IL VANGELO DI MATTEO

Quarto intermezzo narrativo

Capp. 19 - 23



Richiami ed esortazioni alla comunità matteana (capp. 19-20)

Atti di accusa e polemiche roventi contro il giudaismo (capp. 21-23)


Parte Quinta – Cap. 23



Analisi e commento al Cap. 23


Le contraddizioni e le degenerazioni interne
di una religione
fondata sul legalismo:
accuse, condanna e speranza




Introduzione

Preceduto dai capp.21-22, il cap.23 costituisce la terza parte della sezione delle polemiche, la più dura e la più feroce dell'intero N.T., ma che alla fine apre alla speranza (v.39). Se con i capp.21 e 22 il Gesù matteano si scagliava contro la chiusura impenetrabile e ostile del giudaismo nei suoi confronti, questo ultimo capitolo del trittico delle polemiche punta ad evidenziare e a mettere alla berlina, in modo impietoso, le contraddizioni interne di una religione fondata sulla lettera e sulla ricerca della sua perfetta esecuzione, in cui l'ortoprassi si era sostituita alla sincerità del cuore (15,8), tradendo il senso stesso della religione, che vede la vita come il luogo storico accogliente, che l'uomo riserva e consacra al suo Dio; uno spazio cultuale dove il vero credente celebra la sua quotidiana liturgia di lode a Dio (Rm 12,1-2) nella sincerità del cuore e della vita (1Cor 5,7-8). L'accurata attenzione posta sull'ortoprassi, privata dello spirito autentico della Torah, ha portato a delle sue deviazioni interpretative (vv.16-23), riducendo il rapporto con Jhwh ad un mero apparire, che di fatto andava in rotta di collisione con i veri intenti della Legge (vv.24-32), creando una idiosincrasia esistenziale tra l'essere e l'apparire, a tutto vantaggio di quest'ultimo a scapito del primo1. Per ben sette volte viene ripetuta l'accusa di ipocrisia. La stigmatizzazione di questo comportamento religioso deviato e deviante (vv.13.15) si concluderà con un giudizio finale (vv.33-38), che vede la radice ultima di questa impermeabilità a Dio nella contrapposizione di due volontà: quella di Dio e quella del suo popolo: “[...] ho voluto raccogliere i tuoi figli [...] e voi non avete voluto” (v.37).

La struttura del capitolo si sviluppa in cinque parti:


A) vv.1-3: cornice introduttiva dell'intero capitolo;

B) vv.4-12: vengono delineati due comportamenti antitetici: il primo caratterizza lo stile di vita degli Scribi e dei Farisei (vv.4-7); il secondo, posto sotto forma esortativa, delinea l'atteggiamento esistenziale del nuovo credente (vv.8-12);

C) vv.13-32: vengono messi sotto accusa e duramente criticati specifici modi di comportarsi propri degli Scribi e dei Farisei, probabilmente quelli più appariscenti e più noti, sui quali viene posta per ben otto volte l'accusa di ipocrisia.

D) vv. 33-38: potremmo definire questa come la pericope del giudizio e della condanna, che è scandita in due parti: nella prima parte vi è la formulazione delle accuse (vv.34-36), sulle quali già aleggia un pesante giudizio di condanna (v.33); nella seconda parte, che di fatto riprende e sintetizza la prima, si denuncia sotto forma di lamento, portandola alla luce, la radice di ogni vera ipocrisia, che in ultima analisi si riduce ad uno scontro tra due volontà: quella di Dio, che nel suo Cristo voleva dare inizio ad un grande movimento escatologico e messianico, finalizzato a riorientare il giudaismo verso Dio, nell'autenticità di cuore e nella sincerità della vita, così come auspicato dai profeti2; e quella di Israele, che fu un netto rifiuto (“non avete voluto”). La contrapposizione-scontro delle due volontà si conclude con una sentenza di condanna per l'intero giudaismo: “Ecco la vostra casa sarà lasciata deserta” (v.38).

E) v.39: qui viene riportata una sorta di promessa, che ha un sapore di condanna condizionata, ma che dall'altra, apre alla speranza: il giudaismo non potrà mai capire la verità di Gesù e del progetto salvifico di Dio Padre, rimanendone escluso, finché non riconoscerà Gesù come l'inviato di Dio: “[...] non mi vedrete finché non mi direte: benedetto colui che viene nel nome del Signore”.


Commento al cap. 23


vv.1-3: questi primi tre versetti danno l'intonazione all'intero capitolo. Il v.1 riporta i destinatari del monologo di Gesù: le folle e i discepoli. Come si vedrà subito, le folle rimangono invisibili sullo sfondo, come era avvenuto, del resto, per il primo grande discorso di Gesù (5,1). I veri destinatari, al contrario, sono i discepoli, ai quali l'evangelista riserverà in esclusiva i vv.8-12. In buona sostanza, qui, Matteo sta rivolgendosi alla sua comunità formata da giudeocristiani, al cui interno probabilmente c'erano ancora ammiratori e seguaci degli scribi e dei farisei e osservanti della legge mosaica. A questi egli denuncia il riprovevole stile di vita (vv.4-7) e le contraddizioni del vivere religioso (vv.13-30) dei loro beniamini.

Il v.2 presenta l'oggetto delle polemiche dell'intero cap.23: gli Scribi e i Farisei, colti qui come gli eredi dell'insegnamento mosaico: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli Scribi e i Farisei3”. Questa espressione è, a nostro avviso storicamente importante, sia perché l'osservazione qui fatta ci colloca decisamente dopo l'anno 70, quando, dopo la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, causata dalla guerra giudaica (66-73 d.C.), l'unico gruppo ad essere sopravvissuto fu quello degli Scribi e dei Farisei. Questi, inizialmente rifugiatisi a Jamnia4, sotto la guida di Rabbi Johanan ben Zakkai, dettero inizio ad un nuovo tipo di giudaismo, quello rabbinico, non più incentrato sul Tempio e sui sacrifici, bensì sulla sola Torah, di cui essi divennero gli interpreti5. È in questo contesto di giudaismo rabbinico che si colloca la “cattedra di Mosè”6. Ma l'osservazione che fa qui Matteo più che una constatazione sembra essere un atto di accusa: “si sono seduti”, che suona come “hanno usurpato” o “si sono arbitrariamente seduti”, probabilmente alludendo ai fatti di Jamnia o, meglio, alle sue dirette conseguenze. Da tutto ciò traspare una forte polemica, che il nascente cristianesimo aveva innescato con il giudaismo rabbinico. Dopo la distruzione del Tempio e la fine del culto e, quindi, dello stesso giudaismo, ormai allo sbando, chi era il vero interprete della Torah? Chi può dirsi a pieno titolo suo erede? Non v'è dubbio che per Matteo era Rabbi Jeshouah, sulle cui labbra aveva posto i vv.5,17-19: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli”. Una premessa alla quale Matteo fa seguire immediatamente le sei antitesi (5,21-48), con cui Gesù reinterpreta autorevolmente la Torah, secondo lo schema “Avete udito che fu detto agli antichi … ma io vi dico”7. È lui, dunque, il nuovo e autentico interprete; lui il vero erede della cattedra di Mosè. La polemica, quindi, era infuocata, poiché si trattava di cambiare il corso della storia, piazzando il cristianesimo come nuova evoluzione reinterpretata del giudaismo, che in tal modo veniva fagocitato dal cristianesimo, che avrebbe avuto buon gioco, considerato che alle sue origini era percepito ancora come una variante dello stesso giudaismo. Ma a seguito dei fatti di Jamnia (70 d.C.) il giudaismo, quello storico, si riprese sotto un'altra forma, quella del rabbinismo. Il cap.23, dunque, servirà a screditare questo nuovo giudaismo, denunciando tutte le sue contraddizioni interne, destituendolo di ogni autorità morale, come vedremo subito.

Il v.3 è scandito in due parti e funge da tesi, che l'intero cap.23 tenderà a dimostrare: “Il nuovo giudaismo rabbinico, che ha usurpato la cattedra di Mosè (v.2), non ha alcuna autorità morale, perché il suo insegnamento è inficiato da un operare contrario alla Legge stessa”. Esso, quindi, dà l'intonazione allo screditamento, che si riverbererà sull'intero capitolo. Rivolto, infatti, ai suoi discepoli e alle folle, Gesù li invita ad osservare quello che Scribi e Farisei dicono, ma a non fare secondo le loro opere. L'esortazione, apparentemente innocua, in realtà, posta all'interno del giudaismo, è micidiale. Questo, infatti, si qualifica come la religione dell'ortoprassi, in cui il fare ha una rilevanza fondamentale se non esclusiva nella vita religiosa di Israele. Tutta la religione ebraica si incentra sul fare e non sul dire. Matteo, da buon ebreo e pastore, parlando ai suoi giudeocristiani, toccherà proprio questo tasto, a cui essi sono molto sensibili: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). In altri termini, il Gesù matteano sottolinea la correttezza del sapere dottrinale degli Scribi e dei Farisei (v.3a), che del resto si rifà alla Torah, ma ne condanna l'operato, perché questo si discosta dalle Scritture (v.3b). Ed è proprio questo secondo aspetto, che recide alla radice la loro credibilità e la loro autorità morale. Quanto segue (vv.4-39) altro non è, come si è detto, che la dimostrazione della tesi sostenuta in questo v.3.

I vv. 4-12 introducono un confronto ravvicinato tra gli Scribi e i Farisei, che incarnano di fatto il giudaismo, e la nuova comunità messianica, quasi certamente la stessa comunità matteana, a cui l'evangelista si sta rivolgendo8. È un confronto tra due stili di vita, due modi di intendere il giudaismo: quello rabbinico e quello nuovo di Gesù, che in 5,17-48 reinterpreterà la Torah secondo un nuovo criterio, quello legato alla sincerità del cuore, alla vita e alla persona stessa, colta nelle sue varie sfaccettature di vita quotidiana9. Matteo, nella sua vis polemica contro il giudaismo rabbinico, non è nuovo a questo tipo di confronti, dai quali il giudaismo ne esce una volta di più sconfitto da uno stile di vita sobrio, essenziale, fondato sulla sincerità del cuore, rivolto, nel suo segreto, al Padre. Lo ha fatto nel primo grande discorso di Gesù, quando esortava ad un modo schivo e riservato nel fare l'elemosina, stigmatizzando, invece, gli ipocriti, che fanno suonare la tromba nelle sinagoghe e nelle strade per attirare l'attenzione degli altri (6,2-4); lo ha fatto sul tema della preghiera, che deve essere sincera e umile e non come quella degli ipocriti, che amano pregare stando ritti in piedi nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per farsi vedere dagli uomini (6,5-6); lo ha fatto, infine, sulla questione del digiuno, che deve essere fatto nella sincerità del cuore, garantita dalla segretezza; contrariamente agli ipocriti che, invece, si sfigurano il volto, per far vedere agli altri che digiunano (6,16-18).

La pericope si sviluppa su due parti:

A) vv.4-7: questa breve pericope, se da un lato, costituisce la motivazione che sottende il v.3b, sostanziandone l'asserzione, dall'altro, delinea la vacuità dello stile di vita degli Scribi e dei Farisei. Questa prima parte forma la cornice entro cui, poi, verranno poste le contraddizioni rilevate nei vv.13-39. Infatti, la superficialità nel vivere la religione, strumentalizzata a fini personali e sociali, porta inevitabilmente a delle deviazioni nel suo esprimersi esistenziale (vv.13-39).

B) vv.8-12: viene delineato, per contrapposizione ai vv.4-7, lo stile di vita della nuova comunità messianica e dei suoi membri, incentrato essenzialmente sul servizio all'altro. Se in vv.4-7 l'attore principale, attorno a cui tutto gira, è il proprio “IO” e la sua affermazione, anche a spese dell'altro (v.4), qui, in 8-12, viceversa, è la figura dell' “altro” che prevale su tutti e verso cui il nuovo credente si pone a disposizione in un atteggiamento di servizio. In esso, infatti, egli trova la sua realizzazione e la sua nuova identità, che ha come parametro fondamentale lo stesso Gesù, il quale “[...] non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28). Un servizio, quindi, che fa della vita di Gesù una proesistenza ed ha il suo vertice nella croce.

Il v.4 mette in evidenza la contraddizione tra il dire e il fare, con cui terminava il v.3b. I pesanti carichi, di cui qui si parla, fanno riferimento alla Torah orale, il cui compito era quello di dare concretezza alla Torah scritta. Questa, infatti, enunciando soltanto dei principi, era di fatto inapplicabile nella quotidianità della vita. Il divieto di lavorare di sabato (Es 20,10) come doveva essere applicato? Che cosa si doveva intendere per lavoro? In quali casi era possibile comunque lavorare? Delle risposte si occuperà, per l'appunto, la Torah orale. Tuttavia, l'eccesso di zelo e la preoccupazione che nessun comandamento venisse anche inavvertitamente violato, ha portato i dottori della Legge a creare attorno alla Torah scritta una sorta di siepe normativa protettiva, che nel tempo si andava sempre più inspessendo fino a renderla ingestibile, creando non poche difficoltà ed intralci alla quotidianità del vivere (v.4a); non solo, ma essa arrivò anche ad oscurare la stessa Torah scritta, di fatto violandola. Alcune accuse di questo cap.23 riguardano proprio quest'ultimo aspetto (vv.16-23). Contro questo rigorismo legale, che aveva prodotto un'enorme quanto ingestibile quantità di precetti, che avevano lo stesso valore della Torah scritta, Gesù lancerà i suoi strali, di fatto destituendolo di ogni valore morale: “Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9).

Se il v.4 puntava il dito contro il sistema religioso, imperniato su di una farraginosità normativa, che nell'intento di non offendere la Torah scritta, inaridiva il cuore dell'uomo nei suoi rapporti con Dio (15,8), i vv.5-7 dipingono lo stile di vita dei rappresentanti del giudaismo, destituendoli, di fatto, di ogni autorevolezza morale. Sono tre gli elementi contro i quali il Gesù matteano punta il dito, tutti sottesi da una comune volontà di primeggiare e di essere lodati dagli uomini:

a) v.5: la sincerità dell'agire religioso, che viene a mancare qualora esso abbia come obiettivo non più il culto a Dio, bensì l'attenzione degli uomini. Già in tal senso si è accennato sopra nel commento introduttivo dei vv.4-12. Qui Matteo accentra la sua attenzione contro l'ostentazione dell'abbigliamento religioso, con cui si adornavano in modo zelante e vistoso i Farisei in ottemperanza della Legge10: “distendono i loro filatteri11 ed esagerano le frange12”.

b) vv.6-7a: tre sono gli elementi d'interesse in questo versetto: a) il verbo “filoàsin” (filûsin), che significa anche prendersi cura, aver cura, prestare la propria attenzione; un verbo che dice la tensione psicologica di questi personaggi, protesi ad una attenta ricerca della propria affermazione; b) l'espressione “primi posti”, ripetuta due volte, definisce l'unico obiettivo delle loro attenzioni; c) i luoghi del loro primeggiare: i “banchetti”, “le sinagoghe” e le “piazze”, come dire i luoghi pubblici, sia essi civili che religiosi; luoghi dove essi profondono il loro impegno, dedicato all'affermazione di se stessi, strumentalizzando il mondo sacro di Dio e la loro posizione di intermediari della sua Parola, per trarne vantaggi personali. A questi, che il Gesù matteano definirà “ipocriti”, dirà che “hanno già ricevuto la loro ricompensa” (6,2.5.16). Un'attenzione va riservata a questo termine, ipocrita, che ricorre in tutto il N.T. 17 volte, di cui 14 nel solo Matteo, con il quale l'evangelista definisce le autorità religiose del giudaismo, in particolar modo i Farisei. Il sostantivo, in greco, significa colui che recita, che sostiene una parte, che finge e simula. In altri termini, uno che mostra una faccia, ma la realtà è un'altra. Vi è, quindi, in queste persone una sorta di schizofrenia morale, una dissonanza tra la forma e la sostanza. Il senso concreto di questo termine troverà nei versetti successivi la sua esemplificazione (vv.14.23.25.27).

c) v.7b: questa seconda parte del v.7 mette in rilievo la ricerca della titolatura. Il termine “Rabbì”, dall'ebraico “rav” (grande), significa letteralmente “mio grande”. Prima del 70 d.C. non era ancora un titolo accademico, ma semplicemente onorifico, corrispondente al nostro “onorevole”, “eccellenza”, “monsignore”, persona, quindi, di rispetto e socialmente rilevante. Un titolo, dunque, che si applicava a persone eminenti. Quando, pertanto, in quest'epoca, il discepolo si rivolgeva al suo maestro con il titolo di “Rabbì” esprimeva una relazione personale con lui e ne riconosceva l'autorità. Sarà soltanto tra la fine del I sec. e il II sec. d.C., dopo l'affermazione del giudaismo rabbinico, che il titolo acquisirà una valenza accademica ed ufficiale, che si consegue al termine di un percorso formativo. Il fatto che l'autore accusi gli Scribi e i Farisei di amare farsi chiamare “Rabbì”, e, quindi, la ricerca del titolo, significa che qui siamo prima degli anni 70 e l'accusa sembra, pertanto, riferirsi a fatti veritieri.

Il v.7b lo potremmo definire come un versetto di transizione, poiché, posto in chiusura della pericope vv.4-7, introduce di fatto la seconda pericope (vv,8-12), che inizia riprendendolo.


vv.8-12: Se i vv.4-7 delineavano uno stile di vita improntato all'affermazione di se stessi e alla ricerca di spazi sempre più grandi, al cui centro collocare il proprio “Io”, questa pericope si pone in posizione antitetica: l'Io che si fa servo degli altri; un Io che fa spazio in se stesso per accogliere gli altri. Matteo qui sta rivolgendosi alla sua comunità, o forse è meglio dire, ai responsabili della sua comunità, forse suoi collaboratori nella catechesi. Per per ben tre volte, infatti, si rimarca il termine “maestro” e una volta quello di “padre”, accompagnati dall'invito a non farsi chiamare così. Matteo, quindi, sta delineando un nuovo stile di vita e un nuovo modo di relazionarsi intracomunitario, che ha come comune denominatore il porsi al servizio dell'altro, il farsi dono per l'altro.

La pericope è costruita con cura particolare, segno che l'autore puntava molto su questa, per renderne efficace il messaggio. Essa si struttura in due parti:

A) vv.8-10 riportano tre divieti, seguiti dalla relativa motivazione storica (v.8), teologica (v.9) e cristologica (v.10). A loro volta questi tre versetti sono distribuiti in modo parallelo così che il primo (v.8) e il terzo (v.10) sono concentrici nel v.9, il più importante; inoltre, a loro volta, i vv.8 e 10 formano inclusione tra loro con l'espressione “uno è il vostro maestro”, dando il tema di fondo all'intera pericope (vv.8-10).

B) vv.11-12 formano la seconda parte della pericope (vv.8-12), costituita da un comando al positivo (v.11), seguito da un detto sapienziale (v.12), che funge da sentenza posta sul v.11.

Il v.8 si apre riprendendo la conclusione del v.7b, la quale funge da tema negativo a questa prima parte della pericope (vv.8-10); in altri termini l'esempio da non imitare. Non a caso l'autore pone all'inizio del versetto una forte contrapposizione, che cade sul pronome “Øme‹j de” (imeîs dè), “Ma voi”, mettendo, quindi, in diretta antitesi i responsabili della sua comunità con i rappresentanti del mondo giudaico, accentuando in tal modo la polemica (quasi ce ne fosse bisogno); come dire: voi non dovete essere come loro.

Lo schema dei vv.8-10, infatti, è quello della contrapposizione: per tre volte si dice “Non fatevi chiamare”, sottintendendo sempre come invece “amano farsi chiamare” gli Scribi e i Farisei (vv.6-8), costante parametro di raffronto. Singolari, invece, sono le motivazioni che di volta in volta Matteo porta ad ogni esortazione e che si muovono su di uno sfondo storico (v.8), teologico (v.9) e cristologico (v.10). Tutte tre hanno una comune base: “perché uno è”, con un forte richiamo all'unità, ma di volta in volta cambiano i soggetti. Il primo “uno è” ha per soggetto, non nominato, la figura del Gesù storico, lasciato sottinteso, forse perché la sua figura storica è lontana dalla comunità matteana, formata ormai da nuove generazioni di credenti. Il Gesù della storia è solo un ricordo, ma rimane pur sempre un esempio da imitare per i responsabili della comunità. Gesù tra i suoi e in mezzo alle folle era riconosciuto come l'unico ed esclusivo maestro, che parlava con autorità (7,29). La sua figura catalizzava attorno a sé discepoli e folle. Lui solo però aveva la parola di verità; lui solo aveva il potere di inviare. Su quella linea devono porsi anche i catechisti della comunità matteana: uno solo era il vero maestro, tutti gli altri erano suoi discepoli, posti alla sua sequela e resi tra loro tutti fratelli per mezzo della fede nell'unico vero maestro, Gesù.

Il secondo “uno è” ha per soggetto il Padre, fonte di ogni paternità. L'autore della lettera agli Efesini sottolinea tale aspetto: “Per questo, dico, io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 3,14-15); così similmente il Gesù giovanneo ricorda a Pilato che lui non avrebbe nessun potere se non gli venisse dato dall'alto (Gv 19,10-11a). Vero ed unico Padre è soltanto Dio stesso. Innanzitutto Padre del Figlio Unigenito (Gv 1,14.18), in cui egli ci ha scelti predestinandoci ad essere anche noi suoi figli nel Figlio (Ef 1,4a.5). Egli, dunque ci ha generati a vita nuova in Cristo e per Cristo (2Cor 5,17). Per questo, avendo un unico Padre, siamo tutti suoi figli esclusivi e pertanto fratelli tra di noi. Nessuno, quindi, può fregiarsi di tale titolo13 all'interno della comunità, generata in Cristo e per Cristo dall'unico Padre14, sia di Gesù che nostro (Gv 20,17).

Il terzo “uno è” ha per soggetto Cristo, colto qui nella sua dimensione di maestro. Se il Gesù della storia, sottinteso al v.8, costituiva un mero esempio, un ricordo a cui conformarsi da parte della comunità e in particolare dei suoi responsabili, qui, al v.10, il Gesù della storia si è trasformato in Cristo ed è colto nella pienezza della sua divinità, manifestatasi nella risurrezione (Rm 1,4). La sua presenza non è un semplice ricordo, bensì è percepita come una presenza viva in mezzo alla comunità. La sua parola risuona al suo interno viva ed efficace (Eb 4,12) e ammaestra ancor oggi per bocca degli apostoli e dei catechisti e da essa vengono generati i nuovi credenti15. Ma apostoli e catechisti non sono maestri, bensì strumenti in mano all'unico Maestro, sue propaggini nella storia, che hanno ricevuto il mandato dell'annuncio per farlo risuonare lungo i secoli (28,19-20).

L'insistenza sul fatto di “non farsi chiamare” ponendo come motivazione che “uno è” lascia trasparire la preoccupazione pastorale di Matteo16, che probabilmente vede l'emergere dell'orgoglio dei propri collaboratori e responsabili; delle orgogliose pretese che tendono a dividere e a creare conflittualità all'interno della sua comunità. Si tratta, quindi, di un appello all'unità (“uno è”), facendo prevalere questa sulle personali aspirazioni (“Non fatevi chiamare”).

I vv.11-12 sono composti da un comandamento (v.11) e da una sentenza, che supporta il comandamento con una sorta di giudizio, collocandolo su di uno sfondo escatologico (v.12).

Il comandamento, come del resto questa intera pericope (vv.8-12), è chiaramente indirizzata ai capi e alle guide della comunità matteana. L'evangelista, infatti, si sta rivolgendo a chi ricopre degli incarichi: “Il più grande di voi sia vostro servo”. Questa è la regola d'oro per i responsabili, invitati a svolgere le proprie funzioni dirigenziali con uno spirito di servizio, intendendo l'autorità come uno strumento finalizzato non a dominare sugli altri, ma, come dice il senso etimologico del termine17, per far crescere gli altri, per affermarli nella loro fede. Il senso del servizio, sull'esempio di Gesù venuto per servire e non per farsi servire, era molto sentito all'interno delle prime comunità credenti, che le qualificava come comunità che si ponevano al servizio dei propri fratelli. Emblematico, in tal senso, è il racconto della guarigione della suocera di Pietro, in cui si parla della rigenerazione dell'uomo che incontra Gesù e del suo nuovo orientamento esistenziale, che si esprime, in primis, nel porre la propria vita al servizio degli altri (“fu rialzata e lo serviva” 8,15b)18. Il sapersi mettere al servizio e a disposizione degli altri era, dunque, il segno della sincerità della propria fede. Un tema, come si è detto, molto caro questo alla chiesa primitiva, tanto che venne istituito fin da subito una sorta di ordine diaconale19, il cui compito era quello di gestire i servizi all'interno della comunità (At 6,1-6).

Il v.12 colloca il lettore all'interno del giudizio escatologico, in cui le cose, per il potere di Dio, vengono rovesciate20. Basti l'esempio della parabola lucana di Lazzaro e il ricco: “Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti” (Lc 16,25).

Il v.12 è scandito in due parti tra loro antitetiche, in ciascuna delle quali c'è un verbo posto al presente indicativo e uno al futuro passivo. Il soggetto del verbo al presente indicativo è l'uomo, colto nel suo agire storico presente; mentre il verbo posto al futuro passivo rimanda l'uomo al giudizio divino finale, significato dal verbo al passivo, che nel linguaggio biblico neotestamentario ha per soggetto Dio stesso, mentre il tempo al futuro colloca tale azione in ambito escatologico.

vv.13-32: questa ampia pericope è caratterizzata dalla presenza dell'espressione, ripetuta per ben sette volte, “Guai a voi Scribi e Farisei ipocriti”, seguita dall'accusa-denuncia sul comportamento riprovevole di questa classe dirigenziale. L'espressione introduttiva, dunque, funge da giudizio di condanna, che viene posto sugli Scribi e sui Farisei a motivo del loro comportamento ipocrita. L'aria che qui si respira è quella propria di una resa dei conti, che assume i toni di un'arringa finale, pronunciata dall'accusa prima di una sentenza, che non ammette appello. La cornice è quella propria di un giudizio finale.

In tutta la Bibbia l'esclamazione “Ouaˆ” (Uaì, Guai) ricorre 9621 volte, 61 nell'A.T. e 35 nel N.T. ed assume sfaccettature diverse a seconda delle situazioni a cui si riferisce, pur avendo come comune denominatore una pesante e incombente minaccia che il “Guai” porta in se stesso. Esso assume, in particolar modo nel linguaggio profetico, in cui essa ricorre ben 47 volte, e nel contesto neotestamentario, il significato di un giudizio compiuto o di un anatema lanciato contro le infedeltà del popolo o contro singoli comportamenti deviati22.

Un'attenzione va riservata al v.1423, che nel vangelo matteano viene riportato come numerazione, ma non come contenuto, poiché è ritenuto dai critici una interpolazione, in quanto non è presente nella maggioranza dei testimoni, ma soltanto in alcuni manoscritti. Del resto, a ben guardare, il contenuto del versetto mal si inserisce all'interno dei vv.13-15, che riguardano il ruolo istituzionale dei Farisei; mentre esso si inserirebbe meglio, anche se ancora striderebbe un po', dopo il v.28. Esso è presente in Mc 12,40, in cui bene si inserisce sia perché delinea assieme ai vv.12,38-39 alcuni tratti dei Farisei, sia perché preannuncia il tema della vedova, che gettò nel tesoro del tempio solo due spiccioli (Mc 12,41-44); e in Lc 20,47, per il quale vale sostanzialmente la stessa osservazione fatta per Marco.

La struttura della pericope (vv.13-32) è esclusivamente tematica e si può raggruppare in quattro parti:

A) vv.13-15: riguarda il ruolo istituzionale ricoperto dagli Scribi e dai Farisei come interpreti della Legge e come missionari del giudaismo;

B) vv.16-22: riguarda il loro insegnamento circa il giuramento;

C) vv.23-29: riguarda il loro modo di intendere e di attuare la purità;

D) vv.30-32: riguarda il loro sentirsi giusti.


Il v.13 pone l'accento sul “chiudete il regno dei cieli”, di conseguenza non vi entrano né Scribi-Farisei, né altri che, invece, desidererebbero entrarci. L'accusa, innanzitutto, è rivolta all'interno del solo mondo giudaico dove l'annuncio del Regno ha trovato forti ostacoli per il pervicace rifiuto, che rendeva impermeabili le autorità giudaiche ad ogni appello e ad ogni segno (Gv 12,37). L'accusa del chiudere si riferisce probabilmente ad una duplice attività delle autorità religiose giudaiche: a) la complicata e farraginosa interpretazione della Torah, che rendeva estremamente difficile la sua applicazione nella vita (v.4) e legava il pio credente ad un legalismo, che lo svuotava nello spirito, rendendolo sterile e insensibile alle esigenze divine (2Cor 3,6b) e all'annuncio del Regno; b) una sistematica attività di persecuzione nei confronti del nascente cristianesimo, in particolar modo contro i giudei convertiti alla nuova fede. Si pensi in tal senso alla loro esclusione dalla sinagoga, la quale cosa equivaleva ad una sorta di morte civile e religiosa (Gv 9,22; 12,42); alla loro menzione nella dodicesima benedizione24, eufemismo che sta per maledizione, dello Shemonè esrè; si pensi alle persecuzioni sistematiche di cui fu protagonista indefesso lo stesso Paolo, prima della sua conversione (At 8,3; 9,1-2), attorno al quale si era diffusa una triste fama (At 9,13-14.21.26); si pensi all'uccisione di Stefano (At 7,54-60) e agli arresti perpetrati contro i discepoli e gli apostoli25.

Il v.15 allude all'attività di proselitismo dei missionari giudaici, sopratutto quello della diaspora26, che fu particolarmente vasto27 e di cui abbiamo testimonianza negli Atti degli Apostoli28, nelle lettere di Paolo29 e in Giuseppe Flavio30. Il tono qui è fortemente polemico e probabilmente lascia trasparire un sottofondo di concorrenza con il nascente cristianesimo. La rivalità tra le due formazioni religiose nell'ambito del proselitismo doveva essere particolarmente forte. Ne abbiamo una testimonianza nel decreto di espulsione dei Giudei e dei cristiani da Roma ad opera dell'imperatore Claudio (49 d.C.), che stanco dei continui disordini, provocati dalle due comunità, decise di espellere i Giudei e con essi sicuramente anche i cristiani, che ancora erano percepiti come una setta giudaica, una sorta di variante del giudaismo. Il motivo dei continui disordini era da attribuirsi quasi certamente all'attività di forte proselitismo della comunità cristiana di Roma, rivolta sia verso i pagani che gli stessi Giudei, qui stanziati. Ciò si deduce dalla testimonianza dello stesso Svetonio: “Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit” (Vita Claudii, 23,4)31. Il fatto ci è indirettamente testimoniato anche dagli Atti degli Apostoli, là dove Paolo era diretto a Corinto (At 18,1) e : “Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. [...]” (At 18,2).

Un appunto va fatto sulla nota del v.15b, secondo cui, una volta convertito il proselito, i Farisei ne facevano un figlio della Geenna il doppio di quello che essi erano. Essa probabilmente allude al meticoloso e scrupoloso rigore che ogni neofita, nella sua nuova condizione di convertito e sospinto da uno stato di esaltazione, metteva nell'osservanza della Legge, raggiungendo anche tratti di fanatismo, mancando costui sia dell'esperienza sia di un'equilibrata conoscenza, per cui si tende a vedere ed accogliere tutto nella nuova prospettiva scoperta, assolutizzandola.

vv.16-22: Se i vv.13.15 andavano a colpire il ruolo delle autorità religiose per le modalità con cui questo veniva interpretato, creando intralcio e impedimento alla crescita e all'evoluzione spirituale del popolo, i vv.16-22 puntano il dito contro l'insegnamento dottrinale impartito da loro. Il tema preso in esame dall'autore è il giuramento. Un tema questo non nuovo per Matteo, che già lo aveva affrontato nel primo grande discorso32 (vv.5,33-37); ma se là si stigmatizzava la facilità con cui si giurava, banalizzando lo stesso istituto del giuramento, qui si va a colpire le sue modalità di espletamento, mettendo in luce la cecità spirituale e morale che lo sottendeva e, quindi, smascherando l'ipocrisia di fondo, in cui si radicava. Non vi è contraddizione, pertanto, tra quanto affermato in 5,33-37 e qui in vv.16-22. Là, infatti, Gesù rimproverava la superficialità e la banalizzazione di un istituto sacro e lo proibiva, invitando a sostituirlo con la sincerità e la franchezza della parola; mentre qui Gesù non afferma affatto che si può giurare, ma muove soltanto un'accusa sulle sue modalità di espletazione, delle quali denuncia l'ipocrisia. Così pure i vv.20-23 non sono un invito a giurare in modo corretto, ma semplicemente rimettono le cose al loro posto, ponendo in rilievo la preminenza di Dio su tutto il resto.

In questa pericope Scribi e Farisei sono sempre colti nel loro ruolo di autorità religiose (“guide”), che vengono tuttavia definite, nel più ampio contesto dei vv.16-26, per ben cinque volte cieche33 e per una volta stolte (v.17), definizione quest'ultima che qualifica la cecità dell'intelletto e del buon senso.

Va, infine, sottolineata l'inclusione determinata dall'espressione “Guide cieche” nei vv.16 e 24, che se da un lato dà compattezza all'intera pericope, dall'altro crea lo sfondo entro cui viene collocato il suo contenuto: l'accusa di cecità spirituale della leadership religiosa di Israele, togliendole ogni autorità morale e, pertanto, destituendola dal suo ruolo, che Matteo, qui, solo in apparenza accetta (v.3a), ma che di fatto, in vario modo nel corso del cap.23, disconosce.

La struttura della pericope in esame si snoda su tre parti e si muove all'interno di una cornice giudiziale formata da a) denuncia-accusa (vv.16.18); b) argomentazione (vv.17.19); c) sentenza finale (vv.20-22).

I due tipi di giuramento posti qui sotto accusa, probabilmente perché i più frequenti e quindi i più conosciuti, sono quello legato all'oro del tempio e quello legato all'offerta portata all'altare, su quale veniva consumata. Per poter comprendere la sottigliezza del ragionamento che l'autore fa e nel contempo la perversità che sottendeva i due tipi di giuramento, posti tra loro in parallelo e quindi tra loro accomunati, è bene mettere in luce i quattro elementi, posti in gioco due a due: tempio-altare, oro-offerta. Il primo binomio forma il contenitore sacro e generatore di sacertà e di santità (vv.17.19), poiché avvolto dalla presenza di Jhwh nel Sancta Sanctorum. Se il Tempio era la casa di Jhwh e il luogo d'incontro con il suo popolo34, l'altare, cuore del Tempio, ne costituiva il punto di contatto, mediato attraverso l'offerta35. Tuttavia il giuramento non veniva posto sul Tempio o sull'Altare, bensì sulla materialità dei doni, vincolando i fedeli con giuramento su questi beni materiali, denunciando in tal modo l'interesse, tutt'altro che spirituale, delle autorità religiose, che usavano, in buona sostanza, la cornice sacra del Tempio e dell'Altare per arricchirsi e ottenere vantaggi personali. Quale fosse la considerazione che le autorità religiose avessero del Tempio e dell'Altare, denunciando una volta di più l'orientamento dei loro interessi, ma nel contempo rilevando anche il loro basso profilo spirituale e morale, viene evidenziata da Matteo, ponendo accanto ai termini Tempio e Altare l'espressione “non è niente” (oÙdšn ™stin, udén estin), come dire che essi non hanno alcun interesse per le cose di Dio, del quale, invece, dovevano essere guide e mediatori presso il popolo.

In questo contesto diventa meglio comprensibile la lamentela del Gesù sinottico36, che accusava la classe dirigente di aver trasformato il Tempio in una spelonca di ladri; mentre quello giovanneo, in termini più confacenti, si lamentava per il mercato in cui era stato trasformato il Tempio (Gv 2,16).

Dopo aver argomentato come ciò che rende sacro il bene materiale, attirandolo nella sfera del divino e conferendogli un'alea di santità, siano la sacralità e la santità stesse del Tempio e dell'Altare (vv.17.19), Matteo ne trae ora la conclusione e passa alla sentenza finale (vv.20-22). Questa riconduce alla verità originale del vero culto, legato a Dio e non alle cose, così come la validità del giuramento vincola il credente per il suo impegno che lo aggancia a Dio, chiamandolo a sua testimonianza. Lo spostamento dell'interesse dalle cose a Dio lascia trasparire il senso della missione di Gesù, che era venuto anche per dare un nuovo impulso ad un culto e ad una religiosità languenti e inaridite da una formalismo e da un legalismo religiosi (15,8), che non lasciavano più nessuno spazio a Dio per interagire con l'uomo (v.37), inaridito da norme opprimenti (v.3).

vv.23-28: se i vv. 13.15 parlavano del ruolo nefasto delle autorità religiose nei confronti del popolo; mentre i vv.16-22 puntavano il dito contro la loro dottrina, qui il Gesù matteano stigmatizza alcuni comportamenti propri dei Farisei. Essi sono presentati come scrupolosi esecutori delle disposizioni della Legge, ma dimentichi della sua sostanza; quella che non vive di buone norme, ma fa appello diretto alla retta coscienza della persona, alla sincerità del suo cuore, alla sua onestà intellettuale; quella sostanza normativa, che pretende una continua revisione del proprio modo di vivere, che comporta un riorientamento esistenziale e che, in ultima analisi, invoca un atteggiamento di costante conversione a Dio, tale da diventare uno stile di vita.

La pericope affronta due aree del vivere religioso: la prima riguarda le modalità dell'esecuzione della Legge (v.23); la seconda , a cui viene dedicato lo spazio maggiore (ben cinque versetti), si occupa del tema della purità (vv.24-28). La particolare insistenza su questo tema fa pensare alla sua importanza, che probabilmente aveva all'interno della stessa comunità matteana, la quale, non va mai scordato, era composta per lo più di cristiani provenienti dal giudaismo, ancora molto radicato in loro. L'attacco che, quindi, Matteo muove alla pratica della purità legale serve a spostare l'attenzione del suo ascoltatore sulla purità e sulla rettitudine interiori. Della questione l'autore già se ne era occupato in 15,10-20, limitatamente alla purità dei cibi, ma la conclusione non poteva che essere univoca e riallacciarsi a questa: la vera purità è sempre quella del cuore; tutto il resto acquisisce valore solo se è testimonianza di questa. Non v'è dubbio che l'intento primario di Gesù è quello di ricondurre l'uomo non alla pratica religiosa, ma a vivere la religione, intesa come rapporto esistenziale con Dio e apertura del proprio vivere alle sue esigenze.

Lo schema narrativo di questa pericope si snoda su tre parti:

A) v.23: L'enunciato sul modo autentico di vivere la Legge, che va eseguita nelle sue disposizioni, poste, tuttavia, all'interno di una cornice di giustizia, di misericordia e di fede. Queste costituiscono la vera sostanza della Legge, alle quali tutto deve essere ricondotto e da cui tutto trae la sua giustificazione e il suo senso;

B) v.24: introduzione alla polemica sul tema della purità;

C) vv.25-28: la polemica sul modo di intendere la purità, che si sviluppa su due esempi tra loro paralleli.


Il v.23 potremmo definirlo come una sorta di paradosso, finalizzato a mettere in rilievo il contrastante modo di intendere e di vivere la pratica religiosa. Esso nasce dal mettere a confronto la scrupolosa cura, quasi ossessiva, nel pagare la decima anche su delle erbe del tutto insignificanti, come per l'appunto la menta, l'anice e il cumino, con la trascuratezza, invece, di regole morali fondamentali e determinanti del vivere l'Alleanza, come la pratica della giustizia nei rapporti con gli altri, il senso della misericordia e la fedeltà a Dio.

La decima era una tassa, corrispondente al nostro dieci percento, posta sul patrimonio e sul reddito.

Era questa una pratica molto diffusa nell'antichità e si riscontrava presso i Fenici, i Cartaginesi, i Babilonesi, i Persiani, gli Arabi e anche presso i Greci e i Romani. Anche Israele la praticava, ma qui essa assumeva una duplice valenza: teologica, in quanto si riconosceva come i beni della terra fossero dono gratuito di Jhwh e, pertanto, a Lui andavano restituiti in parte; e sociale, per il sostentamento dei poveri, per un principio di solidarietà, che legava tra loro tutti i membri dell'Alleanza. La decima trovava il suo fondamento biblico in Lv 27,30.32 e in Dt 14,22 e doveva essere consegnata, secondo Nm 18,21, ai Leviti per il servizio reso nel culto. Tuttavia, ogni tre anni, doveva essere consegnata, oltre che ai Leviti, anche al forestiero, all'orfano e alla vedova (Dt 26,12). Nel periodo intertestamentario, nel N.T e anche successivamente esistevano tre tipi di decime: la prima sui cereali e sulla frutta, spettante ai Leviti; la seconda riservata al Tempio e la terza, ogni tre/sei anni destinata ai poveri (Tb 1,6-8). Quest'ultima era sostitutiva di quella del Tempio37.

In contrapposizione a questo modo legalistico e semplicistico di intendere la religione, Matteo rimanda a tre fondamentali tratti del vivere religioso, tre modi di interpretare la Torah, ai quali egli rimanda la sua comunità: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. L'autore qui si muove sulla linea della tradizione profetica38, la quale, a fronte di un culto esteriore, fatto di sacrifici e di offerte, indica quello più autentico e più impegnativo, quello del cuore39. Ma nel contempo, Matteo, da buono scriba40 e da buon pastore, non dimentico che la sua comunità è composta prevalentemente da giudeocristiani, è sempre alla ricerca, alla stregua dei dottori del suo tempo, del comandamento più importante (22,36), che rappresenti l'essenza della Torah, ne sia una sorta di sua sintesi, cercando in tal modo di semplificare la ridda di regole41 che codificavano e appesantivano la vita quotidiana del pio israelita (v.4). Il suo vangelo, qua e là, ha queste sintesi, che formano una sorta di capisaldi del vivere religioso, punti di riferimento per il nuovo credente, che proviene dal giudaismo42.

Praticare la giustizia, la misericordia e la fedeltà43 non significava per Israele percorrere tre strade tra loro parallele e distinte, bensì addentrarsi in un unica realtà, quella divina, che gli chiedeva una coerente e univoca risposta esistenziale alla giustizia, alla misericordia e alla fedeltà di Dio, delle quali Israele aveva fatto esperienza. La giustizia di Dio è percepita nell'A.T. come la fedeltà di Dio alle sue promesse e alla sua Alleanza con Israele, spesso disattese dalla fragilità del popolo, che da Dio fu sempre compreso e perdonato, anche se ripetutamente castigato (Es 34,6-7; Sal 98,8). Per questo Israele non fu mai respinto da Dio, ma fu sempre oggetto della sua misericordia e del suo perdono, che dicono il modo con cui Dio si relazionava al suo popolo (Sir 17,24; Dn 9,9), dal quale non volle mai separarsi, ma rimanergli fedele (Dt 7,9), inviandogli di continuo mediatori e profeti (v.36). Per questo Egli è giusto, poiché è fedele, in primis, a se stesso e, proprio perché fedele a se stesso e al suo progetto salvifico, pensato fin dall'eternità (Ef 1,4-5), è fedele anche all'oggetto della sua fedeltà (Zc 8,7-8). Essa si esprime nella misericordia e nel perdono (1Gv 1,9), che hanno trovato nella pienezza dei tempi la loro massima e definitiva espressione nel Crocifisso-Risorto44, suo dono di amore del Padre all'uomo (Gv 3,16). Ora, è proprio questa esperienza che il nuovo credente ha fatto della giustizia-fedeltà di Dio per mezzo della sua misericordia, manifestatesi e attuatesi nel suo Cristo, che egli è chiamato a giustificare, a perdonare e ad accogliere l'altro (6,12.14-15;18,32-33), pensandolo e sentendolo suo fratello, poiché radicato nella comune esperienza dell'unico Padre45 (23,9), da cui tutti sono stati rigenerati per mezzo del suo Figlio nello Spirito46

Il v.24 potremmo considerarlo come di transizione, poiché chiude il tema del v.23 e introduce quello dei vv.25-28. La chiusura del v.23 è data dal preoccuparsi delle cose insignificanti (filtraggio della zanzara), ma tralasciando quelle più importanti (ingoiare il cammello); mentre l'introduzione ai versetti successivi è data prevalentemente sia dal tema della purità, di cui si parla qui al v.24, che dall'espressione “filtrare la zanzara”, che richiama la scrupolosità messa nel somministrare le bevande, in particolare l'acqua e il vino, per evitare che dei moscerini o un qualche insetto vi cadesse dentro47, rendendo impura sia la bevanda che la coppa48. Si crea in tal modo l'aggancio con il v.25, in cui si parla della coppa da purificare. Anche qui si gioca sul paradosso, dato dall'accostamento dei termini zanzara-cammello, che meglio mette in risalto la miopia con cui veniva praticata la religione.

I vv.25-28 fanno riferimento a delle norme riguardanti la purità e sono finalizzati a mettere in rilievo la cura scrupolosa con cui queste venivano eseguite. Un esempio significativo ci viene offerto da Mc 7,1-5: “Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate - i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogarono [...]”. La scrupolosità ossessiva con cui viene eseguita la purificazione e il fatto che questa avvenga soltanto per l'esterno e non anche per l'interno dell'oggetto da purificare, dà modo al Gesù matteano di trarre da queste usanze una metafora di vita.

I due esempi riportati, coppa/piatto e tombe imbiancate, anche se strutturalmente si sviluppano in modo parallelo tra loro, tuttavia hanno due finalità diverse. Il primo esempio (vv.25-26) ha una valenza meramente esortativa, concludendosi con un'esortazione (v.26), e tende a far capire come l'interno, che Matteo definisce pieno di rapine e di intemperanze (immancabile nota polemica), deve essere purificato così da dare un senso anche alla pulizia esteriore, poiché non è questa che rende puro l'interno. L'evangelista lo aveva già ricordato in proposito della questione sulla purità dei cibi, che non è ciò che entra nell'uomo che lo rende impuro, bensì ciò che esce dal suo cuore (15,11). Il linguaggio qui è parenetico poiché Matteo sta parlando prevalentemente alla sua comunità.

Il secondo esempio (vv.27-28), che vede i Farisei paragonati a dei sepolcri imbiancati49, belli all'esterno, ma pieni di impurità all'interno, è una feroce polemica e un atto di accusa a tutto tondo (v.28), fine a se stesso, che va a colpire probabilmente certi loro comportamenti. Ed è in questo contesto, subito dopo questi vv.27-28 che andrebbe collocato, a mio avviso, il v.14, che in tal modo diventerebbe una sorta di esemplificazione dell'immoralità di cui erano accusati qui i Farisei.

I vv.29-32 sono legati ai vv.27-28 dalla parola aggancio “t£foj” (táfos, sepolcro, tomba), che crea una sorta di continuità logica e polemica tra le due brevi pericopi, completando il ragionamento iniziato nei vv.27-28: i Farisei non solo sono dei sepolcri (v.27), ma sono anche costruttori di sepolcri (v.29), in cui seppelliscono i giusti da loro assassinati, portando così a completamento l'opera dei loro padri (v.32). Questa pericope denuncia, da un lato, l'ipocrisia della memoria storica dei Farisei, che anche in questo si sentono dei giusti, rispetto al comportamento dei loro padri, che di fatto condannano per aver perseguitato i profeti fino ad ucciderli: “Se fossimo stati ai tempi dei nostri padri, non saremmo stati loro compagni nel sangue dei profeti” (v.30); dall'altro, denuncia la continuità storica di quel comportamento persecutorio e assassino, di cui loro hanno raccolto il testimone. Luca, in modo conciso ed efficace, denuncia: “[...] essi (i padri) li uccisero e voi costruite loro i sepolcri”, delineando in tal modo una stretta continuità storica, che diventata collaborazione persecutoria ed omicida. Quindi, condannando i loro padri, dei quali hanno ereditato lo spirito, di fatto condannano se stessi.

Significativo è il v.32 con quel suo verbo “plhrèsate” (plerósate, riempite, completate), riferito ai Farisei, che richiama da vicino il v.5,17 in cui compare lo stesso verbo “plhrîsai” (plerôsai), riferito a Gesù, che è venuto a portare a compimento la Legge e i Profeti. Si viene, quindi, a creare un parallelismo di vita e di morte, di salvezza e di perdizione, un confronto tra Gesù e i Farisei, in cui il primo, proviene dal Padre per dare compimento alle attese veterotestamentarie (Legge e Profeti), chiudendo il cerchio della storia della salvezza; mentre i secondi, anch'essi, figli dei loro padri, portano a compimento la loro opera, che il v.35 sintetizza nei due estremi di questa lunga catena di morti innocenti: Abele e Zaccaria. Essi, dunque, riprendono l'opera dei loro padri perseguitando e uccidendo, in primis, Gesù e, successivamente, i suoi discepoli. Un comportamento assassino, che viene subito stigmatizzato sia al v.34 che al v.37, in cui lo sguardo è rivolto direttamente alla situazione postpasquale della nascente chiesa palestinese e richiama nel sottofondo lo scontro violento tra la sinagoga e neocredenti, che anima l'intero racconto matteano.

I vv.33-36 sono la cornice giudiziaria in cui va collocato l'intero cap.23. Si tratta di una sorta di resa dei conti, posta a conclusione del settenario di “Guai a voi”, che formano altrettanti atti di accusa, qui sottoposti al giudizio finale e sui quali, ora, grava la sentenza (v.36). La pericope riprende in qualche modo i vv.31-32 e qui li dettaglia, così che essa ne diventa il loro sviluppo.

Matteo rileva qui la difficile e drammatica situazione della sua chiesa all'interno del mondo giudaico, con cui si sta scontrando duramente, e formula di fatto un atto di accusa nei confronti di un giudaismo, al quale è stato annunciato in modo qualificato e competente il messaggio di Gesù, con l'invio di figure eminenti della chiesa nascente come i profeti, i sapienti e gli scribi50 (v.34a), ma che il mondo giudaico ha respinto con fermezza, rendendosi perfettamente ermetico all'invito di sedersi alla mensa messianica attorno a Gesù, accolto, invece, dai poveri, dagli umili e dai peccatori51. Nessuna scusante, dunque, per le autorità giudaiche.

La struttura della pericope si snoda in quattro parti:


A) v.33: la cornice giudiziaria;

B) v.34: l'atto di accusa;
C) v.35:
l'opera dei padri, che i figli hanno continuato e denunciata nel precedente v.34;

D) v.36: la sentenza finale.

Il v.33 si apre con un'espressione che richiama da vicino la predicazione escatologica del Battista, (3,7) al cui interno pesa il giudizio divino che sta per compiersi. Ma qui l'imminente ira divina preannunciata da Giovanni, ma allora non ancora compiuta, si trasforma ora in un giudizio in atto, in cui è già incorporata la sentenza di condanna, poiché si tratta del “giudizio della Geenna” a cui sono condannati tutti i peccatori impenitenti e che si chiusero alla misericordia divina. Il tempo, dunque, è scaduto e sulle accuse dei vv.34-35 grava la sentenza definitiva, che non ammette appelli52 (v.36).

I vv.34-36, come si è accennato nella parte introduttiva di questa pericope (vv.33-36), sono tra loro complementari e costituiscono una sorta di ripresa e di sviluppo dei vv.31-32. Con il v.34, che richiama da vicino 10,22-23, Matteo si sta rivolgendo direttamente ai Farisei, accusandoli di aver risposto al qualificato annuncio della sua comunità, fatto da persone culturalmente e religiosamente preparate come profeti, sapienti e scribi, con atti violenti, persecutori e omicidi, che vengono qui dettagliati, come si dettagliano le accuse formulate in un tribunale, e che sembrano rispecchiare il difficile contesto storico, in cui si trovava la comunità matteana: uccisioni, crocifissioni, flagellazioni e persecuzioni di ogni genere. Questi sono i reati di cui devono rispondere. Ma questo comportamento violento, attestato dal v.34, non è a se stante, ma viene visto dall'autore come la continuazione, il completamento e il culmine di un iceberg, che ha le sue radici nelle acque più profonde e più antiche dei loro padri. I crimini delle autorità giudaiche, denunciati al v.34, infatti, sono legati a quelli del v.35 da quel “Ópwj” (ópos, così che) con cui si apre lo stesso v.35, che fa così ricadere su di loro, come anelli terminali di una catena di violenze e di uccisioni, anche tutti quei crimini compiuti dai loro padri, da Abele a Zaccaria53, le cui morti sono raccontate dai libri che stanno all'inizio e alla fine del canone ebraico. Si viene, quindi, a creare una continuità storica e logica tra il passato e il presente, che li coinvolge in un'unica responsabilità e in un'unica condanna. La storia della salvezza, dunque, fu costellata dal sangue dei giusti, sparso dall'iniquità di un popolo, la cui cecità e malvagità gli ha impedito di leggere i segni dei tempi e non ha saputo cogliere l'opportunità, unica e definitiva, offerta loro nella persona di Gesù, ultima vittima innocente di questa lunga catena di sangue.

Il v.36 formula la sentenza di condanna, che rende colpevole “questa generazione”, cioè il giudaismo dei tempi di Gesù, di tutti i crimini commessi a partire da Abele, rendendoli così moralmente responsabile anche di quelli dei loro padri, poiché da questi essi, loro figli, non si sono mai dissociati, ma ne hanno continuato le gesta. È proprio questa pervicace resistenza ed opposizione a Dio, che, secondo l'autore, decreterà la fine del giudaismo.

vv.37-39: il contesto in cui vengono pronunciati questi versetti è quello proprio del giudizio ultimo. Siamo, dunque, alla requisitoria finale prima della sentenza, in cui il pubblico ministero (l'autore) riassume e mette in evidenza i capi d'accusa, per rilevare la colpevole perversità dell'imputato. Anche questi versetti riproducono lo schema di un vero processo, in cui il v.37 gioca da dibattimento e da accusa e il v.38 da sentenza, mentre il v.39 sembra aprire alla speranza il condannato Israele. Non ci sarà dunque definitiva perdizione, ma viene data un'ultima possibilità di riscatto, sia pur essa condizionata.

Il v.37 riporta un toccante lamento di Gesù, quasi un addio, con cui Matteo chiude la vicenda pubblica di Gesù, facendo una sorta di sintesi della sua fallimentare attività apostolica, che diventa nel contempo un atto di accusa e una denuncia della perversità di Israele. Similmente anche Giovanni chiuderà la missione pubblica di Gesù con un'amara e deludente considerazione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37).

Il v.37 si apre con un richiamo a Gerusalemme, città simbolo del giudaismo e rappresentativa di tutta la tormentata e controversa storia della salvezza di un popolo dalla dura cervice (Dt 9,13; 31,27a), che preferiva lodare Dio con le labbra, chiudendogli il cuore (15,8). Una durezza che si è trasformata in perversità e una perversità che si è fatta omicida54. Viene sottolineata l'uccisione dei profeti e degli inviati da Dio, che se da un lato richiama le violente persecuzioni a cui era soggetta la chiesa matteana (v.34), dall'altro allude alla soppressione del Profeta e dell'Inviato da Dio, che aveva a suo tempo ricordato come “un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20a). Il dramma delle persecuzioni è sotteso da un unico filo conduttore, da una contrapposizione di fondo su cui si è snodata e si snoda l'intera storia della salvezza: “quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli … e non avete voluto”. Quel “quante volte” e quel “ho voluto” dicono la persistente volontà salvifica di Dio, che rincorre i suoi figli fin dai primordi dell'umanità, quando Adamo, dopo la colpa, si nascose da Dio e Dio, invece, lo cercava: “Dove sei?” (Gen 3,9); ma dicono anche le continue resistenze dell'uomo, sintetizzate in quel “non avete voluto” contrapposto al “ho voluto”. Ecco il dramma della storia della salvezza rifiutata, che contrappone due volontà, quella salvifica di Dio e quella spavalda, autosufficiente dell'uomo, che esclude Dio dalla propria vita, confidando in se stesso e nelle proprie capacità, dimentico del dramma della Torre di Babele, in cui l'umanità lanciò la sua sfida contro Dio. Si ebbe come conseguenza la confusione delle lingue, cioè la perdita dell'identità dell'uomo, che lo ha reso e lo rende incapace di relazionarsi con se stesso, con gli altri, creando incomprensioni, tensioni e conflitti.

La conseguenza di questa persistente e ottusa resistenza ai profeti e agli inviati di Dio viene resa nota nel v.38, che costituisce la sentenza di condanna: “Ecco, la vostra casa è lasciata deserta”. La casa di cui si parla è verosimilmente il popolo d'Israele, definito numerose volte come “casa d'Israele”55, ma considerando il contesto immediato in cui viene pronunciato il discorso del cap.23, il tempio, non è da escludersi che il termine “casa”, qui, si riferisca al tempio stesso56. Comunque si interpreti, Israele o il Tempio, è questa realtà che viene abbandonata da Dio e resa deserta. Il v.38 presenta una doppia valenza, storica e teologica. In quanto valenza storica quel “lasciata deserta” e probabile che alluda alla distruzione di Gerusalemme e del tempio nel 70 d.C, che Matteo interpretò come la punizione divina per l'ostinato rifiuto di Gesù. Quanto alla valenza teologica, il “lasciata deserta” dice l'abbandono di Dio non solo di Israele, ma anche del Tempio, che qui viene definito come “vostro”, cioè non più appartenente a Dio, non più casa di Dio, trasformata da Israele in una spelonca di ladri (21,13), in un luogo di commercio (Gv 2,16). L'abbandono del tempio da parte di Dio viene significato anche dallo squarcio del velo del Tempio (27,51), che velava il Sancta Sanctorum, il luogo della Shekinah, della presenza gloriosa di Dio. Dio non è più in mezzo al suo popolo, ma un'altra realtà nuova lo sta sostituendo. Con la morte di Gesù, frutto di un pervicace rifiuto e di una invincibile chiusura, la storia della salvezza subisce una brusca e traumatica svolta: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (21,43).

v.39: la dura requisitoria del cap.23, che ha sospinto il lettore in un contesto di giudizio finale, terminato con una dura condanna (v.38), che vede Israele tagliato fuori dalla storia della salvezza, che invece viene continuata con altri (21,43), lascia sconcertati e perplessi. Matteo stesso sembra qui essersi reso conto della durezza del suo cap.23, sente di aver calcato eccessivamente la mano e vi pone rimedio con quest'ultimo versetto; una mano tesa, l'ultima, verso il suo popolo, che seppur di dura cervice e invincibile nel suo rifiuto, rimane pur sempre il luogo che Dio si è scelto per donare la salvezza anche ai gentili57; è pur sempre una nazione santa, un popolo di sacerdoti, proprietà di Dio (Es 19,5-6). Paolo stesso ai capp. 9-11 della sua Lettera ai Romani formula un'ampia riflessione sui destini di Israele, che lo tormentavano non poco (9,1-3) e dei quali non sapeva capacitarsi. Ma egli riteneva che, nonostante la caparbietà di Israele, Dio non l'avrebbe respinto, poiché egli è l'eletto per eccellenza (Rm 11,1-2a); anzi, la sua caduta è stata un bene per tutti, perché a tutti è così giunta la salvezza (Rm 11,11-12.15); di più ancora, la sua caduta rientrava in un piano salvifico, che mirava ad abbracciare anche i gentili (Rm 11,25-26). Ed ecco che ora, qui, Matteo arriva alle stesse conclusioni di Paolo: “Vi dico, infatti, non mi vedrete finché non mi direte: Benedetto colui che viene58 nel nome del Signore”. In altri termini, l'evangelista esclude la perdizione definitiva di Israele e condiziona il suo reinnesto nel ciclo della salvezza a condizione che riconosca Gesù come il messia inviato da Dio. Parimenti Paolo in Rm 11,23 sottolinea con forza “Quanto a loro, se non persevereranno nell'infedeltà, saranno anch'essi innestati; Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo!”.

Matteo, dunque, conclude la sua sferzante e violenta polemica del cap.23 con un gesto di riconciliazione e di speranza, purché i Giudei, ritornando sui loro passi, si aprano all'inviato di Dio, riconoscendolo nella persona di Gesù, detto il Cristo.

 
                                                                                                                     Giovanni Lonardi



N O T E

1Cfr. Sal 5,10; 50,8; Is 48,1; Os 4,1.

2Ez 11,19; 18,31; 36,26

3La “cattedra di Mosè” era un seggio cerimoniale posto al centro della sinagoga, da cui il rabbino impartiva il suo insegnamento, che in tal modo veniva inteso come una continuazione di quello mosaico, dando prestigio e autorevolezza a chi la presiedeva. Cfr. Michael Kunzler, La liturgia della Chiesa, Ed. Jaca Book, Milano 2003; pag.221

4Jamnia, nome greco dell'ebraica Jabneel o Jabne, il cui significato è “Dio fa costruire”, è la città posta sulla costa del Mediterraneo ad ovest di Gerusalemme. Oggi essa è la città araba di Jebna, a metà strada tra Asdot e Tel Aviv, sulla grande via che collega l'Egitto a Damasco. Secondo quanto dice Plinio il Vecchio nella sua enciclopedica opera di Historia Naturalis, scritta tra il 23 e il 79 d.C., nelle sue vicinanze si trovava un porto importante. Dopo il 70 d.C. divenne il luogo della rinascita del giudaismo. Cfr. la voce “Iabneel, Iabne” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

5Cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, pag.160-170; op. cit.

6Il v.2 potrebbe essere un elemento importante per la datazione del vangelo di Matteo. Infatti, la “cattedra di Mosè” e l'accusa dell'evangelista che su di essa si sono seduti gli Scribi e o Farisei, presenta un giudaismo rabbinico già formato e consolidato, se in tutte le sinagoghe era presente “la cattedra di Mosè”, della quale Scribi e Farisei, ormai divenuti rabbini, si sono di fatto appropriati. Tutto questo ci porta necessariamente tra la fine del I sec. e la prima metà del II sec. Afferma, infatti, il Carmona che “Tra il 70 e il 132 (Jamnia) si propone come un importante centro culturale rabbinico, la città dei maestri e dei discepoli, dove si forma la maggior parte dei tannaiti”. Tuttavia il Carmona afferma anche come “Le iniziative di Jochanan non hanno facile accoglienza, né sono accettate da tutti gli ebrei di Palestina le sentenze e le decisioni della sua scuola”. I Romani, poi, non riconoscevano ufficialmente Jochanan come il rappresentante del giudaismo palestinese, benché ne tollerassero l'attività. A queste difficoltà si devono aggiungere anche le resistenze degli altri gruppi religiosi, in primis, i sacerdoti, che vedono la sua opera come un'indebita intromissione. Inoltre, non pochi farisei lo considerano come un traditore per aver abbandonato Gerusalemme durante l'assedio. Per quanto riguarda, infine, le masse popolari, molti non sapevano neppure dell'esistenza di Jamnia. Cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, pagg. 162-164. Se queste considerazioni sono vere, allora è molto probabile che l'osservazione critica fatta da Matteo si posizioni ben dopo il I sec. e, di conseguenza, la redazione finale del vangelo matteano si colloca quasi certamente tra il 100 e il 120 circa. In tal senso si cfr. la Parte Introduttiva della presente opera circa la datazione del vangelo di Matteo.

7Cfr. il commento al cap. 5 della presente opera.

8Cfr. il primo capoverso di questo “Commento al cap.23”, ai vv.1-3.

9I temi delle sei antitesi riguardano essenzialmente il rapporto con l'altro, colto sotto i vari aspetti della vita quotidiana: 1) il modo di relazionarsi al fratello (vv.5,21-22); 2) La riconciliazione con il proprio fratello, quale condizione essenziale per rendere gradito il proprio culto a Dio (vv.5,23-26); 3) il corretto rapporto con i propri familiari, in particolare con la propria moglie, verso la quale il marito è moralmente responsabile (vv.5,27-32); 4) la correttezza e la sincerità nel parlare e nel relazionarsi con l'altro (vv.5,33-37); 5) il perdono, la riconciliazione e la remissività. che devono caratterizzare i rapporti dei nuovi credenti (vv.5,38-42); 6) l'amore colto nella sua dimensione più difficile, quella dei propri nemici. È un amore autentico, perché non conosce ostacoli o barriere; esso, infatti, è un amore, che ha la stessa dimensione divina e che assimila il credente al Padre, facendolo suo autentico figlio (vv.5,43-48).

10Cfr. Dt 6,8; 22,12; Nm 15,37-39

11I filatteri, traduzione greca dell'aramaico teffilin, il cui uso sembra risalire al III sec. a.C., erano delle piccole custodie in cuoio a forma cubica, contenenti dei piccoli rotoli di pergamena con scritto sopra alcuni passi della Scrittura, in genere Es 13,1-10.11-16; Dt 6,4-9; 11,13-21. Le custodie erano due e si fissavano, per mezzo di stringhe, una sulla fronte e l'altra al braccio sinistro per il rituale della preghiera mattutina (recita dello shema'). Questo abbigliamento trae la sua origine da Dt 6,6-9: “Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”. Il senso era qui metaforico, ma nel tempo la metafora fu intesa come prescrizione reale e come tale venne eseguita, perdendo in tal modo il senso più vero e profondo che la Torah le assegnava, cioè che Essa fosse sempre presente nella mente, nel cuore e nell'agire dell'uomo, quale lampada ai suoi passi (Sal 118,105). L'ebreo di oggi, che ancora conserva questa usanza, ne ha recuperato il senso metaforico e la interpreta come “metti testa, mano e cuore al servizio di Dio”. Cfr. la voce “Filatteri” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; R. Fabris, Matteo; tutte le opere citate.

12Le frange o zizit erano quattro fiocchi muniti di un cordoncino di porpora color viola, che venivano appesi ai quattro angoli del mantello. Il loro significato era quello di richiamare alla mente tutti i comandamenti del Signore (il quattro indica la totalità) per metterli in pratica. Essi traggono la loro origine dalla prescrizione di Dt 22,12, ma in particolare da Nm 15,38-40, che ne spiega anche il significato: Parla agli Israeliti e ordina loro che si facciano, di generazione in generazione, fiocchi agli angoli delle loro vesti e che mettano al fiocco di ogni angolo un cordone di porpora viola. Avrete tali fiocchi e, quando li guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore per metterli in pratica; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituite. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio”. Cfr. la voce “Fiocchi” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; R. Fabris, Matteo; tutte le opere citate.

13Qui si parla chiaramente della paternità spirituale e non certamente di quella biologica, considerato che Matteo si sta rivolgendo ai suoi responsabili e collaboratori.

14Cfr. Ef 4,23-24; Col 3,9-11;

15Cfr. Rm 10,17; Ef 1,13-14; 1Pt 1,23

16Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

17Autorità deriva dal latino augeo, che significa far crescere, far aumentare.

18In tal senso cfr. il commento al cap. 8,14-15 della presente opera.

19Il termine diacono significa servitore.

20In tal senso si pensi alle beatitudini, dove i sofferenti e i perseguitati sono dichiarati beati. Si pensi al cantico lucano posto sulle labbra di Maria, in cui gli umili sono esaltati e i superbi umiliati; mentre gli affamati sono saziati e i ricchi rimandati a mani vuote. Un inno che si muove sullo stesso schema di 1Sam 2,1-9. Similmente la visione escatologica e cosmica che Paolo ha in 1Cor 15,23-26 vede i nemici di Dio sconfitti, mentre i suoi amici esaltati nel suo Cristo. Era questo lo schema di pensiero entro cui veniva collocato anche il giudizio finale o escatologico.

21Il conteggio è stato effettuato sul testo greco. Talvolta, la traduzione italiana aggira l'esclamazione Ouaˆ o ignorandola o ricorrendo ad una perifrasi o a termini simili, ma diversi nel contenuto.

22Cfr. Sir 41,8; Is 1,4; 3,9.11; 5,8.11.18.20.22;10,1; 28,1; Ger 13,27; Ez 13,3.18; Os 7,13; Am 5,18; 6,1; Ab 2,12; 2,19; Mt 11,21; 18,7; 23,13.15.16.23.25.27.29; 26,24; Lc 624.25.26; 1Cor 9,16; Gd 1,11; Ap 8,13;

23Il testo del v.14, riportato anche in Mc 12,40 e Lc 20,47, è il seguente: “Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, poiché divorate le case delle vedove e in apparenza pregate a lungo; perciò riceverete una condanna più forte”. La traduzione è stata presa da Angelo Poppi, Sinossi quadriforme dei quattro vangeli, greco-italiano, Messaggero si S.Antonio – Editrice, Padova 1999.

24Recita testualmente: Per gli apostati non ci sia speranza e il regno insolente [cioè l'impero romano] venga presto sterminato, nei nostri giorni. I nazareni [i giudeocristiani] e gli eretici periscano subito e siano abrasi dal libro della vita, né siano iscritti insieme ai giusti. Benedetto sei tu Signore, che umili l'insolente”

25Cfr. At 4,3; 5,17-18.26-29; 11,19; 12,3-5

26Cfr. anche Maurizio Ghiretti, Storia dell' antigiudaismo e dell'antisemitismo, Ed. Bruno Mondadori, 2007.

27Cfr. Paolo De Benedetti, Introduzione al Giudaismo, Editrice Morcellania, Brescia 2001

28Cfr. At 2,11; 6,5; 10,2.22; 13,16.26.43.

29Cfr. Lettera ai Galati; 2Cor 11-12; Fil 3,1-2

30Flavio Giuseppe nelle sue opere Antichità Giudaiche e Guerra Giudaica riporta diversi casi di persone convertite al giudaismo o suoi simpatizzanti, la quale cosa lascia supporre un'intensa attività missionaria da parte dei giudei. In tal senso cfr. Antichità Giudaiche, Libro XIV §110; Libro XVIII §82; Libro XX §17; §§34-53; §§137-147; §195; Guerra Giudaica, Libro II §560.

31“Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine”

32Per una più ampia trattazione sul tema del giuramento, cfr. il commento al cap. 5,33-37 dal titolo “Il giuramento”, alle pagg. 28-30 della presente opera.

33Cfr. vv.16.17.19.24.26

34Cfr. Sal 5,8; 17,7; 64,5; 133,2; 137,2; Is 2,2.3; 56,7; 64,10; Ger 7,10.14; 17,26; 28,5; 41,5; Ez 10,4.18; 43,5; 44,4; Ab 2,20; Ml 3,1. Cfr. anche la voce Tempio in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici; e in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia. Tutte le opere citate.

35Cfr. la voce Altare in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici; e in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia. Tutte le opere citate.

36Mt 21,13; Mc 11,16; Lc 19,46.-

37Sulla questione della decima cfr. il termine “Decima” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; op. cit.

38Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit.

39Cfr. Is 1,10-17; Mic 6,6-8; Zc 7,4-10.

40Sulla figura dell'autore cfr. la voce “L'Autore” nella Parte Introduttiva della presente opera.

41Sulla questione cfr. il commento al cap. 22,34-40.

42Cfr. Mt 7,12; 22,36-40; 23,23; 25,40.45.-

43Sul tema della giustizia, della misericordia e della fedeltà cfr. le rispettive voci in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia.

44Cfr. Gal 4,4-7; Eb 1,1-3; 9,26

45L'espressione “Padre vostro” ricorre in tutto il N.T. 22 volte, di cui ben 13 soltanto in Matteo.

46Cfr. Gv 1,12-13; Tt 3,5; 1Pt 1,3

47Cfr. Lv 20.21.23; Dt 14,19.

48Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

49Durante le festività pasquali molti pellegrini giungevano da ogni parte per le celebrazioni. Per evitare che qualcuno, anche involontariamente, toccasse una tomba, rimanendone contaminato e pertanto soggetto a impurità rituale, che lo rendeva inidoneo al culto, i sepolcri venivano resi ben visibili imbiancandoli. Una questione di purità rituale simile, che si poneva a ridosso della pasqua, viene ricordata anche da Giovanni nel suo racconto della passione: Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua” (Gv 18,28).

50Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

51Cfr. 9,10; 21,31-32; 22,4-10

52Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

53Abele, le cui vicende sono narrate da Gen 4,1-11, è il prototipo dell'uomo giusto, gradito a Dio, che lo preferiva a suo fratello Caino e proprio per questo fu da lui assassinato. Così similmente in 2Cr 24,20-21 viene narrata la morte di Zaccaria, lapidato nel cortile del tempio, perché, ispirato da Dio, aveva rimproverato il re Ioas e il popolo di aver abbandonato il Signore. Matteo lega stranamente la paternità di Zaccaria a Barachia, il profeta postesilico (520-515 a.C.), di cui abbiamo anche un libro, che porta il suo nome; mentre lo Zaccaria, di cui l'evangelista riporta l'episodio, era figlio del sommo sacerdote Ioiada al tempo del re Ioas (835-796 a.C.). Non si comprende questo errore non solo di paternità, ma anche di epoche molto lontane tra loro. A meno che, osserva acutamente il Fabris, Matteo non abbia voluto alludere alla recente morte ingiusta e violenta perpetrata dagli zeloti contro Zaccaria, figlio di Baris, ucciso anche lui nel tempio, durante la guerra giudaica (66-70 d.C.) e il cui racconto ci è stato tramandato da Giuseppe Flavio in Guerra Giudaica, Libro IV, §§ 335-343. - Cfr. la Voce “Zaccaria” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo; Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, Tutte le opere citate.

54Cfr. Mt 12,14; 26,59; Lc 22,2; Gv 5,18; 7,1; 11,53.-

55Solo a titolo esemplificativo cfr. Es 16,31; 40,38; Lv 10,6; 22,18; Nm 20,29; Gs 21,45; Rt 4,11; 1Sam 7,2.3

56In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit.

57Cfr. Sal 95,3; Tb 12,6; 13,3-4; Ez 28,25; Rm 9,17

58L'espressione “colui che viene” (Ð ™rcÒmenoj, o ercómenos) ha assunto nel tempo il significato di “Messia”.