IL VANGELO DI MATTEO


Il quinto grande discorso di Gesù

Capp. 24-25


Una pressante esortazione alla vigilanza



Parte Prima – Cap. 24




Introduzione


L'ultimo grande discorso di Gesù è il secondo in ordine di grandezza quantitativa ed occupa per intero i capp.24-25, per complessivi 97 versetti. La prima posizione, invece, è tenuta dal primo grande discorso, che si estende per ben tre capitoli (5-7) e raccoglie un totale di 111 versetti. Ma il quinto discorso, rispetto agli altri quattro, solletica molto la fantasia degli amanti del catastrofismo e dei facili profeti di sventura, i quali, a quanto pare, abbondavano anche nel I sec. Non v'è dubbio che verrà la fine del mondo, ma ancor prima verrà la fine di ogni singolo uomo. Tutto ciò che è racchiuso nella dimensione spazio-temporale ha un inizio, un decorso e una fine. Da questa logica non scappa nessuno, neppure Gesù si è sottratto ad essa. Tuttavia, come si vedrà subito, è lontano dalla mente degli evangelisti il fare predizioni sul futuro. Matteo, come gli altri due sinottici, non è una Cassandra né tantomeno un Nostradamus ante litteram, bensì è un responsabile di comunità e un pastore d'anime, molto preoccupato per come si stavano mettendo le cose all'interno delle sue comunità e per l'ostile contesto storico, sociale e religioso in cui esse vivevano. Egli, pertanto, deve dare una risposta ai problemi delle sue comunità e fornire loro una corretta chiave di lettura di quanto formava, probabilmente, l'oggetto delle loro discussioni e delle loro paure, ponendo fine a speculazioni e a fomentazioni da parte di sobillatori, agitatori ed esaltati, che egli definisce, tout-court, falsi profeti e ingannatori (vv.11.24), da cui bisogna guardarsi (vv.4-5.23b.26). Sembrano, infatti, proprio questi la spina nel fianco di Matteo, se si pensa che essi vengono richiamati per ben quattro volte1 nel cap.24; inoltre gli eventi catastrofici descritti nella pericope 24,6-25 sono inclusi dai vv. 4-5 e 23-24, che parlano di questi ingannatori. Segno questo che gli eventi che l'autore cita sono oggetto della predicazione di questi fantasiosi sobillatori. Matteo, dunque, riprende qui gli eventi che agitavano la società del suo tempo e le sue comunità e li rilegge in chiave escatologica, utilizzando il linguaggio proprio dell'apocalittica giudaica, riadattata alle logiche cristiane. All'interno di questa rilettura egli fornisce delle indicazioni sul come comprendere correttamente questi eventi e come porsi al loro interno. Lo sfondo su cui si muove l'intero discorso è squisitamente parenetico, non solo per gli intenti pastorali, ma anche perché disseminato qua e là da numerose esortazioni e indicazioni2.

La sanguinosissima guerra giudaica (66-73 d.C.) era da poco finita e aveva lasciato dietro di sé una scia impressionante di morti, profondi risentimenti e una grande voglia di rivalsa3. Il tempio, centro della vita sociale, culturale e religiosa del giudaismo, era distrutto assieme a Gerusalemme. Il sacerdozio ebraico, i sacrifici, il culto al tempio e tutto ciò che vi ruotava attorno drammaticamente finito per sempre. Si stava stagliando all'orizzonte un nuovo tipo di giudaismo, quello rabbinico (70 d.C.), incentrato non più sul tempio, bensì sulla Torah e la sua interpretazione. Svanito il sacerdozio, una nuova classe dirigente si andava affermando, quella degli scribi e dei farisei, gli specialisti della Legge, contro i quali tuonerà Matteo4 al cap.23 e in particolare al v.23,25. Contro questo nuovo giudaismo le comunità matteane e palestinesi in genere innescarono un confronto molto polemico e duro, generando una netta rottura con il mondo giudaico, contrapponendosi ad esso6. La risposta fu immediata e violenta: anatemi, persecuzioni, imprigionamenti e uccisioni dei primi nuovi credenti da parte del giudaismo7. Le tensioni sociali e religiose si insinuavano non solo all'interno delle prime comunità, ma anche all'interno delle stesse famiglie dei primi credenti e all'interno dei loro rapporti di amicizia e sociali in genere, arrivando anche a rompere l'unità naturale della famiglia e creando in essa odi e divisioni tra i suoi stessi componenti (Mt 10, 21-22; 24,10). Non tutti, infatti, avevano accolto l'annuncio del vangelo. In questo contesto di forte e talvolta drammatica tensione era molto viva l'attesa della venuta finale di Gesù, che rivestito della sua gloriosa onnipotenza8, avrebbe dovuto sottomettere i suoi avversari e instaurare definitivamente il suo regno di giustizia e di pace9. In questo contesto di attesa c'era probabilmente chi azzardava dei tempi su questa venuta; chi additava in qualcuno il Gesù ritornato (vv.23.26) e chi addirittura si spacciava egli stesso per il Cristo atteso (v.5b). Matteo, infatti, sente la necessità di controbattere queste attese e pretese fantasiose quanto pericolose, sottolineando con forza come il tempo non sia conosciuto da nessuno (v.42.44) se non dal Padre soltanto (v.36); mentre, quanto ai truffatori che si spacciavano per il Cristo ritornato (v.5) o quanto alle voci che lo davano già ritornato, indicandolo in questo o in quell'altro personaggio, che si aggirava tra le comunità (v.23-24), o in questo o in quell'altro luogo (v.26), in modo categorico egli nega queste eventualità e con la forza della sua autorità impone: “Guardate che nessuno vi tragga in inganno” (v.4), “non ci credete” (vv.23b;26c), “non ci andate” (v.26b); e contrattacca presentando, invece, la venuta di Gesù improvvisa, inaspettata e travolgente, così come lo fu il diluvio ai tempi di Noè (vv.27.37-39). Tuttavia all'interno di questa attesa, sentita come imminente e agitata da pericolose fantasie, si poneva un altro problema molto serio: l'inspiegabile e imbarazzante ritardo della venuta finale di Gesù, che causava sfiducia, rilassamento spirituale, delusione, defezioni, agitazioni e ironia da parte degli avversari10. La compattezza iniziale delle comunità si stava lentamente allentando e necessitava, quindi, di un ricompattamento, fondato su due elementi: una ricomprensione della storia della salvezza in termini temporali più lunghi di quelli fin lì pensati e, soprattutto per il presente, una sferzante esortazione dei credenti alla vigilanza e all'impegno di un fare fecondo nel bene, nell'attesa di una certa, anche se tardiva, venuta del Signore, che portava con sé il giudizio finale.

Sarà, infatti, il tema della vigilanza e dell'operosità nel bene, l'obiettivo primario di quest'ultimo grande discorso. Non a caso questo tema attraverserà entrambi i capitoli: 24,32-25,30, mentre il tema del giudizio finale (25,31-46), severo ammonimento per tutti, concluderà il cap.25 e con questo l'attività predicatoria di Gesù. Gli ultimi tre capitoli saranno dedicati per intero alle drammatiche vicende della passione e morte di Gesù (26-27) e alla sua risurrezione (28). Significativa, infine, è la posizione che occupa questo quinto grande discorso nell'ambito dell'economia narrativa, posto a ridosso della passione e morte di Gesù. In esso, come si è visto, si parla di guerre, di persecuzioni, di sconquassi sociali e religiosi, che stavano travolgendo il popolo e le stesse comunità credenti. Il porre questi eventi a ridosso della passione e morte di Gesù crea uno stretto legame e un'associazione con queste. In tal modo Matteo fornisce anche una chiave di lettura agli eventi difficili e talvolta drammatici, che le sue comunità stavano vivendo. Le sofferenze, i disagi, le persecuzioni, le ghettizzazioni, le incarcerazioni, le accuse, le preoccupazioni, le divisioni all'interno delle famiglie, i tradimenti compiuti dagli amici, la stessa morte, tutto ciò deve essere inteso come una partecipazione alla passione e alla morte di Gesù. Paolo esprimerà bene questo concetto nella sua lettera ai Romani: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 6,3-6). Anche se qui Paolo parla dell'uomo vecchio associato alla morte di Gesù, tuttavia è fondamentale e innovativo il concetto che il credente nel suo vivere è associato al vivere stesso di Cristo. In tal senso l'Apostolo, rivolto alle sue comunità della Galazia, non teme di affermare: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a), ponendo una stretta identità tra il suo vivere e quello di Cristo, anzi, il suo vivere è stato assorbito in Cristo, così che non è più lui che vive, ma Cristo vive ed opera in lui. Vi è dunque per il credente una cristificazione, che si radica nella fede e si completa nel battesimo.

La struttura del quinto grande discorso è piuttosto complessa, in quanto molto articolata ed elaborata, ma come si noterà, lascia trasparire tutta la preoccupazione di Matteo per una situazione di tempi difficili, che rischiavano di travolgere le sue comunità. Questa lettura strutturale è soltanto una proposta, poiché sul suo dispiegarsi le indicazioni sono numerose, a seconda della comprensione dei singoli esegeti. Tutto ciò è indice di fervore nella ricerca e di ricchezza reciproca. Ogni punto di vista arricchisce e aiuta a comprendere meglio la Parola, nella quale soffia sempre lo Spirito.

La struttura dei capp. 24-25


A) vv.1-3: introduzione e impostazione al quinto discorso;

B) vv.4-31: gli eventi, fonte dei timori e delle paure che agitavano le prime comunità. Questi sono classificati in quattro gruppi suddivisi in due parti: la prima, riguardante l'umanità in genere, comprende i primi tre gruppi; la seconda ospita i disastri cosmici, seguiti immediatamente dal giudizio universale (vv.29-31). All'interno di ogni gruppo l'autore pone un'esortazione o dà un indirizzo da seguire. Probabilmente questi interventi sono le vere risposte mirate che l'autore, quale buon pastore, dà concretamente ad ogni singolo problema presente nelle sue comunità:

a) vv. 4-5: il preambolo: il giusto atteggiamento nell'affrontare i problemi: prudenza e attenzione a non lasciarsi ingannare. Primo avvertimento di fondo, che verrà ripreso altre tre volte, al v.11 e ai vv.23-24 e v.26;

b) vv. 6-8: il primo gruppo: le guerre, che sconvolgono i popoli; l'annotazione è accompagnata da esortazioni e indicazioni;

c) vv. 9-13: il secondo gruppo: le persecuzioni dei nuovi credenti a causa della loro fede. I pericoli per la fede. Anche qui vi sono esortazioni e indicazioni per affrontare la difficile situazione (vv.12-13);

d) vv.14: l'intermezzo indicativo: quando avverrà la vera fine.

e) vv.15-22: il terzo gruppo: le sofferenze a causa degli sconvolgimenti bellici. Il riferimento qui è alla prima guerra giudaica (66-73 d.C.) da poco passata, ma che ha lasciato un profondo solco di sangue e sofferenza in mezzo al popolo;

f) vv. 23-28: la chiusura della prima parte: esortazioni, avvertimenti e indicazioni: come avverrà la venuta di Gesù. Questi versetti riprendono il preambolo (vv.4-5) e lo portano a conclusione. Si conclude così la prima parte delle disgrazie che colpiscono in vario modo l'umanità, ad ogni livello: i popoli (vv.6-8), i nuovi credenti (vv.9-13) e lo stesso Israele (vv.15-22).

g) vv. 29-31: la seconda parte e il quarto gruppo: i disastri cosmici, che precedono immediatamente e accompagnano l'avvento del Figlio dell'uomo, in potenza e gloria.

h) vv.32-35: la riflessione finale: gli eventi sopra descritti sono il segno dell'imminente venuta di Gesù nella sua gloria. Essi costituiscono una sorta di preambolo al vero tema dell'intero quinto discorso: la vigilanza.

C) vv.36-44: La vigilanza trova la sua giustificazione nel fatto che gli eventi futuri e la venuta del Figlio dell'uomo non sono noti a nessuno, ma soltanto al Padre. Esortazioni al vigilare.

D) vv. 24,45-25,30: questa ampia sezione raccoglie tre parabole riguardanti il tema della vigilanza: la prima parabola (il servo fedele e quello malvagio) è rivolta ai responsabili di comunità e viene indicato loro il corretto comportamento pastorale da tenere nei confronti delle loro comunità in questo tempo di attesa (vv.24,45-51); la seconda parabola (le dieci vergini) è rivolta alle comunità credenti, sollecitate alla vigilanza (vv. 25,1-13); la terza parabola (i talenti) sollecita il buon uso del tempo presente, cercando di far fruttificare al meglio il dono della fede e dei beni spirituali da essa proveniente nell'attesa della venuta del Signore (vv.25,14-30);

E) vv.25,31-46: racconto del giudizio universale, che da un lato funge da monito a tutti i credenti; dall'altro dice come anche i non credenti sono coinvolti in questa venuta finale del Cristo glorioso e plenipotenziario e saranno giudicati in base alla legge dell'amore.



Analisi e commento al Cap. 24


Una lettura degli eventi del I° secolo in chiave escatologica,
preordinata a sollecitare la vigilanza
nell'attesa della venuta finale del Signore




I vv.1-3 costituiscono la cornice introduttiva all'intero quinto discorso e ne forniscono la chiave di lettura. Il discorso inizia con un elogio del Tempio di Gerusalemme da parte dei discepoli, che si scontra con le disastrose previsioni da parte di Gesù. I discepoli, che qui sembrano incarnare in qualche modo le comunità giudeocristiane di Matteo, ancora legate al culto del Tempio, devono ora misurarsi con la dura realtà dei tempi nuovi, che vedono al centro del nuovo culto la persona stessa del Risorto, che ha decretato la fine dell'antico culto, incarnato dal Tempio. Non è casuale, infatti, che tutto inizi con l'attenzione puntata sul Tempio sia perché questo era il centro culturale, religioso, politico e sociale per antonomasia, espressione della vita stessa del popolo, il cuore d'Israele; sia perché, secondo la tradizione giudaica, la fine del Tempio coincideva con la fine del mondo e l'avvento del Regno di Dio. Fine del Tempio, quindi, significava fine del giudaismo, fine del culto, fine delle promesse per lasciare spazio ai tempi nuovi. Matteo coglierà questa tradizione, ma la volgerà in senso cristiano: la fine del Tempio dice la fine dell'antico culto per lasciare spazio ad un nuovo culto che trova in Cristo e non più nel Tempio il suo baricentro.

Il v.1 inizia in modo significativo: da un lato, ci viene presentata l'uscita di Gesù dal Tempio e il suo allontanamento da questo, dall'altro l'avvicinarsi dei discepoli a Gesù. Questo doppio movimento di uscita-allontanamento e di avvicinamento, dice il radicale cambio di rotta che il rapporto con Dio, fino ad allora fondato sulla Legge mosaica e sui sacrifici di animali, ha subito con l'avvento di Gesù. Questi esce e si allontana dal Tempio, metafora di un Dio che abbandona la sua antica dimora per trasferirsi in quella nuova, non più fatta da mani d'uomo (Mc 14,18). C'è uno spostamento del baricentro: dalle cose materiali, ombra di quelle future11, a quelle spirituali12. E attorno a questo nuovo Tempio (Gv 2,21), che supera di gran lunga l'antico Tempio (Mt 12,6), si raccoglie la prima comunità credente: “si avvicinarono a lui i suoi discepoli”. Tuttavia, quella matteana, è una comunità, che non ha ancora operato una scelta radicale e definitiva, ma si diletta ancora a contemplare l'antico Tempio13, che indica a Gesù, quasi forse con rimpianto.

Il v.2 annuncia, sotto forma di profezia14, la tragica fine del Tempio di Gerusalemme e con questo la fine di un giudaismo fondato sul sacerdozio e sui sacrifici. Si tratta chiaramente di una “profezia” post eventum15, che riecheggia in sé quella di Michea 3,12: “Perciò, per causa vostra, Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diverrà un mucchio di rovine, il monte del tempio un'altura selvosa”, ripresa poi anche da Geremia in 26,18. Tuttavia l'intento dell'autore è fornire qui una doppia chiave di lettura di quanto è successo: da un lato egli vede la distruzione del tempio e di Gerusalemme come un castigo divino per il rifiuto che Israele ha opposto a Gesù (Mt 23,37-38); dall'altro vede in questa la fine dell'antico culto, indicando in Gesù l'inizio di quello nuovo. Quest'ultima sua rilettura verrà rimarcata nel momento della crocefissione, osservando come il velo del tempio, che copriva il Sancta Sanctorum, luogo della presenza di Dio, si squarciò (Mt 27,51), per indicare che la reale presenza di Dio non è più nel Tempio, ma in Gesù, vera dimora di Dio in mezzo agli uomini (Ap 21,3), che il Padre ricostituirà con la potenza del suo Spirito (Gv 2,19-21; Rm 1,4).

Il v.3 è scandito in due parti: a) viene presentata la scena di Gesù seduto sul monte degli Ulivi, nel mentre che i suoi discepoli si avvicinano a lui; b) i discepoli formulano la domanda. Queste due indicazioni dell'autore (Matteo è l'unico dei Sinottici a fornirle) danno, da un lato, un'intonazione squisitamente didattica e parenetica all'intero discorso (a); dall'altro, dividono il cap.24 in tre blocchi narrativi. Il Gesù seduto sul monte e i suoi discepoli che gli si avvicinano introducono il lettore in un contesto di insegnamento e di esortazione, evidenziando il senso didattico e parenetico del quinto discorso. La posizione di Gesù, infatti, è quella propria del maestro; una posizione che richiama da vicino l'introduzione al primo grande discorso dove “Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli” (5,1). Anche qui il primo discorso si rivelerà un insegnamento rivolto ai discepoli (5,2). Significativo è il particolare del Gesù che siede sul monte degli Ulivi, posto a circa un chilometro ad est dalla città di Gerusalemme. Da un lato il monte è considerato dagli antichi come la dimora di Dio, dall'altro il monte degli Ulivi è ritenuto dalla tradizione profetico-apocalittica come il luogo della manifestazione di Dio nella storia di Israele (Ez 11,22-23; Zc 14,4)16. Il quadro che ne esce è l'immagine di un Gesù-Dio (“seduto sul monte”), che impartisce un insegnamento ai suoi discepoli per mezzo della rivelazione (monte degli Ulivi), caricando in tal modo d'importanza l'intero quinto discorso.

La domanda posta dai discepoli a Gesù probabilmente riassume gli interrogativi che riecheggiavano all'interno della comunità matteana: “quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del tempo?”. Tuttavia, da un punto di vista narrativo, la triplice domanda scandisce anche i blocchi narrativi del discorso escatologico. La prima domanda (guerra e distruzione del Tempio) trova la sua risposta nei vv.6-8.15-22; la seconda domanda, che ha per tema la venuta finale di Gesù, ha il suo scioglimento nei vv.5.23.26-28.30-33.36-39.42 e verrà poi amplificata in tre parabole, il cui intento è precisare le modalità dell'attesa della venuta del Signore: vigilanza (vv.42-51; 25,1-13) e operosità nel bene (vv.25,14-30); alla terza domanda, circa la fine dei tempi, rispondono, invece, i vv.6.14.29.

vv. 4-28 Nella parte introduttiva al quinto grande discorso di Gesù ci siamo soffermati a lungo sulla sul contesto storico-sociale e religioso in cui era posta la comunità matteana, formando tale contesto lo sitz im leben di questo ultimo discorso di Gesù, la cui primaria finalità è sospingere i nuovi credenti alla vigilanza e all'impegno nel fare il bene nell'attesa della venuta finale di Gesù, sentita come imminente. Per poter meglio comprendere questa ampia pericope, di certo non facile da interpretare, sintetizzerò qui di seguito i punti salienti, che formeranno da chiave di lettura. Innanzitutto va detto che i cristiani del I sec. vivevano in una forte tensione escatologica ed erano animati dall'attesa del ritorno glorioso di Gesù, che sentivano imminente. Tale tensione era alimentata anche dal concomitante contesto escatologico ed apocalittico in cui viveva, in buona parte, anche il giudaismo, dal quale provenivano le comunità matteane e palestinesi in genere. Si pensi alla comunità di Qumran, tutta organizzata e proietta verso l'avvento finale di Jhwh, di cui essa si sentiva l'apripista e si stava preparando alla grande battaglia finale tra il Bene e il Male. Questa era la cornice entro cui vivevano le prime comunità credenti. Su questo sfondo di attesa si collocavano eventi, se non drammatici, certamente molto difficili, che si ripercuotevano sui primi credenti: la guerra giudaica, terminata solo da qualche anno e i cui drammatici segni erano ancora sotto gli occhi di tutti; le persecuzioni contro i nuovi discepoli, che vivevano in un ambiente, anche familiare, loro ostile; le pretese di Caligola di innalzare una sua statua all'interno del Tempio (40 d.C.), episodio questo che doveva richiamare da vicino la profezia di Daniele circa “l'abominio della desolazione” (Dn 9,27), cioè la piccola ara, consacrata a Zeus Olimpico, e la statua che Antioco Epifane IV aveva fatto erigere sull'altare dei sacrifici del Tempio e che provocò la rivolta dei Maccabei (1Mac 1,54-59). Su questi episodi numerosi sedicenti profeti o semplicemente infatuati ed esaltati da questo clima di attesa, agitato da eventi drammatici e inquietanti, profetizzavano l'imminente fine dei tempi o annunciavano la presenza del Cristo ritornato o essi stessi si presentavano come il Cristo ritornato. Clima, dunque, di paura e da fine del mondo, clima di confusione e di agitazione, che di certo non aiutavano a vivere con serenità e proficuità la propria fede e che rischiava di sfaldare le ancor fragili comunità credenti. Questo il contesto, che spinse Matteo a scrivere questo quinto discorso, cercando di dare una corretta interpretazione degli eventi, sollecitando e sferzando la sua comunità ad un impegno più serio nella fede e nel fare il bene.

I vv.4-5 e 23-24 formano tra loro inclusione e determinano narrativamente la pericope in esame, dando unità narrativa agli eventi qui ricompresi; ma nel contempo, rafforzati anche dal v.11, questi versetti lasciano intendere come questi eventi siano oggetto della predicazione di falsi profeti e di agitatori. Matteo, pertanto, riprendendo in termini escatologici questa loro predicazione, dà una corretta lettura degli eventi, sbugiardando questi fomentatori di ingiustificate paure e timori.

I blocchi degli eventi presi in esame in questa pericope (vv.6-22) sono tre: il primo (vv.6-8) e il terzo (vv.15-22) sono tra loro complementari. Il primo, infatti parla delle guerre e della conflagrazione tra i popoli; mentre il terzo parla degli effetti, che questa conflagrazione ha in mezzo alla popolazione: sofferenza, dolore e morte. Il secondo blocco (vv.9-13) parla, invece, delle persecuzioni e dei loro effetti sulle comunità credenti e al loro interno. Con il posizionare questo secondo blocco in mezzo al primo e al terzo, l'autore raggiunge un duplice obiettivo: a) mettere in rilevo le persecuzioni, sottolineandone l'importanza per la sua comunità, accentrando l'attenzione su di esse; b) collocare l'evento persecuzione all'interno di una guerra letta come escatologica, dando in tal modo un tono escatologico anche alle stesse persecuzioni.

Il primo blocco, preso in esame, sono i rumori di guerra e le sollevazioni dei popoli (vv.6-8), quasi certamente quella giudaica, da poco terminata (70 d.C.) e non ancora del tutto sedata17. Chi voleva leggere in questi eventi di conflitti tra i popoli lo sconquasso, che annunciava la fine dei tempi, si sente rispondere da Matteo che questa non è la fine (v.6c), ma soltanto l'inizio dei dolori (v.8). L'autore quindi accetta le guerre e i conflitti tra i popoli quale segno escatologico, ma non definitivo o determinante per la fine dei tempi. Questa egli la riserverà per l'evento che gli sta più a cuore: la diffusione del Vangelo tra le genti (v.14). Il tempo della fine, dunque, non è scandito dall'uomo, ma da Dio, che deve portare a termine la sua opera. Il verbo al futuro passivo (khrucq»setai, keructzésestai), “sarà annunciato” rimanda all'azione divina, mentre il tempo al futuro sposta l'imminenza della fine dal presente al futuro escatologico, il vero tempo di Dio. I rumori, quindi, che gli uomini provocano non determinano la fine, che invece è nelle mani di Dio, il quale conduce i tempi del vivere e del morire, a suo piacimento. Giovanni nella sua Apocalisse vede “[...] nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”. Esso rappresenta la storia che è pienamente scritta da Dio e sigillata dal segreto divino posto su di essa. Solo l'Agnello, il Cristo risorto, può accedere al segreto e dare attuazione al disegno del Padre nella storia dell'uomo. Non spetta all'uomo conoscere i tempi, ma soltanto al Padre, ricorderà il Gesù lucano negli Atti degli Apostoli ai suoi discepoli, bramosi di conoscere il tempo della costituzione del regno di Israele. Ad essi spetta solo l'annuncio del vangelo alle genti fino ai confini della terra, animati dalla forza dello Spirito (At 1,6-8). Anche qui risulta primario e vincente su tutte le attese catastrofiche o apoteosiche degli uomini la diffusione dell'annuncio del Vangelo, poiché questo è la spina dorsale della salvezza.

Un altro tema, che probabilmente formava l'oggetto di annunci e di discussioni, erano le dure persecuzioni a cui erano soggette le prime comunità cristiane del I sec. La pericope qui è costruita con versetti tra loro paralleli, concentrici in C) e legati tra loro da causa (le persecuzioni vv.10.11) ed effetti (gli effetti deleteri sulle comunità, vv.13.14). Vengono prese qui in considerazione due tipi di persecuzione: esterna, causata da giudei e pagani (v.9) e quella intracomunitaria, conseguenza della prima (v.10). A queste rispondono altrettanti effetti sulle comunità:


A) v.9: Persecuzione proveniente dall'esterno: a motivo dell'adesione alla nuova fede i credenti sono perseguitati e uccisi sia dai giudei che dai pagani;

B) v.10: Persecuzione proveniente dall'interno: a motivo della pressione causata dalla persecuzione esterna, molti credenti cedono e diventano a loro volta persecutori dei loro fratelli, cadendo nel baratro delle reciproche denunce e del reciproco disprezzo. Comunità dunque lacerate al loro interno;

C) v.11: all'interno di queste persecuzioni nascono dei falsi profeti, che tendono a distorcere i fatti, dandone spiegazioni ingannevoli e rimestando le acque già torbide;

B') v.12: Il primo effetto deleterio delle persecuzioni intracomunitarie, che minano l'unità delle comunità credenti, pregiudicandone l'esistenza, è il raffreddamento dell'amore nei suoi membri, cioè il venir meno da quel vincolo di solidarietà e di amore che lega tutti in Cristo, facendo in esso un solo corpo. È dunque un corpo che si va disfacendo. L'iniquità a cui qui si accenna, infatti, sono le persecuzioni e gli odii causati dai fratelli di fede. Il moltiplicarsi dell'iniquità allude al diffondersi delle delazioni e delle accuse contro i membri delle comunità ad opera di altri membri ancora, che sotto la pressione delle persecuzioni esterne denunciano i propri fratelli.

A') v.13: il secondo effetto, questa volta positivo, delle persecuzioni provenienti dall'esterno è il resistere loro fino alla fine, cioè fino al sacrificio della propria vita. Da un punto di vista tecnico, questo è l'unico mezzo che consente non solo la salvaguardia della propria fede, ma, resistendo alle pressioni esterne che spingevano alla delazione, evita anche lo sfaldamento delle comunità. Il premio per questi gesti eroici, che puntano a salvare la propria fede e i propri fratelli, nonché l'unità della stessa comunità, è il dono della salvezza elargito da Dio stesso. Il verbo al passivo futuro, infatti, dice che l'azione della salvezza proviene da Dio, mentre il tempo al futuro, il tempo di Dio, parla della salvezza escatologica.

Il parallelismo concentrico di questa pericope (vv.9-13) è dato, da un lato, dall'enunciazione degli eventi nei vv. 9 e 10 e, dall'altro, dai loro effetti indicati nei vv.12 e 13. Al centro, v.11, si colloca il problema di fondo, che alimenta la situazione di disagio e di confusione: i falsi profeti, che ingannano e contro i quali Matteo si sta scagliando con questa prima parte del quinto discorso, proponendo, invece, nella seconda parte i rimedi a tutto questo frastuono sovversivo e destabilizzante (vv.24,45-25,30).

I vv. 15-25 vanno a completare il primo gruppo di eventi calamitosi, quello delle guerre e delle sollevazioni dei popoli (vv.6-8). Si tratta di un'analisi degli effetti che la guerra giudaica ha provocato all'interno del popolo ebraico: l'offesa al tempio e i gravi disagi generati dalla guerra. Dalla guerra, sentita come sollevazione dei popoli, si passa ora, quindi, ad un'analisi delle sofferenze e degli sconquassi da questa provocati fra la gente. L'analisi viene fatta in modo profetico, cioè ripescando noti eventi del passato, vedendo in quelli del presente una sorta di loro riattualizzazione. Il passato, quindi, diventa la chiave di lettura del presente. L'esame viene scandito in tre parti: due letture del passato, che viene proiettato sul presente (vv.15; 16-18); e una lettura del presente, prendendo spunto dallo stesso (vv.19-21). Il tutto termina con una considerazione (v.22).

Il primo episodio, che Matteo mutua dal passato per interpretare il presente, è “l'abominio della desolazione”, espressione che viene ripetuta tre volte nel Libro di Daniele18. Essa, come si è accennato sopra, si riferisce all'erezione di una statua e di una piccola ara, dedicate a Giove Olimpico, sull'altare dei sacrifici del Tempio da parte di Antioco IV Epifane (1Mac 1,54-59). Questa grave profanazione divenne lo stereotipo di ogni sacrilegio e di ogni misfatto, che portò alla distruzione del Tempio di Gerusalemme19. Probabilmente Matteo qui alludeva all'occupazione del Tempio da parte degli Zeloti nel 66 d.C., che lo trasformarono in un luogo di lotte violente20.
Ed ecco ora il rapido e incalzante susseguirsi dei vv.16-18, che danno l'idea del trambusto e del parapiglia, che il dilagare della guerra provoca all'interno della popolazione, quando si sa che il fronte ha ceduto e il nemico dilaga, uccidendo e saccheggiando. La fuga precipitosa e disordinata rimane l'unica via di salvezza. Il richiamo implicito è alla fuga di Lot da Sodoma, che stava per essere distrutta dal fuoco del giudizio divino: “Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: <<Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!>>” (Gen 19,17). Mentre il sollecito a non tornare indietro del v.18 richiama da vicino la moglie di Lot convertita in una statua di sale per aver guardato indietro, mentre Dio stava distruggendo Sodoma (Gen 19,26). In questo contesto, tuttavia, non è da escludersi che Matteo faccia riferimento anche alla fuga dei giudeocristiani da Gerusalemme a Pella, una città della Decapoli, nell'imminenza della guerra giudaica, di cui qui si sta parlando. Un sollecito forse a loro o un ricordo di quella fuga? Efficace letterariamente è, inoltre, quel “oÙaˆ” (uaì) “Guai” posto davanti alle donne, colte nel loro stato di maternità (v.19), nel loro essere datrici di vita e, quindi, simbolo della vita stessa. Quel “oÙaˆ” sembra un lamento funebre, che l'autore pone significativamente solo qui, proprio davanti alla sorgente della vita stessa, quasi ad indicare che essa si è essicata ed ogni speranza è stata tolta all'uomo. Il v.20, invece, si apre all'invocazione che la fuga non avvenga d'inverno o di sabato21, due tempi proibitivi, l'uno per motivi meteorologici, l'altro per motivi religiosi. Di sabato, infatti, non era concesso di camminare più di 2000 cubiti (circa 1000 mt.). Era, dunque, una sorta di catena religiosa che impediva ogni fuga, togliendo ogni possibilità di salvezza.

Il v.21 con un linguaggio squisitamente apocalittico sembra definire, considerato il contesto in cui è inserito, la prima guerra giudaica come una grande afflizione, assolutizzandone i termini, per caricare ancor di più la forza del giudizio di Dio posto su Israele, quasi a vendicarsi del suo rifiuto nei confronti di Gesù (23,37-38).

Il v.22 pone a confronto due gruppi di persone: il primo, definito genericamente “nessuna carne”, si riferisce molto probabilmente ad Israele, considerato il contesto della prima guerra giudaica; mentre il secondo gruppo è formato dagli “eletti”, termine questo con cui si definivano i cristiani del I sec.22. Ora la salvezza di Israele, travolto da questa grande afflizione, dipende proprio dal gruppo degli eletti, grazie ai quali il tempo della grande afflizione viene accorciato. Sono proprio questi, che Israele respinge e perseguita, a salvarlo, offrendogli la possibilità di riscatto, aderendo per mezzo loro all'annuncio del Risorto. Infatti, questi eletti altro non sono che il piccolo gruppo di giudei che hanno accolto l'annuncio di Gesù e che si contrappone ora alla grande massa di Israele. Loro, dunque, in quanto Giudei, sono il vero resto d'Israele, costituito per grazia e non per le opere, qualificato dalla fede e non dalla Torah. In tal senso Paolo, nel suo lungo ragionamento sul destino di Israele, sviluppato nei capp. 9-11 della Lettera ai Romani, afferma “Così anche al presente c'è un resto, conforme a un'elezione per grazia. E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti; gli altri sono stati induriti, come sta scritto: Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire, fino al giorno d'oggi” (Rm 11,5-8). Sono loro, che usciti dal diluvio della grande afflizione, hanno costituito il principio di una nuova umanità, raccolta attorno al Risorto.

Con il v.25 l'autore pone un punto fermo alla prima parte del discorso escatologico: “Ecco, ve l'ho preannunciato”. Matteo, dunque, ha fornito materiale di riflessione alla sua comunità di giudeocristiani, invitandola a leggere attentamente e correttamente gli eventi della storia, senza lasciarsi trarre in inganno dai falsi profeti e dai facili annunciatori di sventure, che Matteo per la terza volta cita (vv.23-24). Segno questo che la sua comunità era funestata da questi agitatori ed esaltati, contro i quali, come si è detto sopra, egli scrive questo lungo discorso. Dunque, “chi legge comprenda” (v.15b).

Con i vv.26-28 Matteo si leva dalla scarpa l'ultimo sassolino, che riguarda l'annuncio del ritorno di Cristo, che alcuni indicavano nel deserto o in qualche casa, altri, invece, vi si identificavano, definendo se stessi il Cristo (vv.5.23.26). Matteo vi torna sopra per ben tre volte (vv.5.23-24.26). Anche questo è un segno come la questione del ritorno di Cristo fosse quanto mai sentita e come molti cercavano di attuarla, dando concretezza alle loro fantasie, creando apprensioni e agitazioni all'interno di una comunità ancora molto fragile. La breve pericope si apre riprendendo il tema del ritorno di Cristo del v.23 e introducendolo ora qui. Finora, infatti, Matteo si era limitato a denunciare questo fantasioso ritorno, imponendo ai suoi soltanto di non crederci e di stare attenti agli inganni (vv.4-5.23.26). Ma ora è giunto il momento di dare una risposta anche a queste pretese. Lo fa riprendendo l'immagine apocalittica e teofanica della folgore; immagine carica del giudizio divino23, che percorre in un baleno e in modo inaspettato e incontrollabile il cielo da una parte all'altra. Un'immagine che meglio riflette la dinamicità dell'onnipotenza divina, che si manifesta con forza, all'improvviso e colpisce inaspettatamente. Si noti come Matteo qui usa l'immagine della folgore contrapponendola alla visione molto umana e terrena del ritorno del Cristo; una visione che rispecchia più che le attese cristiane, quelle giudaiche24. L'immagine della folgore, quindi, diventa dirompente sia perché circonda di divinità e onnipotenza il ritorno del Cristo, sia perché contrappone la dinamicità e lo splendore della folgore alla staticità e all'opacità di un Cristo anonimo, sperduto in mezzo al deserto o in mezzo alla gente. Un'immagine quella di Matteo che meglio rispecchia la visione danielitica del Figlio dell'uomo (Dn 7,13-14), che ritorna con potenza sulle nubi25.

Il v.28, dal sapore proverbiale, riecheggia già in Gb 39,30 e sembra rimarcare la pubblicità del ritorno di Cristo, contrapponendosi alla segretezza del messia atteso dal giudaismo. Tuttavia, a mio avviso, non è da escludersi che Matteo pensasse, con questo proverbio, anche ad un'altra realtà: la sua comunità, che, radunata attorno al Gesù morto-risorto, diventa il segno non tanto del ritorno, ma della continua presenza del Cristo, che in lei e con lei si rende nuovamente presente e cammina lungo la storia degli uomini: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b). Del resto l'intero vangelo matteano è incluso tra le espressioni “Emmanuele, il Dio con noi” (1,23) e il “sono con voi tutti i giorni [...]” (28,20b). Il ritorno di Gesù, quindi, per Matteo non va a colmare una precedente assenza, ma è un semplice rendere visibile, manifesta una realtà, che è costantemente presente e testimoniata in ogni comunità credente, che proprio per questo si può definire comunità cristica o messianica. Il v.28, pertanto, diventa metafora o forse meglio dire allegoria della comunità credente, radunata per la potenza dello Spirito, attorno al “cadavere”, cioè al Cristo morto, fattosi pane spezzato per essa: “Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: <<Prendete e mangiate; questo è il mio corpo>>” (26,26). Il verbo radunare è posto in greco al futuro passivo, sunacq»sontai, (sinactzésontai), “saranno radunate”. In quanto verbo al passivo esso indica che l'origine di questa azione è in Dio; in quanto verbo al futuro vede in prospettiva l'ampliarsi della comunità credente, qualificata dal suo essere radunata e dal suo radunarsi attorno al pane spezzato. Una prospettiva questa che Matteo vede nel sangue di Gesù, “versato per molti”, in cui i molti sono i futuri credenti, che aderiscono alla nuova alleanza, suggellata dal sangue di Cristo.

I vv. 29-31 sono una sorta di collage, un concentrato di immagini apocalittiche che Matteo mutua, qua e là, dalle Scritture26. In realtà egli usa il linguaggio apocalittico, caratteristico del suo tempo, per esprimere le nuove realtà inaugurate dalla venuta del Cristo. Si tratta, quindi, per noi, di risalire dalle immagini alle idee che in esse vi sono simboleggiate, per giungere al messaggio in esse contenuto27. Di certo è fuori luogo, ma già lo si è detto, pensare a predizioni o a profezie catastrofiche, poiché qui sta parlando il pastore, preoccupato per come si stanno mettendo le cose nella sua comunità, a cui cerca di dare delle risposte.

Il contenuto di questi versetti è strettamente legato all'ampia pericope precedente (vv.4-28) dalla stessa introduzione del v.29: “Subito dopo la tribolazione di quei giorni”. Quanto avviene qui, quindi, è conseguente e complementare a quanto sopra detto. Fin qui si è parlato degli sconquassi che sono avvenuti sulla terra e nell'umanità (vv.4-28); qui (vv.29-31), ora, si parla degli sconquassi che avvengono nel cielo. Cielo e terra sono i due poli, che indicano la totalità del cosmo, per dire che esso, nella sua totalità, ne è coinvolto, assieme all'umanità, per un principio di stretta solidarietà, che lo lega ad essa, seguendone i destini28. Il sole e la luna, i due elementi cosmici che scandiscono il giorno e la notte e i ritmi delle stagioni e della vita dell'uomo si spengono; e così pure gli astri e le potenze del cielo, che formano i punti di orientamento per l'uomo, verranno scosse. È l'intero impianto cosmico che viene meno, accompagnandosi agli sconquassi terrestri; è lo spegnersi del vecchio mondo per dare spazio ad una nuova realtà, che sta per compiersi. Sono i dolori del parto, che precedono la venuta di una nuova vita (Rm 8,22). Così l'apocalittica concepiva l'evolversi dalle vecchie alle nuove realtà: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più” (Ap 21,1). Infatti, soltanto dopo che queste vecchie realtà sono venute meno, Matteo fa apparire nel cielo il segno del Figlio dell'uomo.

Il v.30 ha il compito di presentare la nuova realtà, il cui avvento è stato preparato dalla conflagrazione cosmica. Il versetto è scandito in due parti tra loro parallele e convergenti sulla nuova realtà: la venuta del Figlio dell'uomo. Ogni parte è introdotta dall'espressione “kaˆ tÒte” (kaì tóte, “e allora”), che rimanda agli eventi escatologici. La seconda parte costituisce la conseguenza e la risposta alla prima: all'apparire del segno, l'umanità si percuote il petto; un gesto questo che esprime dolore, lutto, riconoscimento delle proprie colpe e impetrazione di perdono e misericordia29. I verbi sono posti tutti al futuro, che è lo spazio di Dio, verso il quale l'umanità sta confluendo; ma dice anche come questi eventi, posti nel futuro, non hanno più futuro, proprio perché escatologici, cioè ultimi. Tutte le immagini sono tratte dal linguaggio proprio dell'apocalittica30 e, quindi, acquisiscono il senso di una rivelazione31. La nube esprime sempre la presenza divina ed è il luogo del suo manifestarsi o del suo nascondersi32. Il segno del Figlio dell'uomo, con cui si apre il v.30, non ci sembra alludere in qualche modo alla croce, poiché nulla nel contesto sembra indicarla. Ci sembra, al contrario, di poter dire che la menzione del segno, che compare nel cielo, sia un escamotage letterario dell'autore per agganciarsi alla domanda iniziale dei discepoli, che chiedevano “quale sarà segno della tua venuta”. Il v.30, pertanto, risponde a questa domanda e, quindi, il segno del Figlio dell'uomo, che compare nel cielo altro non è che la sua stessa venuta, indicata immediatamente di seguito. Anche se può sembrare strano che il segno si identifichi con la realtà significata, anziché rimandare ad essa, svolgendo in tal modo la sua finzione primaria di segno. Ma se si osserva attentamente il contesto, capiremo come Matteo, da buon pastore, cerchi di far tenere i piedi per terra al suo gregge. Innanzitutto è un segno che compare nel cielo, contrapponendosi, quindi, a quello dei tanti ingannatori, che indicavano il Cristo ritornato come una realtà nascosta, confusa tra la gente (v.26) e che poteva anche essere plagiato (v.5), con segni mirabolanti quanto ingannatori (v.24); in secondo luogo Matteo, indicando nella venuta stessa il segno della venuta, sembra dire che non vi è nessun altro segno della venuta di Cristo se non la sua stessa venuta, che sarà chiara e inequivocabile a tutti, perché comparirà nel cielo, che è il luogo stesso di Dio. Quindi, ciò che qui suggerisce Matteo alla sua comunità è la formula: credete soltanto dopo aver visto e toccato in modo inequivocabile il ritorno del Cristo e smettetela di correre dietro ai ciarlatani dell'ultima ora. La venuta, inoltre, comparendo dopo il grande sconquasso cosmico, che segna la fine del vecchio mondo, si pone quale inizio di tempi nuovi e di una nuova realtà, contraddistinti dalla presenza stessa del Risorto, avvolto dalla sua gloriosa onnipotenza (v.30c). Questa venuta, quindi, diventa il punto catalizzatore non solo della nuova creazione, ma anche quello degli eletti, che convergeranno in Lui in pienezza (“dai quattro venti”), secondo la promessa del Gesù giovanneo: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32), così che tutti diventino un solo gregge sotto un solo pastore (Gv 10,16b). E quando tutto sarà nel Cristo, anch'egli si lascerà attrarre in modo definitivo e pieno dal Padre, così che Egli sia nuovamente tutto in tutti, com'era nei primordi (1Cor 15,28). Vengono, dunque, definiti con il v.31 il senso e il fine di questa venuta ultima.

I vv.32-35 vengono posti a conclusione del discorso escatologico e con il loro tono pacato e parenetico sollecitano i credenti al discernimento degli eventi, al saper leggere i fatti della storia con occhio attento, vigile e intelligente, senza lasciarsi traviare dai falsi profeti o dagli esaltati di turno. Tutti i verbi dei vv.32-33 sono posti al presente indicativo, quasi che Matteo voglia ricondurre la sua comunità con i piedi per terra, poiché la chiave di lettura e di comprensione della storia non è posta nel futuro, ma è fornita a tutti qui nel presente.

La breve pericope è strutturata in tre parti:

A) vv.32-33: il primo versetto introduce la parabola dei germogli del fico. Un'immagine poetica, distensiva, che rasserena l'animo dopo ben 31 versetti in cui si è riversato ogni genere di sconquasso. L'immagine così rasserenante e distensiva predispone l'animo della comunità matteana ad accogliere l'insegnamento del suo pastore, il più importante, perché posto a conclusione della prima parte del discorso escatologico, la più inquietante, quella formata dagli eventi sia di recente passato che quelli presenti. Si tratta di imparare a leggerli e a comprenderli. Il secondo versetto contiene l'esortazione a ben comprendere i termini della parusia escatologica. L'espressione “tutte queste cose” fa parte del linguaggio apocalittico e si riferisce ai tristi eventi sopra riportati. Tuttavia questi non costituiscono ancora il contesto storico entro cui si colloca la presenza del Risorto, ma sono soltanto l'anticamera della sua venuta: “è vicino alle porte”, ma non è ancora entrato. Un'espressione questa che si richiama ai vv. 6c e 8: “ma non è ancora la fine” e “tutte queste cose sono l'inizio dei dolori”. Così come i dolori del parto non dicono che il bambino è già nato, ma che sta nascendo. Il dolore, conseguente al disfacimento della vecchia realtà, è causato dall'irrompere della nuova realtà, incompatibile con quella precedente; così come i dolori del parto sono causati dalla nascita di una nuova vita (Rm 8,22-23).

B) Il v.34 si apre in forma solenne con l'espressione “In verità”, che imprime all'intero versetto un tono di veridicità e di indiscutibilità. Esso definisce lo spazio temporale entro cui questi cataclismi storici si abbatteranno e indica il luogo che andranno a colpire: “questa generazione”. A che cosa alluda Matteo con questa espressione è difficile dirlo, ma forse è meglio ricomprenderla all'interno del contesto biblico in genere. Nell'A.T. il termine generazione assume significati diversi a seconda del contesto in cui è inserito: può indicare il contesto umano presente o un determinato contesto umano in senso generale o talvolta ben individuato33. I casi in questo senso sono tuttavia molto limitati. Il termine, invece, viene usato prevalentemente in senso figurativo, per indicare un determinato tempo34 o un lungo lasso di tempo. In questo caso il sostantivo “generazione” è preceduto dal un numero ordinale35; oppure esso assume una valenza avverbiale per indicare “sempre”. In tal caso il termine è ripetuto due volte “di generazione in generazione”36 o preceduto dall'aggettivo indefinito “ogni” generazione37. Il termine “generazione” assume anche una valenza negativa con esclusivo riferimento alla generazione dei padri, che hanno attraversato il deserto, ma che non entrarono nella terra promessa per la loro infedeltà38. In tal senso questo tipo di generazione diventa paradigmatica. Ed è proprio con quest'ultimo senso che viene ripreso il termine “generazione” nel N.T., in cui ricorre, quasi sempre con un significato negativo, 28 volte, in particolar modo in Matteo, che ad essa dà un'accezione esclusivamente negativa, agganciandola a quella dei padri nel deserto. Il riferimento sembra dunque essere il popolo giudaico del suo tempo con cui era in rotta di collisione e con cui aveva scatenato una dura polemica, in particolar modo con le autorità religiose (Mt 23). Probabilmente Matteo vede negli eventi catastrofici, in particolar modo la guerra giudaica, la fine del mondo giudaico e del vecchio modo di intendere il rapporto con Dio.
    C) Il v.35 riporta un'espressione che ricorre in tutti tre i Sinottici nel medesimo contesto39. Essa si gioca tutta sulla contrapposizione tra “cielo e terra”, cioè l'intero cosmo, e la parola di Gesù; una contrapposizione tra l'effimero, così drammaticamente illustrato nei vv.1-31, e l'eterno. Tutto passa; ciò che rimane è Dio, a cui appartiene anche la parola di suo Figlio (Gv 12,50; 14,10.24), la cui divinità e la cui figliolanza sono state rese manifestate nella risurrezione (Rm 1,4). L'espressione, dunque, sottolinea la divinità stessa della parola di Gesù e, quindi, tutta la sua solidità e la sua credibilità. Il v.35, inoltre, non sembra riferirsi al contenuto del quinto discorso, ma è un'affermazione assoluta, svincolata da ogni contesto, che trascende, proprio come svincolato da ogni contesto storico è Dio stesso. Ed è proprio per questa assolutezza con cui essa si pone, che lascia trasparire da sé la sua divinità.

vv.36-41: questa pericope ha una doppia funzione: da un lato risponde alla prima domanda dei discepoli: “quando accadranno queste cose?” (v.3); dall'altro forma da premessa al vero tema dell'intero quinto discorso, quello della vigilanza, che sarà enunciato nel v.42; tema che, a sua volta, sarà ripreso e sviluppato dall'ampia sezione 24,42-25,30, attraverso la narrazione di quattro parabole: quella del padrone di casa e il ladro (v.43); quella del servo posto a capo dei beni del suo padrone (vv.44-51); quella delle dieci vergini (25,1-13) e quella dei talenti (25,14-30). Le prime tre parabole sono incentrate tutte sulla inconoscibilità del giorno e dell'ora, conosciuti solo dal Padre, per cui è necessario essere sempre attenti e vigilanti; la quarta affronta il tema dell'impegno nell'attesa.

La pericope si apre con un netto stacco dalla prima parte del discorso escatologico, quella catastrofica, introducendo il lettore verso il tema, che, come si è detto, costituisce il cuore dell'intero discorso: la vigilanza.

La struttura è particolarmente curata, segno che l'autore intende caricare questa pericope d'importanza:

a) v.36: risposta alla prima domanda posta dai discepoli al v.3. Essa si presenta sotto forma di enunciato, di sentenza: nessuno può conoscere i tempi di questi eventi, ma solo il Padre;

b) vv.37-39: formano la prima parte illustrativa della sentenza: che cosa significa non conoscere i tempi? Cosa comporta questo? La risposta viene data rimandando il lettore al racconto di Noè, nei tempi che precedettero il diluvio.

c) vv.40-41: formano la seconda parte illustrativa della sentenza: la venuta del figlio dell'uomo non solo è inconoscibile, ma comporterà anche una discriminazione e, quindi, un giudizio;

d) v.42: la conclusione di tutto il ragionamento: vigilare.


L'intera pericope è circoscritta da una doppia inclusione, finalizzata a circoscriverne il tema. La prima è data dall'espressione “Quanto a quel giorno e ora nessuno sa”, che si trova nel v.36 e, in forma simile, nel v.42; la seconda inclusione è data dall'espressione “così sarà la venuta del Figlio dell'uomo” in vv.37b e 39b. La prima inclusione incentra l'intera pericope sul tema dell'inconoscibilità dei tempi; la seconda fa convergere questa inconoscibilità sulla venuta del Figlio dell'uomo. Al centro di tutto, quindi, ci sta la venuta del Figlio dell'uomo, attorno a cui Matteo tiene in modo particolare stendere un velo di silenzio, quello dell'inconoscibilità, finalizzato a tranquillizzare le attese della propria comunità e la ridda di voci e di pretese che si erano sviluppate attorno a tale venuta. In tal modo egli giustifica le sue categoriche esortazioni, lanciate nella prima parte del discorso escatologico, proprio circa la venuta di Cristo (vv.3-4; 23-24; 26).

Il v.36 introduce il tema del tempo della venuta di Gesù, rispondendo alla prima domanda dei discepoli (v.3). “Quanto a quel giorno e ora”, un'espressione questa che potremmo leggere come una sorta di endiade o come un'espressione biblica o un ebraismo per dire “il tempo preciso”. Su questo tempo, attorno al quale si stavano scatenando falsi cristi e falsi profeti, che agitavano la sua fragile comunità, Matteo stende un velo di silenzio, dato dall'inconoscibilità di questo tempo: “nessuno sa” (oÙdeˆj oŒden, udeìs oîden). Un'inconoscibilità, che investe non soltanto gli uomini, ma lo stesso impenetrabile mondo divino: angeli e Figlio di Dio stesso, che demandando, invece, la conoscenza allo stesso Padre, unico ed esclusivo detentore del sapere primo ed ultimo, da cui tutti dipendono, anche il Figlio. Ed è proprio qui che i teologi si sono posti il comprensibile interrogativo: com'è possibile che Gesù, Figlio di Dio e Dio lui stesso, non sapesse. Il problema è dottrinale, poiché investe i rapporti trinitari. Per poter comprendere questo lato oscuro di Gesù, ritengo che bisogna riferirsi alla sua natura umana e non divina. Egli, infatti, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuotò (™kšnwsen, ekénosen) se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini [...]” (Fil 2,6-7). Ed è proprio qui, a mio avviso, che si trova la soluzione del problema: Gesù, pur essendo Dio, è venuto in mezzo a noi accettando in pieno la nostra condizione umana, rivestendosi anche lui di una carne decaduta, una carne adamitica, di peccato40. Egli qui in mezzo a noi ha operato in veste umana e non divina, benché la potenza del suo operare umano fosse sostanziata dal suo essere Dio e, per questo, redentrice e salvifica. Ma al di là di questo potere divino salvifico operante in lui, egli non possedeva altro. Gesù non è nato onnisciente, non sapeva esattamente fin da piccolo cosa fare nella sua missione, né dove questa l'avrebbe portato. Gesù non recitava un ruolo come da copione, ma viveva in conformità alla volontà del Padre (Gv 4,34), che lui cercava di scoprire e di comprendere. Solo il tempo e l'attento ascolto delle Scritture (Lv 4,17-21; 24,27) e dello Spirito (Lc 3,22; 4,1.14) incominciarono a far luce sulla sua identità e sui suoi destini, risvegliando in lui la coscienza della sua identità (Lc 2,40.52). Egli infatti svuotò se stesso da ogni prerogativa divina, che non fosse quella strettamente salvifica, compresa quella di conoscere i progetti del Padre, se non strettamente inerenti alla sua missione. Insomma, l'efficacia del suo operare era divino, ma il suo operare era squisitamente umano e come tale si muoveva. E così similmente dicasi degli angeli. Il conoscere delle cose di Dio è soltanto atto di donazione del Padre, che opera nel Figlio e in lui e per lui si rivela (Gv 14,9-11). Nessuno può cogliere il mistero di Dio e del suo mondo se questo non gli è rivelato, cioè donato (Gv 3,27). Poiché la conoscenza di Dio e dei suoi disegni salvifici non è mai frutto di intelligenza, ma di compartecipazione, che si radica in un dono di amore. Conoscere Dio è soltanto un conoscere che attinge alla rivelazione e, quindi, una conoscenza mediata. Questo lo è per l'uomo e per ogni altra creatura. L'incarnazione ha posto Gesù nei confronti del Padre in una condizione creaturale, che sarà superata soltanto nella risurrezione, venendo costituito in essa Figlio di Dio per la potenza dello Spirito (Rm 1,3-4). Se, infatti, l'operare storico di Gesù non fosse stato recuperato dalla sua risurrezione, tutto si sarebbe ridotto all'operare di un saggio del suo tempo, opinabile nel suo porsi e nel suo dire, ma niente di più (1Cor 15,14-19). Un personaggio vittima anche lui del relativismo della storia. È soltanto la risurrezione che dà peso, valore ed efficacia alla sua missione, rendendola universalmente salvifica (1Cor 15,20-22).

I vv.37-41 Dopo la premessa dell'impossibilità di conoscere i tempi (v.36), che costituisce l'enunciazione del teorema dell'intera pericope (vv.36-41), i vv.37-39, posti in parallelo e agganciati ai vv.40-41 per affinità di situazioni, fungono da dimostrazione al teorema, rimandando il lettore alle modalità con cui avvenne il diluvio universale (Gen 7): nessuno se lo aspettava, così che tutti vennero colti all'improvviso da un cataclisma, che non ha lasciato scampo a nessuno. Questo rimando, tuttavia, innesca implicitamente un confronto tra quei tempi e questi presenti. I punti di contatto sono essenzialmente tre: a) la modalità di accadimento del diluvio e della venuta: entrambi avvengono all'improvviso, in modo inaspettato; b) lo spazio che andranno a colpire sarà quello della quotidianità del vivere. L'insistente sottolineatura sul mangiare, sul bere, sullo sposarsi e sul contrattare matrimoni, indicano tutte attività non solo del quotidiano vivere (mangiare e bere), ma anche del progettare il futuro (matrimoni). Questo insieme di attività dà l'idea di un'umanità tutta intenta a organizzare il proprio tempo, radicata nei propri affari, senza badare ai segni che le venivano inviati; nessuno spazio al di là dei propri interessi; c) il valore di giudizio sia del diluvio, con cui si purificò la terra dall'inquinamento del male (Gen 6,5.11.12.13), giustiziando l'intera umanità (Gen 7,21-23), che l'aveva prodotta; sia della venuta che, come ai tempi di Noè, vedrà salvati alcuni e condannati altri (vv.40-41). L'associazione e il parallelismo dei due eventi, diluvio e venuta, è dato anche dal parallelismo delle due situazioni simili tra loro: nel diluvio venne salvaguardato Noè e la sua famiglia e lasciato alla perdizione il resto dell'umanità; nella venuta, similmente, uno viene preso e l'altro lasciato (vv.40-41). Si tratta di un prendere che ha il senso di salvaguardare, di porre sotto la propria protezione e la propria autorità e, quindi di elezione, richiamando così da vicino il v.31, dove si dice che la venuta del Figlio dell'uomo porterà con sé la raccolta di tutti i giusti della terra; mentre il lasciato ha il senso di abbandonato al proprio destino. Il fatto che siano sempre due le persone interessate non indica una percentuale quantitativa, bensì due condizioni, due stati di vita: chi è fedele e chi non lo è; mentre l'uso di due personaggi, al maschile e al femminile, indica la generalità dell'umanità e, quindi, viene sottolineata la valenza universale della venuta. Il fatto che questi siano colti nel campo e alla macina, indica come la venuta li sorprenderà intenti alle faccende quotidiane e, quindi, in modo improvviso e inaspettato, così come ai tempi di Noè la gente venne colta dal cataclisma intenta alle attività quotidiane del mangiare, bere e sposarsi. La venuta, dunque, porta in sé un elemento di giudizio, di premio e di condanna.

Il v.42 è di transizione, poiché chiude la pericope vv.36-41, a cui è agganciato da quel “oân(ûn, dunque), e preannuncia il tema che sarà l'oggetto di ben quattro parabole, finalizzate ad illustrare l'impossibilità di prevedere la venuta, a cui sono dedicate le prime tre parabole (24,43-25,13), e a sollecitare un impegno proficuo nell'attesa di questa venuta (25,14-30). In altri termini gli enunciati dei vv. 34-41, cioè l'inconoscibilità del tempo della venuta e la sua natura giudiziale, vengono ora ripresi e riproposti sotto forma di parabole.

Il v.42, inoltre, funge da doppia inclusione: la prima con il v.36, relativamente all'inconoscibilità dei tempi; la seconda con il v.25,13, relativamente alla necessità del vegliare. In tal modo il v.42 viene a trovarsi al centro di due pericopi (vv.36-41 e vv.24,43-25,13), che hanno come tema fondamentale il vegliare, quale unica risposta saggia all'inconoscibilità dei tempi della venuta, che sarà improvvisa e porterà con sé il giudizio divino.

I vv.43-51 presentano due parabole, la prima (vv.43-44) riprende il tema della necessità del vigilare e lo propone in senso generale. L'immagine usata è quella del ladro, che sopraggiunge all'improvviso e inatteso nottetempo. Un'immagine che doveva essere cara alle comunità credenti della prima ora, se si ritrova sparsa qua e là in diversi libri neotestamentari41; forse perché meglio rende il senso di una venuta, di cui non si conosce nulla, caratterizzata dalla segretezza e dall'improvvisa apparizione e che accade nel momento che meno ti aspetti. Anzi, Matteo definisce il tempo della venuta come quello che non ti aspetti: “nell'ora in cui non pensate”. Così similmente Luca, ricordando il ricco, che stanziava beni nei suoi granai, preparandosi a vivere beatamente tra le cose: “Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12,20). Sono proprio questi tratti di oscurità, di imprevedibilità e di aleatorietà, che devono spingere il credente ad essere sempre presente a se stesso, attento, vigilante e pronto, senza mai lasciarsi traviare dagli impegni e dalle difficoltà del presente, senza mai lasciarsi assorbire dalle cose: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!” (1Cor 7,29-31).

La seconda parabola (vv.45-51) è una sorta di sintesi delle altre due parabole seguenti, quella delle dieci vergini e quella dei talenti, con le quali ha in comune i temi di fondo. Con quella delle dieci vergini ha in comune il ritardo del padrone e il doppio comportamento: chi sa attendere vigile e chi si addormenta, lasciandosi andare. Con quella dei talenti ha in comune l'uso proficuo del tempo di attesa, il saper metterlo a frutto. Ma anche qui, tuttavia, torna il tema del ritardo del padrone, posto sotto forma di lungo lasso di tempo, che intercorre dalla partenza del padrone al suo ritorno (25,19). Inoltre la prima parte della parabola del servo (24,47) termina in modo molto simile a quella dei talenti: “In verità vi dico, lo porrà sopra a tutti i suoi servi” (24,47), mentre quella dei talenti termina con “ti darò autorità su molto” (25,21.23).

Cambiano soltanto i destinatari: nella parabola in esame l'attore principale è il servo, che viene posto dal padrone sopra gli altri servi e a cui è stato dato l'incarico di nutrirli. Si tratta, dunque, di un responsabile di una comunità di servi, termine questo con cui i primi credenti amavano definirsi42. Questa parabola, quindi, si muove in chiave ecclesiologica su di uno sfondo squisitamente parenetico. La parabola apparentemente sembra raccontare le avventure di due servi, il cui comportamento è diametralmente opposto. In realtà il servo è sempre lo stesso, ma viene considerato sotto due aspetti diversi. Si tratta, dunque, della messa a fuoco di due tipologie di comportamenti, volutamente caricati, e contrapposti tra loro43. Siamo di fronte ad una tipizzazione, alla creazione di due parametri di raffronto, sui quali Matteo sviluppa le sue riflessioni, che poi porge ai suoi coadiutori, che lo supportano nel difficile governo della sua comunità. Questa parabola è, dunque, loro destinata. Agli altri componenti della sua comunità Matteo riserverà le altre due parabole, quella delle dieci vergini (25,1-13) e quella dei talenti (25,14-30), narrativamente più sviluppate e più ricche, in ultima analisi, più avvincenti e accattivanti. Il tema, tuttavia, non cambia: nel ritardo del Signore tutti, indistintamente, a seconda dei ruoli rivestiti all'interno della comunità, sono chiamati alla vigilanza e all'impegno proficuo nell'attesa del suo ritorno.

I vv.45-47 tipizzano l'ideale e il destino del servo, che funge da parametro positivo, su cui i responsabili della comunità matteana sono chiamati a riparametrarsi. Tre sono i tratti che lo caratterizzano: a) egli è “fedele e saggio”; due attributi che sono sinonimi di persona leale e corretta, che sa gestire in modo appropriato il proprio ruolo, con le attenzioni e le cure del buon padre di famiglia; b) egli è anche un responsabile, un capo comunità, avendolo “il padrone posto sopra i suoi servi”. Egli, dunque, è chiamato ad operare in nome e per conto del suo padrone, lo rappresenta in mezzo alla comunità dei servi, che sa non essere propri, bensì del suo padrone (“suoi servi”). Per questo egli deve essere “fedele”, cioè conoscere, aderire e condividere esistenzialmente le logiche del suo padrone, facendo proprie le sue esigenze. Fedeltà, dunque, quale sinonimo di adesione esistenziale al padrone, che significa ancor prima sua accoglienza nella propria vita, così da divenirne un alter ego. c) Ed infine è un servo che ha un compito importante: nutrire i servi nel tempo opportuno. Può sembrare una banalità, ma con questo incarico il padrone di fatto affida la vita stessa dei suoi servi a questo servo e sopratutto ne affida il suo mantenimento. Significativo è quel “™n kairù” (en kairô). Si tratta di un tempo particolare, il tempo in cui si fa più acuto il bisogno del nutrimento, in cui maggiormente necessario è mantenere e consolidare la vita di fede di questi servi. L'allusione è proprio al tempo di cui Matteo sta parlando, il tempo delle scelte difficili, il tempo delle insidie, delle defezioni, delle persecuzioni e dei tradimenti. È questo il tempo in cui si vede il vero responsabile, fedele e saggio, che ha saputo fare propria la causa del suo padrone, sentendo suoi i servi, quelli del suo del proprio padrone.

Questo servo viene definito “beato”, cioè partecipe della vita stessa del padrone. Questo concetto di beatitudine verrà meglio chiarito nella parabola dei talenti, là dove il padrone ingiunge al servo, definito anche questo “buono e fedele”, di prendere parte alla gioia del suo padrone (25,21.23), perché ha saputo ben gestire, in modo proficuo, i beni del proprio Signore. È un padrone che al momento del suo ritorno trova il servo “così operante” (oÛtwj poioànta, útos poiûnta). Il verbo qui usato è posto al participio presente. In quanto participio sottolinea la natura del servo, il suo modo di essere: “egli è l'operante”; in quanto tempo presente dice la persistenza, la costanza di questa sua natura operosa, tutta dedita al suo Signore. Per questo è fedele, saggio e beato; per questo egli è servo, cioè colui che ha dedicato l'intera sua vita al suo Signore, conformandola alle sue esigenze.

Il v.47 si apre in forma solenne, che carica d'importanza quanto segue, quasi fosse una sorta di giuramento: “In verità vi dico”. Il premio per questo servo sembra essere una specie di avanzamento di carriera: egli, infatti, da responsabile, che è stato posto su dei servi (v.45), ora, dopo aver dato prova della sua fedeltà e della sua saggezza; dopo essere stato fatto partecipe della vita stessa del suo padrone (“beato”) viene posto a capo di “tutti” i servi (v.47). Forse un'allusione ad una certa gerarchia all'interno della o delle comunità? O forse si tratta una regola per accedere a maggiori responsabilità tra le comunità? Chi desidera accedere a maggiori incarichi all'interno delle varie comunità deve aver dato prova di fedeltà a Cristo e saggezza nel saper condurre quanti gli sono stati affidati all'interno della propria comunità. Si deve, infatti, tener presente come qui si stanno presentando delle tipologie di comportamento, cioè dei parametri di raffronto, con i quali vengono misurati i singoli responsabili o singoli coadiutori nelle comunità.

La seconda pericope (vv.48-51) presenta ora il rovescio della medaglia. Anche qui ci troviamo di fronte ad una caratterizzazione di un certo comportamento, ad un'altra ipotesi comportamentale. Questo servo è definito fin da subito come malvagio (kakÕj, kakòs), la cui vera natura è descritta di seguito: “in cuor suo”. È, dunque, dalla profondità del suo cuore, dall'intimo della sua stessa natura malvagia, che nasce il progetto di malvagità: “Il mio padrone tarda”. Il ritardo del padrone, con il verbo posto al presente indicativo, costituisce la cornice storica entro cui egli, approfittandone, dà sfogo alla sua malvagità. Egli non si mette dalla parte del padrone, ma dalla parte di chi gozzoviglia, con gli ubriachi, angariando gli altri servi, che non gli appartengono, usando malamente della sua autorità. In questo servo non si rispecchia l'immagine del buon pastore, fedele e saggio, ma di un mercenario. Questa seconda ipotesi non va sottovalutata, ma doveva riflettere di fatto una certa situazione storica. Ne abbiamo un esempio nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, il cui contesto è proprio quello escatologico, quello di un tempo di attesa per un ritorno che tardava: “E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello” (2Ts 3,10-15).

I vv.50-51 sono riservati al giudizio escatologico, che fin d'ora è posto sulla neghittosità e sulla malvagità del servo. La venuta del Signore, richiamandosi al v.36 con cui il v.50 fa inclusione, sarà inaspettata: “nessuno sa”. Il v.51 viene suddiviso in due parti: nella prima si afferma che il servo verrà punito severamente; il verbo al futuro associa la punizione alla venuta stessa del Signore, anche questa evidenziata con un verbo al futuro (“verrà il padrone”), che la colloca in un ambito escatologico; la seconda parte dice in che cosa consista tale punizione: la sua sorte è posta tra gli ipocriti, dove ci sarà lamento e stridore di denti. Quest'ultima espressione si trova in tutto il N.T. sette volte, di cui sei nel solo Matteo e una in Luca ed è metafora della perdizione. La citazione degli ipocriti, tra i quali si colloca la perdizione, allude molto probabilmente alla scomunica, alla quale questi responsabili sono soggetti. Essi, quindi, verranno rigettati là da dove essi sono venuti, dal giudaismo. Il termine ipocrita, infatti, è usato prevalentemente da Matteo44. Con questo nome egli indica quasi sempre l'atteggiamento religioso del giudaismo45, che secondo l'evangelista è destinato alla perdizione eterna per il suo caparbio rifiuto di Gesù. Anche qui, quindi, ci si trova di fronte ad una probabile definizione di una regola della comunità matteana: il responsabile o, come si vedrà nel passo parallelo della parabola dei talenti (25,30), il semplice credente, che tiene un comportamento gravemente deplorevole all'interno della comunità, verrà espulso da questa.


                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      Giovanni Lonardi


NOTE
1Cfr. vv.4-5; v.11; vv.23-24; v.26
2Cfr. i vv. 4-5; v.6; v.8; v.13; vv.23-24.25; v.26; v.32-33; v.36; v.42; vv.43-44.-
3Vi sarà infatti una seconda guerra giudaica, l'ultima, avvenuta tra il 132-135 e che segnò in modo definitivo la fine di Gerusalemme e del popolo ebreo, costretto alla diaspora.
4L'intero vangelo di Matteo è permeato da una forte polemica contro il giudaismo, in cui si rispecchiano le forti tensioni con il mondo giudaico, da cui le comunità matteane provenivano e in cui ancora vivevano.
5Sulla questione della formazione del Giudaismo rabbinico e del contesto storico in cui è nato, si cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, op. cit.
6Quando Matteo scrive il vangelo, le sue comunità di giudeocristiani avevano già rotto con il giudaismo e si era innescata una forte conflittualità sia sul piano sociale che religioso con lo stesso. I giudei convertiti alla nuova fede venivano espulsi dalla sinagoga, la quale cosa significava decretare una sorta di morte civile e religiosa (Gv 9,22; 12,42). E' di questo periodo (circa 80 d.C) la formulazione della dodicesima “benedizione” dello Shemonè esré, un eufemismo per indicare la maledizione lanciata contro gli eretici, cioè contro i giudei convertiti al cristianesimo. Essa recitava testualmente: “Per gli apostati non ci sia speranza e il regno insolente [cioè l'impero romano] venga presto sterminato, nei nostri giorni. I nazareni [i giudeocristiani] e gli eretici periscano subito e siano abrasi dal libro della vita, né siano iscritti insieme ai giusti. Benedetto sei tu Signore, che umili l'insolente.”.
7Cfr. Mt 5,11-12; 10,17-19; At 5,17-18; 7,54-60; 8,1.3; 9,1-2; 12,1-4;
8Mt 24,30; 26,64; 28,18; Mc 13,26; 14,62; 2Ts 1,6-9
9Cfr. 1Cor 15,23-25; 2Ts 2,8; Eb 10,13.
10Sul tema del ritardo della venuta di Gesù cfr. il commento alla parabola delle “dieci vergini” 25,1-30 della presente opera.
11Cfr. Col 2,17; Eb 8,5; 10,1
12Cfr. Rm 12,1; 1Pt 2,4-5; Gd 1,20
13Il tempio che i discepoli mostrano a Gesù è quello che Erode il Grande, aveva ristrutturato, ampliato e notevolmente abbellito. I lavori, iniziati nel 19 a.C., terminarono nel 64 d.C. Due anni più tardi iniziava la sanguinosissima guerra giudaica contro Roma e solo quattro anni più tardi, nell'agosto del 70 d.C., il tempio venne distrutto da un incendio. Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XV,380-425; Guerra Giudaica, V,184-387.
14Si tratta chiaramente di una profezia post eventum, visto che Matteo scrive il quinto discorso tra il 75 e l'80, quando ormai la prima guerra giudaica era terminata da pochi anni.
15Quando Matteo scrive il suo primo vangelo, cioè i cinque grandi discorsi (75-80), la guerra giudaica era finita da pochi anni e i segni del suo devastante passaggio, tempio compreso, erano sotto gli occhi di tutti.
16In tal senso cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico; R. Fabris, Matteo, opp. citt.
17La guerra giudaica, benché di fatto terminata nel 70 d.C. con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, ha avuto una propaggine fino al 73 d.C., anno in cui i Romani riuscirono a piegare la resistenza dell'ultimo baluardo zelota: l'erodiana fortezza di Masada.
18Cfr. Dn 9,27; 11,31; 12,11.-
19Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit.
20Cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, IV, §163
21Il riferimento al giorno di sabato fa pensare, come del resto già più volte si è detto nel corso della presente opera, che la comunità di Matteo, formata prevalentemente di giudeocristiani, fosse ancora legata alle disposizioni mosaiche. - In tal senso cfr. anche R.Fabris, Matteo, alla nota 13 di pag. 499.-
22Cfr. Rm 8,33; 11,7; 16,13; Col 3,12; 1Ts 1,4; 2Tm 2,10; Tt 1,1; 1Pt 1,1; 2,9; 5,13; 2Gv 1,1.13; Gd 1,1; Ap 17,14
23Cfr. Es 19,16; 20,18; Dt 32,41; 2Sam 22,15; Sal 17,15; 143,6; Dn 10,6; Ab 3,4
24Secondo la tradizione giudaica il messia doveva comparire nel deserto o in qualche luogo nascosto, per poi manifestarsi all'improvviso. In tal senso abbiamo anche alcune testimonianze nel vangelo di Giovanni: cfr. Gv 1,26 e 7,27.-
25Cfr. Mt 24,30; 26,64; Mc 13,26; 14,62; Ap 1,7
26Per le immagini apocalittiche qui riportate da Matteo cfr. Is 13,10; 34,4; Zc 12,10-14; Dn 7,13; Is 27,13; Zc 2,10; Dt 7,40.
27In tal senso cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.
28Cfr. Gen 6,11-13; Rm 8,19-23
29Cfr. Is 32,12; Na 2,8; Lc 18,13; 23,27.48; Ap 1,7.
30Cfr. Ap 1,7; 14,14
31Il termine apocalisse significa appunto “rivelazione”
32Cfr. Es 16,10b; 19,9a.16; 20,21; 24,16; 34,5; 40,34; Dt 31,15; 1Re 8,10-12; Is 4,5; 19,1; Lam 3,44; Ez 30,3; Dn 7,13; Mt 17,5; Mc 9,7; 13; Lc 9,35; 21,27; At 1,9;
33Cfr. Gen 7,1; 25,13; Gdc 2,10; Gdt 8,18; Sal 23,6; Sal 144,4;
34Cfr. Gen 15,16; 50,23; Dt 23,9;
35Cfr. Es 20,5; 34,7; Nm 14,18; Dt 5,9; 23,3.4; 2Re 10,30; 15,12;
36Cfr. L'espressione è ripetuta nell'A.T. 37 volte. Qui ne indichiamo solo alcune: Gen 17,7.9.12; Es 3,15; 12,14.17.42; 17,16; Lv 24,3; Nm 15,15; Est 10,3k; Is 51,8; Dn 3,100; Gl 4,20.
37Cfr. Sal 99,5; 101,13.25; 105,31; 118,90; 134,13; 144,13; 145,10.
38Cfr. Nm 32,13; Dt 1,35; 2,14; 32,5.20; Sal 48,20; 77,8; 94,10; Ger 7,29;
39Cfr. Mc 13,31 e Lc 21,33
40Il racconto delle tentazione dice proprio il conflitto tra la natura umana e quella divina di Gesù, il quale scelse di svolgere la sua missione accettando tutti i condizionamenti del suo essere uomo. In tal senso si cfr. il commento 4,1-11 della presente opera.
41Cfr. Mt 24,43; Lc 12,39; 1Ts 5,2.4; 2Pt 3,10a; Ap 3,3; 16,5
42Cfr. At 2,18; 4,29; 16,17; Rm 6,18.22; Ef 6,6; Fil 1,1; Col 4,12; 2Tm 2,24; Tt 1,1; Gc 1,1; 2Pt 1,1; Gd 1,1; Ap 1,1; 2,20; 7,3; 11,18; 19,5.10; 22,3.6;
43Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.
44Il termine ipocrita ricorre 17 volte in tutto il N.T., di cui 13 volte in Matteo, una in Marco e tre in Luca.
45Cfr. Mt 6,2.5.16; 15,7-9; 23, 13.15.23.25.27.29; Mc 7,6; Lc 13,15