IL
VANGELO DI MATTEO
Il quinto
grande discorso di Gesù
Capp.
24-25
Una
pressante esortazione alla vigilanza
Parte
Prima – Cap. 24
Introduzione
L'ultimo
grande discorso di Gesù è il secondo in ordine di grandezza
quantitativa ed occupa per intero i capp.24-25, per complessivi 97
versetti. La prima posizione, invece, è tenuta dal primo grande
discorso, che si estende per ben tre capitoli (5-7) e raccoglie un
totale di 111 versetti. Ma il quinto discorso, rispetto agli altri
quattro, solletica molto la fantasia degli amanti del catastrofismo e
dei facili profeti di sventura, i quali, a quanto pare, abbondavano
anche nel I sec. Non v'è dubbio che verrà la fine del mondo, ma
ancor prima verrà la fine di ogni singolo uomo. Tutto ciò che è
racchiuso nella dimensione spazio-temporale ha un inizio, un decorso
e una fine. Da questa logica non scappa nessuno, neppure Gesù si è
sottratto ad essa. Tuttavia, come si vedrà subito, è lontano dalla
mente degli evangelisti il fare predizioni sul futuro. Matteo, come
gli altri due sinottici, non è una Cassandra né tantomeno un
Nostradamus ante
litteram,
bensì è un responsabile di comunità e un pastore d'anime, molto
preoccupato per come si stavano mettendo le cose all'interno delle
sue comunità e per l'ostile contesto storico, sociale e religioso in
cui esse vivevano. Egli, pertanto, deve dare una risposta ai problemi
delle sue comunità e fornire loro una corretta chiave di lettura di
quanto formava, probabilmente, l'oggetto delle loro discussioni e
delle loro paure, ponendo fine a speculazioni e a fomentazioni da
parte di sobillatori, agitatori ed esaltati, che egli definisce,
tout-court,
falsi profeti e ingannatori (vv.11.24), da cui bisogna guardarsi
(vv.4-5.23b.26). Sembrano, infatti, proprio questi la spina nel
fianco di Matteo, se si pensa che essi vengono richiamati per ben
quattro volte
nel cap.24; inoltre gli eventi catastrofici descritti nella pericope
24,6-25 sono inclusi dai vv. 4-5 e 23-24, che parlano di questi
ingannatori. Segno questo che gli eventi che l'autore cita sono
oggetto della predicazione di questi fantasiosi sobillatori. Matteo,
dunque, riprende qui gli eventi che agitavano la società del suo
tempo e le sue comunità e li rilegge in chiave escatologica,
utilizzando il linguaggio proprio dell'apocalittica giudaica,
riadattata alle logiche cristiane. All'interno di questa rilettura
egli fornisce delle indicazioni sul come comprendere correttamente
questi eventi e come porsi al loro interno. Lo sfondo su cui si muove
l'intero discorso è squisitamente parenetico, non solo per gli
intenti pastorali, ma anche perché disseminato qua e là da numerose
esortazioni e indicazioni.
La
sanguinosissima guerra giudaica (66-73 d.C.) era da poco finita e
aveva lasciato dietro di sé una scia impressionante di morti,
profondi risentimenti e una grande voglia di rivalsa.
Il tempio, centro della vita sociale, culturale e religiosa del
giudaismo, era distrutto assieme a Gerusalemme. Il sacerdozio
ebraico, i sacrifici, il culto al tempio e tutto ciò che vi ruotava
attorno drammaticamente finito per sempre. Si stava stagliando
all'orizzonte un nuovo tipo di giudaismo, quello rabbinico (70 d.C.),
incentrato non più sul tempio, bensì sulla Torah e la sua
interpretazione. Svanito il sacerdozio, una nuova classe dirigente si
andava affermando, quella degli scribi e dei farisei, gli specialisti
della Legge, contro i quali tuonerà Matteo
al cap.23 e in particolare al v.23,2.
Contro questo nuovo giudaismo le comunità matteane e palestinesi in
genere innescarono un confronto molto polemico e duro, generando una
netta rottura con il mondo giudaico, contrapponendosi ad esso.
La risposta fu immediata e violenta: anatemi, persecuzioni,
imprigionamenti e uccisioni dei primi nuovi credenti da parte del
giudaismo.
Le tensioni sociali e religiose si insinuavano non solo all'interno
delle prime comunità, ma anche all'interno delle stesse famiglie dei
primi credenti e all'interno dei loro rapporti di amicizia e sociali
in genere, arrivando anche a rompere l'unità naturale della famiglia
e creando in essa odi e divisioni tra i suoi stessi componenti (Mt
10, 21-22; 24,10). Non tutti, infatti, avevano accolto l'annuncio del
vangelo. In questo contesto di forte e talvolta drammatica tensione
era molto viva l'attesa della venuta finale di Gesù, che rivestito
della sua gloriosa onnipotenza,
avrebbe dovuto sottomettere i suoi avversari e instaurare
definitivamente il suo regno di giustizia e di pace.
In questo contesto di attesa c'era probabilmente chi azzardava dei
tempi su questa venuta; chi additava in qualcuno il Gesù ritornato
(vv.23.26) e chi addirittura si spacciava egli stesso per il Cristo
atteso (v.5b). Matteo, infatti, sente la necessità di controbattere
queste attese e pretese fantasiose quanto pericolose, sottolineando
con forza come il tempo non sia conosciuto da nessuno (v.42.44) se
non dal Padre soltanto (v.36); mentre, quanto ai truffatori che si
spacciavano per il Cristo ritornato (v.5) o quanto alle voci che lo
davano già ritornato, indicandolo in questo o in quell'altro
personaggio, che si aggirava tra le comunità (v.23-24), o in questo
o in quell'altro luogo (v.26), in modo categorico egli nega queste
eventualità e con la forza della sua autorità impone: “Guardate
che nessuno vi tragga in inganno” (v.4), “non ci credete”
(vv.23b;26c), “non ci andate” (v.26b); e contrattacca
presentando, invece, la venuta di Gesù improvvisa, inaspettata e
travolgente, così come lo fu il diluvio ai tempi di Noè
(vv.27.37-39). Tuttavia all'interno di questa attesa, sentita come
imminente e agitata da pericolose fantasie, si poneva un altro
problema molto serio: l'inspiegabile e imbarazzante ritardo della
venuta finale di Gesù, che causava sfiducia, rilassamento
spirituale, delusione, defezioni, agitazioni e ironia da parte degli
avversari.
La compattezza iniziale delle comunità si stava lentamente
allentando e necessitava, quindi, di un ricompattamento, fondato su
due elementi: una ricomprensione della storia della salvezza in
termini temporali più lunghi di quelli fin lì pensati e,
soprattutto per il presente, una sferzante esortazione dei credenti
alla vigilanza e all'impegno di un fare fecondo nel bene, nell'attesa
di una certa, anche se tardiva, venuta del Signore, che portava con
sé il giudizio finale.
Sarà,
infatti, il tema della vigilanza e dell'operosità nel bene,
l'obiettivo primario di quest'ultimo grande discorso. Non a caso
questo tema attraverserà entrambi i capitoli: 24,32-25,30, mentre il
tema del giudizio finale (25,31-46), severo ammonimento per tutti,
concluderà il cap.25 e con questo l'attività predicatoria di Gesù.
Gli ultimi tre capitoli saranno dedicati per intero alle drammatiche
vicende della passione e morte di Gesù (26-27) e alla sua
risurrezione (28). Significativa, infine, è la posizione che occupa
questo quinto grande discorso nell'ambito dell'economia narrativa,
posto a ridosso della passione e morte di Gesù. In esso, come si è
visto, si parla di guerre, di persecuzioni, di sconquassi sociali e
religiosi, che stavano travolgendo il popolo e le stesse comunità
credenti. Il porre questi eventi a ridosso della passione e morte di
Gesù crea uno stretto legame e un'associazione con queste. In tal
modo Matteo fornisce anche una chiave di lettura agli eventi
difficili e talvolta drammatici, che le sue comunità stavano
vivendo. Le sofferenze, i disagi, le persecuzioni, le ghettizzazioni,
le incarcerazioni, le accuse, le preoccupazioni, le divisioni
all'interno delle famiglie, i tradimenti compiuti dagli amici, la
stessa morte, tutto ciò deve essere inteso come una partecipazione
alla passione e alla morte di Gesù. Paolo esprimerà bene questo
concetto nella sua lettera ai Romani: “O
non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo
stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo
dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo
fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così
anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo
stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo
saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro
uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il
corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato.
Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti
con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui”
(Rm 6,3-6). Anche se qui Paolo parla dell'uomo vecchio associato alla
morte di Gesù, tuttavia è fondamentale e innovativo il concetto che
il credente nel suo vivere è associato al vivere stesso di Cristo.
In tal senso l'Apostolo, rivolto alle sue comunità della Galazia,
non teme di affermare: “Sono
stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me”
(Gal 2,20a), ponendo una stretta identità tra il suo vivere e quello
di Cristo, anzi, il suo vivere è stato assorbito in Cristo, così
che non è più lui che vive, ma Cristo vive ed opera in lui. Vi è
dunque per il credente una cristificazione, che si radica nella fede
e si completa nel battesimo.
La struttura del quinto grande discorso è piuttosto
complessa, in quanto molto articolata ed elaborata, ma come si
noterà, lascia trasparire tutta la preoccupazione di Matteo per una
situazione di tempi difficili, che rischiavano di travolgere le sue
comunità. Questa lettura strutturale è soltanto una proposta,
poiché sul suo dispiegarsi le indicazioni sono numerose, a seconda
della comprensione dei singoli esegeti. Tutto ciò è indice di
fervore nella ricerca e di ricchezza reciproca. Ogni punto di vista
arricchisce e aiuta a comprendere meglio la Parola, nella quale
soffia sempre lo Spirito.
La struttura dei capp. 24-25
A)
vv.1-3:
introduzione e impostazione al quinto discorso;
B)
vv.4-31:
gli eventi, fonte dei timori e delle paure che agitavano le prime
comunità. Questi sono classificati in quattro
gruppi
suddivisi in
due parti:
la prima, riguardante l'umanità in genere, comprende i primi tre
gruppi; la seconda ospita i disastri cosmici, seguiti immediatamente
dal giudizio universale (vv.29-31). All'interno di ogni gruppo
l'autore pone un'esortazione o dà un indirizzo da seguire.
Probabilmente questi interventi sono le vere risposte mirate che
l'autore, quale buon pastore, dà concretamente ad ogni singolo
problema presente nelle sue comunità:
a)
vv. 4-5: il
preambolo:
il giusto atteggiamento nell'affrontare i problemi: prudenza e
attenzione a non lasciarsi ingannare. Primo avvertimento di fondo,
che verrà ripreso altre tre volte, al v.11 e ai vv.23-24 e v.26;
b)
vv. 6-8: il
primo gruppo:
le guerre, che sconvolgono i popoli; l'annotazione è accompagnata da
esortazioni e indicazioni;
c)
vv. 9-13:
il
secondo gruppo:
le persecuzioni dei nuovi credenti a causa della loro fede. I
pericoli per la fede. Anche qui vi sono esortazioni e indicazioni per
affrontare la difficile situazione (vv.12-13);
d)
vv.14:
l'intermezzo
indicativo:
quando avverrà la vera fine.
e)
vv.15-22:
il
terzo gruppo:
le sofferenze a causa degli sconvolgimenti bellici. Il riferimento
qui è alla prima guerra giudaica (66-73 d.C.) da poco passata, ma
che ha lasciato un profondo solco di sangue e sofferenza in mezzo al
popolo;
f)
vv. 23-28:
la
chiusura della prima parte:
esortazioni, avvertimenti e indicazioni: come avverrà la venuta di
Gesù. Questi versetti riprendono il preambolo (vv.4-5) e lo portano
a conclusione. Si conclude così la prima parte delle disgrazie che
colpiscono in vario modo l'umanità, ad ogni livello: i popoli
(vv.6-8), i nuovi credenti (vv.9-13) e lo stesso Israele (vv.15-22).
g)
vv. 29-31:
la
seconda parte e il quarto gruppo:
i disastri cosmici, che precedono immediatamente e accompagnano
l'avvento del Figlio dell'uomo, in potenza e gloria.
h)
vv.32-35:
la
riflessione finale:
gli eventi sopra descritti sono il segno dell'imminente venuta di
Gesù nella sua gloria. Essi costituiscono una sorta di preambolo al
vero tema dell'intero quinto discorso: la vigilanza.
C)
vv.36-44:
La vigilanza trova la sua giustificazione nel fatto che gli eventi
futuri e la venuta del Figlio dell'uomo non sono noti a nessuno, ma
soltanto al Padre. Esortazioni al vigilare.
D)
vv. 24,45-25,30:
questa ampia sezione raccoglie tre parabole riguardanti il tema della
vigilanza: la prima
parabola
(il servo fedele e quello malvagio) è rivolta ai responsabili di
comunità e viene indicato loro il corretto comportamento pastorale
da tenere nei confronti delle loro comunità in questo tempo di
attesa (vv.24,45-51); la seconda
parabola
(le dieci vergini) è rivolta alle comunità credenti, sollecitate
alla vigilanza (vv. 25,1-13); la terza
parabola
(i talenti) sollecita il buon uso del tempo presente, cercando di far
fruttificare al meglio il dono della fede e dei beni spirituali da
essa proveniente nell'attesa della venuta del Signore (vv.25,14-30);
E)
vv.25,31-46:
racconto del giudizio universale, che da un lato funge da monito a
tutti i credenti; dall'altro dice come anche i non credenti sono
coinvolti in questa venuta finale del Cristo glorioso e
plenipotenziario e saranno giudicati in base alla legge dell'amore.
Analisi e
commento al Cap. 24
Una
lettura degli eventi del I° secolo in chiave escatologica,
preordinata
a sollecitare la vigilanza
nell'attesa
della venuta finale del Signore
I
vv.1-3
costituiscono la cornice introduttiva all'intero quinto discorso e ne
forniscono la chiave di lettura. Il discorso inizia con un elogio del
Tempio di Gerusalemme da parte dei discepoli, che si scontra con le
disastrose previsioni da parte di Gesù. I discepoli, che qui
sembrano incarnare in qualche modo le comunità giudeocristiane di
Matteo, ancora legate al culto del Tempio, devono ora misurarsi con
la dura realtà dei tempi nuovi, che vedono al centro del nuovo culto
la persona stessa del Risorto, che ha decretato la fine dell'antico
culto, incarnato dal Tempio. Non è casuale, infatti, che tutto
inizi con l'attenzione puntata sul Tempio sia perché questo era il
centro culturale, religioso, politico e sociale per antonomasia,
espressione della vita stessa del popolo, il cuore d'Israele; sia
perché, secondo la tradizione giudaica, la fine del Tempio
coincideva con la fine del mondo e l'avvento del Regno di Dio. Fine
del Tempio, quindi, significava fine del giudaismo, fine del culto,
fine delle promesse per lasciare spazio ai tempi nuovi. Matteo
coglierà questa tradizione, ma la volgerà in senso cristiano: la
fine del Tempio dice la fine dell'antico culto per lasciare spazio ad
un nuovo culto che trova in Cristo e non più nel Tempio il suo
baricentro.
Il
v.1 inizia
in modo significativo: da un lato, ci viene presentata l'uscita di
Gesù dal Tempio e il suo allontanamento da questo, dall'altro
l'avvicinarsi dei discepoli a Gesù. Questo doppio movimento di
uscita-allontanamento e di avvicinamento, dice il radicale cambio di
rotta che il rapporto con Dio, fino ad allora fondato sulla Legge
mosaica e sui sacrifici di animali, ha subito con l'avvento di Gesù.
Questi esce e si allontana dal Tempio, metafora di un Dio che
abbandona la sua antica dimora per trasferirsi in quella nuova, non
più fatta da mani d'uomo (Mc 14,18). C'è uno spostamento del
baricentro: dalle cose materiali, ombra di quelle future,
a quelle spirituali.
E attorno a questo nuovo Tempio (Gv 2,21), che supera di gran lunga
l'antico Tempio (Mt 12,6), si raccoglie la prima comunità credente:
“si avvicinarono a lui i suoi discepoli”. Tuttavia, quella
matteana, è una comunità, che non ha ancora operato una scelta
radicale e definitiva, ma si diletta ancora a contemplare l'antico
Tempio,
che indica a Gesù, quasi forse con rimpianto.
Il
v.2
annuncia, sotto forma di profezia,
la tragica fine del Tempio di Gerusalemme e con questo la fine di un
giudaismo fondato sul sacerdozio e sui sacrifici. Si tratta
chiaramente di una “profezia” post
eventum,
che riecheggia in sé quella di Michea 3,12: “Perciò,
per causa vostra, Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme
diverrà un mucchio di rovine, il monte del tempio un'altura
selvosa”,
ripresa poi anche da Geremia in 26,18. Tuttavia l'intento dell'autore
è fornire qui una doppia chiave di lettura di quanto è successo: da
un lato egli vede la distruzione del tempio e di Gerusalemme come un
castigo divino per il rifiuto che Israele ha opposto a Gesù (Mt
23,37-38); dall'altro vede in questa la fine dell'antico culto,
indicando in Gesù l'inizio di quello nuovo. Quest'ultima sua
rilettura verrà rimarcata nel momento della crocefissione,
osservando come il velo del tempio, che copriva il Sancta
Sanctorum,
luogo della presenza di Dio, si squarciò (Mt 27,51), per indicare
che la reale presenza di Dio non è più nel Tempio, ma in Gesù,
vera dimora di Dio in mezzo agli uomini (Ap 21,3), che il Padre
ricostituirà con la potenza del suo Spirito (Gv 2,19-21; Rm 1,4).
Il
v.3
è scandito in due parti: a)
viene presentata la scena di Gesù seduto sul monte degli Ulivi, nel
mentre che i suoi discepoli si avvicinano a lui; b)
i discepoli formulano la domanda. Queste due indicazioni dell'autore
(Matteo è l'unico dei Sinottici a fornirle) danno, da un lato,
un'intonazione squisitamente didattica e parenetica all'intero
discorso (a);
dall'altro, dividono il cap.24 in tre blocchi narrativi. Il Gesù
seduto sul monte e i suoi discepoli che gli si avvicinano introducono
il lettore in un contesto di insegnamento e di esortazione,
evidenziando il senso didattico e parenetico del quinto discorso. La
posizione di Gesù, infatti, è quella propria del maestro; una
posizione che richiama da vicino l'introduzione al primo grande
discorso dove “Vedendo
le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si
avvicinarono i suoi discepoli”
(5,1). Anche qui il primo discorso si rivelerà un insegnamento
rivolto ai discepoli (5,2). Significativo è il particolare del Gesù
che siede sul monte degli Ulivi, posto a circa un chilometro ad est
dalla città di Gerusalemme. Da un lato il monte è considerato dagli
antichi come la dimora di Dio, dall'altro il monte degli Ulivi è
ritenuto dalla tradizione profetico-apocalittica come il luogo della
manifestazione di Dio nella storia di Israele (Ez 11,22-23; Zc
14,4).
Il quadro che ne esce è l'immagine di un Gesù-Dio (“seduto sul
monte”), che impartisce un insegnamento ai suoi discepoli per mezzo
della rivelazione (monte degli Ulivi), caricando in tal modo
d'importanza l'intero quinto discorso.
La domanda posta dai discepoli a Gesù probabilmente
riassume gli interrogativi che riecheggiavano all'interno della
comunità matteana: “quando accadranno queste cose e quale sarà il
segno della tua venuta e della fine del tempo?”. Tuttavia, da un
punto di vista narrativo, la triplice domanda scandisce anche i
blocchi narrativi del discorso escatologico. La prima domanda (guerra
e distruzione del Tempio) trova la sua risposta nei vv.6-8.15-22; la
seconda domanda, che ha per tema la venuta finale di Gesù, ha il suo
scioglimento nei vv.5.23.26-28.30-33.36-39.42 e verrà poi
amplificata in tre parabole, il cui intento è precisare le modalità
dell'attesa della venuta del Signore: vigilanza (vv.42-51; 25,1-13) e
operosità nel bene (vv.25,14-30); alla terza domanda, circa la fine
dei tempi, rispondono, invece, i vv.6.14.29.
vv.
4-28 Nella
parte introduttiva al quinto grande discorso di Gesù ci siamo
soffermati a lungo sulla sul contesto storico-sociale e religioso in
cui era posta la comunità matteana, formando tale contesto lo sitz
im leben
di questo ultimo discorso di Gesù, la cui primaria finalità è
sospingere i nuovi credenti alla vigilanza e all'impegno nel fare il
bene nell'attesa della venuta finale di Gesù, sentita come
imminente. Per poter meglio comprendere questa ampia pericope, di
certo non facile da interpretare, sintetizzerò qui di seguito i
punti salienti, che formeranno da chiave di lettura. Innanzitutto va
detto che i cristiani del I sec. vivevano in una forte tensione
escatologica ed erano animati dall'attesa del ritorno glorioso di
Gesù, che sentivano imminente. Tale tensione era alimentata anche
dal concomitante contesto escatologico ed apocalittico in cui viveva,
in buona parte, anche il giudaismo, dal quale provenivano le comunità
matteane e palestinesi in genere. Si pensi alla comunità di Qumran,
tutta organizzata e proietta verso l'avvento finale di Jhwh, di cui
essa si sentiva l'apripista e si stava preparando alla grande
battaglia finale tra il Bene e il Male. Questa era la cornice entro
cui vivevano le prime comunità credenti. Su questo sfondo di attesa
si collocavano eventi, se non drammatici, certamente molto difficili,
che si ripercuotevano sui primi credenti: la guerra giudaica,
terminata solo da qualche anno e i cui drammatici segni erano ancora
sotto gli occhi di tutti; le persecuzioni contro i nuovi discepoli,
che vivevano in un ambiente, anche familiare, loro ostile; le pretese
di Caligola di innalzare una sua statua all'interno del Tempio (40
d.C.), episodio questo che doveva richiamare da vicino la profezia di
Daniele circa “l'abominio della desolazione” (Dn 9,27), cioè la
piccola ara, consacrata a Zeus Olimpico, e la statua che Antioco
Epifane IV aveva fatto erigere sull'altare dei sacrifici del Tempio e
che provocò la rivolta dei Maccabei (1Mac 1,54-59). Su questi
episodi numerosi sedicenti profeti o semplicemente infatuati ed
esaltati da questo clima di attesa, agitato da eventi drammatici e
inquietanti, profetizzavano l'imminente fine dei tempi o annunciavano
la presenza del Cristo ritornato o essi stessi si presentavano come
il Cristo ritornato. Clima, dunque, di paura e da fine del mondo,
clima di confusione e di agitazione, che di certo non aiutavano a
vivere con serenità e proficuità la propria fede e che rischiava di
sfaldare le ancor fragili comunità credenti. Questo il contesto, che
spinse Matteo a scrivere questo quinto discorso, cercando di dare una
corretta interpretazione degli eventi, sollecitando e sferzando la
sua comunità ad un impegno più serio nella fede e nel fare il bene.
I vv.4-5 e 23-24 formano tra loro inclusione e
determinano narrativamente la pericope in esame, dando unità
narrativa agli eventi qui ricompresi; ma nel contempo, rafforzati
anche dal v.11, questi versetti lasciano intendere come questi eventi
siano oggetto della predicazione di falsi profeti e di agitatori.
Matteo, pertanto, riprendendo in termini escatologici questa loro
predicazione, dà una corretta lettura degli eventi, sbugiardando
questi fomentatori di ingiustificate paure e timori.
I
blocchi degli eventi presi in esame in questa pericope (vv.6-22) sono
tre: il primo (vv.6-8) e il terzo (vv.15-22) sono tra loro
complementari. Il primo, infatti parla delle guerre e della
conflagrazione tra i popoli; mentre il terzo parla degli effetti, che
questa conflagrazione ha in mezzo alla popolazione: sofferenza,
dolore e morte. Il secondo blocco (vv.9-13) parla, invece, delle
persecuzioni e dei loro effetti sulle comunità credenti e al loro
interno. Con il posizionare questo secondo blocco in mezzo al primo e
al terzo, l'autore raggiunge un duplice obiettivo: a)
mettere in rilevo le persecuzioni, sottolineandone l'importanza per
la sua comunità, accentrando l'attenzione su di esse; b)
collocare l'evento persecuzione all'interno di una guerra letta come
escatologica, dando in tal modo un tono escatologico anche alle
stesse persecuzioni.
Il
primo blocco, preso in esame, sono i rumori di guerra e le
sollevazioni dei popoli (vv.6-8),
quasi certamente quella giudaica, da poco terminata (70 d.C.) e non
ancora del tutto sedata.
Chi voleva leggere in questi eventi di conflitti tra i popoli lo
sconquasso, che annunciava la fine dei tempi, si sente rispondere da
Matteo che questa non è la fine (v.6c), ma soltanto l'inizio dei
dolori (v.8). L'autore quindi accetta le guerre e i conflitti tra i
popoli quale segno escatologico, ma non definitivo o determinante per
la fine dei tempi. Questa egli la riserverà per l'evento che gli sta
più a cuore: la diffusione del Vangelo tra le genti (v.14).
Il tempo della fine, dunque, non è scandito dall'uomo, ma da Dio,
che deve portare a termine la sua opera. Il verbo al futuro passivo
(khrucq»setai,
keructzésestai),
“sarà annunciato” rimanda all'azione divina, mentre il tempo al
futuro sposta l'imminenza della fine dal presente al futuro
escatologico, il vero tempo di Dio. I rumori, quindi, che gli uomini
provocano non determinano la fine, che invece è nelle mani di Dio,
il quale conduce i tempi del vivere e del morire, a suo piacimento.
Giovanni nella sua Apocalisse vede “[...]
nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma
di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato
con sette sigilli”.
Esso rappresenta la storia che è pienamente scritta da Dio e
sigillata dal segreto divino posto su di essa. Solo l'Agnello, il
Cristo risorto, può accedere al segreto e dare attuazione al disegno
del Padre nella storia dell'uomo. Non spetta all'uomo conoscere i
tempi, ma soltanto al Padre, ricorderà il Gesù lucano negli Atti
degli Apostoli ai suoi discepoli, bramosi di conoscere il tempo della
costituzione del regno di Israele. Ad essi spetta solo l'annuncio del
vangelo alle genti fino ai confini della terra, animati dalla forza
dello Spirito (At 1,6-8). Anche qui risulta primario e vincente su
tutte le attese catastrofiche o apoteosiche degli uomini la
diffusione dell'annuncio del Vangelo, poiché questo è la spina
dorsale della salvezza.
Un
altro tema, che probabilmente formava l'oggetto di annunci e di
discussioni, erano le dure persecuzioni a cui erano soggette le prime
comunità cristiane del I sec. La pericope qui è costruita con
versetti tra loro paralleli, concentrici in C)
e legati tra loro da causa (le persecuzioni vv.10.11) ed effetti (gli
effetti deleteri sulle comunità, vv.13.14). Vengono prese qui in
considerazione due tipi di persecuzione: esterna, causata da giudei e
pagani (v.9) e quella intracomunitaria, conseguenza della prima
(v.10). A queste rispondono altrettanti effetti sulle comunità:
A)
v.9:
Persecuzione proveniente dall'esterno: a motivo dell'adesione alla
nuova fede i credenti sono perseguitati e uccisi sia dai giudei che
dai pagani;
B)
v.10:
Persecuzione proveniente dall'interno: a motivo della pressione
causata dalla persecuzione esterna, molti credenti cedono e diventano
a loro volta persecutori dei loro fratelli, cadendo nel baratro delle
reciproche denunce e del reciproco disprezzo. Comunità dunque
lacerate al loro interno;
C)
v.11:
all'interno di queste persecuzioni nascono dei falsi profeti, che
tendono a distorcere i fatti, dandone spiegazioni ingannevoli e
rimestando le acque già torbide;
B')
v.12: Il
primo effetto deleterio delle persecuzioni intracomunitarie, che
minano l'unità delle comunità credenti, pregiudicandone
l'esistenza, è il raffreddamento dell'amore nei suoi membri, cioè
il venir meno da quel vincolo di solidarietà e di amore che lega
tutti in Cristo, facendo in esso un solo corpo. È dunque un corpo
che si va disfacendo. L'iniquità a cui qui si accenna, infatti, sono
le persecuzioni e gli odii causati dai fratelli di fede. Il
moltiplicarsi dell'iniquità allude al diffondersi delle delazioni e
delle accuse contro i membri delle comunità ad opera di altri membri
ancora, che sotto la pressione delle persecuzioni esterne denunciano
i propri fratelli.
A')
v.13:
il secondo effetto, questa volta positivo, delle persecuzioni
provenienti dall'esterno è il resistere loro fino alla fine, cioè
fino al sacrificio della propria vita. Da un punto di vista tecnico,
questo è l'unico mezzo che consente non solo la salvaguardia della
propria fede, ma, resistendo alle pressioni esterne che spingevano
alla delazione, evita anche lo sfaldamento delle comunità. Il premio
per questi gesti eroici, che puntano a salvare la propria fede e i
propri fratelli, nonché l'unità della stessa comunità, è il dono
della salvezza elargito da Dio stesso. Il verbo al passivo futuro,
infatti, dice che l'azione della salvezza proviene da Dio, mentre il
tempo al futuro, il tempo di Dio, parla della salvezza escatologica.
Il
parallelismo concentrico di questa pericope (vv.9-13) è dato, da un
lato, dall'enunciazione degli eventi nei vv. 9 e 10 e, dall'altro,
dai loro effetti indicati nei vv.12 e 13. Al centro, v.11, si colloca
il problema di fondo, che alimenta la situazione di disagio e di
confusione: i falsi profeti, che ingannano e contro i quali Matteo si
sta scagliando con questa prima parte del quinto discorso,
proponendo, invece, nella seconda parte i rimedi a tutto questo
frastuono sovversivo e destabilizzante (vv.24,45-25,30).
I
vv.
15-25 vanno
a completare il primo gruppo di eventi calamitosi, quello delle
guerre e delle sollevazioni dei popoli (vv.6-8). Si tratta di
un'analisi degli effetti che la guerra giudaica ha provocato
all'interno del popolo ebraico: l'offesa al tempio e i gravi disagi
generati dalla guerra. Dalla guerra, sentita come sollevazione dei
popoli, si passa ora, quindi, ad un'analisi delle sofferenze e degli
sconquassi da questa provocati fra la gente. L'analisi viene fatta in
modo profetico, cioè ripescando noti eventi del passato, vedendo in
quelli del presente una sorta di loro riattualizzazione. Il passato,
quindi, diventa la chiave di lettura del presente. L'esame viene
scandito in tre parti: due letture del passato, che viene proiettato
sul presente (vv.15; 16-18); e una lettura del presente, prendendo
spunto dallo stesso (vv.19-21). Il tutto termina con una
considerazione (v.22).
Il
primo episodio, che Matteo mutua dal passato per interpretare il
presente, è “l'abominio della desolazione”, espressione che
viene ripetuta tre volte nel Libro di Daniele.
Essa, come si è accennato sopra, si riferisce all'erezione di una
statua e di una piccola ara, dedicate a Giove Olimpico, sull'altare
dei sacrifici del Tempio da parte di Antioco IV Epifane (1Mac
1,54-59). Questa grave profanazione divenne lo stereotipo di ogni
sacrilegio e di ogni misfatto, che portò alla distruzione del Tempio
di Gerusalemme.
Probabilmente Matteo qui alludeva all'occupazione del Tempio da parte
degli Zeloti nel 66 d.C., che lo trasformarono in un luogo di lotte
violente.
Ed
ecco ora il rapido e incalzante susseguirsi dei vv.16-18, che danno
l'idea del trambusto e del parapiglia, che il dilagare della guerra
provoca all'interno della popolazione, quando si sa che il fronte ha
ceduto e il nemico dilaga, uccidendo e saccheggiando. La fuga
precipitosa e disordinata rimane l'unica via di salvezza. Il richiamo
implicito è alla fuga di Lot da Sodoma, che stava per essere
distrutta dal fuoco del giudizio divino: “Dopo
averli condotti fuori, uno di loro disse: <<Fuggi, per la tua
vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi
sulle montagne, per non essere travolto!>>”
(Gen 19,17). Mentre il sollecito a non tornare indietro del v.18
richiama da vicino la moglie di Lot convertita in una statua di sale
per aver guardato indietro, mentre Dio stava distruggendo Sodoma (Gen
19,26). In questo contesto, tuttavia, non è da escludersi che Matteo
faccia riferimento anche alla fuga dei giudeocristiani da Gerusalemme
a Pella, una città della Decapoli, nell'imminenza della guerra
giudaica, di cui qui si sta parlando. Un sollecito forse a loro o un
ricordo di quella fuga? Efficace letterariamente è, inoltre, quel
“oÙaˆ”
(uaì)
“Guai” posto davanti alle donne, colte nel loro stato di
maternità (v.19), nel loro essere datrici di vita e, quindi,
simbolo della vita stessa. Quel “oÙaˆ”
sembra un lamento funebre, che l'autore pone significativamente solo
qui, proprio davanti alla sorgente della vita stessa, quasi ad
indicare che essa si è essicata ed ogni speranza è stata tolta
all'uomo. Il v.20, invece, si apre all'invocazione che la fuga non
avvenga d'inverno o di sabato,
due tempi proibitivi, l'uno per motivi meteorologici, l'altro per
motivi religiosi. Di sabato, infatti, non era concesso di camminare
più di 2000 cubiti (circa 1000 mt.). Era, dunque, una sorta di
catena religiosa che impediva ogni fuga, togliendo ogni possibilità
di salvezza.
Il
v.21
con un linguaggio squisitamente apocalittico sembra definire,
considerato il contesto in cui è inserito, la prima guerra giudaica
come una grande afflizione, assolutizzandone i termini, per caricare
ancor di più la forza del giudizio di Dio posto su Israele, quasi a
vendicarsi del suo rifiuto nei confronti di Gesù (23,37-38).
Il
v.22
pone a confronto due gruppi di persone: il primo, definito
genericamente “nessuna carne”, si riferisce molto probabilmente
ad Israele, considerato il contesto della prima guerra giudaica;
mentre il secondo gruppo è formato dagli “eletti”, termine
questo con cui si definivano i cristiani del I sec..
Ora la salvezza di Israele, travolto da questa grande afflizione,
dipende proprio dal gruppo degli eletti, grazie ai quali il tempo
della grande afflizione viene accorciato. Sono proprio questi, che
Israele respinge e perseguita, a salvarlo, offrendogli la possibilità
di riscatto, aderendo per mezzo loro all'annuncio del Risorto.
Infatti, questi eletti altro non sono che il piccolo gruppo di giudei
che hanno accolto l'annuncio di Gesù e che si contrappone ora alla
grande massa di Israele. Loro, dunque, in quanto Giudei, sono il vero
resto d'Israele, costituito per grazia e non per le opere,
qualificato dalla fede e non dalla Torah. In tal senso Paolo, nel suo
lungo ragionamento sul destino di Israele, sviluppato nei capp. 9-11
della Lettera ai Romani, afferma “Così
anche al presente c'è un resto, conforme a un'elezione per grazia. E
se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non
sarebbe più grazia. Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello
che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti; gli altri sono
stati induriti, come sta scritto: Dio ha dato loro uno spirito di
torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire, fino al
giorno d'oggi”
(Rm 11,5-8). Sono loro, che usciti dal diluvio della grande
afflizione, hanno costituito il principio di una nuova umanità,
raccolta attorno al Risorto.
Con
il v.25
l'autore pone un punto fermo alla prima parte del discorso
escatologico: “Ecco, ve l'ho preannunciato”. Matteo, dunque, ha
fornito materiale di riflessione alla sua comunità di
giudeocristiani, invitandola a leggere attentamente e correttamente
gli eventi della storia, senza lasciarsi trarre in inganno dai falsi
profeti e dai facili annunciatori di sventure, che Matteo per la
terza volta cita (vv.23-24). Segno questo che la sua comunità era
funestata da questi agitatori ed esaltati, contro i quali, come si è
detto sopra, egli scrive questo lungo discorso. Dunque, “chi legge
comprenda” (v.15b).
Con
i vv.26-28
Matteo si leva dalla scarpa l'ultimo sassolino, che riguarda
l'annuncio del ritorno di Cristo, che alcuni indicavano nel deserto o
in qualche casa, altri, invece, vi si identificavano, definendo se
stessi il Cristo (vv.5.23.26). Matteo vi torna sopra per ben tre
volte (vv.5.23-24.26). Anche questo è un segno come la questione del
ritorno di Cristo fosse quanto mai sentita e come molti cercavano di
attuarla, dando concretezza alle loro fantasie, creando apprensioni e
agitazioni all'interno di una comunità ancora molto fragile. La
breve pericope si apre riprendendo il tema del ritorno di Cristo del
v.23 e introducendolo ora qui. Finora, infatti, Matteo si era
limitato a denunciare questo fantasioso ritorno, imponendo ai suoi
soltanto di non crederci e di stare attenti agli inganni
(vv.4-5.23.26). Ma ora è giunto il momento di dare una risposta
anche a queste pretese. Lo fa riprendendo l'immagine apocalittica e
teofanica della folgore; immagine carica del giudizio divino,
che percorre in un baleno e in modo inaspettato e incontrollabile il
cielo da una parte all'altra. Un'immagine che meglio riflette la
dinamicità dell'onnipotenza divina, che si manifesta con forza,
all'improvviso e colpisce inaspettatamente. Si noti come Matteo qui
usa l'immagine della folgore contrapponendola alla visione molto
umana e terrena del ritorno del Cristo; una visione che rispecchia
più che le attese cristiane, quelle giudaiche.
L'immagine della folgore, quindi, diventa dirompente sia perché
circonda di divinità e onnipotenza il ritorno del Cristo, sia perché
contrappone la dinamicità e lo splendore della folgore alla
staticità e all'opacità di un Cristo anonimo, sperduto in mezzo al
deserto o in mezzo alla gente. Un'immagine quella di Matteo che
meglio rispecchia la visione danielitica del Figlio dell'uomo (Dn
7,13-14), che ritorna con potenza sulle nubi.
Il
v.28,
dal sapore proverbiale, riecheggia già in Gb 39,30 e sembra
rimarcare la pubblicità del ritorno di Cristo, contrapponendosi alla
segretezza del messia atteso dal giudaismo. Tuttavia, a mio avviso,
non è da escludersi che Matteo pensasse, con questo proverbio, anche
ad un'altra realtà: la sua comunità, che, radunata attorno al Gesù
morto-risorto, diventa il segno non tanto del ritorno, ma della
continua presenza del Cristo, che in lei e con lei si rende
nuovamente presente e cammina lungo la storia degli uomini: “Ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”
(Mt 28,20b). Del resto l'intero vangelo matteano è incluso tra le
espressioni “Emmanuele, il Dio con noi” (1,23) e il “sono con
voi tutti i giorni [...]” (28,20b). Il ritorno di Gesù, quindi,
per Matteo non va a colmare una precedente assenza, ma è un semplice
rendere visibile, manifesta una realtà, che è costantemente
presente e testimoniata in ogni comunità credente, che proprio per
questo si può definire comunità cristica o messianica. Il v.28,
pertanto, diventa metafora o forse meglio dire allegoria della
comunità credente, radunata
per
la potenza dello Spirito, attorno al “cadavere”, cioè al Cristo
morto, fattosi pane spezzato per essa: “Ora,
mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la
benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: <<Prendete
e mangiate; questo è il mio corpo>>” (26,26). Il verbo
radunare
è posto in greco al futuro passivo, sunacq»sontai,
(sinactzésontai),
“saranno radunate”. In quanto verbo al passivo esso indica che
l'origine di questa azione è in Dio; in quanto verbo al futuro vede
in prospettiva l'ampliarsi della comunità credente, qualificata dal
suo essere radunata e dal suo radunarsi attorno al pane spezzato. Una
prospettiva questa che Matteo vede nel sangue di Gesù, “versato
per molti”, in cui i molti sono i futuri credenti, che aderiscono
alla nuova alleanza, suggellata dal sangue di Cristo.
I vv. 29-31
sono una sorta di collage,
un concentrato di immagini apocalittiche che Matteo mutua, qua e là,
dalle Scritture.
In realtà egli usa il linguaggio apocalittico, caratteristico del
suo tempo, per esprimere le nuove realtà inaugurate dalla venuta del
Cristo. Si tratta, quindi, per noi, di risalire dalle immagini alle
idee che in esse vi sono simboleggiate, per giungere al messaggio in
esse contenuto.
Di certo è fuori luogo, ma già lo si è detto, pensare a predizioni
o a profezie catastrofiche, poiché qui sta parlando il pastore,
preoccupato per come si stanno mettendo le cose nella sua comunità,
a cui cerca di dare delle risposte.
Il
contenuto di questi versetti è strettamente legato all'ampia
pericope precedente (vv.4-28) dalla stessa introduzione del v.29:
“Subito dopo la tribolazione di quei giorni”. Quanto avviene qui,
quindi, è conseguente e complementare a quanto sopra detto. Fin qui
si è parlato degli sconquassi che sono avvenuti sulla terra e
nell'umanità (vv.4-28); qui (vv.29-31), ora, si parla degli
sconquassi che avvengono nel cielo. Cielo e terra sono i due poli,
che indicano la totalità del cosmo, per dire che esso, nella sua
totalità, ne è coinvolto, assieme all'umanità, per un principio di
stretta solidarietà, che lo lega ad essa, seguendone i destini.
Il sole e la luna, i due elementi cosmici che scandiscono il giorno e
la notte e i ritmi delle stagioni e della vita dell'uomo si spengono;
e così pure gli astri e le potenze del cielo, che formano i punti di
orientamento per l'uomo, verranno scosse. È l'intero impianto
cosmico che viene meno, accompagnandosi agli sconquassi terrestri; è
lo spegnersi del vecchio mondo per dare spazio ad una nuova realtà,
che sta per compiersi. Sono i dolori del parto, che precedono la
venuta di una nuova vita (Rm 8,22). Così l'apocalittica concepiva
l'evolversi dalle vecchie alle nuove realtà: “Vidi
poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di
prima erano scomparsi e il mare non c'era più”
(Ap 21,1). Infatti, soltanto dopo che queste vecchie realtà sono
venute meno, Matteo fa apparire nel cielo il segno del Figlio
dell'uomo.
Il
v.30 ha il compito di
presentare la nuova realtà, il cui avvento è stato preparato dalla
conflagrazione cosmica. Il versetto è scandito in due parti tra loro
parallele e convergenti sulla nuova realtà: la venuta del Figlio
dell'uomo. Ogni parte è introdotta dall'espressione “kaˆ
tÒte” (kaì
tóte,
“e allora”), che rimanda agli eventi escatologici. La seconda
parte costituisce la conseguenza e la risposta alla prima:
all'apparire del segno, l'umanità si percuote il petto; un gesto
questo che esprime dolore, lutto, riconoscimento delle proprie colpe
e impetrazione di perdono e misericordia.
I verbi sono posti tutti al futuro, che è lo spazio di Dio, verso il
quale l'umanità sta confluendo; ma dice anche come questi eventi,
posti nel futuro, non hanno più futuro, proprio perché
escatologici, cioè ultimi. Tutte le immagini sono tratte dal
linguaggio proprio dell'apocalittica
e, quindi,
acquisiscono il senso di una rivelazione.
La nube esprime sempre la presenza divina ed è il luogo del suo
manifestarsi o del suo nascondersi.
Il segno del Figlio dell'uomo, con cui si apre il v.30, non ci sembra
alludere in qualche modo alla croce, poiché nulla nel contesto
sembra indicarla. Ci sembra, al contrario, di poter dire che la
menzione del segno, che compare nel cielo, sia un escamotage
letterario dell'autore per agganciarsi alla domanda iniziale dei
discepoli, che chiedevano “quale sarà segno della tua venuta”.
Il v.30, pertanto, risponde a questa domanda e, quindi, il segno del
Figlio dell'uomo, che compare nel cielo altro non è che la sua
stessa venuta, indicata immediatamente di seguito. Anche se può
sembrare strano che il segno si identifichi con la realtà
significata, anziché rimandare ad essa, svolgendo in tal modo la sua
finzione primaria di segno. Ma se si osserva attentamente il
contesto, capiremo come Matteo, da buon pastore, cerchi di far tenere
i piedi per terra al suo gregge. Innanzitutto è un segno che compare
nel cielo, contrapponendosi, quindi, a quello dei tanti ingannatori,
che indicavano il Cristo ritornato come una realtà nascosta, confusa
tra la gente (v.26) e che poteva anche essere plagiato (v.5), con
segni mirabolanti quanto ingannatori (v.24); in secondo luogo Matteo,
indicando nella venuta stessa il segno della venuta, sembra dire che
non vi è nessun altro segno della venuta di Cristo se non la sua
stessa venuta, che sarà chiara e inequivocabile a tutti, perché
comparirà nel cielo, che è il luogo stesso di Dio. Quindi, ciò che
qui suggerisce Matteo alla sua comunità è la formula: credete
soltanto dopo aver visto e toccato in modo inequivocabile il ritorno
del Cristo e smettetela di correre dietro ai ciarlatani dell'ultima
ora. La venuta, inoltre, comparendo dopo il grande sconquasso
cosmico, che segna la fine del vecchio mondo, si pone quale inizio di
tempi nuovi e di una nuova realtà, contraddistinti dalla presenza
stessa del Risorto, avvolto dalla sua gloriosa onnipotenza (v.30c).
Questa venuta, quindi, diventa il punto catalizzatore non solo della
nuova creazione, ma anche quello degli eletti, che convergeranno in
Lui in pienezza (“dai quattro venti”), secondo la promessa del
Gesù giovanneo: “Io,
quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32),
così che tutti diventino un solo gregge sotto un solo pastore (Gv
10,16b). E quando tutto sarà nel Cristo, anch'egli si lascerà
attrarre in modo definitivo e pieno dal Padre, così che Egli sia
nuovamente tutto in tutti, com'era nei primordi (1Cor 15,28).
Vengono, dunque, definiti con il v.31 il senso e il fine di questa
venuta ultima.
I
vv.32-35
vengono posti a conclusione del discorso escatologico e con il loro
tono pacato e parenetico sollecitano i credenti al discernimento
degli eventi, al saper leggere i fatti della storia con occhio
attento, vigile e intelligente, senza lasciarsi traviare dai falsi
profeti o dagli esaltati di turno. Tutti i verbi dei vv.32-33 sono
posti al presente indicativo, quasi che Matteo voglia ricondurre la
sua comunità con i piedi per terra, poiché la chiave di lettura e
di comprensione della storia non è posta nel futuro, ma è fornita a
tutti qui nel presente.
La breve pericope è
strutturata in tre parti:
A)
vv.32-33:
il
primo versetto
introduce la parabola dei germogli del fico. Un'immagine poetica,
distensiva, che rasserena l'animo dopo ben 31 versetti in cui si è
riversato ogni genere di sconquasso. L'immagine così rasserenante e
distensiva predispone l'animo della comunità matteana ad accogliere
l'insegnamento del suo pastore, il più importante, perché posto a
conclusione della prima parte del discorso escatologico, la più
inquietante, quella formata dagli eventi sia di recente passato che
quelli presenti. Si tratta di imparare a leggerli e a comprenderli.
Il
secondo versetto
contiene l'esortazione a ben comprendere i termini della parusia
escatologica. L'espressione “tutte queste cose” fa parte del
linguaggio apocalittico e si riferisce ai tristi eventi sopra
riportati. Tuttavia questi non costituiscono ancora il contesto
storico entro cui si colloca la presenza del Risorto, ma sono
soltanto l'anticamera della sua venuta: “è
vicino
alle porte”, ma non è ancora entrato. Un'espressione questa che si
richiama ai vv. 6c e 8: “ma non è ancora la fine” e “tutte
queste cose sono l'inizio dei dolori”. Così come i dolori del
parto non dicono che il bambino è già nato, ma che sta nascendo. Il
dolore, conseguente al disfacimento della vecchia realtà, è causato
dall'irrompere della nuova realtà, incompatibile con quella
precedente; così come i dolori del parto sono causati dalla nascita
di una nuova vita (Rm 8,22-23).
B)
Il
v.34
si apre in forma solenne con l'espressione “In verità”, che
imprime all'intero versetto un tono di veridicità e di
indiscutibilità. Esso definisce lo spazio temporale entro cui questi
cataclismi storici si abbatteranno e indica il luogo che andranno a
colpire: “questa generazione”. A che cosa alluda Matteo con
questa espressione è difficile dirlo, ma forse è meglio
ricomprenderla all'interno del contesto biblico in genere. Nell'A.T.
il termine generazione assume significati diversi a seconda del
contesto in cui è inserito: può indicare il contesto umano presente
o un determinato contesto umano in senso generale o talvolta ben
individuato.
I casi in questo senso sono tuttavia molto limitati. Il termine,
invece, viene usato prevalentemente in senso figurativo, per indicare
un determinato tempo
o un lungo lasso di tempo. In questo caso il sostantivo “generazione”
è preceduto dal un numero ordinale;
oppure esso assume una valenza avverbiale per indicare “sempre”.
In tal caso il termine è ripetuto due volte “di generazione in
generazione”
o preceduto dall'aggettivo indefinito “ogni” generazione.
Il termine “generazione” assume anche una valenza negativa con
esclusivo riferimento alla generazione dei padri, che hanno
attraversato il deserto, ma che non entrarono nella terra promessa
per la loro infedeltà.
In tal senso questo tipo di generazione diventa paradigmatica. Ed è
proprio con quest'ultimo senso che viene ripreso il termine
“generazione” nel N.T., in cui ricorre, quasi sempre con un
significato negativo, 28 volte, in particolar modo in Matteo, che ad
essa dà un'accezione esclusivamente negativa, agganciandola a quella
dei padri nel deserto. Il riferimento sembra dunque essere il popolo
giudaico del suo tempo con cui era in rotta di collisione e con cui
aveva scatenato una dura polemica, in particolar modo con le autorità
religiose (Mt 23). Probabilmente Matteo vede negli eventi
catastrofici, in particolar modo la guerra giudaica, la fine del
mondo giudaico e del vecchio modo di intendere il rapporto con Dio.
vv.36-41:
questa pericope ha una doppia funzione: da un lato risponde alla
prima domanda dei discepoli: “quando
accadranno queste cose?” (v.3); dall'altro forma da premessa al
vero tema dell'intero quinto discorso, quello della vigilanza, che
sarà enunciato nel v.42; tema che, a sua volta, sarà ripreso e
sviluppato dall'ampia sezione 24,42-25,30, attraverso la narrazione
di quattro parabole: quella del padrone di casa e il ladro (v.43);
quella del servo posto a capo dei beni del suo padrone (vv.44-51);
quella delle dieci vergini (25,1-13) e quella dei talenti (25,14-30).
Le prime tre parabole sono incentrate tutte sulla inconoscibilità
del giorno e dell'ora, conosciuti solo dal Padre, per cui è
necessario essere sempre attenti e vigilanti; la quarta affronta il
tema dell'impegno nell'attesa.
La
pericope si apre con un netto stacco dalla prima parte del discorso
escatologico, quella catastrofica, introducendo il lettore verso il
tema, che, come si è detto, costituisce il cuore dell'intero
discorso: la vigilanza.
La
struttura è particolarmente curata, segno che l'autore intende
caricare questa pericope d'importanza:
a)
v.36: risposta alla prima
domanda posta dai discepoli al v.3. Essa si presenta sotto forma di
enunciato, di sentenza: nessuno può conoscere i tempi di questi
eventi, ma solo il Padre;
b)
vv.37-39: formano la prima
parte illustrativa della sentenza: che cosa significa non conoscere i
tempi? Cosa comporta questo? La risposta viene data rimandando il
lettore al racconto di Noè, nei tempi che precedettero il diluvio.
c)
vv.40-41: formano la seconda
parte illustrativa della sentenza: la venuta del figlio dell'uomo non
solo è inconoscibile, ma comporterà anche una discriminazione e,
quindi, un giudizio;
d)
v.42: la conclusione di tutto
il ragionamento: vigilare.
L'intera
pericope è circoscritta da una doppia inclusione, finalizzata a
circoscriverne il tema. La prima è data dall'espressione “Quanto a
quel giorno e ora nessuno sa”, che si trova nel v.36 e, in forma
simile, nel v.42; la seconda inclusione è data dall'espressione
“così sarà la venuta del Figlio dell'uomo” in vv.37b e 39b. La
prima inclusione incentra l'intera pericope sul tema
dell'inconoscibilità dei tempi; la seconda fa convergere questa
inconoscibilità sulla venuta del Figlio dell'uomo. Al centro di
tutto, quindi, ci sta la venuta del Figlio dell'uomo, attorno a cui
Matteo tiene in modo particolare stendere un velo di silenzio, quello
dell'inconoscibilità, finalizzato a tranquillizzare le attese della
propria comunità e la ridda di voci e di pretese che si erano
sviluppate attorno a tale venuta. In tal modo egli giustifica le sue
categoriche esortazioni, lanciate nella prima parte del discorso
escatologico, proprio circa la venuta di Cristo (vv.3-4; 23-24; 26).
Il
v.36 introduce il
tema del tempo della venuta di Gesù, rispondendo alla prima domanda
dei discepoli (v.3). “Quanto a quel giorno e ora”, un'espressione
questa che potremmo leggere come una sorta di endiade o come
un'espressione biblica o un ebraismo per dire “il tempo preciso”.
Su questo tempo, attorno al quale si stavano scatenando falsi cristi
e falsi profeti, che agitavano la sua fragile comunità, Matteo
stende un velo di silenzio, dato dall'inconoscibilità di questo
tempo: “nessuno sa” (oÙdeˆj
oŒden,
udeìs oîden).
Un'inconoscibilità, che investe non soltanto gli uomini, ma lo
stesso impenetrabile mondo divino: angeli e Figlio di Dio stesso, che
demandando, invece, la conoscenza allo stesso Padre, unico ed
esclusivo detentore del sapere primo ed ultimo, da cui tutti
dipendono, anche il Figlio. Ed è proprio qui che i teologi si sono
posti il comprensibile interrogativo: com'è possibile che Gesù,
Figlio di Dio e Dio lui stesso, non sapesse. Il problema è
dottrinale, poiché investe i rapporti trinitari. Per poter
comprendere questo lato oscuro di Gesù, ritengo che bisogna
riferirsi alla sua natura umana e non divina. Egli, infatti, “pur
essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio; ma
svuotò (™kšnwsen,
ekénosen)
se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli
uomini [...]” (Fil 2,6-7). Ed è proprio qui, a mio avviso, che si
trova la soluzione del problema: Gesù, pur essendo Dio, è venuto in
mezzo a noi accettando in pieno la nostra condizione umana,
rivestendosi anche lui di una carne decaduta, una carne adamitica, di
peccato.
Egli qui in mezzo a noi ha operato in veste umana e non divina,
benché la potenza del suo operare umano fosse sostanziata dal suo
essere Dio e, per questo, redentrice e salvifica. Ma al di là di
questo potere divino salvifico operante in lui, egli non possedeva
altro. Gesù non è nato onnisciente, non sapeva esattamente fin da
piccolo cosa fare nella sua missione, né dove questa l'avrebbe
portato. Gesù non recitava un ruolo come da copione, ma viveva in
conformità alla volontà del Padre (Gv 4,34), che lui cercava di
scoprire e di comprendere. Solo il tempo e l'attento ascolto delle
Scritture (Lv 4,17-21; 24,27) e dello Spirito (Lc 3,22; 4,1.14)
incominciarono a far luce sulla sua identità e sui suoi destini,
risvegliando in lui la coscienza della sua identità (Lc 2,40.52).
Egli infatti svuotò se stesso da ogni prerogativa divina, che non
fosse quella strettamente salvifica, compresa quella di conoscere i
progetti del Padre, se non strettamente inerenti alla sua missione.
Insomma, l'efficacia del suo operare era divino, ma il suo operare
era squisitamente umano e come tale si muoveva. E così similmente
dicasi degli angeli. Il conoscere delle cose di Dio è soltanto atto
di donazione del Padre, che opera nel Figlio e in lui e per lui si
rivela (Gv 14,9-11). Nessuno può cogliere il mistero di Dio e del
suo mondo se questo non gli è rivelato, cioè donato (Gv 3,27).
Poiché la conoscenza di Dio e dei suoi disegni salvifici non è mai
frutto di intelligenza, ma di compartecipazione, che si radica in un
dono di amore. Conoscere Dio è soltanto un conoscere che attinge
alla rivelazione e, quindi, una conoscenza mediata. Questo lo è per
l'uomo e per ogni altra creatura. L'incarnazione ha posto Gesù nei
confronti del Padre in una condizione creaturale, che sarà superata
soltanto nella risurrezione, venendo costituito in essa Figlio di Dio
per la potenza dello Spirito (Rm 1,3-4). Se, infatti, l'operare
storico di Gesù non fosse stato recuperato dalla sua risurrezione,
tutto si sarebbe ridotto all'operare di un saggio del suo tempo,
opinabile nel suo porsi e nel suo dire, ma niente di più (1Cor
15,14-19). Un personaggio vittima anche lui del relativismo della
storia. È soltanto la risurrezione che dà peso, valore ed
efficacia alla sua missione, rendendola universalmente salvifica
(1Cor 15,20-22).
I
vv.37-41
Dopo la premessa dell'impossibilità di conoscere i tempi (v.36), che
costituisce l'enunciazione del teorema dell'intera pericope
(vv.36-41), i vv.37-39, posti in parallelo e agganciati ai vv.40-41
per affinità di situazioni, fungono da dimostrazione al teorema,
rimandando il lettore alle modalità con cui avvenne il diluvio
universale (Gen 7): nessuno se lo aspettava, così che tutti vennero
colti all'improvviso da un cataclisma, che non ha lasciato scampo a
nessuno. Questo rimando, tuttavia, innesca implicitamente un
confronto tra quei tempi e questi presenti. I punti di contatto sono
essenzialmente tre: a)
la modalità di accadimento del diluvio e della venuta: entrambi
avvengono all'improvviso, in modo inaspettato; b)
lo spazio che andranno a colpire sarà quello della quotidianità del
vivere. L'insistente sottolineatura sul mangiare, sul bere, sullo
sposarsi e sul contrattare matrimoni, indicano tutte attività non
solo del quotidiano vivere (mangiare e bere), ma anche del progettare
il futuro (matrimoni). Questo insieme di attività dà l'idea di
un'umanità tutta intenta a organizzare il proprio tempo, radicata
nei propri affari, senza badare ai segni che le venivano inviati;
nessuno spazio al di là dei propri interessi; c)
il valore di giudizio sia del diluvio, con cui si purificò la terra
dall'inquinamento del male (Gen 6,5.11.12.13), giustiziando l'intera
umanità (Gen 7,21-23), che l'aveva prodotta; sia della venuta che,
come ai tempi di Noè, vedrà salvati alcuni e condannati altri
(vv.40-41). L'associazione e il parallelismo dei due eventi, diluvio
e venuta, è dato anche dal
parallelismo delle due situazioni simili tra loro: nel diluvio venne
salvaguardato Noè e la sua famiglia e lasciato alla perdizione il
resto dell'umanità; nella venuta, similmente, uno viene preso e
l'altro lasciato (vv.40-41). Si tratta di un prendere che ha il senso
di salvaguardare, di porre sotto la propria protezione e la propria
autorità e, quindi di elezione, richiamando così da vicino il v.31,
dove si dice che la venuta del Figlio dell'uomo porterà con sé la
raccolta di tutti i giusti della terra; mentre il lasciato ha il
senso di abbandonato al proprio destino. Il fatto che siano sempre
due le persone interessate non indica una percentuale quantitativa,
bensì due condizioni, due stati di vita: chi è fedele e chi non lo
è; mentre l'uso di due personaggi, al maschile e al femminile,
indica la generalità dell'umanità e, quindi, viene sottolineata la
valenza universale della venuta. Il fatto che questi siano colti nel
campo e alla macina, indica come la venuta li sorprenderà intenti
alle faccende quotidiane e, quindi, in modo improvviso e inaspettato,
così come ai tempi di Noè la gente venne colta dal cataclisma
intenta alle attività quotidiane del mangiare, bere e sposarsi. La
venuta, dunque, porta in sé un elemento di giudizio, di premio e di
condanna.
Il
v.42
è di transizione, poiché chiude la pericope vv.36-41, a cui è
agganciato da quel “oân”
(ûn,
dunque),
e preannuncia il tema che sarà l'oggetto di ben quattro parabole,
finalizzate ad illustrare l'impossibilità di prevedere la venuta, a
cui sono dedicate le prime tre parabole (24,43-25,13), e a
sollecitare un impegno proficuo nell'attesa di questa venuta
(25,14-30). In altri termini gli enunciati dei vv. 34-41, cioè
l'inconoscibilità del tempo della venuta e la sua natura giudiziale,
vengono ora ripresi e riproposti sotto forma di parabole.
Il v.42, inoltre,
funge da doppia inclusione: la prima con il v.36, relativamente
all'inconoscibilità dei tempi; la seconda con il v.25,13,
relativamente alla necessità del vegliare. In tal modo il v.42 viene
a trovarsi al centro di due pericopi (vv.36-41 e vv.24,43-25,13), che
hanno come tema fondamentale il vegliare, quale unica risposta saggia
all'inconoscibilità dei tempi della venuta, che sarà improvvisa e
porterà con sé il giudizio divino.
I
vv.43-51
presentano due
parabole,
la
prima (vv.43-44)
riprende il tema della necessità del vigilare e lo propone in senso
generale. L'immagine usata è quella del ladro, che sopraggiunge
all'improvviso e inatteso nottetempo. Un'immagine che doveva essere
cara alle comunità credenti della prima ora, se si ritrova sparsa
qua e là in diversi libri neotestamentari;
forse perché meglio rende il senso di una venuta, di cui non si
conosce nulla, caratterizzata dalla segretezza e dall'improvvisa
apparizione e che accade nel momento che meno ti aspetti. Anzi,
Matteo definisce il tempo della venuta come quello che non ti
aspetti: “nell'ora in cui non pensate”. Così similmente Luca,
ricordando il ricco, che stanziava beni nei suoi granai, preparandosi
a vivere beatamente tra le cose: “Ma Dio gli disse: Stolto, questa
notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai
preparato di chi sarà?” (Lc 12,20). Sono proprio questi tratti di
oscurità, di imprevedibilità e di aleatorietà, che devono spingere
il credente ad essere sempre presente a se stesso, attento, vigilante
e pronto, senza mai lasciarsi traviare dagli impegni e dalle
difficoltà del presente, senza mai lasciarsi assorbire dalle cose:
“Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora
innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero;
coloro
che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non
godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che
usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la
scena di questo mondo!”
(1Cor 7,29-31).
La
seconda parabola (vv.45-51)
è una sorta di sintesi delle altre due parabole seguenti, quella
delle dieci vergini e quella dei talenti, con le quali ha in comune i
temi di fondo. Con quella delle dieci vergini ha in comune il ritardo
del padrone e il doppio comportamento: chi sa attendere vigile e chi
si addormenta, lasciandosi andare. Con quella dei talenti ha in
comune l'uso proficuo del tempo di attesa, il saper metterlo a
frutto. Ma anche qui, tuttavia, torna il tema del ritardo del
padrone, posto sotto forma di lungo lasso di tempo, che intercorre
dalla partenza del padrone al suo ritorno (25,19). Inoltre la prima
parte della parabola del servo (24,47) termina in modo molto simile a
quella dei talenti: “In verità vi dico, lo porrà sopra a tutti i
suoi servi” (24,47), mentre quella dei talenti termina con “ti
darò autorità su molto” (25,21.23).
Cambiano
soltanto i destinatari: nella parabola in esame l'attore principale è
il servo, che viene posto dal padrone sopra gli altri servi e a cui
è stato dato l'incarico di nutrirli. Si tratta, dunque, di un
responsabile di una comunità di servi, termine questo con cui i
primi credenti amavano definirsi.
Questa parabola, quindi, si muove in chiave ecclesiologica su di uno
sfondo squisitamente parenetico. La parabola apparentemente sembra
raccontare le avventure di due servi, il cui comportamento è
diametralmente opposto. In realtà il servo è sempre lo stesso, ma
viene considerato sotto due aspetti diversi. Si tratta, dunque, della
messa a fuoco di due tipologie di comportamenti, volutamente
caricati, e contrapposti tra loro.
Siamo di fronte ad una tipizzazione, alla creazione di due parametri
di raffronto, sui quali Matteo sviluppa le sue riflessioni, che poi
porge ai suoi coadiutori, che lo supportano nel difficile governo
della sua comunità. Questa parabola è, dunque, loro destinata. Agli
altri componenti della sua comunità Matteo riserverà le altre due
parabole, quella delle dieci vergini (25,1-13) e quella dei talenti
(25,14-30), narrativamente più sviluppate e più ricche, in ultima
analisi, più avvincenti e accattivanti. Il tema, tuttavia, non
cambia: nel ritardo del Signore tutti, indistintamente, a seconda dei
ruoli rivestiti all'interno della comunità, sono chiamati alla
vigilanza e all'impegno proficuo nell'attesa del suo ritorno.
I
vv.45-47
tipizzano l'ideale e il destino del servo, che funge da parametro
positivo, su cui i responsabili della comunità matteana sono
chiamati a riparametrarsi. Tre sono i tratti che lo caratterizzano:
a)
egli è “fedele
e saggio”;
due attributi che sono sinonimi di persona leale e corretta, che sa
gestire in modo appropriato il proprio ruolo, con le attenzioni e le
cure del buon padre di famiglia; b)
egli è anche un responsabile, un capo comunità, avendolo “il
padrone posto
sopra i suoi servi”.
Egli, dunque, è chiamato ad operare in nome e per conto del suo
padrone, lo rappresenta in mezzo alla comunità dei servi, che sa non
essere propri, bensì del suo padrone (“suoi servi”). Per questo
egli deve essere “fedele”, cioè conoscere, aderire e condividere
esistenzialmente le logiche del suo padrone, facendo proprie le sue
esigenze. Fedeltà, dunque, quale sinonimo di adesione esistenziale
al padrone, che significa ancor prima sua accoglienza nella propria
vita, così da divenirne un alter
ego.
c)
Ed infine è un servo che ha un compito importante: nutrire i servi
nel tempo opportuno. Può sembrare una banalità, ma con questo
incarico il padrone di fatto affida la vita stessa dei suoi servi a
questo servo e sopratutto ne affida il suo mantenimento.
Significativo è quel “™n
kairù”
(en
kairô).
Si tratta di un tempo particolare, il tempo in cui si fa più acuto
il bisogno del nutrimento, in cui maggiormente necessario è
mantenere e consolidare la vita di fede di questi servi. L'allusione
è proprio al tempo di cui Matteo sta parlando, il tempo delle scelte
difficili, il tempo delle insidie, delle defezioni, delle
persecuzioni e dei tradimenti. È questo il tempo in cui si vede il
vero responsabile, fedele e saggio, che ha saputo fare propria la
causa del suo padrone, sentendo suoi i servi, quelli del suo del
proprio padrone.
Questo
servo viene definito “beato”, cioè partecipe della vita stessa
del padrone. Questo concetto di beatitudine verrà meglio chiarito
nella parabola dei talenti, là dove il padrone ingiunge al servo,
definito anche questo “buono e fedele”,
di prendere parte alla gioia del suo padrone (25,21.23), perché ha
saputo ben gestire, in modo proficuo, i beni del proprio Signore. È
un padrone che al momento del suo ritorno trova il servo “così
operante” (oÛtwj
poioànta,
útos
poiûnta).
Il verbo qui usato è posto al participio presente. In quanto
participio sottolinea la natura del servo, il suo modo di essere:
“egli è l'operante”; in quanto tempo presente dice la
persistenza, la costanza di questa sua natura operosa, tutta dedita
al suo Signore. Per questo è fedele, saggio e beato; per questo egli
è servo, cioè colui che ha dedicato l'intera sua vita al suo
Signore, conformandola alle sue esigenze.
Il
v.47
si
apre in forma solenne, che carica d'importanza quanto segue, quasi
fosse una sorta di giuramento: “In verità vi dico”. Il premio
per questo servo sembra essere una specie di avanzamento di carriera:
egli, infatti, da responsabile, che è stato posto su dei servi
(v.45), ora, dopo aver dato prova della sua fedeltà e della sua
saggezza; dopo essere stato fatto partecipe della vita stessa del suo
padrone (“beato”) viene posto a capo di “tutti” i servi
(v.47). Forse un'allusione ad una certa gerarchia all'interno della o
delle comunità? O forse si tratta una regola per accedere a maggiori
responsabilità tra le comunità? Chi desidera accedere a maggiori
incarichi all'interno delle varie comunità deve aver dato prova di
fedeltà a Cristo e saggezza nel saper condurre quanti gli sono stati
affidati all'interno della propria comunità. Si deve, infatti, tener
presente come qui si stanno presentando delle tipologie di
comportamento, cioè dei parametri di raffronto, con i quali vengono
misurati i singoli responsabili o singoli coadiutori nelle comunità.
La
seconda pericope (vv.48-51)
presenta ora il rovescio della medaglia. Anche qui ci troviamo di
fronte ad una caratterizzazione di un certo comportamento, ad
un'altra ipotesi comportamentale. Questo servo è definito fin da
subito come malvagio (kakÕj,
kakòs),
la cui vera natura è descritta di seguito: “in cuor suo”. È,
dunque, dalla profondità del suo cuore, dall'intimo della sua stessa
natura malvagia, che nasce il progetto di malvagità: “Il mio
padrone tarda”. Il ritardo del padrone, con il verbo posto al
presente indicativo, costituisce la cornice storica entro cui egli,
approfittandone, dà sfogo alla sua malvagità. Egli non si mette
dalla parte del padrone, ma dalla parte di chi gozzoviglia, con gli
ubriachi, angariando gli altri servi, che non gli appartengono,
usando malamente della sua autorità. In questo servo non si
rispecchia l'immagine del buon pastore, fedele e saggio, ma di un
mercenario. Questa seconda ipotesi non va sottovalutata, ma doveva
riflettere di fatto una certa situazione storica. Ne abbiamo un
esempio nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, il cui contesto è
proprio quello escatologico, quello di un tempo di attesa per un
ritorno che tardava: “E
infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non
vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo
infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far
nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli
nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in
pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se
qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di
lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo
però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello”
(2Ts 3,10-15).
I
vv.50-51
sono riservati al giudizio escatologico, che fin d'ora è posto sulla
neghittosità e sulla malvagità del servo. La venuta del Signore,
richiamandosi al v.36 con cui il v.50 fa inclusione, sarà
inaspettata: “nessuno sa”. Il v.51 viene suddiviso in due parti:
nella prima si afferma che il servo verrà punito severamente; il
verbo al futuro associa la punizione alla venuta stessa del Signore,
anche questa evidenziata con un verbo al futuro (“verrà il
padrone”), che la colloca in un ambito escatologico; la seconda
parte dice in che cosa consista tale punizione: la sua sorte è posta
tra
gli ipocriti,
dove ci sarà lamento
e stridore di denti.
Quest'ultima espressione si trova in tutto il N.T. sette volte, di
cui sei nel solo Matteo e una in Luca ed è metafora della
perdizione. La citazione degli ipocriti, tra i quali si colloca la
perdizione, allude molto probabilmente alla scomunica, alla quale
questi responsabili sono soggetti. Essi, quindi, verranno rigettati
là da dove essi sono venuti, dal giudaismo. Il termine ipocrita,
infatti, è usato prevalentemente da Matteo.
Con questo nome egli indica quasi sempre l'atteggiamento religioso
del giudaismo,
che secondo l'evangelista è destinato alla perdizione eterna per il
suo caparbio rifiuto di Gesù. Anche qui, quindi, ci si trova di
fronte ad una probabile definizione di una regola della comunità
matteana: il responsabile o, come si vedrà nel passo parallelo della
parabola dei talenti (25,30), il semplice credente, che tiene un
comportamento gravemente deplorevole all'interno della comunità,
verrà espulso da questa.
Giovanni
Lonardi
NOTE