelle di Dio; da parte sua Dio sovviene alle esigenza di coloro che lo cercano con cuore sincero. In questi termini le parti sono soltanto apparentemente invertite, in realtà Dio risulta essere al centro di tutto, sia perché l’uomo lo deve porre al di sopra dei propri interessi ed esigenze, sia perché egli per le sue esigenze primarie dipende comunque da Dio. Al centro di tutto, pertanto, ci sta sempre Dio, da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna. Egli, dunque, costituisce il parametro su cui rifondare il proprio modo di vivere e su cui riparametrare il valore di tutte le cose, che alla luce divina acquisiscono il loro più profondo e vero significato, mentre la vita dell’uomo ritrova il suo senso originario.
La conclusione del cap. 6 (vv. 31-34) si apre con il v. 31 che condensa in sè, sotto forma di esortazione, gli elementi centrali dell’intera riflessione (non affannarsi, cosa mangiare, bere e vestire) concentrando in una sola riga ben tre interrogativi, il cui intento è mettere in discussione in modo radicale e pressante questo vacuo affannarsi per le cose materiali; un atteggiamento questo che equipara i nuovi credenti, provenienti dalla fede giudaica, addirittura ai pagani (v. 32a), cioè a persone da loro ritenute immonde.
Ed ecco il momento centrale del ragionamento di Matteo, il cuore dei vv. 31-33, che si contrappone all’atteggiamento, di fatto pagano e paganizzante, dei suoi giudeo-cristiani: “il Padre vostro celeste, infatti, sa che avete bisogno di tutte queste cose” (v. 32b). In altre parole l’evangelista richiama la sua comunità a prendere coscienza della nuova realtà: Dio è per loro un vero Padre che consoce le esigenze dei suoi figli e non li abbandona nel cammino della loro vita verso di Lui. C’è pertanto questa nuova realtà, che non solo vive in mezzo a loro, ma verso la quale essi sono in cammino e con la quale devono quotidianamente fare i conti. Questa nuova realtà divina, che si è concretizzata e manifestata in Cristo, è una realtà che li interpella e chiede loro di prendere posizione, poiché non si può servire Dio e il denaro (v. 24). La questione è centrale e fondamentale del nuovo vivere credente e chiede un radicale riorientamento esistenziale, poiché le esigenze di questo Padre non sono né compatibili né contrattabili con gli interessi materiali, verso i quali sembra invece propendere la ricca comunità matteana. Ecco pertanto la strada da percorrere, indicata dal v. 33a: “Invece cercate soprattutto il Regno di Dio e la sua giustizia”. L’espressione si apre con “invece” (dš) che nettamente si contrappone al comportamento stigmatizzato dal v. 31. Questo avverbio avversativo, da un lato, denuncia la scorrettezza del comportamento della comunità matteana e dall’altro le indica il percorso inverso, che essa deve compiere e che richiede una profonda e radicale conversione. In altre parole, così come si sta comportando la comunità non va proprio bene, anzi pregiudica la sua stessa salvezza (Mt 19,23-24).
Con il v. 34, dal sapore sapienziale, si chiude una lunga riflessione (6,1-33) sul corretto comportamento, sia religioso che esistenziale, che il nuovo credente deve tenere nei confronti di Dio. Il v. 34 si apre con il verbo mh merimn»shte (me merimnésete: non affannatevi) che forma inclusione sia con il v. 33 che con il v. 25, dando in tal modo compattezza all’intera pericope ed evidenziandone il tema di fondo: non bisogna preoccuparsi per le cose materiali, quanto piuttosto bisogna spendere la propria vita per Dio. Centralità dunque di Dio all’interno della vita della comunità e di ogni suo membro.
Capitolo 7, 1 – 29
Le ultime raccomandazioni
su come deve comportarsi
il nuovo credente
Introduzione
Il cap. 7 conclude il primo grande discorso di Gesù (5,1-7,29) e raccoglie le ultime raccomandazioni sul come devono comportarsi i nuovi credenti. Sono, almeno nella prima parte del capitolo (7,1-12), delle riprese e precisazioni su temi già trattati nel capitolo precedente e su cui Matteo ritorna, forse proprio perché questi argomenti costituiscono il punto dolente della sua comunità: il rapporto con i propri fratelli e con gli uomini in genere (7,1-6); e le modalità della preghiera (7,7-12).
Nella seconda parte del capitolo (7,13-23) l’autore richiama l’attenzione della sua comunità a non lasciarsi fuorviare da facili dottrine, che presentano soluzioni semplici e rapide, scorciatoie per la salvezza, contrapponendo ad esse la serietà gravosa dell’impegno cristiano, che si misura più che su proclamazioni o attestazioni verbali sui fatti, sui quali il nuovo credente viene misurato.
Il cap. 7 si presenta come una raccolta di sette detti di Gesù[203] apparentemente giustapposti l’uno accanto all’altro senza alcun legame logico tra loro né con quanto li ha preceduti[204]. Tuttavia, a nostro avviso, questo capitolo presenta una sua unità letteraria e strutturale. Innanzitutto il numero stesso dei detti (sette[205]), posti a termine del primo grande discorso, sta ad indicare come questi vadano letti quale completamento perfezionante di questo primo discorso, e non solo, ma anche di quelli successivi. Il numero sette pertanto costituisce la cornice entro cui questo capitolo va letto. I vv. 7,1-12 infatti sono riprese di temi trattati nel cap. 6 e posti a loro completamento, come vedremo. Il v. 7,6 delinea l’atteggiamento da tenere nei confronti di giudei e pagani circa gli insegnamenti impartiti dalla nuova dottrina; mentre il v. 7,12 fornisce la chiave di lettura e interpretativa dell’intero insegnamento di Gesù che, come vedremo, si rifà alla tradizione rabbinica. E infine la messa in guardia da altre diverse dottrine (7,13-20), che possono portare a vivere una religiosità di facciata o annacquare la nuova fede (7,21-23). Il tutto si chiude con una riflessione sapienziale che soppesa i diversi e contrapposti atteggiamenti tenuti nei confronti del nuovo annuncio di Gesù (7,24-27).
L’unità di questi detti e dei temi da loro trattati è evidenziata anche dalla struttura entro cui essi sono distribuiti e che noi proponiamo di seguito, suddividendola in tre parti:
Prima Parte: 7,1-12: la ripresa tematica e complementare di 6,12.14-15 e di 6,5-8 e la nuova
regola comportamentale (7,6)
A) vv. 7,1-5: il modo di porsi nei confronti degli altri costituirà il parametro di misura su cui si sarà misurati a sua volta. Esso trova una sua risonanza complementare in 7,12. Questa breve pericope è una ripresa e un completamento di 6,12.14-15;
B) v. 7,6: esortazione alla prudenza: il nuovo messaggio che scaturisce dalla nuova dottrina non va sbandierato a cuor leggero a chi non appartiene alla nuova fede, poiché rischierebbe non solo di non essere compreso, ma anche deriso e vilipeso. Questo versetto costituisce la regola comportamentale che Matteo detta alla sua comunità perché il tesoro della Parola non venga disperso inutilmente.
C) vv. 7,7-11: quali caratteristiche deve avere la preghiera cristiana: costanza, persistenza e si basa sul principio della reciprocità di atteggiamenti: il Padre celeste è accogliente così come il padre terreno lo è nei confronti dei propri figli. Vi è qui la ripresa e il completamento del tema di 6,5-8.
D) v. 7,12: viene evidenziata la logica che deve permeare tutti i rapporti sia comunitari che sociali del buon convivere: la reciprocità, che per il credente trova, a giochi finiti, la sua contropartita nell’atteggiamento di Dio, che userà nei confronti del credente la stessa misura con cui egli ha misurato i suoi fratelli. Questo versetto forma con 7,1 una sorta di inclusione, data dalla complementarietà logica tra i due versetti (7,1 e 7,12), dando in tal modo una sostanziale unità all’intera pericope.
Seconda Parte: 7, 13-23: la serietà e la gravosità dell’impegno richiesto dalla nuova fede
Questa breve pericope può essere, a nostro avviso, letta in modo concentrico (A – B –A’) e punta il dito contro i predicatori di false e facili dottrine (B):
A) vv. 7,13-14: formano il preambolo introduttivo ai vv. 7,15-23: non lasciarsi allettare da facili dottrine o da disinvolti costumi: la nuova fede richiede severità d’impegno concreto.
B) vv. 7,15-20: esortazione a guardarsi dai falsi profeti che presentano dottrine diverse o contrarie a quanto proclamato da Gesù;
A’) vv. 7,21-23: il vero credente si misura sulla concretezza dei fatti e non sulle belle parole.
Terza Parte: 7, 24-27: chi è veramente saggio e chi invece stolto
Questo detto si pone in parallelo e a completamento di quello in 7,13-14 (porta stretta-larga; via stretta-larga). Esso delinea due orientamenti esistenziali contrapposti, che si costruiscono sul comportamento positivo-negativo tenuto nei confronti della parola di Gesù: casa solida sulla roccia della Parola; casa fragile sulla sabbia di false e allettanti dottrine.
Notiamo come i vv. 7,6 e 7,15-20 sono tra loro affini e complementari. Infatti in 7,6 vi è l’invito ad essere prudenti nel rivelare i contenuti della nuova fede per evitarne la banalizzazione; mentre in 7,15-20 vi è l’invito a non ricevere o ad accogliere acriticamente nuove o vecchie dottrine. Integrati tra loro questi due principi rivelano l’impermeabilità al tessuto sociale in cui veniva a trovarsi la comunità matteana, e denunciano il clima difficile in cui essa viveva, isolata e in polemica sia con il mondo giudaico (6,2.5; 23,1-39) che con quello pagano (6,7-8.32; 10,5).
Il cap. 7 pertanto potremmo definirlo, da un lato, come complementare al primo discorso di Gesù e, dall’altro, esso fornisce i criteri con cui ci si deve porre nei confronti della nuova dottrina, che verrà delineata da Matteo nei cinque grandi discorsi che compongono buona parte del suo vangelo (circa il 31%). L’autore infatti è l’unico che ci propone cinque grandi discorsi, che costituiscono una sorta di bacini raccoglitori dei vari detti e parabole di Gesù. Nel loro insieme essi delineano il primo pensiero cristiano e formulano le prime dottrine rudimentali[206]. Forse Matteo ne sentiva la necessità per fornire alla propria comunità, in lotta e in dura polemica sia con il giudaismo che con il mondo pagano, una solida base di confronto e un indiscusso punto di riferimento. Tutti i detti, infatti, sono brevi, incisivi, facili da ricordare, quasi dei proverbi da applicare in ogni situazione di vita[207].
Analisi e commento di 7, 1-29
I rapporti con gli uomini e con Dio: ultime precisazioni (7,1-12)
vv. 7,1-5: la struttura di questi cinque versetti si sviluppa nel seguente modo:
1) 7,1: enunciazione del tema;
2) 7,2: sviluppo del tema, introdotto dalla particella causativa gar (infatti);
3) 7,3-4: riflessione sulle motivazioni giustificative del tema;
4) 7,5: sentenza conclusiva.
I primi cinque versetti di questo capitolo sono dedicati al tema del giudicare, enunciato in 7,1. Se nuovo è il tema di certo già conosciuta è la logica che lo sottende: qualsiasi cosa noi facciamo agli altri essa si rifletterà in pari modo su di noi. In altri termini, siamo noi stessi con il nostro comportamento, tenuto nei confronti degli altri, che costruiamo i parametri di giudizio con cui anche noi saremo giudicati a nostra volta. La questione è apparsa la prima volta in 6,12 circa la questione del perdono: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” e che Matteo ha ripreso e precisato subito in 6,14-15: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”. Si è introdotto pertanto un principio di reciprocità: ciò che noi facciamo agli altri questo noi riceveremo da Dio. Una logica che deve essere sempre presente nel relazionarsi agli altri e che l’autore ritiene fondamentale del vivere cristiano se, ancora una volta, la riprenderà con la parabola del servo malvagio (Mt 18,23-34), che si concluderà con l’ammonimento: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (Mt 18,35). Non stupisce quindi se il cap. 7 si apre con la ripresa di questo leit motiv, che questa volta viene riferito al giudicare[208]. Se Matteo tocca la questione è molto probabile che essa costituisca un serio problema per la sua comunità che potrebbe rischiare la lite e la divisione interna. Sembra, infatti, che quello del giudicare e del tagliare i panni addosso agli altri fosse una prerogativa culturale propria del popolo ebreo, che sentendosi illuminato dalla Legge riteneva di poter riversare le sue critiche sui pagani e i peccatori. In tal senso ce ne dà testimonianza lo stesso Paolo nella sua lettera ai Romani, in cui definisce il giudeo come “colui che giudica gli altri : “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? [...] Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità... ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che proibisci l'adulterio, sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge?” (Rm 2,1-3.17-23).
Il comportamento che il nuovo credente tiene nei confronti del suo prossimo dunque avrà una pesante risonanza anche su di lui. Il verbo kr…nw è ripetuto due volte: una all’attivo (kr…nete) ed esprime l’azione che parte dal credente e va a cadere sull’altro; una seconda volta al passivo (kriqÁte) ed esprime il ritorno di quell’azione sul giudicante stesso, che è sottoposto al suo stesso giudizio. In altri termini, nel momento in cui si giudica ci costituiamo giudici di noi stessi, predisponendoci a subire lo stesso giudizio. Vi è quindi stretta correlazione tra il giudicare e l’essere giudicati. Il v. 7,1 infatti è scandito in due parti: la prima esortativa “non giudicate”, la seconda finale “affinché (†na) non siate giudicati”. Il non giudicare pertanto è finalizzato al non essere giudicati. Sul giudicare gli altri pesa sempre un altro giudizio che viene parimenti emesso su di noi, anche se non è contestuale al nostro, ma ci rimanda al giudizio finale. C’è quindi in tutto questo anche una nota escatologica. I tempi dei verbi che compongono il v. 7,2, infatti, sono uno al presente che si giustappone al futuro dello stesso verbo, come dire che l’azione che si compie nell’oggi avrà un suo peso direttamente nel domani dell’aldilà.
Il motivo di questa diretta consequenzialità tra il giudicare e l’essere giudicati è probabilmente riferibile allo stesso Mt 25,40.45: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Il giudicare quindi il fratello va a colpire in qualche modo Dio stesso che dichiara di essersi sacramentalizzato nell’uomo (l’avete fatto a me). Anche Giacomo sollecita la sua comunità a non sparlare, perché questo va a colpire direttamente la stessa Legge: “Non sparlate gli uni degli altri, fratelli. Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge. E se tu giudichi la legge non sei più uno che osserva la legge, ma uno che la giudica” (Gc 4,11). Trattare duramente il fratello dunque significa maltrattare in qualche modo proprio quel Dio che per primo ha mandato suo Figlio non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui (Gv 3,17), così che “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Il credente dunque ha beneficiato del perdono totale da parte del Padre, di conseguenza egli deve elargire questo perdono anche agli altri: amati e non giudicati, dobbiamo amare e non giudicare; perdonati dobbiamo perdonare. Questa è la regola per i nuovi credenti. Soltanto se essi si asterranno dal giudicare, dal criticare e dal condannare rimarranno entro il circolo dell’amore divino salvifico in cui sono coinvolti ed associati per mezzo di Cristo, da cui defluisce l’amore perdonativo del Padre. E il nuovo credente deve costituirsi veicolo e sacramento di tale amore. Questo dinamismo verrà spiegato in modo lucido e profondo da Matteo in 18,23-34, la parabola del servo malvagio, che non ha saputo riversare sul suo compagno di sventure quell’ampio e totale perdono che lui per primo, ben più debitore, ha beneficiato dal suo Signore. Questa mancata condivisione di perdono gratuitamente donato gli è costata la condanna: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (Mt 18,35).
L’altro motivo che deve spingere il credente a non giudicare è la piena consapevolezza della sua stessa fragilità, che lo equipara al criticato: “Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello” (Mt 7,3-5). I due interrogativi spingono il credente ad una introspezione e a rivedere il proprio comportamento nei confronti dell’altro, poiché di fronte a Dio, unico Padre di tutti, anche chi giudica è parimenti peccatore. Il motivo per desistere dal giudicare, in questo contesto, ci viene offerto dallo stesso Paolo[209]: “Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, poiché sta scritto: Come è vero che io vivo, dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso. Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello” (Rm 14,10-13).
Ciò che muove il credente a comportarsi in modo così tanto umano, ma certamente non coerente con la fede che ha abbracciato è l’orgoglio, che gli impedisce di vedere la sua grande fragilità (la trave), che già gli è stata ampiamente perdonata dal Padre nel suo Cristo. Ecco dunque la necessità di far prevalere nei rapporti intra ed extra comunitari la logica dell’umiltà, che nasce dalla coscienza della propria povertà, e che va sostenuta e rafforzata da quella dell’amore. La carità infatti “ ... è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7).
Il vero e sincero rapporto con il proprio fratello nasce partendo dall’umile considerazione di se stessi, che non è disprezzo di sé, bensì chiara coscienza dei propri limiti. Soltanto questa autocoscienza, affinata alla luce della Parola di Dio, consentirà al credente di vedere nella giusta dimensione il proprio fratello al di là dei suoi limiti. È necessario quindi spogliarsi dalle esigenze del proprio Io che spinge ad autoaffermarsi anche a spese dell’altro, per percorrere liberamente la nuova strada dell’amore condiviso che si esprime nelle mille sfaccettature del vivere quotidiano e che supera ogni limite ed ogni ostacolo: “[...] amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12,10-21).
vv. 7, 6: questo versetto si pone al centro della pericope 7,1-12 e funge da un lato da spartiacque tra i due temi complementari di 7,1-5 e 7,7-12[210] e dall’altro costituisce una sorta di nota pastorale di tipo comportamentale, posta nel bel mezzo di un ammaestramento catechetico[211], che Matteo rivolge alla sua comunità, perché non banalizzi i misteri e la dottrina della nuova fede spiattellandoli inopinatamente al mondo circostante, giudaico e pagano, che è sentito dall’autore come un mondo avverso da cui difendersi e nei confronti del quale è in netta fase di rottura[212]. Il linguaggio è chiaramente metaforico e delinea la situazione della sua comunità. Pertanto le espressioni “ciò che è santo” e “perle” alludono ai misteri e alla dottrina che formano il contenuto della catechesi matteana; mentre “cani” e “porci” rappresentano rispettivamente il mondo giudaico e pagano. Si noti infatti come Matteo associ l’espressione “ciò che è santo” ai “cani”, mentre “le vostre perle” ai “porci”. Questa netta distinzione tra cani e porci, associati rispettivamente a giudei e pagani, va colta sia dal contesto che dal significato dei termini stessi, usati presso il mondo giudaico. Quanto al contesto, Matteo nell’ambito della catechesi del primo discorso opera un confronto tra la sua comunità credente con il mondo giudaico (6,1-2.5.16) e con quello pagano (5,47; 6,7.32; 10,5) dai quali essa deve distinguersi in modo deciso (6,8a.24). Quanto al significato dei termini, vediamo come la parola “cani” venga qui riferita ai giudei. Con questa espressione infatti i rabbini del tempo indicavano i peccatori, i pagani e gli ignoranti[213], che per Matteo tali sono diventati i giudei con il loro chiudersi al nuovo messaggio di Gesù[214], il quale per l’autore è il vero Rabbi e il vero interprete della Torah e l’erede dell’insegnamento mosaico, che trova in lui il suo compimento (Mt 5,17). È significativo, a nostro avviso, come l’autore associ il termine “cani” a “ciò che è santo” (tÕ ¤gion), un’espressione questa che nel linguaggio dell’Esodo, del Levitico e Numeri indica tutto ciò che ha attinenza con il mondo del divino: sacrifici, animali sacrificati, pane, focacce, olio per la consacrazione dei sacerdoti e delle suppellettili cultuali, offerte, vesti sacerdotali rituali, suppellettili e luoghi sacri[215]. Ma ancor di più, santo è lo stesso popolo d’Israele (Es 19,6). Matteo opera qui un’inversione di posizione: gli ebrei si consideravano santi ed eredi della santità di Dio e delle sue promesse, contitolari della sua Alleanza; possedevano le cose sacre (Rm 9,4-5) e compivano atti cultuali in quanto popolo di sacerdoti (Es 19,5-6), mentre tutti gli altri erano dei cani. Ebbene, ora per l’autore il vero popolo d’Israele, i veri eredi della Torah non sono più i giudei, soprattutto dopo la distruzione del Tempio e di Gerusalemme ad opera delle truppe di Vespasiano e di Tito. Per Matteo il giudaismo è finito e i veri eredi del nuovo giudaismo, caratterizzato non più dalla Torah, ma dallo Spirito, sono Gesù e i suoi discepoli, la nuova comunità messianica (Mt 21,33-45), destinata a generare una nuova umanità fedele a Dio[216]. Cani pertanto non sono più coloro che si pongono fuori dal giudaismo, ma i giudei stessi, che si sono posti fuori dal nuovo corso della storia della salvezza con il loro pervicace rifiuto di Gesù[217] e, ormai privi di guida spirituale e privati degli apparati sacri della loro religione e del loro potere (Tempio, sacerdoti, sacrifici, culto), sono stati in un certo qual modo desacralizzati e destituiti dall’antica Alleanza, che invece si è ricostituita in modo nuovo nel sangue stesso di Cristo (Mt 26,27-28) a favore dei suoi discepoli. Sono loro, pertanto, i veri cani, cioè gli ignoranti e i peccatori. Pertanto Matteo invita la sua comunità di giudeo-cristiani a non gettare ai cani ciò che è santo, cioè quella santità che loro, vero Israele ed eredi delle promesse fatte agli antichi Padri[218], hanno ereditato da Cristo stesso[219].
In seconda battuta l’evangelista ammonisce i suoi a non gettare “le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”. Si noti la contrapposizione tra le perle e i porci, insita non soltanto nel significato delle parole stesse (perle-porci), ma accentuata dall’aggettivo possessivo “vostre”, che denota il distacco dal mondo pagano e la contrapposizione ad esso. Tale aggettivo non compare in nessun modo nella battuta precedente poiché la santità del mondo giudaico, depositario delle promesse, titolare dell’Alleanza e destinatario Torah, non si contrappone al messaggio cristiano, ma si completa in esso (Mt 5,17; Rm 10,4); mentre il nuovo credente scopre nel mondo giudaico le origini della sua storia della salvezza (Rm 11,17-18), che trova il suo apice nella morte e risurrezione di Gesù, frutto maturo di quel mondo. Ma il mondo dei pagani, metaforicamente indicati con l’espressione “porci”[220], non appartiene al mondo sacro della storia della salvezza, per cui risulta estraneo, anzi irriducibilmente contrapposto ad esso[221]. L’attributo “vostre”, pertanto, evidenzia una volta di più l’estraneità della comunità matteana e la sua chiusura impermeabile a questa realtà immonda[222].
vv. 7, 7-11: Parallelamente a 7,1-5 anche questa breve pericope segue l’identica struttura:
1) 7,7: enunciazione del tema;
2) 7,8: sviluppo del tema, introdotto dalla particella causativa g£r;
3) 7,9-10: riflessione sulle motivazioni giustificative del tema
4) 7,11: Sentenza conclusiva
L’argomento è una ripresa e un completamento del tema della preghiera. In 6,5-15 Matteo aveva affrontato l’atteggiamento che il nuovo credente doveva tenere nel suo rapportarsi al Padre con la preghiera: non doveva ostentarsi davanti agli altri, come i giudei, né spendersi in vacua verbosità come si soleva tra i pagani, quasi che le parole fossero capaci di piegare Dio al loro volere; ma non aveva specificato quali fossero i tratti che dovevano caratterizzare la preghiera e che cosa egli intenda per preghiera. Lo fa ora qui, in questa fase conclusiva del primo grande discorso.
Sono tre i verbi che qualificano l’orante: chiedere – cercare – bussare; essi sono posti all’imperativo esortativo e quindi indicano un’azione che è vincolante e, pertanto, essenziale alla preghiera; sono tre, numero che simbolicamente esprime l’azione compiuta e quindi perfetta[223]. L’insistenza di questi tre verbi dice come questa preghiera deve essere costante e persistente, non deve quindi trovare interruzioni o fasi di stallo nella propria vita, ma la deve permeare e caratterizzare nel suo svolgersi quotidiano. La disposizione dei verbi non è casuale, ma si muove secondo una precisa logica: tutto nasce dal chiedere (A„te‹te) che in greco non dice solo domandare, ma anche bramare, desiderare[224]. Il chiedere pertanto nasce da un bisogno esistenziale, che dice la finitezza e la fragilità del richiedente che non trova in se stesso il soddisfacimento del proprio bisogno né tantomeno la giustificazione di sé, ma è costretto a rivolgersi altrove per colmare lo squilibrio che si è venuto a verificare lungo il cammino della sua vita. Il primo atto della preghiera pertanto nasce dallo stato di coscienza e dal riconoscimento della propria condizione di creatura, che spinge il credente a bussare là dove egli ritiene e spera di poter vedere soddisfatta la propria sete di perfezione e di pienezza. Il bussare, di conseguenza, dice la meta raggiunta, il luogo dove si trova la risposta al proprio bisogno; per questo il bussare è posto alla fine. Tuttavia nessuno bussa nella certezza di vedersi respinto, ma nutre in sé la speranza viva di essere pienamente soddisfatto nelle sue esigenze. Il bussare pertanto è sotteso dalla speranza. Chiedere e bussare sono due verbi tra loro simili e complementari, poiché il bussare è un modo di chiedere o meglio è il chiedere che si esplicita nel bussare. Ma tra il chiedere e il bussare c’è di mezzo un cammino da percorrere che deve caratterizzare il comportamento del nuovo credente e che Matteo significa proprio in quel “cercate” (zhte‹te). Il verbo è posto centralmente per indicarne l’importanza fondamentale nella vita del discepolo. L’autore usa il verbo zhtšw che significa cercare, andare alla ricerca di .., cercare di conoscere, di scoprire, di ottenere e quindi bramare, sentire desiderio[225]. Il verbo quindi possiede in sé una carica e un dinamismo che coinvolge il credente nella sua interezza e lo mette in movimento verso la meta che deve soddisfare il suo bisogno. Cercare è il verbo che qualifica il vivere credente[226], che non si ferma al soddisfacimento insaziabile e logorante del bisogno corporale, ma lo trascende; è lo stesso verbo che l’evangelista usa nel sollecitare la sua comunità a cercare (zhte‹te) il Regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6,33a). è un verbo che esprime intenzionalità ed evidenzia lo stato di forte tensione esistenziale verso la meta finale, l’unica in grado di dare compimento ad ogni bisogno del credente. Con questi tre verbi, pertanto, viene a delinearsi il ritmo esistenziale che scandisce il vivere della nuova fede: dalla coscienza della propria finitezza e della propria condizione di creaturalità nasce da parte dell’uomo la richiesta di pienezza che lo spinge alla ricerca di una risposta definitivamente soddisfacente e che lo possa appagare pienamente; una ricerca che nasce da una inquietudine esistenziale di fondo, che S.Agostino legge come la mano pressante di Dio che spinge l’uomo verso di Sè: “Inquietum est cor nostrum, Domine, donec requiescat in te”. La risposta vera, dunque, non si trova nelle cose, ma nel loro superamento verso quella Verità che non è lontana da noi, ma si trova in noi, come sottolinea lo stesso Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redii, in interiore homine habitat veritas”.
La qualità della preghiera che qui Matteo vuole sottolineare non è una semplice preghiera di domanda che il credente è invitato a rivolgere al Padre per le sue necessità quotidiane, che anzi l’autore in 6,25-32 esorta vivamente a superare, ma è un qualcosa di molto più profondo che coinvolge la vita del discepolo ad ogni livello e ne fa una vita orante, una vita cioè esistenzialmente orientata a Dio nella persistente ricerca della sua volontà, già invocata in 6,10. Tre sono gli elementi che ci portano a concludere che qui l’Autore non sta parlando della semplice preghiera di domanda, ma di atteggiamento esistenziale fondamentale che deve qualificare il portamento della sua comunità: 1) i verbi usati e la loro insistenza, che come abbiamo visto, interpellano e coinvolgono interamente il credente nel suo vivere quotidiano, al punto tale da farne uno stile di vita; 2) l’oggetto di questi verbi, che si trova sia nel Padre nostro che in 6,33-34, e ai quali questa pericope si aggancia; 3) il tempo dei verbi stessi posti al presente accanto ad altri, a cui sono strettamente legati, posti al futuro. Ed è proprio quest’ultima posizione che fa sorgere il sospetto che qui Matteo stia parlando di realtà che superano le contingenze della quotidianità: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”. Chiedere, cercare e bussare sono verbi posti al presente e quindi riferiti all’oggi del credente, e proprio perché posti all’imperativo lo impegnano esistenzialmente nella sua quotidianità, che da questi verbi viene qualificata e sottesa. Tuttavia l’atteggiamento che si delinea nel presente della quotidianità non trova la sua risposta esaustiva nell’immediatezza dell’oggi, ma i verbi posti al futuro (vi sarà dato; troverete; vi sarà aperto) dicono come questa risposta trascende la quotidianità e rimanda il credente verso una pienezza che si sta attuando nel suo oggi, ma che trova la sua definitiva attuazione al di là dello spazio e del tempo nell’eternità di Dio, là dove c’è il totalmente, il pienamente e il definitivamente compiuto. Lo sfondo su cui si muove questa pericope è pertanto escatologico; una escatologia che illumina la vita del credente, la orienta nel suo cammino, gli fa comprendere il valore e il senso delle cose e gli fa capire la necessità di una continua ricerca di un Regno che è già presente, ma non ancora pienamente compiuto e che gli è affidato; un’escatologia che lo spinge ad un continuo rinnovarsi interiore alla ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia, e che trova un’eco nell’esortazione di Paolo alla comunità di Roma: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). Posta in questi termini la vita cristiana si presenta fortemente dinamica, caratterizzata da un radicale atteggiamento critico verso delle realtà terrene che per loro natura sono finite e incomplete, proponendo idealità di perfezione a livelli sempre più elevati, verso mete di cieli nuovi e terra nuova dove le imperfette realtà terrene trovano la pienezza della loro compiutezza. In tal modo esse sono un’ombra imperfetta delle realtà future[227]. Il vivere cristiano pertanto è un vivere escatologico che si muove verso la compiutezza che il Risorto ha inaugurato nei cuori dei suoi discepoli e che costituisce la spinta dinamica dell’evoluzione cosmica.
Un’ultima attenzione va posta sulla qualità dei tre verbi citati in 7,7: due sono al passivo (doq»setai, sarà dato) o medio passivo (¢noig»setai, sarà aperto) e uno soltanto, quello centrale, all’attivo (eØr»sete, troverete). I due verbi al passivo[228] indicano l’azione di Dio, che si pone quale risposta all’azione dell’uomo, e questo per dire come le esigenze dell’uomo trovano il loro soddisfacimento definitivamente appagante soltanto in Dio e soltanto Lui è in grado di darle; ogni altro e diverso tentativo non dà piena e definitiva soddisfazione, ma rimanda sempre la ricerca verso un qualcos’altro. Infatti, si noti come soltanto il “dare” e l’ “aprire” sono al passivo, cioè sono riferiti all’azione divina, mentre la risposta al cercare (troverete) e posta all’attivo poiché essa è la conseguenza logica dell’impegno esistenziale proprio dell’uomo, che in quel cercare rivela la sua disponibilità e la sua apertura esistenziali alle proposte salvifiche del Padre rivelatesi nel suo Cristo. In tal modo la storia della salvezza diventa un intrecciarsi dialogante tra la storia dell’uomo e quella di Dio.
Il v. 7,8 si apre con un g£r (infatti) che aggancia a sé e spiega il v. 7,7 riproducendolo specularmente; cambiano tuttavia radicalmente le forme verbali: i verbi qui in 7,8 sono posti tutti al presente indicativo, segno che quanto qui viene detto ha a che fare con la semplice e più diretta esperienza umana: “infatti chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa viene aperto[229]”. L’autore quindi vuole rendere più facilmente raggiungibile dalla sua comunità la comprensione della tensione escatologica esistenziale espressa in 7,7, legandola all’esperienza della quotidianità e creando un parallelismo che, grazie al ripetersi speculare dei verbi, aggancia il presente dell’uomo al futuro già in atto, ma non ancora definitivamente compiuto, di Dio. Con questo escamotage l’autore evidenzia come il vivere del credente non è più un semplice vivere umano (verbi al presente indicativo: v. 7,8), ma è coinvolto e assorbito già fin d’ora in una realtà trascendente che crea una condizione esistenziale di forte tensione e di rottura con il presente dell’uomo (accostamento di verbi al presente con verbi al futuro: v. 7,7).
Se il v. 7,8 è posto a supporto e a completamento di quello immediatamente precedente e cerca di far comprendere come le realtà presenti trovano una loro risonanza in quelle future, ma già in qualche modo anch’esse presenti, i vv. 7,9-10, continuando nella logica di un presente che è una sorta di specchio delle realtà future, aprono una nuova fase che è preparatoria alla conclusione posta in 7,11; quindi anche qui un presente letto in funzione di un trascendente. La finalità di questi versetti è dimostrare, partendo dalla comune esperienza umana, la certa e decisamente superiore bontà di Dio, che qui viene letto come un buon Padre di famiglia. I due versetti si snodano tra loro paralleli e pressoché identici, secondo le logiche della retorica ebraica. Pane e pesce sono gli alimenti più diffusi presso quelle popolazioni[230] e sono accostati in modo contrastante a pietra e serpe. L’accostamento mette in rilievo la scelta tra bene e male che il padre terreno è chiamato a compiere nei confronti del proprio figlio. Ebbene pur essendo per sua natura l’uomo tendente al male sa tuttavia compiere la scelta giusta del bene a favore dei figli e quindi, per essi, capace di superare il male che gli è connaturato. Il ragionamento è semplice ed è posto all’interno di due interrogativi, che coinvolgono gli ascoltatori stimolando in loro la riflessione e li predispongono alla stoccata finale del v. 7,11.
Questo versetto è scandito in due momenti: la prima parte (7,11a) è costituita dalla riflessione conclusiva (oân, pertanto) di 7,8-9 e vede come attori principali dei padri terreni, definiti “cattivi” (ponhro…) a motivo della loro natura umana perversa; la seconda parte (7,11b) ha come attore Dio che è definito anche Lui Padre, come i primi, benché la sua natura sia di tutt’altra specie in quanto Egli ha le sue radici nei cieli, che dicono tutta la distanza che intercorre tra la bontà dei padri terreni e quella propria di questo Padre. Il ragionamento che l’autore compie è semplice: se una natura di per se stessa malvagia sa elargire anche dei doni buoni, quanto più una natura di per se stessa buona saprà partorire cose buone. Il ragionamento sembra pertanto concludersi qui: il credente è rassicurato, poiché può contare su di un Padre che è infinitamente buono, di una bontà che non teme confronti ed è inesauribile perché legata alla natura stessa di Dio. Ma in realtà questo semplice e cristallino ragionamento nasconde un’altra lezione. Innanzitutto Matteo, sottolineando la bontà del Padre che è nei cieli, dice l’origine di questa bontà e di conseguenza la qualità e la natura stessa dei suoi doni, che vengono definiti con un aggettivo sostantivato: ¢gaq£, cioè cose buone, realtà che sono radicalmente e intrinsecamente buone perché generate da Dio e in qualche modo facenti parte della sua stessa natura; esse definiscono in qualche modo la bontà stessa che defluisce naturale da Dio. Contrariamente le cose buone date dagli uomini sono definite con due termini “dÒmata ¢gaq£”, cioè doni buoni. Qui il termine ¢gaq£ non è un sostantivo e quindi non indica la natura di questi doni, ma un semplice attributo che ne definisce la qualità; sono doni, infatt, che escono da una natura che è intrinsecamente cattiva, ma che, nonostante, sono qualitativamente buoni, cioè rivestiti di bontà, ma non ne possiedono la natura propria, perché generati da uomini cattivi e a loro legati. Il confronto dei doni si poggia pertanto sulla natura che li ha generati e alla quale essi in qualche modo appartengono. La bontà degli uomini, proprio per la loro natura perversa, è effimera e segnata essa stessa dalla perversione della natura da cui è generata. La bontà di Dio non si distingue da Lui, ma è Lui stesso. Le ¢gaq¦ pertanto che escono da Dio non sono un qualcosa di diverso da Lui, ma sono dono di se stesso al mondo. Giovanni ricorda proprio questo passaggio nel suo vangelo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Ed è proprio da questo dono che ne scaturirà un altro: “Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (Gv 16,7)[231]. La natura di queste ¢gaq¦ pertanto sono i veri doni che escono dal Padre e defluiscono agli uomini e fanno parte della sua stessa natura. Infatti Luca, proprio nell’identica espressione matteana, sostituisce in modo esplicito le ¢gaq¦ con l’espressione Spirito Santo: “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare doni buoni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Il senso vero pertanto di 7,7 è la persistente richiesta del dono dello Spirito Santo che caratterizzerà l’escaton finale, ma che già fin d’ora ci è stato donato dal Padre a caparra del nuovo mondo inaugurato da Cristo (Ef 1,13-14), verso il quale l’uomo, fatto nuova creatura in Cristo (2Cor 5,17; Gc 1,18) e generato dalla sua Parola (1Pt 1,23), è rivolto.
v. 7, 12: Il versetto si apre con la particella oân (pertanto) la quale dà il tono conclusivo e riassuntivo all’intera norma che segue. Tuttavia quel oân non lega il v. 12 non si lega con quanto immediatamente lo precede, né il logion sembra avere una qualche relazione con la pericope 7,1-11; infatti se il v. 12 fosse posto in relazione a 7,1-11 risulterebbe incomprensibile e certamente fuori posto[232]. Per poterne cogliere il senso è necessario comprendere il contesto entro cui si pone questo versetto. Tale contesto è la parte conclusiva del primo discorso del Gesù matteano, che raccoglie le regole fondamentali che devono normare i rapporti interni alla nuova comunità messianica e costituire le linee di fondo sulle quali si devono muovere i suoi membri. La particella oân pertanto aggancia il v. 7,12 all’intero discorso (5,1-7,29) e lo riassume, fornendone sinteticamente una chiave di lettura e uno schematico principio dal sapore sapienziale: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti”.
Questo logion , qui proposto in forma positiva, non è sconosciuto al mondo antico[233] né a quello biblico[234] e costituiva una sorta di principio sul quale si regolavano i rapporti sociali e quelli interpersonali.
Il principio enunciato si fonda sulla reciprocità del rapporto: fa agli altri ciò che tu vuoi gli altri facciano a te. Non c’è nulla in tutto ciò di trascendentale né tanto meno può essere questa considerata una norma rivelativa, considerata la sua notorietà nell’antichità. Essa si posiziona infatti su di un piano meramente umano fondato su un corretto rapporto. Eppure il Gesù matteano carica questa regola di una particolare sacralità, ponendola alla base della stessa Torah: “questa infatti e la Legge e i Profeti”. Neppure questa, tuttavia, è una cosa nuova presso il mondo giudaico, visto che lo stesso Hillel l’aveva già sottolineata. Ma l’essere posta da Matteo in questo contesto (primo discorso di Gesù) getta su di essa una nuova luce, poiché essa viene a far parte della nuova logica cristiana e pertanto rientra in un preciso piano salvifico legato allo stesso Gesù. Essa quindi acquista una nuova valenza, poiché in Gesù viene trasposta su di un piano trascendentale. La dinamica di questo detto parte dal principio, fortemente radicato in una sana ed equilibrata natura umana, che nessuno si vuole male e che ognuno desidera ricevere del bene dagli altri. Di conseguenza si deve fare agli altri quel bene che si desidera ricevere. Il desiderio di ricevere il bene deve costituire pertanto lo stimolo proprio per fare il bene. Alla base del rapporto interpersonale e sociale ci sta il bene quale dinamica fondamentale dell’agire umano e interelazionale, che si esplicita nel principio fondamentale dell’affermazione dell’altro nella quale il proprio Io trova la sua affermazione e piena realizzazione. Si parla quindi di un Io che si apre al tu e va verso il tu in un atteggiamento accogliente e donativo. Si noti infatti come il detto del Gesù matteano è posto in senso positivo, contrariamente a quello che l’antichità ci ha tramandato: non fare agli altri quello che tu non vuoi che gli altri facciano a te. Il predicato morale degli antichi pertanto era “non compiere il male”. L’assioma è alquanto restrittivo, poiché l’astenersi dal fare il male non significa, ipso facto, necessariamente fare il bene. Il predicato morale di Gesù, invece, è “fai il bene”; un assioma che di per se stesso è sufficiente a superare ampiamente i ristretti orizzonti del neminem non ledere e trova la pienezza della sua perfezione nel combinato dei due principi dell’amore, che nell’A.T. testamento si trovano separati tra loro e posti in contesti completamente diversi (Lv 19,18; Dt 6,5), ma che Gesù, non a caso (e qui sta la novità), lega inscindibilmente tra loro, aprendo un nuovo orizzonte: “<<Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?>>. Gli rispose: <<Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti>>” (Mt 22,36-40). Amore di Dio e amore del prossimo, pur ponendosi su piani completamente diversi, tuttavia non sono estranei tra loro, ma l’uno (l’amore di Dio) passa attraverso l’altro (l’amore del prossimo) così che Giovanni ammonisce: “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). L’uno quindi non può sussistere senza l’altro. Il v. 7,12 pertanto detta una regola morale fondamentale che lega inscindibilmente Dio agli uomini e gli uomini tra di loro. Non a caso infatti il Gesù matteano, nel contesto del giudizio universale, sentenzia: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,40.45). L’agire, in bene o in male, verso il proprio fratello è un agire direttamente verso Dio, che nel fratello si è sacramentalizzato.
vv. 7, 13-27: la serietà e la gravosità dell’impegno richiesto dalla nuova fede
La seconda parte del cap. 7 (vv. 13-27) si muove su di uno sfondo caratterizzato da un’accentuata prassi morale. Basti pensare che il verbo fare (poie‹n) nell’arco di 15 versetti (vv. 13-27) ricorre ben 11 volte su un totale di 22 che si riscontra nell’intero discorso della montagna (5,1-7,27). Il pio ebreo infatti è legato alla scrupolosa esecuzione della Torah[235] e lo stesso giovane che si rivolge a Gesù desidera sapere che cosa deve fare per ottenere la vita eterna (Mt 19,16). Questa seconda parte infatti si muove, non a caso, secondo uno schema binario di contrapposizione tra ciò che è bene e ciò che è male: porta larga e stretta; via ampia e angusta; albero buono e cattivo; discepoli veri e falsi; saggio e stolto; roccia e sabbia. Sono in sostanza le due posizioni fondamentali dell’agire morale di fronte alle quali il discepolo è chiamato a prendere posizione.
Questa breve sezione (7, 13-27) è composta da quattro pericopi, strettamente legate tra loro, a cui si aggiungono i due vv. 28-29 redazionali, che si pongono a sigillo del primo discorso di Gesù:
1) vv. 13-14: enunciazione del tema: porta e via larghe portano alla perdizione; quelle strette alla salvezza;
2) vv. 15-20: primo sviluppo del tema: guardarsi dai falsi profeti che predicano una religione facile. La pericope presenta una inclusione in 16 e 20 con l’espressione “dai loro frutti li riconoscerete” che, oltre a dare unità ai versetti, ne introduce e ne sintetizza la riflessione;
3) vv. 21-23: secondo sviluppo del tema: guardarsi da una religione di facciata, ma che non tocca la dimensione esistenziale;
4) vv. 24-27: questa pericope si pone a conclusione dell’intero primo discorso di Gesù, ma è un monito che si estende anche agli altri quattro discorsi su cui si snoda l’intero vangelo matteano: viene definita in che cosa consiste la saggezza o la stoltezza del discepolo e, di conseguenza, qual è il vero fondamento del vivere la nuova fede.
Il contesto storico a cui si lega questo intervento di Matteo è probabilmente la particolare situazione della sua comunità[236], costituita prevalentemente da persone ricche e benestanti e che amavano più l’impegno negli affari e la ricerca del denaro o del benessere che l’impegno e la ricerca seria delle verità del regno, lasciandosi spesso affascinare dalle sirene di passaggio e facendo della propria fede più una questione culturale o d’élite che di serio impegno esistenziale. Da qui la denuncia dei vv. 7,13-23 e il forte richiamo a fondare la propria vita sulla parola del maestro (vv. 7,24-27).
vv. 7, 13-14: i due versetti si snodano in parallelo e in contrapposizione tra loro seguendo le logiche della retorica ebraica, che ama sviluppare il pensiero in termini di chiaroscuri per metterne meglio in rilievo il contenuto. Qui si aggiunge anche un altro aspetto: quello morale, che spinge la comunità matteana a compiere la giusta scelta. Porta e via sono termini metaforici per indicare una scelta esistenziale consolidata. La porta è il luogo di passaggio per entrare in un’abitazione o nella città e che separa l’esterno dall’interno, impedendone o facilitandone l’entrata (Mt 25,10; Lc 13,25). Essa, presa metaforicamente, può esprimere il contenuto al quale si accede attraverso di essa e in qualche modo ne è l’espressione[237] e la custode. Gesù stesso si paragona ad una porta attraverso cui passare per accedere alla salvezza (Gv 10,9). La via o la strada indicano invece il percorso su cui ci si incammina e metaforicamente essa indica il cammino della vita o la scelta operata a cui si conforma la propria vita[238]; così come essa può esprimere la dottrina o la regola di vita o i precetti del Signore[239]. Sempre Gesù paragona se stesso alla via che conduce al Padre (Gv 14,6). Matteo sceglie qui, non a caso, questa duplice metafora di porta e via che trova il suo riferimento alla realtà nei falsi profeti, che costituiscono la porta per accedere alle false dottrine; mentre il discepolo che si accontenta di una religiosità apparente e appariscente o superficiale è colui che ha abbracciato la falsa dottrina di una facile e gratificante religiosità, che Matteo aveva già condannato in 6,1-17 e, in modo molto duro e per certi aspetti anche violento, nell’intero cap. 23. Matteo, quale buon pastore, richiama fortemente la sua comunità spronandola ad una scelta radicale che la coinvolga anche esistenzialmente, perché nessuno può servire a due padroni, le cui pretese e le cui logiche sono tra loro inconciliabili (Mt 6,24; Lc 16,13), denunciando in tal modo tutta la difficile radicalità del vivere credente, che ha portato lo stesso loro Maestro sulla croce per rimanere fedele al Padre.
vv. 7, 15-20: questi versetti, come i seguenti 7, 21-23, costituiscono una ripresa e uno sviluppo del tema annunciato in 7,13-14 e trovano la loro giustificazione nei problemi della comunità matteana. Il contenuto è costituito da un richiamo che si pone su di un piano squisitamente morale. Il verbo “fare” infatti risuona per ben cinque volte in soli tre versetti (vv. 17-19).
La pericope si sviluppa secondo la seguente struttura:
1) v. 15: enunciazione del tema: guardarsi dai falsi profeti;
2) v. 16a: chiave di lettura per individuare le false dottrine: i loro frutti. Il v. 16a forma inclusione con il v. 20 dando da un lato unità strutturale alla pericope e dall’altro definendo il tema della stessa.
3) v. 16b: pone la questione con un interrogativo di tipo retorico finalizzato a focalizzare l’attenzione del proprio ascoltatore e che prelude al dibattito che segue circa i frutti buoni e cattivi.
4) vv. 17-18: costituiscono la parte centrale della pericope e affronta la questione su di un piano squisitamente morale: produrre frutti buoni e frutti cattivi, compiere il bene o il male. Questi versetti costituiscono la premessa al v. 19.
5) v. 19: viene introdotto il tema del giudizio che viene emesso sull’operare della comunità.
6) v. 20, che forma inclusione con 16a, è introdotto dalla particella ¥ra (pertanto) che conclude la pericope e dà all’intero versetto un forte senso logico. Quel ¥ra potremmo tradurlo quindi “di conseguenza”.
La pericope mette in guardia la comunità dall’aderire alle facili e devianti dottrine dei falsi profeti, avvertendo che su di loro e su chi li segue pesa già fin d’ora un giudizio di condanna. Si noti infatti come tutti i verbi del v. 19 sono drammaticamente posti all’indicativo presente: chi non fa frutti buoni è tagliato e gettato nel fuoco. Tutto avviene e si compie nell’oggi come in una sorta di escatologia presenziale, che caratterizza l’intero vangelo giovanneo (Gv 3,16-21).
La questione dei falsi profeti non è una prerogativa del N.T., ma essa trova il suo primo sviluppo proprio in Dt 13: “Vi preoccuperete di mettere in pratica tutto ciò che vi comando; non vi aggiungerai nulla e nulla ne toglierai. Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dei stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima. Seguirete il Signore vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, obbedirete alla sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto l'apostasia dal Signore, dal vostro Dio, che vi ha fatti uscire dal paese di Egitto e vi ha riscattati dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il Signore tuo Dio ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male da te” (Dt 13,1-6). Il profeta è qui qualificato non come un operatore di prodigi, ma come il portatore di una Parola. Il segno che lo qualifica come vero profeta di Jhwh è ciò che dice e non ciò che compie. Il credente pertanto è avvertito: egli deve valutare il profeta dalla sua parola, che deve essere posta a servizio di Jhwh e della sua volontà salvifica, senza lasciarsi trarre in inganno dai prodigi che egli può compiere.
Benché l’A.T. non ci fornisca delle caratteristiche precise per individuare il falso profeta, tuttavia esse emergono dal confronto con i veri profeti: a) il loro profetare non avviene in nome di Jhwh, ma di altre divinità, anche se quanto annunciano dovesse realizzarsi[240]; b) la condotta di vita (Ger 23,14) è un altro parametro di valutazione: chi annuncia la Parola di Jhwh non può violarne i comandamenti nella sua vita; c) essi non sono mandati da Jhwh, sono privi di vocazione e non c’è rivelazione[241]. Essi operano per conto proprio; d) l’annuncio del falso profeta cerca sempre di blandire il proprio ascoltatore (1Re 22; Mic 2,11; 3,5); e) il loro messaggio di salvezza riflette i desideri degli uomini ai quali promette una salvezza che non appartiene loro, anziché spronarli duramente verso il Signore[242]. Per questo motivo il vero annuncio di salvezza si rivela definitivamente come vera profezia solamente con la realizzazione dei fatti annunciati (Ger 28,8-9)[243].
Similmente il tema del falso profetismo viene ripreso anche nell’Apocalisse e in qualche modo ricalca la nostra pericope in analisi: “Ma la bestia fu catturata e con essa il falso profeta che alla sua presenza aveva operato quei portenti con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo” (Ap 19,20).
I falsi profeti, così come i falsi maestri, che emergono dal N.T. sono presentati come un segno della fine dei tempi[244] e costituiscono una presenza costante e insidiosa all’interno delle prime comunità credenti. Paolo si lamenta nei confronti dei Corinti per le divisioni che si erano verificate al loro interno e che li avevano portati a formare dei gruppi contrapposti l’uno all’altro e tra loro concorrenti. Questi non predicavano il corretto messaggio evangelico e cercavano di prevaricarsi gli uni sugli altri (1Cor 1,10-13). Mentre nella sua 2Cor egli si scaglia contro quei personaggi, probabilmente giudeo-cristiani ancora legati alla religione mosaica, che stavano sovvertendo il vangelo da lui predicato e li definisce ironicamente dei superapostoli (2Cor 11,4-5). Similmente presso le comunità della Galazia si era verificata una pesante defezione dalla retta dottrina ad opera di falsi predicatori di un vangelo contrapposto a quello predicato dall’apostolo. Contro questi Paolo si scaglia duramente lanciando su di loro il suo anatema (Gal 1,6-10), mentre rivolto ai Galati in modo sconsolato confessa di essersi affaticato invano per loro (Gal 4,11). La presenza di falsi predicatori del vangelo ci viene segnalata anche da 1Tm 1,3-4 e in Tt 3,9-11, probabilmente anche questi giudeo-cristiani, considerati gli argomenti di discussione. Altre denunce contro falsi profeti e maestri ci vengono testimoniate in 2Pt 2,1-22; 1Gv 2,18-9; 4,1.4.
I contenuti di queste eresie sono difficilmente individuabili. Certamente queste diffuse predicazioni si opponevano, come abbiamo visto sopra, al vangelo in senso lato, cioè alla retta predicazione apostolica. I fautori principali erano i giudeo-cristiani che, ancora legati alla legge mosaica, sostenevano la necessità di sottomettersi a Mosé per poter raggiungere la salvezza portata da Cristo, vanificando l’azione salvifica di Cristo stesso (Gal 5,1-8). La Seconda Lettera di Pietro sembra scagliarsi contro un gruppo con tendenze pregnostiche, definito di falsi profeti e falsi maestri (2Pt 2,1). Questi cristiani dissidenti negavano l’escatologia tradizionale e facevano invece leva sulla concezione cosmologica dell’ambiente greco-ellenista (2Pt 3,3-4), così che essi affermavano che non c’era nulla da attendere per il futuro e prova ne era l’immutabilità del mondo dalla creazione in poi. Se in Paolo i falsi profeti provenivano prevalentemente dal di fuori delle comunità da lui fondate e si identificavano prevalentemente con i giudeo-cristiani o con i filogiudei, nelle comunità giovannee questi provenivano dall’interno delle stesse comunità, dalle quali si erano distaccati (1Gv 2,19). Essi negavano la messianicità di Gesù (1Gv 2,22a), la sua corporeità (1Gv 4,2; 2Gv 1,7) nonché l’unità tra il Padre e il Figlio (1Gv 2,22b). Questi falsi profeti si richiamavano ad uno spirito profetico da loro ricevuto e si ergevano a maestri in mezzo alla comunità (1Gv 4,1-6). Affermavano di essere nella luce, ma la loro condotta, basata sull’odio verso i fratelli, li contraddiceva (1Gv 2,9-11). erano questi personaggi che affermavano di essere liberi dal peccato e pertanto non abbisognavano di redenzione da parte di Cristo (1Gv 1,8-10). Verso di loro Giovanni si mostrò duro e determinato definendoli anticristi (1Gv 2,18.22; 4,3; 2Gv 1,7), mentitori (1Gv 2,22) e falsi profeti (1Gv 4,1.4)[245].
L’intera pericope (vv. 7,15-20) si snoda su delle immagini che sono tratte dal mondo agricolo proprio della cultura dell’epoca, ma nel contempo possiedono una carica metaforica che Matteo ha ereditato dall’A.T. . In Ez 34 le pecore infatti sono la metafora del popolo di Jhwh, che per la pochezza dei suoi pastori diviene vittima di predatori e di bestie selvatiche (Ez 34,8). Contro i pastori Dio apre un contenzioso giudiziale che termina con la loro cacciata (Ez 34,10), mentre lo stesso Jhwh si farà pastore premuroso delle sue pecore (Ez 34,11-12.15-17.31). La metafora del lupo compare in Sof 3,3 nel quale sono raffigurati i giudici iniqui del popolo di Jhwh, che vengono citati proprio in un contesto di giudizio contro i capi che mal governano Israele, tra i quali Sofonia mette anche i profeti, definiti uomini boriosi e fraudolenti (Sof 3,4a), mentre i sacerdoti vengono apostrofati come profanatori del sacro e violatori della legge (Ez 3,4b). In Zaccaria, benché in un contesto diverso, in cui il popolo anziché ricorrere al Signore si affida a maghi e indovini che “vedono il falso, raccontano sogni fallaci, danno vane consolazioni” al popolo, che in tal modo si riduce come un gregge allo sbando e senza pastore (Zc 10,1-3). Ma l’immagine più significativa che meglio rispecchia la situazione della comunità matteana e della chiesa primitiva del I sec. è l’accorato e toccante saluto di addio che Paolo rivolge agli anziani di Efeso: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi” (At 20,28-31).
Accanto alla metafora dei lupi in veste di pecore, Matteo accosta quella dei frutti buoni e cattivi, che hanno la loro origine da alberi buoni e cattivi. L’autore quindi offre qui alla sua comunità il criterio fondamentale per valutare la bontà o meno dei predicatori o dei sedicenti maestri e profeti: questo va ricercato nel loro modo di vivere e in quello che fanno (“dai loro frutti li riconoscerete). Sono dunque i frutti che qualificano e testimoniano la bontà o meno dell’albero[246]. Un criterio questo che prelude a quello della pericope parallela successiva, enunciato in 7,21: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”; anche qui il parametro di valutazione non sono le parole, ma i fatti che uno produce, sui quali egli verrà misurato.
Il v. 7,16b sintetizza in sé ed imposta l’intera questione che verrà poi ripresa e sviluppata nei vv. 7, 17-19. Uve e fichi sono i due frutti che Matteo prende in considerazione; essi non sono prodotti da spine o da triboli, ma dalla vite e dal fico: è questa la loro vera origine, che ne attesta la bontà, la loro autenticità e da cui traggono anche i loro nomi. La scelta dei due tipi di frutti (uva-fichi) da parte dell’autore non è casuale. La vite e il fico oltre che essere gli alberi da frutto più diffusi e conosciuti in Palestina[247], sono anche il simbolo e la metafora del vero Israele[248]; e Matteo sta parlando a dei giudei convertiti al cristianesimo, che in tal modo egli considera come i veri eredi del vero e unico Israele; questo non deve dar ascolto alle sirene del giudaismo mosaico o alle filosofie pagane, considerate qui dall’autore come le spine e i triboli[249], poiché ora la loro radice è Cristo, il vero capostipite del nuovo Israele. I nuovi credenti pertanto non hanno più nulla da spartire con queste realtà, per questo uve e fichi non si ricavano da spine e triboli. Torna quindi in modo sottile la polemica con il mondo giudaico e con quello pagano[250].
I vv. 7,17-18, introdotti dall’avverbio comparativo oÛtwj (così), riprendono e sviluppano su di un piano sapienziale il v. 7,16b e costituiscono il preambolo introduttivo e motivazionale di 7,19 che esprime la sentenza finale di condanna: “Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. Ci troviamo quindi di fronte ad un giudizio in atto che termina con una sentenza. La cornice quindi è fortemente escatologica e richiama da vicino la predicazione del Battista (Mt 3,10b), rivolta ai farisei e sadducei (Mt 3,7); questa affinità e questo parallelismo tra i due passi sono sottolineati anche da un’inclusione dei vv. 3,10b e 7,19. Tuttavia il clima di giudizio e la condanna, che aleggiano in 7,16-20, non coinvolgono direttamente la comunità matteana, che è soltanto richiamata all’attenzione su queste cose (7,15a), bensì al mondo giudaico, che si è chiuso a Gesù, e a quello pagano, che invece lo ha crocifisso e continua a disconoscerlo (Rm 1,18-32).
vv. 7, 21-23: se i vv. 7,15-20 hanno ripreso il tema della porta, intesa quale dottrina attraverso la quale si accede ad una certa visione delle cose, divenendo il presupposto motivazionale di una scelta di vita, questi (vv. 21-23) affrontano quello della via, cioè la scelta esistenziale che il credente ha abbracciato e su cui si è incamminato. La questione, come per la pericope precedente, viene trattata al negativo, denunciando probabilmente il comportamento lassista e presuntoso della comunità matteana.
La struttura della pericope è semplice e contiene in sé, come la precedente, i tratti essenziali di un giudizio, che là (7,15-20) riguardava il mondo giudeo e pagano, qui quello credente:
a) v. 21: enunciazione del tema, che si esprime in forma di indicativo morale: non chi dice, ma chi fa;
b) v. 22: apertura del giudizio[251] nei confronti di quelli che hanno pretese di aver vissuto un buon cristianesimo e tentano una loro difesa;
c) v. 23: disconoscimento delle pretese ed emissione della sentenza.
Il v. 21 si snoda sul confronto tra due comportamenti contrapposti tra loro, che gravitano attorno alla particella avversativa "ma" (¢ll£); quest’ultima accentua da un lato la contrapposizione tra i due comportamenti e dall'altro denuncia la loro inconciliabilità e incompatibilità. L'oggetto del contendere dei due comportamenti è il regno dei cieli. In altri termini viene qui posta la questione fondamentale della salvezza. Si comprende quindi fin da subito l'importanza della questione, nel mentre che si viene a stabilire quale dei due comportamenti sarà meritevole del regno. I verbi essenziali sono tre: due (dire e fare), posti al presente indicativo e intrinsecamente tra loro contrapposti, formano da parametro su cui la comunità matteana è chiamata a misurarsi nel suo oggi; il terzo (non entrerà) è posto al futuro, facendo gravare in tal modo sui due comportamenti (dire-fare) un giudizio escatologico, a cui fin d'ora sono in qualche modo sottoposti e i cui esiti sono già stati determinati. Nell'ambito della contrapposizione tra il dire e il fare l'accento cade sul fare, mentre il dire ne esce sconfitto, poiché è proprio su questo che pesa fin d'ora la condanna (non entrerà). Quanto alla predilezione del fare sul dire, non va dimenticato che Matteo è un ebreo che sta parlando ad una comunità di giudeo-cristiani, che per loro cultura misurano il rapporto con Dio sulla corretta e concreta esecuzione della Torah[252]. Il fare pertanto ha la preminenza su ogni altro aspetto della religione. Non a caso il Gesù matteano accentrerà l'attenzione proprio su questi due verbi nel grande discorso finale, in cui l'autore pone a confronto le logiche giudaiche dell'intendere la religione con le esigenze della nuova fede: "Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno" (Mt 23,3). Si sollecita dunque a tradurre il dire della Torah (quanto vi dicono) nella concretezza dei fatti (fatelo ed osservatelo), poiché sono proprio questi che determinano il vero credente. Il v. 23,3, infatti, si conclude significativamente con l’amaro lamento di Gesù, che Matteo pone proprio sulla contrapposizione tra il dire e il fare: "perché dicono e non fanno". Tuttavia il fare, di cui gli ebrei erano degli esperti, non deve essere una mera esecuzione di un dire, ma deve radicarsi nella sincera ricerca della volontà divina a cui conformare, rinnovandolo, il proprio modo di vivere (Rm 12,2). Non a caso la conclusione di 7,21-23 è stata preceduta dalla disquisizione sulla corretta pratica della giustizia, che va spesa in ossequio a Dio e non nella ricerca di propri effimeri tornaconti (Mt 6,1-17.22-23).
Il tema del giudizio[253], che già era stato introdotto in 7,19 contro i falsi profeti, porte da cui entrano le false dottrine o attraverso i quali si entra nelle false dottrine, viene ora ripreso nei vv. 7,22-23 ed è scandito in due momenti: v. 22) presenta le giustificazioni che certi credenti adducono a propria difesa; v. 23) il giudizio (23a) e la sentenza di condanna accompagnata dalle motivazioni (23b).
L'invocazione con cui questi credenti si rivolgono al giudice è "Signore, Signore" (v. 22), la stessa del v. 21a sulla quale è già stata emessa una sentenza negativa ("non entrerà nel regno dei cieli") e questo rende già pregiudizievoli e quindi vacue le giustificazioni che seguono a difesa. Questi credenti accampano a propria giustificazione i carismi ricevuti (la profezia, l'esorcismo e la capacità di compiere miracoli), quali segni distintivi della loro elezione. Da quanto ci viene detto da alcuni testi neotestamentari[254] sembra che i carismi fossero diffusi presso la chiesa antica. Essi erano concepiti come doni gratuiti dello Spirito (Rm 12,6; 1Cor 12,1) da porre a disposizione della comunità e a suo beneficio (1Cor 12,7; 1Pt 4,10). Vi sono tuttavia dei carismi che non tornano a beneficio della comunità, ma soltanto a chi li possiede, come il dono delle lingue (1Cor 12,4); per questo Paolo invita i Corinti a cercare doni che siano utili per tutti, poiché tali carismi non devono costituire un ornamento per se stessi. Essi sono un servizio fatto a Dio che li ha elargiti perché vengano spesi a favore della comunità e questa possa crescere ben ordinata in Lui. I carismi sono pertanto doni che mettono in vista chi li possiede, creando facili entusiasmi ed illusioni, anzi quando sono spesi per se stessi o in modo indiscriminato rischiano di creare divisioni e disordini tra i credenti. Matteo vede probabilmente questo pericolo nella sua comunità e interviene con fermezza affermando che i carismi non sono un titolo utile per la salvezza e che questa va cercata altrove, conformando la propria vita alla volontà del Padre, autore e fonte di ogni bene.
Il v. 23 si apre con un'espressione solenne che dà un tono sentenziale, inappellabile e definitivo, a quanto segue: "Allora dichiarerò a loro". La sentenza è scandita in tre parti:
A) non vi conosco per niente
B) andate via da me
C) voi che operate l'iniquità
Il verbo conoscere nel linguaggio biblico non significa, a differenza della nostra cultura, un apprendimento intellettuale e teorico, ma si aggancia all'esperienza. Sono quindi i concreti parametri dell'esperienza che determinano il conoscere biblico. Quando pertanto Gesù dichiara di non conoscerli per niente ciò significa che questi personaggi non rientrano nell'area dei veri discepoli, che invece hanno vissuto il Cristo e la sua Parola e hanno condiviso la loro esistenza con lui[255] decidendo le loro vite per lui[256]. In altri termini Gesù dichiara che questi che si fregiano del titolo di discepoli, perché investiti da un qualche carisma, in realtà non gli appartengono, poiché ciò che qualifica il vero il discepolo è la cristificazione della sua esistenza a partire dalla profonda intimità del cuore (Gal 2,20). La sentenza quindi si apre con una prima dichiarazione di disconoscimento e di non appartenenza, che richiama da vicino la triste conclusione della parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-12)[257], anche qui Gesù dirà "non vi conosco". Il secondo momento, conseguente al primo e da esso strettamente dipendente, è la pronuncia della pena: l'allontanamento da Cristo che determina, ipso facto, l'esclusione dalla salvezza. Un particolare questo che richiama da vicino il contesto del giudizio finale che Matteo racconta in 25,31-46, dove il re sentenzierà in l'esclusione dalla salvezza di quelli che non hanno saputo riconoscere il Cristo nei propri fratelli e in loro lo hanno rifiutato (Mt 25,41). Il terzo momento della sentenza contiene in sé la motivazione della stessa. Il disconoscimento di questi carismatici vanitosi e presuntuosi e la loro condanna trovano la giustificazione nel modo con cui questi hanno condotto la loro vita. Il dinamismo del verbo con cui questi vengono definiti (™rgazÒmenoi) non lascia dubbi. Non si tratta qui di una qualche mancanza in cui anche il vero discepolo può cadere per la sua natura fragile e segnata dalla colpa originale; qui ci troviamo di fronte a persone che hanno organizzato e orientato la propria vita in modo sbagliato (™rgazÒmenoi t¾n ¢nom…an); c'è dunque alla radice una scelta di fondo sbagliata (t¾n ¢nom…an) e quell' ™rgazÒmenoi dice come tutto il loro impegno esistenziale sia stato malamente speso in una inutile ricerca di se stessi e della propria affermazione, rincorrendo e sfruttando carismi che dovevano essere posti a servizio dell'intera comunità anziché di se stessi. Il termine ¢nom…an infatti dice proprio questo: un porsi fuori dalla legge fondamentale su cui si fonda l'intera comunità e sulla quale devono essere parametrati i propri rapporti: l'amore. Non a caso, infatti, sarà sempre l'amore, inteso come servizio all'altro, che formerà l'oggetto del giudizio finale e sul quale si giocherà l'intera salvezza del discepolo (Mt 25,31-46).
La conclusione: vv. 7,24-29
La pericope 7, 24-27 si apre con la particella oân (pertanto) che le dà valore conclusivo e di aggancio all’intero primo discorso di Gesù. Tuttavia la valenza di questa sentenza sembra abbracciare non soltanto il primo discorso, bensì tutti i cinque discorsi che compongono gran parte del vangelo matteano. Tre sono gli elementi che spingono a pensare questo: 1) l’espressione toÝj lÒgouj toÚtouj ripetuta tre volte nei vv. 24.26.28 . Il tre[258] nel suo valore simbolico indica la completezza compiuta[259] e ciò spinge a pensare che la triplice insistenza non si riferisca soltanto al primo discorso, ma anche ai restanti quattro; 2) inoltre l’espressione toÝj lÒgouj toÚtouj, che troviamo in 7,28 e che si riferisce al primo discorso di Gesù, forma inclusione con p£ntaj toÝj lÒgouj toÚtouj del v. 26,1 posto a conclusione dell’ultimo discorso di Gesù, abbracciando in tal modo tutti cinque i discorsi. 3) Infine, il contenuto stesso del messaggio non può essere esclusivamente applicato al primo discorso. Esso sembra piuttosto una messa in guardia del lettore circa l’atteggiamento da assumere nei confronti delle parole di Gesù, che nel racconto matteano si condensano in cinque grandi discorsi, che l’autore abbraccia in una sorta di unico grande discorso attraverso l’inclusione.
Tre sono i verbi che strutturano questa pericope e che sono ripetuti sia in un contesto positivo (v. 24) che in uno negativo (v. 26) con esiti opposti: ¢koÚw, poišw, ÐmoiÒw. I tre verbi hanno una sequenza logica: dapprima c’è l’ascolto (¢koÚw), attraverso cui viene accolta la Parola; in seconda battuta c’è il fare o il non fare (poišw, mh poišw), cioè il conformare o non conformare la propria vita alle esigenze della Parola accolta; infine la sentenza (ÐmoiÒw). I primi due verbi sono posti all’indicativo presente ed hanno la funzione di mettere in evidenza il comportamento che si attua qui nell’oggi, mentre il terzo verbo è posto al futuro passivo (Ðmoiwq»setai: sarà reso simile), esprimendo in tal modo un giudizio che viene posto fin d’ora su ¢koÚw e poišw. Da questa breve analisi vediamo come la pericope evidenzia la logica fondamentale della storia della salvezza, che si muove sull’annuncio e sulla risposta esistenziale che l’uomo è chiamato a dare liberamente a tale annuncio. Ed è proprio su questo “liberamente” che si gioca il dramma di questa storia, che l’uomo può anche rifiutare (m¾ poiîn), vanificandola e in tal modo decretandone il fallimento per se stesso. Non a caso, infatti, la pericope si snoda su due espressioni, una al positivo (poie‹ aÙtoÝj) e l’altra al negativo (m¾ poiîn aÙtoÝj), tra loro parallele e identiche (vv. 24 e 26), indicando in tal modo la pari libertà di scelta tra il bene e il male che l’uomo può compiere nella sua piena autonomia esistenziale, benché gli esiti della sua scelta siano drammaticamente opposti (“saggio”=“non cadde” – “stolto”=“fu la sua rovina”). Da questi due comportamenti, che si sviluppano nel presente della quotidianità e che delineano un orientamento esistenziale e una scelta di fondo, dipende la dichiarazione finale che su di essi verrà posta: “sarà reso simile a ...”, ma che già in qualche modo è presente nella sensatezza o insensatezza del proprio vivere. Saggio, quindi, è colui che si conforma alla Parola di Gesù e costruisce in modo solido la casa della sua vita e della comunità su di essa[260]. Diversamente, stolto[261] è colui che fonda la casa della sua vita e della comunità sulle cose effimere e inconsistenti, come possono essere le dottrine dei falsi profeti o una religiosità dell’apparire. Il ritmo della pericope è squisitamente sapienziale e trova una sua eco profonda nella sapienza veterotestamentaria, costituendone una sorta di mirabile sintesi[262]. L’autore qui lascia intuire la sua profonda conoscenza delle Scritture, che vede riepilogate e pienamente compiute in Gesù (Mt 5,17).
Roccia e sabbia sono i fondamenti su cui, rispettivamente, saggio e stolto costruiscono la loro vita. Entrambe fanno parte del mondo dei minerali, ma opposta è la loro consistenza. Non è da escludersi che Matteo, buon conoscitore delle Scritture, definendo roccia le parole di Gesù, pensi ai significati che le Scritture hanno attribuito alla parola roccia[263] e che la successiva riflessione cristiana ha poi applicati a Gesù e al suo insegnamento, fondamenti solidi della comunità credente, i cui componenti spesso sono aperti alle dottrine dei falsi profeti o legati alla vistosità dei carismi.
I vv. 7,28-29 costituiscono la chiusura redazionale al primo grande discorso di Gesù, che trova in questi la sua immediata risonanza. Si tratta di una sorta di sintetica considerazione che l’autore pone più che sulle parole di Gesù sugli effetti rivelativi che queste hanno avuto su di lui e l’eco che questi hanno avuto presso le folle, testimoni di una inattesa manifestazione divina.
La loro struttura si snoda in due parti:
1) v. 28 in cui si evidenzia lo stupore della gente, quale risposta al discorso di Gesù;
2) v.29 in cui, dal confronto con gli scribi, emergono prepotentemente l’autorità e l’autorevolezza di Gesù.
Il v. 7,28 si apre con il verbo ™gšneto (accadde) che introduce la reazione della gente di fronte alle parole di Gesù e ne disvela la sua identità. C’è quindi l’accadere di un evento che produce stupore e meraviglia nella gente. È questa la reazione umana di fronte all’accadere del divino e al suo irrompere in mezzo agli uomini[264]. Non a caso infatti Matteo evidenzia come le folle furono prese da stupore subito dopo che Gesù finì questi discorsi e di conseguenza esse ne riconoscono l’autorità (™xous…an[265]), che viene posta in un confronto vincente con quella degli scribi. Entrambi, Gesù e gli scribi, sono dotati di autorevolezza, ma quella di Gesù è decisamente diversa e superiore, poiché essa si è disvelata nell’alone di quello stupore che viene generato dall’incontro dell’uomo con il mondo divino e che richiama da vicino la luminosità abbagliante che il volto di Mosé promanava dopo il suo incontro con Jhwh sul monte Sinai[266] (Es 34,28-35). Già con queste prime battute, poste a sommario commento al primo discorso, il lettore è avvertito che l’evento Gesù non è da leggersi entro le ristrette coordinate umane, poiché da lui traluce un’autorità diversa, inusitata presso gli uomini, che neppure gli stimati scribi erano in grado di reggere.
Giovanni Lonardi
[1]Il vangelo di Matteo viene redatto intorno agli anni 75-80. Era trascorso poco tempo dalla distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio. Con il Tempio termina anche il sacerdozio ad esso strettamente e vitalmente legato. Il gruppo dei farisei fondano a Jamnia, nel 70 d.C., una nuova scuola da cui usciranno i rabbini, una nuova figura destinata a sostituire quella del sacerdote e a istituire un nuovo culto, quello della Torah. Essi saranno le nuove guide del popolo.
In questo periodo di grande instabilità e di ricerca di una nuova identità religiosa e politica ci si chiedeva chi avesse l'autorità per porsi alla guida religiosa del popolo. E' In tale contesto Matteo presenta Gesù come l'autentico e autorevole interprete della Torah, la vera guida del popolo, accusando gli scribi e i farisei di essersi seduti sulla cattedra di Mosé, usurpandola.
[2]Questo concetto è stato formulato anche dalla recente corrente ricostruzionista dell'ebraismo, che ha avuto il suo iniziatore nel rabbino Mordechai Menahem Kaplan (1881-1983). Tra i principi basilari di questa corrente ne emerge uno fondamentale, che richiama in qualche modo il detto di Gesù di Mc 2,27: la religione ebraica è per il popolo ebraico, non il popolo ebraico per la religione ebraica. Evidenziando in tal modo la superiorità e la primarietà dell'uomo nell'ambito della religione (Antonio Rodriguez Cremona, La Religione ebraica,Storia e Teologia; ed. San Paolo, Cinisello Balsamo -MI, 2005 - pagg. 246-248).
[3]Cfr. “Il racconto di Matteo” sotto il titolo I Personaggi nel Vangelo di Matteo, alla voce Le folle, presente in questo sito.
[4]L'espressione "provare compassione" è usata da Matteo tre volte ed è sempre ed unicamente per riferire lo stato d'animo di Gesù nei confronti delle folle. Il verbo greco usato è splagcn…zomai che esprime un sentire viscerale, che ti coglie nel più profondo di te stesso e ti coinvolge interamente con profondità di emozioni e sentimenti.
[5] Cfr. Mt 8,16; 12,15; 14,14; 15,30; 19,2; 21,14.
[6]Cfr A.Poppi, I Quattro Vangeli ..., op. cit.
[7]Soltanto in 1Tm 1,11; 6,15 il termine beato è riferito anche a Dio.
[8]Paolo, in proposito, non esita ad esclamare in modo paradossale: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20); mentre Gesù sottolinea la necessità che il discepolo ragguagli almeno il suo maestro (Mt 10,24-25; Lc 6,40; Gv 15,20). Così pure gli Atti degli Apostoli sottolineano come le apparizioni di Gesù sono state riservate soltanto a coloro che hanno strettamente condiviso la sua vita con lui (At 10,40-41).
[9]Il termine macarismo deriva dalla parola greca mak£rioj, che significa appunto beato.
[10]Sul tema della povertà cfr. Rinaldo Fabris, La scelta dei poveri nella Bibbia,ed. Club della Famiglia, su licenza della Ed. Borla, Milano 1989.
[11] Cfr. Sal 9,23.30; 36,14; Prv 22,7; Sir 13,3.19b.20.23; Is 3,14; 10,2; Ez 22,29; Am 2,7; 4,1; 8,4.6
[12] Cfr. Es 23,11; Lv 19,10.15; 23,22; Dt 24,19
[13] Cfr. 2Sam 22,28; Sal 21,25; 71,4.12-13; 119,13; Gb 36,6
[14] Cfr. 1Sam 2,8; 106,41; 112,7; Sir 11,12b
[15] Cfr. Sal 40,2; Prv 14,21; 28,27
[16] Cfr. Sal 9,35; 11,6; 21,25; 33,7
[17] Cfr. Mt 19,21; Mc 10,21; Lc 18,22
[18] Cfr. Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23
[19]Cfr Gen 19,19; 24,27; 32,11; Es 15,13; 34,7; 1Sam 26,23; Sal 35,11; 39,11; 71,2-3.7; 84,11-12.14; 88,15; 95,13; 96,2.6; 97,2; 110,3; Is 5,16; 11,5; 45,19.23; 46,13; 61,8; Dn 9,9.13; Os 2,21.
[20]Cfr Gen 15,6; 18,19; Dt 9,6; 33,21; Gs 24,14; 1Re 3,6; Tb 4,5; 13,8; 14,7; Sal 4,6; 17,15.25; 34,28; 117,19; Prv 2,9; Sap 15,3; Is 5,7; 58,2-8; Ez 18,21; Os 10,12.
[21]Dopo la guerra giudaica (66-70 d.C.) il quadro sociale e religioso del giudaismo fu totalmente scompaginato: zeloti e sicari ed altri gruppi rivoltosi furono completamente sterminati; il Tempio, centro della vita culturale, sociale e religiosa, distrutto e conseguentemente la classe sacerdotale perse di importanza e divenne ininfluente; gli Esseni e il loro insediamento a Qumran furono distrutti. Dopo il 70, infatti, se ne persero totalmente le tracce. Scribi, Farisei e dottori della Legge si rifugiarono a Jamnia (ebr. Yavne) e qui riorganizzarono e rilanciarono il giudaismo dandogli una nuova impronta incentrata esclusivamente sulla Torah. La Torah, quindi, divenne il nuovo tempio e il suo studio un vero e proprio atto di culto sostitutivo dei sacrifici.
Ebbe così origine un nuovo tipo di giudaismo, quello rabbinico, incentrato non più sul Tempio, ma sulla Torah e ai sacerdoti si sostituirono di fatto i rabbini. I Rabbini di Jamnia si ritennero i veri maestri ed eredi della Tradizione. Una nota polemica in tal senso echeggia in Matteo, che li accusa di essersi seduti sulla cattedra di Mosé (Mt 23,2). Al fine di evitare uno sfaldamento del giudaismo e di ricompattarlo, essi cercarono di imporre a tutti gli ebrei, sia in Palestina che nella diaspora, le loro interpretazioni e decisioni. Tuttavia la loro autorità non fu accettata tranquillamente da tutti, in particolare dai giudei della diaspora, gli ellenisti. Fu in questo periodo che Samuel il Minore, all'ombra dell'autorità di Gamaliele II, introdusse la dodicesima benedizione, la Birkat ha minim, ossia la benedizione degli esclusi, un eufemismo per dire maledizione, che recita: "Non ci sia speranza per gli apostati; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nazareni e gli eretici: siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano scritti. Benedetto sei tu Jhwh, che pieghi i superbi". Chi fossero esattamente questi "minim", che letteralmente significa "separati, esclusi", non ci è dato di sapere. Esso va riferito in senso generale a tutti coloro che contestavano o rifiutavano l'autorità dei nuovi Rabbini. Per il Talmud palestinese sono coloro che si staccano dal popolo d' Israele. Non è corretto, quindi, riferirlo esclusivamente ai cristiani. Oggi gli studiosi ritengono che al tempo di Jamnia le Diciotto Benedizioni, dette anche Amidah, fossero già esistenti e che, pertanto, Samuel il Minore reinterpretò, riferendola anche ai cristiani, chiamati qui nazareni. Di questa situazione dà conferma lo stesso Giustino nel suo "Dialogo con il giudeo Trifone": "Voi nelle vostre sinagoghe maledite coloro che si sono fatti cristiani" (Dial. 96 e 107).
Si è venuta, pertanto, a creare una forte tensione tra il nascente cristianesimo, ritenuto fino ad allora una sorta di forma deviata di giudaismo, con quello ufficiale di Jamnia, che portò alla rottura tra i due gruppi, la cui eco risuona in vari scritti neotestamentari, come in At 8,1-3; 26, 9-11; Gv 9,22; 12,42; 16,2; 1Ts 2,14; Rm 9-11. Ma è l'intero vangelo di Giovanni che ne dà piena testimonianza, in cui il termine Giudeo risuona sempre in senso negativo ed è sinonimo di incredulità. Cfr pagg. 173-178, A.R. Carmona, La religione ebraica ..., op. cit.; A.Poppi, I Quattro Vangeli ..., op. cit.
Un particolare discorso va fatto su Matteo. Il punto cruciale tra la comunità di Matteo e il nuovo giudaismo è l'interpretazione della Torah e chi ne è l'interprete qualificato. Per il neogiudaismo rabbinico di Jamnia sono i rabbini stessi e la Tradizione; per Matteo e la sua comunità il vero e unico interprete è Gesù. A questa tesi l'evangelista dedica l'intera sezione delle antitesi: 5,17-48, mentre agli scribi e Farisei lancia una feroce accusa di usurpazione della cattedra di Mosé (Mt 23,2). Posta in altri termini, la questione è di vitale importanza: dopo la distruzione del Tempio e la disfatta sociale e religiosa conseguente, chi è il vero erede del giudaismo?
Matteo si contrappone al Giudaismo rabbinico sotto vari aspetti: a) vi è una forte polemica contro gli scribi e i farisei, a cui Matteo dedica l'intero cap. 23; b) La sinagoga è sentita ormai come un'entità estranea; si parla infatti con accentuato distacco di "le loro sinagoghe", "le vostre sinagoghe"; c) Matteo sente la sua comunità come una nuova entità a se stante e distinta da quella giudaica. Egli è l'unico tra gli evangelisti a definirla come ekklesia.
[22]Cfr Rm 6,4-8; Gal 2,20; 3,27; 6,14
[23]Cfr A.Poppi, I Quattro Vangeli ..., op. cit.; O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.
[24]All'epoca in cui è nato il primo vangelo, la comunità di Matteo doveva trovarsi all'interno della società civile e religiosa dell'epoca isolata sia per la rottura con il giudaismo (v. nota sopra), sia per le distanze prese dal paganesimo, verso il quale si rilevano nel vangelo matteano delle note polemiche (Mt 6,7-8.32). In questo contesto di isolazionismo si era sviluppata all'interno della comunità matteana una forte coscienza della propria identità di nuova comunità messianica, che Matteo, unico tra gli evangelisti, per tre volte definisce ekklesia. Essa, infatti, sembra avere già delle regole proprie, che normavano i rapporti al proprio interno (Mt 18,15-18); ha già una sua precisa identità liturgica basata sulla preghiera, le cui esigenze e priorità sono delineate in 6,5-15; sul battesimo, la cui formula trinitaria sembra ormai assodata (28,19b); esso è visto come uno strumento di proselitismo e di identificazione del proprio essere discepoli (28,19a); sull'eucaristia, la cui formulazione sembra avere una struttura ormai liturgicamente ben definita in 26,26-28; è già ben chiara la missione e le finalità della comunità nei confronti del mondo (28,18-20).
[25]In proposito Flavio Giuseppe nella sua opera Guerra Giudaica ci testimonia: "Quelli che sono trovati colpevoli di gravi crimini li espellono dalla comunità. Chi subisce tale condanna spesso fa una fine assai miseranda; infatti, vincolato dai giuramenti e dalle abitudini, non riesce nemmeno a mangiare ciò che mangiano gli altri, e cibandosi di erba e consumando il corpo con la fame finisce per morire. Perciò gli Esseni ne riammisero molti per compassione, quando erano in fin di vita, giudicando casigco sufficiente per le loro colpe un tormento che li aveva portati sull'orlo della morte" (Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, Libro secondo, § 143-144, Arnoldo Mondadori Editore, Cles (TN) - 1995.
[26]Tutto il vangelo di Matteo, come quello di Giovanni del resto, è sotteso da una costante polemica con il Giudaismo. Si legga, a titolo esemplificativo, l'intero cap. 23 di Matteo e gli incisi di Gv 1,11 e 12,37; mentre nel quarto vangelo il termine giudeo acquista un significato decisamente negativo. Proprio in questo periodo, intorno agli anni ottanta, il giudaismo reagì duramente contro il nascente cristianesimo adottando contro i suoi proseliti l'espulsione dalla sinagoga, che equivaleva a decretarne la morte civile e religiosa. Tracce di questo provvedimento si trova in Gv 7,13; 9,22; 12,42; 19,38. Infatti, fu proprio in questo periodo che Samuel il Minore introdusse, sotto l'autorità di Gamaliele II, la Birkat ha minim, ossia la Benedizione degli esclusi o eretici, un eufemismo per dire maledizione (cfr A.R.Carmona, La religione ebraica ... e A.Poppi, I Quattro Vangeli ... opere citate).
[27]In proposito si rilevino i due g£r dei vv. 18.20 e la preposizione oân del v.19, che sembrano essere dei punti di sutura tra un detto e l'altro, che hanno come tema di fondo unificante la Legge. (O. Spinetoli, Matteo, pag 153, nota 34; op. cit.)
[28]Si legga in proposito la Lettera ai Galati
[29]Va tenuto presente come il cristianesimo affonda le sue radici nel giudaismo e come esso sia stato inizialmente concepito come una sorta di evoluzione dello stesso. Non per tutti era chiara l'innovazione radicale portata dalla predicazione di Gesù, né la sua figura era stata colta in pienezza. Infatti, dopo la scoperta della tomba vuota le donne fuggono impaurite, chiudendosi nel silenzio (Mc 16,8), mentre una parte dei discepoli, sconsolati e delusi abbandonano Gerusalemme (Lc 24,21-24) ed altri se ne tornano alle loro case, perché ancora non si era sviluppata un'adeguata comprensione ed interpretazione delle Scritture (Gv 20,9-10); altri di fronte alla novità di un Gesù risorto sono assaliti da dubbi, incertezze e hanno difficoltà a credere (Mt 28,17b). Molti altri discepoli, inoltre, di fronte alla sua predicazione provocatoria e sconcertante lo abbandonarono (Gv 6,60-66).
Non ancora consci delle nuove realtà in cui erano stati coinvolti e di cui furono testimoni, i discepoli continuavano a frequentare il tempio (At 2,46a; 3,1-3.8). Ancora molte incertezze e conseguenti polemiche accompagnavano la conversione dei pagani al cristianesimo. Per i giudei convertiti dovevano essere sottoposti alla circoncisione e alla Torah. Sotto questa pretesa c'era la convinzione che a Gesù ci si doveva arrivare tramite il giudaismo. Una posizione questa alquanto pericolosa, poiché rendeva Gesù subordinato al giudaismo stesso, riconducendo e ricomponendo in tal modo la sua radicale novità al suo interno. Ciò avrebbe decretato la fine del cristianesimo stesso e Gesù sarebbe stato un semplice rabbi tra i molti che hanno popolato il mondo ebraico. Il dissidio fu di tale rilevanza che si ritenne opportuno, al fine di evitare lacerazioni interne alla chiesa nascente, ricomporre il conflitto in un incontro tra i vari responsabili della chiesa di Gerusalemme e Paolo (At 15,1-35; Gal. 5,2-4). Ma nonostante la decisione dell'assemblea di Gerusalemme favorevole per la non circoncisione, vediamo dalle varie lettere di Paolo come lui e le comunità da lui fondate fossero un oggetto di costante persecuzione da parte dei giudeo-cristiani, che mal sopportavano la predicazione di Paolo, così indipendente dalla Torah (Gal 2,4). Essi probabilmente erano quella spina nella carne di cui Paolo si lamenta in 2Cor 12,7.
Il comportamento, poi, da tenere nei confronti degli etno-cristiani da parte dei giudeo-cristiani era ancora molto altalenante e conflittuale. Era una questione di purità. I giudei che frequentavano i pagani, ritenuti impuri, si contaminavano e, pertanto, dovevano assoggettarsi al rituale di purificazione (Gv 18,28; At 10,28a). La venuta di Gesù aveva risolto la questione della purità, facendo capire che la purità e l'impurità sono atteggiamenti interiori dell'uomo; essi partono pertanto dal cuore della persona e la investono totalmente. Non sono quindi le cose esteriori che determinano la purità o l'impurità dell'uomo (Mt 15,10-20; Mc 7,1-23). Anche Pietro arriverà a capire il senso della novità portata da Gesù e lo spiega con il racconto della visione avuta a Giaffa (At 10,9-16). Tuttavia, il contesto del nascente cristianesimo era ancora molto condizionato dal giudaismo, così che Pietro, che prima si era seduto a mensa con dei pagani, al sopraggiungere dei discepoli di Giacomo, si tirò in disparte da loro e cercava di evitarli. Paolo interverrà duramente nei confronti di Pietro per questo suo atteggiamento da lui giudicato inopportuno (Gal 2,11-14; At 11,2).
[30]Cfr. Mt 1,22; 2,15.17.23; 3,15; 4,14; 5,17; 8,17; 12,17; 13,14.35; 21,4; 26,54.56; 27,9.
[31]Già a partire dal II sec. a.C. le Scritture erano divise in tre parti: la Torah, cioè il Pentateuco, i Nebim o Profeti e i Ketubim o Scritti sapienziali. L'espressione "la Legge e i Profeti" è ricorrente ai tempi di Gesù, per indicare l'intero A.T. ed è di uso squisitamente sinagogale. Infatti nelle liturgie della sinagoga si leggevano correntemente testi tratti sia dalla Torah che dal resto delle Scritture con esclusione dei Ketubim. Sotto il termine Nebim, i Profeti, sono ricompresi due categorie di libri profetici, quelli anteriori, che noi chiamiamo comunemente Libri storici (Giosuè, Giudici, due di Samuele e due dei Re) e quelli posteriori, in cui sono ricompresi i 15 libri dei profeti, propriamente detti, 3 maggiori e 12 minori. (cfr A.R. Carmona e A.Poppi, opere citate).
[32]L'espressione greca dice "tšloj g¦r nÒmou CristÕj e„j dikaiosÚnhn pantˆ tù pisteÚonti " in cui il termine tšloj assume il duplice significato di fine, compimento e di termine nel senso di obiettivo da raggiungere. In tal modo, parafrasando Paolo, la Legge ha avuto il compito di accompagnarci fino a Cristo, ma una volta raggiunto l'obiettivo essa si è disciolta in Cristo, assumendo in lui una valenza completamente nuova e piena, così come il Padre l'ha sempre intesa.
[33]Questo modo di porsi nei confronti dei comandamenti risente della cultura propria del rabbinismo. A motivo del gran numero dei precetti che regolamentavano minuziosamente il vivere del pio ebreo in ogni espressione del suo vivere, si era reso necessario un certo riordino e catalogazione dei comandamenti. Si cercò di suddividerli in varie categorie a seconda del loro contenuto e delle loro finalità, senza tuttavia trovare un comune accordo in merito. Essi furono divisi in tre grandi categorie i mishpatim o norme etiche, che formano la base della moralità ebraica; gli huqim o norme apparentemente prive di motivazione, ma che servono per affinare ed esercitare la sottomissione a Dio; gli edot o testimonianze, che servono per ricordare gli eventi storici di rilievo nella storia della salvezza di Israele, come ad esempio il comando di celebrare le festività, l'indossare i teffilin o l'esporre sugli stipiti delle porte la mezuzah. All'interno di questa primaria divisione si distinguevano, poi, i comandamenti espressi al negativo "non farai" o al positivo "farai". Altre suddivisioni poi legavano i comandamenti in base alla loro obbligatorietà, per cui si distingueva il mitzvah hoha o precetto obbligatoria dal semplice mitzvah o comandamento la cui osservanza era lasciata alla decisione del singolo, come ad es. un atto di carità o simili. Si cercò, poi, di distinguere i comandamenti fondamentali o gravi da quelli lievi e tra i primi quale fosse il più importante (in proposito si cfr Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28). In merito all'interno del rabbinismo si ritrovano varie posizioni. C'è chi nega per principio una distinzione tra fondamentali e leggeri, poiché tutti i comandi provengono da Dio e ne esprimono la volontà. Questa doveva essere la posizione preminente anche nella comunità di Matteo, considerato che il Gesù matteano definisce grande chi li osserva tutti; altri, invece, confermano la divisione, ma limitatamente ai comandamenti biblici, mentre quelli rabbinici hanno tutti la medesima importanza, poiché distinguerne la grandezza significa in qualche modo intaccare l'autorità stessa dei rabbini. (per una più esauriente trattazione si cfr A.R. Cremona, op.cit.)
[34]Circa la fragilità umana nei confronti della Legge si confronti Rm 7,14-25
[35]Cfr Sum. Theol. II-II, q.58a. I
[36]Cfr la voce Giustizia in Dizionario di Paolo delle sue lettere, ed. San Paolo srl, Cinisello Balsamo (MI) - 1999; e in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.
[37]Il testo CEI traduce Es 24,7b "Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!". Il testo della LXX dice "P£nta, Ósa ™l£lhsen kÚrioj, poi»somen kaˆ ¢kousÒmeqa", cioè "Tutto quanto il Signore ha detto, lo faremo e lo ascolteremo". Il tradurre "¢kousÒmeqa" con "eseguiremo" toglie molto al significato originale in cui si dà la preminenza al fare sull'ascoltare.
[38]Cfr Paolo de Benedetti,Introduzione al Giudaismo, Editrice Morcellania, Brescia - 2001
[39] Cfr. rm 7,7-11.14-25
[40]Cfr A.Poppi, op. cit.
[41]Cfr A.Poppi, I Quattro Vangeli, ..., op. cit.
[42]Non va mai dimenticato che i vangeli sono sorti con finalità pastorali. Erano infatti destinati alle comunità delle quali gli evangelisti erano dei responsabili.
[43] Cfr. Lv 19,12; Nm 30,3; Dt 23, 22-24
[44]"Perché ci invidi molto e ovunque sminuisci i nostri libretti, ti perdono: o poeta circonciso, sei astuto. Anche di questo non mi preoccupo, quando mi saccheggi prendendo i miei carmi: così, o poeta circonciso, sei astuto. Questo mi secca, poiché tu, nato nella stessa Gerusalemme, violenti il mio schiavetto, o poeta circonciso. Ecco, neghi e giuri per i templi di Giove Tonante. Non ti credo: giura, o circonciso, per Anchialo" (Marziale, Epigrammi, Libro XI, 94).
[45]Il Siracide, opera sapienziale, è datato intorno all'anno 180 a.C., scritta da Gesù ben Sirach per contrastare l'espandersi della cultura e della filosofia ellenistica. La Tradizione cristiana, a partire da Cipriano (200/210-258 d.C.), denominò quest'opera con il titolo di Ecclestiatico o Libro della Chiesa, riconoscendogli un ruolo importante nell'istruzione dei catecumeni.
[46] Cfr. Es 33,1; Dt 4,21.31; 7,12; 31,20; 34,4; Sal 88,36; Is 45,23; 62,8; Ger 22,5; Ez 14,16; 17,16; 20,23; Am 4,2.
[47] Cfr. Gen 22,16, Es 32,13; Is 45,23; Ger 22,5; 49,13
[48] Cfr. Gen 26,28.31; 50,24; Es 33,1; Dt 7,12; 8,18; 9,5; 31,20; Gs 9,15; 1Sam 20,42; 2Sam 21,7; 1Cr 16,16; Ne 10,30; 1Mac 6,61; Sal 104,9; Sir 41,20
[49]Cfr Ortensio da Spinetoli, Matteo, op. cit.; Angelico Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit.
[50]Il termine vendetta in ebraico è tradotto con "naqam" che letteralmente significa compensare. Sulla questione si confronti la voce "vendetta" in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Ed. Piemme, Casale Monferrato (AL) - 1997.
[51]Cfr A.Poppi, op. cit.
[52]Cfr. Es 28,4; 29,5; Lv 6,3; 16,4; 2Sam 13,18; Sir 45,8; Is 22,21
[53]Il termine miglio (gr. milion) è una unità di misura sconosciuto sia all'A.T. che al N.T. ed è usato una volta soltanto da Matteo in 5,41. Si tratta di una traslitterazione greca della misura romana "mille passum", mille passi doppi. Esso misurava 1478,5 mt. (Cfr. la voce "Pesi e Misure" in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.).
[54]In proposito cfr A.Poppi e Ortensio da Spinetoli, opere citate
[55] Cfr. Gen 11,3.7; 26,31; Gdc 6,29; 10,18; Rut 4,7; 1Sam 2,16
[56] Cfr. Es 11,2; 12,4; Dt 19,14; Tb 2,8
[57] Cfr. Es 20,16-17; 21,14.18.35; 22,6-10.25; Lv 19,11.16.18; 25,15; Dt 22,24
[58] Cfr. Es 32,37; Dt 19,5; Gdc 7,13-14.22; 1Sam 30,26
[59] Cfr. Es 12,43; Lv 17,8.12; 2Cr 6,32
[60] Cfr. Es 23,32-33; 34,12-17; Dt 7,1-6; Gs 23,12-13; 1Re 11,1-4; Esd 10,10
[61] Cfr. Es20, 4-5; 34,17; Lv 19,4; 26,1; Gs 24,20.23; 1Sam 7,3
[62] Non è da escludersi che Gesù con questo comando avesse presente lo stato di occupazione romana che soffocava la Palestina e che era contrastata dall'odio armato degli zeloti.
[63]Per l'ebreo era definito giusto colui che era fedele alla Torah e ingiusto chi la violava o non apparteneva ad Israele. Quindi quando Gesù parla di "giusti e ingiusti" si riferisce in modo particolare alle divisioni che gli ebrei ponevano tra loro, i giusti, e i pagani.
[64]Cfr A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit.
[65]Il termine ebraico dabar (dabarim al plurale) significa "parola" con stretto riferimento a quella di Dio. Una Parola che contiene in se stessa una dinamica creatrice ed efficace, nel senso che produce ciò che dice. Per una più ampia trattazione vedi note precedenti.
[66]Il nostro concetto di giustizia si differenzia molto da quello biblico. S.Tommaso d'Aquino, riprendendo sostanzialmente la definizione di Ulpiano, giurista romano dell'inizio del III sec. d.C., definisce la giustizia come "habitus secundum quem aliquis constanti et perpetua voluntate ius suum unicuique tribuit" (S.Th. II-II, q.58, a. I). La giustizia, quindi, è un concetto fondato sul diritto finalizzato alla tutela della persona, dando a ciascuno il suo così che ciascuno abbia il suo, garantendo in tal modo una equità sociale. In tale giustizia il parametro di raffronto che regolamenta il rapporto tra le persone, portatrici in se stesse di un diritto proprio loro connaturato, è la legge che lo regolamenta.
Totalmente diverso è il concetto di giustizia biblico che rimanda direttamente a Dio, che per definizione è il Giusto e fonte di ogni altra giustizia. Giusto è l'uomo che cerca il Signore (Sal 24,6), conformandosi al suo volere. Entro la cornice di tale concetto di giustizia assume un valore importante il "praticare la giustizia", che ha come suo parametro storico di riferimento la Torah, espressione della volontà divina, che come tale, va soltanto eseguita: "Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato" (Dt 6,24-25). Ne deriva che la religione ebraica è sostanzialmente una ortoprassi. Il giusto quindi è colui che sa applicare correttamente ed eseguire fedelmente nella propria vita le disposizioni della Legge. Significativa in tal senso è la parabola lucana del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-13). Il Fariseo si pone davanti al Signore come il giusto per eccellenza ed enumera le sue opere di giustizia, che consistono in una ligia e scrupolosa osservanza dei dettami della Legge, in cui si adempie la volontà di Jhwh.
A colui che osserva fedelmente la Torah è riservata la salvezza: "Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fedeltà" (Ab 2,4). La giustizia ha quindi come suo parametro di raffronto, in cui si identifica tanto da divenirne un sinonimo, la fedeltà e la lealtà nei rapporti con Dio. In tale prospettiva il contrario della giustizia non è l'ingiustizia, ma l'empietà.
Nell'ambito di questo quadro si comprende bene l'importanza del praticare la giustizia, che Gesù cerca di ricondurre alla sincerità del cuore, sottraendo l'uomo da un formalismo legalistico, che lo porta soltanto all'adulazione di se stesso e del quale Gesù si lamenta: "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomo" (Mt 15,8-9).
Cfr la voce "giustizia" in Nuovo Dzionario Enciclopedico, op. cit.; è Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.
[67] il verbo d…dwmi infatti significa donare.
[68]Nell'A.T. il termine elemosina ricorre 47 volte, quasi sempre nei libri sapienziali, per testimoniare la saggezza dell'uomo misericordioso, che non è insensibile alle sfortune altrui. L'elemosina deve essere sempre proporzionata ai beni che uno possiede (Tb 4,8) e non deve mai mancare presso chi è benestante (Sir 29,12). Essa è vista come fonte di salvezza da parte di chi la pratica (Tb 4,10; 12,9; Sir 40,24) ed è espressione di una vita di pietà dedicata a Dio (Tb 14,2), una sorta di atto di culto e di lode a Dio (Sir 35,2). In tal senso Paolo, parlando alle sue comunità della colletta per la chiesa di Gerusalemme, vede nella colletta oltre che un gesto di generosità (2Cor 8,6) e di giustizia (2Cor 8,13) l'espressione concreta della comunione di tutte le chiese ed è colta come un servizio sacro (2Cor 9,12) reso a quella comunità, una sorta di sacra liturgia di lode a Dio (Rm 15,25.27; 2Cor 8,4; 9,1).
L'elemosina quindi, sia nell'A.T. che nel N.T., è sempre colta come un atto di comunione e condivisione dei propri beni e ad essa si attribuisce sempre un valore salvifico e cultuale, che si traduce in fonte di benedizione e di vita da parte di Dio.
Nella chiesa primitiva l'elemosina e la distribuzione dei beni ai poveri era un imperativo e un segno distintivo all'interno di queste prime comunità credenti (At 4,32-34), al punto che i responsabili ritennero opportuno istituire un servizio specifico (At 6,1-6).
[69]Il termine greco ØpÒkris…h significa letteralmente recitazione, il sostenere una parte, una imitazione. L'ipocrita quindi è l'attore che recita una parte e, pertanto, nel nostro caso, un simulatore di un atto di pietà che ha però intenti e finalità ben diversi da quelli suo propri: rendere culto a Dio.
[70] Cfr. la voce "preghiera" in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato, op. cit.
[71] Cfr. Es 3,8; 18,9-10; 20,2; Dt 9,26; Est 4,17; 1Mac 4,30
[72] Cfr. 2Sam 7,27; 1Cr 17,25; 2C3 6,20)
[73] Cfr. Gen 26,24; 28,13; Es 3,6.15; 4,5; Tb 8,5
[74] Cfr. la voce "Salmi" in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.
[75] Lo sitz im leben è un’espressione di lingua tedesca che letteralmente significa il posto nella vita. Con questa espressione gli esegeti intendono il contesto storico-culturale ed esistenziale entro cui si sono formati il vangelo e le varie unità letterarie che lo compongo e di cui risentono.
[76]Nell'ambito della critica letteraria una delle regole che guidano l'esegeta è quella di preferire la lezione più breve a quella più lunga, poiché chi copia tende, là dove il testo è troppo sintetico al punto da risultare poco chiaro, ad ampliarlo per chiarirlo meglio e renderlo più facilmente raggiungibile.
[77]Cfr A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit. - pagg. 451-452
[78]La prima parte del "Padre nostro" si ritrova quasi integralmente nella preghiera del Qaddish (Santificato), la preghiera della santificazione del sabato e delle festività che proclama la santità e la grandezza di Jhwh. Essa è la preghiera che ha segnato la formazione spirituale dell'ebreo e ne esprime l'anima religiosa più sincera e profonda. La si può pertanto definire come la dossologia più importante della liturgia ebraica (cfr A.R. Carmona, La Religione ebraica, pag 556, op. cit.).
La seconda parte si ritrova nella Shemoneh eshreh (Diciotto) o preghiera delle Diciotto benedizioni (cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, pagg. 116-117).
[79]Cfr. la voce "Preghiera" in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica", op. cit.
[80]Fu Gesù e in seguito Paolo a introdurre il concetto di Padre in termini molto familiari e affettuosi definendolo con l'espressione confidenziale di "Abba", che potremmo tradurre con papà, caro papà o paparino mio (cfr. Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6), mentre Ef 2,19 definisce i nuovi credenti come "familiari di Dio".
[81]Cfr. il titolo "Paternità" in Abraham Cohen, Il Talmud, Edizioni Laterza, Bari 1999; in Ortensio da Spinetoli, Matteo, op. cit. e in A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit.
[82] Davarim è il plurale di Dabar termine ebraico per indicare la Parola di Dio colta nel suo dinamismo creatore. Al plurale essa indicava i dieci comandamenti o le dieci parole.
[83]Cfr Dt 6,5
[84]Cfr Lv 19,18
[85]Cfr. M.Lurker, Dizionario delle Immagini e dei simboli biblici, Ed. Paoline - Cinisello Balsamo, MI - 1990.
[86]L'espressione "Padre nostro, che sei nei cieli" o "Padre nostro celeste" sembra essersi formata già prima della distruzione del tempio (70 d.C.), benché il suo uso fosse limitato e occasionale. Le testimonianze più antiche di tale espressione sono attribuite al rabbino Jochanan ben Zaccaj, che ritiratosi nel 70 d.C. a Jamnia o Yavne fonda con un gruppo di suoi discepoli il primo nucleo di quello che sarà il futuro giudaismo rabbinico. La sua attività si colloca tra il 10 e il 90 d.C. Matteo, contemporaneo di Jochanan, cita numerose volte nel suo vangelo l'espressione "Padre nostro celeste" o "che sei nei cieli" probabilmente, conoscendo la vis polemica di Matteo contro il giudaismo, in diretta polemica con questo rabbino. Sia Gesù che Matteo, dunque, non inventano nulla di nuovo, tuttavia attribuiscono a questa espressione un significato e un senso totalmente nuovo e rivoluzionario (Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, op. cit.).
[87]Sul concetto di Jhwh come Padre si cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica ..., op. cit.
[88] Cfr. Gv 6,46; 8,38.42; 17,5.24b
[89] Cfr. Gv 10,30.38; 14,10a.11; 14,20; 17,21
[90] Cfr. Gv 5,17.19; 8,28; 12,49-50; 14,10b
[91] Cfr. Gv 5,23; 8,19; 14,7.9.24; 15,23
[92] Cfr. Gv 8,49.54b; 10,17; 12,28; 14,31
[93] Cfr. Gv 10,18; 13,3a; 16,15; 17,2; Mt 11,27a; 28,18; Lc 10,22a
[94]La traduzione di questo versetto, proposta dalla CEI, è la seguente: "E, chinato il capo, spirò". Tuttavia il testo greco recita: "kaˆ kl…naj t¾n kefal¾n paršdwken tÕ pneàma", che tradotto letteralmente significa: "Dopo aver reclinato il capo, restituì lo spirito". Questa restituzione dello Spirito, più che uno spirare fisico, acquista in Giovanni un alto valore teologico. Preceduto immediatamente dall'affermazione di Gesù: "E' compiuto" (telestai) sta ad indicare che sulla croce Gesù ha portato a pieno compimento il disegno del Padre e pertanto la sua missione terrena può dirsi pienamente riuscita e terminata (Giovanni nella crocifissione di Gesù più che un fallimento vede la sua intronizzazione regale). Per questo, ora Gesù restituisce lo Spirito al Padre, quello Spirito che lo ha sempre accompagnato lungo tutto il suo percorso storico e in lui ha operato il compimento, che Gesù constata sulla croce: tetšlestai. Tuttavia, quel "paršdwken tÕ pneàma" assume in Giovanni anche un secondo significato (in Giovanni spesso la stessa parola assume significati diversi nello stesso contesto), quello di "trasmettere lo Spirito". Ci troviamo dunque di fronte ad una vera e propria effusione dello Spirito Santo, che assegna alla morte di Gesù in croce un valore redentivo e rigenerativo per l'intera umanità.
La seconda effusione dello Spirito (Gv 20,21-23), che il Risorto aliterà sui suoi discepoli, accompagnandola sia ad un saluto inaugurale di Pace che alla consegna della missione ai discepoli dice, da un lato, l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini nel Risorto stesso ("Pace a voi"), dall'altro, annuncia come nei discepoli continuerà la sua missione, sia pur ora in modo sacramentale e mediato, ma per questo non meno reale e meno efficace. In altri termini la Chiesa è la nuova incarnazione del Risorto, in cui egli continua la sua opera in mezzo agli uomini lungo il cammino della storia.
[95] Gv 17,5; Rm 15,6; 2Cor 1,3; 11,31; Ef 1,3; Col 1,3; 1Pt 1,3.
[96] Gv 1,1-3; 8,28.42.58; 13,19; 16,27-28.30; 17,8
[97] Gv 3,35; 5,20; 10,17; 15,9; 17,26; 1Gv 4,8.16;
[98] Gv 10,30; 14,9-11; 17,11; 17,21-22.
[99] L’atto creativo di Dio, benché scandito in sette giornate (Gen 1,1-31), va colto come un unico atto che ingloba in sé l’intera creazione e trova il suo vertice e compimento nel settimo giorno (Gen 2,1-3). Vige dunque all’interno della creazione un principio di stretta solidarietà che lega ogni creatura al resto del creato, così che ogni atto compiuto da ogni singola creatura si riverbera sull’intero creato. Di conseguenza, è inevitabile, quando si parla dell'uomo, fare riferimento anche alla creazione. Tra i due, infatti, vige un profondo legame di solidarietà testimoniato fin da principio. Innanzitutto la creazione dell'uomo viene posta nel sesto giorno, quale vertice della creazione stessa alla quale l'uomo è strettamente legato non soltanto per natura, ma anche da responsabilità nei suoi confronti. Dio infatti gli affida il giardino perché lo coltivi e lo custodisca (Gen 2,15), ma anche perché domini sui pesci del mare e gli uccelli del cielo (Gen 1,27-30). E dopo la colpa "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra ... la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra" (Gen. 6,12-13). La terra, dunque, l'intero cosmo sono profondamente vincolati in solido tra di loro, così che le colpe dell’uno coinvolgono, suo malgrado, anche l’intero cosmo, che subisce la stessa sorte dell’uomo. Anche Paolo, similmente, riprenderà tale concetto nella sua lettera ai Romani in cui sottolinea come "la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio ... e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm 8, 19-21). Il destino dell'uomo è quello della creazione, di cui l'uomo è la parte più elevata. Ed è proprio per tale principio di solidarietà che la colpa adamitica coinvolgerà l’intera umanità: "la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Rm 5,12); "per la caduta di uno solo morirono tutti"; ma proprio grazie a questa solidarietà e universalità, la grazia di Dio ha nuovamente pervaso l'intera umanità: "molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in virtù di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini" (Rm 5,15).
[100] Cfr. Gv 3,35; 13,3a; 17,2.6.9
[101] Cfr. Gv 6,39; 10,28; 17,12; 18,9
[102] Cfr. Gv 1,12; 5,24.38; 8,31.51; 12,48; 14,23-24; 15,3.7; 17,6-8.14
[103] Cfr. Gv 6,35.50-51.53-56
[104] Gv 6,44; 12,32; 1Cor 15,23-28
[105] Sul tema dell'immagine Paolo sembra sviluppare una sorta di sillogismo teologico, partendo da Cristo, immagine di Dio, per arrivare all'uomo in cui l'immagine di Dio si attua soltanto in Cristo.
Paolo, pertanto, parte affermando che:
· La vera immagine di Dio è Cristo, egli infatti "è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura" (Col. 1,15); e ancora "... perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio" (2Cor 4,4). Paolo, dunque, afferma che Cristo è la vera immagine di Dio.
· In secondo luogo, svelando il segreto piano di Dio sull'uomo, Paolo afferma che noi siamo sempre stati pensati e voluti ad immagine di Cristo: "Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo" (Rm 8,29) e ancora: "E noi tutti ... riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (2Cor 3,18).
· In terza battuta, Paolo conclude, di conseguenza, che solo così, cioè solo in Cristo, l'uomo può dirsi veramente immagine di Dio: "Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova ... ad immagine del suo Creatore" (Col. 3,10).
Con questo sintetico ragionamento, Paolo afferma che l'uomo è recuperato nuovamente come immagine di Dio, ma ciò si attua solo attraverso Cristo, nuova immagine di Dio. Non più, quindi, in maniera diretta, come lo fu nei suoi primordi, ma mediata.
Questo essere nuovamente immagine di Dio, per mezzo di Cristo, in quanto a lui configurati nel battesimo, comporta un risvolto etico: far corrispondere con le scelte di vita la nuova realtà impressa in noi dal battesimo. In Cristo, infatti, siamo diventati nuove creature, da lui rigenerate ad una vita nuova, che comporta un rinnovato modo di agire anche nei nostri rapporti sociali, caratterizzati dall'amore.
E proprio perché ormai siamo nuove creature, dobbiamo porre un continuo impegno nel nostro rinnovamento esistenziale, per adeguarci alla nuova realtà che vive in noi. In tal senso, Paolo ci sollecita ad un nuovo stile di vita, tutto sacerdotale, tutto liturgico: "Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo,ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,1-2).
Tale immagine di Dio, a cui siamo stati configurati in Cristo, acquisisce anche una coloritura escatologica: "E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste" (1Cor 15,49). Sarà, quindi, soltanto questo il momento in cui si compirà e apparirà pienamente il nostro essere configurati a Cristo, immagine di Dio, volto del Padre, e per questo noi pure, come nei primordi, nuovamente immagine e somiglianza di Dio, in Cristo. Solo allora si rivelerà la nostra vera natura di figli di Dio, quando saremo, assieme alla creazione, liberati definitivamente dalla corruzione (Rm 8,19-25).
[106] Per l’elenco dei fenomeni citati, collocati nel cielo, cfr. Sal 76,18; Ger 10,13; 51,16; Gen 27,28.39; 19,24; Dn 3,60; 4,12; 7,2; Gb 38,29; Gb 37,11; 134,7; Is 55,10; Ger 10,13; 51,16. Sal 77,24.26; Sap 13,2; Zc 2,10
[107] Cfr. Gen 27,28; 49,25; Dt 28,12; Tb 8,5; 9,6b; Ml 3,10; At 14,17.
[108] Cfr. 1Re 8,35; 2Cr 6,26; 7,13; Sir 48,3; Ag 1,10.
[109] Cfr. Dt 26,15; 1Re 8,30.39.43.49; 2Cr 6,21.30.33; 20,6; 30,27; 2Mac 2,39; Is 66,1; Sal 2,4; 102,9; 114,3; 122,1; Gen 28,17; Is 63,15;
[110] Cfr. 1Mac 3,18.19; 4,10.40.55; 16,3; 2Mac 3,15.34; 8,20; 9,4.20; Sal 74,6; Dn 4,23; 13,9;
[111] Cfr Is 55,8-9
[112] Cfr. Mt 6,20; 7,21; Col 3,1-2.
[113] Cfr. 2Cor 5,19; Fil 3,20; Col 1,5; 1Pt 1,4.
[114] Cfr. Col 1,13; Ef 2,6; Eb 12,23.
[115] Gs 24,19; 1Sam 2,2; Sal 98,9
[116] 2Mac 14,36
[117] Cfr. Lv 11,44; 19,2; 21,23; 22,16; 2Cr 7,16; 2Mc 2,17; Sir 33,9
[118] Cfr. Es 31,13; Lv 21,8.15.23; Ez 20,12; 37,28; Sir 33,9.12;
[119] Cfr. Es 22,30; Lv 11,45; 19,2; Lv 20,26; 21,7.26; Dt 33,3; Sal 33,10; Sap 18,9.
[120] Cfr. Es 20,8; Lv 11,44; 20,7; Nm 11,18; Dt 5,12; Gs 3,5; 7,13; 1Cr 15,12; 2Cr 5,11; 23,6; Ne 13,22; Is 29,23; Ger 17,22.24;
[121] Cfr. Lv 11,44; 16,19; 20,1-7; Nm 11,18; Gs 3,5; 7,12-13; 1Cr 15,12; 2Cr 5,11; 23,6
[122] Cfr. Es 20,8; Lv 20,8; Dt 5,12; Ger 17,22.24.27; Ez 20,20; 44,24. – Un simile concetto di santificazione delle realtà corporee attraverso un’azione sacerdotale propria di ogni credente viene espresso da Paolo nella sua lettera ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.” (Rm12,1); mentre nel versetto successivo viene delineata l’azione santificatrice propria attraverso la quale l’uomo si santifica: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). Si noti come anche qui il concetto di santità comporta un “non conformarsi” e quindi un separarsi da una realtà che può contaminare o in qualche modo intralciare il proprio rapporto con Dio, che per sua natura è il Totalmente Diverso e Altro.
[123] Cfr. Is 40,25; Os 11,9;
[124] Cfr. Lv 20,26; Nm 6,5; 16,5.7; 2Re 4,9; 2Cr 7,16; 2Mc 1,25; Sir 45,4.
[125] “Il Santo” o “Il Santo d’Israele” è un’espressione tipica di Isaia che ricorre 28 volte, ma ricorre anche in altri libri dell’A.T. come in 2Re 19,22; Gb 6,10; Sal 8,19; Pr 9,10; Sir 4,14; 23,9; 43,10; 47,8; 48,20; Ab 1,12; 3,3.
[126] Il termine sacerdote significa “datore del sacro”.
[127] Il termine nazireato e nazireo deriva dall’ebraico nazir, cioè consacrato, che deriva a sua volta dal verbo nazar che significa principalmente separarsi dagli usi comuni. I doveri fondamentali del nazireo, codificati nel cap. 6 dei Numeri, si possono sintetizzare nel divieto di bere bevande inebrianti, come il vino, e rinunciare alla vite e a tutti i suoi derivati (uva, uva passa, vinacce); deve farsi crescere i capelli per tutto il tempo del voto; deve tenersi lontano dai morti. Ne caso in cui qualcuno sia morto vicino ad un nazireo si prescrivono per questo particolari riti di purificazione. Anche per la conclusione del nazireato sono previste complesse cerimonie: vengono offerti numerosi sacrifici; la chioma del nazireo poi viene tagliata e bruciata nel fuoco insieme ai sacrifici perché non venga profanata. Dopo altri riti ancora il consacrato viene autorizzato dal sacerdote a bere il vino. Anche nel N.T. sembra essere ancora viva questa particolare forma di consacrazione, se ne trovano tracce in At 21,23 e lo stesso Paolo sembra aver abbracciato per qualche tempo il nazireato (A7 18,18). Cfr. il lemma “Nazireo, Nazireato” nel Nuovo Dizionario Enciclopedico ... op. cit.
[128] Circa il concetto di Santità e di Santo cfr. il lemma Santità in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.
[129] Cfr. Lv 20,8.26; 21,6-7; Nm 15,40
[130] Non a caso quando Dio si relaziona al suo popolo, esigendo da lui una sua conformazione esistenziale alle esigenze divine, prepone l’evento salvifico fondamentale: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù” (Es 20,2; 29,46; Lv 11,45; 25,38; 25,55; 26,13; Nm 15,41). Il dono gratuito della salvezza offerta al suo popolo è il modo di Dio di mostrarsi santo in mezzo al suo popolo e di fronte ai suoi nemici (Es 14,4).
[131] Circa il tema della glorificazione intesa come manifestazione della santità di Dio che si rivela in Cristo e dalla quale Cristo trae la sua, cfr. anche Gv 7,39; 8,54; 11,4; 12,16; 13,31-32; 15,8; 16,14; 17,5.10; 21,19.
[132] Per una migliore comprensione del concetto di Regno di Dio cfr. la nota n. 168 nel commento dei capp. 1-3 presenti su questo sito
[133] Salvatore Alberto Panimolle fu professore di esegesi e filologia neotestamentaria presso l’Università di Sassari; professore di teologia biblica nella Pontificia Università gregoriana di Roma.
[134] Cfr. la voce “Regno di Dio” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, edizioni paoline, op. cit.
[135] Cfr. Mt 4,23; 9,35; 10,7-8; 11,5-6; 12,8; Lc 7,22; 9,2.11; 10,9.
[136] Cfr. 1Cor 4,15b; 1Pt 1,23
[137] Cfr. anche Gal 5,19-21; Ef 5,3-5.
[138] È significativo infatti l’episodio della presentazione di Gesù sofferente al popolo da parte di Pilato: “Era la Parascéve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: "Ecco il vostro re!". (Gv 19,14). Giovanni sottolinea che era verso mezzogiorno, cioè l’ora della pienezza della luce, la pienezza cioè della rivelazione che manifestava la regalità di Gesù proprio nella sofferenza e morte.
[139] L’aggettivo “apocalittica/o” deriva dal verbo greco “apokaluptein” che significa rivelare. Quindi azione apocalittica significa “azione rivelatrice”; mentre il termine apocalisse significa rivelazione.
[140] Il termine “escatologico”, dal greco escaton, significa cosa ultima e che ha a che fare, quindi, con la fine dei tempi. Nel nostro caso l’invocazione “sia fatta la tua volontà” esorta il Padre a portare a termine l’azione intrapresa.
[141] Cfr. At 2,23; 4,27-28; Rm 3,25; Ef 1,9.
[142] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli ... , op. cit.
[143] Questa prima parte della preghiera infatti si apre con il riferimento esplicito al Padre ed è seguita da un triplice “sou” (tuo).
[144] Cfr. Sir 29,21; 34,21
[145] Cfr. Gen 3,19; 28,20; 41,54-55; 47,12-13; Dt 10,18; Tb 1,17; 4,16; Gb 22,7; Sal 104,6; 2Re 25,3; Lam 1,11.
[146] Cfr. Sir 15,3; Sal 41,4; 79,6; 101,10; Pr 4,17; Sap 9,5; Sir 23,17; Is 30,20.
[147] Gen 21,14; Es 23,25; Nm 21,5; 1Sam 25,11; 30,11; 1Re 18,4; 22,27; 2Re 6,22; 2Cr 18,26; Ne 13,2; Pr 25,21; Sir 15,3; 29,21; Is 3,1; 33,16; Ez 4,17; 12,18.
[148] Cfr. Gen 14,18; Gdc 19,19; 1Sam 16,20; Ne 5,15; Tb 4,17; Sal 103,14-15; Pr 9,5; Qo 9,7; Ag 2,12.
[149] Cfr. Pr 31,27; 28,19.
[150] Cfr. Tb 1,17; 4,16; Gb 22,7; Pr 25,21; Is 58,7.10; Ez 18,7.16
[151] Cfr. Sal 126,2; 131,15; 145,7; Sir 45,20; Zc 10,1.
[152] Cfr. Es 29,23; 34,18..25; Lv 23,20; 24,27; Nm 28,17; 1Cr 23,29.
[153] Cfr. Lv 21,6; 22,25.
[154] Cfr. Sap 16,20-21: “Invece sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi loro un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso si adattava al gusto di chi l'inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava”. Per comprendere la profondità della verità di questo pane piovuto dal cielo dobbiamo aspettare l’avvento di Gesù che darà l’autentica interpretazione dell’episodio della manna, riferendolo a se stesso: “<< […] Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo>>” (Gv 6,48-51)
[155] Cfr. Mc 6,8; Lc 9,3; 11,5; Gv 6,26; Gv 13,18; 2Ts 3,8.12.
[156] Cfr. Fil 2,6-8
[157] Cfr. Mt 7,9; 15,26; 16,11-12; Mc 7,27; Lc 11,11; 15,17.
[158] Cfr. Mt 14,20; Mc 6,43; Lc 9,17; Gv 6,13
[159] Cfr. Gv 6,1-59
[160] Cfr. Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19.
[161] Cfr. At 2,42.46; 20,7; 1Cor 11,23.26;
[162] Cfr. Antonino Alessio Neri, Lingua e civiltà dei greci – Grammatica, Ed. G. Principato Spa- Milano 1987
[163] Cfr. la voce kata in L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, Soc. Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1993
[164] Cfr. Lc 2,11; 4,21; 5,26; 12,28; 13,32.33; 19,5.9; 22,34.61; 23,43.
[165] Cfr. Antonino Alessio Neri, op. cit.
[166] È probabile che il pane invocato da Matteo nel suo vangelo non faccia riferimento a quello materiale poiché Matteo si rivolge ad una comunità in cui l’abbondanza scorre senza problemi. Non avrebbe senso pertanto insegnare a tale comunità a chiedere a Dio il nutrimento quotidiano. L’intento di Matteo qui è proprio quello di distogliere la sua comunità dalla ricerca dei beni terreni per rivolgersi a quelli spirituali, simboleggiati dal pane eucaristico.
[167] Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992
[168] Cfr. G. Rossé, A. Poppi, Ortensio da Spinetoli, L. Rocci, opere citate.
[169] Ho preferito la citazione di Marco in quanto fu il primo evangelista e fonte privilegiata da cui Luca (22,18) e in particolar modo Matteo (26,29) attinsero nelle loro composizioni.
[170] Il racconto del giovane ricco, riportato da Matteo in 19,16-24 e da cui Gesù trarrà la conclusione di quanto sia difficile per un ricco salvarsi, sta a dimostrare proprio questa difficoltà della comunità matteana.
[171] Cfr. anche Ef 1,7; Col 1,20.
[172] Cfr. Mt 24,1-31; Mc 13,1-31; Lc 21,1-28.
[173] Cfr. anche Lc 8,13; 22,32; At 14,21-22; Ef 6,16;Col 1,23; 2,4.6-7; 1Ts 3,5; 2Tm 4,7; 1Pt 5,8-9.
[174] Cfr. At 9,4; 22,7; 26,14 in cui il Risorto si rivolge a Saulo, persecutore di cristiani, chiedendogli perché lo perseguitasse. Altra forma di identità tra Gesù e il discepolo la troviamo in Gal 2,20 e successivamente in Mt 25,40.45.
[175] Il termine Kippur deriva dal verbo ebraico kipper, che significa espiare, cancellare. Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, Ed. Sa Paolo, Cinisello Balsamo (MI) – 2005.
[176] Questo giorno è ancor oggi tra i più importanti e solenni delle festività ebraiche. Esso si pone a conclusione di dieci giorni penitenziali ed è definito come “il Giorno” per eccellenza in cui Israele è liberato dai suoi peccati e ricostituito davanti a Dio come una nuova creatura. In questo giorno si pone il digiuno della durata di 24 ore, da sera a sera. Esso è sentito come il giorno in cui Dio riprende il suo cammino di alleanza con il popolo, nonostante le sue infedeltà. In questo giorno Dio rigenera il suo popolo, ne fa una sorta di nuova creazione e ristabilisce con lui il suo patto di Alleanza violato dalle colpe del popolo. Il perdono pertanto viene vissuto dall’israelita come la forza rigenerante e ricreante di Dio che non si rassegna al fallimento della storia umana. – Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, op. cit.
[177] Il verbo “umiliarsi” (Lv 16,29.31; Esd 8,21) e similmente “mortificarsi” (Lv 23,27.29; Nm 29,7) sono sinonimi di digiunare. Cfr. la voce “Digiuno” in Nuovo Dizionario enciclopedico ... op. cit.
[178] Cfr. Gdc 20,24-26; 1Sam 31,13; 2Sam 1,12; 1Cr 10,12; 2Cr 20,2-3; Ne 1,4.
[179] Cfr. Gdt 4,1-13; Est 4,3.16; 1Mac 3,47; 2Mac 13,10-12.
[180] Cfr. Esd 8,21-23; Est 4,16; Sal 34,13; 68,11.
[181] Cfr. 1Sam 7,3-6; 1Re 21,27; Ne 9,1-3; Sir 34,36.
[182] Tuttavia si riscontrano anche casi di singoli digiuni come in 1Sam 31,13; 1Cr 10,12.
[183] Cfr. 2Sam 12,16; Ne 1,4; Gdt 4,13; 2Mac 13,12; Sal 34,13; Dn 9,3.
[184] Cfr 2Cr 20,3-4; Esd 8,21; Tb 12,8.
[185] Cfr. 1Re 21,7; Ne 9,1; Est 4,3; 1Mac 3,47; Sal 68, 11-12.
[186] Cfr. Gdc 20,26; 1Sam 7,6; 2Sam 1,12; 1Mac 3,47.
[187] Cfr. Est 4,16; 2Mac 13,12.
[188] Cfr. 1Sam 31,13; 2Sam 12,14-20; 1Cr 10,12.
[189] Anche i cristiani digiunavano due volte la settimana, ma con cadenze di giorni diversi per distinguersi dal giudaismo. In tal senso la Didaché suggerisce ai nuovi credenti il seguente consiglio: “I vostri digiuni non avvengano nello stesso periodo degli ipocriti: questi digiunano il secondo e quinto giorno dopo il sabato; voi, invece, digiunate nel quarto e nel giorno della preparazione al sabato” (Did. 8,1). Nota: Gli ipocriti, qui nominati dalla Didaché, sono quei giudeocristinai che continuano la pratica del digiuno secondo le regole e le cadenze giudaiche. Per questa nota 184 cfr. Didaché, dottrina dei dodici apostoli – a cura di Simona Cives e Francesca Moscatelli, Ed San Paolo Srl – Cinisello Balsamo (MI) 1999.
[190] Cfr. Mt 9,14-15; Mc 2,18-20; Lc 5,33-35.
[191] Cfr. nota n. 184
[192] Cfr. Es 19,8; 24,3.7; Dt 5,27; Ger 42,20
[193] Cfr. Rm 2,29; 7,6; 2Cor 3,6
[194] Cfr. anche At 4,19; 5,29
[195] Cfr. Sal 50,8.19; 61,9; 118,11.69; Sir 37,17-18; 49,3; Mt 15,18; Rm 10,9-10.
[196] Cfr. Sal 57,3; 61,5; 72,7; 77,37; Sir 36,20; Is 29,13; Mt 13,15; 15,19; 19,8; Mc 7,21; At 7,51; 8,21.
[197] Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.
[198] Cfr. la voce “uomo” in Nuovo Dizionari di teologia Biblica e in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, opp. cit.
[199] Cfr. Pr 22,9; 23,6; 28,2; 30,17; Sir 14,8; 26,11; 31,13; Ez 5,11; 9,5.
[200] Cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit.
[201] Notiamo come qui Matteo prediliga l’uso dei verbi piuttosto che i sostantivi. I verbi infatti dicono dinamicità e azione e meglio esprimono lo svolgersi della vita. Contrariamente il sostantivo tende ad illustrare un concetto o una situazione, fotografandoli e producendo immagini statiche.
[202] Cfr. Rm 1,9; 12,1-2; Fil 3,3; Eb 12,28; At 10, 34-35.
[203] L’individuazione dei detti da me proposta è la seguente: 1) 7,1-5: il giudicare; 2) 7,6: prudenza nei confronti dei non credenti; 3) 7,7-12: caratteristiche della preghiera; 4) 7,13-14: esortazione all’impegno serio; 5) 7,15-20: messa in guardia dai falsi profeti; 6) 7, 21-23: i fatti sono la misura su cui il credente si rivelerà tale; 7) 7, 24-27: l’uomo saggio e l’uomo stolto.
[204] In proposito cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit. e O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.
[205] Il numero sette, secondo la cultura ebraica, indica la perfezione e il completamento.
[206] Cfr. Introduzione, analisi e commento di 5,1-8,1: Il Primo grande discorso di Gesù.
[207] La comunità di Matteo sembra essere già fortemente istituzionalizzata con regole proprie interne da tenere nei confronti di quei suoi membri che deviano dalla retta dottrina (Mt 18,15-18). Quanto alla sua vita liturgica essa ha già elaborato formule precise sia per la celebrazione eucaristica (Mt 26,26-28) che per l’amministrazione del battesimo (Mt 28,19b); e possiede una forte spinta missionaria (Mt 28,19a.20a), che fa risalire direttamente al Risorto, da cui sente di aver ricevuto ogni potere spirituale alla pari del suo maestro (Mt 18,18-20)
[208] L’espressione “giudicare” qui acquista un senso implicito di criticare e condannare. Il verbo krinw infatti significa anche stimare, ritenere, credere, pensare, dichiarare, interpretare, scegliere, preferire, distinguere. In tal senso lo stesso Luca, riportando proprio questa frase di Matteo, l’associa all’esortazione di non condannare (Lc 6,37) e similmente Paolo vede il giudicare dell’ebreo come un condannare e un disprezzare il proprio fratello (Rm 2,1; 14,10); mentre Giacomo associa il giudicare al fare preferenze tra fratelli (Gc 2,4) e allo sparlare del fratello (Gc 4,11) e al lamentarsi dei propri fratelli (Gc 5,9).
[209] Il contesto in cui Paolo pronuncia questo ammonimento fa riferimento a quei giudeo-cristiani che, pur convertitisi alla nuova fede, si sentivano ancora vincolati dalle prescrizioni mosaiche circa l’assunzione dei cibi. Queste neocredenti sono ancora fragili e la loro fede ancora incerta, mentre altri, più radicati e più evoluti spiritualmente, hanno ampiamente superato il problema. Paolo esorta sia gli uni che gli altri a rispettarsi a vicenda evitando di giudicarsi e criticarsi reciprocamente. L’amore deve prevalere su tutto ed essere la regola fondamentale per vivere in comunione nella comunità. La questione circa i cibi emerge in vario modo e a vario titolo anche in 1Cor 8,7-13; 10,14-33; Col 2,16-23; 1Tm 4,3-5; Tt 1,15.
[210] Cfr. l’introduzione al cap. 7
[211] Non va mai dimenticata la cornice narrativa (Mt 5,1-2) entro cui viene posto questo primo discorso di Gesù, in cui egli, attorniato dalle folle e dai suoi discepoli si atteggia a maestro (“messosi a sedere ... li ammaestrava: Mt 5,1b).
[212] Cfr. il titolo “La comunità di Matteo”
[213] Cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit.
[214] In merito all’autoescludersi dei giudei dalla salvezza e all’affermazione, invece, del mondo pagano, costituito per mezzo della fede il vero erede delle promesse fatte ad Abramo, cfr. Rm 9-11. In questi capitoli si sente tutto il dramma di Paolo che vede il popolo ebreo, depositario della Promessa, titolare dell’Alleanza e delle attenzioni di Dio, naufragare dalla storia della salvezza e cerca di dare una soluzione scritturistica e teologica a questo dramma.
[215] Cfr. Es 29,31-34; 30,10.25-29; 40,9-11; Lv 2,3.7-10; 6,7-10.17-18; 7,1; 10,12; 16,2-4; 21,21-22; 22,3; 24,9; Nm 4,15.20; 18,9-10.17.
[216] Dopo la distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 d.C. cessa il giudaismo del culto sacerdotale e dei sacrifici, strettamente legati al Tempio. A Jamnia sorgerà una nuova scuola la cui funzione è quella di preparare le nuove guide del popolo, i rabbini, che lo riorganizzeranno e le ricompatteranno attorno alla Torah. Nasce quindi dopo il 70 uno nuovo giudaismo, quello rabbinico: i sacerdoti sono sostituiti dai rabbini, lo studio e l’osservanza della Torah sostituiranno i sacrifici, le scuole rabbiniche e le sinagoghe diventano i nuovi templi. Dopo questo stravolgimento in cui il tradizionale giudaismo, privo di sacerdoti, di sacrifici, di culto e di Tempio, era ormai finito, si poneva per Matteo la questione di chi fosse il vero erede dell’antico giudaismo. Per Matteo non v’è dubbio che l’unico erede e vero interprete del nuovo giudaismo sia Gesù. E che così la pensasse Matteo, a mio avviso, non vi sono dubbi. Basti pensare all’intero testo del suo vangelo, caratterizzato da una violenta polemica con il nuovo rabbinismo (si pensi a titolo esemplificativo a 5,20 e all’intero cap. 23), che per l’evangelista ha usurpato indebitamente la cattedra di Mosè (Mt 23,1), mentre nel cap. 5,21-48 (le sei antitesi) l’autore presenta un Gesù che riprende l’insegnamento degli antichi e lo reinterpreta secondo la nuova verità, che ha come centro gravitazionale la costituzione del regno di Dio in mezzo agli uomini. Questa continuità tra vecchio e nuovo giudaismo, che trova secondo Matteo il suo pieno compimento in Gesù, viene attestato in 5,17. Gesù inoltre è presentato da Matteo sempre sotto le vesti del maestro, il rabbi per eccellenza (Mt 5,1-2), che impartisce con autorevolezza il suo insegnamento e non come quello degli scribi e i farisei (Mt 7,29) e tale è riconosciuto anche dai suoi stessi avversari (Mt 22,16).
[217] Cfr. Mt 21,28-45. Il pervicace rifiuto di Cristo da parte degli ebrei turberà notevolmente Paolo che cercherà in Rm 9-11 di giustificare tale rifiuto, necessario, secondo l’apostolo, perché l’annuncio di Cristo fosse rivolto anche ai Gentili, che devono essere riconoscenti al popolo ebreo sul quale essi sono innestati (Rm 11,11-18).
[218] Cfr. Rm 4,13-14.16; 8,17; Gal 4,7; Ef 3,6; Eb 12,28.
[219] Cfr. Gal 3,29; Ef 1,11; Eb 1,2; 9,15
[220] Il maiale secondo Lv 11,7 e Dt 14,8 è considerato un animale immondo, per cui “Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri” (Dt 14,8b). Come il toccare il maiale contaminava, per cui si era soggetti al rituale della purificazione, così parimenti era il toccare o il relazionarsi con i pagani. Il vangelo di Giovanni ricorda questo particolare aspetto di come gli ebrei non entrarono nel palazzo di Pilato per non contaminarsi: “Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua” (Gv 18,28). Lo stesso Pietro venne duramente redarguito dai discepoli di Giacomo perché si mise a mangiare assieme ai pagani (Gal 2,11-12; At 11,1-3).
[221] Circa il tenore di vita del mondo pagano cfr. Rm 1,18-32.
[222] A motivo del contesto storico in cui Matteo e la sua comunità vivevano non deve stupire la durezza del linguaggio e la radicalità delle loro posizioni. Più isolata è una comunità e più radicale e conflittuale diventa il suo modo di porsi nei confronti della realtà che essa rifiuta.
[223] Manfred Lurker, voce "Tre" in "Dizionario delle immagini e dei simboli biblici", Ed. Edizioni Paoline Srl, Cinisello Balsamo (MI), 1990.
[224] Cfr. il verbo aƒtšw in L. Rocci Vocabolario Greco Italiano, Ed. Dante Alighieri, Città di Castello (PG), 1993
[225] Cfr. il verbo zhtšw in L. Rocci Vocabolario Greco Italiano, Ed. Dante Alighieri, Città di Castello (PG), 1993
[226] Cfr. Mt 13,45; Mc 1,37; 3,32, 16,6; Lc 2,44.45.48.49; 4,42; 6,19; 15,8; 19,3; Gv 1,38; 5,30; 6,24; Rm 2,7; Gal 2,17; Col 3,1; Eb 13,14.
[227] Cfr. Col 2,17; Eb 8,5; 10,1.
[228] Nel linguaggio biblico il verbo passivo definisce l’azione di Dio, ed è tecnicamente detto divino o teologico.
[229] Il verbo greco ¢noig»setai (sarà aperto) è qui stranamente posto al futuro. Tuttavia per dare omogeneità al testo abbiamo preferito seguire la lezione del Codice Vaticano (B) che in questo punto riporta, a nostro avviso correttamente, il tempo presente ¢noigetai (viene aperto). Cfr. nota 8 cap. 7,8 – Vangelo di Matteo – in Nestle-Aland, Nuovo Testamento Greco-Italiano, XXVII edizione, Ed. Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma. – Il Codice Vaticano (B) è datato intorno alla metà del IV sec. d.C. e fu scritto probabilmente in Egitto. Contiene quasi per intero l’A.T. e il N.T. fino ad Eb 9,14; mancano le lettere 1Tm fino a Fm e l’Ap.
[230] I termini pane e pesci, da soli o in combinata, sono citati in tutto il N.T. 124 volte come alimenti e talvolta, in particolar modo il pane, assumono valenze simboliche.
[231] Cfr. anche Gv 14,16.26; 15,26
[232] Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.
[233] Si trova nelle Massime di Confucio (cfr. Dialoghi, Milano 1975, p. 86); in Erodoto (VII, 136); in Seneca (Epist. 47,11; 93, 25, 43) e in altri filosofi ancora. Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit., pag. 232
[234] Cfr. Tb 4,15; Sir 31,15. Nel Talmud babilonese si legge che un giorno il rabbino Hillel (60 a.C. – 20 d.C.), richiesto da un suo discepolo di riassumergli tutta la Torah nel breve spazio di tempo in cui egli poteva reggersi su di una gamba, rispose: “Quanto è odioso per te non farlo al tuo prossimo; questa è tutta la Legge, il resto ne è spiegazione” (Shabbath 31a). Cfr. A.Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit., pag. 125.
[235] Cfr. Es 19,8; 24,7; Nm 32,31; Dt 5,27
[236] Cfr. il titolo “La comunità di Matteo”
[237] Cfr. Sal 117,19-20; Pr 5,3-8; Na 3,13; Mt 6,6: la porta chiusa della stanza esprime il segreto che vi è contenuto; Mt 16,18: le porte degli Inferi esprimono le forze infernali avverse;
[238] Cfr. Gen 18,19; Es 18,20; 32,8; Dt 5,33; 8,6; 9,16; 19,9; 1Re 2,3; 11,38; Sal 26,11; 35,5; Sal 50,15; 85,11; 100,6; Os 14,10; Zc 3,7.
[239] Cfr. Dt 11,22.28; 1Re 8,58;Sal 118,15.27.59; Pr 10,17; Mt 22,16; Mc 12,14; At 18,25-26; 1Cor 12,31; 2Pt 2,2.15.
[240] Cfr. Dt 13,2-4; 18,20; Ger 23,13
[241] Cfr. Ger 5,12; 14,14; 23,16-32; Ez 13,22.28
[242] Cfr. 1Re 22,8; Ger 5,12; 14,13-14; 23,16-17; 27,14
[243] Sul tema dei falsi profeti cfr. la voce “profezia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico illustrato della Bibbia, pag. 855 op. cit.
[244] Cfr. Mt 24,11.24; Mc 13,22; Ap 19,20; 20,10.
[245] Circa i problemi delle false dottrine che insidiavano le comunità cristiane del I secolo cfr. la voce “eresia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico illustrato della Bibbia, pag. 330 op. cit. – Quanto alla questione della situazione delle comunità giovannee cfr. la voce “Giovanni (lettere)” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.
[246] Similmente al detto matteano in analisi, il Siracide afferma: “Il frutto dimostra come è coltivato l'albero, così la parola rivela il sentimento dell'uomo” (Sir 27,6).
[247] Il termine fico è citato in tutto l’A.T. e il N.T complessivamente 68 volte; mentre il termine vite si riscontra 177 volte. In 2Re 18,31 1Mac 14,12; Is 36,16; Ger 5,17; 8,13; Os 2,14; Gl 2,22; Mi 4,4; 7,1; Sal 104,33 viti e fichi sono citati assieme e testimoniano la loro diffusione presso tutto il popolo.
[248] Cfr. Is 3,14; 5,1-7; Ger 2,21; 24,5.8; Os 9,10; 10,1; Gl 1,7; Na 2,2. Nel N.T. vite e fico assumono valenze squisitamente simboliche e metaforiche e richiamano prevalentemente Israele e il suo operato. Mentre in Gv 15,1 Gesù paragona se stesso alla vite a cui sono legati i tralci.
[249] Con l’espressione spine e triboli vengono definiti nell’A.T. i nemici di Israele (Nm 33,55; Gs 23,13; Sal 117,12; ) e i peccatori (2Sam 23,6; Pr 22,5; Ez 2,6; Mi 7,4) così come ora spine e triboli sono definiti i nemici (giudei e pagani, due mondi con i quali la comunità matteana è in rotta di collisione) del nuovo Israele.
[250] Cfr. nota 35
[251] Circa l’espressione “in quel giorno” (™n ™ke…nV tÍ ¹mšrv) cfr. nota 82 del cap. 3,1-4
[252] Cfr. Es 19,8; 24,7; Nm 32,31; Dt 5,27.
[253] L'espressione "in quel giorno" nel linguaggio biblico afferisce al giorno del Signore, che è giorno di giudizio. L'espressione viene introdotta per la prima volta da Amos in riferimento agli interventi di Jhwh contro i nemici di Israele. Ma cosa succede se i nemici di Dio sono proprio gli israeliti dalla dura cervice? Allora questo giorno non sarà più di luminosa speranza per Israele poiché Do tratterà il suo popolo come un nemico; sarà per questo un giorno di tenebra e di giudizio (Am 5,18-20). Da questo momento l'espressione "giorno del Signore" nella predicazione profetica acquista una valenza negativa ed è indicato anche come "giorno della vendetta" (Is 34,8), "giorno terribile" (Ez 7,7b), "giorno della sventura" (Ger 46,21) o più semplicemente viene definito come "il giorno" (Ez 7,10.12b). Ma è Sofonia il vero cantore del giorno del Signore del quale declama le dimensioni più terrificanti: "Giorno d'ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e di allarme sulle fortezze e sulle tori d'angolo" (Sof 1,15-17). Tuttavia, nonostante i toni duri e spaventosi con cui "il giorno" viene presentato, vi è sempre uno spiraglio di salvezza che Jhwh offre "a coloro che cercano il bene" (Am 5,14-15) e il Signore (Sof 2,3).Nel N.T., per la centralità preminente e fondamentale della figura di Gesù, il "giorno del Signore o di Jhwh" cambia soggetto e diventa il "il giorno del Figlio dell'uomo" (Mt 24,26-28; Mc 13,24.26-27; Lc 17,22.24) o "il giorno di Gesù Cristo" (Rm 2,16; 1Cor 1,8; 2Ts 2,1). Tale giorno arriva alla fin dei tempi come giorno del giudizio (Rm 2,16; 1Cor 1,8; 4,5) in cui il giudizio si manifesterà come un fuoco che brucia la pula, ma salva il buon grano (1Cor 3,13-15). Quanto alla sua venuta nessuno deve lasciarsi trarre in inganno (Mt 24,23.26; Mc 13,21; Lc 17,23; 2Ts 2,2-3a). Infatti quel giorno arriverà all'improvviso, cogliendo di sorpresa tutti (Mt 24,27.36-39.42; 1Ts 5,3) come un ladro nella notte (Mt 24,43; 2Pt 3,10a; 1Ts 5,2; Ap 3,3; 16,15a); per questo i credenti devono essere vigilanti e attenti (Mt 24,42; 25,13-15; Mc 13,33; Lc 12,35-36; Rm 13,12-14). Cfr. la voce "giorno" in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[254] Cfr. Rm 12,4-8; 1Cor 12,4-31; 1Pt 4,10-11
[255] At 1,21-22; 10,41
[256] Mt 9,27; Mc 10,28; Lc 18,28
[257] Cfr. anche Lc 13,25
[258] La numerologia all’interno di Matteo non va a nostro avviso trascurata, considerata l’origine culturale da cui l’autore proviene.
[259] Cfr. Manfred Lurker, voce "Tre" in "Dizionario delle immagini e dei simboli biblici", op. cit.
[260] Nell’A.T. saggio è colui che ascolta la parola di Jhwh, da cui sgorga la saggezza, e la compie nella sua vita. In tal senso cfr. Dt 4,5-6; Sal 18,8; 31,8; 106,43; 118,19; Sir 50,28; Ger 8,9; Os 14,10.
[261] Nell’A.T. è considerato stolto l’uomo che non dà spazio a Dio nella sua vita, preferendo alle sue esigenze i propri interessi effimeri e caduchi e pertanto non riesce neppure capire ciò che è bene e ciò che è male. In tal senso cfr. 1Sam 13,13; Sal 13,1; 91,7; 106,17; Pr 10,23; Ger 4,22; 5,4.
[262] Oltre alle citazioni delle due note immediatamente precedenti circa il senso della sapienza e della stoltezza, altre se ne aggiungono sul tema del costruire o distruggere la casa, quali conseguenze della sapienza o della stoltezza del proprio vivere e i diversi effetti che nascono da queste. In tal senso cfr. Pr 3,35; 5,23; 14,1; Sir 21,18.
[263] Nell’A.T. spesso Jhwh è considerato come una roccia di salvezza che rende saldo e sicuro il cammino del suo fedele e in cui rifugiarsi contro ogni ingiustizia e contro i propri nemici (2Sam 22,2; Sal 17,3; 30,4; 61,3.7; 72,26; 88,27; 91,16; 93,22; 94,1; 143,1; Is 17,10; 26,4.), anzi Egli è chiamato con il nome proprio di Roccia (Dt 32,4.15.30; Is 30,29; Ab 1,12) da cui Israele è stato generato (Dt 32,18; Is 51,1). La sua Parola è scolpita nella roccia, esprimendone tutta la solidità, la fermezza e la sua eternità e sulla quale poggia stabile e fedele la sua Alleanza (Es 24,12; 31,18; Dt 4,13; 9,9-11), della quale la roccia è testimone fedele ed eterna (Gs 24,27). Ma vi è anche una pietra angolare, che i costruttori avevano scartato (Sal 117,22) e che invece è stata posta in Sion, una pietra scelta e preziosa, saldamente fondata e chi crede in essa non vacillerà (Is 28,16), ma che può diventare anche pietra d’inciampo, una sorta di trabocchetto per le due case d’Israele e per gli abitanti di Gerusalemme (Is 8,14), una pietra in cui la riflessione cristiana postpasquale ha visto preannunciato e preraffigurato Gesù (Mt 21,42.44; Mc 12,10; Lc 20,18; At 4,11; Rm 9,32-33; Ef 2,20; 1Pt 2,4.6-8).
[264] Nell’A.T. le manifestazioni divine sono sempre accompagnate da un senso di paura e di timore che scuote l’uomo e dicono tutta la sua fragilità di fronte all’apparire di Dio e la distanza che lo separa da Lui. In tal senso cfr. Gen 28,16-17; Es 3,6; 15,16; 19,16; 20,18.20; 34,30; Dt 5,5 9,19; 1Sam 12,18; 2Sam 6,9; Gb 31,23; Sal 5,8; 89,11; Is 8,13; Dn 8,17. Similmente nel N.T. ricorrono spesso le dichiarazioni di stupore, timore e paura di fronte all’operare di Gesù, in cui gli evangelisti vedono il manifestarsi di Dio. In tal senso cfr. Mt 8,27; 9,8.33; 15,31; 17,6; 27,54; 28,5.8; Mc 1,27; 4,41; 5,42; 7,37; 9,15; 16,5.8; Lc 1,12.65; 2,47; 4,36; 5,9.26; 7,16; 8,37; 9,34; 24,12; Gv 6,19; At 2,7.43; 3,11; 5,5.11 .
[265] Il N.T. conosce due termini per esprime l’autorità: ™xous…a e dÚnamij. Il primo dice il potere legittimo ed effettivo di agire e che si esprime su persone o cose ed è strettamente imparentato con l’autorevolezza; il secondo è un potere che si attua fisicamente ed è appariscente. Non a caso infatti i miracoli sono definiti nei sinottici con il termine dun£meij (Mt 7,22; 11,20-21; 13,58; Mc 6,14; Lc 10,13), cioè espressione della potenza di Dio, che si manifesta nella sua pienezza nella morte e risurrezione di Gesù (Rm 1,4.16; Ef 19,20). Le Scritture unanimemente riconoscono in Dio l’unica fonte dell’™xous…a che si esprime primariamente nella sua signoria e nella sua regalità incontrastate (Es 15,18; Sal 92,1; 95,10; 98,1; 145,10; Mt 24,36; Gv 1,1-3; At 2,36). Egli è il principio creativo e da Lui tutto proviene (Gen 1,1; Gv 1,3.10; Rm 1.20; Col 1,16.20); questa ™xous…a viene mutuata all’uomo perché la eserciti in favore dei suoi simili, per questo ad essa va portato pieno rispetto e ad essa ci si deve sottomettere (Gv 19,11; Rm 13,1-2; Tt 3,1). Questo potere del Padre risiede e si manifesta ora pienamente in Gesù (Mt 11,27; 28,18; Lc 10,22; Gv 3,35; 5,20.27; 10,18; 13,3; 17,2; 1Cor 15,27;), che ha ricevuto dal Padre stesso e al punto tale che Padre e Figlio, pur nella loro distinzione di persone e funzioni, formano una cosa sola (Gv 10,30; 12,45; 14, 9-10a; 17,11.21-22), per cui le parole e l’agire di Gesù sono quelli del Padre suo (Gv 14,10b). Egli pertanto è diventato il punto focale dell’intera creazione (Ef 1,10; Col 1,16) perché tutto sia sottomesso a lui, così che egli possa poi sottomettere nuovamente tutto al Padre e Dio possa essere nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28). Un potere e un’autorità di fronte ai quali la gente stupisce e glieli riconosce (Mt 9,6-8; Mc 1,22; Lc 4,32; 5,24-26) e sui quali ci si interroga (Mc 1,27; Mt 21,23; Lc 4,36) Tale potere Gesù dona ai propri discepoli perché continuino la sua opera nel tempo (Mc 3,14-15; 6,7; Mt 10,1; 28,18-20; Lc 9,1; 10,19; Gv 20,12.21-23). Cfr. la voce “autorità” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[266] L’episodio è ricordato anche da Paolo in 2Cor 3,7.13-14.