IL VANGELO DI MATTEO

Quarto intermezzo narrativo

Capp. 19 - 23


Richiami ed esortazioni alla comunità matteana (capp. 19-20)

Atti di accusa e polemiche roventi contro il giudaismo (capp. 21-23)


Parte Quarta – Cap. 22



Analisi e commento al Cap. 22

Liceità del tributo ai Romani, la risurrezione,
il comandamento più grande, il messianismo di Gesù;
risposte ad alcune questioni che agitavano
il mondo giudaico e la comunità matteana







Introduzione


Il cap. 22 si apre con un'espressione di aggancio al cap.21, il cui intento è creare una continuità logica e narrativa tra i due capitoli, che assieme al cap.23 formano una sorta di trittico, che potremmo definire come la sezione delle polemiche: “E rispondendo, di nuovo, Gesù parlò loro in parabole, dicendo”.

Il contenuto del cap.22 sono quattro dispute, che seguono e fanno corpo unico con la prima, quella sull'autorità di Gesù (21,23-27). Le diatribe sono precedute da una parabola introduttiva (le nozze regali), il cui intento, da un lato, è stigmatizzare sia l'atteggiamento di rifiuto del mondo giudaico nei confronti di Gesù (vv.2-8), sia le resistenze di una certa frangia di giudeocristiani (i giudaizzanti), che non si decidevano di lasciare il giudaismo, tentando una sorta di sincretismo tra l'antica e la nuova fede (vv.9-14); dall'altro, la parabola, indica i destinatari delle cinque dispute giudaiche: i giudei e i giudeocristiani giudaizzanti, che formavano e agitavano, questi ultimi, la comunità matteana.

Già si è intuito come questo capitolo tende a pareggiare i conti1 sia con il giudaismo sia con quei neoconvertiti, suoi simpatizzanti, che cercavano di leggere la nuova fede attraverso la lente di quella antica, vanificandone in tal modo portata e novità; ma nel contempo fornisce delle risposte su delle questioni che, molto probabilmente, erano fortemente dibattute all'interno della comunità matteana e che dovevano essere anche fonte di tensioni con il mondo giudaico: la liceità del pagamento dei tributi ai Romani, la natura della risurrezione, il più grande dei comandamenti e la natura del messianismo di Gesù. A queste quattro questioni va aggiunta anche quella sulla natura e provenienza dell'autorità di Gesù, che già si è trattata nel precedente cap.21. Esse costituiscono le prime prese di posizione teologiche e dottrinali della nuova fede nei confronti del giudaismo e del mondo pagano.

Lo schema del capitolo è molto semplice e lineare:

A) v.1: introduzione al cap. 22, che crea una continuità narrativa e tematica con il cap.21; e nel contempo, come vedremo, contiene un'implicita condanna rivolta agli ascoltatori;

B) vv.2-14: la parabola del banchetto delle nozze regali in onore del figlio del re;

C) vv.15-46: le quattro dispute, che, come si è sopra ricordato, fanno corpo unico con quella sull'autorità di Gesù;

vv.1-14: il cap. 22 si apre con una parabola, conosciuta come il banchetto nuziale. Essa fa parte di una trilogia di parabole, inframezzate tra la prima disputa (l'autorità di Gesù, 21,23-27) e le altre quattro (22,15-46). Sono tre parabole2, come si è visto nel commento al precedente capitolo, molto polemiche e rivolte contro l'incredulità e le resistenze opposte dal giudaismo nei confronti di Gesù. La loro collocazione all'interno delle cinque diatribe non solo ne accentuano la polemica, ma fanno anche pesare su di esse un implicito giudizio di condanna, contenuto nelle parabole stesse. La polemica, infatti, per sua natura, non ha come fine il convincimento dell'avversario, ma il suo annientamento.

La parabola delle nozze, molto semplice nella sua struttura, si snoda su due livelli tra loro paralleli (vv.2-7; vv 9-13), inframezzati da un versetto di transizione (v.8), che chiudendo la prima parte, introduce nella seconda e si conclude con una sentenza finale (v.14):

a) vv.2-7: la ripetuta chiamata al banchetto da parte del re al primo gruppo di invitati, dei quali si sottolinea il persistente rifiuto, che sfocia nell'assassinio dei servi;

b) v.8:
versetto di transizione, che crea uno stacco con la prima parte della parabola e predispone alla seconda, creando, tuttavia, una continuità narrativa tra i due blocchi, legandoli tra loro tematicamente: entrambi, infatti, terminano con una condanna degli invitati;

c) vv.9-13: questa seconda parte è parallela alla prima e per certi aspetti coincidente, ma ha un esito opposto e sorprendente;

d) v.14: la sentenza finale.


Il v.1 introduce sia la parabola che il cap.22 ed è, a nostro avviso, molto denso e significativo sia perché con la prima espressione “E rispondendo di nuovo Gesù” (“Kaˆ ¢pokriqeˆj Ð'Ihsoàj p£linKaì apokritzeìs o Iesûs pálin) si aggancia al cap.21 e in particolar modo alle precedenti due parabole, che crfeano con questa un tritico unitario monotematico; sia perché esso, assieme al v.2a, dà il tono generale all'intero cap.22. Infatti, l'avverbio “pálin” (di nuovo) rimanda a quanto precedentemente detto, collocando il presente cap.22 nel contesto polemico e di condanna del cap.21, dandone continuità narrativa e tematica. Altri due elementi, inoltre, concorrono a creare la cornice di giudizio e di condanna entro cui va posto il presente capitolo: il participio aoristo ¢pokriqeˆj (apokritzeìs), che correttamente si traduce con “rispondendo”, è un verbo composto da apo + krino e contiene in sé anche il senso del giudicare e letteralmente significa “separare scegliendo, discernere, distinguere, fare una scelta, escludere, rimproverare, rigettare”. Quanto viene qui detto, pertanto, ha in qualche modo attinenza con il giudizio e con la condanna e preannuncia il tenore della parabola, che si sta introducendo. Vi è, inoltre, un terzo elemento: l'espressione “in parabole” (™n parabola‹j, en parabolaîs), che ricorre undici volte in tutto il N.T.3. Il contesto in cui essa compare è sempre sostanzialmente identico: si tratta di un atto discriminatorio tra le folle e i discepoli. Il motivo di questa discriminazione, che in ultima analisi è di fatto un giudizio, è indicato da Gesù stesso, che risponde ad una interpellanza dei suoi: “Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: "Perché parli loro in parabole?". Egli rispose: "Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani” (Mt 13,10-15).

È, pertanto, indubbio, a nostro avviso, che il v.1 gravi non solo sulla parabola, che sta introducendo, ma anche sull'intero cap.22, collocandolo all'interno di un contesto fortemente polemico, gravato da un giudizio di condanna. Le stesse diatribe, pertanto, non vanno lette soltanto come una esposizione del pensiero o delle posizioni dottrinali e teologiche della chiesa primitiva, ma come una contrapposizione al mondo veterotestamentario, giudaico in particolare. Del resto è lo stesso autore, che ricorda come Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo squarcia il vestito e si fa uno strappo peggiore. Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti. Ma si mette vino nuovo in otri nuovi, e così l'uno e gli altri si conservano” (Mt 9,16-17). Vi è, dunque, incompatibilità tra vecchio e nuovo, anche se non contrapposizione, benché vi sia una continuità evolutiva che guarda sempre avanti e mai indietro. Era proprio questo il problema dei giudeocristiani giudaizzanti, che vivevano la nuova fede in Gesù riadattandola all'interno della Legge mosaica.

vv.2-7: in 21,43-44 il Gesù matteano aveva affermato due cose: a) il regno di Dio sarebbe stato tolto ai giudei e dato ad altri (v.43); b) la pietra scartata dai costruttori si sarebbe trasformata in una pietra giustiziatrice (v.44). Ebbene, ora l'autore riprende questi due versetti e ne dà attuazione nella parabola, in cui il rifiuto assassino degli invitati si tradurrà nel loro annientamento (attuazione di 21,44) e il re rivolgerà, invece, il suo invito ad altri (attuazione di 21,43). Potremmo, quindi, definire questa parabola allegorica come l'esecuzione di una sentenza preannunciata in 21,43-44.

Il verbo che introduce la parabola è “`Wmoièqh” (omoiótze), “Fu reso simile”, riferito al Regno dei cieli. Questa forma verbale si trova in tutta la Bibbia soltanto due volte, in Matteo, e precisamente qui e nell'introduzione della parabole del seminatore (13,24). Il verbo è posto al passivo4 e dice, quindi, l'azione di Dio su quanto viene detto nella parabola. In altri termini, Matteo carica di importanza il contenuto della parabola e il suo messaggio, facendoli risalire direttamente all'opera di Dio, in cui il suo agire acquista anche una valenza di giudizio sugli interpellati.

Il contesto entro cui si svolge la scena è quello di un banchetto di nozze, che un re ha indetto per suo figlio. L'immagine del banchetto di nozze evoca nell'animo dell'israelita il suo rapporto di alleanza con Dio, che i profeti definirono come un rapporto di fidanzamento e sponsale, fatto spesso di infedeltà5. Questo banchetto divenne, nel linguaggio dei profeti, il segno della gioia messianica6, a cui tutti i popoli sono invitati: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese, poiché il Signore ha parlato” (Is 25,6-8)7. Matteo riprenderà questa immagine del banchetto più volte. Lo fa in 9,10, dove Gesù siede a mensa insieme ai pubblicani e ai peccatori8; lo rimarca in 9,15 dove i discepoli sono definiti come gli amici, in festa, dello sposo; in 8,11-12 dove Gesù, stupito dalla fede del centurione (8,5-9), proclamerà: “<<Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti>>”, affermazioni queste ultime, che richiamano da vicino la nostra parabola; lo fa qui, nella nostra parabola; lo farà in 25,1-12, in cui paragona l'attesa della venuta del Signore ad una festa nuziale e da ultimo narrerà del banchetto dell'ultima cena, in cui si istituirà una nuova alleanza simboleggiata dal calice del vino, promessa di un nuovo vino, che Gesù condividerà con i suoi nella nuova realtà divina da lui inaugurata (26,27-29). Gli ascoltatori, pertanto, coinvolti in questa parabola, sono immessi all'interno di un banchetto di nozze, metafora del rapporto tra Jhwh e il suo popolo. Ma questa volta il banchetto nuziale non è per Israele, non si parla più di alleanza tra Dio e il suo popolo, ma del rapporto tra il padre-re e suo figlio. Il banchetto, infatti, è imbandito per festeggiare il figlio non gli invitati. All'interno di questo festeggiamento, metafora dei tempi messianici, è convocato Israele.

Il v.2 presenta un re che fece per suo figlio un banchetto nuziale. La venuta di Gesù, dunque, è collocata all'interno di questo banchetto nuziale, che ha le dimensioni dei tempi messianici ed escatologici. La sua venuta, dunque, inaugura tali tempi e lui è lo sposo (Mt 9,15), il nuovo volto di Jhwh, che Israele non ha saputo riconoscere (Gv 1,11). La prima parte di questa parabola,infatti, è incentrata tutta sul mancato riconoscimento, che si è espresso in un pervicace rifiuto fino all'assassinio.

I vv.3-4 parlano di una chiamata che è scandita in due tempi ed è rivolta agli invitati o, forse è meglio dire, ai chiamati. Il verbo che li definisce, infatti, è “keklhmšnoi” (keklaménoi) un participio perfetto, che in greco indica uno stato presente conseguente ad un'azione passata. I chiamati, dunque, sono i giudei, coloro che, a suo tempo, erano stati già chiamati ad un primo e antico banchetto, l'alleanza, destinata ad aprirsi a tutti i popoli (Is 2,2-4; 25,6-10a). Ora, essi sono invitati a partecipare ad un nuovo banchetto, evoluzione e compimento del primo. I primi servi inviati a sollecitare l'adesione e la fedeltà al primo banchetto furono i profeti con le loro grandi visioni di cieli nuovi e di terra nuova, in cui Israele era chiamato ad entrare (Is 65,17; 66,22); con loro, da ultimo, il Battista, il cui intento era quello di traghettare l'antico nel nuovo9 . A fronte di questa prima chiamata (v.3) la risposta fu “e non volevano” (“kaˆ oÙk ½qelon”, kaì uk étzelon). Il verbo qui è posto all'imperfetto indicativo, che esprime un'azione persistente e continuativa, che viene rafforzata da quel “kaì” (e), che crea una continuità di atteggiamento negativo, proveniente dal passato e che continua tuttora (verbo all'imperfetto). Vi è, quindi, in tutto ciò un persistente rifiuto che ha radici lontane. Gesù lamenterà proprio questo nei confronti dei giudei del suo tempo10 e rinfaccerà loro quello che Isaia aveva già rinfacciato all'antico Israele (15,8). Vi è, dunque, una continuità e una persistenza storiche di un atteggiamento negativo che preclude ogni apertura.

Il v.4 si apre con un avverbio temporale “p£lin” (pálin), di nuovo, che indica una reiterazione di un'azione iniziata nel passato e che continua nel presente, sancendo in tal modo, una profonda unità tra l'A.T. e il N.T., quest'ultimo evoluzione del primo. Una continuità che dice come la storia della salvezza sia un unico atto salvifico, svoltosi in due tempi tra loro profondamente connessi, l'uno preparatorio al all'altro, l'uno che già in qualche modo conteneva in nuce l'altro11. Il nuovo invio di altri servi, questa volta, non allude più ai profeti, ma ad “altri” e cioè ai discepoli, ai nuovi credenti, agli apostoli, contro i quali si continuò da parte dei giudei in un persistente rifiuto, che si fece persecuzione e assassinio (At 7,54-60). Lo si arguisce dalla battuta finale del v.4 “tutte le cose sono pronte. Orsù alle nozze!”; il verbo è al presente indicativo e il sollecito “Orsù” non può che riguardare il presente. Cambiano, dunque, gli inviati, ma i destinatari rimangono gli stessi (keklaménoi) e identico è il loro rifiuto, denunciato ai vv. 5 e 6: c'è chi non ha prestato alcuna attenzione al nuovo annuncio, chi è rimasto del tutto indifferente all'evento Gesù (v.5) e chi, invece, si è fatto parte attiva, traducendo il rifiuto in persecuzioni e uccisioni (v.6), con forte allusione alle autorità giudaiche, le uniche a poter elaborare piani di persecuzione e di morte12. Entrambe le posizioni saranno soggette ad una identica condanna: “Il re si adirò e, prese le milizie, fece perire quegli assassini e bruciò la loro città” (v.7), un versetto che molto probabilmente si richiama alla guerra giudaica e alla distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio nel 70 d.C., che Matteo vede qui come la punizione divina, posta sul giudaismo per il suo persistente e invincibile rifiuto di Gesù. Con l'esecuzione della sentenza di condanna si chiude la prima parte della parabola, riguardante il mondo del giudaico.

Il v.8 è composto da due parti: a) la prima è una constatazione, una presa d'atto: “il banchetto di nozze è pronto”, che sottolinea con forza una realtà presente, operante e vitale, che non sarà dispersa e non verrà mai meno, nonostante le risposte negative. Il verbo “essere”, posto al presente indicativo, dice proprio la sua perenne attualità, che accompagna l'uomo lungo il cammino della storia. Ma nel contempo l'autore lascia intendere che questo banchetto si impone all'uomo e gli chiede una risposta, lo spinge a prendere posizione. Si tratta, dunque, di un banchetto che, a motivo della indegnità dei suoi primi invitati, acquista una dimensione universale; b) la seconda è un giudizio di condanna, che suona definitivo, quasi un voltar pagina e un guardare avanti: “i chiamati alle nozze non erano degni”. È una sorta di punto fermo, che chiude una lunga storia andata male. Il versetto, pertanto, va considerato di transizione, perché da un lato chiude la prima parte della parabola (v.8b), traghettando il lettore alla seconda, lasciando intuire come la storia del banchetto di nozze non si è fermata, ma continua per la volontà salvifica di questo re, che, a tal punto, apre a tutti, rendendolo universalmente accessibile (v.8a).

vv. 9-14: come dice un proverbio: “un colpo alla botte e uno al cerchio”. Se con la prima parte di questa parabola (vv.2-7) l'autore ha inteso stigmatizzare il rifiuto del giudaismo e, in particolare, l'invincibile chiusura delle sue autorità religiose, con questa seconda parte (vv.9-13), Matteo regola i conti con quelli della sua comunità che, dopo aver abbracciato la nuova fede, continuano, invece, a seguire di fatto il giudaismo, creando scompiglio tra i credenti e conflittualità con gli etnocristiani. Sia i primi che i secondi sono sottoposti in egual modo ad un identico giudizio di condanna (vv.7.8b;13).

La struttura di questa seconda parte della parabola si snoda fondamentalmente su due livelli, intervallati tra loro da un versetto di transizione (v.11), e si conclude con una sentenza finale (v.14):

a) vv.9-10: il nuovo mandato, dal respiro universale, è rivolto a “tutti quelli che troverete” (v.9) e a “tutti quelli che trovarono, malvagi e buoni” (v.10);

b) v.11: questo versetto introduce una discriminante e, quindi, un giudizio anche su questi secondi chiamati;

c) vv.12-13: potremmo sinteticamente definire questa breve pericope come quella del giudizio (v.13) e della sentenza (v.14);

d) v.14: sentenza finale.

Il v.9 si apre con un terzo mandato, che da vicino richiama il v.28,19. Entrambi i versetti, infatti, si aprono con la stessa espressione “poreÚesqe oân” (v.9) e “poreuqšntej oân” (v.28,19), che introducono di fatto lo stesso incarico, l'uno espresso in forma allegorica (v.9), l'altro in forma esplicita (v.28,19). Ritengo, personalmente, significativa questa coincidenza, poiché qui ci troviamo di fronte non ad una metafora, bensì ad una allegoria, in cui i personaggi e i tempi, entro cui essi si muovono, hanno una loro corrispondenza storica, velata sotto delle immagini. Dapprima, infatti, c'è il giudaismo, che corrisponde alla prima chiamata fatta da Jhwh in prospettiva del banchetto di nozze (v.3); poi, vi è una seconda chiamata, fatta dai discepoli della nuova fede (v.4); siamo qui ancora all'interno del I sec., quando ancora il vangelo di Matteo era formato dai soli cinque grandi discorsi13 (75-80 d.C.). Ed infine, vi è una terza grande chiamata, questa volta non più rivolta verso il giudaismo, sul quale pesa la condanna della prima distruzione del 70 d.C., bensì è rivolta esclusivamente ai cristiani, convertiti e provenienti da ogni parte. Segno questo che ormai ci troviamo di fronte ad un cristianesimo diffuso, che si pone tra la fine del I sec. e la prima metà del II sec. Il duro rimprovero, che viene mosso in questa secondo parte della parabola, va probabilmente a stigmatizzare le prime eresie provenienti dall'ambiente giudaico14. Il contenuto dei vv.9 e 28,19 è sostanzialmente identico e pone il vangelo di Matteo e la sua comunità, ormai uscita dalla rottura con il giudaismo, in un contesto di universalità e di espansione cristiana.

Il comando “andate” (poreÚesqe, poreúste) è accompagnato dall'avverbio “oân” (ûn), “dunque”, che aggancia i vv.9-10, al v.8, ponendoli come conseguenza del v.8. In altri termini, il nuovo mandato, il terzo, viene emanato in conseguenza di due eventi: il banchetto pronto (l'inaugurazione del Regno di Dio in Gesù) e il suo rifiuto da parte del giudaismo, giudicato indegno. Il passaggio, quindi, dal particolarismo giudaico, con cui è iniziata la storia della salvezza, all'universalità del cristianesimo è stato dettato dal rifiuto del primo. Paolo sottolineò questo passaggio dal circoscritto all'universale ai capp. 9-11 della sua Lettera ai Romani, in cui cercherà, con grande sofferenza interiore, che lo accompagnerà per tutta la vita (Rm 9,2), di darsi una giustificazione di questo rifiuto: “Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!” (Rm 11,11b-12)15.

Il nuovo mandato, come già si è sopra accennato, assume qui una nuova connotazione: l'universalità, annotata sia qui che nel v.10. In questa seconda fase i verbi sono posti al futuro rispetto ai primi due mandati (vv.3-4). Là si parlava di servi che venivano mandati a invitare i chiamati, o meglio quelli che erano già stati chiamati (verbo greco al perfetto) con riferimento ai giudei; qui questi chiamati sono definiti come “tutti quelli che troverete”; il soggetto anonimo (tutti quelli) allude all'universalità, e il verbo, posto al futuro, proietta la missione nel tempo. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una nuova comunità che è proiettata verso un futuro che abbraccia nella sua interezza l'umanità di ogni tempo.

Il v.10 riporta l'esecuzione fedele del mandato del v.9 (convocarono), aggiungendo all'universalità una precisazione: “malvagi e buoni”. Si tratta, dunque, di una universalità che non è, nel suo primo volgersi, discriminante, ma abbraccia indistintamente “malvagi e buoni”. Sarà soltanto con il v.11 che si introdurrà la discriminante del giudizio su questi nuovi convocati. Questa universalità indiscriminata richiama da vicino il campo di grano dov'era stata seminata la zizzania. Entrambi crescono assieme nel medesimo campo per esplicita volontà del padrone e sarà soltanto al momento della mietitura che avverrà la separazione (13,24-30). A tutti, quindi, è data la possibilità di accedere al banchetto, tutti possiedono il diritto alla salvezza, ma a questo diritto corrisponde il dovere di una adeguata e conforme risposta, poiché la salvezza non è imposta, ma solo proposta.

Il v.11 introduce il tema del giudizio, stemperando in tal modo la dimensione dell'universalità del mandato, che, se apre l'annuncio indistintamente a tutti, dovrà poi passare attraverso il filtro di una adeguata adesione esistenziale di ogni singolo convocato, così che i molti (v.14a) saranno selezionati in base alla loro risposta. Non a caso, infatti, il v.11 si apre con una particella avversativa, “ma”, che si contrappone alla generalità della chiamata ed è legata alla venuta del re: “e„selqën dš Ð basileÝj” (eiseltzòn dè o basileùs), il cui senso è giusto quello di contrapporre all'universalità delle regole di adesione, che saranno condizioni discriminanti. L'immagine del re, che entra e vede, introduce l'elemento discriminante: il giudizio del re. Il suo entrare è metafora dell'avvento escatologico, che porta con sé il giudizio, posto su tutti i convocati; mentre il suo vedere suggerisce la selezione, la discriminazione, cioè l'attuazione del giudizio, che viene operata su ciascuno. Il verbo usato qui per indicare il vedere, infatti, è “Qe£omai” (Tzeàomai), che significa guardare attentamente, osservare, esaminare, cercar d riconoscere. Il v.11, quindi, lascia intendere che non è sufficiente aderire all'invito, è necessario anche aderirvi adeguatamente. Un forte richiamo che Matteo fa ai suoi giudeocristiani, i quali, abbracciata la nuova fede, continuano con l'osservanza di quella antica.

Se il v.11 aveva lasciato intendere che sulla chiamata universale è posta una discriminante selettiva, i vv.12-13 dicono in cosa consistono queste condizioni e le conseguenze se queste non sono soddisfatte. Si tratta, in buona sostanza, di un vero e proprio giudizio dominato dall'interrogatorio del re-giudice, che chiede conto del comportamento tenuto dall'anonimo convocato, che è entrato senza indossare l'abito nuziale, e che proprio per il suo anonimato acquista una valenza di generalità, in cui tutti si possono rispecchiare. “Come sei entrato qui?”; la domanda, che il re volge al convocato, è in realtà la domanda che Matteo indirizza a quelli della sua comunità, che pur avendo aderito all'annuncio non avevano ancora indossato la veste nuziale. Il vestito, proprio per la sua stretta relazione con chi lo indossa e la sua capacità di esprimere lo stato e la condizione di vita di una persona, viene posto in stretta relazione con la vita e ne diviene la metafora. In tal modo l'abito è come una sorta di alter ego di chi lo indossa, mentre il cambiamento d'abito indica il cambiamento dell'io interiore, ne esprime il suo rinnovamento16. L'accusa, rivolta dal re-giudice al convocato, è l'essere entrato nella nuova comunità messianica e l'essersi accostato al suo banchetto, senza aver deposto i suoi abiti precedenti ed essersi indossati quelli propri. Fuori metafora, Matteo qui sta puntando il dito prevalentemente contro quei giudeocristiani, che, pur avendo aderito alla nuova fede, continuano a vivere secondo le prescrizioni mosaiche, interpretando l'evento Gesù secondo i suoi schemi, vanificandone, quindi la novità e l'originalità. Matteo, quindi, sottolinea con forza, a questi irriducibili della Torah, che non possono più continuare a vivere con il piede su due staffe, non possono più servire a due padroni. La loro persistente fedeltà a Mosè e alla loro precedente vita nel giudaismo le equipara all'impermeabile e impenetrabile chiusura del già condannato giudaismo (v.7) e del tutto irrilevante è il loro aver aderito alla nuova fede. È significativo come termina il v.12: “Questi fu ridotto al silenzio” (“Ð de ™fimèqh”, o dè efimótze), che lascia intendere come a loro fu tolta ogni identità cristiana, che preannuncia la condanna del v.13: “Dopo aver legato i suoi piedi e le sue mani, gettatelo nelle tenebre esterne; là ci sarà il pianto e lo stridore dei denti”. Per poter comprendere questa espressione, che ricorre sette volte in tutta la Bibbia, di cui sei volte solo in Matteo e una volta in Luca17, è necessario rifarsi al trattamento che subivano i membri della comunità di Qumran per gravi infedeltà o tradimenti commessi contro la loro stessa comunità. Essi venivano espulsi, ma ne rimanevano comunque vincolati dai numerosi giuramenti, con cui erano stati introdotti nella comunità. Spesso questi poveretti venivano lasciati morire di fame e di stenti e riaccolti nella comunità, che li aveva cacciati, soltanto quando erano in fin di vita18. Va tenuto inoltre presente un pensiero fondamentale degli esseni, che suddividevano il mondo in luce e tenebre e i suoi abitanti in figli della luce, a cui essi appartenevano per antonomasia, e in figli delle tenebre, a cui appartenevano gli altri. La comunità di Qumaran era, dunque, il regno della luce che si contrapponeva al resto del mondo, considerato il luogo delle tenebre19. Collocata entro questa cornice, diviene ora più comprensibile anche la formulazione della condanna: questi giudeocristiani giudaizzanti, vengono riconsegnati alla loro fede mosaica (legati mani e piedi), da cui non si sono mai staccati, e gettati fuori nelle tenebre esterne, cioè fuori dalla comunità credente, implicitamente considerata come il luogo dei figli della luce20, là dove c'è pianto e stridore di denti, perifrasi che indica un luogo di morte e di sofferenza eterna, assimilato allo sheol21, il regno dei morti. In altri termini, Matteo minaccia ai suoi giudeocristiani recalcitranti, che con il loro comportamento e la loro predicazione creavano disordini e turbamenti all'interno della sua comunità, la scomunica, la cui gravità viene sottolineata da tre elementi: tenebre, pianto e stridore di denti; equiparata, dunque, ad una sorta di morte spirituale.

Il v.14 chiude la parabola in forma sentenziale: “Molti, infatti, sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. Il detto, dal sapore sapienziale, costituisce una sorta di “morale della favola”, una sintesi del messaggio stesso della parabola, alla quale è legato dal “g£r” (gár, infatti) dichiarativo, che ad essa rimanda. In questo detto vengono contrapposti i molti con i pochi e si pone una differenza tra chiamata ed elezione. La contrapposizione quantitativa, che va dal più al meno (molti-pochi), richiama il giudizio posto sui membri della comunità, finalizzato ad operare una scrematura ed una selezione. L'altro elemento è la differenza tra chiamata ed elezione (chiamati-eletti). Se la chiamata, infatti, è finalizzata a far giungere indiscriminatamente a tutti l'invito ad entrare nella nuova comunità messianica, l'elezione comporta un estrarre fuori dal mazzo (k-lšgw), la quale cosa rimanda sempre al giudizio, che per sua natura è discriminante, sia pur, nel caso degli eletti, in senso positivo. In altri termini, molti si dichiarano disponibili ad aderire alla nuova fede, ma ben pochi, per gli impegni e le difficoltà che essa comporta, la sanno incarnare nella propria vita, ancora legata al giudaismo o alla cultura di provenienza.

vv.15-22: dopo la questione posta sull'autorità di Gesù (21,23-27), la prima delle cinque dispute giudaiche, a cui Matteo non ha dato subito risposta, rimandandola, invece, ai vv. 26,63-64, fornendo in tal modo anche una chiave di lettura del significato e del senso della passione e morte di Gesù; e dopo le tre parabola di rottura con il giudaismo (21,28-22,14), l'autore riprende il filo del discorso con le altre quattro controversie: il tributo a Cesare (vv.15-22), la risurrezione (vv.23-33), il comandamento più grande (vv.34-40) e la natura del messianismo di Gesù (vv.41-46). Si tratta, probabilmente, di questioni che erano dibattute all'interno della comunità matteana o che avevano a che fare con le polemiche tra cristianesimo e giudaismo, al quale l'autore, da buon pastore, dà delle risposte, creando dei punti saldi di riferimento per la propria comunità. Questa, infatti, era alle prese, sia al proprio interno22 che all'esterno, con un giudaismo molto aggressivo nei propri confronti, che la considerava eretica23 e, visto il suo efficace proselitismo24, come un elemento molto insidioso.

La seconda controversia, tributo a Cesare, narrativamente la si può considerare una sentenza inquadrata, cioè un detto di Gesù isolato, attorno al quale l'evangelista ha costruito un piccolo racconto, per darne rilievo.

La struttura del racconto si snoda essenzialmente su due parti:


Prima parte: la questione posta a Gesù

a) v.15: introduzione al racconto;

b) v.16: la premessa alla domanda;

c) v.17: la domanda

Seconda parte: la risposta di Gesù

a) v.18: la premessa alla risposta;

b) vv.19-20a: spostamento dell'asse di interesse: dalla questione ideologica circa la liceità del tributo a Cesare, si passa ad una questione teologica, transitando attraverso alla constatazione dei fatti. Lo strumento oratorio è quello proprio delle dispute rabbiniche: a domanda si risponde con un'altra domanda25;

c) v.20b: la sentenza finale


Il v.15 si apre con un avverbio di tempo “Allora” e con un riferimento ai “farisei”, l'ultima volta comparsi (all'improvviso26) al v.45 in chiusura del cap.21. L'intento è quello di agganciare queste ultime quattro diatribe non solo alla parabola immediatamente precedente (le nozze regali), funzione questa svolta dall'avverbio “Allora”, ma anche ai contenuti polemici del precedente cap.21, funzione questa svolta dal richiamo dei “farisei”. Le quattro diatribe, quindi, vanno lette all'interno del contesto polemico acceso con il cap.21 e che si concluderà con il cap.23.

Il v.15, oltre che creare una continuità contestuale, fornisce anche la motivazione, che sottende la domanda posta a Gesù: una trappola in cui farlo cadere. L'intento è anche, quindi, di mettere in allerta il lettore di non lasciarsi ingannare dagli sperticati elogi, che a loro volta, come vedremo subito, sono un'ulteriore trappola. La domanda poi, si rivelerà un vero e proprio agguato.

Nel v.16a non compaiono più i farisei, che già avevano lasciato Gesù al v.21,45, in cui l'autore ce li aveva presentati tutti intenti a progettare piani criminosi nei confronti di Gesù, sventati solo dalla presenza della folla. La tensione era troppo alta, meglio inviare i propri discepoli assieme agli erodiani. I farisei erano dottori della legge e si curavano dell'interpretazione della Torah, delle sue questioni applicative pratiche e degli aspetti religiosi della gente. Certo non erano filoromani, ma ne sopportavano il peso, purché questi rispettassero la libertà e l'autonomia religiose del popolo; riconoscevano come unica autorità quella di Jhwh. Erano ben voluti e stimati dalla gente per la loro dottrina e la loro pietà. Essi vivevano in mezzo alla gente e costituivano per essa un saldo punto di riferimento di vita. Gli erodiani o boethusiani, al contrario, facevano parte della famiglia sacerdotale dei sadducei ed erano strettamente legati alla famiglia degli Erode, con cui erano in qualche modo imparentati, e, pertanto, conservatori, filoromani e in particolar modo filogovernativi27. È probabile, se non certo, che il Gesù marciano, quando, in 8,15 ammoniva i suoi discepoli dal guardarsi dal lievito dei farisei e da quello di Erode, alludesse proprio a questa categoria sacerdotale, imparentata ad Erode, del quale godeva protezione e benefici. Del resto è significativo come Matteo, che da Marco dipende, proprio in questo passo marciano (8,15), che egli riprende in 16,6, al posto di “lievito di Erode” metta “lievito dei sadducei”, creando una identità tra i due lieviti: il lievito di Erode è il lievito dei sadducei. Marco e Matteo, quindi, intendevano parlare proprio di quella casta sacerdotale, appartenente al ramo sacerdotale dei sadducei, imparentata ad Erode e, pertanto, filoromana, proprio perché filoerodiana.

Con il v.16b, per bocca di farisei ed erodiani, vengono attribuiti a Gesù dei tratti molto qualificanti, che, a nostro avviso, non vanno presi come un atto di adulazione da parte dei suoi avversari, ma riflettono effettivamente la sua personalità e il modo di condurre la sua missione. Egli è definito come maestro, che insegna la via di Dio con verità e fermezza, senza riguardo per nessuno. È questa la dimensione, forse la più interessante, circa la persona di Gesù e che ci dice qualcosa della sua figura storica. Con questo tratto della sua personalità si coniugano bene tutti gli elogi che la gente gli attribuiva circa l'autorità del suo insegnamento e del suo agire, che stupiva non solo la gente, ma inquietava, non poco, anche i suoi avversari. Tuttavia, questa definizione della figura di Gesù, aveva anche un risvolto negativo. La scelta che egli avrebbe dovuto fare, infatti, sospinto dall'aut aut della domanda, avrebbe assunto un peso politico e teologico molto rilevante, da cui egli non poteva più sottrarsi e che lo condannava senza scampo. La gravità della posizione, in cui Gesù era stato messo, viene sottolineato da quel “oân” (ûn, pertanto, dunque), posto all'inizio del v.17, che lega il v.17 al v.16b, facendo così dipendere il peso della domanda e della risposta proprio dalla sua autorità riconosciuta pubblicamente.

La questione posta era semplice, ma molto complicata allo stesso tempo, proprio per la sua formulazione di “aut, aut”: “è lecito dare il tributo a Cesare o no28?”. La questione è squisitamente ideologica e politica e il tentativo era chiaro: coinvolgere Gesù in uno dei due schieramenti pro o contro Roma. Ciò avrebbe tolto molto della sua autorità spirituale e certamente lo avrebbe esposto a rappresaglie da una parte o dall'altra. Infatti se Gesù avesse optato per il pagamento del tributo, i farisei, antiromani, avrebbero sobillato la folla e certamente se la sarebbe inimicata, perdendo molto del suo seguito, molto temuto dalle autorità religiose giudaiche; al contrario, se avesse optato per la sua negazione, gli erodiani lo avrebbe di certo denunciato alle autorità civili come un sobillatore del popolo contro Roma.

Il v.18 riporta il primo intervento di Gesù, che stigmatizza sia la malvagità dei suoi avversari, agganciandosi al v.15, dove viene elaborato il progetto di prenderlo in trappola attraverso una discussione; sia la loro ipocrisia, con riferimento al v.16, che esalta la figura di Gesù, ma non per riconoscerne il valore, bensì per appesantire le conseguenze della sua risposta. Quindi usano della verità per secondi fini. Qui sta l'ipocrisia. Il verbo usato nella risposta di Gesù è peir£zw (peirázo), che significa mettere alla prova. Questo verbo è usato nel racconto matteano cinque volte29. La prima volta viene impiegato nel racconto delle tentazioni, dove il diavolo viene definito come “Ð peir£zwn” (o peirázon), colui che mette alla prova e sarà, per Matteo, la matrice di tutte le altre prove a cui Gesù verrà sottoposto nel corso della sua missione. Le altre quattro volte viene usato sempre nel medesimo contesto dello scontro con i farisei, che sono coloro che mettono alla prova, venendo in tal modo assimilati a dei satana.

Il secondo e il terzo intervento di Gesù sono dati nei vv.19-20, in cui è richiesta la moneta del tributo e la sua identificazione. È questo un passaggio cruciale, perché con questa mossa Gesù passa dalla dimensione ideologica (“è lecito pagare”), che lo avrebbe costretto a prendere posizione politicamente, a quella pratica, legata alla inconfutabile realtà delle cose; e da qui egli ripartirà per ricondurre la questione su di un piano completamente diverso e inaspettato, quello spirituale del rapporto con Dio. La risposta, quindi, sta nella realtà delle cose stesse, che la malvagità e l'ipocrisia dei suoi avversari avevano loro oscurato. È questa che va riletta e reinterpretata secondo uno schema nuovo, che Gesù era venuto a portare e che era sotteso dall'affermare la volontà del Padre sopra tutte le cose.

Il v.21 chiude la diatriba, riportando il detto sapienziale di Gesù, attorno a cui è stato costruito il racconto, e si presenta come lo sviluppo e la conclusione logica della stessa risposta, che i suoi avversari, sollecitati da Gesù, gli avevano dato (“di Cesare”). Essa è sottolineata da due avverbi “Allora” (“tÒte”, tóte) e “pertanto” (“oân”, ûn): con il primo l'autore si aggancia alla risposta dei farisei-erodiani; con il secondo, ne trae le conclusioni “Allora dice loro:<<Restituite, pertanto, le cose di Cesare a Cesare e quelle di Dio a Dio”. La risposta di Gesù all'apparenza è quasi banale e sembra voglia distinguere le due aree di potere: quello umano e quello divino, da non mischiarsi assieme. La risposta, in realtà, è molto subdola sia perché introduce all'interno della discussione un nuovo e inaspettato elemento, “Dio”, con cui ora i suoi avversari sono costretti a fare i conti, e sia perché la distinzione e la divisione delle competenze di Cesare e quelle di Dio è solo apparente. Che cosa appartiene, infatti a Cesare? Di certo la moneta, il potere, gli eserciti, l'impero; ma che cosa appartiene a di Dio? Tutto, anche Cesare30. La risposta di Gesù, dunque, è l'affermazione della supremazia di Dio su tutto, come fonte, origine da cui discende ogni cosa e a cui tutto appartiene, poiché “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Quindi, Gesù riporta tutto alla sua naturale origine: Dio, perché, come ricorda l'autore genesiaco, “In principio Dio”.

Il v.22 testimonia lo choc degli avversari, ma dice anche la loro persistente chiusura e la loro invincibile incredulità nei confronti di Gesù. Il v.22, infatti, è scandito in due parti: la prima con tiene due verbi significativi: “ascoltare e stupire”. È la reazione che ogni vero credente ha nei confronti dell'annuncio della parola, che risuona in lui come vera e lo muove verso di essa. Lo stupore, infatti, parla di novità, di scoperta, di contemplazione, che predispongono all'accoglienza di una parola, che crea sequela e discepolato. È lo stupore proprio di chi ha avuto l'esperienza di Dio e ne ha contemplato le opere31. Ma questo ascolto, che ha creato in loro stupore, non si traduce in accoglienza e in sequela, ma “lasciatolo, se ne andarono”. È la logica conclusione dell'incredulità, che è essenzialmente impermeabilità a Dio. Del resto Gesù li aveva definiti malvagi e ipocriti. È l'identica reazione che i sommi sacerdoti avevano tenuto nei confronti di Gesù in 21,15, là avevano visto le meraviglie compiute da Gesù, ma anziché stupirsene ed interrogarsi, si sdegnarono.

vv.23-33: questa diatriba è la terza di cinque32 ed occupa, quindi, la posizione centrale, che nella retorica ebraica è quella più importante, finalizzata ad accentrare l'attenzione del lettore e verso la quale, le altre convergono33. Il motivo risiede nel tema qui trattato: la risurrezione dai morti. A causa della sua importanza, Matteo intende chiarirne il concetto, all'interno della sua comunità, fornendone una chiave di comprensione fondata, come vedremo, su due elementi (vv.29-32). Circa la risurrezione, infatti, all'interno del mondo giudaico e, pertanto, anche all'interno della comunità matteana, composta prevalentemente di giudeocristiani, correvano posizioni equivoche e contrastanti e tali da inficiare il valore della stessa risurrezione di Gesù. Affrontando la questione sotto forma di diatriba, Matteo fornisce alla sua comunità sia un'arma di difesa contro gli assalti del giudaismo, sia materia di riflessione per la comprensione di quella di Gesù.

La struttura di questa pericope si sviluppa su tre parti:

a) vv.23-24: introduzione alla questione; vengono presentati gli attori, Gesù e i Sadducei, e il tema della questione: il levirato in rapporto alla risurrezione;

b) vv.25-28: la fattispecie, su cui Gesù è chiamato a rispondere;

c) vv.29-32: la risposta di Gesù, che si sviluppa su due filoni: scritturistico (vv.31-32) e teologico (v.30).

Il v.23 si apre con una locuzione temporale, il cui intento è di dare continuità narrativa a questa pericope, compattandola all'interno del cap.22. Compaiono qui, per la prima volta da soli i sadducei34, la casta sacerdotale formata da famiglie nobili e potenti, conservatrici e filoromane, che si dicevano discendenti dal sommo sacerdote Zadok35. Questi credevano soltanto nella Torah Scritta, rifiutando quella orale, tenuta, invece, in grande considerazione dai Farisei, tanto da prendersi le critiche di Gesù, che la definì dottrine di uomini (15,9). Per questo i Sadducei non credevano negli spiriti, negli angeli, nell'anima e nella risurrezione dai morti, proprio perché la Torah Scritta non ne parlava (At 23,8). Fin da subito, quindi, Matteo precisa che essi non credevano nella risurrezione. La questione che tuttavia essi pongono a Gesù non va intesa come un atto di ipocrisia per tentarlo e farlo cadere in un tranello. Qui la questione, infatti, è meramente dottrinale. È molto probabile che il caso sottoposto dai Sadducei a Gesù, così come riportato qui da Matteo, formasse un po' il loro cavallo di battaglia, finalizzato a mettere in difficoltà e in ridicolo, più che Gesù, gli stessi farisei. Questi, infatti, avevano un concetto materialistico della risurrezione, concepita come un proseguimento della vita con gli stessi canoni terreni e posti all'interno di una cornice di felicità e di piaceri mondani. Matteo, quindi, affronta qui la storiella della donna e dei sette fratelli, che, se creava difficoltà ai Farisei, di certo non aiutava i suoi giudeocristiani, che probabilmente non avevano ancora ben chiaro il concetto di risurrezione, che egli cercherà di spiegare loro nei vv.30-32.

La questione posta al v.23 ha attinenza con il levirato36, che potremmo definire come il diritto alla discendenza, sancito in Dt 25,5-10: “Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele. Ma se quell'uomo non ha piacere di prendere la cognata, essa salirà alla porta degli anziani e dirà: Mio cognato rifiuta di assicurare in Israele il nome del fratello; non acconsente a compiere verso di me il dovere del cognato. Allora gli anziani della sua città lo chiameranno e gli parleranno; se egli persiste e dice: Non ho piacere di prenderla, allora sua cognata gli si avvicinerà in presenza degli anziani, gli toglierà il sandalo dal piede, gli sputerà in faccia e prendendo la parola dirà: Così sarà fatto all'uomo che non vuole ricostruire la famiglia del fratello. La famiglia di lui sarà chiamata in Israele la famiglia dello scalzato”.

La fattispecie riportata dai vv.25-28 è chiaramente di pura fantasia, anche se l'autore cerca di darle una cornice di credibilità, agganciandola alla realtà con l'introduzione “Ora, tra di noi c'erano sette fratelli”. Il raccontino è volutamente paradossale per mettere in difficoltà e, ancor più, in ridicolo la credenza nella risurrezione propria dei farisei. Erano questi, infatti, che credevano in una risurrezione dalle dimensioni squisitamente terrene. Il caso, quindi, è stato creato su misura per loro e non per Gesù. Matteo, tuttavia, lo riprende per affrontare la questione con i suoi, mettendo le autentiche basi della fede nella risurrezione.

I vv.29-32 riportano la risposta di Gesù sulla questione posta dai Sadducei. La struttura di questi versetti è ben curata, segno che Matteo ha puntato molto su di loro. La risposta si sviluppa su due livelli, preceduti da una introduzione (v.29): uno scritturistico (vv.31-32), finalizzato a rispondere alla questione del levirato mosaico, di fondazione scritturistica (v.24); il secondo teologico (v.30), che risponde al concetto materialistico della risurrezione, prospettato nel raccontino (vv.25-28).

Il v.29 presenta la risposta di Gesù e costituisce la parte introduttiva e impostativa della diatriba: da un lato si boccia senza appello la questione posta dai Sadducei (“Vi sbagliate”). L'errore si fonda sulla sostanziale ignoranza che i Sadducei hanno delle Scritture, avendole circoscritte al solo Pentateuco o Torah Scritta; di conseguenza, rifiutando ogni altro scritto, non riescono ad avere un'idea più completa e aggiornata di Dio. Con questo versetto, dunque, Gesù va al nocciolo della questione, portando allo scoperto il loro tallone d'Achille, ma nel contempo imposta il dibattito su di un piano scritturistico e teologico, che verrà ripreso e sviluppato nei versetti seguenti.

Il v.30 si apre con un “g¦r” (gàr, infatti) dichiarativo, che agganciandosi al precedente v.29 ne diviene la sua spiegazione. Il v.30, infatti, riprende l'espressione “potere di Dio” del v.29 e colloca la risurrezione al suo interno. L'associazione della risurrezione con il “potere di Dio” lascia intendere come questa sia un suo frutto e non opera dell'uomo o della natura delle cose, come pensavano i Farisei. Questo versetto, infatti, contrappone il matrimonio, quale stato di vita proprio dell'uomo carnale, rinchiuso nella sua dimensione spazio-temporale, a quello, invece, proprio degli angeli nel cielo. Sono due realtà inconciliabili e poste in discontinuità tra loro; non si possono, quindi, porre sullo stesso piano. Paolo, nel contesto del cap.15 della Prima ai Corinti, nel trattare la questione della risurrezione si sofferma su questo pensiero: “Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità.” (1Cor 15,50); così similmente in Rm 14,17: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. La contrapposizione risulta più evidente allorché Paolo cerca di spiegare ciò che avviene nella risurrezione: “Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale.” (1Cor 15,42-44). Una risurrezione che è trasformazione dell'uomo nella sua carnalità, che lo renderà somigliante a Dio, per la stessa potenza divina: “Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio nei vostri riguardi” (2Cor 13,4); e così la potenza di Dio opererà sull'uomo come ha operato nella risurrezione di Gesù per mezzo dello Spirito, “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore.” (Rm 1,4). In tal senso si comprende anche cosa significa essere come37 gli angeli nel cielo. Non si tratta di essere elevati al rango di angeli, che sono puri spiriti, ma significa essere assimilati alla dimensione divina, incorporati a Dio e facenti parte della sua realtà, viventi nella sua vita e della sua vita, non in modo diretto, ma mediato in Cristo e per Cristo38; poiché in lui e solo in lui, noi siamo diventati figli di Dio, figli, dunque, nel Figlio. Tutto ciò viene reso possibile grazie alla potenza di Dio, che ha operato e opera in Cristo e per Cristo39.

Il v.32 affronta la questione scritturistica circa la risurrezione. Una questione ardua e difficile da trattare, poiché i Sadducei ritenevano attendibile solo la Torah, il nostro Pentateuco, dove, a motivo dell'antichità dei testi, ancora non si era maturato il concetto di risurrezione, che incomincerà a muovere i suoi primi passi, in modo vicino al nostro, durante l'epoca maccabaica40 (II sec. a.C.). Matteo, pertanto, riporta l'unico aggancio possibile per attestare la fede nella risurrezione da opporre all'incredulità dei Sadducei: “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. L'espressione ricorre sette volte in tutto l'A.T.41, ma ciò che più importa è che essa è presente quattro volte nel libro dell'Esodo, facente parte della Torah e, quindi, accettato dai Sadducei. Ciò che il Gesù matteano qui sfrutta è l'associazione del nome di Dio ai tre capostipiti di Israele, Abramo, Isacco e Giacobbe, depositari della promessa, beneficiari della loro particolare relazione con Dio, da cui ricevettero ogni benedizione, che essi riversarono sul popolo. Per Israele i tre padri non erano un semplice ricordo, ma erano costitutivi della sua stessa identità, che trovava fondamento in loro. Da loro dipendeva la salvezza del popolo42. L'associazione di Dio con i Padri, per Israele fonte di vita e di salvezza, lasciava intendere come Dio fosse un Dio vivente, che si relaziona solo con i vivi e che questi sono degli eletti in Lui. Abramo, Isacco e Giacobbe, quindi, non sono relegati nello Sheol, il luogo della non vita, ma essi vivono in Dio, che, per questo, è il Dio dei vivi e non dei morti, un Dio da cui si genera la vita e non la morte, un Dio che ha vinto lo Sheol.

Il v.33, che in prima battuta sembra celebrare le lodi di Gesù, che ha saputo mettere a tacere la presunzione sarcastica dei Sadducei, in realtà lascia intendere come qui ci si trovi di fronte ad una rivelazione e come questo insegnamento lasci trasparire, quasi come in filigrana, una luce divina, che va ad illuminare non solo il senso della risurrezione, togliendola dal ciarpame della materialità farisaica, ma suggerisce anche la divinità di questo Rabbi, che insegna con un'autorità inusitata, e non come gli Scribi e i Farisei43. È proprio lo stupore, lo sbalordimento (™xepl»ssonto, expléssonto), che accompagnano le teofanie, e che qui compaiono di fronte a questo insegnamento, che ci suggerisce come qui ci si trovi di fronte non ad un rabbi, ma a Dio; quel Dio che è tornato in mezzo al suo popolo e lo illumina nuovamente con la luce della sua divinità. Essa traspare dalla sua Parola, manifestandogli la strada del ritorno a Lui. L'insegnamento, dunque, sulla risurrezione è marchiato qui con il fuoco della luce divina, e possiede su di sé il sigillo di Dio.

vv.34-40: questa diatriba sul comandamento più grande viene riportata da tutti i sinottici, ma cambia notevolmente il contesto in cui essa viene inserita. In Mc 12,28-34 la cornice è quella pacifica del buon scriba, che sta cercando, con sincerità di cuore, la retta via; similmente in Lc 10,25-28 il tono polemico è appena accennato (“per metterlo alla prova”), ma la sincerità del cuore di questo dottore della Legge viene elogiata da Gesù, che gli dice: “Hai risposto rettamente! Fa' questo e vivrai”; un'onestà di fondo, che verrà sottolineata nuovamente nella battuta finale della parabola del Buon Samaritano (10,37). Le cose cambiano radicalmente in Matteo, che incornicia questa diatriba in un contesto fortemente polemico (vv.34-35) e la domanda assume toni dialettici e dottrinali (v.36). Qui non c'è sincerità di cuore e ricerca della retta via, ma soltanto il tentativo di prevalere su questo sedicente rabbi , che non guarda in faccia nessuno e non è intimorito da nessuno (v.16). In questo contesto polemico la risposta di Gesù si riduce necessariamente ad una sterile enunciazione, che si conclude con una categorica affermazione dottrinale (v.40).
Per poter comprendere il senso di questa diatriba è necessario creare il contesto storico delle dispute dottrinali entro cui collocarla
44. In una religione, fondata sull'ortoprassi e sulla correttezza nell'esecuzione della Legge, come quella ebraica, il comandamento, che è concreta espressione dell'Alleanza e a questa rimanda, assume un significato molto importante, anzi, fondamentale per rimanere nell'Alleanza e godere dei benefici della promessa, garantendo in tal modo la stessa identità dell'Israelita. Tuttavia, l'eccessiva cura, posta nell'osservanza-esecuzione della Torah, aveva portato a creare attorno ad essa un proliferare abnorme di comandamenti, una sorta di siepe protettiva, il cui intento era quello di preservare la Legge da qualsiasi violazione. Per un principio di solidarietà e di unità, infatti, violare un comandamento significava violare tutta la Torah e, quindi, porsi fuori dall'Alleanza e precludersi l'accesso alla salvezza. Si trattava di un principio rabbinico, secondo il quale chi non ha osservato uno dei 613 precetti non ha compiuto la Legge45. Per l'ebreo, infatti, non vi era distinzione tra comandamenti, poiché tutti, in egual modo, esprimevano l'identica volontà di Dio, che in quanto tale andava scrupolosamente eseguita. Questa scrupolosa attenzione all'esecuzione della Torah aveva prodotto ben 613 comandamenti, che regolamentavano il vivere quotidiano; di questi 365 erano posti in forma negativa e 248 in forma positiva. Significativi sono i numeri: 365 si riferivano ai giorni dell'anno, quasi a dire che ogni giorno ha il suo comandamento e come la Torah ricopre e pregna di sé ogni spazio vitale dell'uomo; mentre i 248 indicavano il numero delle ossa, di cui, secondo il Talmud, era composto il corpo umano. Anche questo numero era significativo, poiché indicava come la Torah è posta nel profondo dell'uomo stesso e lo sostiene lungo il cammino della sua vita, come lo scheletro sostiene il corpo. Tuttavia, la pesante quantità di comandamenti, sempre in proliferazione e imposti quotidianamente su ogni pio israelita, era eccessiva e insopportabile. In tal senso, il Gesù matteano rileverà, contro i dottori della Legge, come questi “Legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (23,4). La coscienza di questa situazione imbarazzante era nota anche tra i dottori della Legge, per cui si era accesa tra loro la ricerca di quale fosse il comandamento più importante e tale che, in qualche modo, potesse ricomprendere tutti gli altri. La domanda posta dai Farisei a Gesù si inserisce in questa ricerca. Ma l'intenzione non era quella propria di raggiungere la verità, bensì quella di coinvolgere Gesù in qualche schieramento, che lo avrebbe travolto in dibattiti senza fine, svuotandone l'insegnamento dalla sua originalità.

Il v.34 svolge una duplice funzione: da un lato, menzionando i Sadducei ridotti al silenzio da Gesù, aggancia narrativamente questa diatriba a quella precedente, creando una continuità logico-narrativa all'interno di una cornice di costante polemica; dall'altro presenta i Farisei che si riuniscono minacciosamente assieme (sun»cqhsan, sinéctzesan), preludendo ad altre riunioni, che determineranno la morte di Gesù (26,3.57). Il verbo sun»cqhsan, infatti, compare in Matteo soltanto cinque volte46 e sempre in un contesto di ostilità nei confronti di Gesù. Questo si evidenzierà in particolar modo nel racconto della passione, in cui il verbo viene usato tre volte. Qui è la prima ed ultima volta che viene sottolineato da Matteo questo riunirsi assieme dei Farisei e lo fa a ridosso ormai della sua passione. Essi, poi, scompariranno dalla scena, per ricomparire fugacemente, per l'ultima volta, subito dopo la morte di Gesù, nuovamente assieme ai sadducei (27,62). Si tratta, dunque, qui, del compattarsi delle forze avverse di Gesù e che Luca ricorderà come l'ora delle tenebre (Lc 22,53b).

vv.35-36: se il v.34 si agganciava alla diatriba precedente, dando continuità alla polemica, questi versetti portano in scena “uno di loro”, un fariseo, dando concretezza all'ultimo scontro ufficiale. Dopo questo momento, le forze avverse a Gesù entreranno nell'ombra, per preparare l'attacco finale, che lo porterà sulla croce (26,3.57). La questione posta dal fariseo, come si è visto sopra, rientrava nei normali dibattiti rabbinici ed era finalizzata alla semplificazione dell'enorme montagna di comandamenti, che complicavano il vivere quotidiano del pio israelita (23,4). L'intento, dunque, era buono, ma l'interrogazione, posta all'interno del quadro di uno scontro polemico, assume il sapore non più di una ricerca della verità, bensì quello proprio di una subdola aggressione.

I vv.37-40 riportano la risposta di Gesù, che si articola su tre livelli:


A) v.37: viene riportata la citazione di Dt 6,5 estrapolata dallo Shema' Jisrael, la preghiera per eccellenza, il cuore della fede di Israele, che il pio ebreo recitava due volte al giorno, il mattino e la sera47. Già in questo viene sottolineata l'importanza e la fondamentalità di questo comandamento basilare per la vita quotidiana dell'ebreo: “Amerai il Signore tuo Dio in tutto il tuo cuore, in tutta la tua vita e in tutta la tua mente”. Rispetto al testo di Dt 6,5 l'evangelista porta due significative modifiche48: a) sostituisce la particella “™k” (da) con “en” (en, in mezzo, dentro, nel); b) e il termine dun£meèj (dinámeos, forza) con diano…v (dianoía, mente). La particella “da” (ek) indica provenienza e, quindi, per Dt 6,5 l'amore doveva provenire dal proprio cuore, dalla propria vita e dalla propria forza e apparire all'esterno. L'espressione matteana “nel mezzo” (en), invece, dice come questo amore deve nascere, svilupparsi e rimanere nelle profondità dell'uomo, radicandosi in lui, così che la sua vita ne sia totalmente permeata e sostanziata nella sincerità del cuore, evitando così le lamentele, prima di Isaia e poi di Gesù: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13; Mt 15,8).

L'altra variante è il passaggio da “dinámeos” a “dianoía”. Secondo l'antica tradizione giudaica il termine dinámeos (forza) indicava i beni materiali, le proprietà, che comportava la donazione al bisognoso, quale atto di testimonianza dell'amore di Dio49. Matteo ha preferito sostituire l'espressione esteriore del donare, che poteva facilmente trasformarsi in una ricerca di un proprio personale soddisfacimento egoistico (6,2.5.16), con un aspetto più intimo all'uomo e più conforme all'insegnamento di Gesù (6,3-4.17-18): la sua mente, che in qualche modo ricalca il significato di cuore, quale centro degli affetti e della volontà. Vi è, quindi, in Matteo una preoccupazione primaria di spingere i propri giudeocristiani a interiorizzare l'amore di Dio, facendolo risiedere più che nelle opere, nel loro stesso essere di persone. In tal modo anche le opere sarebbero state naturalmente conseguenti e pregne di sincerità.
Il verbo “Amerai”, infine, viene posto all'imperativo futuro, per indicare come l'amore di Dio non solo deve coinvolgere e permeare l'uomo nelle profondità del suo essere, radicandosi in lui, ma esso deve estendersi in tutto l'arco della propria vita, il cui spazio temporale viene in tal modo ipotecato da Dio e posto sotto il segno dell'Amore per Lui.

B) Il v.38 potremmo definirlo come un sintetico commento di Dt 6,5. Questo comandamento è indicato come “il più grande” e “il primo”. Entrambi gli attributi sono giustificati dalla primarietà assoluta di Dio su tutto, che trova la sua originaria giustificazione in Gen 1,1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”; dunque, “In principio Dio”, da cui tutto discende e da cui tutto trae la sua origine e in cui tutto trova la sua giustificazione e il suo senso. Per questa primarietà assoluta del divino, l'amore per Dio deve trovare un indiscutibile spazio nell'essere dell'uomo, chiamato a lasciarlo trasparire nel suo vivere. Tuttavia, la sottolineatura che questo comandamento è “il primo” serve all'autore anche per agganciarlo al “secondo”, così che primo e secondo non solo indicano la scala d'importanza nel rapporto tra i due attori di questo amore (Dio e uomo), ma stabilisce anche la dipendenza del secondo dal primo. In altri termini, qui Matteo sta preparando il secondo enunciato del v.39.

C) Il v.39 è scandito in due momenti: a) nel primo momento si afferma che questo comandamento è il secondo, con chiaro riferimento al “primo” del v.38; e che questo secondo è simile al primo. I due attributi “secondo” e “simile” agganciano tra loro i due comandamenti, che nella Torah sono da sempre collocati in Libri diversi, in Dt 6,5 il primo e in Lv 18,19b il secondo; qui, ai vv.37-39 vengono non solo fatti incontrare per la prima volta, ma anche intrecciati tra loro e fatti dipendere l'uno dall'altro in una inscindibile reciprocità, per cui il violarne uno, porta inevitabilmente a violare anche l'altro. Oltremodo significativo, a nostro avviso, è l'aggettivo “simile” (Ðmo…a, omoía), che richiama da vicino il decreto divino di Gen 1,26, in cui Dio stabilisce di fare l'uomo a sua immagine e a sua somiglianza (Ðmo…wsin, omoíosin). La somiglianza, dunque, dei due comandamenti, in cui si parla dell'amore di Dio e dell'uomo, trae la sua origine e la sua giustificazione nell'atto creativo di Dio stesso, il quale ha voluto associare a Sé l'uomo, che da Lui è stato fatto di poco inferiore agli angeli e lo ha coronato di gloria e di onore, ponendo sotto il suo potere lo stesso creato (Sal 8,6-7).

b) Il secondo momento consiste nell'enunciazione del secondo comandamento: “amerai il tuo prossimo come te stesso”, tratto da Lv 19,18b. Si passa, dunque, dal verticale (v.37) all'orizzontale. Anche qui il tempo del verbo è posto al futuro, proiettando in tal modo l'impegno dell'uomo sull'intero arco della sua vita. La responsabilità verso l'altro, qui, passa attraverso se stessi; parametro di raffronto non è Dio, ma se stessi. Il punto su cui lavorare, dunque, è “se stessi”, che va ricompreso alla luce della fede. È necessario, pertanto, imparare ad amare, a rispettare e ad accettare se stessi per poter accedere all'amore, al rispetto e all'accoglienza degli altri. Non si tratta soltanto di un principio psicologico, di una semplice proiezione inconscia del proprio ego sull'altro, ma possiede in sé anche una dimensione teologica, che rimanda all'immagine e alla somiglianza dell'uomo a Dio (Gen 1,26). L'uomo icona di Dio, che possiede in sé la medesima sacralità di Dio stesso. Per il credente, infatti, il suo relazionarsi con gli altri, al di là dei sentimenti o delle emozioni personali, diventa un segno, che lo spinge a trascendere il semplice rapporto umano, per agganciarsi ad una realtà superiore presente nell'altro (Mt 25,34-45); una realtà superiore che si fa prossima a te nel prossimo e ti interpella; così come questa realtà superiore, presente anche in te e di cui tu sei immagine e somiglianza, si fa in te prossima all'altro. Una corretta coscienza di sé, illuminata e alimentata dalla fede, che consente di accedere alle realtà superiori, sono poste a fondamento dell'amore del prossimo, che trova dunque il suo punto di riferimento in un “se stessi” illuminato dalla fede.

D) Il v.40 chiude questa quarta diatriba con una sentenza finale e risponde alla ricerca rabbinica del comandamento fondamentale, che sintetizzi in sé tutta la Legge: l'amore per Dio e l'amore per il prossimo. Essi hanno sempre un identico punto di partenza e di raffronto: se stessi. Gesù ricorda, infatti, che dal cuore dell'uomo nasce ogni bene e ogni male (15,18-19). Tutto dipende da ciò che noi abbiamo messo nel nostro cuore, nella nostra vita e nella nostra mente (6,22-23). Se noi siamo riempiti di Dio, anche il nostro essere sarà ineluttabilmente rivolto a Lui in un abbraccio accogliente (6,22-23). Ne consegue, che se le profondità del nostro essere sono permeate e illuminate dall'amore per Dio, accolto in noi, noi diventeremo evento di amore per l'altro. Questo intreccio di amore per Dio e per il prossimo, che passa attraverso di noi, viene enunciato mirabilmente da Giovanni nella sua Prima Lettera: “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,19-21). Se questo è il contenuto dei due comandamenti, che il Gesù matteano qui intreccia tra loro, allora ogni altro comandamento, qualsiasi sia la sua natura, trova il suo pieno adempimento in questi due. Il verbo qui usato per dire che la Legge e i Profeti, cioè l'intera Scrittura, dipendono da questi due comandamenti, è, infatti, “kršmatai” (krématai), il cui significato è essere sospesi, pendere, penzolare. Il verbo usato dà l'idea che il nucleo essenziale e fondamentale della Torah siano soltanto i due comandamenti, mentre gli altri sono “appesi” a questi, in altri termini sono aggiunte, che trovano la loro giustificazione e il loro senso soltanto nei primi due. In tal modo l'intera Scrittura viene marginalizzata e relativizzata, in quanto essa non trova giustificazione in se stessa, ma soltanto all'interno dei due comandamenti. Fondando, pertanto, l'intera Scrittura sull'amore per Dio e per l'uomo, il Gesù matteano supera di fatto l'ostacolo del legalismo, che svuotava la Scrittura del suo contenuto e del suo originario significato, riconducendola nella sincerità del cuore dell'uomo, agganciandola in tal modo alla quotidianità del vivere.

vv.41-46: l'ultima diatriba verte sulla natura del messia, che la tradizione scritturistica faceva “figlio di Davide”, cioè di discendenza davidica50. Nei sinottici l'appellativo “figlio di Davide”, attribuito a Gesù, ricorre 16 volte. La visione di questo messia è tuttavia meramente umana ed è pensato come il liberatore di di Israele, come il restauratore di un nuovo culto, come colui che porterà pace e prosperità su Israele, rendendo sicuri i suoi confini e stabilendo un regno basato sulla giustizia. Un Messia, quindi, che aveva dimensioni regali, militari e sacerdotali; un messia invincibile e vittorioso sui nemici di Israele. Era, dunque, una figura idealizzata, ma saldamente radicata alla storia e agli eventi storici51. Questa concezione orizzontale del messia non solo era propria del giudaismo, ma faceva parte anche del bagaglio culturale dei giudeocristiani, che dal giudaismo provenivano e al quale erano ancora molto legati52. Avere una concezione simile del messia, si rischiava di distorcere il senso della figura stessa di Gesù e della sua missione. Basti pensare al rimprovero che Pietro muove a Gesù, subito dopo averlo riconosciuto come Messia (Mt 16,22); o alle pretese dei due figli di Zebedeo, che aspiravano ai primi posti nel Regno (Mt 20,20-28); o alle stesse discussioni che avvenivano tra i discepoli di Gesù, per spartirsi i posti di privilegio53. Matteo, pertanto, con questa ultima diatriba cerca di controbattere le pretese del giudaismo e di raddrizzare le aspettative dei suoi giudeocristiani. L'obiettivo primario di questa diatriba, dunque, anche se in modo velato, è quello di rovesciare il concetto messianico, sradicandolo da Davide per ricollocarlo in una dimensione divina, più confacente a Gesù e che aiutava, pertanto, ad interpretare correttamente la sua vera natura umana, convivente con quella divina. Per fare questo il Gesù matteano si servirà della citazione scritturistica del Sal 110,1.

I vv.41-42 formano da cornice introduttiva alla diatriba. Il v.41 presenta il contesto storico: i farisei sono riuniti tra loro. Lo sono dal v.34 in cui “si riunirono insieme”; particolare questo che, pertanto, funge da aggancio narrativo alla diatriba precedente, dandone una sorta di continuità logico-temporale (v.34), fornendo a Gesù l'occasione di passare al contrattacco. Il v.42 riporta la domanda di Gesù, la quale è di per sé pretestuosa, dato che non era in discussione la discendenza davidica del messia. La domanda, quindi, serve solo a Matteo per introdurre il tema circa la vera natura del messia. La risposta dei farisei, infatti, è molto laconica, quasi a riportare un dato di fatto noto a tutti, lasciando intendere come sulla questione non vi fossero dubbi. La risposta, pertanto, è ovvia, quanto inutile la domanda.

I vv.43-45, nello stile delle diatribe rabbiniche, riportano l'intervento di Gesù (narrativamente molto curato) sotto forma di domanda, che di fatto non attende nessuna risposta, poiché questa è già racchiusa nella stessa domanda. Il tutto si svolge su di un semplice ragionamento con prova scritturistica.

La struttura è a forma di parallelismi concentrici in B):


A) v.43: viene posta la questione su come mai Davide chiama il Messia con il titolo di Signore, titolo riservato a Dio;

B) v.44: la citazione scritturistica tratta dal Sal 110,1, addotta quale prova dell'affermazione posta in A);

A') v.45: viene tratta la conclusione sulla questione posta in A) e, di fatto, ne è la risposta. La domanda qui ha un valore meramente retorico, nel senso che viene posto un interrogativo di cui si conosce già la risposta.


Questa quinta diatriba, pur vedendo come protagonista principale Gesù, tuttavia trae la sua origine dalla chiesa primitiva, e risente della sua riflessione postpasquale54. Soltanto la chiesa primitiva, infatti, nella sua rilettura delle Scritture, poteva attribuire il Sal 11055 a Gesù, vedendo in questo la sua intronizzazione messianica da parte di Dio nella risurrezione (Rm 1,4). Il salmo nel suo senso originario riguardava, invece, l'intronizzazione del re, che Dio faceva sedere al suo fianco, rivestendolo del suo potere. Quanto al sedere alla sua destra, l'espressione si riferiva alla posizione del palazzo reale (trono del re), posto sul lato destro del Tempio (a sud del Tempio). L'espressione, quindi, indicava l'associazione del re al potere di Dio nel governo del popolo, che rimaneva proprietà di Jhwh (Es 19,5). La lettura corretta del Sal 110 doveva essere originariamente questa: Oracolo del Signore56 (Dio) al mio (cioè che apparteneva a Dio e quindi a Lui soggetto) Signore (Davide): <<Siedi alla mia destra (è il lato destro del Tempio dove c'era il palazzo reale), finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi>>. Non vi era, dunque, nessun accenno al messia, ma semplicemente era una sorta di formula di rito per l'intronizzazione del re, il cui potere era pensato e associato a quello divino, come suggerisce lo stesso Sal 2,7, che vede il re generato da Dio.

La disputa gira tutta attorno al giocoso fraintendimento della parola “Signore”. Il primo “Signore” non è più Jhwh, come era in origine, ma qui è inteso come Davide, mentre il secondo è inteso come il discendente di Davide. Se, dunque, afferma il Gesù matteano, Davide chiama “Signore” suo figlio, ciò significa che lo riconosce superiore a sé. Com'è, dunque, possibile che il figlio del re sia superiore al re padre? Vi è, pertanto, un'incongruenza, che per scioglierla è necessario accettare il fatto che Davide si riferisse effettivamente non tanto a suo figlio o a un suo discendente, bensì ad un essere superiore a lui e, questo altri non poteva essere che il Messia, la cui discendenza non è umana, altrimenti Davide, illuminato dallo Spirito, non l'avrebbe chiamato “Signore”, ma divina. La finalità di questo fine ragionamento, molto bizantino, ma visti i tempi è meglio definirlo rabbinico, è spostare l'asse di discendenza del Messia da Davide a Dio. Il messia, dunque, non è un semplice uomo, né la sua missione ha dimensioni o interessi storici, ma superiori e va ricondotto direttamente a Dio. In altri termini, il Messia gravita nell'area divina ed è un diretto inviato da Dio, di cui condivide la natura. Non stupisce questa definizione di Messia divino e, tanto meno, se riferita a Gesù. In 16,16, infatti, il Pietro matteano farà la sua pubblica e solenne proclamazione di fede nei confronti di Gesù, definendolo Cristo e Figlio di Dio, un binomio che tornerà, per l'ultima volta, al vertice della missione di Gesù, che davanti al sommo sacerdote proclamerà il proprio messianismo divino (26,63-64). Il Messia, dunque, è di discendenza divina e non umana, benché associ alla sua divinità la propria necessaria umanità mediatrice.

Il v.46 chiude non solo il cap.22, ma anche la vita pubblica di Gesù, che da questo momento troneggerà solitario, giudice e re su Israele e sugli uomini (26,64; 27,11).

Il versetto strutturalmente è scandito in due parti: a) “E nessuno era capace di rispondergli una parola” con cui viene sancita la superiorità di Gesù sui suoi avversari, evidenziando una volta di più la sua autorità e la sua autorevolezza, indistintamente riconosciute dalle folle e dai discepoli; b) “né alcuno, da quel giorno, ebbe più il coraggio di interrogarlo” chiudendo in tal modo il dibattito pubblico e, quindi, l'attività pubblica di Gesù. Infatti, i capp. 23-25, già a partire da 22,41, vedranno come unico e indiscutibile protagonista Gesù e la sua parola.


                                                                                                                                                

                                                                                                                        Giovanni Lonardi



N O T E


1Non va dimenticato come il cap.22 fa parte della sezione, che ho definito delle polemiche, per il loro intenso concentrarsi nei capp.21-23.

2Le parabole nell'ordine sono: i due figli mandati nella vigna (21,28-32); i vignaioli rivoltosi e assassini (21,33-44) e il banchetto nuziale del re (22,1-14). La tematica, pur nelle sue varie modulazioni, è unica: la condanna del giudaismo per la sua impenetrabile incredulità e il suo pervicace rifiuto dell'evento Gesù, che lo porterà all'espropriazione del Regno di Dio, che passerà in mani più disponibili ad accoglierlo e a farlo fruttare.

3Cfr. Mt 13,3.10.13.34.35; 22,1; Mc 3,23; 4,2.11; 12,1; Lc 8,10

4Come più volte detto, nel linguaggio biblico neotestamentario il verbo al passivo, tecnicamente definito passivo teologico o divino, fa risalire l'azione stessa a Dio.

5Cfr. Is 54,5.6; 61,10; 62,4.5; Ger 2,2.32; 3,1; Os 2,20-22.

6Spesso nell'A.T. il tema delle nozze, dello sposo e della sposa è associato alla gioia e alla festa. - Cfr. Ger 7,34; 16,9; 25,10; 33,11; Bar 2,23.

7Una simile visione messianica dalle dimensioni universalistiche Isaia la proporrà in 2,1-5

8Cfr. il commento al cap.9,10 della presente opera.

9Cfr. Mt 3,11-12; Gv 1,29-30.35-37

10Cfr. Mt 23,31-32; Lc 11,47.48; At 7,51.52.

11Cfr. Eb 1,1-2a e Dei Verbum, §§ 3-4 e 14-16

12Cfr. Mt 12,14; 16,21; 20,18; 21,45; 27,1.20; Mc 3,6.-

13Cfr. la voce “La data di composizione” nella Parte Introduttiva di questa opera.

14In tal senso si pensi ai giudeocristiani giudaizzanti, agli Ebioniti, ai Nazarei, agli Elcasaiti, ai Nicolaiti, al Docetismo. Sono tutte forme di pensiero eretico che si erano infiltrate nel cristianesimo tra la metà del primo secolo e la prima metà del secondo secolo, e che avevano a che fare con l'ambiente giudaico.

15Per una migliore comprensione del problema si cfr. Rm 11,15-36.

16Cfr. La voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, op. cit.

17Cfr. Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30; Lc 13,28.

18In tal senso, Flavio Giuseppe, che per tre anni, in giovane età, militò nella comunità di Qumran, ricorda nella sua Guerra Giudaica, circa i membri della comunità, che “Quelli che sono trovati colpevoli di gravi crimini li espellono dalla comunità. Chi subisce tale condanna spesso fa una fine assai miseranda; infatti, vincolato dai giuramenti e dalle abitudini, non riesce nemmeno a mangiare ciò che mangiano gli altri, e cibandosi di erba e consumando il corpo con la fame finisce per morire. Perciò gli Esseni ne riammisero molti per compassione, quando erano in fin di vita, giudicando castigo sufficiente per le loro colpe un tormento che li aveva portati sull'orlo della morte.” (BJ, Libro II, 143-144)

19Cfr. Ernest – M. Laperrousaz, Gli Esseni secondo la loro testimonianza diretta, Editrice Queriniana, Brescia 1988.

20In tal senso cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5.

21Secondo la visione del mondo dell' antico Israele, lo Sheol (cisterna), che corrisponde all'Ades dei greci e ai nostri Inferi, era un luogo sotterraneo, una sorta di enorme cisterna dove le anime dei morti venivano raccolte e stipate come in enormi magazzini e lì vivevano in uno stato larvale. Lo Sheol è considerato come il luogo del silenzio e dell'oblio, dove non splende mai la luce del sole né quella della vita; esso è collocato sotto terra ed è comunque sottomesso al potere divino.

22Il riferimento qui è ai giudeocristiani giudaizzanti, che pur avendo abbracciato la nuova fede, continuavano a praticare la legge mosaica, cercando di ricondurre l'evento Gesù all'interno di questa, privandolo in tal modo di ogni originalità e della sua autentica identità.

23Si pensi ai provvedimenti che i giudei presero contro i discepoli di Gesù, espellendoli dalla sinagoga (Gv 9,22; 12,42); o alla dodicesima benedizione dello Shemonè esrè, rivolta contro gli apostati, contro i nazareni (giudeocristiani) e contro gli eretici, affinché venissero sterminati e abrasi dal libro della vita.

24Cfr. At. 2,41; 6,7; 12,24; 13,49.

25Cfr. il commento al v.23 del cap. 21 della presente opera;

26I personaggi che si muovevano all'interno del cap. 21 e che furono i diretti interlocutori di Gesù, erano i sommi sacerdoti, gli scribi (v.15) e gli anziani del popolo (v.23). Non compaiono i farisei se non all'improvviso, in chiusura del cap.21 al v.45, in accoppiata con i sommi sacerdoti.

27Gli erodiani, di cui parlano sia Matteo che Marco (Mt 22,16; Mc 3,6; 12,13), più che un partito o una fazione favorevole ad Erode o suoi funzionari e/o cortigiani, categorie di persone queste estranee ai farisei e con i quali i farisei nulla avevano da condividere e che certamente non frequentavano, è molto probabile che essi fossero una casta di sacerdoti, discendenti anch'essi dal sommo sacerdote Sadok, e salita in auge sotto Erode il grande. Questi, infatti, sposò nel 24 a.C. Mariamne, la figlia del sacerdote Simone l'alessandrino, figlio di Boethos (da qui Boethusiani). Erode, per nobilitare il sacerdote e la sua famiglia, con cui si stava imparentando, dando così rango e lustro anche a Mariamne, destituì l'allora sommo sacerdote in carica, Gesù, figlio di Fiabi, e nominò in sua vece, Simone, che ricoprì la massima funzione religiosa e politica dal 24 a.C. fino al 5.a.C. circa. Per questa loro posizione, era evidente che essi fossero strettamente devoti e legati alla famiglia degli Erode. Si comprende, quindi, la loro presenza qui, dove Gesù era chiamato a pronunciarsi a favore o meno dei romani. - In tal senso cfr. Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XV, 320-322; e la voce “Erodiani” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

28Il sistema tributario gravava soltanto sui residenti nelle provincie e privi della cittadinanza romana. Esistevano soltanto due tipi di tributi, il tributum soli, che corrispondeva alla nostra tassa patrimoniale sulle proprietà ed era prelevata in misura fissa per tutti. In Siria la percentuale del prelievo era dell' 1%; e il tributum capitis era un'imposta sulla persona, anche questa in misura uguale per tutti e corrispondente ad un denaro, il cui valore equivaleva alla paga giornaliera di un operaio. Essa era applicata sia sugli uomini che sulle donne a partire dai 14 ai 65 anni per i primi e dai 12 ai 65 per le seconde. Per determinarne la quantità e chi ne fosse soggetto, venivano fatti periodicamente dei censimenti. Oltre a queste due imposte dirette, Roma esigeva dalle province anche tutta una serie di imposte indirette sul movimento delle merci. - Cfr. la voce “Tassazione” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e J. S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento. Tutte le opp. citt.

29Cfr. Mt 4,3; 16,1; 19,3; 22,18.35.-

30A Pilato che sbandierava il suo potere, Gesù risponderà che lui non ha alcun potere se non gli fosse dato dall'alto: Gli disse allora Pilato: "Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?". Rispose Gesù: "Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto” (Gv 19,10-11).

31Cfr. Mt 8,27; 9,33; 15,31; Mc 5,20; Lc 2,18; Lc 4,22; 8,25; 9,43; 11,14;

32Le cinque diatribe giudaiche sono: 1) L'autorità di Gesù (21,23-27); 2) Liceità del pagamento del tributo a Cesare (22,15-22); 3) La risurrezione dai morti (22,23-32); 4) Il comandamento più grande (22,34-40); 5) La natura messianica di Gesù (22,41-46).

33Le cinque diatribe formano una sorta di parallelismo tematico, concentrico e confluente in C). La questione sull'autorità di Gesù si riflette e si aggancia bene con la discussione sulla natura messianica di Gesù, che è fondamento giustificativo della sua autorità (A-A'); il tributo a Cesare, in cui si evidenzia la supremazia di Dio sull'uomo, trova una sua eco nel dibattito sul comandamento più importante, che vede prevalere anche qui, l'amore per Dio rispetto a quello per l'uomo (B-B'). E, infine, la risurrezione dei morti, posta centralmente in C), costituisce il tema predominante per gli stretti agganci con quella di Gesù.

34Il termine “Sadducei” compare sette volte in Matteo; di queste sei sono sempre accoppiate con la voce “Farisei”: cfr. Mt 3,7; 16,1.6.11.12; 22,23.34.- Matteo inserisce in 22,23 solo i Sadducei quasi certamente a motivo dell'argomento trattato in questa terza diatriba, la risurrezione, la cui concezione è in netta contrapposizione a quella dei Farisei.

35Sadok o Zadok fu sommo sacerdote, insieme ad Ebiatar, ai tempi di Davide (1010-970 a.C.); incoronò re Salomone (970-933 a.C.), che, a sua volta, lo riconobbe come l'unico sommo sacerdote, divenendo capostipite dei successivi sacerdoti. I sadducei, la cui classe sembra comparire intorno alla prima metà del II sec. a.C., durante il periodo maccabaico, si dicevano discendenti di Zadok, di cui hanno assunto il nome. Benché il nome Sadduceo sia di origine oscura e dibattuta, tuttavia la maggioranza degli studiosi sembra farla discendere da Zadok. - In tal senso e per una maggiore comprensione cfr. la voce “Sadducei” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

36Il termine “levirato” deriva dal latino “levir”, che significa “cognato”. Era questi, infatti, che doveva subentrare al fratello morto per dargli una discendenza. Il figlio che nasceva assumeva il nome del fratello deceduto e a lui andava l'intera eredità. In altri termini era ritenuto legalmente come il vero figlio del defunto.

37Il “come” (æj, os ) non dice identità, ma somiglianza e, quindi, parametro di raffronto. Il Sal. 8, infatti, nel riprendere il tema della creazione genesiaca, afferma che l'uomo è stato fatto di poco inferiore agli angeli (Sal 8,6a). Quel “poco inferiore” si riferisce alla costituzione dell'uomo, tratto dall'adamah, cioè dalla terra, e divenuto essere vivente per opera dello Spirito (“soffiò nelle sue nari”), così che l'uomo viene concepito nell'antropologia ebraica come una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato. Contrariamente agli angeli che sono puri spiriti. Diversa, dunque, è la costituzione, ma identica è l'origine, Dio, e identica la dignità: “di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi;”.

38Cfr. 1Cor 15,12-13.16.20-22.

39Cfr. Rm 6,5; 1Cor 15,21-23; 2Cor 3,18; Col 2,12;

40Cfr. 2Mac 7,14; 12,43;

41Cfr. Es 3,6.15.16; 4,5; 1Re 18,36; 1Cr 29,18; 2Cr 30,6.

42Cfr. Mt 3,9; 8,11; Lc 19,9; Gv 8,33.37.39.

43Cfr. 7,29; Mc 1,22.27; Lc 4,32.36.

44Cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia; G. Stemberger, La religione ebraica; P. De Benedetti, Introduzione al Giudaismo; tutte le opere citate.

45Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, op. cit.

46Cfr. Mt 13,2; 22,34; 26,3.57; 27,62.

47Poiché molti martiri proclamavano lo Shema' Jisrael nel momento estremo della loro testimonianza, esso è divenuto anche la preghiera dei morenti. - Cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, op. cit.

48Dt 6,5: “e amerai il Signore, il tuo Dio, da tutto il tuo cuore, da tutta la tua vita, da tutta la tua forza”

49Cfr. R. Fabris, Matteo, pag. 473, nota 4.

50Cfr. 2Sam 7,12-14; Is 11,1; Ger 23,5; 33,15; Ez 34,2.3; Os 3,5; Mi 5,1; Zc 6,12; 9,9; Am 9,11; Sal 78,70; 89,4.21.36.50; 132,11.

51Cfr. Hans Kessler, Cristologia, Editrice Queriniana, Brescia 2001; e la voce “Messia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; A. R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia – pagg.508-511; opp. citt.

52Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pag. 603; op. cit.

53Cfr. Mt 18,1; Mc 9,33-34; Lc 22,24.

54Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.476; in passo parallelo, G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, pagg. 781-784- Opp. citt.

55Il salmo 110 è probabilmente uno dei salmi più importanti del Salterio, ma è anche uno dei più problematici per la critica letteraria e teologica. Tra le cose più pacifiche è che esso appartiene al genere dei salmi regali, ravvisando in esso il tema dell'intronizzazione di un re messianico, cioè consacrato con unzione. Difficile è anche la sua collocazione storica. Vi è chi lo fa risalire all'epoca più remota della regalità di Israele (Davide o Salomone, X sec. a.C.); altri lo collocano in epoca più recente (II sec. a.C.), durante il periodo maccabaico, in cui la regalità rivestì anche il sacerdozio a partire da Simone, l'iniziatore della dinastia asmonea. Si riflettono, inoltre, nel salmo influssi esterni, mesopotamico, egiziano e cananeo. È molto probabile che questa complessità e difficoltà nel far quadrare tutti gli elementi del salmo, sia dovuto al fatto che esso ebbe nel tempo molteplici manipolazioni e adattamenti a situazioni nuove, le cui tracce si possono scoprire all'interno del testo. Alle difficoltà storiche e testuali si aggiungono anche quelle teologiche, date dall'interpretazione messianica da parte del cristianesimo primitivo sulla scia di una certa esegesi giudaica, orientata in tal senso. Dall'insieme di queste considerazione sembrano emergere due dati di fondo: a) vi è un nucleo primitivo di questo salmo, ravvisabile nei vv.1-3; b) al nucleo primitivo venne aggiunta in epoca maccabaica un ampliamento riguardante l'investitura sacerdotale (vv.4-6). Per questa nota cfr. Nuovissima Versione della Bibbia, Autori Vari, SALMI, Edizioni Paoline, Roma, 1984.

56Il testo originale ebraico recita: “Oracolo di Jhwh al mio signore”, che la LXX ha tradotto con “Oracolo del Signore al mio signore”.