IL VANGELO DI MATTEO

Il quinto grande discorso di Gesù

Capp. 24-25

Parte Seconda – Cap. 25




Analisi e commento al Cap. 25

Lo stile di vita della nuova comunità credente:

vigilante e operosa nel bene,

nell'attesa della venuta finale





Introduzione

Si è visto come il cap.24 ha trasformato in linguaggio apocalittico situazioni storiche, in cui erano inserite le prime comunità cristiane. I rumori della prima guerra giudaica (66-73 d.C.), che ha sconvolto l'intera Palestina, immergendola in un bagno di sangue, erano passati da poco e le sue conseguenze erano ancora vivamente presenti: il tempio e Gerusalemme distrutti e con il tempio finirono anche il sacerdozio ebraico e l'antico culto, fatto di incensi e di sacrifici di animali, di ritualità. Un nuovo giudaismo, quello rabbinico, si stava faticosamente stagliando all'orizzonte (70 d.C.) e con il quale le comunità matteane, in particolar modo, erano entrate in forte conflitto (Mt 23), che generò tensioni e persecuzioni (24,9-13). Entro questa cornice di grandi sconvolgimenti sociali e religiosi era più che mai viva, da parte delle prime comunità credenti, l'attesa della venuta finale di Gesù, che con onnipotenza divina avrebbe posto fine alla storia, inaugurando il Regno di Dio in mezzo agli uomini, dopo aver sconfitto tutti i suoi nemici (1Cor 15,24-25). Ma all'interno di questa attesa, sentita come imminente, si poneva un altro problema serio: l'inspiegabile ritardo della venuta finale di Gesù, che causava sfiducia, rilassamento spirituale, delusione, defezioni, agitazioni e ironia da parte degli avversari. La compattezza iniziale delle comunità si stava lentamente allentando e necessitava, quindi, di un ricompattamento, fondato su due elementi: una ricomprensione della storia della salvezza in termini temporali più lunghi di quelli fin lì pensati e, soprattutto, per il presente, una forte esortazione dei credenti alla vigilanza e all'impegno di un fare fecondo nel bene, nell'attesa di una certa, anche se tardiva, venuta del Signore, che portava con sé il giudizio finale.

Il tema della vigilanza e dell'operosità nel bene, infatti, attraverseranno entrambi i capitoli: 24,32-25,30, mentre il tema del giudizio finale (25,31-46), severo ammonimento per tutti, concluderà il cap.25 e con questo l'ultimo grande discorso di Gesù, il quinto. Gli ultimi tre capitoli saranno dedicati per intero alle drammatiche vicende della passione e morte di Gesù (26-27) e alla sua risurrezione (28).

La struttura del cap. 25 si articola in tre parti e di fatto segue la composizione dello stesso capitolo, formato da tre distinte unità letterarie, tematicamente legate tra loro:


A) vv.1-13: la parabola delle dieci vergini, che sollecita la vigilanza all'interno delle comunità credenti;

B) vv.14-30: la parabola dei talenti, che esorta i credenti ad essere operosi nel bene in un tempo di attesa, che si fa sempre più lungo e i cui confini sono sempre più incerti;

C) vv.31-46: viene presentata, all'interno di una grandiosa cornice escatologica, l'impressionante scena del giudizio finale, che si eleva a monito per tutti, in particolar modo per il mondo non credente, per il quale si stabiliscono i parametri del giudizio, con cui saranno giudicati. Tutti, comunque, imminente o tardiva che sia la venuta del Signore, dovranno alla fine fare i conti con lui.



La parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13)


Racconto veramente strano questo di Matteo. Un racconto che non è né carne né pesce. Non sembra essere una vera e propria parabola, ma si avvicina molto di più ad una allegoria1, anche se non ne possiede pienamente il titolo; in essa l'autore trasfonde in modo simbolico la realtà della sua comunità, a cui si sta rivolgendo. I personaggi si muovono sullo sfondo di un corteo nuziale2, ma in realtà non sembrano aver nulla a che fare con questo e si relazionano tra loro in modo anomalo. Non c'è la sposa3, di cui le dieci fanciulle dovrebbero formare il corteo nuziale, ma stranamente sono proprio queste amiche della sposa, che hanno a che fare direttamente con lo sposo. Sembrano queste ad aspettarlo e non la sposa. Strano poi che lo sposo venga annunciato anziché dal corteo festoso degli amici, danzanti e cantanti inni sponsali, da una voce anonima, molto minacciosa, che irrompe d'improvviso nella notte, in modo del tutto anomalo. Non si capisce, poi, perché lo sposo giunga in piena notte ed entri subito in conflitto con le amiche della sposa, che nulla hanno a che vedere e a che fare con lui. Il suo apparire, poi, più che un festoso e gioioso evento sembra l'irrompere di un giudice tutto solitario, che crea sconquasso tra le amiche della sposa. Dall'insieme, è evidente che l'autore si è servito dello sfondo nuziale, che tale non è, soltanto per lanciare il suo messaggio alla sua comunità.

Due sono i punti cruciali di questo racconto: l'olio e il ritardo dello sposo. Tutta la parabola gira attorno a questi due elementi, che producono tra le dieci fanciulle un duplice comportamento, che le contrapporrà tra loro e sarà causa di due destini divergenti. Ci sono, come si vede, elementi parabolici, ma anche allegorici. È un racconto, che si lega strettamente a quello precedente (24,45-51) e si muove, di fatto, sullo stesso binario, benché diversi siano i destinatari (24,45). Vengono, infatti, delineati anche qui due contrastanti comportamenti di due servi, messi a capo di altri servi e in attesa di un padrone che ritarda (24,48b): saggio e previdente il primo (24,45-46); stolto e malvagio il secondo (24,48-49). Anche qui il racconto si chiude con un giudizio (24,47.51).

Lo sitz im leben4, da cui è nato questo racconto tutto matteano, sembra essere la difficile situazione in cui si muovevano le prime comunità credenti, da un lato, sottoposte a forti pressioni esterne (24,6-13); dall'altro tese verso la venuta finale del Risorto, che di fatto non veniva. Si insinuava, quindi, in esse il dubbio, la delusione e la speranza si affievoliva. Ma c'era anche chi, ritenendo ormai imminente la fine dei tempi, viveva in modo disimpegnato e disordinato, creando confusione e disturbo all'interno della comunità e della stessa società. Di questo clima di attesa e da fine dei tempi abbiamo testimonianze nelle stesse lettere di Paolo, che invitava la sua comunità di Corinto ad usare delle cose di questo mondo come se non le usasse, cioè con distacco, perché ormai “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7,29-31); mentre l'autore della Seconda Lettera ai Tessalonicesi redarguisce duramente chi, ritenendo ormai giunta la fine, aveva deciso di smettere ogni sua attività e ogni suo contributo alla comunità e alla società, e sollecitava, invece, tutti ad un serio impegno nel bene: “chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2Ts 3,10b-13). Un ulteriore spunto, che aiuta a capire il clima in cui vivevano le prime comunità credenti, ci viene offerto dalla Seconda Lettera di Pietro, rivolta indistintamente a tutti i credenti, in attesa di una venuta che non arrivava (2Pt 1,1), cercando una ragione del ritardo. Si tratta, quindi, di un richiamo generale a tutte le comunità: “Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta. Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi, cercate d'essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace” (2Pt 3,8-14).

Questo era il contesto storico in cui viveva anche la comunità matteana: un clima di attesa e da fine dei tempi, ma che non giungevano mai. All'interno di questo contesto va letta e compresa la parabola delle “Dieci vergini”, così come anche quella immediatamente successiva dei “Talenti”. Tema di fondo per entrambe le parabole è la vigilanza attenta ed operosa.

La struttura del racconto si snoda su cinque parti:

A) vv.1-4: la cornice introduttiva, in cui vengono presentati i personaggi e il contesto in cui questi sono collocati;

B) vv.5-6: l'evento inatteso: il ritardo dello sposo e la sua improvvisa venuta nel pieno della notte;

C) vv.7-9: agitazione e tensione nel gruppo delle fanciulle;

D) vv.10-12: la doppia e contrapposta conclusione: chi entra e chi rimane fuori.

E) v.13: l'insegnamento.


Il v.1a si apre con l'avverbio temporale “Tòte” (tote, allora), che aggancia questa parabola, in senso lato, con l'intero cap.24, dai toni fortemente apocalittici ed escatologici; e in senso più immediato, con la precedente pericope 24,45-51, e ne fa una sorta di sua continuazione. Il tema, infatti è identico: la necessità della vigilanza e della messa a frutto del tempo di attesa, di cui si dovrà rispondere; cambiano soltanto i destinatari: là abbiamo i responsabili della comunità; qui è la stessa comunità, che viene redarguita. Il contesto, quindi, è fortemente escatologico, rafforzato anche dalla presenza del verbo posto al futuro passivo “Ðmoiwq»setai” (omoiotzesetai, sarà reso simile).


I vv.1b-4 presentano gli attori del racconto, molto curati nei dettagli. Questa particolare attenzione, a loro riservata, dice che l'autore qui sta rivolgendosi a delle persone precise, individuate dai tratti propri dei personaggi allegorici di questa parabola. Si tratta di dieci fanciulle, che dopo aver preso le lampade, escono per andare incontro allo sposo. Tutte sono accomunate da tre particolari: a) sono vergini, b) hanno preso una lampada, c) sono dirette incontro allo sposo; ma, nel contempo, sono contrapposte in due gruppi, che le distanziano, assegnando loro destini contrapposti: il gruppo delle stolte e quello delle sagge. Il contesto è qui quello delle nozze, che nell'A.T. definiscono il rapporto di alleanza tra Jhwh e il suo popolo, in cui Dio è lo sposo e Israele, a seconda del suo comportamento nei confronti di Jhwh, era, di volta in volta, la sposa o la prostituta5. Le fanciulle erano, nell'ambito delle nozze, le amiche della sposa, che dovevano accompagnare in un corteo gioioso alla casa dello sposo. Ma qui la sposa non c'è e il rapporto così diretto e così intenso tra le fanciulle e lo sposo lascia intendere come in realtà siano proprio esse la sposa. Le fanciulle, infatti, sono qualificate da un numero, il dieci, che nel linguaggio biblico indica la compiutezza, la pienezza. Questo gruppo, quindi, è il gruppo perfetto, compiuto, che ha raggiunto la sua piena maturità e la sua pienezza; esso è composto da fanciulle, che Matteo definisce “vergini”, cioè persone che sono riservate in via esclusiva allo sposo e per questo grava su di loro una sorta di consacrazione. Ciò che le ha rese tali è l'aver preso la fiaccola, che nella metafora biblica allude a Dio e alla sua Parola6. Si tratta, quindi, di una scelta esistenziale che queste hanno compiuto, uscendo così incontro allo sposo, cioè orientando la loro vita verso Cristo, a cui l'hanno consacrata nella loro scelta di fede. Questa, ora, illumina i loro passi verso lo sposo, la cui venuta era sentita in quel tempo come imminente. Matteo, dunque, sta qui parlando della nuova comunità messianica, della sua comunità. Un'immagine questa non inconsueta nel N.T. e che ritroviamo, pari pari, nella Seconda Lettera ai Corinti, dove Paolo, rivolto alla propria comunità dichiara: “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11,2). Ma il motivo veterotestamentario delle nozze, dello sposo e della sposa subisce nel N.T. una rilettura e una ricomprensione: Gesù è il nuovo sposo7, mentre il Battista è visto come “l'amico dello sposo” (Gv 3,29) e la nuova comunità messianica, la chiesa, è sentita come la sposa8. Ma è proprio in questo andare verso lo sposo, che sta per venire, che divergono i comportamenti: c'è chi si mostra saggio e chi stolto. L'elemento discriminante e che genera i due contrapposti comportamenti è l'olio: alcune lo presero con sé; altre lo trascurarono. L'olio, utilizzato in molti modi nell'antichità9, serviva anche per alimentare le lampade, che, qui, metaforicamente si è visto essere l'immagine di Dio, quale contenuto vivo e vivente della fede. L'olio, dunque, in questo contesto, va colto come la metafora dell'alimento spirituale, che serve a tenere sempre viva la fiamma della fede, perché essa non si affievolisca e non venga meno. L'elemento fondante della fede e tale da generarla, partorendo in tal modo il nuovo credente, era considerato la Parola10, alla quale i primi apostoli dedicarono in via esclusiva il loro ministero11. L'importanza della Parola nella vita del nuovo credente e della stessa comunità ci viene testimoniata dall'angelo della chiesa di Sardi12. Questi la sollecitava a ravvivare la parola che aveva accolto, l'unica in grado di tenerla vigilante, evitando così la condanna: “Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te” (Ap 3,2-3). Anche l'autore della Lettera ai Colossesi sollecita la sua comunità affinché “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali” (Col 3,16); mentre Luca ci testimonia come le prime comunità erano assidue nell'ascolto della parola e nella frazione del pane (At 2,42).

La discriminante, dunque, tra la stoltezza e la saggezza nel vivere cristiano è la Parola di Dio. La sua assenza nella vita del credente dice stoltezza, poiché la Parola è l'unica in grado di fargli comprendere le realtà di Dio, che sono state messe in lui per mezzo della fede e del battesimo. Essa è l'unica in grado di dargli l'autentica identità di credente e la coscienza del suo essere cristiano. E che Matteo stesse pensando alla Parola, mentre scriveva dell'olio, lo lascia intendere l'altra parabola, quella della casa costruita sulla roccia (7,24-27) a cui questa delle dici vergini è strettamente legata sia dal verbo “Ðmoiwq»setai” (omoiotzésetai, sarà reso simile), che, in questa forma, compare in tutto il N.T. soltanto nelle due parabole; sia dai termini “fron…moj” (fronímos, saggio) e “mwrÒj” (morós, stolto), con cui vengono definiti gli attori di entrambe le parabole. In entrambi i casi l'elemento di discriminazione tra la saggezza e la stoltezza è sempre la Parola.

I vv.5-6 introducono il lettore in una nuova scena. Nella pericope precedente (vv.1b-4) Matteo delineava due atteggiamenti presenti nella sua comunità: chi fondava e alimentava la propria fede nella parola accolta, tenendola viva nella propria vita; e chi, invece, una volta abbracciata la fede, l'aveva tralasciata, non facendosene più un punto di riferimento, ma lasciandosi trascinare da regole e tram-tram spirituali, riducendo il vivere cristiano ad una mera esecuzione di prescrizioni. Ora l'evangelista apre un nuovo scenario inatteso, ma che comunque ha il suo riferimento nel contesto storico delle prime comunità credenti: il tanto atteso Signore, che sembrava dovesse ritornare da lì a poco, ritarda, contraddicendo tutte le aspettative e tutte le previsioni e lasciando interdetti gli stessi responsabili del nascente cristianesimo. Essi, a fronte di questo inspiegabile e imbarazzante ritardo, cercavano di abbozzare le prime risposte, intensificando le esortazioni alla perseveranza (2Pt 3). Il ritardo, oltre che frustrare le attese di una venuta sentita e annunciata come imminente, metteva in dubbio la stessa scelta di fede e i nuovi credenti, sotto la sferza delle persecuzioni e delle tensioni sociali, incominciavano vacillare (Eb 10,23-25). Ce ne dà testimonianza la stessa lettera agli Ebrei: “Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali, dopo essere stati illuminati, avete dovuto sopportare una grande e penosa lotta, ora esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni, ora facendovi solidali con coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di esser spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi. Non abbandonate dunque la vostra fiducia, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa. Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà. Il mio giusto vivrà mediante la fede; ma se indietreggia, la mia anima non si compiacerà in lui. Noi però non siamo di quelli che indietreggiano a loro perdizione, bensì uomini di fede per la salvezza della nostra anima” (Eb 10,32-39); e similmente l'autore della Seconda di Pietro lascia intendere come ormai attorno alla speranza e all'attesa del ritorno imminente del Signore si stava creando scetticismo e sarcasmo: “Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: <<Dov'è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione>>” (2Pt 3,3-4 ). Un'altra testimonianza ci viene offerta dalla Seconda ai Tessalonicesi, in cui l'autore stigmatizza il comportamento di chi, nell'attesa di una venuta imminente del Signore, viveva disordinatamente, creando imbarazzo e difficoltà alla propria comunità: “Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2Ts 3,11-13). In questo contesto si collocano i nostri vv.5-6, che sono contrapposti l'uno all'altro: nel primo si parla di un ritardo e delle sue conseguenze in mezzo alla ancor fragile comunità dei credenti; nel secondo dell'improvviso e minaccioso irrompere dello sposo nella buia notte di un'attesa senza fine.

Il ritardo della venuta del Signore ha indistintamente provocato in tutti dubbi, incertezze e un conseguente rilassamento spirituale. Tutte le dieci fanciulle, infatti, si sono assopite e poi addormentate. Il verbo dormire qui è posto all'imperfetto indicativo (™k£qeudon, ekátzeudon), che indica uno stato di vita persistente e quindi l'andazzo che era venuto a crearsi all'interno delle prime comunità cristiane. Il sonno si contrappone alla veglia ed è il tempo in cui il nemico viene per seminare la zizzania tra il buon grano (13,25); è il tempo in cui il credente si espone alla tentazione rimanendone vittima. Gesù, infatti, ammonisce i suoi: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41). Il sonno, infatti, è l'immagine del peccato, che rende ciechi e insensibili alle esigenze di Dio, sordi ai suoi richiami (Is 29,10). Per questo Paolo si rivolge con forza e determinazione alla comunità di Roma e con fare sferzante la esorta: “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,11-14). E sempre Paolo, rivolto alla sua carissima e ancora imberbe comunità di Tessalonica, che ha dovuto abbandonare repentinamente per un'improvvisa persecuzione, alla quale tuttavia i Tessalonicesi hanno saputo resistere con determinazione, esorta: “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: "Pace e sicurezza", allora d'improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri” (1Ts 5,1-6).

Con il v.6 si introduce un secondo elemento nuovo: nel pieno della notte irrompe inatteso un grido, che annuncia lo sposo. Quel “Ecco lo sposo” dice come la notte dell'attesa sia finita e la presenza dello sposo si impone di prepotenza (“Ecco”, “vi fu un grido”), come un cuneo che penetra nella ciocca e la spacca in due. È pensabile, considerato il contesto nuziale, che questo grido, che lacera una lunga notte di attesa, sia verosimilmente la voce dell'amico dello sposo, il fidato e intimo cerimoniere delle nozze, che doveva poi attestare pubblicamente anche la verginità della sposa e che il quarto evangelista identificava nel Battista: “Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta13” (Gv 3,29). È un grido, quindi, carico di gioia, ma porta con sé anche un giudizio escatologico (Mt 3,1-12).

I vv.7-9 riportano il drammatico effetto che la venuta improvvisa dello sposo ha causato all'interno del gruppo delle dieci fanciulle. La scena si svolge in due tempi: a) tutte indistintamente si risvegliarono e prepararono le lampade (v.7); b) tutte si predispongono ad alimentare le loro lampade con l'olio. Ma è proprio qui che esplode improvviso il dramma: cinque di esse si accorgono di non avere olio a sufficienza per ravvivare la fiamma (vv.8-9), che metaforicamente indica tutta la debolezza spirituale di una fede non alimentata dalla Parola e che rende incapaci di accogliere il Signore che viene; rende incapaci di leggere i segni dei tempi, di leggere la storia della salvezza, ignorando, in tal modo, il ruolo che ogni credente è chiamato ad avere al suo interno. Sono i credenti, che privi dell'olio della Parola, vivono meccanicamente la loro fede come una mera esecuzione di culti e di riti, di festività da celebrare, come un'osservanza di norme e di regole, ma al proprio interno sono spenti. Vivono, quindi, una fede apparente. Non vi possono essere tra i credenti trasfusioni spirituali, ma soltanto testimonianza, poiché la crescita spirituale dipende esclusivamente dall'accoglienza della Parola e dallo spazio che ognuno riserva ad essa. Per questo chi possedeva l'olio della Parola e con saggezza l'aveva sempre portata con sé fin dall'inizio della propria vita credente, rimanda le stolte, che l'avevano tralasciata, all'origine della loro fede, quando, dopo aver accolto la Parola, erano divenute credenti. Da quel momento, infatti, la loro crescita spirituale si era fermata, perché non più alimentata dall'olio della Parola, essendo del tutto insufficiente la mera sacrementalità del vivere cristiano. Si tratta, in buona sostanza, della denuncia di un fallimento spirituale, poiché la loro casa è stata costruita sulla sabbia di norme, regole e sacramenti.

Il v.10 di fatto chiude in bellezza il racconto delle vergini, che si sono fatte trovare pronte alla venuta dello sposo e con lui sono entrate a prender parte alle nozze messianiche, per partecipare a quel banchetto dalle grasse vivande, che con ampio respiro profetico, all'interno di una grandiosa visione escatologica, aveva preannunciato Isaia: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti” (Is 25,6-7); quel banchetto che Gesù era venuto ad inaugurare, accogliendo attorno a sé, insieme ai suoi discepoli, anche pubblicani e peccatori (Mt 9,10). Il v.10 si conclude con la porta che si chiude e che dice non solo la fine della storia della salvezza, ma anche l'impossibilità di una seconda chance per chi è rimasto fuori. Sarà proprio questa porta chiusa che renderà drammatici gli ultimi due versetti del racconto.

vv.11-12: il v.11 si apre con l'avverbio di tempo “Ûsteron” (ísteron, dopo, più tardi) che prelude al dramma: in seguito, cioè dopo che la porta fu chiusa, arrivano anche le altre fanciulle. La situazione, si intuisce subito, è disperata, poiché quella porta chiusa toglie loro ogni altra possibilità di accesso alla salvezza. Esse, alla pari delle altre, erano “vergini”, cioè consacrate allo sposo, avevano accolto la lampada della fede, si erano incamminate incontro allo sposo; alla pari delle altre, si erano addormentate nell'attesa di uno sposo, che sembrava non venire. Similmente ad esse avevano vissuto una vita apparentemente credente, ma asfittica perché non alimentata da quella Parola che avevano inizialmente accolto, ma poi tralasciato. Matteo, a tal punto, fa un gioco letterario: a) mette sulla bocca delle stolte la supplica “Signore, Signore”; b) fa rispondere lo sposo “In verità, in verità vi dico, non vi conosco”, agganciando in tal modo questa drammatica conclusione ai vv.7,22-23 dove dice esattamente le stesse parole in un identico contesto: “Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”. Seguirà, poi, a questi versetti la parabola delle due case, quella costruita sulla roccia e quella sulla sabbia (Mt 7,24-27), sottolineando una volta di più come il vero discepolo e l'autentica sequela è caratterizzata da un ascolto accogliente della Parola nella propria vita.

La parabola si chiude con una sentenza finale dal sapore sapienziale: “Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora”. Ora il nuovo credente è ammonito e comprende come il vegliare consista nell'accogliere in sé quella Parola di vita eterna, che è lampada ai suoi passi e lo sostiene nel cammino verso il suo Signore e lo aiuta a coglierlo mentre gli passa accanto, tendendogli la mano finché può. Il deutero-Isaia, rivolto alla comunità d'Israele in esilio a Babilonia, la esortava: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino” (Is 55,6). Similmente Sant'Agostino affermava: “Timeo Dominum transeuntem et non revertentem”, “Temo il Signore che passa e non torna indietro”, sottolineando l'unicità della grazia e della chance, che viene offerta finché c'è tempo, poiché i giochi della nostra salvezza si fanno “hinc et nunc”, qui e ora, dopo la porta sarà chiusa e il tempo del ripensamento sarà finito. Non si deve pensare ad un Dio bonaccione, che ci salva sempre e comunque, poiché, ricorda sempre Sant'Agostino, che quel Dio che ci ha creato senza di noi non può salvarci senza di noi. Quello che Dio doveva fare, lo ha fatto, inviando suo Figlio, “perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16b). Ora i giochi sono in mano nostra ed Egli ci assiste con la sua Parola, l'unica in grado di illuminare la nostra vita, conformandola alle esigenze di Dio. Dopo la porta sarà chiusa per sempre, come ammonisce il drammatico dialogo tra Abramo e il ricco, che supplicava Abramo perché inviasse lo spirito di Lazzaro dai suoi fratelli per ammonirli, ma “Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi” (Lc 16,27-31). La Parola, dunque, è ciò che dà al credente la coscienza della sua vera identità e lo conforma alle esigenze di Dio, aprendogli le porte della salvezza.


La parabola dei talenti (Mt 25, 14-30)


La parabola delle dieci vergini terminava con la sentenza: “Vigilate, poiché non sapete né il giorno, né l'ora” (v.13). Questa dei talenti inizia con due avverbi significativi ““Wsper g¦r” (Osper gàr, Infatti [sarà] come), che agganciano questa parabola alla precedente, così che quella dei talenti diventa una sorta di ripresa e di sviluppo di quella delle dieci vergini. Il punto cruciale dell'aggancio va a cadere proprio sul v.13, sul tema della vigilanza. Se l'esortazione, infatti, è “Vigilate” si tratta ora di capire che cosa significa vigilare e quali atteggiamenti assumere, tali da essere compatibili con lo stato di vigilanza. Di questo si fa carico la parabola dei talenti.

Questa dei talenti è una parabola molto nota e popolare, che è sempre stata interpretata come un sollecito a mettere a frutto le nostre doti e i nostri beni, senza disperderli e senza oziare, tanto che il termine “talento” è passato nella nostra lingua come “dote, capacità, beni”, in particolare riferiti alla singola persona, di cui ancor oggi si dice “persona di talento” o “persona che ha molti talenti o di pochi talenti”. La dimensione, quindi, qui è squisitamente morale, poiché sollecita l'impegno al buon impiego delle nostre qualità e delle nostre risorse. Su questa linea è anche l'autore della Prima Lettera di Pietro che, rivolto ai cristiani dispersi nelle varie regioni dell'Asia14, li esorta: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1Pt 4,10-11). Tuttavia l'interpretazione del termine “talenti” deve essere ricompreso all'interno del contesto della parabola matteana, che certamente, come vedremo, non favorisce una simile interpretazione15.

Il quadro, entro cui è posta la parabola, dai tratti fortemente allegorici, è squisitamente escatologico e fa pesare sull'intero racconto il giudizio finale, che occupa una parte preponderante del racconto stesso (vv.19-30). L'aria, quindi, che si respira è molto simile a quella delle dieci vergini e, del resto, non poteva essere diversamente, considerato lo stretto rapporto che intercorre tra le due parabole. Tuttavia, qui, l'aspetto escatologico e del giudizio che verrà è percepito come un qualcosa che si riflette sul presente, sentito come il tempo dell'attesa, durante il quale le dieci vergini, anziché vegliare, si erano addormentate (v.5b). La parabola dei talenti dà, invece, peso all'operatività e all'impegno in questo tempo. Che cosa significhi questo, molto dipende dal significato che l'autore attribuisce al termine “talenti”.

La parabola dei talenti ha il suo parallelo in Lc 19,11-27 e benché simili tra loro, tuttavia divergono notevolmente sia per il contesto in cui il racconto è inserito, sia per gli elementi stessi che compongono il racconto e sia per il tema su cui va a cadere l'accento. In Matteo il contesto è squisitamente escatologico e la parabola intende rispondere al tema del come vigilare nell'attesa del ritorno del Signore. In Luca il contesto è dato dal v.19,11, che introduce la parabola e ne funge da chiave di lettura: era diffusa convinzione che il regno di Dio si dovesse manifestare da un momento all'altro e ci si attendeva che Gesù ne fosse l'inauguratore e il re nel contempo (Lc 19,37-38). Per disilludere queste attese, Gesù racconta la parabola, che si muove su due livelli, del re che va a ricevere l'investitura e delle dieci mine. Si tratta, come si vede di due racconti paralleli, ma che si intersecano e si integrano a vicenda. La finalità della parabola è far capire come la venuta del regno sia ancora molto lontana e che l'attesa del suo avvento doveva essere caratterizzata dalla fedeltà, stigmatizzando da un lato il giudaismo, che ha disconosciuto e rifiutato il messianismo e la regalità di Gesù (Lc 19,14.39) e dall'altro il comportamento fedifrago di un discepolato negligente e disattento (Lc 19,20-23). Anche gli elementi interni del racconto sono molto diversi, pur muovendosi su strutture simili o parallele. In Matteo abbiamo un ricco signore, che distribuisce tutti i suoi beni in modo diseguale e secondo le capacità di ciascuno. In Luca c'è un principe di nobili origini, che va in un paese lontano ad assumere il titolo di re e dà soltanto dieci mine ai suoi dieci servi, una mina a ciascuno, senza distinzioni. Un valore del tutto irrisorio rispetto ai talenti matteani16; inoltre in Matteo non vi è l'esortazione a farli fruttificare, ma semplicemente vengono dati, lasciando alla libera iniziativa di ciascun servo, in tal modo, responsabilizzandolo. In Luca, invece, vi è l'esortazione a far fruttificare le mine, facendo così gravare l'impegno di ogni servo nei confronti del loro re. Vi è, inoltre, in Luca l'atto di ribellione dei cittadini contro il re, totalmente assente in Matteo. Il racconto in Matteo termina con la condanna del servo infedele e negligente (Mt 25,30), quello lucano, invece, termina con la cattura e l'uccisione dei cittadini ribelli, mentre il servo infedele, dopo essere stato privato della mina, viene totalmente ignorato e non se ne conosce la sorte. Segno che importanti in questa parabola non erano i dieci servi, ma il rifiuto del re da parte dei suoi cittadini, che allude al rifiuto di Gesù da parte dei suoi e che anche Giovanni ricorderà nel suo prologo al vangelo (Gv 1,11). Luca, del resto, è l'evangelista dei pagani. Tutto proteso verso di essi, li vede di buon grado e con occhio benevolo, e tutto a scapito del mondo giudaico.

La struttura e la dinamica delle due parabole, tra loro molto simili, ma nel contempo molto diverse, fanno pensare che entrambe abbiano un ceppo unico originale, da cui sono state attinte e poi profondamente rimaneggiate per adattarle ai propri intenti. Riteniamo che la fonte primaria sia Mc 13,34: “<<State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. E' come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate>>17.

La parabola matteana dei talenti si struttura in quattro parti:


A) vv.14-15: cornice introduttiva, che colloca la parabola in un contesto ecclesiale postpasquale;

B) vv.16-18: il diverso impegno dei tre servi di fronte ai talenti affidati;

C) vv.19-27: il ritorno del padrone e il giudizio;

D) vv.28-30: la sentenza di condanna.


I vv.14-15 formano il quadro introduttivo della parabola e definiscono sia il contesto entro cui il racconto si svolge (v.14) che i destinatari (v.15). Il v.14 si apre, come abbiamo visto, con due avverbi, che agganciano questo racconto a quello delle dieci vergini e funge da suo sviluppo complementare, indicando quale sia il giusto atteggiamento da tenere nell'attesa della venuta del Signore. Il contesto storico, a cui qui Matteo allude, è quello del tempo postpasquale. Si tratta, infatti, di un uomo ricco che parte per un lungo viaggio, metafora del Gesù morto-risorto e tornato al Padre. Egli prima di andarsene consegnò ai suoi servi (i discepoli) i suoi averi. È interessante notare come il verbo greco usato è paršdwken, (parédoken), tradotto con “consegnare o dare”. Se la traduzione italiana è corretta, tuttavia essa non esprime l'intensità del verbo greco. Non si tratta, infatti, di una donazione o di una semplice rimessa in custodia dei beni, ma di una consegna che presuppone un potere reale su questi beni e, quindi, una capacità giuridica di gestione degli stessi. In altri termini, i servi vengono resi capaci di operare in nome e per conto del loro padrone. Legato a questa consegna, dunque, c'è un reale potere. Il verbo, infatti, possiede in sé anche il significato di “dare in mano, dare in balia, dare in potere, rimettere, cedere”. E ciò che il signore dà ai suoi servi, in realtà, non sono dei talenti, anche se poi si parla di talenti. Questi, in realtà, sono chiamati in causa soltanto per quantificare il valore di questi beni assegnati ad ogni servo. Infatti, qui si parla dei “beni” del padrone (suoi) in senso generale, la quale cosa lascia supporre che questo padrone non abbia lasciato soltanto dei soldi da gestire, ma tutti i suoi averi (Øp£rconta, ipárconta), tutto ciò che gli apparteneva, e su questi ha dato ai servi ogni potere. Questo pieno potere è il presupposto per cui i servi possono gestire liberamente questi beni, come meglio credono e, pertanto, sono anche resi pienamente responsabili della loro gestione. Tutto ciò è la premessa su cui poi si baseranno e si giustificheranno le pretese, prima, e il giudizio, poi, del padrone. Matteo sembra qui anticipare, in qualche modo, la parte finale del suo vangelo, là dove il Gesù glorioso e plenipotenziario, rivolto ai suoi discepoli, assegna loro il mandato, composto da tre elementi fondamentali: ammaestrare, battezzare, insegnare ciò che egli ha insegnato e, quindi, di trasmettere: “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>” (Mt 28,18-20).

Se il v.14 indicava il contesto storico proprio della comunità matteana, il v.15 introduce il lettore all'interno di questa; una comunità che si presenta già strutturata gerarchicamente e con regole proprie interne. Già si parla, infatti, di chiesa istituzionalizzata in Mt 16,18-19 e di poteri assegnati a Pietro, colto come fondamento della istituzione ecclesiale. Al suo interno ci sono già delle figure di profeti, maestri, sapienti, giusti, scribi e discepoli18, anche se ancora non ne comprendiamo bene l'area di azione e di collocazione all'interno della comunità. È una comunità che ha già delle sue regole interne sia nel relazionarsi con i vari membri della comunità e sia all'interno delle celebrazioni liturgiche19. Non stupisce quindi la diversa quantità di talenti, distribuiti ai vari servi, che quantificano il diverso grado di responsabilità ricoperto da ciascuno all'interno della comunità stessa20. Ognuno, secondo il proprio ruolo e le proprie capacità, è chiamato a gestire il dono che Dio, in Gesù, gli ha assegnato. Quale, dunque, il significato del talento ricevuto? In Mt 10,7-8 Gesù, nel dare il mandato ai suoi discepoli, li esortava: “E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. L'annuncio del Regno, accompagnato dalle guarigione, faceva toccare con mano la forza rigeneratrice della Parola, che stava generando un'umanità nuova (1Pt 1,3.23). Un dono che essi avevano ricevuto dall'amore gratuito di Dio, manifestatosi in Gesù, e che essi avevano l'obbligo morale e istituzionale di trasmettere agli altri. Così similmente in Mt 13,11-12 Gesù, rispondendo ai discepoli che gli chiedevano perché parlasse in parabole, osservava: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. In questo contesto di rivelazione-dono e di annuncio-missione non è difficile individuare come gli averi, i beni di questo ricco signore sono i beni dello Spirito e del Regno, che egli, ritornandosene da dov'era venuto (Gv 16,28), lasciava in eredità ai propri discepoli; ciascuno responsabile in base al ruolo ricoperto, ma, infine, tutti egualmente responsabili di fronte all'unico e comune Signore, al quale tutti sono chiamati parimenti a rendere conto, poiché tutti hanno comunque ricevuto la loro parte di beni da far fruttificare.

I vv.16-18 delineano i due diversi atteggiamenti, che probabilmente emergevano all'interno della comunità matteana. C'era il proficuo impegno di chi aveva delle responsabilità a diversi livelli (i cinque e i due talenti) e chi, invece, non avendo responsabilità comunitarie, in quanto semplice fedele, non si sentiva per questo chiamato ad un serio impegno (un talento). Si noti come Matteo enumeri in tutto otto talenti, contrariamente a Luca che conta dieci mine, che indicano una quantità piena, compiuta. Il riferimento all'otto definisce non solo la quantità dei talenti, ma anche, in particolar modo, la qualità e il tipo dei talenti e, quindi, una volta di più va a precisarne il significato. Nel N.T. il numero otto ha una stretta attinenza con la risurrezione di Gesù21 che avvenne “il primo giorno dopo il sabato”22, segnando l'inizio di una nuova settimana creativa. Il settimo giorno della creazione Dio portò a compimento la creazione, cessando la sua attività creativa e consacrandolo a se stesso (Gen 2,1-3). Con il settimo giorno, quindi, viene posta una conclusione alla prima creazione; ma con l'ottavo giorno, quello dopo il settimo, quello della risurrezione, Dio diede inizio ad una nuova creazione (Ap 21,1), avendo ricapitolato in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quella della terra (Ef 1,10), e della quale il Risorto è la primizia (1Cor 15,20.23). In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e con lui ci ha fatti nuove creature (2Ts 2,13; Gc 1,18). Una nuova primizia all'interno di una nuova creazione (Gal 6,15; Ef 2,15; 4,24), che ha come fondamento unico Cristo stesso (1Cor 3,11), che tutti indistintamente accorpa a sé (Gal 3,28; Col 3,11). Gli otto talenti, dunque, alludono a tutti i beni spirituali, che Gesù ha inaugurato con la sua risurrezione e che ha posto in seno alla prima comunità messianica, chiamata, ora, in vario modo e secondo diverso e vario grado di responsabilità (cinque, due, uno), a gestirli e a testimoniarli, facendone dono al mondo. Con il battesimo il credente è stato cristificato, rivestito di Cristo come di un abito nuovo (Gal 3,27). In lui vive una nuova realtà e ad essa è stato conformato, al punto tale che non è più lui che vive, ma Cristo vive ed opera in lui (Gal 2,20a). È, dunque, compito di ogni credente prendere coscienza di questo suo nuovo stato esistenziale, acquisito nella fede e nel battesimo; è suo dovere conoscerlo attraverso la Parola, dalla quale è stato generato ad una vita nuova (1Pt 1,23); essa è l'unica in grado di farci vedere e comprendere il mondo spirituale in cui siamo stati collocati e chiamati a testimoniarlo, incarnandolo nella propria vita, lasciandolo trasparire nel proprio vivere quotidiano. A tutti sono consegnati questi beni spirituali, nessuno ne è escluso e la modica quantità non esime il credente dal suo impegno nei confronti di quei beni, di cui egli è depositario e custode. Tutti, in pari modo, secondo il proprio ruolo, ne sono responsabili. La sottolineatura che i primi due hanno raddoppiato i beni loro affidati, da un lato, dice il massimo impegno profuso nella gestione dei beni spirituali, di cui erano depositari; dall'altro, narrativamente, serve a creare il maggior contrasto possibile con il terzo servo, mettendo così in rilievo la sua negligenza e, quindi, tutta la sua colpevolezza23.

I vv.19-27 formano un'ampia pericope, composta di nove versetti, interamente dedicati al giudizio e, di questi, ben quattro riservati esclusivamente al servo neghittoso, facendo in tal modo pesare il giudizio di condanna su questo. La pericope è particolarmente elaborata; ciò significa che l'autore ha affidato ad essa il suo messaggio, volendo attirare l'attenzione del suo lettore su ciò che egli deve aspettarsi in base al suo comportamento. Come dire: bada bene che su di te pesa il giudizio divino; che non abbia a capitarti come al terzo servo.

Il v.19 è scandito in tre parti: a) si parla di un tempo molto lungo. Un'annotazione temporale questa che si richiama al tempo della storia presente, che è, infatti, un tempo molto lungo, ma quel “dopo” (met¦, metà) rilancia questo tempo presente al momento successivo a quello della sua fine, introducendo in tal modo il lettore nei tempi escatologici: “Dopo molto tempo” (v.19a); b) “Viene il padrone” (v.19b). Si noti il verbo al presente indicativo e non al futuro, segno questo che l'evangelista sente il tempo presente già proiettato in un contesto escatologico, in cui è sentita ormai presente la venuta del Signore; c) questa terza parte presenta la motivazione di questa venuta: “e fa i conti con loro” (v.19c). Anche qui il verbo è posto al presente indicativo, per dare il senso dell'imminente giudizio, che si sta per compiere. Matteo, dunque, con il v.19 proietta il suo lettore in un contesto escatologico che non verrà, ma che viene, anzi, è già di fatto presente e il giudizio sui credenti si sta compiendo, poiché la venuta di Gesù ha posto una discriminante in mezzo agli uomini e in mezzo agli stessi credenti (Mt 12,30). Un forte richiamo, dunque, a prender coscienza degli ultimi tempi, in cui sono già posti i nuovi credenti, sollecitandoli a dare una ferma e decisa risposta esistenziale all'indicativo di salvezza rivelatosi in Gesù: i misteri del Regno, di cui la comunità matteana, come la comunità credente di ogni tempo, è depositaria.

I vv.20-23 sono riservati a quel discepolato, che, cosciente dei tempi e del suo ruolo di testimone, ha dedicato tutto se stesso per far fruttificare al meglio i beni del suo padrone. Questo tipo di discepolato è definito con due attributi “buono e fedele”, con i quali viene in qualche modo assimilato a Dio, l'unico che per definizione è il Buono24 e il Fedele25. Si tratta, dunque, di un servo che ha conformato la sua vita alle esigenze del Buono e del Fedele per antonomasia, lasciandolo riflettere e risuonare nella propria vita. Di conseguenza, anche il servo è definito “buono e fedele”, riflesso della bontà e della fedeltà del suo Signore, che in lui si rispecchia. Per questo il padrone lo invita a prendere parte alla sua gioia, la quale è la dimensione escatologica del tempo metastorico, che introduce nella vita stessa di Dio. Proprio perché questo servo ha conformato se stesso a Dio nella bontà e nella fedeltà, ora può partecipare a pieno titolo della sua stessa vita, che già in qualche modo aveva fatto sua qui nella storia.

I vv.24-27 riportano il giudizio contro il servo infedele, definito anch'esso con due attributi: “malvagio e neghittoso”, che valgono per lui un giudizio di condanna, poiché in essi si riflette il suo comportamento. È un malvagio, infatti, perché pur sapendo (è qui infatti che cade l'accento) della durezza e delle pretese del suo padrone, anziché conformare la sua vita alle sue esigenze, ha preferito scegliere la via più comoda e meno impegnativa, la via meno rischiosa e più tranquilla: mettere al sicuro questo bene spirituale sotto terra, ritenendosi così al sicuro anche lui. Per questo è definito anche neghittoso. Matteo sembra qui alludere a quei membri della sua comunità, formata prevalentemente da giudeocristiani, probabilmente giudaizzanti, che pur avendo abbracciato la novità del messaggio di Gesù e l'esclusività della sua persona umano-divina e del suo messianismo, tuttavia vivono queste nuove realtà ancora entro la ristretta cornice del legalismo mosaico; o coniugano queste nuove realtà all'interno di un formalismo rituale e cultuale, ereditato dal giudaismo, di cui si sentono ancora figli26. Un esempio di questo modo di vivere ci viene offerto da Paolo che, rivolto ai Galati, li redarguiva con dura fermezza per aver abbandonato il vangelo da lui predicato e averne abbracciato un altro (Gal 1,6), quello dei cristiani giudaizzanti. Questi volevano ricondurre la novità dell'evento Cristo all'interno del giudaismo mosaico (Gal 3). Paolo li esorta, con asprezza, ad abbandonare definitivamente la Legge mosaica per abbracciare Cristo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 1,1-4). Matteo, ma in genere la chiesa primitiva, si trovava di fronte a questo fenomeno, che riguardava i convertiti provenienti dal giudaismo. Questi non riuscivano a staccarsi da esso anche perché non avevano colto il mistero della persona di Gesù e la verità profonda del suo messaggio. Essi, dunque, sono stati paragonati da Matteo a quel servo che, ricevuto il bene del mistero di Cristo e della sua predicazione, spaventato dalla sua esigente novità rivoluzionaria, che lo staccava e lo contrapponeva al legalismo mosaico, preferì seppellirlo nel giudaismo, cercando di non staccarsi da esso, ma di adattare Gesù e la sua predicazione alle ragioni del mosaismo, vanificandone la novità e l'efficacia (Gal 5,2-3).

I vv.28-30 portano a conclusione, in modo drammatico, la triste vicenda del servo neghittoso e malvagio. Vengono riportate due sentenze, che Matteo recupera da 13,12 e 22,13, accomunando, in tal modo, questo servo a quei contesti. In 13,12 il contesto era quello del parlare in parabole di Gesù, con il quale egli criptava i segreti del Regno. Il motivo viene detto al v.13,15, che richiama Is 6,10: “Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani”. È, dunque, la durezza di cuore, cioè la testardaggine del voler rimanere legati al mosaismo e al suo legalismo, che rende il giudeocristiano giudaizzante incapace di aprirsi pienamente alla novità dell'evento Gesù. In 22,13 il contesto è quello di quel tale che ha risposto all'invito del re a partecipare al banchetto di nozze del proprio figlio, ma non aveva indossato la veste nuziale della nuova fede, rimanendo ancora con i propri abiti del legalismo giudaico. Una situazione inaccettabile perché incompatibile con il nuovo stato di vita (9,16.17). Ed è questo stato di incompatibilità che determinerà l'espulsione dalla nuova comunità credente colui che, rimanendo legato ancora al giudaismo, di fatto ha rifiutato la novità di Gesù. Paolo lo ricorderà ai Galati: “Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla” (Gal 5,2). Durezza di cuore, dunque, rifiuto, pertinaci legami con il passato hanno decretato sia l'impossibilità di comprendere la nuova fede, sia l'impossibilità di partecipare alla nuova vita. Il talento donato a questo terzo servo, dunque, gli viene tolto e dato a chi ne ha di più, che nel linguaggi metaforico della parabola indica il responsabile della comunità. In altri termini, i misteri della nuova fede vengono trattenuti e rimessi all'interno della comunità, che, raccolta attorno ai suoi responsabili, ne è la depositaria prima.


Il giudizio finale (Mt 25,31-46)


Introduzione


Il quinto grande discorso di Gesù si chiude con il racconto del giudizio universale, così definito poiché sono coinvolti “tutti i popoli” (p£nta t¦ œqnh, pánta tà étzne). Un'espressione questa caratteristica di Matteo, con la quale egli si riferisce espressamente al mondo pagano27. Segno, dunque, che l'evangelista qui non sta parlando direttamente alla sua comunità, ma semplicemente la vuole rendere edotta su quale sia il parametro fondamentale per misurare la capacità di sequela di Cristo da parte del mondo pagano, anche di quel mondo che non lo ha conosciuto, non ne vuole sapere o più semplicemente non gli interessa, poiché indistintamente a tutti è rivolta, in Cristo, la salvezza. Potremmo definire questo racconto, che troviamo solo in Matteo, come la fondazione di una sorta di comandamento noachico28, ma visto dalla parte cristiana e non ebraica. Il popolo ebraico era un eletto da Dio (Dt 7,7-8) e depositario della sua salvezza (Es 19,5-6). Questa sua condizione non era sentita come un privilegio riservato in via esclusiva soltanto ad Israele, ma anche rivolto in qualche modo ai pagani. A questi non si poteva di certo imporre la piena e scrupolosa osservanza dell'Alleanza, ma ad essi, quale segno di buona volontà e di partecipazione ad essa, era richiesta l'osservanza di alcuni comandamenti, che se non li associavano al popolo ebreo, di certo li rendevano partecipi della salvezza, ad esso affidata. Similmente Matteo sembra qui rivolgersi al solo mondo pagano. Lo si arguisce da cinque elementi: a) il giudizio è rivolto a tutte le genti, che nel gergo matteano significa mondo pagano (v.32a); b) questi popoli, posti davanti al giudice re e pastore, affermano tutti, indistintamente, di non averlo mai conosciuto (vv.37a.44a); c) è necessario che il giudice, re-pastore, spieghi loro in quale modo essi lo hanno incontrato e in quale modo essi hanno intrattenuto rapporti inconsapevoli con lui; d) ai giusti viene assegnato non il Regno dei cieli o il Regno di Dio, con le quali espressioni ci si rivolge ai credenti ebrei o cristiani, ma semplicemente con il termine di “regno” (v.34), che indica una dimensione superiore, divina; e) infine, Matteo qui non propone una fede nel Risorto, non compie un annuncio di salvezza a cui chiede l'adesione della fede, ma si limita ad evidenziare soltanto un modo di comportarsi e di relazionarsi all'altro, che ha le sue fondamenta non in Dio o in Cristo, ma nel retto sentire umano, illuminato dallo Spirito, che soffia dove vuole e come vuole (Gv 3,8). Soltanto dopo Matteo dà la sua giustificazione cristologica e teologica ad un discorso che sembra, invece, meramente umano: nella persona dell'altro è presente Gesù stesso, così che l'atto di amore e di attenzione rivolto all'altro è di fatto un atto di amore e di attenzione rivolto a Gesù stesso. Come dire, se il pagano, per qualsiasi ragione, non incontra il Gesù della fede e della dottrina, egli lo incontrerà comunque nell'altro, anche se in modo inconsapevole. Ed è da questo incontro di amore e di dedizione di se stessi all'altro-Gesù, che sgorgherà anche per il pagano la salvezza29. Si tratta, dunque, di una sorta di normativa morale, che, benché connaturata all'uomo, ha, come si è sopra accennato, un suo fondamento cristologico e teologico (vv.34.40.45). Ed è proprio tale fondamento, tale aggancio che produce salvezza. Infatti, ricorderà Paolo, in modo magistrale nella sua lettera ai Romani, come il vero Giudeo è colui che lo è interiormente: “La circoncisione è utile, sì, se osservi la legge; ma se trasgredisci la legge, con la tua circoncisione sei come uno non circonciso. Se dunque chi non è circonciso osserva le prescrizioni della legge, la sua non circoncisione non gli verrà forse contata come circoncisione? E così, chi non è circonciso fisicamente, ma osserva la legge, giudicherà te che, nonostante la lettera della legge e la circoncisione, sei un trasgressore della legge. Infatti, Giudeo non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio” (Rm 2,25-29).

Matteo non è nuovo a queste immagini grandiose e scultoree del giudizio universale, oserei dire barocche e certamente impressionanti, di cui è debitore in buona parte a Dn 7,13b-14. In un contesto letterariamente vicino, queste sono state in qualche modo anticipate in 24,27.30-31 e, in un contesto più lontano, in 13,41-43, nella parabola del buon grano e della zizzania. Così come il tema del giudizio è in lui ricorrente30 e va ricompreso sia all'interno della predicazione escatologica ed apocalittica del Battista (3,2-12), sia nel contesto della comprensione che le prime comunità ebbero di Gesù, quale elemento di discriminazione e, quindi, di giudizio, in mezzo agli uomini31. Il contesto qui è chiaramente escatologico, sottolineato dai verbi, posti tutti al futuro, mentre si parla degli eventi, oggetto di giudizio, come di una realtà ormai superata e appartenente ad un lontano passato. Questo scenario, teso tra passato e futuro, crea una situazione di inquietudine, in cui il presente, incarnato dal lettore, sul quale pesa questa tensione, è fortemente coinvolto. I titoli di questo giudice, tale per il suo potere di discriminazione (vv.32-33), sono significativi e lo racchiudono in un'ogiva di onnipotenza e di santità: Figlio dell'uomo, re, pastore, Signore; ma nel contempo egli si identifica con l'umiltà e la pochezza di chi ha fame, di chi ha sete, di chi è straniero, nudo, debole, carcerato (vv.35-36). Ed è per questo che il Padre, rinunciando al suo potere di giudicare, rimette il giudizio al Figlio (Gv 5,22), proprio perché egli è Figlio dell'uomo (Gv 5,27), proprio perché egli è “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Is 53,3), proprio perché non disdegnò la natura umana, assumendola su di sé e facendosi simile all'uomo (Fil 2,7).

Superata la cornice introduttiva, formata dai vv.31-33, l'intero racconto è incentrato ora sul giudizio, reso vivace e pedagogicamente molto efficace, dalla forma dialogica.

La struttura della parabola potremmo suddividerla in quattro parti:


A) vv.31: la presentazione del Figlio dell'uomo, contornato dai segni della sua onnipotenza;

B) vv.32-33: la convocazione di tutti i popoli della terra e la loro discriminazione in pecore e capri;

C) vv.34-45: la drammatizzazione del giudizio, in cui vengono esposte le motivazioni della discriminazione operata ai versetti precedenti;

D) v.46: la sentenza finale.


Il v.31 si apre con l'espressione “Quando verrà”, che proietta il lettore nel tempo escatologico. Essa forma la cornice temporale entro cui viene collocato l'intero racconto, fornendone la chiave di lettura. È un tempo che non appartiene più agli uomini, ma a Dio, poiché riempito della sua onnipotenza e della sua gloria, ed è il contenitore entro il quale essi verranno stipati per subire la discriminazione divina (v.32). Il tempo che appartiene agli uomini è espresso nel racconto con verbi posti all'aoristo, un tempo verbale che indica un'azione puntuale nel tempo, ormai già pienamente e definitivamente compiuta e non più raggiungibile, per questo sottratta alla disponibilità dell'uomo. In questo spazio divino Matteo colloca il Figlio dell'uomo, la cui immagine e il cui contesto l'autore mutua dal Libro di Daniele, elaborandolo a modo proprio: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14). Questo Figlio dell'uomo, che etimologicamente è soltanto un semitismo per indicare l'uomo, è qualificato dall'espressione “nella gloria” per indicare la nuova condizione di vita in cui esso si trova. Esso qui perde il suo significato messianico, che lo definiva nella dimensione terrena come il messia atteso dalle genti, per assumere il significato di uomo glorificato o, forse è meglio dire, di un Dio che si è ripresa la sua primordiale condizione di vita divina (Gv 17,5), attraendo in essa anche la sua umanità. Paolo nella sua lettera ai Filippesi ci soccorre nella nostra riflessione: “il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,6-11). Questo stupendo inno cristologico è composto da tre movimenti: un movimento discendente, che vede la spogliazione della gloria divina del Figlio di Dio; un movimento orizzontale, che lo vede rivestirsi della natura umana corrotta dal peccato; per poi, con un ultimo movimento ascendente, ritornare alla gloria divina da cui era venuto; un ritorno che lo vede, tuttavia, rivestito ancora della sua inseparabile umanità, glorificata, ora, dalla potenza del Padre per opera dello Spirito e in tal modo ricostituito all'interno della nuova e ricomposta Trinità (Rm 1,4). Ed è proprio in questa ultima e definitiva condizione che Matteo presenta il suo Figlio dell'uomo, avvolto nella gloria, cioè avvolto e permeato dalla sua stessa divinità. È, dunque, quella che l'autore ci propone, una visione escatologica ed apocalittica assieme, perché rivelativa della vera natura dell'uomo-Dio Gesù. La presenza angelica, che richiama da vicino la visione di Zc 14,5c, accompagna l'irrompere improvviso di quest'uomo, glorificato della stessa vita divina, che gli è propria (24,27), e sottolinea la sua regalità e la sua onnipotenza. Di queste già si ebbe sentore nel racconto delle tentazioni, che si concludevano con l'annotazione che i suoi angeli, accostatisi a lui, lo servivano (4,11). L'immagine che l'autore ci passa è quella di una fastosa corte imperiale dove il re siede onnipotente in mezzo ai suoi servi, lì, pronti per servirlo. Questo primo quadro di onnipotenza viene completato dal sedersi di questo sovrano sul trono della sua gloria. Un'immagine quest'ultima, che nel linguaggio veterotestamentario alludeva alla presenza di Dio nel Tempio di Gerusalemme32, e che Matteo aveva probabilmente presente, ma che qui ha sfruttato con altri intenti. Il sedersi sul trono della sua gloria indica la definitiva acquisizione della sua onnipotenza divina, conseguita e riconquistata dopo la glorificazione per mezzo della risurrezione. Matteo ricorderà questa immagine di onnipotenza divina del Gesù glorificato, proprio al termine del suo racconto: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (28,18).

I vv.32-33 introducono il lettore nel vivo del giudizio; l'intera pericope seguente (vv.34-46) sarà soltanto la giustificazione di una sentenza, che apparirà evidente al v.46, ma i cui effetti si sono già prodotti qui in vv.32-33: una discriminazione posta all'interno dell'umanità, la cui azione, dal verbo posto al futuro passivo (sunacq»sontai, sinactzésontai, saranno radunati), è demandata direttamente a Dio, qui inserito in una cornice escatologica (verbo al futuro) e, per questo, giudiziale. L'intera umanità è, dunque, sospinta da Dio davanti al trono di suo Figlio (œmprosqen aÙtoà, émprosten autû), che il v.31 ha descritto come rivestito dell'onnipotenza divina. Egli è qui colto come il punto di convergenza dell'intera storia, che richiama alla memoria il punto Omega di Teilhard de Chardin. Appare, dunque, chiaro il disegno del Padre: “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10b), poiché “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16b). Tuttavia, qui non si tratta dell'umanità in senso generale, bensì, come si è visto nell'introduzione, del mondo pagano (p£nta t¦ œqnh, pánta étzna), su cui Dio ha elaborato il suo progetto di salvezza, attuato nel suo Cristo e che l'autore della Lettera agli Efesini ricorda: “Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo, ...” (Ef 3,5-6)33. Il convogliare, dunque, tutte le genti verso il Figlio dice l'attuarsi di questo piano: far convergere tutto e tutti in Cristo. Del resto lo stesso Gesù giovanneo lo aveva ricordato ai suoi: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

In questo contesto Matteo sottolinea l'azione discriminante della potenza di Dio, operante nel Figlio: “… e separerà gli uni dagli altri”. Si noti come l'autore non dice chi siano questi, che subiscono, loro malgrado, la selezione. Questo anonimato spinge il lettore a incentrare la sua attenzione sulla sola azione discriminatrice del giudice divino, che viene appesantita proprio all'anonimato, imponendosi in tal modo super partes, senza guardare in faccia nessuno, rivendicando soltanto a se stesso tale azione. Come dire che l'ultima parola, quella suprema, spetta a Dio soltanto. Egli è equiparato ad un pastore che separa le pecore dai capri. Non si tratta, dunque, di un pastore che va alla ricerca della pecora perduta (18,12), rimandando all'azione salvifica di Gesù (18,11); bensì di un pastore che discrimina il suo gregge, poiché qui il tempo della misericordia e della compassione si è compiuto, così come la porta delle dieci vergini fu definitivamente chiusa. Anche qui vi fu una discriminazione operata dallo sposo. La discriminazione comporta un porre le pecore in una condizione di privilegio (alla destra), rispetto ai capri, posti alla sinistra, cioè in una posizione opposta a quella delle pecore. Un privilegio che la parabola dei talenti suggerisce essere quella di partecipare alla gioia del padrone (vv. 21.23), cioè prendere parte alla stessa vita divina, a cui si è assimilati.

Si noti come il pastore si limita a separare le pecore dai capri, ma non stabilisce lui chi è pecora e chi è capro. Sono proprio gli stessi animali, che sono definiti pecora e capro dalla loro stessa natura. Essi si presentano al pastore che sono già pecore e già capri. Al pastore non resta che separarli, in base ad un principio discriminante, che verrà enunciato nei versetti successivi. È significativo questo particolare, poiché suggerisce come il giudizio divino non stabilisce chi è buono e chi cattivo, ma si limita a definire la destinazione di ciascuno in base al suo presentarsi pecora o capro. In altri termini, in base al proprio orientamento esistenziale elaborato nel corso della propria vita, che ci fa per Dio o contro Dio, e reso definitivo e assoluto nel momento in cui l'uomo, attraverso la porta stretta della morte, passa nella dimensione dove non c'è più tempo, dove non c'è più divenire, ma soltanto essere.

I vv.34-45 si collocano tra i vv.32-33 e il v.46. I primi (vv.32-33) presentano il giudizio in atto, che consiste nella separazione e nella collocazione dei due gruppi uno alla destra e uno alla sinistra; il secondo (v.46) conclude il racconto con la sentenza finale, che delinea i contrapposti destini dei due gruppi. I vv.34-45 sono importanti nell'ambito dell'economia del racconto non solo perché sono la motivazione, che fonda giuridicamente e razionalmente il giudizio e la sentenza, ma soprattutto perché introducono un principio fondamentale del vivere cristiano, che regolamenta le relazioni sociali e intracomunitarie: l'identificazione tra il Gesù, giudice-re-pastore, con gli ultimi, gli infimi (™lac…stwn, elachíston). Egli, infatti, non dice “è come se l'aveste fatto a me”, ma “l'avete fatto a me”, creando un filo diretto tra lui, nelle vesti dell'infimo, e l'altro. L'infimo è, dunque, l'impronta di Dio nella storia, la porta attraverso la quale Dio entra nella storia per interpellare ogni uomo; si pone di traverso sulla sua strada e, con la sua presenza silenziosa e spesso scomoda, gli chiede di dare una risposta concreta. Ed è proprio questa libera risposta che determinerà la sua posizione di accettazione o di rifiuto di Dio; è proprio questa sua risposta che lo collocherà nel ciclo della salvezza o ne verrà espulso. Il Gesù della storia o il Cristo della teologia o il Dio delle religioni possono anche essere ignorati, rifiutati o non conosciuti per condizionamento culturale o per propri limiti personali, ma essi si ripropongono quotidianamente ad ogni uomo, credente o no, nella persona e nell'immagine degli infimi e su questi si gioca la partita della salvezza di ogni uomo, credente o no, che egli sia. È l'ultima mano tesa, dunque, che Dio offre all'intera umanità, perché possa essere reintegrata nei giochi della salvezza, aperti e inaugurati nella passione, morte e risurrezione di Gesù.

Lo schema di questa pericope (vv.34-45) si muove in forma parallela contrapposta (positiva-negativa), articolandosi in quattro sotto sottolivelli. Per cui si avrà:


A) vv.34-40: forma positiva (“avete fatto”)

a) la dichiarazione sentenziale (v.34);
b)
la motivazione (vv.35-36);
c)
la domanda, che riprende il tema della motivazione (vv.37-39);
d)
la spiegazione-rivelazione (v.40): l'infimo è in realtà il giudice-re-pastore.

B) vv.41-45: forma negativa (“non avete fatto”)


   a)
la dichiarazione sentenziale (v.41);

   b) la motivazione (vv.42-43);
   c) la domanda, che riprende il tema della motivazione (v.44);
   d) la spiegazione-rivelazione (v.45): l'infimo è in realtà il giudice-re-pastore.

Significativo in questo gioco letterario è il costante ripetersi, per ben quattro volte, dapprima in modo esteso (vv.35-39.42) e poi in modo più sintetico, dei sei stati di bisogno (v.44), in cui gli infimi possono trovarsi. Questa insistenza, così come i quattro sottolivelli, sembra muoversi secondo logiche didattiche, forse per fissare in termini concreti e sintetici chi sono i poveri: coloro che si trovano in una condizione di necessità. Le aree di individuazione del bisogno, invece, sono recuperate dalla tradizione biblica34.

Il v.34 si apre con l'avverbio di tempo “allora” (tÒte, tóte), che dà continuità logica al racconto, agganciando i vv.32-33 a quanto ora segue, per cui la pericope seguente (vv.35-45) ne è la motivazione. La prima attenzione è riservata a “quelli della sua destra”, che vengono definiti in duplice modo: “benedetti dal Padre” ed “eredi del regno”. L'aggettivo verbale “benedetti” dice come su queste persone poggia l'azione fecondatrice del Padre35, che si è manifestata nella loro concreta attenzione verso i poveri, così da diventare essi stessi, i benedetti, fonte di benedizione per i bisognosi, testimoni e strumenti dell'attenzione amorevole e benefica del Padre verso di loro. Ma l'aggettivo verbale “benedetti” è un participio passato, cioè “coloro che sono stati benedetti”, agganciando il loro stato di benedizione nel passato, in un passato che l'autore fissa già in Dio fin “dalla fondazione del mondo”, divenendo essi quasi una sorta di pioggia benefica per la creazione stessa, che da questi viene fecondata. Il secondo elemento, che caratterizza quelli posti alla destra, è l'essere eredi del regno. È di fatto una conseguenza dell'essere benedetti, che dice come questi siano avvolti da Dio, testimoni viventi della sua benedizione in mezzo agli uomini, partecipi, già fin d'ora, della sua vita. Per questo essi sono dichiarati eredi del regno, cioè della stessa dimensione divina alla quale essi appartengono e di cui partecipano per l'essersi posti al servizio di Dio nell'altro, sia pur in modo inconsapevole, ma nella sincerità del cuore. Significativo è infatti come termina il v.44, dopo l'enumerazione degli stati di bisogno: “... e non ti abbiamo servito?” (kaˆ oÙ dihkon»samšn soi; - kaì u diekonésamén soi?). L'andare verso l'altro, il tendergli la mano si tratta, dunque, di un servizio a Dio, una sorta di consacrazione della propria vita a Lui nell'altro. Il trito Isaia36, affrontando il tema della religiosità e del culto a Dio in Israele, critica aspramente il suo modo di rapportarsi a Jhwh, pieno di belle parole e di buoni propositi, di pratiche religiose e di rigorose osservanze, ma che non trovano una risonanza nella quotidianità della vita. Ed indica come segno dell'autentica religiosità l'attenzione compassionevole e misericordiosa verso l'altro: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l'aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà” (Is 58,6-8). Molto più sferzante e per certi aspetti violento è, invece, il richiamo del proto Isaia, rivolto ad Israele e ai suoi capi, definiti come capi di Sodoma e popolo di Gomorra37, e contro i quali si scaglia duramente per il loro comportamento, formalmente religioso e ineccepibile nel culto, ma profondamente iniquo, opprimente e moralmente disonesto nei confronti dei deboli (Is 1,10-15). L'esortazione, quindi, è inevitabile: “Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,16b-17). La vera religione, dunque, quella gradita a Dio, non è quella officiata nel tempio, non è quella praticata nell'osservanza scrupolosa delle regole imposte dalla Torah, bensì quella del cuore38. L'intero giudizio, infatti, verterà sul comportamento tenuto nei confronti dei deboli e dei bisognosi, in cui si è sacramentalizzato l'ineffabilità del giudice, re-pastore.

I vv.35-39 sono l'enunciato (vv.35-36) e la sua eco (vv.37-39) dei sei stati di necessità, nei quali simbolicamente viene indicata la condizione di debolezza e di bisogno in cui vivono quelli che per due volte sono definiti come gli “™lac…stoi” (elachistoi), cioè i minimi, gli infimi, gli insignificanti, gli ultimi, quelli che sono posti ai margini della società e che si nutrono delle sue briciole (Lc 16,20-21). Ma nel contempo questa pericope delinea la nuova figura dei giusti davanti a Dio, da lui benedetti. Essi sono coloro che hanno riversato le loro attenzioni sugli ultimi, tendendo loro la mano. Cambia, dunque, il concetto veterotestamentario di giusto, inteso come colui che è fedele alla Torah e la mette in pratica. Il giusto neotestamentario è colui che si pone al servizio di Dio negli altri, sia pur in modo inconsapevole (Rm 2,26-29).

La pericope si divide in due parti tra loro complementari, anche se apparentemente identiche. La prima (vv.35-36) è introdotta dalla particella dichiarativa “g¦r” (gàr, infatti), che l'aggancia al v.34, divenendone la spiegazione giustificativa. La seconda parte (vv.37-39) riprende la prima e la riproduce identica, ma sotto forma di domanda ed è confermativa della precedente e prepara la risposta del v.40. Questa seconda parte ha come soggetto principale “i giusti”, che nella tradizione biblica sono coloro che si sono dimostrati fedeli a Dio e attenti alle sue esigenze. Sono persone queste che chiedono quando mai si sono poste al servizio di Dio, che non hanno mai incontrato e conosciuto (“quando mai ti vedemmo … ?”). Esse, dunque, sono inconsapevoli di aver operato per Dio, ma non di meno l'hanno fatto. Sarà il v.40 che rivelerà ad essi il valore salvifico del loro operato nei confronti dei loro simili. Ora, nel tempo escatologico, viene disvelata in questi la presenza di Gesù, che hanno servito nell'altro con una vita di attenzioni e di dedizioni, sia pur inconsapevolmente. Anche per coloro, dunque, che per diversi motivi non hanno aderito alla proposta salvifica di Cristo in modo cosciente e pieno, ponendosi apertamente alla sua sequela, anche per loro c'è la salvezza, che scaturisce dall'inconsapevole incontro che questi hanno avuto con Cristo, sacramentato nei bisognosi. Sono coloro che pur avendo ricevuto un solo talento, il senso della compassione e di umanità verso i bisognosi, non l'hanno seppellito nel menefreghismo, ma l'hanno fatto fruttificare nel dono di sé all'altro, immagine di Cristo, a lui somigliante nella sua povertà e nella sua sofferenza. Si realizza in tal modo l'universale volontà salvifica di Dio, venuto per noi uomini e per la nostra salvezza (Gv 3,16; 1Tm 4,10; Tt 3,4).

Il v.40, posto in forma sentenziale, solennizzato dalla formula di giuramento, che impegna il re-giudice (“In verità vi dico”), svolge una funzione eminentemente rivelativa, ponendo una sostanziale identificazione del bisognoso con lo stesso re-giudice39; ma nel contempo dice la sua solidarietà con i più deboli; una solidarietà, che lo imparenta con loro, definiti fratelli e, pertanto, in lui, appartenenti all'unico ceppo divino. Per questo egli ne sente compassione e solidarizza nelle loro infermità40. Sono, dunque, questi nuovi e sempre antichi anawim, che trovano una particolare attenzione in tutto l'A.T. e in particolare nella Torah41, che costituiscono il nuovo luogo della dimora divina, in cui chiunque, credente o no, può incontrare la salvezza del Signore. Gesù Cristo, infatti, “[...] da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9b). La povertà, l'indigenza, lo stato di bisogno non sono più luoghi di maledizione, ma in Cristo e con Cristo, fonte di benedizione e di salvezza per chiunque vi accede con cuore sincero, tendendo la mano al meno fortunato di lui, sull'esempio divino di Gesù di Nazareth “[...] il quale passò beneficando e risanando tutti [...]” (At 10,38). Anche questa è sequela; anche questa è salvezza.

I vv.41-45 costituiscono la parte parallela, al negativo, della precedente pericope (vv. 34-40), accentuata da una contrapposizione simmetrica: ai benedetti si contrappongono i maledetti (vv.34.41); alle affermazioni si contrappongono le negazioni (vv.35-36.42-43); alla destra si contrappone la sinistra (vv.34.41); al regno preparato fin dall'eternità si contrappone il fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli (vv.34.41); alla categoria dei giusti (v.37) si contrappone un anonimo “essi” [aÙtoˆ, autoì] (v.44), che dice come questa categoria di persone siano prive di ogni identità salvifica e come su di esse sia calato il silenzio di Dio, destinate, quindi, ad essere dimenticate (Sal 111,6). Una contrapposizione che richiama da vicino il Sal 111, in cui si esalta, quasi in un'apoteosi, la figura del giusto, contrapposto all'empio: “Egli (il giusto) dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre, la sua potenza s'innalza nella gloria. L'empio vede e si adira, digrigna i denti e si consuma. Ma il desiderio degli empi fallisce” (Sal 111,9-10).

Il v.41 definisce quella parte di umanità, che ha rifiutato le sue attenzioni agli indigenti, come dei maledetti. Se la benedizione parla della fecondità divina, che anima i giusti, facendoli ministri della compassione e della misericordia di Dio presso gli indigenti, la maledizione parla della sterilità di chi si è rifiutato agli ultimi. Ma ancor meglio viene definito il senso della maledizione e della sua conseguente sterilità nel bene con il comando proveniente dal re-giudice-pastore: “Andate via da me”. Ma in realtà, questi maledetti sono tali proprio perché non si sono mai avvicinati al re-giudice-pastore, sacramentato negli “™lac…stoi” (elachístoi). Il comando, quindi, rivela e dà definitività a ciò che essi furono sempre stati. Ciò che questi ora hanno di fronte è il fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli, cioè per i suoi messaggeri, di cui essi, i maledetti fanno parte. Questi, dunque, sono percepiti come degli emissari di satana e con lui ne condividono il destino.

Il v.46 chiude il giudizio posto su quella parte di umanità che pur non credendo, alla pari di chi crede, è accolta o respinta da Dio. Il principio discriminatore è l'attenzione all'altro, il tendere la mano all'indigente, il rendersi sensibile alle sue necessità, non su base ideologica, ma secondo il dettame del cuore. Non deve stupire come tale discriminazione avvenga sull'amore verso il bisognoso, poiché per sua natura “Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16b). Dio, quindi, riconosce come suoi, coloro che vivono nell'amore verso l'altro, attraverso il quale passa necessariamente l'amore verso Dio: “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Questo versetto, dunque, riporta la sentenza, che rivela i due contrapposti destini: dannazione eterna – Vita eterna, che per definizione è vita stessa di Dio. Dio è amore e loro hanno amato Dio nell'indigente. In loro, anche se non credenti, c'era l'impronta dell'amore divino, che li ha resi per questo suoi inconsapevoli figli.


           
                                                                                                                        Giovanni Lonardi

N O T E


1La parabola potremmo definirla come un racconto costruito con logiche proprie interne, finalizzato a coinvolgere l'ascoltatore nel dramma narrato e spingendolo ad esprimere un suo personale giudizio sui personaggi e sulle situazioni di cui essi sono i protagonisti. Si tratta, dunque, di una sorta di fiction, molto vicina alla metafora, che innesca di fatto nell'ascoltatore un processo di proiezione e di identificazione di se stesso nei personaggi e nelle vicende narrate, così che egli, alla fine, scoprirà di essere lui il protagonista di quella vicenda. Tutto ciò favorisce la comprensione di questioni per loro natura di difficile comprensione, come, a titolo esemplificativo, le parabole del Regno. La parabola differisce dall'allegoria, poiché quest'ultima è una sorta di trasposizione della realtà in simboli, nei quali essa viene criptata.

2Le nozze, sia nell'A.T. che nel N.T., non avevano connotazioni religiose, ma si esprimevano in una ritualità civile e popolare, che sanciva l'unione dei due fidanzati. La formula del matrimonio, come risulta dai contratti di Elefantina, in Egitto, dove viveva una colonia giudaica (V sec. a.C.), era molto semplice: “Essa è mia moglie e io sono suo marito da oggi e per sempre”. Altra formula, molto sintetica, trovata nel deserto di Giuda e risalente al II sec. d.C. attesta “Tu sarai mia moglie”. Quanto alla cerimonia, alla vigilia del matrimonio, il fidanzato, accompagnato dagli amici al suono di tamburelli e musiche, canti ed inni (2Mac 9,39), si recava alla casa della fidanzata, ornato con un diadema (Is 61,10; Ct 3,11). Si formava così un corteo sotto la direzione dell'amico dello sposo (Gv 3,29), che era una sorta di cerimoniere, che stava sempre al fianco dello sposo e badava a tutto. La fidanzata, con i capelli sciolti sotto il velo (Ct 4,1.3; 6,7), che si toglieva solo nella camera nuziale, era riccamente vestita e ornata di gioielli (Sal 45,14-15; Is 61,10). Essa, accompagnata dalle amiche (Sal 45,15), era portata in casa dello sposo, dove i genitori pronunciavano una formula di benedizione. Si cantavano canti d'amore (Ger 16,9), che celebravano le doti e le virtù dei due sposi, dei quali abbiamo delle testimonianze nel Sal 45 e nel Cantico dei Cantici. - Per questa nota cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Ed. Casa Editrice Marietti, Genova 2002; H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, Ed. Arnoldo Mondadori Editore Spa,Cles (TN) 1999.

3Alcuni codici maiuscoli, tra i quali D hanno completato il quadro inserendo la figura della sposa: “uscirono incontro allo sposo e alla sposa”. Un'aggiunta inutile poiché la figura della sposa non ha alcuna rilevanza nell'economia del racconto, anche perché se le fanciulle formano il corteo della sposa non vanno incontro ad essa, bensì sono con lei. - In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo. Tutte le opere citate.

4L'espressione tedesca “Sitz im leben” letteralmente significa “Il posto nella vita” ed è usata dagli esegeti per indicare il contesto storico e vitale in cui è nato un determinato racconto.
5Cfr. Is 54,5-8; 62,3-5; Ger 2,2; 3,20; Ez 16,3-15; 23,2-9; Os 2,2-10
6Cfr. Sal 17,29; 18,9; 26,1; 35,10; 42,3; 43,4; 88,16; 103.1-2; 117,27; 118,105; Prv 6,23; Is 2,5; 9,1; 51,4; 60,1.19.20; Mi 7,8; Ab 3,4;.-
7Cfr. Mt 9,15; Mc 2,19-20; Lc 5,34-35; Gv 3,29
8Cfr. Ef 5,22-32; Ap 19,7; 21,2.9; 22,17;
9 L'olio, che nella Bibbia viene citato duecentoquattro volte, assume significati diversi a seconda dei casi. Nell'antichità era impiegato molto per curare le ferite e le malattie; basti pensare che a Babilonia il medico era chiamato “asu”, cioè conoscitore di oli. Il suo uso, inoltre, serviva per consacrare i re, i sacerdoti e gli oggetti destinati al culto; era anche segno della predilezione divina e segnava una sorta di spartiacque tra l'unto e il resto del popolo. L'atteso inviato di Jhwh era chiamato l'Unto, per eccellenza, Mashiah, tradotto in greco con Cristo. Era anche, assieme al grano e al vino, segno dell'abbondanza e della benedizione divina. Esso faceva parte anche del sacrificio delle primizie e dei primogeniti e veniva incluso nel pagamento delle decime. Era ampiamente e variamente usato in ogni situazione. - Sulla questione si cfr. la voce “Olio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia e in M. Lurker, Dizionario dell Immagini e dei Simboli Biblici. Tutte le opere citate.

10Cfr. At 8,14; 11,1; 12,24; 13,49; 14,21; Rm 10,14-17; Ef 1,13-14; Col 3,16; 1Ts 2,13; Tt 1,1-3; 1Pt 1,23; Gc 1,18;

11Cfr. Mt 28,19a.20a; At 5,20; 6,3-4; 14,7; 18,5; 1Cor 1,17a.;

12Sardi era una città della provincia romana dell'Asia, ad ovest dell'attuale Turchia. Essa era la capitale dell'antico regno di Lidia, che fu il più potente avversario che i Greci trovarono sul loro cammino nella loro prima colonizzazione dell'Asia Minore. Essa, sotto il re Creso, divenne proverbiale per la sua ricchezza e il suo benessere, fondato sul commercio di stoffe pregiate e sull'oro, che veniva ricavato dal fiume Pactolo. Venne sconfitta dal re Ciro nel 546 a.C., dopo un duro assedio, e da allora non si riebbe più.

13Il versetto allude ad una funzione dell'amico dello sposo, quello di attestare la verginità della sposa. Si parla, infatti, qui dello sposo che possiede la sposa, alludendo all'atto sessuale, e l'amico dello sposo è lì presente, fuori dalla porta della stanza da letto, e attendeva la voce dello sposo, che con gioia attestava la verginità della sua sposa. In tal senso cfr. Yves Simoens, Secondo Giovanni, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 2002.

14Il prescritto della 1Pt si apre indirizzando lo scritto “ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia” (1Pt 1,1).

15Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.516 – op. cit.

16Una mina equivale a 100 denari ed è pari ad un sessantesimo di un talento, che equivale pertanto a 6.000 denari. Per capirne le dimensioni reali, basti pensare che un denaro corrispondeva al salario di una giornata di lavoro di un operaio (Mt 20,2).

17In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo; G. Rossé, Luca; R. Fabris, Luca. Tutte le opere citate.

18Cfr. Mt 10,10,40-42; 23,8.10.34;

19Cfr Mt 5,23-24; 18,15-17; 28,19-20a;

20Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pag.666 – op. cit.

21Cfr. la voce “Numeri” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.

22Cfr. Mc 16,2.9; Lc 24,1; Gv 20,1.19

23Il sotterramento dell'unico talento da parte del terzo servo sembra seguire le disposizioni rabbiniche secondo le quali chi sotterra un deposito è sollevato da ogni responsabilità. In tal senso si cfr. la nota n. 4, pag. 517 dell'opera di R. Fabris, Matteo – op. cit.

24Cfr. 1Cr 16,34; 2Cr 5,13; 7,3; 30,18; Sal 24,8; 33,9; 85,5; 99,5; 102,8; 105,1; 115,5; 134,3; 144,9; Ger 33,11; Na 1,7; Dn 3,89; Sap 15,1. - Cfr. anche il commento al v.19,16 della presente opera.

25Cfr. Dt 7,9; Sal 17,51; 30,6; 32,4; 85,15; 142,1; 145,6; Sap 15,1; Is 49,7; 65,16; Dn 9,4; Os 12,1; 1Cor 1,9; 10,13; 1Ts 5,24; 2Ts 3,3; 2Tm 2,13; 1Pt 4,19; Ap 1,5; 3,14; 19,11.

26Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.517; op. cit.

27Il termine œqnoj (étznos) ricorre in Matteo 13 volte, contro le sole 5 in Marco e Giovanni e 10 in Luca.

28Il giudaismo, in particolar modo quello ellenistico, chiamato a convivere con il mondo pagano, si pose il problema della salvezza dei pagani, considerato che Dio è unico per tutti e creatore di tutti. Solo Israele, dunque, era chiamato alla salvezza? Soltanto a lui era riservata? In questa prospettiva era sorta l'idea dei comandamenti noachici, cioè dati da Dio a Noè e posti alla base di un comportamento morale naturale, proprio di tutti gli uomini. Non si chiede, pertanto, l'adesione ad una religione, di credere a certe dottrine, ma soltanto di vivere in un certo modo, poiché importante non è conoscere il mistero di Dio, ma praticare la Torah. Fondamento di questa convinzione è Lv 18,5: “Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali, chiunque le metterà in pratica, vivrà. Io sono il Signore”. Un principio, questo, che ha informato non solo i rapporti del giudaismo con il mondo pagano, ma anche di quelli del nascente cristianesimo; un principio che ritroviamo molto simile nel discorso di Pietro al centurione Cornelio e che contiene quel principio di universalità della salvezza, che apre le porta a tutti i popoli di buona volontà: “[...] In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chiunque lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). I comandamenti noachici, sette in tutto, la cui attuale formulazione risale ad una elaborazione rabbinica del II sec. d.C., prevedono il non praticare l'idolatria, non bestemmiare, non spargere il sangue, non compiere unioni illecite, non rubare, non mangiare un animale vivo, praticare la giustizia e favorire la legalità. Ne troviamo un'eco nelle raccomandazioni che Giacomo, capo della chiesa di Gerusalemme, a termine del primo concilio (49 d.C.), rivolge alla chiesa di Antiochia, di Siria e della Cilicia: “<<[...] Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Farete quindi cosa buona a guardarvi da queste cose. State bene>>” (At 15,28-29). E così similmente in At 15,20. - Cfr. Paolo de Benedetti, Introduzione al Giudaismo, Editrice Morcellania, Brescia 2001; e A. R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, op. cit.

29In tal senso cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

30Cfr. Mt 5,21.22; 7,2.19; 10,15; 11,22.24; 12,36.41.42; 16,27; 19,28.-

31Cfr. Mt 3,12; 10,34; 12,30; Lc 3,17; 11,23; Gv 3,16b.18; 5,22.27; 16,6a; 2Ts 1,7-8

32Cfr. Sir 47,11; Is 22,23; Ger 14,21; 17,12;

33Cfr. anche Ef 2,11-22

34Per il dar da mangiare agli affamati cfr. Is 58,7; Ez 18,7.16; Prv 25,21; Gb 31,17; Tb 1,16; 4,16. Per il dar da bere agli assetati cfr. Prv 25,21. Per l'accogliere i forestieri cfr. Is 58,7; Ger 3,21; Gb 31,32. Per il vestire gli ignudi cfr. Gb 31,19; Tb 1,16; 4,6. Per visitare gli ammalati cfr. Sir 7,35. Per visitare i carcerati cfr. Is 58,7. Nell'insegnamento rabbinico le opere di carità avevano ricevuto una particolare attenzione. Esse erano un segno di riconoscimento del proprio essere figli di Abramo. - Per questa nota cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pag. 673 – op. cit.

35Il termine benedizione è la traduzione del vocabolo ebraico berakah che ha stretta attinenza con la fecondità. Essa ha la sua origine in Dio. Significativo è quanto dice Gen 1,22.28 e 9,1.7 dove l'autore associa la benedizione di Dio alla fecondità dell'uomo. Egli è fecondo perché è investito dalla benedizione divina.

36Il libro di Isaia, composto di 66 capitoli, è una sorta di trilogia, che raggruppa scritti di tre profeti diversi, dislocati in altrettante epoche. Gli esegeti vedono un primo o proto Isaia, quello autentico, nei capp. 1-39, collocato tra il 740 e il 700 a.C.; un secondo o deutero Isaia nei capp. 40-55, in epoca esilica, tra il 597-538; un terzo o trito Isaia nei capp.56-66, in epoca postesilica, tra il 520-445 a.C. - Le date sono chiaramente orientative, così come sotto il nome di Isaia si raccolgono numerosi autori, che si sono ispirati al pensiero isaiano, ma rimastici anonimi. - Cfr. la voce “Isaia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; A.Hari, E. Lafont, A.Rebré, C.Wiéner, M. Wirth, Alla scoperta della Bibbia, cammino di un popolo, storia di un libro – l'Antico Testamento, Elle Di Ci, Torino 1990.

37Sodoma e Gomorra sono le due città, i cui abitanti conducevano una vita perversa e pervertita. Esse furono distrutte da Dio con una pioggia di zolfo e fuoco (Gen 19). Le due città, nella predicazione dei profeti, divennero il simbolo del male e del castigo divino (Is 1,9.10; 13,19; Ger 23,14; 49,18; 50,40; Am 4,11; Sof 2,9).

38Cfr. Os 6,6; Mt 9,13; 12,7; 23,23.

39Matteo non è nuovo a queste identificazioni degli umili e dei discepoli con Gesù (10,40; 18,5). Una identificazione, che ha preparato nelle Beatitudini (5,1-13) e nella benedizione che Gesù rivolge al Padre per aver preferito gli ultimi, al termine della quale invita gli affaticati e gli oppressi a venire a lui per riceverne ristoro (11,25-28). Ma già nell'A.T. si rilevava la stretta e diretta relazione che intercorreva tra Jhwh e i poveri: “Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora” (Prv 14,31) e similmente in Prv 17,5.

40Cfr. Mt 9,13.36; 12,7; 14,14; 15,32.

41I termini povero o indigente o bisognoso ricorrono nell'A.T. 165 volte e nel Pentateuco o Torah 15 volte.