IL VANGELO DI MATTEO


Quarto intermezzo narrativo

Capp. 19 - 23


Richiami ed esortazioni alla comunità matteana (capp. 19-20)

Atti di accusa e polemiche roventi contro il giudaismo (capp. 21-23)


Parte Terza – Cap. 21




Analisi e commento al cap. 21


Gesù, proclamato re, profeta, messia e figlio di Davide dalle folle,
si scontra con la chiusura e il rifiuto
delle autorità religiose,
alle quali viene annunciata l'espropriazione
del Regno di Dio



Introduzione

Con i capp. 19-20 Matteo si era rivolto esclusivamente alla sua comunità, invitandola a riflettere, da un lato, sulle esigenze del Regno (cap.19), inaugurato nella persona di Gesù; dall'altro sui nuovi rapporti, che devono animare le relazioni intracomunitarie, fondate sull'esempio di Gesù, che è venuto a servire e dare la sua vita, riscatto per molti (cap.20). Con questi ultimi tre capitoli (capp.21-23), l'autore innesca una polemica a tutto tondo, l'ultima (22,46), con tratti anche violenti (cap.23), finalizzata a mettere a nudo le incongruenze e le contraddizioni interne al giudaismo, che, chiuso nelle sue sicurezze, ha rifiutato con determinazione il messaggio salvifico offertogli da Gesù.

I tre capitoli formano di fatto un unico grande tritico, incorniciato in un contesto fortemente polemico e antigiudaico. Ogni capitolo pone l'accento su aspetti particolari del giudaismo nel suo vario esprimersi nell'ambito religioso e sociale. Il cap.21 ha come tema di fondo i rapporti del giudaismo con Gesù, in particolar modo inerenti alla sua persona: la sua titolatura (21,15-16), la sua autorità (21,23-27), legata al suo gesto profetico del rovesciamento dei banchi dei venditori del Tempio (21,12-13); legata, ancora, alla denuncia della vacuità del culto giudaico, indicato metaforicamente nella sterilità del fico rinsecchito (21,18-20) e sostituito, ora, dalla forza della fede espressa nella preghiera (21,21-22); e, infine, legata alla denuncia di infedeltà di Israele nei confronti di Jhwh (21,28-32), un'infedeltà che sfocerà in un assassinio (21,33-46), che decreterà, di fatto, la fine della missione di Israele (21,41.43). Il cap.22 si apre con una condanna sia del giudaismo, per il suo ingiustificato rifiuto di Gesù (22,1-9), riprendendo il tema del cap. 21 quasi a crearne una continuità logica e narrativa; sia di coloro che, convertiti al cristianesimo, non si sono ancora staccati dal giudaismo (22,10-14). Il capitolo prosegue affrontando questioni prevalentemente dottrinali e teologiche, mosse da intenti malevoli: la questione del tributo a Cesare (22,15-22); lo stato di vita del risorto (22,23-33); la disputa sul comandamento più grande (22,34-40); la vera natura del messia (22,41-46). Questioni queste che probabilmente si dibattevano in ambiente farisaico e sacerdotale. Il cap. 23 potremmo considerarlo come uno sfogo personale e alquanto feroce di Matteo, che mette in bocca a Gesù un elenco di contraddizioni e di incongruenze proprie del giudaismo. Qui, rispetto ai due precedenti capitoli, non vi è dialogo, non vi è dibattito, ma solo un violento atto di accusa, che da Gesù si rovescia impietoso sulle autorità giudaiche, Scribi e Farisei, travolgendoli in un giudizio di condanna senza scampo (23,37).


Il commento al capitolo 21


Il cap.21 apre le danze delle polemiche e si incentra sulla persona di Gesù, sulla sua natura e le sue pretese, muovendo contro il giudaismo accuse di infedeltà a Jhwh e al suo piano di salvezza (vv.28-32); un'infedeltà che si è fatta persecuzione (vv.34-36) fino all'omicidio del Figlio del Padrone della vigna (vv.37-39).


La struttura del cap.21 si sviluppa su cinque parti ed ha il suo cuore nei vv.23-27, in cui si pone la questione più scottante: da dove viene l'autorità di Gesù:


A) vv.1-11: l'entrata festosa e solenne di Gesù a Gerusalemme. La finalità del racconto, più che narrare un fatto di cronaca del tempo, quanto mai improbabile, come vedremo, punta ad evidenziare i titoli, che gravano sulla persona di Gesù e che ne definiscono la natura. Egli è qui colto come il re, che entra per prendere possesso della sua città; come il messia, che doveva venire; come l'erede delle promesse fatte da Dio a Davide; come il vero profeta. La pesante concentrazione di titoli cristologici, finalizzati a mettere in rilievo la figura di Gesù, sta di fatto preparando il lettore alla comprensione del senso dell'ultimo atto della missione terrena di Gesù, fornendone una chiave di lettura: la sua passione e morte.

B) vv.12-17: questa seconda parte è a sua volta articolata in tre sottoparti:

1) vv.12-13: il gesto profetico di Gesù, che rovescia i banchi dei venditori, allude al rinnovamento del culto, che ha come centro focale il Padre, restituendo il Tempio alla sua reale funzione: luogo d'incontro dell'uomo con Dio;

2) v.14: quanti aderiscono al rinnovamento del culto promosso da Gesù, sono da lui rigenerati nello spirito, entrando in una nuova dimensione spirituale, fondata sulla sincerità del cuore;

3) vv.15-17: il rinnovamento cultuale, che orienta il credente in modo nuovo verso Dio, rigenerandolo alla sua vita, non trova alcuna risonanza, se non un secco rifiuto da parte delle autorità giudaiche, che provocheranno da parte di Gesù il loro abbandono.

C) vv.18-22: potremmo considerarli come uno sviluppo del punto B), una sorta di commento e di riflessione sui vv.12-17. La sterilità del fico allude a quella del culto giudaico, che viene sostituito dal nuovo culto, che parte dal cuore, e fondato sulla fede e sulla preghiera.

D) vv.23-27: dopo la consistente titolatura, che definisce la vera natura di Gesù (vv.1-11), ora si è giunti al cuore della questione: l'origine dell'autorità di Gesù, che qui rimane senza risposta, ma che sarà data, completa ed esauriente, ai 26,63-64, in cui Gesù conferma al sommo sacerdote la sua divinità e la sua messianicità, nonché la sua funzione di giudice.

E) vv.28-46: l'autore denuncia attraverso due parabole, da un lato, l'apparente e formale fedeltà del giudaismo a Jhwh, ma poi smentita nei fatti (vv.28-32); dall'altro, un'infedeltà che si è fatta aperta rivolta contro Dio, divenendo assassina. Per questo Israele viene estromesso dal piano salvifico di Dio (28,41.43), che invece proseguirà con altri.

vv.1-11: il racconto dell'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme si sviluppa su quattro scene:

a) v.1a: la cornice geografica, dal sapore squisitamente teologico, entro cui si colloca il racconto;

b) vv.1b-7: le disposizioni di Gesù ai due discepoli per preparare il suo ingresso a Gerusalemme.

c) vv.8-9: la reazione delle folle osannanti, che accompagnano Gesù nella città santa;

d) vv.10-11: la reazione di Gerusalemme all'entrata di Gesù e la sua proclamazione a profeta da parte delle folle.


Il v.1a apre il cap.21, incastonandolo su di uno sfondo su cui si proietta l'ombra della croce. Il Golgota, ormai, è alle porte e tutto ciò che qui si legge, come nei seguenti capp.22-25, va ricompreso all'interno di tale sfondo. Tre sono i luoghi geografici, dalla forte valenza teologica, posti subito all'attenzione del lettore: Gerusalemme, collocata in prima posizione, perché è la meta dove è diretto Gesù e in cui si compiranno i misteri della salvezza. Il suo avvicinarsi sottolinea l'imminente compiersi di quell'ora, per la quale il Gesù giovanneo è venuto (18,37) e in cui il Padre glorificherà il Figlio, nel quale il Padre, a sua volta, sarà glorificato (Gv 17,1). Betfage, un piccolo villaggio a ridosso di Gerusalemme, una sorta di sua periferia dilatata1 e che potremmo definire come un avamposto di Gerusalemme. Esso è nominato soltanto qui. A differenza degli altri due sinottici, che citano Betfage assieme a Betania, dando maggior rilievo all'aspetto geografico, Matteo tralascia quest'ultima, che sarà invece nominata al v.17, per incentrare l'attenzione del suo lettore sull'altra località (Betfage), costituendo questa la porta d'entrata di Gerusalemme, diventando così idealmente anche la porta d'entrata nel mistero, che sta per compiersi. Ma essa è anche il luogo da dove Gesù partirà processionalmente sull'asina, attorniato dai suoi discepoli e dalle folle, proclamando pubblicamente la sua vera identità, la cui comprensione è di vitale importante per poter penetrare il senso del suo patire e del suo morire. Infine, il monte degli Ulivi, alto circa 800 mt e facente parte della omonima catena montuosa; esso è posto a ridosso di Gerusalemme, sul lato est della città, ed è attraversato dalla strada romana, che passa da Gerico e conduce verso Gerusalemme. Ai piedi di questo monte è posto il Getsemani o orto degli Ulivi, dove Gesù passerà, secondo i racconti evangelici, la sua ultima notte e dove egli verrà arrestato, dando così inizio alla sua passione, che si concluderà sulla croce. Tutti tre i luoghi, quindi, sono strettamente connessi ai misteri della salvezza, che stanno per compiersi e su di essi convergono. Ci si trova, dunque, di fronte ad una geografia teologica su cui Matteo, come attraverso una lente d'ingrandimento, focalizza l'attenzione della sua comunità.

vv.1b-7: questa pericope potremmo considerala come l'intonazione di un inno alla regalità e alla signoria di Gesù. Qui egli appare, infatti, nelle vesti di un personaggio potente con tratti di trascendenza, che in qualche modo richiamano da vicino il Gesù plenipotenziario di 28,18-20: invia due suoi discepoli come suoi messaggeri per attuare la sua volontà (vv.2-3), che viene eseguita meticolosamente (v.6); sembra quasi di trovarsi di fronte alla potenza della primordiale Parola creatrice, il cui comando ha come corrispettivo la sua immediata attuazione (Gen 1,3). I verbi sono tutti all'imperativo ed esprimono il potere in azione (andate, sciogliete, conducete, dite); prevede, inoltre, il futuro, su cui dispone la sua volontà (troverete, dite); per la prima ed unica volta in tutto il vangelo matteano Gesù attribuisce a se stesso il titolo di Signore (v.3b), facendo in tal modo emergere la coscienza della sua identità, che lo fa cogliere come il compimento di un'antica profezia (Zc 9,9), che lo vede entrare trionfalmente in Gerusalemme come il nuovo re d'Israele (v.5). Un re, che è anche messia, la cui messianicità è sottolineata dal quello slegare l'asina e il suo puledro, attuazione di un'altra profezia. In Gen 49,10-11, infatti, Giacobbe, rivolto ai suoi dodici figli, preannuncia il loro futuro (Gen 49,1) e a Giuda riserva questo destino: “Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e a scelta vite il figlio della sua asina, lava nel vino la veste e nel sangue dell'uva il manto”. È l'annuncio di un uomo forte, che dominerà sulle nazioni e in cui la tradizione vide raffigurato il messia. Ebbene, questo personaggio misterioso viene colto qui come colui che lega “a scelta vite” un'asina e il suo puledro. Ora quest'asina e il suo puledro sono sciolti e condotti a Gesù. È lo sciogliersi di una lunga attesa, che vede in Gesù il preannunciato e atteso messia. E che questo fosse l'intento dell'autore, lo lascia intendere la stessa citazione profetica, tratta da Zaccaria, che è stata pesantemente modificata per lasciar trasparire soltanto l'abbinamento re e asini da lui cavalcati (v.5) e precedentemente slegati (v.2b). La centralità della sua figura viene sottolineata da quel “conducete a me” (v.2). Tutto deve essere ricondotto a lui, poiché in lui si sta compiendo il disegno del Padre, per mezzo del quale “[...] egli (il Padre) ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,9-10). Così come il Gesù giovanneo ricorda la centralità e la fondamentalità del suo essere innalzato sulla croce, che allude in quel “ipsotzô (sarò elevato) anche all'innalzamento della sua risurrezione: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). A tal punto, forse Matteo si è accorto di aver calcato troppo la mano sulla figura di Gesù, concentrando su di lui titoli e comportamenti, che soltanto alla sua risurrezione appariranno giustificati. Ora egli è soltanto l'umile Servo di Jhwh, che dovrà subire l'offesa degli uomini fino alla morte di croce, quale preludio alla sua risurrezione (Is 53,1-12; Fil 2,6-11). Ecco, quindi, la necessità di stemprare l'anticipata apoteosi di Gesù, che apparirà conclamata soltanto in 28,18-20, sottolineando il suo stato di bisogno e la necessità di rassicurare il proprietario degli asini, che questi gli verranno restituiti subito (v.3b), poiché non sono suoi.

Il v.4, che riporta la motivazione di fondo dell'intera pericope (vv.1-7), fornendone la chiave di lettura, si apre con un'espressione cara all'autore: “Tutto ciò avvenne affinché si adempisse” (plhrwqÍ, plerotzê), che risuona nel suo racconto per 15 volte, contro le complessive 14 volte degli altri evangelisti. Questo suo insistente ripetersi lascia intendere come l'evangelista veda in Gesù il compimento di tutte le Scritture (5,17), il realizzarsi delle attese e delle speranze veterotestamentarie.

La citazione scritturistica del v.5 è in realtà una composizione e un adattamento che l'autore fa di due testi simili tra loro. La prima parte, “Dite alla figlia di Sion”, viene tratta dal trito Is 62,11b (“Dite alla figlia di Sion: Ecco, arriva il tuo salvatore; ecco, ha con sé la sua mercede, la sua ricompensa è davanti a lui”); mentre la seconda parte, “Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un'asina, con un puledro figlio di giumenta” è stata presa e adattata dall'autore da Zc 9,9. La citazione originaria di Zc 9,9 dice “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina”. Le parole in corsivo sono state omesse dall'autore e riportate, invece, quelle sottolineate. Questo rivela il taglio che Matteo ha voluto dare alla figura di Gesù in un contesto di sofferenza e di morte imminente. Nessun rallegramento da parte di una Gerusalemme assassina e profondamente turbata al suo apparire (v.10 e 2,3); nessun segno di vittoria e di potenza in un re che sta per essere ucciso e sacrificato. Matteo, al contrario, vuole incentrare l'attenzione della sua comunità sul fatto che in Gesù si è adempiuta la doppia profezia di Gen 49,10-11 e Zc 9,9, mettendo in rilievo la sua regalità divina, fondata non sulla onnipotenza, che schiaccia i nemici, ma sulla sua mansuetudine e sulla sua umiltà, che richiamano da vicino la posizione redentiva di Dio, fondata sulla misericordia e sulla compassione2. La stessa cavalcatura sottolinea una volta di più la mitezza di questo re di pace e di riconciliazione. L'asino, infatti, era la cavalcatura dei re in tempo di pace, mentre il cavallo era quella propria del tempo di guerra3, come lascia intendere anche il v.9,10, immediatamente successivo alla citazione di Zaccaria (Zc 9,9). Tuttavia, mitezza e umiltà non sono sinonimi di buonismo. Infatti, questo è anche un re che porta con sé il giudizio su di una generazione incredula, perversa e adultera4. Non a caso Matteo ha introdotto la citazione di Zc 9,9 dall'espressione, volutamente mutuata da Isaia5, che preludeva la venuta di un re giustiziere, che portava con sé la ricompensa (“Ecco, arriva il tuo salvatore; ecco, ha con sé la sua mercede, la sua ricompensa è davanti a lui”). La cornice, quindi, entro cui viene posta la scena di questo re di pace assume anche toni escatologici. La morte redentrice, che Gesù sta per affrontare, costituisce, quindi, anche un giudizio posto sull'incredulità.

Il v.7 si conclude con l'annotazione che i discepoli di Gesù “vi misero sopra i loro mantelli e si sedette sopra di loro”. Una consuetudine che sembra richiamare l'intronizzazione del re6. L'atto di stendere i mantelli dapprima, da parte dei discepoli e poi da parte delle folle, che accompagnavano Gesù in Gerusalemme, infatti, è un gesto di riconoscimento della regalità e del proprio sottomettersi ad essa, a partire dapprima da parte dei dignitari di corte e poi dalla gente. Il mantello, infatti, nell'antichità, e in particolar modo in Israele, era strettamente legato alla persona che lo portava, così che Es 22,25-26 e Dt 24,13 impongono espressamente che nessuno potesse pignorare il mantello del proprio prossimo, ma questo gli doveva essere restituito alla sera, ritenendolo un indumento indispensabile del vivere. Il mantello, quindi, acquisisce una forte simbologia della vita, identificandosi con chi lo porta7. Lo stendere il mantello, pertanto, significava riconoscere la regalità e sottomettervisi8.

vv.8-9: se con i vv.1-7 Matteo evidenziava la regalità messianica di Gesù, presentandone il riconoscimento e la sottomissione da parte dei discepoli (v.7b), qui, con i vv.8-9, estende tale riconoscimento e tale sottomissione anche alla folla, definita con un aggettivo quantitativo posto al superlativo “ple‹stoj” (pleȋstos), grandissima, enorme, che preannuncia l'universalità di tale riconoscimento, che apparirà soltanto dopo la risurrezione (28,18-20). La cornice, entro cui viene posta la descrizione della folla, possiede i tratti della sacralità celebrativa propria di un'azione liturgica9, con la quale viene pubblicamente consacrata la figura di Gesù, che appare davanti al suo popolo, e da lui viene riconosciuto e accolto, come il re messia10, il promesso e atteso discendente del re Davide, e, quindi, erede della profezia-promessa, che Natan gli fece (2Sam 7,11b-16).

Lo sfondo sacrale entro cui si muove la folla, trasformata in una sorta di assemblea liturgica celebrante, è costituito da alcuni tratti fondamentali: innanzitutto la folla, colta nella ritualità del gesto di stendere i mantelli, quale atto di riconoscimento e di sottomissione; mentre i rami, anch'essi posti sulla via, riconducono all'interno di antiche liturgie prescritte dalla stessa Torah11. Essa, inoltre, è una folla osannante, come nelle grandi feste ebraiche e sulla sua bocca viene posto da Matteo il Sal 118,25-26; anzi, per la verità l'autore, in questi vv.8-9, sembra aver ricostruito il clima e l'ambiente cantato nel Sal 118,24-2912: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso. Dona, Signore, la tua salvezza, dona, Signore, la vittoria!13 Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Vi benediciamo dalla casa del Signore; Dio, il Signore è nostra luce. Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell'altare. Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie, sei il mio Dio e ti esalto. Celebrate il Signore, perché è buono: perché eterna è la sua misericordia”. Probabilmente con la descrizione di questa scena l'autore non intendeva dire che lì si stava celebrando un culto di consacrazione, ma, creandone la cornice, lascia intendere che quanto qui succede va letto in questo senso.

Interessante è la posizione in cui Gesù viene a trovarsi rispetto alle folle. Dapprima Matteo al v.8 parla di una folla grandissima, enorme (pleîstos), quasi ad indicare l'universalità di questa regalità messianica, che si rivelerà nella sua pienezza soltanto nella risurrezione; poi, al v.9a, la grandissima folla diventa due folle, qualificate dalla loro posizione rispetto a Gesù: c'è quella che precede Gesù e quella che lo segue; al loro centro, quale polo catalizzatore, si trova Gesù, verso il quale si eleva un unico inno di riconoscimento, come re e messia di discendenza davidica (v.9b). Con questo particolare curioso, è molto probabile che Matteo si stia rivolgendo alla comunità ebraica (la folla che precedeva Gesù), cercando di far capire come anche la nuova comunità messianica (la folla che seguiva Gesù) acclama l'identico messia regale, che anche lei attendeva e che lo ha riconosciuto in Gesù, che viene posto come unico elemento di congiunzione e di convergenza tra le due comunità credenti, quella che lo precedeva e quella che lo seguiva. Probabilmente un invito pubblico al giudaismo a confluire nell'unica fede del messia regale di discendenza davidica.

vv.10-11: il racconto dell'entrata festosa e solenne di Gesù in Gerusalemme si chiude con questi due versetti, che, da un lato, offuscano la gioia esultante delle due folle con una nota di turbamento; dall'altro, aggiungono un altro titolo su Gesù, che va a completare la sua identità e con cui era conosciuto popolarmente14, ma del tutto insufficiente per rivelarne la vera natura divina e la sua stessa provenienza da Dio15. La proposta, che Matteo sembra aver fatto al mondo giudaico al v.9, quella di unirsi alla nuova comunità messianica, riconoscendo in Gesù l'attuarsi delle profezie regali e messianiche, qui, al v.10 viene respinta. L'entrata di Gesù in Gerusalemme, infatti, crea una certa agitazione, che denuncia ancora una volta l'irrigidimento e la chiusura del mondo giudaico nei confronti di Gesù; poco importa se le nuove comunità credenti lo avessero riconosciuto come l'atteso messia regale di discendenza davidica, come il compimento delle Scritture, condividendo in tal modo la fede e le attese dello stesso mondo giudaico. Un'agitazione e una chiusura che già erano state in qualche modo preannunciata al cap. 2,3, allorché Erode, udito l'annuncio dell'avvento di un nuovo re da parte dei Magi, si turbò e con lui anche Gerusalemme. Un rifiuto, la cui radicalità Matteo sottolinea con forza in quel “tutta la città” fu agitata, quasi a giustificare il duro lamento di condanna, che Gesù porrà su Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta!” (Mt 23,37). Ed è significativo come questo atto di accusa e di condanna sia fatto seguire dal v.23,38, che chiude la trilogia delle polemiche (capp.21-23): “Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”. Espressione questa che forma inclusione con il v.21,9, in cui si propone al mondo giudaico una fede comune in Gesù. Il rifiuto, pertanto, non solo porterà alla rovina di Gerusalemme, ma le viene preclusa ogni salvezza, se essa non riconoscerà la messianicità di provenienza divina di Gesù.

L'interrogarsi della città su Gesù e la risposta che ne segue lasciano intendere come per il mondo giudaico Gesù fu soltanto uno dei tanti profeti, che si aggiravano per la Palestina per parlare delle cose di Dio e ai quali si riconosceva un certo carisma divino, ma non si andava oltre. Significativa, infatti, è la risposta che viene data da entrambe le folle: “Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea”. Questo è l'unico punto su cui mondo giudaico e nuova comunità messianica possono concordare, ma del tutto insufficiente per accedere alla nuova fede, perché lascia Gesù nella sua dimensione storico-umana. Egli, infatti, è un profeta, le cui origini non sono divine, ma umane, provenendo da Nazareth di Galilea, anzi egli è definito come “colui che proviene da Nazareth”, escludendo in lui ogni dimensione divina (Ð ¢pÕ Nazaršq, o apò Nasaréth). La sua origine, quindi, non è da Dio, ma da Nazareth, sperduto paesino tra le montagne della Galilea. Per questo il v.23,38 conclude la dura polemica con i giudei, preannunciando che Gesù sarà a loro inaccessibile, e di conseguenza anche la salvezza, finché non ne riconosceranno la provenienza divina e l'agire di Dio stesso in lui: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”.

La storicità del racconto


L'episodio dell'entra di Gesù in Gerusalemme certamente non può essere negato, poiché a Gerusalemme Gesù vi è andato per celebrare la pasqua e i drammatici fatti che si sono susseguiti sono inconfutabilmente accaduti a Gerusalemme. Il problema della storicità16, quindi, non va posto sull'entrata o meno a Gerusalemme, ma sulle modalità della sua entrata che, così come riportata dai vangeli, francamente suscita molti dubbi e perplessità. Il contesto storico, in cui viene posta l'entrata di Gesù, è la pasqua ebraica, per la cui celebrazione confluivano da tutta la Palestina e dalle diverse regioni dell'impero un numero considerevole di ebrei17. Era, quindi, un tempo particolarmente caldo per l'ordine pubblico, perché era in questo periodo che le autorità temevano maggiormente le rivolte. L'ebreo, infatti, non era facilmente gestibile, per la sua spiccata sensibilità e suscettibilità in questioni di ordine religioso18 e, proprio per questo, egli godeva da parte di Roma di una sua relativa autonomia ed era rispettato nella sua fede, anche se non mancarono delle provocazioni da parte dei singoli procuratori romani, che ebbero come risposta rivolte sanguinose. Una di queste portò alla prima guerra giudaica (66-73 d.C.)19. Non va, infatti, dimenticato che la Palestina era un territorio occupato da Roma, che per l'occasione della Pasqua e di altre festività importanti, rafforzava la sicurezza in Palestina e a Gerusalemme in particolare, inviando delle coorti in appoggio a quelle già presenti sul territorio palestinese, che avevano funzioni di polizia20 (ogni coorte comprendeva circa 600 soldati), distaccandole dalla III Gallica, VI Ferrata Fidelis, XII Fulminata e X Fretensis21, tutte legioni di stanza in Siria, da cui la Palestina dipendeva amministrativamente. Pensare, quindi, che una numerosissima folla o comunque molto consistente potesse proclamare Gesù come il Messia, osannandolo come re, senza creare un certo scompiglio e senza attirare per questo l'attenzione delle autorità romane, lì presenti in forze, non è certamente credibile. Sarebbe stato di certo un massacro, considerata la determinazione e la crudeltà del prefetto Pilato, per l'occasione lì presente in Gerusalemme22, che proprio per la sua rozza crudeltà venne destituito nel 36 d.C. dal governatore romano della Siria Lucio Vitellio, da cui Pilato dipendeva. È molto probabile, quindi, per non dire certo, che i racconti degli evangelisti siano elaborazioni della chiesa primitiva, che ha voluto dare un taglio squisitamente teologico all'entrata di Gesù in Gerusalemme. La prova, a nostro avviso, viene fornita dallo stesso Matteo là dove afferma che “Tutto ciò avvenne affinché si adempisse la parola per mezzo del profeta, che dice ...” (21,4). Un versetto questo che è il cuore dell'intera pericope 21,1-11, attorno al quale essa ruota e viene narrativamente giustificata. Il grido osannante della folla (v.9), poi, altro non è che la conferma storica, che l'autore ha voluto dare a quella profezia appena citata. Matteo, quindi, aiuta la sua comunità a leggere la venuta di Gesù in Gerusalemme per la celebrazione della pasqua, come l'attuarsi di una profezia, anzi di una doppia profezia, come si è visto sopra (di Is 62,11 e Zc 9,9), che confluiva sull'identico tema della regalità e della messianicità, che l'evangelista applica a Gesù. Questo, posto a ridosso della passione e morte di Gesù, serve per aiutare a comprendere non soltanto l'identità di Gesù, ma anche il senso e il valore del suo patire e del suo morire.

vv.12-17: il racconto della purificazione del tempio è riportato da tutti gli evangelisti con piccole variazioni tra i sinottici, molto più circostanziato, invece, nel quarto evangelista. La collocazione temporale dell'episodio è posta nei sinottici al termine della missione di Gesù, a ridosso della sua passione e morte, mentre in Giovanni all'inizio dell'attività di Gesù (Gv 2,13-17). La diversa collocazione temprale segue soltanto le diverse teologie degli autori. Per Giovanni la venuta di Gesù è l'annuncio dei nuovi tempi, in cui si attua un rinnovamento spirituale, che punta a ricollocare, già fin d'ora, l'uomo nella vita stessa di Dio per mezzo della fede in Gesù (Gv 3,15-16) ed è legata in qualche modo alla sua risurrezione (Gv 3,19-22), per cui l'operare salvifico di Gesù diventa una sorta di anticipazione degli effetti della risurrezione. La purificazione del tempio giovannea va pertanto letta nell'ottica di questo rinnovamento escatologico in atto e fornisce la chiave di lettura del futuro operare di Gesù. Per i sinottici, invece, la purificazione del tempio, posta a ridosso della passione, morte e risurrezione di Gesù, annuncia, invece, l'inaugurazione di un nuovo culto, che si attuerà proprio sulla croce, mentre Gesù è il nuovo tempio in cui si attua il nuovo sacrificio. Non a caso proprio sotto la croce Gesù è riconosciuto vero Figlio di Dio (Mt 27,54; Mc 15,39) e uomo giusto (Lc 23,48), mentre nel momento della sua morte il velo del tempio (Mt 27,51; Mc 15,38), che nascondeva il Sancta Sanctorumm, il luogo della presenza di Dio, si squarciò segnando con questo la fine del vecchio tempio e dell'antico culto, ora rinnovati in modo definitivo nella persona di Gesù (Eb 9,11-12.28; 10,10).

Il racconto della purificazione del tempio viene collocato in Matteo nel giorno stesso dell'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Con tale entrata si è posta in evidenza la sua identità di re, messia davidico e profeta, in cui si sono attuate le attese e si sono compiute le promesse. In tal modo l'autore fornisce a Gesù anche l'autorità per compiere tale purificazione e aiuta a leggerla come il compiersi dei tempi messianici, in cui Dio è tornato in mezzo agli uomini, ristabilendo il suo potere e il suo regno tra loro.

Il racconto (vv.12-17) si struttura su tre parti:

a) vv.12-13: la narrazione dell'episodio della cacciata dei cambiavalute e dei venditori di colombe e la sentenza profetica, tratta da Is 56,6-7 e Ger 7,11;

b) v.14: il primo effetto di tale rinnovamento: la guarigione di un'umanità degradata dal peccato, che, entrando nel nuovo tempio purificato, ha accolto l'annuncio dei tempi nuovi attuatisi in Gesù;

c) vv.15-17: il secondo effetto del rinnovamento portato da Gesù: rifiuto e disconoscimento da parte delle autorità religiose.

vv.12-13: nei versetti precedenti Matteo presentava l'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, quale re, messia davidico e profeta. Se da un lato ne definiva l'identità, fornendo in tal modo una chiave di lettura della persona di Gesù, dall'altro lo caricava di un'autorità tale da poter giustificare la purificazione del tempio, spiegandone implicitamente il senso. È significativo, infatti, come il racconto dell'entrata in Gerusalemme termini con la definizione di Gesù come profeta (v.11), fatto seguire immediatamente dall'episodio del tempio, indicando in tal modo come tale gesto sia da collegarsi a quello degli antichi profeti, i quali, su indicazione ispirata di Dio, compivano azioni o assumevano comportamenti strani all'apparenza, per denunciare con questi il comportamento infedele di Israele nei confronti di Jhwh23. L'agire simbolico di questi profeti diventava, quindi, un vero e proprio annuncio, una parola che si predicava attraverso l'azione. In egual modo l'agire di Gesù, dichiarato profeta (v.11), va letto, in questo contesto, in modo simbolico e, come vedremo in seguito, non in termini storici.

Il racconto si svolge in due parti, in cui, da un lato si presenta l'azione (v.12), dall'altro la si spiega (v.13). Sono esattamente i due tempi entro cui si muoveva il comportamento simbolico dei profeti: Dio ordinava al suo profeta di comportarsi in un certo modo, poi a questo forniva la spiegazione, che costituiva il messaggio incluso nel segno24. Nel v.12 due sono i verbi significativi: “entrò” e “rovesciò”. Il primo verbo porta a compimento un lungo viaggio, che, partito dal confine estremo della Palestina, Cesarea di Filippo, dove si ebbe la confessione di Pietro (16,13-20), passa attraverso a Cafarnao in Galilea (17,24), dove Gesù aveva predicato il quarto grande discorso (18,1-35), per poi puntare decisamente verso Gerusalemme (19,1b), attraversando Gerico (20,29) e, salendo sul monte degli Ulivi, giungendo a Betfage nei pressi di Gerusalemme (21,1). Qui vi entra, coronato da tre titoli, che mettono in evidenza la sua vera identità e qualificano, giustificandoli, la sua autorità e il suo potere. Ma il suo viaggio non è ancora compiuto, egli infatti, non si ferma a Gerusalemme in mezzo alla gente, ma entra nel suo cuore, nel cuore stesso del giudaismo e qui compie l'azione profetica, che consiste in un rovesciamento delle attività commerciali periferiche al Tempio, sia pur esse compiute a suo favore. Il secondo verbo, “rovesciò”, costituisce la meta finale del lungo peregrinare di Gesù, che dagli estremi confini della Palestina lo porta nel cuore di Gerusalemme. Infatti il suo entrare nel Tempio è per rovesciare. Matteo qui usa il verbo “™xšbalen” (exébalen), che ha un significato più profondo e più ampio del semplice rovesciare. Esso significa gettare giù, buttare fuori, gettare via, scacciare, espellere, ripudiare, rigettare, respingere, abbandonare, lasciare in abbandono. Quell'exébalen, quindi, dice tutta la forza e la vitalità dell'azione di Gesù e allude anche al senso della sua missione: liberare il giudaismo da un culto infarcito di legalismo per rigenerarlo a Dio e ricondurlo a Lui, attraverso un grande movimento escatologico catalizzato attorno alla sua persona, nella sincerità di un culto che si radicasse non più nella Legge, ma nel cuore e nella vita25. Un grande movimento, che dal giudaismo si era naturalmente esteso all'intera umanità (Mt 28,18-20; Gv 12,32). Significativa, infatti, è la conclusione del cap.23: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (23,37). Il suo lungo viaggio termina qui e qui termina sostanzialmente la sua missione. Da questo momento in poi non ci saranno più miracoli, non più guarigioni, ma solo una lunga polemica, piena di allusioni e di minacce, che si concluderà sul Golgota, da dove si irradierà la salvezza per l'intera umanità (28,18-20).

Il v.13 riporta due citazioni, che costituiscono la spiegazione e la motivazione del gesto profetico di Gesù (v.12). La prima, tratta dal trito Isaia (56,7), era stata pronunciata in un contesto di una universalità del culto a Jhwh da parte di tutti i popoli. Matteo la estrapola da questo contesto, togliendole ogni riferimento all'universalità. Il motivo, molto probabilmente, era quello di incentrare l'attenzione della sua comunità di giudeocristiani sulla sacralità e sulla santità del Tempio, divenuto luogo di incontro mondano, luogo di affari, di commercio e di dibattiti. Il cortile dei Gentili, infatti, era molto somigliante al forum dei romani o all'agorà dei greci, aperto a tutti, anche ai pagani. È proprio qui che si trovavano i venditori e i cambiavalute ed è proprio qui che si è compiuta l'incursione di Gesù. La seconda citazione, tratta da Ger 7,11, accusa il giudaismo di aver trasformato il Tempio in una spelonca di ladri a motivo del comportamento da loro tenuto. La citazione fatta da Matteo non è casuale, perché il contesto, da cui è stata estrapolata la citazione, è proprio quello dell'ipocrisia di chi coniugava una vita in dissonanza da Dio con il suo culto, ritenendo il Tempio come una sorta di amuleto portafortuna26, che lo avrebbe salvato dalle sventure della vita e dei nemici: “Ma voi confidate in parole false e ciò non vi gioverà: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dei che non conoscevate. Poi venite e vi presentate alla mia presenza in questo tempio, che prende il nome da me, e dite: Siamo salvi! per poi compiere tutti questi abomini. E' forse è una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me? [...]” (Ger. 7,8-11).

L'intento di Gesù, dunque, era quello di riportare il culto alla semplicità e alla sincerità del cuore; un culto che si celebrasse, più che nel tempio, nella vita, facendo della stessa un sacrificio santo e gradito a Dio. In tal modo la vita diventava un luogo di culto, in cui il vero credente celebrava una liturgia di lode al suo Dio (Rm 12,1).

La storicità dell'episodio (21,12-13)


Il racconto della purificazione del Tempio è riportato da tutti gli evangelisti, pur con qualche comprensibile e giustificabile variazione. Tuttavia, anche per questo episodio si presentano problemi circa la sua storicità, poiché il contesto storico, in cui è avvenuto, non lo rende credibile. Tutti gli evangelisti pongono l'episodio nella cornice della pasqua ebraica, un tempo, come si è visto nell'analisi circa la storicità dell'entrata di Gesù in Gerusalemme, molto critico per la sicurezza e per questo il livello di attenzione delle autorità religiose, civili e militari era altissimo27. Oltre all'incremento di reparti militari, provenienti in rinforzo dalla vicina Siria28, va tenuto presente che il gesto di Gesù si compie all'interno del recinto del Tempio, sorvegliato non solo dalla polizia del Tempio29 e dalle stesse autorità religiose, ma anche da una nutrita guarnigione romana, insediata nella Fortezza Antonia o Torre Antonia30, che dall'alto, prospiciente sul Tempio, controllava l'intero flusso e l'intero movimento di persone al suo interno. Se Gesù avesse effettivamente fatto ciò che gli evangelisti raccontano, avrebbe creato un notevole parapiglia generale, generando una situazione di criticità nella sicurezza; per questo sarebbe stato immediatamente arrestato e subito imprigionato. Sarebbe stata, quindi, un'ottima occasione per porre fine alle continue sfide di questo sedicente rabbi, che era visto dalle autorità come un pericoloso sobillatore (Gv 11,46-50; 18,14). Inoltre, nessuno avrebbe più avuto nulla da eccepire e le autorità avrebbero avuto in mano una carta vincente, presentando Gesù come un pericoloso e blasfemo sovvertitore dell'ordine pubblico e religioso; un attentatore del Tempio. E chi mai avrebbe potuto dire il contrario? Vi sarebbe, inoltre, da capire il motivo che spinse Gesù a intervenire così pesantemente sui venditori di animali e sui cambiavalute. Entrambe le figure erano indispensabili per il buon funzionamento del Tempio. Entrambe rendevano un servizio importante. I venditori fornivano sul posto animali di varie taglie, così come stabilito dalla Legge (Lv 1,2) ed erano animali selezionati perché dovevano possedere tutte le prescrizioni legali, che li rendevano idonei al sacrificio (Lv 1,3a.10; 22,17-33). Quanto ai cambiavalute, questi cambiavano ai numerosissimi pellegrini, provenienti da tutto l'impero, le loro monete, considerate impure e quindi non idonee per l'offerta al Tempio, con l'unica moneta accettata dal Tempio: il siclo d'argento di Tiro31. Da questo commercio non traevano beneficio soltanto venditori e cambiavalute, ma anche il Tempio stesso, che imponeva a questi commercianti una tangente sulle loro attività. Inoltre, questo commercio si collocava in un'area profana, denominata significativamente cortile dei Gentili, che costituiva una sorta di grande piazzale in cui tutti, ebrei e pagani, potevano liberamente accedere. Esso potremmo definirlo un po' come il sagrato delle nostre chiese. Non si comprende, quindi, perché Gesù se l'avesse presa così di petto con persone che, di fatto, rendevano un servizio autorizzato al Tempio e contribuivano in qualche modo anche al suo sostentamento.

Per questo insieme di considerazioni, diventa molto difficile ritenere come storicamente accaduto questo episodio, che, invece, a nostro avviso, va letto solo come gesto profetico, simbolico, finalizzato a far comprendere alla comunità matteana il senso della missione di Gesù, che, ora, posta a ridosso della passione e morte, sta per raggiungere il suo vertice.

vv.14-17: questa breve pericope costituisce la duplice reazione-risposta al segno profetico di Gesù; un segno che parla di sradicamento dal vecchio modo di intendere il culto e di rinnovamento spirituale profondo, che apre il credente ad un nuovo culto a Jhwh, un culto che si radica nella vita, nella sincerità di cuore, trasformandola in una liturgia di lode a Dio. Si hanno, quindi, da un lato, ciechi e zoppi; dall'altro sommi sacerdoti e scribi. I primi sono descritti come coloro che si avvicinano a Gesù, come coloro che gli vanno incontro (prosÁlqon aÙtù, prosêltzon autô); i secondi come coloro che gli muovono critiche e gli vanno contro. I primi, coloro che sono esclusi dal vecchio culto e considerati una maledizione di Dio, sono coloro che sono purificati, riscattati e redenti dalla loro infamia proprio da quel Dio che, secondo le logiche del vecchio culto, avrebbe dovuto rifiutarli. Significativo è, infatti, il verbo che Matteo usa per descrivere l'azione di Gesù nei loro confronti: “™qer£peusen aÙtoÚj, etzerápeusen autús”. Il verbo qerapeÚw non significa soltanto medicare, curare o guarire, ma anche farsi servo, corteggiare, onorare, stimare, occuparsi di, aver cura, prestare attenzione a, rivolgere i propri pensieri a … Un verbo, quindi, carico di significati, che rivela l'atteggiamento di Dio, rivelatosi in Gesù, nei confronti di un uomo degradato dal peccato e mostra tutta la sua attenzione e il suo interesse per lui. Questa attenzione salvifica di Dio per l'uomo travolto dal peccato si trasforma in un atto rigenerativo, che lo ricostituisce nella sua integrità originale, allorché Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31a), e lo ricolloca nella vita stessa di Dio, che lo aveva fatto a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27). Ancora una volta Matteo vede la redenzione dell'uomo come un servizio di salvezza che Gesù opera in nome e per conto del Padre a tutto favore dell'uomo decaduto. Tutto ciò è stato reso possibile dal fatto che, a fronte del rinnovamento spirituale che Gesù è venuto a portare, zoppi e ciechi si sono resi disponibili ad accoglierlo, una disponibilità significata da quel movimento di avvicinamento a Gesù (prosêltzon autô). A questo atteggiamento di disponibilità accogliente, Matteo, quasi a volerne sottolineare il contrasto e la contrapposizione, accosta immediatamente il comportamento delle autorità religiose giudaiche, che, invece, si scandalizzano e criticano con atto di accusa, di fatto rifiutano e si oppongono (“si sdegnarono”), il conclamato messianismo di Gesù. In realtà, l'autore approfitta, una volta di più, per sottolineare la messianicità davidica di Gesù e lo fa, da un lato, raccontando la guarigione di ciechi e zoppi, gesto questo che secondo Is 29,18; 35,5-6; 42,7.16 annuncia l'evento messianico e definisce l'identità del messia atteso; dall'altro, mettendo sulle labbra dei bambini, in cui Matteo vede i nuovi credenti della sua comunità, le parole del Sal 8,3, per controbattere la tracotanza di un rifiuto senza speranze: “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli”, vedendo in ciò l'attuarsi delle Scritture, di cui Gesù è il compimento (5,17).

Significativo, infine, è il luogo dove avvengono queste cose: nel tempio (“™n tù ƒerù, en tô ierô), il luogo sacro, in cui Dio incontra l'uomo nel suo habitat storico. Ed è in questo tempio rinnovato, che Gesù prospetta un nuovo culto (Eb 7,18-19; 10,8-9), che si compirà da lì a pochi giorni sul Golgota. Qui egli non solo si sostituirà all'antica vittima32, ma sarà anche il nuovo Tempio (Gv 2,21; Ap 21,22-23), che accoglierà tutti coloro che a lui si avvicinano (Mt 21,14; Ap 21,24-27), mettendoli nuovamente nella giusta posizione nei confronti di Dio. Con Gesù, dunque, si è aperta una nuova dimensione spazio-temporale e metastorica, in cui l'uomo è chiamato ad entrare, per condividere quella vita divina, di cui era stato rivestito nei primordi della creazione (Gen 1,27-31; 2,7).

Con il v.17 si chiude il primo giorno di Gesù a Gerusalemme, caratterizzato dalla sua entrata messianica, regale e profetica, che ne definisce l'identità; e dalla presa di possesso di un tempio, segnato da un degrado cultuale ormai inaccettabile, e dal suo rinnovamento nel segno di una nuova visione delle cose (Is 43,19a; Ap 21,5a), caratterizzate dalla restaurazione di ogni cosa nel Risorto33. Ma il v.17 segna anche l'abbandono definitivo di Gesù del mondo giudaico al suo destino (23,38): “E lasciatili, uscì fuori dalla città”. Non si tratta di un semplice movimento topografico, ma l'espressione denuncia una condanna del giudaismo per la pertinace inamovibilità del suo rifiuto; condanna che Matteo vide realizzarsi nella distruzione di Gerusalemme (70 d.C), di cui fa cenno, quasi certamente, sia in 23,38 che in 22,7, nella parabola delle nozze del figlio del re e probabilmente anche in 21,41a.

vv.18-22: una breve pericope densa e di un elevato spessore polemico, quella che Matteo sottopone alla riflessione della sua comunità. Una pericope che si colloca tra il gesto profetico del rovesciamento dei tavoli nel tempio (vv.12-13) e la contestazione da parte dei sommi sacerdoti e degli anziani circa l'autorità di Gesù (vv.23-27) e, quindi, la sua capacità giuridica e religiosa di comportarsi in quel modo in un'area, il tempio, di stretta competenza sacerdotale. Il contesto in cui si inserisce questa pericope, è, quindi, carico di tensione. Del resto lo stesso v.18 si apre con un Gesù che ritorna sulla scena del “crimine”, quasi a voler riprendere quel discorso lasciato in sospeso così in modo brusco con il v.17: “E lasciatili, uscì fuori dalla città”. Anche il racconto del fico improduttivo riprende il tema dell'aridità di un culto sontuoso e altisonante, ma privo di frutti; un culto che si celebrava nel Tempio, ma non nella vita. Ma vedremo anche come questa pericope (e qui sta il secondo momento polemico) sia un'esortazione a scavalcare e a rovesciare questo culto arido e non più gradito a Dio con una fede, alimentata dalla preghiera, capace non solo di dare frutti, ma anche di gettare la montagna (metafora del giudaismo) nel mare, luogo in cui risiedono le forze del male e in cui Gesù già aveva sollecitato gli scandalizzatori dei piccoli (metafora dei nuovi credenti della comunità matteana) a buttarvisi con una pietra al collo.

La struttura della pericope va letta, a nostro avviso, nell'ambito del contesto in cui l'autore l'ha collocata e solo in questo contesto essa si rende di fatto comprensibile. Infatti, non si capirebbe quella giustapposizione tra il racconto del fico, senza frutti e reso sterile, con l'invito ad una grande fede alimentata dalla preghiera. Questa esortazione, pertanto, va letta e compresa come rivolta contro quel fico privo di frutti e finalizzata a scalzarlo. Si parla, quindi, di una sua sostituzione, di un rimpiazzo del vecchio culto giudaico (la montagna da gettare in mare), significato e incentrato nel Tempio, con la nuova fede e il nuovo culto, incentrato sul nuovo tempio. Sarà proprio questa nuova fede alimentata dalla preghiera, che scalzerà la montagna del vecchio culto giudaico (vv.21-22). Un tema questo che verrà ripreso dalle tre parabole seguenti: quella dei due figli (vv.28-32), quella dei vignaioli perfidi (vv. 33-44) e quella delle nozze del figlio del re (22,1-14), tutte e tre rivolte contro l'insensibilità e la chiusura del giudaismo al messaggio di Gesù e, significativamente la seconda parabola afferma proprio ciò che i vv.21,21-22 già avevano in qualche modo anticipato: “Per questo vi dico che sarà tolto da voi il regno di Dio e sarà dato ad un popolo, che farà i suoi frutti” (v.43). Ed è proprio la parola “frutti”, che aggancia il v.43 con la parabola del fico, formando inclusione con il v.19, dove la parola “frutti” compare esplicitamente in 19b e sottintesa in 19a. Il tema di fondo, che si è aperto con la purificazione del Tempio, strettamente legata all'episodio del fico sterile, è, dunque, l'inefficacia di un culto ormai incapace di alimentare e far fermentare la vita dei credenti, aprendoli alle esigenze di Dio. Solo la nuova fede, una fede solida, decisa e alimentata dalla preghiera sarà in grado di scalzare e di gettare la montagna dell'antico culto giudaico nel mare.

La struttura della pericope si snoda su quattro parti:


a) v.18: cornice introduttiva al racconto del fico improduttivo;

b) v.19: il racconto dell'episodio;

c) v.20: versetto di transizione, di natura redazionale, che serve per rendere meno traumatico il passaggio e l'accostamento del racconto del fico sterile all'esortazione ad una fede solida e ben radicata nella preghiera;

d) vv.21-22: l'esortazione alla fede e alla preghiera, quali nuovi parametri fondativi dei nuovi credenti, destinati a sostituire l'antico culto giudaico (v.43).


Il v.18 è scandito in due parti e vede a) il ritorno di Gesù in città; b) la sottolineatura della fame di Gesù. Al v.17a Gesù aveva lasciato in sospeso la polemica con le autorità religiose, che gli avevano contestato, sdegnate, di lasciarsi chiamare messia e figlio di Davide; e con il suo andarsene così brusco aveva lasciato anche il mondo religioso giudaico, incapace di cogliere in lui quelle verità che tutti gli riconoscevano pubblicamente nella semplicità del loro cuore (vv.15-16). Ora Gesù rientra in città per l'ultima sfida al giudaismo. Si tratta di un ritorno che ha il sapore di un vero e proprio giudizio, che Matteo pone in atto contro Gerusalemme e il mondo giudaico e che occuperà i capp.21-23. Una sorta di resa dei conti. Esso richiama da vicino il ritorno escatologico di Gesù (24,30; 26,64). Da questo momento in poi l'attenzione dell'autore è tutta incentrata a sottolineare le incongruenze, le contraddizioni e il tradimento che il giudaismo ha operato nei confronti di Jhwh e, quindi, finalizzato a dimostrare l'inconsistenza del culto giudaico e, pertanto, di fatto a decretarne la fine a tutto favore del nuovo culto, che Gesù è venuto ad inaugurare nella sua persona. All'interno di questo contesto, Matteo sottolinea che Gesù ebbe fame. Considerata la simbologia del fico lussureggiante di foglie, ma privo di qualsiasi frutto, inutilmente cercato da Gesù, è evidente che anche la fame di Gesù è simbolica. Dopo quello del Tempio, ancora una volta Gesù, con il suo cercare un frutto tra le foglie del fico, compie un gesto profetico di denuncia contro la vacuità di un culto lontano dalla vita e a motivo del quale egli ebbe già avuto modo di lamentarsi, accusando il suo popolo di lodare Dio con le labbra, mentre il suo cuore gli era lontano (15,8); una lamentela, del resto non nuova, e che il Gesù matteano aveva mutuato dallo stesso Isaia (Is 29,13). La millenaria predicazione dei profeti, la sferzante predicazione del Battista e l'impegnativo ministero di Gesù non hanno sortito nessun34 effetto su questo popolo dalla dura cervice, di cui gli antichi profeti ebbero già modo di lamentarsi35. Sarà proprio questa invincibile durezza di cuore, che spingerà il Gesù matteano a chiudere, con un atto di accusa, che denuncia tutta la sua delusione36, la sezione delle polemiche (21-23): “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (23,37).

Il v.19 riporta il breve episodio del fico, che si trova sulla via che Gesù sta percorrendo. Il termine via o strada (ÐdÒj, odós) ricorre nella sezione 20,17-21,19 cinque volte37 e tutte con stretta attinenza con il cammino di Gesù verso Gerusalemme o in relazione a questo. È la via che lo porterà al Golgota; è la via della redenzione. Su questa via, metafora della sua missione salvifica, egli vede un fico, simbolo di Israele38, e va verso di esso, ma non trova niente. Rilevanti sono i tre verbi che delineano la dinamica della missione stessa di Gesù: “vedere”, “andare verso”, “non trovare”. Il tutto si svolge sulla via (™pˆ tÁj Ðdoà, epì tês odû), al cui interno l'agire di Gesù e la sua missione acquistano il loro senso e il loro significato redentivo. Il “vedere”39 dice la particolare attenzione riservata da Gesù a Israele40; “l'andare verso” sottolinea il movimento proprio della salvezza, che vede il Figlio uscire dal Padre, rinunciando alla visibilità della sua gloria divina per rendersi accessibile all'uomo (Fil 2,6-8). Giovanni evidenzia con forza nel suo vangelo questo uscire di Gesù dal Padre41 per entrare nel mondo, al quale rivelare il Padre42 e compiervi la sua volontà43. Questo movimento dice tutta la passione e la compassione che muovono Dio verso l'uomo44; ed infine, il “non trovare” parla dell'amara conclusione della missione di Gesù e del suo fallimento storico, ricordato dallo stesso Gesù matteano in 23,37, nel suo lamento su Gerusalemme, in cui viene sottolineato il rifiuto dei Giudei; e da Giovanni nella sua riflessione posta a conclusione dell'attività pubblica di Gesù: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37); una incredulità che viene stigmatizzata fin dalle prime battute del suo vangelo (Gv 1,11). Ma non sono da meno gli stessi discepoli, che in più riprese hanno abbandonato il loro Maestro (Gv 6,64.66 ) e dubitavano di lui anche dopo la sua risurrezione (Mt 28,197); così parimenti gli stessi fratelli di Gesù (Gv 7,5). Ciò che Gesù trova nel fico infruttifero sono soltanto le foglie, che lo adornano, ma da sole rendono inutile lo stesso fico. Così è il culto in Israele: sfarzoso, incorniciato nella bellezza del Tempio (Mt 24,1; Mc 13,1), e meticolosamente rispettoso della ritualità dettata dalla Torah, ma che non trovava alcuna risonanza nella vita45, avviluppata e rinsecchita all'interno di una legalità asfissiante e che non dava spazio a Dio, imprigionato all'interno di un legalismo che gli impediva ogni dialogo salvifico con il suo popolo, incapace di trascendere la lettera della Torah, per coglierne lo spirito46.

Un simile fico, ricco di foglie e improduttivo di frutti, perde il senso del suo esserci. Da qui la risposta di Gesù: “Mai più da te nasca un frutto, per sempre”. A ben guardare queste parole sono l'esatto opposto di Gen 1,28 in cui Dio benedisse l'uomo rendendolo fecondo della stessa fecondità divina; sono parole che vanno contro la stessa promessa di Abramo (Gen 26,3), in cui tutte le genti saranno benedette (Gen 12,3b; 18,18). L'effetto di questa maledizione è immediato: “all'istante il fico fu reso arido”; il verbo posto al passivo (™xhr£nqh, exerántze) indica che autore di questo istantaneo inaridimento è Dio stesso, che opera in Gesù. Del resto, l'immediatezza con cui si attua la parola ci riporta all'atto creativo primordiale, in cui al comando divino “Sia la luce” corrisponde l'istantanea esecuzione “la luce fu” (Gen 1,3). Matteo sembra quasi voler qui riprodurre, ma per verso contrario, le origini della creazione e della nascita di Israele, per indicare come Israele sia stato scalzato dalle promesse originarie, che saranno, invece date ad altri (v.43). E questo sarà proprio il cruccio di Paolo, che nella sua lettera ai Romani (9-11) cercherà di darsene una ragione.

Il v.20, come già si è sopra accennato, è di natura redazionale, e funge da transizione dai vv.18-19, in cui si narra l'episodio del fico rinsecchito, ai vv.21-22, in cui se ne dà ragione, creando in tal modo una continuità logica e narrativa; ma nel contempo aiuta a comprendere il senso della risposta che viene data ai vv.21-22. Il v.20, infatti, riporta la domanda degli stupefatti discepoli circa quanto era accaduto sotto i loro occhi. La domanda verte non tanto sulla causa che ha prodotto questo improvviso rinsecchimento, essa, infatti, è fatta risalire direttamente a Dio con il verbo posto al passivo47 (“fu reso arido”), ma sulla motivazione (“Come mai”, Pîj, Pôs), che sottende l'inaridimento del fico, così che la risposta riportata ai successivi vv.21-22 va letta all'interno di quanto suggerito nella domanda.

I vv.21-22 sembrano essere una piccola catechesi di Matteo sull'efficacia di una fede senza esitazioni (v.21) e di una preghiera fondata su tale fede (v.22)48. Tuttavia, una simile interpretazione diventa del tutto incomprensibile nel contesto, così fortemente polemico, in cui è stata posta. Siamo, infatti, non solo nella sezione delle polemiche (capp.21-23), ma anche i vv.21-22 sono strettamente legati e conseguenti all'episodio del fico improduttivo e per questo reso per sempre sterile da Dio (verbo al passivo). Essi, quindi, sono collocati all'interno di una cornice di pesante condanna del giudaismo. Inoltre, non si comprenderebbe il motivo per cui l'autore abbia creato questa nicchia di piccola catechesi all'interno di un mare agitato da pesanti polemiche e da accuse violente contro il giudaismo e i suoi rappresentanti; a meno che questa esortazione alla fede, su cui fondare la preghiera, non vada letta e compresa all'interno di questa polemica, come personalmente ritengo.

Il v.21 si apre con un'espressione di veridicità, che carica la risposta di Gesù di importanza e la appesantisce appositamente per accentuarne la polemica: “In verità vi dico”. Quanto verrà detto da Gesù , dunque, viene sottratto ad ogni disquisizione e si impone d'autorità. L'elemento che balza agli occhi nella risposta è una fede senza esitazioni che, in quanto tale, è in grado, da sola, non solo di rinsecchire il fico, rendendolo per sempre sterile, ma può anche scalzare “questo monte” e gettarlo in mare. Si hanno, quindi, tre elementi: una fede indomita, un fico e un monte, elementi questi ultimi due che hanno a che fare con una fede incrollabile. Il fico, che nella sua simbologia, già lo si è visto, raffigura Israele, viene ora associato al “monte”, che nella sua accezione metaforica e simbolica richiama da vicino il “monte Sion”, dove è arroccata Gerusalemme, simbolo del giudaismo e del suo antico culto, dimora di Dio. Con tale significato viene ricordato circa trentotto volte nell'A.T. e due volte nel N.T.49. La fede solida e inoppugnabile, di cui parla Matteo, è la nuova fede nel Risorto, la quale, in quanto tale, è in grado di opporsi al giudaismo e di scalzarlo. Matteo, quindi, chiama a raccolta la sua titubante comunità di giudeocristiani, che, come si è visto, ha molti dubbi sulla divinità e sulla messianicità di Gesù, e ancora non ha compiuto il passo decisivo dell'abbandono del giudaismo per votarsi esclusivamente a Gesù. La esorta, quindi, a compattarsi attorno alla nuova fede nel Risorto senza esitazioni, la quale, in quanto tale, sarà in grado di sterilizzare il fico improduttivo e gettare il monte nel mare, che nella mente degli antichi era la sede delle forze del male e il luogo, in cui Gesù spinge lo scandalizzatore dei piccoli a gettarsi con una mola da mulino al collo (18,6). In questa fede senza esitazioni va radicata anche la preghiera, capace di ottenere ciò che chiede (v.22). Non va sottovalutato il fatto che questa preghiera non è disgiunta da quella fede (“avendo creduto”), che è capace di inaridire il fico e scalzare il monte, acquisendone in tal modo tutta la forza presso Dio, perché Egli affermasse la nuova fede a spese di quella giudaica, considerata ormai obsoleta e, pertanto, superata dal nuovo messaggio. Forse non è azzardato pensare questa preghiera come una risposta alle diciotto benedizioni, tra le quali spiccava, in dodicesima posizione, la Birkat ha Minim (La benedizione degli eretici), proprio quella contro i cristiani50. Del resto non è molto lontano il tempo in cui la Chiesa cattolica faceva pregare nel giorno del Venerdì Santo i suoi fedeli per la conversione dei “Perfidi ebrei”51.

vv.23-27: questa pericope rappresenta un momento importante, soprattutto perché posta a ridosso della passione e morte di Gesù e, quindi, idonea a gettare un'ulteriore luce sul significato della croce, che si sta appressando. Si tratta, infatti, di capire la vera natura di Gesù o, per meglio dire, la sua origine, la sua provenienza e, di conseguenza, diremmo noi, il suo sponsor, colui al quale egli si rifà e da cui trae giustificazione il suo dire e il suo fare. In buona sostanza si tratta di definire la sua reale identità, fuori da ogni metafora e da ogni simbolismo. Per questo le domande sono poste in modo diretto e senza preamboli: “Con quale autorità fai queste cose?” e “E chi ti ha dato questa autorità?”. Il tema di fondo si muove tutto attorno all'autorità di Gesù, la “™xous…a” (exusía), un termine che ricorre in questi pochi versetti ben quattro volte.

La struttura della breve pericope si snoda su due parti, composte rispettivamente da due e tre livelli:

Prima parte

a) v.23a: funge da introduzione, in cui viene presentato il contesto entro il quale si svolgono i fatti: il tempio in cui Gesù insegna; e vengono presentati i personaggi coinvolti nella diatriba: Gesù e i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo;

b) v.23b: vengono riportate le due domande fondamentali, tra loro complementari, che puntano a chiarire l'identità di Gesù;

Seconda parte

c) v.24: versetto introduttivo della seconda parte della diatriba, in cui Gesù pone a sua volta, sullo stile delle diatribe rabbiniche, una controdomanda, che apre, di fatto, un confronto tra lui e il Battista;

d) v.25: viene posta la questione sulla provenienza di Giovanni Battista (“da dov'era”), creando in tal modo un aggancio diretto con quella di Gesù. In altri termini, la risposta che gli avversari di Gesù avrebbero dovuto dare sul Battista era esattamente quella che loro ricercavano in Gesù;

e) vv.26-27: la mancata risposta sul Battista comporta di conseguenza il silenzio sull'identità di Gesù.


Il v.23 si apre con l'entrata di Gesù nel tempio (la seconda). In tutto il racconto matteano Gesù entra soltanto due volte nel tempio: al v.21,12, dove rovescia i banchi dei commercianti, simbolo e metafora del rovesciamento dell'antico culto per l'instaurazione di un nuovo ordine cultuale52, del quale Gesù è il vero tempio (12,6; Ap 21,22), in cui si celebra (Eb 9,11-15); e qui al v.21,23 dove Gesù, per la prima volta, somministra il suo insegnamento. In realtà questa sua seconda entrata nel tempio, rinnovato cultualmente e in cui la Parola risuona per la prima volta, è di fatto una sorta di presa di possesso da parte di Gesù, un riappropriarsi di ciò che appartiene al Padre (v.13; Gv 2,16), ricostituendo le cose nella loro naturale originarietà. Gesù, infatti, vi rimarrà fino a tutto il cap.23 e ne uscirà definitivamente al cap.24,1a.

In questa cornice sacrale di un tempio, riscattato dagli uomini e riconsegnato al Padre, Gesù è colto nel momento dell'ammaestramento, immagine di un Dio che è ritornato a casa propria e si è assiso nuovamente in mezzo al suo popolo53, riscattandolo da un culto inefficace (v.19; Eb 10,11) e da un insegnamento, che era soltanto una dottrina di uomini (vv.15,9; 16,12). Su questo sfondo compaiono dei rappresentanti dell'autorità religiosa e politica giudaica: i sommi sacerdoti54 e gli anziani del popolo; due figure queste, che avranno un ruolo determinante e dominante nella passione e morte di Gesù. La loro presenza qui non è casuale, ma colloca questa diatriba sullo sfondo del Golgota, da cui si prolunga l'ombra della croce. Siamo già, quindi, in un contesto di passione e morte e all'interno di questo contesto vengono poste due domande, in modo secco e inequivocabile, a Gesù, finalizzate a chiarirne l'identità e la posizione così da giustificarne l'operato: “Con quale autorità fai queste cose?” e “E chi ti ha dato questa autorità?”, che di fatto anticipano, in qualche modo, l'interrogatorio a cui Gesù sarà sottoposto dal sommo sacerdote Caifa (26,3.57), che indagherà sulla sua identità: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. Gesù stesso porrà degli interrogativi sulla sua identità e spingerà i discepoli a darsi una risposta (16,15-16); così egualmente la gente si interrogava su Gesù e cercava di darsi delle risposte (16,13-14). L'identità di Gesù. Questo è il problema. Egli si presenta come un uomo, le cui origini sono note a tutti i suoi concittadini55, ma nel contempo parla ed opera con una fermezza e con un'autorità (Mt 22,16; Mc 12,14), che stupiscono e che la gente, sbalordita, gli riconosce56; un'autorità che offende ed oscura quella degli scribi e dei dei farisei (Mt 7,29); un'autorità e un potere che è in grado di trasmettere anche ai suoi57. Come leggere, dunque, l'inquietante figura di Gesù? Una figura che dice, ma non lascia trasparire pienamente e con certezza la sua verità vera e profonda, che nasconde in sé e che, a giochi finiti, lascia sempre in fondo all'animo un dubbio (28,17b), anche tra la sua parentela più intima (Gv 7,5), che lo riteneva fuori di testa (Mc 3,21). Due sono i livelli di lettura, poiché due sono le nature che si incrociano in Gesù: il primo livello, immediatamente raggiungibile e indiscutibile, perché cade sotto l'esperienza dei sensi e si pone sulla nostra stessa lunghezza d'onda, è quello umano. Il secondo livello è decisamente più difficile e arduo da raggiungere, poiché non solo trascende le nostre capacità percettive, ma mette a dura prova la nostra razionalità, che intuisce, ma non sa spiegare e non sa spiegare perché viene spinta fuori da quella realtà in cui è abituata a muoversi. Serve, quindi, un atto di coraggio, che l'aiuti a compiere quel salto di qualità, in cui lei non potrà mai arrivare, anche se sente che ciò non le è contrario, ma soltanto superiore. Serve, in ultima analisi, un atto di fede, che per sua natura supera il mondo sensibile e misurabile, trasportando l'uomo in una nuova dimensione, che se accettata dalla ragione riuscirà anche a rendersi percettibile dalla stessa ragione. Credere non è un atto contrario alla ragione, ma la completa, aiutandola ad arrivare là dove essa, per sua natura, non può arrivare. Solo in tal modo l'uomo credente completa la sua umanità e impara a leggere le cose, la vita e il creato nella pienezza del loro essere, ne comprende il senso e ad essi si relaziona in modo nuovo e vivificante. Così è avvenuto nei confronti di Gesù: c'era chi, per interesse di parte e di potere, era incapace di aprirsi a nuove dimensioni, essendo schiavizzato da un mondo antico, che gli impediva di vedere il nuovo se non come una sua dissacrazione58; e c'era chi, libero da interessi di parte e da bramosie di potere (5,3-12), si pose di fronte all'evento Gesù disponibile ad accoglierne il messaggio e mettendo in discussione il proprio passato, la propria fede, non per rifiutarla, ma per farle compiere un salto di qualità evolutivo, verso una dimensione nuova, ma non contraria a quanto creduto fin quel momento, bensì complementare (5,17). Questa era verosimilmente la posizione dei due schieramenti nei confronti di Gesù. Un semplice uomo che lasciava tuttavia tralucere da sé bagliori di un'umanità superiore, che alcuni hanno saputo leggere come segni di divinità, tramandandoci la loro esperienza, la loro comprensione, in ultima analisi, la loro fede, proprio attraverso gli Scritti neotestamentari. Una testimonianza di questa esperienza del divino nell'umano di Gesù ci viene offerta proprio dalla Prima Lettera di Giovanni, in cui la percezione umana, ha saputo compiere quel balzo illuminante della fede, tale da farle percepire fisicamente la Divinità incarnata (Gv 1,14): “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,1-4).

Si tratta di una formidabile testimonianza storica del divino percepito nell'umano da parte di testimoni diretti.

Con il v.24 Gesù cerca di spingere i suoi increduli interlocutori a interrogarsi a loro volta, spostando il problema della sua identità su quella del Battista; risposta che, a sua volta, avrebbe fornito la risposta alla domanda da loro posta a Gesù. Una tecnica della dialettica ebraica59, che animava le dispute nelle scuole rabbiniche e gli insegnamenti dei maestri negli atrii del Tempio. In altri termini, se tu sai rispondere a questa mia domanda avrai anche ottenuto la risposta a quella che tu mi hai posto. Si trattava di una sorta di maieutica socratica, che spingeva l'interlocutore a scavare dentro di sé per cercare la verità desiderata e, quindi, di fatto, a prendere posizione, facendolo uscire allo scoperto.

Il v.25 riporta la domanda che Gesù rivolge ai suoi interlocutori. Il tema di fondo è la provenienza, l'origine del battesimo di Giovanni e, quindi, a che cosa era legata la sua missione e la sua autorità, da dove esse provenivano e, di conseguenza, la vera identità del Battista: “da dov'era?” (pÒqen Ãn; pótzen ên?). É la stessa domanda che gli avversari avevano posto a Gesù. Rispondere sulla provenienza del Battista significava, di conseguenza, accettarne anche la testimonianza. Gesù, qui, per l'ultima volta aggancia se stesso alla figura del Battista e crea con lui un parallelo, indicando, di fatto, in Giovanni se stesso. Giovanni non è soltanto il precursore, l'araldo che annuncia la venuta (3,3) di uno più grande e più potente di lui (3,11), ma è anche colui che nella sua vita anticipa quella di Gesù e in qualche modo ne condivide il destino60. Conoscere, quindi, la provenienza (pÒqen) dell'autorità di Giovanni significava avere anche la chiave di accesso all'identità di Gesù, sul quale Giovanni aveva testimoniato: “Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco” (Mt 3,11), mentre ai suoi discepoli lo aveva indicato come l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29.36). L'avverbio “pÒqen” (da dove) acquista, quindi, un significato tutto particolare perché interroga le autorità religiose sulla provenienza del Battista. Un avverbio che l'evangelista Giovanni userà undici volte nel suo vangelo con un riferimento diretto o indiretto alle origini di Gesù, che lascia intendere essere divine. L'interrogativo è chiaro, inequivocabile, diretto ed è posto nella forma dell' “aut, aut”, che costringe gli avversari di Gesù a prendere una posizione netta. Essi, ora, sono con le spalle al muro, poiché qualunque cosa essi rispondano saranno inguaiati. Solo una via di fuga era rimasta loro: la non risposta, ma che precludeva loro anche quella che essi si attendevano da Gesù.

La questione sulla vera identità di Gesù, sulla sua vera natura era un qualcosa che crucciava il giudaismo di quel tempo, ma qui, al v.27, ancora una volta non viene fornito nessun ragguaglio, creando di fatto una forte tensione narrativa. L'autore, infatti, sta solleticando la curiosità del suo lettore: sapere, infine, dalla viva voce del tanto chiacchierato Maestro che cosa egli dice di se stesso. Tuttavia, la risposta, unica e definitiva, che Matteo mette sulle labbra di Gesù è quella che egli darà al sommo sacerdote che, sdegnato per le inconcludenti testimonianze, gli chiederà se egli sia veramente il Cristo, cioè il messia, e il figlio di Dio. Sarà la prima volta che Gesù riceve una richiesta così chiara e diretta, sotto la forma dell' “aut, aut” e a questa darà la sua “bella testimonianza” (1Tm 6,13)61. Sarà proprio in questo contesto di passione e morte che Gesù si rivelerà per ciò che effettivamente è: il Messia sofferente e vero Figlio di Dio, la cui verità si può comprendere soltanto all'interno della passione e morte. Non a caso la vicenda terrena di Gesù si concluderà sulla croce, ai cui piedi il centurione e gli altri del corpo di guardia proclameranno il condannato come vero Figlio di Dio (27,54).

vv.28-32: il comportamento di chiusura delle autorità religiose giudaiche, che rifiutano ogni proposta di rinnovamento religioso, sia questo proveniente dal Battista che da Gesù (vv.23-27), porta Matteo a puntare il dito contro il giudaismo e contro alcune frange della sua comunità, che pur avendo aderito al nuovo messaggio spirituale di Gesù, continuano ostinatamente a rimanere sottomessi alla Legge mosaica, riconducendo Gesù sotto il suo esclusivo dominio, vanificando così la novità del suo messaggio e della sua persona. La risposta a simili comportamenti è contenuta nelle tre parabole che seguono e che occupano la sezione 21,28-22,14. Esse costituiscono, nell'ambito dell'economia narrativa matteana, un inciso posto all'interno delle cinque dispute giudaiche62 e, collocate immediatamente di seguito alla prima disputa, ne sono di fatto uno sviluppo e una precisazione. La finalità di queste tre parabole, infatti, è duplice: denunciare, da un lato, la natura di questa opposizione, che arriverà ad essere assassina e, dall'altro, smascherare un'opposizione a Gesù subdola, impersonata da chi, pur ufficialmente convertitosi al cristianesimo, di fatto continua a sottostare alla legge mosaica.

La prima parabola, quella dei due figli (21,28-32), va a colpire il diverso atteggiamento dei giudei nei confronti di Gesù. Di fatto è una contrapposizione tra le autorità religiose, che si ritenevano privilegiate davanti a Dio e per questo già salve; e il mondo dei peccatori, disprezzato e ghettizzato, collocato fuori dal contesto sociale e religiose in Israele e per questo già escluso dal ciclo della salvezza. Luca esprimerà bene questa contrapposizione nella sua parabola dei due giudei, l'uno fariseo e l'altro pubblicano, che salgono al tempio a pregare (Lc 18,9-14).

La seconda parabola, quella dei vignaioli omicidi (22,33-46), denuncia la natura malvagia e assassina dell'ostinata opposizione da parte delle autorità religiose giudaiche e la sottopone ad un giudizio di condanna, che le estrometterà dal ciclo della salvezza.

La terza parabola, quella del banchetto di nozze in onore del figlio del re (22,1-14), è la più sarcastica e la più pesante di tutte poiché è diretta a colpire i giudeocristiani giudaizzanti della comunità matteana, che vengono assimilati al rifiuto delle stesse autorità religiose e, per questo, associati al loro triste destino, togliendo loro ogni illusione di salvezza.

La breve pericope in analisi (vv.28-32) si struttura su tre parti:

a) vv.28-30: la parabola dei due figli, che si snoda in modo parallelo, presentando due identiche situazioni, ma che avranno esiti diametralmente e inaspettatamente opposti.

b) v.31a: è il momento conclusivo della parabola, quello più importante, perché coinvolge l'ascoltatore in prima persona e lo spinge a dare un giudizio di merito. La natura stessa della parabola e la sua dinamica narrativa, infatti, hanno questa precipua finalità: essere un racconto in cui l'ascoltatore è anche attore ed è chiamato ad identificarsi con i personaggi su cui è chiamato ad esprimersi, emettendo di fatto un giudizio su se stesso63. Proprio per questo il v.31 costituisce anche il momento di passaggio dalla parabola alla realtà, alla quale essa si riferiva (vv.31b-32).

vv.31b-32: viene esplicitato, con il richiamo alla realtà, l'implicito atto di accusa contenuto nella parabola, finalizzato a stigmatizzare l'atteggiamento di chiusura e di rifiuto delle autorità religiose a tutto vantaggio dei peccatori.


La parabola dei due figli, delimitata narrativamente dalle due domande poste al v.28a e 31a, possiede in sé una forza dirompente, perché tende a frantumare quel muro di perbenismo e di separazione, che divideva la società giudaica in giusti e in peccatori e che faceva sì che i primi si sentissero già salvati e, pertanto, non bisognosi di salvezza; un atteggiamento questo che rende impossibile ogni apertura alla proposta salvifica di Gesù. Il racconto, infatti, è incentrato su due figli che hanno un unico padre e, quindi, entrambi sono posti sullo stesso piano, senza alcuna distinzione tra loro. Questi, tuttavia, si distingueranno tra loro non per l'appartenenza al padre, che è comune, ma per la diversa e opposta risposta che gli daranno. La posizione di pensiero del giudaismo, pertanto, viene rovesciata: non è perché si è figli di Abramo (3,9), né perché si osserva pignolescamente la Torah che si è salvi (Mt 7,21; Lc 18,10-14), ma per la propria apertura esistenziale a Dio; non ha importanza la posizione sociale che si occupa. Una simile posizione, insinuata dalla parabola, è sostanzialmente blasfema e rompe ogni schema di pensiero su cui il giudaismo fondava le sue sicurezze e le sue convinzioni religiose di giustizia e di salvezza.

Il padre si trova di fronte a due figli e si avvicina ad entrambi. Significativo il verbo “avvicinarsi” (proselqën, proseltzòn), ripetuto indistintamente per entrambi i figli, che indica non solo la loro uguaglianza davanti al Dio, ma anche l'azione salvifica propria del Padre, che in Gesù si avvicina all'uomo e gli fa, senza distinzione alcuna, la sua proposta di salvezza (At 10,33-35). La proposta di salvezza, dunque, è unica per tutti, ma diversa è la risposta; ed è proprio qui, che la parabola tende a smascherare l'ipocrisia e la menzogna religiosa, creando una insanabile discriminazione, provocata non da Dio, ma dalla stessa risposta dell'uomo. Il primo dà un netto rifiuto, ma poi pentitosi accoglie l'invito del padre e va nella vigna. L'iniziale atteggiamento negativo (rifiuto), passando attraverso un processo di conversione (pentitosi), che comporta un rimettere in discussione le proprie scelte, le proprie sicurezze e la propria vita, si trasforma in apertura esistenziale a Dio, che viene accolto nella propria vita (va nella vigna). Il secondo figlio, con fare ridondante, che richiama da vicino il fico lussureggiante di foglie, ma privo di frutti (v.19), si pone davanti al padre e proclama con enfasi solenne la sua adesione: “Io, signore” ('Egè, kÚrie, egó, kírie). Un atteggiamento, questo, simile a quello del fariseo lucano, che salito al tempio per pregare, si pone in piedi davanti a Dio e gli sciorina giù quanto lui sia bravo e quanto sia il migliore tra gli uomini, definiti ladri, ingiusti, adulteri, per non parlare poi del pubblicano che aveva alle sue spalle (Lc 18,10-14). Molto significativa è la costruzione narrativa che in questo passo Matteo fa: “<<Io, signore>> e non vi andò” (v.30b). Ci saremmo aspettati che Matteo dicesse: “<<Io, signore>>, ma non vi andò”. La differenza non è di poco conto. Il “ma”, infatti, avrebbe creato una contrapposizione tra il dire e il fare: il dire è positivo, ma poi c'è stato un cambiamento nella propria decisione preannunciata e il secondo figlio ci ha poi ripensato. Ci sarebbe stata, comunque, una conversione sia pure in senso negativo, un qualcosa che ha impedito di attuare la sua iniziale promessa e, quindi, in qualche modo lo avrebbe potuto giustificare. Ma, quel “ma” non c'è. Al suo posto l'autore mette una congiunzione “kaˆ” (kaì, e), che esprime continuità tra quel “Io, signore” e il non andare. In altre parole, in quella immediata e pronta adesione è racchiusa una menzogna, un rifiuto; non perché poi non l'ha fatto, ma perché non ha mai avuto intenzione di farlo. Già in tal senso il Gesù matteano lo aveva denunciato: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (7,21). Non serve, quindi, riempirsi la bocca di cose buone, se poi la vita viaggia in senso opposto. È sul piano del fare, dunque, che il vero credente viene misurato e, di conseguenza, la sua preghiera, il suo culto acquista il vero senso, evitando, in tal modo, la lamentela di Gesù: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me” (15,8).

I vv.31b-32 sciolgono la metafora della parabola, agganciandola alla realtà a cui essa si riferiva. I due versetti sono scanditi in due parti:

a) la prima è un'affermazione: i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio;

b) la seconda è la spiegazione motivata della prima: i peccatori hanno creduto e voi no.

Il primo figlio, dunque, sono i pubblicani e le prostitute, cioè due categorie di persone considerate intrinsecamente impure, tagliate fuori dal ciclo della salvezza e delle promesse e, per questo, poste al bando della società civile e religiosa. Ebbene, questo primo figlio è ora posto in concorrenza con il secondo, che si riteneva il prediletto di Dio, il santo per antonomasia, a cui è dovuta la salvezza. Tuttavia per il Gesù matteano ciò che fa la differenza non è la condizione di vita, ma l'adesione esistenziale alla sua proposta di salvezza, che si ottiene non per meriti, ma per fede (Gv 3,16; Rm 3,28; Gal 2,16).

La prima parabola si chiude con un'affermazione, che costituisce un'aggravante dell'incredulità delle autorità religiose giudaiche: “Ma voi, pur avendo visto, non vi siete pentiti per poi credergli” (v.32c). Il verbo qui usato per indicare il vedere è Ñr£w (oráo), che indica un vedere che è riuscito a cogliere il contenuto della verità predicata da Giovanni, ma che non è stato sufficiente a smuovere la durezza del loro cuore. È proprio questo loro atteggiamento, che li pone in una posizione perdente rispetto a quelli che loro ritenevano i reietti da Dio.

La prima parabola, quindi, denuncia e stigmatizza un comportamento ipocrita e intrinsecamente menzognero, poiché fa consistere la salvezza nell'apparire e non nell'essere, quasi che Dio si possa comperare con qualche preghiera o con qualche sacrificio solenne. Una denuncia che mette le premesse alle altre due parabole, che sono lo sviluppo e il completamento di questa prima.

vv.33-46: la polemica matteana non trova sosta e dopo aver denunciato l'infruttuosità del fico (v.19), metafora di un culto lontano dalla vita, e l'ipocrisia menzognera del secondo figlio, chiamato ad occuparsi della vigna del padre (v.30), figura di un Israele che si riempie la bocca di lodi a Dio, ma la cui vita è contrapposta a Lui, ora, con la parabola dei vignaioli malvagi e assassini denuncia le autorità giudaiche (v.45) non solo di aver fatto fallire il piano salvifico di Dio, che era stato loro affidato, ma di aver assunto anche comportamenti criminali, arrivando ad uccidere i profeti (vv.35.36; 23,31.34.37) e, infine, lo stesso figlio del padrone della vigna (v.39). Questa pervicacia nel rifiuto del progetto salvifico di Dio, di cui le autorità religiose si sono appropriate, soffocandolo all'interno di un legalismo impenetrabile e impermeabile, resistente ad ogni tentativo di rinnovamento, fa sì che Israele sia sottoposto al giudizio divino: il padrone di casa farà perire i ribelli (v.41; 23,38), li esproprierà della vigna e la darà ad altri, che la faranno fruttificare, consegnando i frutti al proprietario della vigna (v.43).

La parabola, molto elaborata e complessa nella sua articolazione, risente della riflessione della chiesa primitiva ed è la metafora della dell'intera storia della salvezza64, che qui viene fatta partire dalla costituzione di Israele ai piedi del Sinai (Es 19,4-6) (vigna piantata), per arrivare a Gesù, perseguitato e rifiutato fino alla morte (figlio del padrone ucciso), passando attraverso i richiami dei profeti, non sempre ben accolti, spesso perseguitati e uccisi (i servi malmenati e uccisi). All'interno di questa metafora l'autore sviluppa un'allegoria, in cui i personaggi e la loro drammatizzazione sono simbolici e rimandano in modo diretto e inequivocabile (v.45) alla situazione contemporanea a Gesù.

Lo schema narrativo e tematico della parabola riproduce sostanzialmente quello di Is 5,1-7, subendo un adattamento alla situazione presente in cui era coinvolto Gesù:

1) In Is 5,1-2 viene cantato l'amore e la cura del diletto per la sua vigna, a cui corrisponde l'amore e la cura del padrone della vigna65 in Mt 21,33;

2) In Is 5,4 viene denunciata la delusione del diletto per la sua vigna, che ha prodotto uva acerba e selvatica, a cui corrisponde la negazione del frutto al padrone della vigna da parte dei vignaioli, con l'aggravante della ribellione omicida in Mt 21,34-39;

3) In Is 5,3 gli ascoltatori vengono coinvolti direttamente e interpellati sull'agire del diletto nei confronti della sua vigna, a cui corrisponde il diretto coinvolgimento degli ascoltatori matteani, che esprimono il loro giudizio in Mt 21,40-41;

4) In Is 5,5-6 il diletto emette il suo giudizio di condanna sulla casa di Israele, a cui corrisponde quello in Mt 21,42-44.

La parabola matteana, pertanto, ha parafrasato quella di Isaia, richiamando alla mente delle autorità religiose giudaiche, ben esperte delle Scritture, il contesto profetico e storico di quel tempo, un contesto di malvagità e di grave infedeltà all'Alleanza, che viene, nell'oggi di Gesù, proiettato su di loro. L'Israele di oggi, dunque, non è migliore del suo ieri ed essi sono di fatto i figli e gli eredi della stessa malvagità e infedeltà dei loro padri. Un'accusa questa che Matteo formulerà in modo tagliente in 23,29-32: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!”.

La pericope in esame si snoda su tre parti, la prima delle quali è, a sua volta, sottoripartita:


A) vv.33-39: la parabola dei vignaioli assassini

a) v.33: cornice storica introduttiva, che rimanda in modo allegorico alla costituzione di Israele, qui colto all'interno dell'Alleanza (ne vedremo subito la simbologia);

b) vv.34-36: l'invio in due ondate successive dei servi, che vengono respinti, malmenati e uccisi;

c) vv.37-39: l'invio del figlio, che subirà la medesima sorte dei profeti, che in qualche modo l'hanno preannunciata nella loro;

B) vv.40-41: il coinvolgimento degli ascoltatori, chiamati a formulare il loro giudizio sul comportamento dei vignaioli. È questo il momento centrale che traghetterà l'ascoltatore dalla parabola metafora-allegoria alla sua applicazione nella realtà. Il passaggio avverrà soltanto dopo averlo caricato del giudizio dei presenti, che si rivelerà come una sorta di autocondanna.

C) vv.42-46: l'applicazione alla realtà. Si tratta di fatto di un giudizio che viene posto sulle autorità religiose, nella fattispecie i sommi sacerdoti e i farisei.


Il v.33 costituisce l'introduzione della parabola, che è, come abbiamo visto, la ripresa e la riformulazione di Is 5,1-7. Il richiamo di questo versetto riporta gli ascoltatori alle origini di Israele. Due sono gli elementi che lo dicono: a) l'espressione “padrone di casa”, metafora di Jhwh, conosciuto come il padrone o il signore della casa di Israele66; b) l'opera di questo padrone, che impianta la vigna. L'impiantare parla di origine, di inizio e richiama da vicino il Sal 79,9-10: “Hai divelto una vite dall'Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra”; mentre la vigna nel linguaggio sapienziale e profetico è metafora di Israele67. Il contesto, inoltre, è quello proprio dell'Alleanza e della costituzione di Israele, quale proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6). Tre sono gli elementi che lo indicano: la siepe con cui è cinta la vigna; il torchio scavato nella vigna e la torre posta in mezzo ad essa. La siepe, nel linguaggio metaforico biblico, esprime la protezione e in taluni casi quella divina68. È una siepe che richiama da vicino la Torah, posta in Israele a protezione della sua fedeltà a Jhwh, quale sua identità e per distinguerlo dagli altri popoli e proteggerlo nelle necessità69. Paolo, nella sua lettera ai Galati, la definirà come un pedagogo (Gal 3,24-25). Similmente la torre posta in mezzo alla vigna richiama da vicino Jhwh, posto in mezzo al suo popolo (Sal 60,4; Prv 18,10), e il suo Tempio santo, punto d'incontro tra cielo e terra70; mentre la presenza del torchio all'interno della vigna richiama il castigo di Dio e l'ira divina71 per le infedeltà alla Torah.

Il v.33 termina con la consegna della vigna ai contadini, così come Israele fu affidato alle cure dei suoi capi e dei sacerdoti, ai quali è diretta questa parabola di condanna, che già ha trovato una sua primordiale eco nell'A.T.72.

I vv.34-39 costituiscono un formidabile atto di accusa contro i capi di Israele e denunciano il loro persistente atteggiamento di chiusura e di rifiuto invincibili. Si sta qui preparando la giustificazione alla grave condanna, che suggerita dagli stessi ascoltatori (v.41), verrà poi confermata dal giudizio finale di Gesù (v.43). Per tre volte viene sottolineato, in un continuo crescendo, l'invio di messaggeri: dapprima vi è un invio ordinario (v.34); poi, i servi mandati sono diventati più numerosi (v.36), denunciando la difficoltà di incidere su quei vignaioli, ma anche la costanza e la volontà del padrone della vigna a sollecitare una risposta positiva da parte dei suoi contadini; ed infine, il padrone della vigna fa un salto di qualità notevole e manda suo figlio in persona. Ma l'esito rimane identico: percosse, uccisioni e lapidazioni. L'aggressione agli inviati diventa, di fatto, una ribellione violenta contro il padrone stesso, al quale, ora, non rimangono in mano più carte da giocare, se non quella della condanna. Il persistente rifiuto, perpetrato per tre volte, dà la misura della perversità dei vignaioli, ormai irrecuperabili e, per questo, definitivamente estromessi dal ciclo della salvezza: “[...] sarà tolto da voi il regno di Dio [...]” (v.43).

Lo schema del rifiuto è fatto precedere da una formula (v.34), che, se da un lato richiama i tempi della storia della salvezza, segnati dall'invio dei profeti e di Gesù, dall'altro crea la cornice propria del giudizio finale, entro cui inquadrare il persistente rifiuto, fattosi violento ed assassino (v.35.36b.39). Si crea, quindi, una cornice escatologica entro cui viene collocato il racconto. Si parla, infatti, dell'avvicinarsi del tempo dei frutti e dell'invio dei servi per raccoglierli, schema, questo, che richiama da vicino la parabola del buon seme e della zizzania: “Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; [...]” (13,30). Gesù stesso si era avvicinato al fico per raccogliere i frutti, ma non trovò che foglie (vv.18-19). Il persistente invio dei profeti e, infine, di Gesù lascia intendere come essi siano posti da Dio in mezzo al suo popolo come un atto di giudizio, che divide il popolo in base alla sua risposta. Ma l'invio finale del Figlio, proprio perché ultimo, ci riporta nei tempi escatologici e del giudizio finale, così che la figura di Gesù diventa un elemento discriminante, definitivo e inappellabile (Mt 12,30; Gv 3,16-18).

Se nei confronti dei servi i vignaioli malvagi si sono limitati ad eliminarli tout court, togliendosi dei fastidi, di fronte al figlio del padrone sviluppano un pensiero perverso, ma che in ultima analisi denuncia ciò che effettivamente era accaduto nel giudaismo: “Costui è l'erede; orsù, uccidiamolo e avremo la sua eredità”. L'uccisione del figlio, quindi, era finalizzata non tanto a togliersi un fastidio, ma ad appropriarsi dell'eredità e, in ultima analisi, di soppiantare il padrone della vigna mettendosi al suo posto. È quanto era avvenuto nel Paradiso terrestre dove il serpente sospinse Adamo ed Eva a mangiare dell'albero per diventare come Dio e mettersi, quindi, al suo posto (Gen 3,4-5). Ci fu, quindi, un tentativo di colpo di stato nei confronti di Dio. La denuncia che qui Matteo lancia contro il giudaismo corre sullo stesso binario: il giudaismo si è di fatto appropriato della Torah ed ha sviluppato attorno ad essa una consistente siepe legislativa così da renderla intoccabile e inavvicinabile non solo per gli ebrei, ma anche da Dio stesso, che in tal modo divenne prigioniero del suo stesso dono. Veri proprietari della Torah, di fatto, erano le autorità religiose e i dottori della Legge, che la ingessarono e la cristallizzarono all'interno di un legalismo esasperato ed esasperante, di cui essi erano gli autori e non più Dio e che Gesù stigmatizzerà come dottrine di uomini (15,9), togliendo loro ogni valore sacro e divino. Così definita, essi la usarono come uno strumento sacro di potere sul popolo. Sarà questa l'accusa che Matteo lancerà in termini più chiari e taglienti in 23,2.4.5-7.

Con il v.39 si chiude, in termini drammatici, questo forte atto di accusa contro il giudaismo, denunciando la morte del figlio del padrone della vigna: “e presolo, lo gettarono fuori dalla vigna e l'uccisero”. Un versetto, questo, che risente dell'elaborazione della chiesa primitiva, poiché riporta, sotto forma allegorica, le vicende storiche di Gesù, che arrestato nell'orto degli Ulivi, venne crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme, sul Golgota.

I vv.40-41 costituiscono il giudizio che viene posto sulle autorità giudaiche e potremmo considerarli come il cuore dell'intera parabola, perché coinvolgono direttamente l'ascoltatore, spingendolo a formulare il proprio giudizio sul comportamento dei personaggi della parabola e, quindi, su loro stessi. I verbi posti al futuro “verrà” e “farà” proiettano gli ascoltatori in una dimensione escatologica e di giudizio finale, che essi, tuttavia, già formulano qui nel presente e in cui essi per primi ne sono coinvolti fin d'ora. In altri termini le autorità giudaiche, a cui è destinata la parabola, sono i fautori del loro destino. Anche qui, la formulazione del giudizio risente della elaborazione della chiesa primitiva: “farà perire malamente quei malvagi”, un probabile riferimento alla guerra giudaica (66-73 d.C.) e “consegnerà la vigna ad altri contadini, che gli daranno i frutti nel loro tempo”; quel “altri” riguarda il mondo extra giudaico e chi, con la propria scelta radicale, si è posto fuori dal giudaismo. Si tratta, dunque, di una contrapposizione tra due tempi e tra due modi di relazionarsi a Dio, segnati e caratterizzati profondamente dalla venuta dell'evento Gesù, che funge da spartiacque e da elemento di discriminazione e, per questo, di giudizio, che si svilupperà dettagliatamente nella pericope successiva (vv.42-44).

Con i vv. 42-44 la parola passa a Gesù, che porta a conclusione il giudizio sulle autorità giudaiche.

La struttura della pericope è a parallelismi concentrici:

           A) v.42: viene citato il salmo 118,22-23, che la chiesa primitiva aveva riferito a Gesù73;

     B) v.43: la sentenza finale, che riprende quella già formulata dagli ascoltatori al v.41b.
        Essa dipende ed è motivata dai vv.42 e 44; ne è la pratica conclusione.

A') v.44: riprende il v.42, spiegandone il significato.


Il v.42 riporta i vv.22-23 del salmo 118: “La pietra che i costruttori hanno rigettato è divenuta testata d'angolo; questa cosa fu fatta dal Signore ed è cosa meravigliosa ai nostri occhi”. La citazione è molto significativa non soltanto per se stessa, ma anche per il contesto da cui è stata estrapolata. Il salmo 118, infatti, è il cantico di un giusto, attorniato da un ambiente ostile (vv.10-12), perseguitato, colpito, provato duramente dai suoi avversari (vv.13), che cercavano per ucciderlo (vv.17-18). Egli, tuttavia, ha invocato il Signore e si è messo nelle sue mani (vv.5-9) ed è stato riscattato dalle mani dei suoi nemici, sui quali egli ha prevalso si è imposto, grazie all'aiuto di Jhwh, che gli ha restituito la sua dignità e la sua vita, sottraendolo alla morte (vv.10b.11b.12b.14.22-23). La gioia per la dignità e la vita ritrovate si trasformano ben presto in una liturgia di lode in cui tutti sono coinvolti e tutti sono invitati ad unirsi alla vittoria del giusto sui nemici, costituendo una sorta di assemblea liturgica (vv.15-16.19-21.24-29). Per la sua significatività la chiesa delle origini ha letto, da subito, in questo salmo e in particolare nei vv.22-23 un riferimento a Gesù, pietra scartata dai costruttori (autorità giudaiche), ma divenuta testata d'angolo, cioè il fondamento di una nuova costruzione messianica ed escatologica, riunita attorno a lui, non più fatta da mani d'uomo, ma da Dio stesso per opera del suo Spirito, con chiara allusione alla risurrezione. Per questo la citazione del proverbio, riportato al v.22, viene completata con il v.23, che attribuisce a Dio, sua opera, la figura di Gesù e la sua missione (Gv 14,10), confermate nella risurrezione, vera opera del Padre, che ha “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,4), da cui è sgorgata la Chiesa, assemblea chiamata a celebrare attorno al Risorto la liturgia di lode al Padre.

Al v.42 fa eco il v.44, che diventa una sorta di sua esegesi, applicata alla persona di Gesù. Il tenore del suo contenuto rimanda allo sitz im leben della comunità cristiana a cavallo tra il I e il II secolo, tempo in cui il cristianesimo, da un lato, stava ancora subendo delle forti pressioni da parte del mondo giudaico; dall'altro, incominciava a diffondersi rapidamente. Entro questa cornice va interpretato. Il versetto, infatti, è scandito in due parti: la prima riguarda chi, inciampando, cade su questa pietra, con chiara allusione alle autorità giudaiche, che non hanno saputo cogliere in Gesù l'evento di Dio; la seconda rispecchia il rapido diffondersi del cristianesimo74, che, come pietra che rotola in mezzo agli uomini, distruggerà tutto ciò che le si opporrà (Dn 2,34-35). Un modo metaforico per sottolinearne la sua rapida e inarrestabile diffusione e affermazione.

La conseguenza dei vv.42 e 44, tra loro paralleli, complementari e convergenti nel v.43, è lo spostamento dell'asse salvifico da Israele, che non ha saputo cogliere la novità dell'evento di Dio, manifestatosi in Gesù (Gv 1,11), al mondo pagano e a quella parte del mondo giudaico che, invece, hanno saputo coglierla. Nel Risorto, infatti, non vi è più separazione tra giudei e pagani, tra schiavi e liberi, tra uomini o donne, poiché tutti sono un'unica realtà in Lui, in cui tutti sono riconciliati (Gal 3,26-28). Per questo l'autore della lettera agli Efesini definisce Cristo come la nostra pace, come colui che ha fatto dei due, giudei e pagani, un solo popolo, la chiesa, questa realtà messianica ed escatologica, fondata sulla Pietra, scartata dai costruttori che sta cercando di portare a compimento quel movimento di raccolta dell'umanità attorno a Gesù e da lui, iniziato: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia” (Ef 2,14-16).

                                                                                                                            

                                                                                                                            Giovanni Lonardi



N O T E


1Era consuetudine da parte dei pellegrini ebrei trascorrere la notte della pasqua in Gerusalemme, i cui confini per l'occasione erano estesi fino a Betfage. Similmente, anche per quanto riguarda il Monte degli Ulivi, nelle grandi festività veniva ricompreso nel territorio di della città santa. Cfr. la voce “Monte degli Ulivi” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; op. cit.

2Cfr. Mt 5,7; 9,13.36; 11,29.30; 12,7; 14,14; 15,32.

3In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo, opp. citt.

4Cfr. Mt 12,39.45b; 16,4; 17,17.

5Il fatto che Matteo componga la citazione profetica di Zc 9,9, introducendola con un'altra appositamente presa da Is 62,11b, anziché crearne una lui, lascia intendere come egli intendesse dare un significato particolare a Zc 9,9, quello proprio di Is 62,11b, introdotta dall'espressione in questione.

6In tal senso si cfr. 2Re 9,13: “Tutti presero in fretta i propri vestiti e li stesero sotto di lui sugli stessi gradini, suonarono la tromba e gridarono: <<Ieu è re>>”.

7Per una migliore trattazione sul significato del mantello cfr. il commento ai capp. 5-7, pag.33 della presente opera.

8Cfr. H. Daniell-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano 1986 - pagg. 244-250; cfr. anche la voce “Vestito” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

9Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

10La regalità di Gesù va colta nel suo entrare a Gerusalemme seduto su di un'asina ornata di mantelli (v.7), mentre il suo messianismo, di tipo davidico, viene espresso in duplice modo: a) definendo Gesù come Figlio di Davide, quindi legittimo erede delle promesse che Dio aveva fatto per mezzo del profeta Natan e che in Gesù si compiono (2Sam 7,12-16); b) con l'espressione “colui che viene” (Ð ™rcÒmenoj, o ercómenos), letteralmente “il veniente”, che nel linguaggio biblico indicava il messia, cioè l'unto di Dio (in ebr. Mashiah, da cui messia), che doveva venire nel suo nome, cioè con la stessa autorità di Dio, per ristabilire Israele nella giustizia (Ez 36,24-28), liberandolo dai suoi nemici e indicandolo come luce delle genti (Is 2,3; Ger 3,17; Mi 4,2; Zc 8,22).

11Cfr. Lv 23,40; 1Mac 13,51; 2Mac 10,5-8; Gdt 15,12-14; Sal 117,27. Le citazioni riportano tutte antiche celebrazioni sacre o parasacrali in cui il popolo partecipa agitando rami frondosi e palme.

12Il salmo 118 fa parte dell'Hallel (Lode), un gruppo di 6 salmi (sall. 113-118), che veniva cantato in occasione di due grandi festività: quella delle Capanne (Sukkot), celebrata nel mese di Tishri (Settembre/Ottobre); il 14 di Nisan (Marzo/Aprile), mentre al tempio venivano sacrificati gli agnelli pasquali; e, infine, nelle case durante il Seder (=ordine con cui si svolge un rito) o celebrazione del rito della Pasqua. Dopo la distruzione del Tempio, l'Hallel divenne parte integrante della liturgia sinagogale.

13Il v.25 del Sal 118, “Dona, Signore, la tua salvezza, dona, Signore, la vittoria!”, altro non è che la traduzione italiana dell'espressione ebraica “hoshȋ 'anna”, tradotta in greco con “`Wsann£”, che risente, invece, di quella aramaica “hōša'-nâ”. Si trattava, quindi, di una iniziale invocazione liturgica, divenuta nel tempo un grido di gioia e di acclamazione.

14Cfr. Mt 16,14; 21,11.45;

15Cfr. Gv 3,13; 8,42; 16,28.30; 17,8 -.

16Sulla questione cfr. il passo parallelo in Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, III edizione, 2001.

17Basti pensare che Gerusalemme ai tempi di Gesù comprendeva circa 60/100 mila abitanti, mentre nei giorni di grande festa, per il grande flusso dei pellegrini provenienti da ogni parte dell'impero, arrivava a contenerne anche 500/600 mila. Una massa enorme di persone difficilmente controllabile e, considerato il carattere piuttosto suscettibile e insofferente dell'ebreo, una simile situazione costituiva una polveriera, che poteva esplodere in rivoluzioni e sommosse in ogni istante. Bastavano poche persone ben coordinate e organizzate per far esplodere delle sommosse, creando un caos in mezzo ad una massa di persone già di per sé caotica. Per poterne avere una idea si pensi ai grandi pellegrinaggi islamici alla Mecca, in cui confluiscono milioni di persone ogni anno e che a motivo del grande numero di pellegrini e talvolta per l'intrusione di attentatori o contestatori non di rado scoppiano momenti di panico, che lasciano sul terreno centinaia di morti. - Circa la quantità di abitanti in Gerusalemme e di pellegrini che vi confluivano nelle grandi festività, cfr. H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù; op.cit.

18Cfr. Mt 21,26,5; 27,24; Mc 14,2; 15,7; At 19,23; 21,31

19Flavio Giuseppe in Guerra Giudaica racconta che il procuratore romano Gessio Floro (64-66 d.C.), dopo numerosi episodi di malgoverno, mise le mani sul tesoro del Tempio, forse per un arricchimento personale. Fu un atto gravissimo e blasfemo, che causò cruenti rivolte sempre più montanti e sempre più allargate, fino a trasformarsi in una vera e propria guerra contro Roma, che durò dal 66 al 70, con una propaggine fino al 73, tempo occorso per fiaccare l'ultima resistenza degli Zeloti, rifugiatisi nell'erodiana fortezza di Masada.

20La struttura dell'esercito romano era composta da circa trenta legioni, che contavano unitariamente dai 4000 ai 6000 soldati. Ogni legione era composta da circa 300 coorti di 600 soldati ciascuna; queste erano formate a loro volta da da 900 manipoli di 200 soldati ciascuno; i erano suddivisi da 1800 centurie formate da cento soldati ciascuna. Complessivamente l'esercito contava durante il periodo neotestamentario di circa 180.000 unità dislocate in tutto l'impero. - Cfr. James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo s.r.l., Cinisello Balsamo (MI), 2004

21Le quattro legioni erano di stanza in Siria sotto l'imperatore Tiberio (42a.C – 37d.C.), come risulta da un elenco lasciatoci da Tacito nel Liber IV, 5

22La sede dei procuratori romani e delle autorità era Cesarea Marittima. Il procuratore e il suo seguito, in occasione delle grandi manifestazioni religiose, al fine di meglio controllare la situazione e intervenire con rapidità, si trasferivano a Gerusalemme, presso il pretorio. Sarà qui, infatti, che Pilato incontrerà Gesù (Mt 27,27; Mc 15,16; Gv 18,28).

23Cfr. Is 8,1-4; 20,1-4; Os 1,1-9; 3,1-5; Ger 13,1-11; 16,1-9; 27,1-3.12b 32,7-15; Ez 12,1-19; 21,11-12.23-28; 37,15-19. Sulla questione dell'azione simbolica dei profeti cfr. José Luis Sicre, Profetismo in Israele, Edizioni Borla Srl, Roma 1995.

24Per i testi cfr. la precedente nota 22.

25Per due volte il Gesù matteano ricorda ai suoi che egli non era venuto se non per le perdute pecore di Israele e ad essi loro erano inviati (10,6; 15,24). Sarà soltanto con l'avanzare della sua missione, che egli maturerà come questa sia rivolta non soltanto all'Israele storico, ma anche a tutti coloro che si accostano a lui con fede (Mt 8,8-13; 15,21-28), che in tal modo era divenuta il vero parametro discriminante e di giudizio (Gv 3,16.18).

26La citazione riportata da Matteo, tratta da Geremia, è stata estrapolata da un durissimo discorso, che il profeta aveva pronunciato nel 608 a.C. alle porte del Tempio, contro il popolo, il quale, secondo la credenza dell'epoca, era convinto che la sola presenza del Tempio in mezzo ad Israele fosse garanzia di salvezza dai suoi nemici. Geremia intaccò questa convinzione, togliendo loro ogni illusione, e con molta durezza annunciò che se la loro condotta non fosse cambiata radicalmente sarebbero stati consegnati nelle mani dei nemici e deportati in esilio. La cosa accadde una decina di anni più tardi (597a.C.), allorché Israele fu deportato, in tre ondate successive (597, 587 e 582 a.C.), a Babilonia. Questa dura requisitoria (Ger 7,1-8,3) provocò una violenta reazione da parte del popolo e poco mancò che il profeta venisse linciato davanti al Tempio.

27Cfr. nota 17 del presente capitolo. Si cfr. anche l'episodio dei disordini all'interno del Tempio durante la Pasqua, narrati da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche (XVII, 213-218), che dà l'idea della situazione di tensione e di pericolosità per l'ordine pubblico durante le grandi celebrazioni festive e della durezza con cui si reprimeva ogni tentativo di sovversione o possibile tale.

28Cfr. l'analisi sulla storicità dell'entrata di Gesù a Gerusalemme, pag. 7 del presente commento.

29Cfr. Mt 27,62-66; 28,11-15; 2Cr 23,3-7; Ez 44,10-11.14 - Il Tempio aveva proprie truppe di polizia, soprattutto leviti, conosciute come Guardie del Tempio. Tra i loro compiti vi era anche quello di tenere i non giudei lontani dal Tempio. Cfr. la voce “Guardia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

30La Fortezza Antonia o Torre Antonia era stata costruita da Erode il Grande e sorgeva sul lato settentrionale a ridosso del Tempio. Era la sede di una consistente guarnigione romana, probabilmente una coorte di seicento uomini. Qui vi risiedeva anche il procuratore romano della Giudea, quando si trovava a Gerusalemme, mentre ordinariamente egli dimorava nella sede imperiale di Cesarea marittima. Cfr anche G. Flavio, Guerra Giudaica, I,118; I,401.

31Questa moneta, unità fondamentale del sistema monetario giudaico, aveva assunto la denominazione di “siclo del santuario” per la stabilità della sua valuta. Cfr. la voce “cambiavalute” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia e R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento. Tutte le opere citate

32Cfr. Eb 7,27; 9,26; 10,4-7.10.12;

33Cfr. Is 65,17; 66,22; Ef 1,10b; 2Pt 3,13; Ap 21,1; Mt 28,18.

34Nell'antichità il fico era considerato uno degli alimenti più importanti (Nm 20,5; 1Sam 25,18; 30,12; 2Re 18,31; 1Cr 12,41; Tb 1,7; Gdt 10,5), che aveva anche qualità terapeutiche (2Re 20,7; Is 38,21) e per questo era considerato simbolo di fecondità. Esso è uno dei frutti caratteristici della terra promessa (Dt 8,8; Nm 13,23). Israele era un paese caratterizzato dalla presenza di alberi di fico, che ornavano i campi e le corti della Palestina (1Mac 14,12; Sal 104,33; ) ed era l'albero che annunciava il cambio della stagione (Ct 2,13; Mt 24,32; Mc 13,28). In tutta la Bibbia il fico viene citato 63 volte e talvolta, assieme alla vigna, viene preso a metafora del popolo stesso (Ger 8,13; 24,1-10; 29,17; Os 9,10; Gl 1,7). Cfr. il termine “Fico” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.

35Cfr. Ger 7,26; 17,23; Bar 2,30; Ez 3,7

36Similmente Giovanni chiude l'attività pubblica di Gesù con un'amara considerazione di delusione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37).

37Cfr. 20,17.30; 21,8a.8b.19

38Sul significato e la simbologia del fico cfr. nota 34.

39Il verbo usato per vedere è “Ðr£w” (oráo), che significa vedere, ma nel senso di puntare, fissare lo sguardo. In senso metaforico indica un vedere che trascende il semplice percepire fisico per cogliere ciò che sta al di là delle apparenze. Già l'uso di questo verbo sta ad indicare il particolare interesse di Gesù per il suo popolo.

40Cfr. Mt 10,6; 15,24; 23,37b

41Cfr. Gv 5,43a; 7,28; 8,42; 16,27.28; 17,8.-

42Cfr. Gv 1,18; 2,11; 5,20; 14,21;

43Cfr. Gv 4,34; 5,30; 6,38.39.40; 14,10-11

44Cfr. Mt 9,13.36; 14,14; 15,32; 18,12; Mc1,41; 6,34; Lc 10,33; 15,4.11-32; Gv 10,1-16.-

45Cfr. Is 1,10-20; Am 5,11-25; Mt 15,8; Mc 7,6.-

46Cfr. Rm 2,29; 2,28-29; 7,6; 2Cor 3,5-6

47Più volte nel corso di quest'opera si è ricordato come nel linguaggio biblico neotestamentario il verbo posto al passivo ha come soggetto Dio stesso.

48Questa interpretazione vale per Marco, il quale tra l'episodio del fico con molte foglie, ma senza frutti (Mc 11,12-14) e la piccola catechesi sulla fede e la preghiera (Mc 11,20-26) inserisce l'episodio della purificazione del tempio e la polemica con i sacerdoti e gli scribi (Mc 11,15-19), lasciando intendere in tal modo come il fico improduttivo altro non era che il culto del tempio. Tutto questo crea uno stacco considerevole con quanto segue sulla fede e la preghiera, così che il richiamo al fatto del fico inaridito, nel racconto marciano, è solo un'escamotage narrativa per introdurre una piccola catechesi

49Cfr. Eb 12,22; Ap 14,1

50Le Diciotto Benedizioni o Shemonè esrè (Diciotto), dette anche Amidah, che significa “posizione eretta”, indicando il modo con cui dovevano essere proclamate, erano una preghiera che il pio ebreo recitava 3 volte al giorno. In dodicesima posizione vi era la Birkat ha Minim o Benedizione degli eretici, un eufemismo ebraico per dire maledizione contro gli eretici, che così recitava. “Per gli apostati non ci sia speranza e il regno insolente (cioè l'impero romano) venga presto sterminato, nei nostri giorni. I nazareni (i giudeocristiani) e gli eretici periscano subito e siano abrasi dal libro della vita, né siano iscritti insieme ai giusti. Benedetto sei tu Signore, che umili l'insolente

51La preghiera, attestata nel VII sec., ma probabilmente nata intorno al III-IV sec., quasi certamente in risposta alla Birkat ha Minim sopra riportata, così recitava fino al 1965, epoca del Concilio Vaticano II, che poi l'ha riformata: “Preghiamo anche per i perfidi Ebrei, affinché il Signore e Dio nostro tolga il velo dai loro cuori ed anche essi riconoscano il Signore nostro Gesù Cristo. Dio onnipotente ed eterno, che non allontani dalla tua misericordia neppure la incredulità degli ebrei, esaudisci le nostre preghiere, che ti presentiamo per l'accecamento di quel popolo, affinché riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano liberati dalle loro tenebre. Per il nostro Signore...Amen ”

52Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pag.574; op. cit.

53Una simile immagine Matteo la offre anche in 5,1 dove Gesù assiso sul monte, ammaestra i discepoli e le folle. In tal senso cfr. il commento al cap.5, pagg.34 della presente opera.

54L'espressione “sommi sacerdoti” si ritrova in tutto il N.T. 66 volte, quasi tutte negli evangelisti, in Atti e due volte nella lettera agli Ebrei (7,27.28). Con questo titolo venivano designati non solo il Sommo Sacerdote propriamente detto, ma anche i sacerdoti più importanti della comunità. Il titolo al plurale si riferiva probabilmente ad un gruppo, che comprendeva non solo il Sommo Sacerdote in carica, ma anche il suo predecessore e tutti gli alti funzionari del Tempio, come il capitano del Tempio (At 4,1), il guardiano del Tempio e i tesorieri.

55Cfr. Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 6,42

56Cfr. Mt 7,28; 9,6.8; 22,33; Mc 1,27; Lc 4,32.36; 5,24

57Cfr. Mt 10,1; 28,18-20; Mc 3,14-15; 6,7; Lc 9,1

58Cfr. Mt 9,3; Mc 2,7; 14,64; Gv 10,33

59Afferma il Fabris che “La tecnica della controversia non è solo una schermaglia dialettica per evadere i problemi. La contro domanda serve a puntualizzare il nocciolo della questione costringendo gli stessi interroganti a dare un giudizio e a prendere posizione”. Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.449; op. cit.

60Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit.

61La citazione che ho riportato si riferiva alla testimonianza che Gesù ha dato di fronte a Pilato, ma che ho voluto comunque, per similitudine, applicare anche a quella che Gesù diede al mondo giudaico.

62Le cinque dispute riguardano la provenienza dell'autorità di Gesù (21,23-27); il tributo a Cesare (22,15-22); la risurrezione dei morti (22,23-33); il comandamento più importante (22,34-40); il messianismo di Gesù (22,41-46).

63Sul significato narrativo delle parabole cfr. Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Indagine storica, Centro editoriale dehoniano, Bologna 2002 – pagg. 299-310.

64Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.- pag. 579

65L'impianto di un vigneto rendeva necessario, di norma, il terrazzamento delle pendici e la rimozione delle pietre presenti nel terreno, pietre che venivano poi riutilizzate per costruire i muretti di rinforzo, ma che con il passare del tempo venivano accumulate ai bordi del campo. Attorno al vigneto veniva piantata anche una siepe di lycium e cespugli di acacia, oppure venivano costruiti muri bassi sui quali venivano poggiati i rami del poterium spinosum per tenere lontani ladri e animali feroci (Sal 80,13-14). Una torre di guardia o una casetta di pietre servivano d'estate, come fresco riparo, quando i lavoratori vivevano nella vigna. Attorno al campo recintato veniva accuratamente scavato un fossato e, una volta dissodato il terreno, venivano impiantate le le giovani vigne a una distanza di circa 2,5 mt. Su di un'altura sovrastante la vigna, veniva edificata una costruzione di legno, coperta, la torretta di guardia, dalla quale il proprietario e la sua famiglia potevano sorvegliare il lavoro durante la vendemmia. Quando i grappoli d'uva erano maturi venivano raccolti ai canestri e portati ai torchi, spesso scavati nella roccia, dove venivano torchiati o pigiati dagli aiutanti fra grida e canti di gioia. Il vino in fermentazione veniva posto in otri nuovi di pelle di capra o in grandi vasi di terracotta. Gli esattori delle imposte chiedevano una parte dei prodotti delle vigne e i debiti accumulati venivano saldati spesso con del vino, talvolta usato anche come oggetto di baratto.

La vigna era simbolo di pace e di prosperità, come l'olio e il grano e simboleggiava Israele (Sal 80,9 e Is 5,1-7).

Il contenuto della presente nota è stato liberamente tratto dal Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, alla voce “Vino, Vite, Vigneto”.

66Sulla questione cfr. il commento al cap. 20,1-2 e la nota 5 dello stesso capitolo.

67In tal senso cfr. Sal 79,15; Is 3,14; 5,1-7; 27,2; Ger 2,21; 6,9; 12,10; 48,32; Na 2,2.-

68Cfr. Gb 1,10; Sir 28,24; 36,35; Is 5,5; Mt 21,33; Mc 12,1.-

69Cfr. Es 19,5-6; Dt 30,9-10; Ne 9,29b; Sal 17,21-22; 85,2; 96,10; 102,17-18; 118,80.93.173;131,12; 147,9 Prv 2,1-8; 3,1-2; 4,4-6; 7,1-5; Sir 6,37; 1Re 2,3; 3,14; 9,4-7.

70Nell'antichità le torri nel loro slanciarsi verso il cielo erano concepite come il punto di collegamento tra Dio e gli uomini. Si pensi in tal senso alle ziqqurat dell'antica Mesopotamia, alla stessa Torre di Babele, quale tentativo di ristabilire un punto di collegamento tra Dio e gli uomini, spezzato dal peccato originale. Di fatto una sfida lanciata a Dio. Essa è il punto sicuro all'interno della città, estremo baluardo dei nemici, ma anche, poste alle mura della città, diventano sua difesa. Tutti questi significati della torre sono applicabili al Tempio e allo stesso Jhwh. - In tal senso cfr. le voci “Torre” e “Tempio” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici; op. cit.

71Cfr. Is 63,1-6; Gl 4,13; Ap 14,19-20; 19,15.

72Cfr. Ml 2,1-17; Ger 10,21; 23,1-2; 34,1-10.-

73Cfr. Mt 21,42.44; Mc 12,10; Lc 20,17-18; At 4,11; Rm 9,32-33; Ef 2,19-22; 1Pt 2,4.6.7.8 .-

74Cfr. At 2,41.48; 4,32; 5,14; 6,1.7; 11,21; 12,24; 13,49; 14,1.21; 16,5.