IL VANGELO DI MATTEO


Quarto intermezzo narrativo

Capp. 19 - 23


Richiami ed esortazioni alla comunità matteana (capp. 19-20)

Atti di accusa e polemiche roventi contro il giudaismo (capp. 21-23)


Parte Seconda – Cap. 20



Analisi e commento al cap. 20


I mali della comunità matteana e i loro rimedi:

Orgoglio e presunzione, rivalità e ricerca di privilegi

trovano la loro guarigione nel conformarsi a Gesù,

il quale ha fatto della sua vita un dono,

che ha il suo vertice nella passione, morte e risurrezione,

colte come servizio di redenzione per tutti gli uomini



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Introduzione

Con il cap.19 Matteo aveva indicato alla sua comunità le nuove prospettive e le nuove esigenze del Regno, che si era inaugurato con l'avvento di Gesù: il matrimonio, reinserito all'interno della creazione e facente parte del naturale ordine delle cose, porta in sé l'impronta santificatrice e santificante di Dio, così che il divorzio appare come una profanazione e una rottura di tale ordine creativo iniziale. Ma anche il matrimonio così come i beni terreni vengono relativizzati nei confronti delle nuove realtà e dei nuovi orizzonti apertisi con l'avvento del Regno, al quale, non pochi, avendone colto il significato e il valore, consacrano interamente la propria vita, rinunciando non solo al matrimonio, ma anche agli affetti più cari e puri, in un atto di distacco totale, lasciando ogni cosa per la sequela di Gesù. Discorsi duri, difficili da comprendere e da incarnare nella propria vita, impregnata di una natura corrotta. Ma tant'è. Sono queste le logiche del Regno, sono logiche divine, estranee all'uomo decaduto, non facenti più parte del suo patrimonio culturale e spirituale e alle quali, invece, il credente è chiamato a conformare la propria vita. Sono logiche che chiedono di rinnegare se stessi, il proprio modo di pensare, di vedere, di giudicare, di valutare, di approcciarsi alle cose e agli uomini secondo i vecchi schemi di una natura decaduta e degradata, per aprirsi ai nuovi orizzonti di Dio, che vuole ricondurre in Sé l'uomo, farlo nuovamente a sua immagine e somiglianza; ricondurlo allo splendore e alla santità della prima creazione, quando ogni creatura e ogni cosa erano ancora incandescenti di Dio e rilucenti della sua stessa luce, in cui erano state originariamente collocate (Gen 1,3.31). Paolo ha presente in sé il progetto divino di riconciliare tutte le cose in Cristo (Ef 1,4.10). Rivolto, pertanto, ai cristiani di Roma li esorta a santificare tutte le cose con il loro nuovo modo di vivere sacerdotale, riconsacrandole e rioffrendole al loro Creatore, perché vengano rigenerate in Cristo per mezzo loro. Per questo essi sono chiamati a rinnovarsi continuamente per cogliere in tutto la volontà di Dio e ad essa conformarsi esistenzialmente: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,1-2). Sono realtà spirituali, ma non estranee all'uomo, che pur nella sua carnalità è chiamato a conformarvisi. Un nuovo stile di vita, fondato sull'umiltà e su di un atteggiamento di servizio, deve caratterizzare i rapporti con gli altri. Umiltà e servizio, che hanno il loro fondamentale parametro di raffronto in Gesù, sofferente e crocifisso (Mt 20,17-19), che per primo si è posto a servizio di tutti, facendo della propria vita una proesistenza, cioè una vita totalmente spesa a totale favore di tutti gli uomini e che ha il suo vertice nella croce (Mt 20,28). E' questo il senso di questo cap.20, che contiene un benevolo, ma deciso richiamo di Matteo alla sua turbolenta comunità, che, ancora impregnata di legalismo mosaico, trova molta difficoltà a fare il passo decisivo verso le novità portate da Gesù. Ancora non si è colto nella sua ampiezza e profondità il nuovo messaggio di quella fede che hanno da poco abbracciato, così esigente, così totalizzante, così radicale, perché divina. Una fede che interpella il nuovo credente nella profondità del suo essere e gli chiede di rinnovarsi a partire dal suo cuore, dalla sua mente. Una rigenerazione che va dall'interno verso l'esterno, così che quest'ultimo sia testimonianza e riflesso del primo. Solo l'abbraccio sincero di Gesù nella propria vita aprirà gli occhi all'uomo sulle nuove realtà di Dio, inaugurate nel Regno. Esse sostanziano la sua vita, creando in lui un nuovo stile di vita, che lo renderà disponibile e idoneo alla sequela.


La struttura del cap. 20


Il cap.20 si struttura su quattro parti, formate da una parabola (vv.1-16) e dalla narrazione di un episodio di vita all'interno del gruppo dei discepoli (vv.20-28), intercalate dal terzo ed ultimo annuncio della passione e morte di Gesù (vv.17-19). Il tutto si conclude significativamente con il racconto del miracolo dei due ciechi, guariti e messisi, quindi, alla sequela di Gesù (vv.29-34).


Pertanto si avrà il seguente svolgersi della struttura:


A) vv. 1-16: la parabola dei lavoratori chiamati, nel corso dell'intera giornata, a lavorare nella vigna, in cui l'autore sottolinea come l'importante non è il quando si è entrati a lavorare nella vigna, ma l'aver accettato di entrarvi e di farvi parte. Il racconto si conclude con un detto sentenziale, che forma inclusione con il suo parallelo in 19,30 e tende a sottolineare, una volta di più, che il Regno dei cieli non è questione di priorità temporale, ma di disponibilità interiore.

B) I vv. 17-19 riportano il terzo annuncio della passione e costituiscono il cuore dell'intero capitolo, in quanto formano da parametro di confronto su cui la comunità matteana è chiamata a configurare il proprio modo di vivere e di relazionarsi. Il senso di questo terzo annuncio sarà spiegato dai vv.26-28: si tratta di un servizio di redenzione da parte di Dio, speso a favore dell'uomo. Su tale comportamento divino nei confronti dell'uomo la comunità di Matteo è chiamata ad adeguare il proprio.

C) vv.20-28: viene riportato un disdicevole e significativo episodio di vita all'interno del gruppo dei discepoli. Rivalità, sete di potere e intrallazzi lasciano intravvedere come i seguaci di Gesù fossero ancora molto lontani dal comprendere il vero senso della sua missione e della sua persona.

D) vv.29-34: il racconto della guarigione dei due ciechi e la conseguente sequela di Gesù da parte loro sono la metafora di un ripensamento e di una conversione nei confronti di Gesù, che portano a comprenderne sia la persona che il senso della sua missione. Per questo la guarigione si chiude con la nota della sequela: “riacquistarono la vista e lo seguirono” (v.34).

Vi è una sorta di consequenzialità logica che lega tra loro i due racconti: nella parabola dei lavoratori nella vigna viene stigmatizzato l'orgoglio dell'essere giudeo, erede della Legge e delle promesse divine, che veniva rinfacciato agli etnocristiani della comunità (Rm 2,17-20), ritenuti comunque degli esseri impuri da cui guardarsi (Gal 2,11-13), creando inevitabili tensioni con questi ultimi; il secondo racconto va a colpire le trame e i giochi di potere che agitavano i membri della comunità matteana, sia giudeocristiani che etnocristiani. Entrambi i gruppi davano a vedere di essere ciechi, cioè di non aver capito il senso della persona di Gesù e del suo messaggio, il senso dell'eredità spirituale, che era stata loro affidata. Soltanto dopo essere stati guariti, cioè soltanto dopo essersi aperti ad una vera e sincera comprensione di Gesù, potranno anche dirsi suoi veri seguaci.


Commento al cap. 20


vv.1-16: la parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna, tutta matteana, costituisce un'unica unità letteraria delimitata dall'inclusione, data dall'espressione “Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi”, che si trova a chiusura del cap.19 (v.30) e in 20,16. L'inclusione detta, inoltre, il tema della stessa unità narrativa inclusa, che trova il suo vertice nel v.20,12: “Questi ultimi hanno fatto un'ora e li hai fatti uguali a noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. La questione, qui trattata, quindi, verte sul rapporto che intercorre tra i primi e gli ultimi e la loro equiparazione davanti al padrone di casa. Qui sta il problema. Si tratta, ora, di capire a cosa Matteo volesse alludere con questa parabola e, in particolare, perché abbia evidenziato così puntigliosamente il problema primi-ultimi. Per poter comprendere lo sitz im leben, in cui è nato questo racconto vanno tenuti presenti due elementi: a) i vangeli sono stati scritti prevalentemente, se non esclusivamente, per le comunità credenti, di cui l'evangelista era responsabile, e costituivano una risposta ai problemi e alle necessità di queste comunità. Il loro intento, quindi, era squisitamente pastorale; b) il fatto che soltanto Matteo riporti questa parabola significa che questa era destinata a dare una risposta ad un problema presente all'interno della sua comunità. La cornice storico-sociale, quindi, va ricercata all'interno della stessa comunità matteana. Chi siano questi “primi”, che mal si accordavano con gli ultimi e che non accettavano di essere a loro equiparati, poiché essi erano già presenti nella vigna quando questi si erano presentati, non è difficile comprenderlo. Qui Matteo sta parlando dei difficili e sovente tesi rapporti, che intercorrevano all'interno della sua comunità, tra i giudeocristiani, in numero preponderante, e gli etnocristiani convertiti, provenienti dal paganesimo; anche questi, quasi certamente, numerosi, benché in numero di molto inferiore ai giudeocristiani.

Per comprendere le tensioni tra i due gruppi è necessario rifarsi alla mentalità ebraica e al loro porsi nei confronti dei non ebrei. Innanzitutto, va detto che per l'ebreo il mondo era diviso in due parti: da un lato gli ebrei, che si sentivano particolarmente privilegiati rispetto a tutti gli altri popoli; e i non ebrei, che comprendevano l'intero mondo pagano, verso il quale il mondo ebraico nutriva un cordiale e profondo disprezzo, considerandolo immondo e impuro e destinato alla distruzione. Una testimonianza dell'alterigia con cui gli ebrei vivevano il loro rapporto con i non ebrei ci è fornita dallo stesso Paolo, che nella sua lettera ai Romani tende a sostenere l'equiparazione tra ebrei e non ebrei di fronte alla necessità della salvezza: “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. […] Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità...” (Rm 2,1.17-20). Il Giudeo, quindi, si gloriava della sua identità e si poneva di fronte all'altro in un atteggiamento giudicante, di disprezzo e di condanna. Essi già si sentivano salvati in modo privilegiato, grazie al loro padre Abramo e per la sola appartenenza al popolo eletto (Lc 3,8). Anche Luca, nella sua parabola dei due che salivano al tempio a pregare (Lc 18,10-14), descrive l'atteggiamento del giudeo osservante, che con fare altero si pone di fronte a Dio in un atteggiamento di superiorità rispetto a tutti e in particolare al disprezzato pubblicano: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo” (Lc 18,11-12 ). Gli altri erano i diversi, in senso negativo, e venivano definiti con l'appellativo di cani o porci1, cioè esseri immondi, da cui ci si doveva guardare; l'avvicinarsi a loro o l'entrare in contatto con loro significava diventare impuri e, pertanto, vi era l'obbligo di sottoporsi al rituale della purificazione (Gv 18,28); vi era un divieto ad avvicinarsi a chi non fosse ebreo (At 10,28); anche il Gesù matteano riteneva inizialmente di essere venuto per il solo Israele, escludendo dalla salvezza i pagani (Mt 10,5-6; 15,24). Sarà soltanto in un secondo tempo che capirà come la sua missione comprendesse universalmente tutti e che elemento distintivo e qualificante fosse soltanto la fede e non più l'appartenenza ad un popolo (Mt 8,8-13; 15,22-28). A fondamento di questo smisurato orgoglio di essere ebrei, ci stava la forte coscienza della elezione divina, che ha fatto di Israele una nazione santa, un regno di sacerdoti, una proprietà di Dio tra tutti i popoli (Es 19,5-6). Espressione concreta di tale elezione è la Torah, in cui ogni israelita ritrova la propria identità e al cui interno si ricomprende. Questa primarietà assoluta, di cui beneficiava Israele, faceva si che il popolo pensasse che Dio potesse entrare in relazione con il mondo pagano solo attraverso Israele. Similmente i pagani, per avvicinarsi a Dio e intrattenere con Lui un rapporto autentico e partecipare all'Alleanza, doveva riconoscere Israele come l'eletto, come colui che ha beneficiato di una rivelazione diretta e piena. Israele, quindi, si poneva come l'intermediario per eccellenza tra Dio e il resto dell'umanità2. Questa forte coscienza di popolo privilegiato lo portava a tenere comportamenti alteri e sprezzanti verso gli altri popoli. Questo stato di coscienza rimase anche dopo la conversione al cristianesimo e l'atteggiamento altero e sprezzante continuava anche nei confronti dei pagani convertiti, che non accettavano imposizioni mosaiche, né comprendevano l'importanza di una religione a loro estranea e di conseguenza questo vantarsi dei giudeocristiani nei loro confronti o questa loro vantata superiorità. Erano, comunque, due realtà che rimanevano distinte e tra loro inconciliabili e che rischiavano di creare delle forti tensioni e fratture all'interno delle comunità. Si pensi alle grosse difficoltà e alla grandi sofferenze che Paolo ha dovuto subire nel corso della sua missione verso i Gentili ad opera non solo della chiesa di Gerusalemme, ma anche di tutti quei giudeocristiani giudaizzanti, cioè che mantenevano il loro modo di vivere giudaico anche dopo la loro conversione al cristianesimo, di cui spesso non avevano ancora ben compreso la novità3. Si pensi alla teologia sviluppata dalla lettera agli Efesini, finalizzata a togliere ogni barriera divisoria tra etnocristiani e giudeocristiani, che dovevano cercare la loro unità in Cristo: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia” (Ef 2,14-16); si pensi al problema della circoncisione, che i giudeocristiani volevano imporre anche agli etnocristiani, costringendoli a vivere alla maniera giudaica (At 15,1-35; Gal 2,4-10); si pensi a Pietro che in presenza degli emissari di Giacomo, capo della chiesa di Gerusalemme, si staccò dagli etnocristiani, con i quali stava mangiando, per immettersi nel gruppo dei giudei. Contro tale comportamento Paolo si mostrò deciso e redarguì duramente Pietro (Gal 2,11-14); si pensi agli strali che Paolo lanciò contro questi giudeocristiani giudaizzanti, che lo screditavano nella sua opera e cercavano di condurre i convertiti di Paolo al giudaismo. La veemente lettera ai Galati fu scritta proprio per questi problemi. La stessa missione per il primo annuncio all'interno della chiesa primitiva fu assegnata a Pietro per i giudei e a Paolo per i pagani. Una divisione dettata dalla riluttanza con cui il mondo giudeocristiano si poneva nei confronti dei pagani (Gal 2,7). C'era, dunque, all'interno delle prime comunità credenti, prevalentemente per quelle dislocate all'interno della Palestina, questo problema della sentita superiorità giudeocristiana nei confronti degli etnocristiani. Matteo con questa parabola tende a demolirla, equiparando tutti, primi ed ultimi, giudeocristiani ed etnocristiani, davanti all'unico padrone di casa: Dio, manifestatosi in Gesù e per suo mezzo chiamando tutti, primi ed ultimi in egual modo, a ritrovarsi uniti nell'unico Padre. Non c'è, dunque, alcuna superiorità da vantare, poiché tutti in egual modo sono uno in Cristo. Infatti, “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28); così similmente l'autore della lettera ai Colossesi: “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).

Con questa parabola Matteo inaugura una trilogia di parabole, che hanno come sfondo la vigna e come tema la stigmatizzazione dell'atteggiamento del giudaismo nei confronti della nuova fede. In questa parabola, 20,11-16, si tende a colpire l'orgoglio giudaico dei giudeocristiani, che si ritenevano superiori agli etnocristiani; in 21,28-31 e in 21,33-43 viene criminalizzato l'atteggiamento di chiusura nei confronti di Gesù, una chiusura che culminerà in un brutale assassinio del figlio del padrone della vigna.

La struttura della parabola si snoda in quattro parti:

A) vv.1-7: questa prima parte, molto dinamica, è caratterizzata sia dal reclutamento degli operai, chiamati a lavorare nella vigna del padrone nel corso dell'intera giornata, scandita puntigliosamente in tutte le sue parti fino all'ultima sua ora (l'undicesima); sia da un gran movimento da parte dello stesso padrone, che per ben cinque volte esce di casa alla ricerca di manodopera per la sua vigna, tentando di aprire un dialogo con gli stessi operai da reclutare, per convincerli a seguirlo (v.4 e vv.6b-7);

B) v.8: questo versetto può essere definito di transizione sia perché, da un lato, chiude la giornata lavorativa (“Giunta la sera”), apertasi di “buon mattino”; sia perché, dall'altro, introduce alla fase successiva, contenendo le disposizioni di pagamento con l'ordine inverso di procedere: dagli ultimi ai primi;

C) vv.9-15: qui viene narrata la rivolta dei primi operai contro il loro padrone (“brontolavano”) per l'apparente trattamento ingiusto. Si badi bene come questi lavoranti giornalieri non si lamentano per essere rimasti delusi nelle loro aspettative, ma perché il padrone li ha messi alla pari degli altri (v.12);

D) v.16: la sentenza finale, che forma inclusione con quella contenuta in 19,30, sottolinea il capovolgimento delle logiche operate dal padrone e che trova impreparati i primi operai.


vv.1-2: l'autore continua idealmente con questa parabola il cap.13, che raccoglie sei parabole che illustrano in vario modo il Regno dei cieli4. L'uomo del nostro racconto è “un padrone di casa”, immagine questa che richiama agli ascoltatori giudeocristiani Jhwh, considerato il Signore della casa di Israele5, il padrone del popolo, definito sua proprietà (Es 19,5). L'immagine del padrone di casa è associata, poi, alla vigna, di cui egli è il proprietario (“sua”). Quella della vigna è un'altra immagine fortemente suggestiva ed evocativa per gli ebrei, che sono definiti come la vigna del Signore, una vigna celebrata nello stupendo cantico di Isaia, in cui Jhwh lamenta le infedeltà di Israele (Is 5,1-76). Il padrone di casa, proprietario della vigna, è colto da Matteo nel momento del suo uscire di “buon mattino” alla ricerca di operai da collocare nella sua vigna. È, dunque, questo padrone che ha l'iniziativa (Es 3,7-8; 6,2-8), è lui che esce alla ricerca; mentre l'espressione temporale (“di buon mattino”) richiama gli inizi del rapporto tra Jhwh e il suo popolo, con il quale Egli stabilisce un'Alleanza, in qualche modo richiamata al v. 20,2, in cui il padrone di casa e della vigna pattuisce il compenso per l'aver aderito alla sua offerta di lavoro. I primi due versetti, dunque, narrano, con tocco magistrale, gli elementi essenziali degli inizi della storia di Israele, con i quali Matteo evidenzia la primarietà storica di Israele rispetto agli altri. Lo attestano anche i verbi di questi primi due versetti, tutti posti all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto.

vv.3-7: se con i vv.1-2 Matteo dà atto e sottolinea come all'origine della storia della salvezza ci stia Israele, che per primo è stato chiamato e per primo ha risposto alla chiamata, con questi versetti in esame fa anche capire che questa giornata, che richiama l'ampio tempo della storia della salvezza, non si è esaurita con loro, i primi, ma l'iniziativa di questo padrone di casa continua per tutta la durata della giornata, fino all'undicesima7 ora, termine estremo ed ultimo di questo tempo di salvezza, caratterizzato da una continua e costante chiamata universale, aperta indistintamente a tutti (At 10,35; 1Tm 4,10); una universalità simboleggiata dalle altre quattro8 chiamate successive alla prima fondante. Similmente alla prima chiamata, anche in queste quattro l'iniziativa parte sempre dal padrone di casa, che è il medesimo della prima chiamata. Il verbo uscire si ripete per altre quattro volte, riproducendo lo schema della prima chiamata, per indicare come la storia della salvezza, partita con Israele, continua nel tempo, ampliandosi gradualmente all'intera umanità. La storia della salvezza è dunque percepita come un unico atto salvifico, senza soluzioni di continuità o contrapposizioni. Tuttavia, la diversità tra il prima (A.T.) e il dopo (N.T.) è significata dalla diversità del padrone di casa nei confronti dei chiamati: nei primi due versetti non vi è alcun dialogo tra il padrone e i primi operai, ma si sottolinea soltanto che con questi fece un contratto (Alleanza). Nelle chiamate successive, invece, lo stesso padrone innesca un dialogo con i suoi chiamati, interpellandoli sul loro stato di sfaccendati e spingendoli ad aderire alla sua chiamata. Un dialogo, questo, che richiama da vicino il primo kerigma con cui la chiesa primitiva annunciava e interpellava il mondo pagano (At 1,8) e lo spingeva ad aderire al nuovo annuncio (At 2,40-42). Questi nuovi operai, chiamati a lavorare nella vigna assieme ai primi, sono definiti, al momento della chiamata, come “sfaccendati” e “inoperosi”, persone, quindi, prive di una propria qualificazione e identità sociali, che soltanto la loro adesione alla chiamata trasformerà in “operai della vigna”, ponendoli in pari dignità e identica identità con i primi. Nessuna differenza, quindi tra i primi e gli altri, poiché tutti lavorano nella stessa vigna, tutti sono stati parimenti chiamati dall'unico Padrone, tutti, in egual modo, hanno aderito alla chiamata. L'essere arrivati primi è solo una questione di tempo, che nulla ha a che vedere con il progetto salvifico del Padrone di casa, il cui intento è raggiungere tutti gli uomini e far si che questi aderiscano alla sua chiamata, che dà loro una nuova identità, trasformandoli in creature nuove. Le regole umane, che premiano i primi arrivati, quindi, qui vengono completamente stravolte, per lasciare spazio alla disponibilità del cuore dell'uomo alla chiamata di Dio, che come un'eco instancabile percorre la storia raggiungendo ogni uomo.

v.8: questo versetto, che avevamo definito di transizione, detta le nuove regole, che riflettono gli interessi non degli operai, ma del padrone e ne rivelano gli intenti: a tutti deve essere dato in egual misura, a partire dagli ultimi. Vi è, quindi, un radicale rovesciamento di parametri, che dicono come ciò che interessa a questo padrone non è la quantità di lavoro svolto o il tempo in cui l'operaio è rimasto nella vigna a lavorare, bensì l'esserci stato, l'aver aderito alla sua chiamata, l'essersi legato a lui dandogli la disponibilità della propria vita. Quello che qui Matteo offre ai giudeocristiani della sua comunità è un parametro nuovo, che risponde alle logiche divine e non umane, e alle quali sono chiamati a conformarsi.

Il v.8 si apre con un'annotazione di tempo “Giunta la sera”, che si contrappone a quella del v.1, “di buon mattino”. Narrativamente le due note temporali racchiudono la prima parte del racconto, ma nel contempo dicono come tutti, primi e ultimi, “giunta la sera” sono chiamati a ricevere, in egual modo, la loro ricompensa. Vi è, dunque, in questo versetto una nota escatologica, che tende a far spostare gli interessi dei giudeocristiani su ciò che veramente conta: tutti, alla fine dei tempi, saranno giudicati e ricompensati in egual misura non in base al tempo trascorso nella vigna, ma in funzione al loro esserci stati in modo operativo, avendo dimostrato in tal modo tutta la loro disponibilità alla chiamata di Dio.

Significativa, infine, è la disposizione del padrone di incominciare dagli ultimi fino ai primi. Tale ordine ha un mero valore indicativo, che dice come le logiche di questo padrone sono completamente rovesciate rispetto alle attese umane. Un implicito invito, quindi, che Matteo muove ai suoi, per una conversione di vita, che li porti ad aderire alle esigenze di Dio, ponendosi dalle sue prospettive.

I vv.9-15, da un lato, danno attuazione a quanto disposto dal padrone di casa al v.8 e, dall'altro, illustrano la reazione sdegnata dei primi operai. La controreazione del padrone alla protesta dei primi è incredibilmente dura e inaspettata e lascia il lettore sbigottito, poiché appare evidente la sproporzione e l'iniquità di trattamento tra gli ultimi e i primi, a favore dei quali si è naturalmente spinti a schierarsi, condividendone lo sdegno. Tuttavia, l'autore qui non vuole raccontare un fatto di cronaca e di ingiustizia sociale, ma ciò che viene proposto al suo ascoltatore è una metafora di una realtà nuova e scioccante, che si è instaurata con la venuta di Gesù e, con lui, con l'inaugurazione del Regno. Si tratta, dunque, di mettere da parte i sentimenti di sdegno e le logiche umane, per cogliere dietro le apparenti iniquità e ingiustizia, le nuove logiche del Regno, che vanno a cozzare violentemente contro il settarismo e l'individualismo del mondo ebraico, che concepiva Jhwh e la salvezza da Lui proveniente come una inalienabile proprietà di Israele. Certo, anche il giudaismo aveva sviluppato una salvezza aperta a tutti i popoli, ma questa passava attraverso il solo Israele e nessuno vi poteva accedere se non sottomettendosi alla Legge di Mosè (At 15,1.5.19-20)9. La profonda coscienza, poi, di essere un popolo prediletto e privilegiato da Dio10 ha creato nell'israelita la convinzione della sua unicità (Es 19,5-6; Dt 7,6-8; 14,2;). Fu proprio questa coscienza di essere unici e privilegiati e, quindi, superiori agli altri, che creava delle forti resistenze nei confronti degli etnocristiani. Passare, quindi, dall'individualismo salvifico dei giudei all'universalismo salvifico cristiano fu decisamente un trauma per i giudeocristiani, che in qualche modo si sono sentiti derubati della loro identità e unicità, sia religiosa che storica, vedendo perduta la centralità della loro posizione in tema di salvezza, che ora veniva spostata in Gesù e da lui a tutti indistintamente. I giudeocristiani, quindi, dovevano rielaborare la loro identità, rigenerare la loro coscienza di monopolio salvifico e di esclusività, riconoscendo in Gesù il centro primario ed unico della salvezza, che veniva offerta indistintamente a tutti, ebrei e pagani, per sola grazia e senza necessità di passare attraverso Mosè, bypassato da Gesù.

La struttura di questi versetti si articola in tre parti:

a) vv.9-10: viene fatto un raffronto tra gli ultimi e i primi chiamati, dal quale tutti escono equiparati in egual modo nella ricompensa, nonostante le intime e comprensibili aspettative dei primi. Elementi di equiparazione sono il termine “un denaro”, retribuito ad entrambi in egual modo, e l'espressione, che sottolinea una volta di più tale equiparazione “anch'essi”, riferita ai primi. Già in questa prima battuta viene evidenziata la parità tra primi e ultimi, togliendo ad entrambi i gruppi ogni criterio di priorità legata a parametri meramente temporali e umani. Per il padrone, come vedremo subito, tutto viene legato non alla quantità di lavoro o al tempo trascorso nella vigna padronale, ma alla disponibilità di tutti ad entrarvi. Il prima e il dopo sono del tutto irrilevanti. In effetti, se i parametri temporali e la quantità di lavoro fossero stati i criteri di valutazione per la ricompensa, il padrone avrebbe, in tal caso, commesso una grave ingiustizia nei confronti degli ultimi, i quali, alla pari dei primi, hanno dato egualmente la loro piena adesione. Quale differenza, quindi, tra i due? Nessuna. Per questo il padrone di casa retribuisce in egual modo tutti, ricompensandoli non per la quantità di lavoro svolto, ma per la loro disponibilità alla chiamata. Non è colpa degli ultimi se sono stato chiamati all'undicesima ora, ma va loro riconosciuto il merito, alla stessa stregua dei primi, di aver accolto pienamente l'invito del padrone.

b) vv.11-12: viene descritta la mormorazione dei primi per il trattamento subito, apparentemente iniquo. Si noti come il motivo di tale mormorazione, che richiama da vicino quella del popolo ebreo alle acque di Merìba (Es 17,1-711), una vera e proprio rivolta contro Jhwh12, non è una rivendicazione salariale, ma l'essere stati equiparati agli ultimi; è questo che è insopportabile e inaccettabile: “Questi ultimi [...] li hai fatti uguali a noi [...]”. Qui sta il problema non solo dei primi operai, metafora del giudaismo, ma anche della maggior parte della comunità matteana, formata da giudeocristiani, che ritenevano inaccettabile l'essere posti sullo stesso piano degli etnocristiani. Essi avevano una lunga familiarità con Dio e nelle cose di Dio; per primi avevano aderito all'Alleanza; per primi avevano conformato la propria vita alle dure esigenze di Jhwh, subendone le conseguenze; per primi sono stati definiti proprietà di Dio, popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19,5-6). Loro sono gli eredi della promessa e i veri discendenti di Abramo. Tutto questo non poteva passare sotto silenzio nei confronti di questi ultimi parvenus; né si poteva sopportare le loro pretese di uguaglianza con i nuovi credenti provenienti dal paganesimo. L'orgoglio dell'ebreo, così ben tratteggiato da Paolo nella sua lettera ai Romani (Rm 2,17-20), era profondamente ferito e la spaccatura della comunità e le rivalità al suo interno rischiavano di distruggerla, perdendo in tal modo il messaggio di salvezza di cui era portatrice.

c) vv.13-16: viene riportata la dura e sgarbata risposta del padrone nei confronti dei primi operai, che in tal modo si vedono ingiustamente disconosciuti dal padrone. La risposta del padrone si articola su quattro livelli e rispecchia, molto probabilmente, la decisione che Matteo aveva preso nei confronti di quegli insofferenti giudeocristiani della sua comunità, che non accettavano di allinearsi con gli etnocristiani, in quanto ancora legati al giudaismo, da cui non si sapevano staccare. In tale risposta, infatti, vi è la minaccia di essere cacciati dalla comunità dei nuovi credenti e rigettati nel giudaismo da cui essi provenivano.

Il primo livello (v.13) della risposta punta a mettere in rilievo la correttezza dell'agire del padrone: i rapporti tra padrone e operai della prima ora è regolato da un Patto, dono di salvezza per Israele: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Israele, il chiamato della prima ora, avendo aderito all'Alleanza, è stato configurato con una nuova identità e assimilato alla santità di Dio.

Il secondo livello (v.14a) della risposta è l'intimazione ad andarsene: “Prendi il tuo e vattene”. In altri termini, il padrone fa capire che nella nuova realtà che lui, il padrone, ha creato, non vi è posto per le recriminazioni, poiché queste entrano in collisione con gli intenti del padrone, che ha deciso di allargare la salvezza data ai primi a tutti gli uomini resisi disponibili alla chiamata. In questo disegno di salvezza universale non vi è spazio per le graduatorie, poiché la salvezza non è legata al “chi prima arriva”, ma alla disponibilità dell'uomo interpellato dall'annuncio. Per questo il volersi intestardire su parametri di anzianità e di orgoglio religioso, significa non aver colto il senso del piano divino, che iniziato con Israele, si stava ora allargando, in Gesù e per suo mezzo, all'intera umanità; significava essere d'impedimento all'attuarsi di tale disegno di salvezza universale. Ecco, quindi, il senso del comando: “Prendi il tuo e vattene”. In altri termini, se il giudeocristiano non è in grado di adeguarsi alla nuova realtà inaugurata in Gesù, a cui tutti in egual modo, indipendentemente dalla propria provenienza, sono chiamati ad aderire, è bene che questi ritorni da dove è venuto, all'Alleanza mosaica. Che prenda, dunque, il suo (Legge mosaica) e se ne vada.

Il terzo livello (vv.14b-15a) della risposta sottolinea la primarietà del piano di salvezza universale deciso dal padrone della vigna rispetto alle pretese di un orgoglio ferito, che denunciava tutta l'incapacità di comprensione del progetto divino, di cui Israele era parte fondamentale e integrante, e che si era appropriato facendone una sorta di bene patrimoniale nazionale inalienabile13. Il padrone, dunque, rivendica per se stesso quel bene che gli era stato in qualche modo sottratto da Israele, indispensabile per poterlo donare a tutti. Il tema del rifiuto di Israele da parte di Dio a favore dei popoli pagani (Rm 11,11b-15.25) sarà motivo di trattazione da parte di Paolo nei capp. 9-11 della lettera ai Romani, in cui si interrogherà sul ruolo di Israele nella storia della salvezza e del rifiuto che ha opposto a Dio, rivelatosi in Gesù. Una tema questo che Matteo riprenderà a conclusione della parabola dei vignaioli omicidi (21,43). Il padrone della vigna, dunque, vuole aprire la sua proposta di salvezza a tutti i popoli, così come fece per Israele, facendone un dono di grazia, che, in quanto tale, supera la stessa Legge mosaica, da cui i giudei non volevano staccarsi; anzi i giudeocristiani insistevano perché anche gli etnocristiani venissero sottoposti ad essa (At 15,1). Essi non avevano percepito che con la venuta di Gesù era terminato il tempo delle imposizioni mosaiche (Gal 3,24), sostituite dalla logica della gratuità e della grazia: “Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro” (At 15,10-11). L'identico trattamento, che il padrone riserva ad entrambi i gruppi di operai, dunque lascia intendere che dal tempo dell'Alleanza si è passati al tempo della grazia. Ed è proprio ciò l'ebreo non ha saputo cogliere nell'evento Gesù e nel suo accadere.

Il quarto livello (v.16) della risposta chiude in modo sentenziale la prima parte del cap.20. Esso, formando inclusione con 19,30, sintetizza in sé il tema dei primi 15 versetti: “Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi”. Questo rovesciamento di posizioni non ha nulla a che vedere con il giudizio escatologico o con rovesciamenti trascendentali di situazioni terrene, ma sottolinea come siano proprio gli etnocristiani a ricevere il beneficio della salvezza portata da Gesù, perché sono proprio questi ultimi che si sono aperti a lui nella fede, accettando incondizionatamente il dono di grazia in lui apparso. Contrariamente agli ebrei, che, invece, legati ancora al legalismo mosaico, di cui andavano orgogliosi (Rm 2,17-20), non hanno saputo svincolarsi da esso e per questo non hanno saputo cogliere il momento di grazia manifestatosi in Gesù14. Paolo ricorderà alla comunità di Roma proprio questo aspetto: “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d'inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso”.

Si chiude in tal modo la prima parte del cap.20, con cui Matteo denuncia e di fatto sconfessa quei giudeocristiani della sua comunità, che non avendo saputo cogliere la novità dell'evento Gesù e legati ancora alla legge mosaica, menavano vanto nei confronti degli etnocristiani, disturbandoli nella loro giovane fede, e cercavano, molto probabilmente, di sottometterli alle disposizioni mosaiche15.

vv.17-19: siamo qui giunti al terzo ed ultimo annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù; siamo, quindi, giunti al termine di un cammino catechetico16 che vede, in quest'ultimo annuncio, i discepoli definitivamente associati a Gesù nel suo patire e morire, in piena accettazione di un messianismo sofferente, inizialmente rifiutato (16,22) e poi accettato con riluttanza (17,23b) e, infine, qui condiviso. Questo terzo annuncio, nell'ambito dell'economia narrativa, è stato significativamente collocato da Matteo in mezzo a due racconti, una parabola (vv.1-16) e un probabile episodio deprecabile: uno scontro all'interno del gruppo dei discepoli (vv.20-28). Nella prima parabola l'autore stigmatizzava l'atteggiamento di superiorità e di orgoglio con cui i giudeocristiani sia relazionavano agli etnocristiani, creando le condizioni per divisioni e conflitti intracomunitari; nel secondo episodio viene denunciata e condannata la rivalità per la conquista di posti di privilegio e di potere all'interno della comunità. La terapia d'urto per entrambi i casi, che hanno la loro comune origine nell'orgoglio e nella prevaricazione, è l'esempio del loro comune maestro Gesù, che ha fatto della sua vita un dono per tutti e che trova nella passione, morte e risurrezione il suo vertice insuperabile. Il significato e il senso del patire e del morire di Gesù viene indicato dallo stesso Matteo al v.28 in cui si dice che “il figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per dare la sua vita, riscatto per molti”. La passione e morte di Gesù vengono, dunque, presentate da Matteo alla sua orgogliosa e litigiosa comunità, come un servizio di redenzione a favore di molti. Questo, dunque, è il parametro su cui la comunità matteana è chiamata riconfigurare la propria vita17. Questo è il contesto e il senso di questo terzo annuncio della passione.

Questo terzo annuncio, rispetto agli altri due (16,21; 17,22-23) è il più completo e il più dettagliato, collocandosi all'interno di un contesto narrativo, che determina una svolta decisa di Gesù verso il Golgota18; ed è quello che più di tutti, con quel “terzo giorno sarà risuscitato”, risente maggiormente della catechesi catecumenale e dell'annuncio kerigmatico19. Nel primo annuncio si parlava di una sorta di piano divino (“doveva andare a Gerusalemme”), che prevedeva un soffrire e un morire di Gesù a Gerusalemme per opera delle autorità religiose. Nel secondo annuncio Gerusalemme non è neppure menzionata e si sottolinea soltanto l'imminenza della morte di Gesù (“sta per essere consegnato”) ad opera degli uomini. Questo terzo annuncio viene posto in un contesto molto dettagliato: Gesù è colto mentre sale a Gerusalemme e raccoglie attorno a sé, quasi in un intimo abbraccio (“in disparte”), i suoi dodici a cui egli si rivolge “sulla via”. È la via che conduce Gesù, ma anche i discepoli, a Gerusalemme, il luogo del compimento dei misteri della salvezza. Ora Gesù non è più solo e i suoi discepoli lo stanno seguendo sulla stessa via, condividendone la sorte. Non a caso il terzo annuncio si apre con quel “Ecco, saliamo a Gerusalemme”. L'autore qui usa la prima persona plurale (“saliamo”) che vede assieme a Gesù, coinvolti e a lui associati, anche i discepoli. Non vi è più l'iniziale ribellione (16,23) e la mal accettata sorte del messia sofferente (17,23b), ma vi è associazione e condivisione. Ora, sono tutti sulla stessa via e assieme salgono a Gerusalemme. Vi è, dunque, un riallineamento dei discepoli sulla stessa lunghezza d'onda del loro Maestro. Del resto siamo giunti al termine di un cammino catechetico, che ha prodotto nei discepoli una radicale trasformazione. L'esortazione a seguire Gesù, dopo aver rinnegato se stessi e aver preso la croce (v.16,24), che segue immediatamente il primo annuncio (v.16,21), ha trovato qui la sua piena attuazione. I verbi principali qui sono posti tutti al passivo20 (“sarà consegnato” e “sarà risuscitato”) per indicare in questo compiersi degli eventi salvifici l'intervento di Dio, che attua il suo piano di salvezza, preannunciato nel primo annuncio (“doveva andare a Gerusalemme”).

vv. 20-28: con questo episodio, che Matteo ha ripreso da Marco (Mc 10,35-45), modificandolo nell'introduzione, l'autore intende stigmatizzare le rivalità e la ricerca dei posti di prestigio all'interno della sua comunità. L'episodio, come vedremo, sembra essere realmente accaduto e portato, quindi, come esempio negativo da evitare da parte dei nuovi discepoli.


La struttura del racconto è scandita in tre parti:


a) vv.20-23: viene presentata la richiesta di raccomandazione da parte della madre dei due figli di Zebedeo a Gesù, il quale intreccia un dialogo serrato con i due figli, riconducendo le loro richieste all'interno della passione e morte, colta, successivamente, come servizio di redenzione a favore degli uomini (vv.25-28).

A differenza di Marco, che cita direttamente i due pretendenti (Mc 10,35), Giacomo e Giovanni, i primi due discepoli ad essere chiamati a seguire Gesù assieme a Pietro e ad Andrea (Mt 4,18-22), Matteo non solo non nomina i due, ma prepone ad essi il filtro materno. Questo silenzio ostinato sui due e il velo materno posto su di loro sembrano due escamotage dell'autore per adombrane l'identità nei confronti della sua comunità. I due nomi, infatti, hanno avuto un peso notevole all'interno del gruppo dei Dodici e delle responsabilità della prima chiesa di Gerusalemme. Essi, come si è visto, erano stati i primi ad essere chiamati da Gesù (4,21-22), quelli, quindi, che più gli erano vicini fin dall'inizio e verso i quali Gesù ha sempre mostrato la sua stima e simpatia. Li troviamo, infatti, spesso assieme a Pietro, staccati dagli altri discepoli e in coppia compaiono, in diverse situazioni, ben diciannove volte nei vangeli e negli Atti degli Apostoli21. Giacomo fu capo della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9) e subì il martirio sotto Erode Agrippa I (41-44 d.C.)22, mentre di suo fratello Giovanni, anch'egli uno dei responsabili della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), non si conosce il destino. Erano, dunque, personaggi di spicco all'interno del mondo cristiano nascente e, di conseguenza, non stupisce la loro richiesta e le loro aspirazioni di potere, che sembrano corrispondere al loro temperamento determinato e irruento (Lc 9,54), se vengono definiti da Gesù stesso come “figli del tuono” (Mc 3,17). Ma forse proprio per questa loro rilevanza, lo stesso Matteo, o più probabilmente una qualche altra mano pietosa, ha sbianchettato i loro nomi dal vangelo matteano, stendendo un velo di silenzio per non infangare i loro nomi, stimati e amati all'interno della prima comunità credente23. E che sia così, sembra dirlo il testo dell'intero episodio, in cui la madre scompare completamente, mentre Gesù si riferisce direttamente ai due e con loro solo dialoga. Segno questo che l'episodio originale marciano, da cui Matteo ha attinto il suo, è stato volutamente modificato in modo tale da renderne anonimi gli attori della vergognosa richiesta.

b) v.24: viene presentata la naturale e significativa reazione da parte del gruppo, che mal vedeva quella loro iniziativa, che li stava prevaricando inaspettatamente.

c) vv.25-28: viene presentata la risposta di Gesù, dai toni catechetici, che richiama da vicino la catechesi impartita ai catecumeni. Si tratta di una sorta di riflessione sapienziale, che si potrebbe definire come “la morale del racconto”, posta a conclusione di un episodio deplorevole, accaduto all'interno del gruppo dei primi discepoli, ma che ora sembra ripetersi anche all'interno della comunità matteana. Questi versetti sono importanti perché stabiliscono i parametri su cui riformulare la propria vita e il proprio modo di rapportarsi agli altri all'interno della comunità.

vv.20-23: questa prima parte del racconto è scandita in due momenti: a) la richiesta da parte della madre (vv. 20-21); b) la risposta di Gesù, intercalata, a sua volta, da una brevissima risposta dei due fratelli (vv.22-23). In questa seconda parte la figura materna scompare completamente per dare spazio ai due anonimi protagonisti.

I vv.20-21 sembrano ispirarsi, o quanto meno ne riproducono sostanzialmente lo schema e il contenuto, al racconto di Betsabea24, una delle mogli del re Davide, che gli diede un figlio, Salomone: Betsabea si inginocchiò e si prostrò davanti al re, che le domandò: <<Che hai?>>. Essa gli rispose: <<Signore, tu hai giurato alla tua schiava per il Signore tuo Dio che Salomone tuo figlio avrebbe regnato dopo di te, sedendo sul tuo trono>>” (1Re 1,16-17). Similmente anche nel racconto di Matteo ci viene presentata la madre dei due fratelli che si prostra, come Betsabea, davanti a Gesù e come lei chiede il trono per i suoi figli. Il sedere uno alla destra e l'altro alla sinistra è una metafora per indicare posizioni di primaria rilevanza nel Regno, che stava per nascere. Una simile richiesta lascia intendere come i discepoli e il loro entourage non avessero ancora compreso il senso della persona di Gesù, della sua missione e a che cosa essi erano stati realmente chiamati. Del resto, a motivo della mentalità concreta dell'ebreo, era difficile anche per i discepoli pensare ad un Regno spirituale, che non fosse di questo mondo (Gv 18,36). Tutte le profezie (2Sam 7,12-13; Mt 22,42), infatti, parlavano di un Regno e di un messia dai tratti storici. Anche l'ascetica comunità di Qumran attendeva l'avvento di Dio e l'instaurazione del suo Regno in termini concreti e storici e si preparava allo scontro finale tra le forze del bene, a cui essa apparteneva per eccellenza, e le forze del male, in termini militari; così come concepivano una pluralità di figure messianiche, ma sempre con sembianze umane e terrene25. Il pensare in termini spirituali comportava per il giudaismo un cambio di parametri culturali non facili da realizzare. I fraintendimenti della figura di Gesù e della sua missione, dunque, erano strettamente legati a questi modelli culturali, che rendevano molto difficile una diversa comprensione. Per questo gli evangelisti sollecitano una radicale conversione e un rinnegamento del proprio modo di pensare e di essere per poter seguire Gesù26.

I vv.22-23 riportano la risposta di Gesù, indirizzata non tanto alla madre, quanto piuttosto ai due fratelli, come lasciano intendere, da questo momento in poi, i verbi alla seconda persona plurale e i soggetti con cui Gesù si relaziona. È una risposta molto sibillina, che va compresa alla luce del terzo annuncio della passione (vv.17-19) e alla sua interpretazione (v.28), entro i quali si colloca. Essa rinvia direttamente alla vera dimensione di Gesù, unica, irripetibile e ineguagliabile e, per questo, umanamente irraggiungibile. La risposta di Gesù è duplice (v.22a e v.23) ed è intercalata da una dichiarazione dei due fratelli (“Possiamo”, v.22b). Con la prima risposta (v.22a) Gesù denuncia, da un lato, la loro incapacità di comprendere la verità della sua persona e del senso della sua missione. Essi lo ritenevano l'annunciato messia regale di discendenza davidica27, venuto per instaurare il Regno di Dio sulla terra, di cui essi volevano, ad ogni costo, avere posti di privilegio. Essi non sanno che cosa chiedono proprio perché non conoscono la vera natura di Gesù e il senso della sua missione, che sta per compiere: la redenzione dell'umanità per mezzo della sua passione e morte (vv.20,28; 26,28); un'impresa divina, non umana. Un senso questo che si contrappone a ciò che i due, invece, miravano: assicurarsi una posizione dominante sugli altri. La prima risposta di Gesù (v.22a), dunque, allude ad una duplice realtà: l'incapacità dei due discepoli, accecati da spinte meramente umane, a comprendere la vera natura di Gesù e della sua missione e, dall'altro, l'impossibilità per i due discepoli di poter eguagliare Gesù nella sua missione salvifica, unica e irripetibile, in quanto divina. In altre parole: voi non avete capito niente; non potete fare ciò che solo io sono in grado di fare e per cui sono venuto, poiché sono uscito da Dio e sto per tornare a Lui (Gv 16,28).

Proprio a motivo di questa loro incapacità di comprensione, distorta da interessi di potere e squisitamente umani, essi rispondono “Possiamo” (v.22b). In altri termini essi si dichiarano disponibili a tutto pur di raggiungere quei posti, tanto agognati. Di certo non pensavano ad associarsi alla passione e morte redentive del loro Maestro, la cui vera natura divina ancora non avevano percepito, né tanto meno pensavano ad un messianismo sofferente e sconfitto sulla croce e, per questo, maledetto da Dio (Dt 21,23b).

Il v.23 riporta la seconda risposta di Gesù, che riconduce nell'alveo della sequela sofferente (16,24) il vero discepolato, la cui finalità non è quella di dominare e prevaricare (v.21), ma di servire sulla scia del Maestro (vv.25-28). Gesù, dunque, conferma che essi berranno al suo calice28, cioè saranno associati al suo destino di sofferenza e di morte. Più che una predizione o una profezia in senso stretto, tale espressione intende sottolineare soltanto il destino proprio del vero discepolo, che non può mai né eguagliare né superare il proprio maestro, poiché “[...] Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20)29. Il compito di Gesù, dunque, è servire il Padre nel suo morire redentivo (Gv 4,34)30, realizzando in ciò il disegno salvifico da Lui pensato fin dall'eternità (Ef 1,4). Non sta a Gesù distribuire posti di governo nel nuovo Regno, inaugurato nella sua persona, poiché Gesù non è il padrone della salvezza, ma il servo che la attua (v.28), in conformità alla volontà del Padre (Gv 4,34), rimandando, invece, i suoi discepoli direttamente al vero Padrone, il Padre, che “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Ef 1,4-7).

Il v.24 evidenzia una volta di più il clima avvelenato, che serpeggiava all'interno del gruppo dei dodici e la cecità con cui essi si muovevano, fra incomprensioni e fraintendimenti. Il resto del gruppo si adirò con i due. Non si tratta di una “santa ira” per la vergognosa richiesta, ma uno sdegno collettivo per essere stati così subdolamente prevaricati dai due, che cercavano di fare agli altri uno sgambetto. E che così sia lo lascia intendere la riflessione dei successivi vv.25-28, rivolti all'intero gruppo. Del resto non è pensabile che tutti avessero capito la vera natura di Gesù e della sua missione all'infuori dei due.

vv.25-28: dopo aver stigmatizzato duramente due comportamenti prevaricatori e iniqui, che agitavano la sua comunità, l'uno che vedeva il vanto e l'orgoglio dei giudeocristiani sugli etnocristiani, ai quali si contrapponevano (vv.1-16); e la rivalità e la prevaricazione per l'accaparramento dei primi posti o di quelli più in vista (vv.20-24), ora Matteo fa una pausa riflessiva, che ha il suo vertice cristologico nel v.28, che diviene normativo per la comunità credente.

La struttura della breve pericope, che si snoda su tre parti, è molto dinamica, come dinamica deve essere la conversione, che richiede al nuovo credente un capovolgimento non soltanto del suo modo di vivere, ma anche del suo modo di pensare e di approcciarsi alla realtà e nel suo relazionarsi agli altri. La struttura si compone di due parametri contrapposti, negativo-positivo (vv.25.28), in mezzo ai quali Matteo pone il pressante invito alla sua comunità a rimodellare il proprio modo di vivere in termini cristologici, passando dal polo negativo a quello positivo:


a) v.25: il parametro negativo, sulla cui lunghezza d'onda si era sintonizzata la comunità matteana: la ricerca del potere da esercitare sugli altri con prepotenza e prevaricazione;

b) vv.26-27: il richiamo alla conversione, che comporta un capovolgimento dei parametri su cui risintonizzare le proprie frequenze. Ricorrono significativamente i termini tra loro diametralmente opposti: grande–servo; primo–schiavo, per indicare il rovesciamento dei modelli comportamentali;

c) v.28: il modello positivo, quello cristologico, su cui riparametrare il proprio modo di vivere e di essere: il servizio per gli altri, fino all'estremo, come nuovo stile di vita.


Il v.25 si apre con una contrapposizione (Ð de, o dè, ma), che aggancia questa breve pericope (vv.25-28) a quanto è stato denunciato nei due racconti precedenti (parabola dei vignaioli e rivalità interne al gruppo) e ne dà il tono; ma nel contempo il v.25 presenta la scena di un Gesù che chiama i suoi. Il verbo usato è “proskales£menoj” (proskalesámenos) ed è composto dalla preposizione “proj” + “kalšw”, che assume un duplice significato “una chiamata di Gesù, rivolta verso i suoi”, sui quali egli incentra la sua attenzione; e “un chiamare i suoi verso di sé”, un invito, quindi, a modificare il loro orientamento di vita dal primo parametro negativo (v.25) a quello positivo (v.28). Già, dunque, nel suo aprirsi il v.25 introduce il lettore al tema della conversione, intesa come un rivolgere la propria vita a Gesù, colto nella sua passione e morte a favore di tutti (v.28).

Il parametro negativo, su cui era sintonizzata la comunità matteana, è composto da “capi dei popoli” e dai “grandi”, qualificati da due verbi significativi: “katakurieÚousin” (katakirieúsin), che significa assoggettare, vincere, dominare, comandare nel senso spregiativo di spadroneggiare; e “katexousi£zousin” (katexusiázusin), che significa esercitare il potere su qualcuno o contro qualcuno. Entrambi i verbi sono posti al presente indicativo, descrivendo in tal modo la situazione del tempo, con particolare riferimento a quella di una Palestina occupata e oppressa dalle forze di Roma, il cui peso era sperimentato quotidianamente sulla pelle del popolo31.

Tale parametro negativo diventa anche una larvata denuncia che stigmatizza, da un lato, il comportamento prevaricatore e prepotente dei due discepoli; dall'altro, quello di quei giudeocristiani, che menavano vanto della loro discendenza abramitica (Mt 3,9) nei confronti degli etnocristiani, creando risentimenti e divisioni. Questo loro comportamento ha, dunque, una comune radice di violenza, che li accomuna con i prepotenti della terra.

I vv.26-27 riportano, con forza e determinazione, il nuovo modo di comportarsi per il quale urge una immediata conversione. L'esigenza dell'immediatezza viene espressa dal modo perentorio e autoritario con cui è introdotto il discorso, finalizzato a stroncare un modo di comportarsi vergognoso e biasimevole: “oÙc oÛtwj œstai ™n Øm‹n” (Uc útos éstai en imîn): “Non così sia in mezzo a voi”. Si tratta di un ordine imperativo, una sorta di comandamento negativo, che ha il suo parametro di raffronto nel comportamento violento ed oppressivo dei signori, che usano del loro potere per angariare e spadroneggiare sui popoli da loro conquistati, rendendoli schiavi. Non così sia in mezzo a voi.

Vengono pertanto dettate le regole comportamentali per coloro che, all'interno della comunità matteana, desiderano assumere incarichi di responsabilità, che, per loro natura, li pongono ai primi posti, in bella vista di tutti. Matteo, quindi, non esclude che vi sia chi aspira a posti di responsabilità né li condanna; questi, infatti, sono necessari per la vita stessa della comunità, per la sua organizzazione e la sua gestione. La questione, invece, verte tutta sulle modalità con cui vengono assunti gli incarichi; su che cosa si cerca nel loro svolgimento: se stessi, la propria affermazione o quella degli altri, gli ultimi? La regola che qui viene dettata si pone in contrapposizione netta al primo parametro (v.25): chi aspira a diventare grande, dovrà essere servo di tutti; e, similmente, chi desidera primeggiare. In tal modo trova il suo compimento il detto che i primi diventano ultimi, così che gli ultimi diventino primi. L'autorità e il potere, pertanto, devono essere spesi per il bene della gente, così che questa venga sostenuta ed elevata. L'autorità, in cui si esprime il potere, deve essere intesa come un servizio per il bene comune all'interno della comunità e della società. Quale sia la natura di questo servizio, infatti, viene espressa dagli stessi sostantivi: “di£konoj” (diákonos – v.26) e “doàloj” (dûlos – v.27). Entrambi i termini in italiano significano servo o schiavo, ma, in greco, il primo (diákonos) accentua maggiormente un servizio dato per prestare aiuto, soccorso, per venire incontro alle necessità delle persone; il secondo, invece, (dûlos) sottolinea maggiormente il senso della sottomissione ed indica lo schiavo per nascita. L'aspirazione alle cariche più alte, dunque, ben venga, ma le regole a cui si deve uniformare il candidato sono due: diakonía (ministero di servizio, del soccorso e dell'aiuto) e duleía (sottomissione, schiavitù, servitù, dipendenza).

Il v.28 come i vv.17-19 risentono della catechesi della primitiva comunità credente e costituiscono una rielaborazione teologica e una ricomprensione del patire e del morire di Gesù. Il v.28 , quindi, va letto in stretta relazione al terzo annuncio (vv.17-19), al quale fornisce il significato e ne dà l'interpretazione autentica.

Se i vv.26-27 hanno delineato i tratti fondamentali, dei quali deve rivestirsi l'aspirante alle alte cariche intracomunitarie (diakonía e duleía), il v.28 indica la cornice, squisitamente cristologica, entro cui devono attuarsi ed essere comprese sia la diakonía che la duleía. Non a caso il v.28 si apre con un avverbio comparativo “ésper” (ósper, come), che, agganciando i vv.26-27, li attrae in sé indicando quali caratteristiche deve avere il servizio del candidato ai posti di prestigio. Non è, dunque, sufficiente servire nei termini indicati dalla “diakonía” e dalla“duleía”, ma è necessario che questi affondino le loro radici più vere e genuine, traendone la loro linfa naturale, nella persona stessa di Gesù, che ha fatto della sua vita una proesistenza, un dono totale a favore di tutti gli uomini: “come il figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita, riscatto per molti”.

Significativa è la definizione che Gesù dà di se stesso: “figlio dell'uomo”, che indica sia il suo messianismo che la sua natura umana32. Gesù, dunque, si presenta come il messia incarnato, così come se lo aspettavano le genti. Tuttavia il suo esserci non è segnato da un potere, che vuol far pesare sugli altri (“essere servito”), ma è in funzione di un servizio da rendere agli altri, che si concretizza nel “dare la sua vita”; un dono, che è qualificato dai due verbi “diakonÁsai kaˆ doànai” (diakunêsai kai dûnai), che dicono le modalità con cui questa vita viene spesa. La vita di Gesù, dunque, si qualifica come una proesistenza, una vita spesa tutta a favore degli altri fino all'annientamento di sé sulla croce, quale massima espressione del dono di sé (Gv 10,11.15; 15,13). Il termine qui usato per dire vita non è “bios”, che indica una vita meramente fisica; non è neppure “z”, che parla di una vita qualitativamente superiore e che nel linguaggio biblico, in particolare quello giovanneo, indica la vita stessa di Dio. Niente di tutto questo. Qui la vita viene espressa con il termine greco “psiché”, che nel contesto neotestamentario indica il vertice del vivere umano, il punto di congiunzione e di saldatura tra spirito e carne e che fa si che l'uomo sia un essere vivente per eccellenza. La “psiché”, dunque, esprime l'uomo nella sua interezza e nella pienezza della sua umanità. E questo dice come il dono che Gesù ha fatto all'uomo è la pienezza della sua umanità divina e della sua divinità umana, il suo Sé umano-divino; un dono che trova il suo vertice irraggiungibile sulla croce, che Giovanni coglie come l'espressione massima della regalità di Gesù33. Quale sia, infine, il senso di questo suo donarsi totale e senza riserve, sottomettendosi pienamente alla volontà del Padre (Fil 2,7-8), lo dice l'espressione“riscatto per molti”34, che è un appellativo qualificante del “dare la sua vita”. Questo, dunque, è il significato del suo donarsi, l'obiettivo del dono, la motivazione prima ed ultima, che sostanzia e giustifica tale dono, espressione estrema dell'amore del Padre (Gv 3,16).

v.29: questo versetto, che potremmo definire di transizione, assolve ad una triplice funzione:


a) narrativamente crea uno stacco con il racconto precedente, introducendo il lettore in una nuova unità narrativa (vv.30-34);

b) inserisce una nota geografica, Gerico35, che nella geografia della Palestina di quel tempo era la porta di accesso verso Gerusalemme. Con questa annotazione, quindi, l'autore ricorda al suo lettore che Gesù è in viaggio verso Gerusalemme, verso quel compimento di sofferenza, morte e risurrezione già richiamati nei vv.17-19. Vedremo, poi, come il cap.21 si aprirà con un'altra indicazione geografica molto significativa, poiché riepiloga in sé tutti i luoghi della passione: “Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, [...]” (21,1). Significativo, infine, quel uscire da Gerico (™kporeuomšnwn aÙtîn ¢pÕ'Iericë, ekporeuoménon autôn apo Iericò), che chiude idealmente il capitolo della sua missione per aprirsi a quello finale e definitivo della sua passione, morte e risurrezione, da tempo ormai annunciato e verso cui è incamminato36.

c) L'ultimo appunto è dato dalla seconda parte del v.29: “lo seguì molta folla”. Il verbo greco ºkoloÚqhsen (ekolútzesen, seguì) contiene in sé il senso di una sequela legata al servizio. Non si tratta, quindi, di un semplice seguire Gesù, ma di un mettersi esistenzialmente a sua disposizione, la quale cosa implica una scelta di vita dedicata e consacrata al Maestro. Più esplicito, e per questo molto significativo, è il v.27,55 in cui si parla delle donne che “avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo”. Anche qui il verbo usato è ¢kolouqšw, che è fatto seguire immediatamente dal verbo “servire”. Si tratta, dunque, di una sequela che implica un servizio (“per servirlo”) o, meglio, si tratta di una sequela che è servizio. Il verbo ¢kolouqšw, infatti, compare nel vangelo di Matteo 16 volte ed è legato quasi sempre alla sequela dei discepoli o implica in qualche modo il seguire Gesù. Non fa eccezione neppure questa volta, in cui Matteo presenta le folle che seguono Gesù, ma forse è meglio dire che si sono poste al suo servizio, allineandosi allo stile di vita del loro maestro, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita, quale riscatto per molti (v.28). Queste folle rappresentano idealmente per Matteo i credenti della sua comunità, che finalmente, compresa la lezione del cap.20, che stigmatizzava le loro rivalità, le loro prevaricazioni e il loro orgoglio, si sono posti alla sequela-servizio del loro Maestro, in cammino verso il Golgota. Come vedremo subito, si tratta di un preludio del racconto di guarigione dei due ciechi, che segue immediatamente il v.29 (vv.30-34).

vv.30-34: Matteo è l'unico evangelista che dà molto spazio ai ciechi, che vengono citati per ben 14 volte in racconti e contesti diversi, contro le sole cinque di Marco e le sette di Luca, mentre in Giovanni il termine ricorre 18 volte, quasi tutte, però, nel lungo racconto del cieco guarito, che da solo occupa l'intero cap.9. La particolare attenzione di Matteo a questa categoria di persone è molto probabilmente dovuta al fatto che essa si presta bene a descrivere l'incapacità di comprensione del mistero di Gesù e la conseguente difficoltà di credere da parte di molti nella sua comunità, formata prevalentemente da giudeocristiani, che opponevano molte resistenze allo staccarsi dalla legge mosaica e tendevano a ricondurre l'evento Gesù al suo interno. La cecità, dunque, per Matteo, ma egualmente è intesa anche dagli altri evangelisti, è il simbolo dell'inintelligenza e dell'incapacità di credere37.

Il racconto di guarigione dei due ciechi, posto a conclusione del cap. 20, è molto significativo ed allude certamente alla situazione della comunità matteana, che doveva soffrire di non pochi conflitti interni, per la presenza di diverse componenti sociali. Vi era una sostanziosa componente di persone ricche o benestanti, che convivevano con il ceto povero, con cui dovevano condividere non solo la fede, ma anche la vita ad essa legata e da questa dipendente; la maggior parte dei componenti della comunità matteana proveniva dal giudaismo, a cui erano molto legati e dal quale non riuscivano distaccarsi completamente, compiendo, così, il passo definitivo verso l'accettazione piena e incondizionata di Gesù; vi era, molto probabilmente, anche una certa quantità di etnocristiani, che erano chiamati a convivere con i giudeocristiani. Due gruppi provenienti da esperienze culturali e religiose completamente opposte e, come è facile immaginare, dovevano sovente entrare in conflitto tra loro. Il cap.20, infatti, è dedicato a questi due gruppi spesso litigiosi e che rischiavano di compromettere la pace, la comunione e l'unità della comunità. Per poter comprendere il racconto della guarigione dei due ciechi è necessario calarsi in quest'ultimo contesto.

I personaggi, che si muovo entro questo breve racconto, sono quattro: i due ciechi, la folla ostile ai due ciechi e, infine, Gesù, la cui azione guaritrice è stata posta al termine del racconto, in quanto punto convergente e risolutivo di ogni problema.

Il v.30 si apre con un avverbio indicativo, di origine redazionale: “Ed ecco”, che svolge una funzione introduttiva, letterariamente molto efficace, ad una nuova unità narrativa, creando uno stacco con quella precedente. È una sorta di sipario che si apre, in cui il lettore viene introdotto in una nuova scena.

Due sono i ciechi. Un numero molto significativo, poiché se da un lato allude ai due gruppi tra loro in contrasto (giudeocristiani ed etnocristiani, vv.1-16), dall'altro richiama le rivalità interne per l'ottenimento di una certa visibilità intracomunitaria (vv.20-28). Il due38, infatti, è il numero che simbolicamente richiama la contrapposizione, la diversità, la divisione e l'inconciliabilità, come per bene e male, luce e tenebre; ma ha insito in se stesso anche un richiamo alla ricomposizione, che riporta all'unità. L'uomo, infatti, è maschio e femmina (Gen 1,27), in contrapposizione l'uno all'altro (Gen 3,16b) a causa del peccato; ma i due ritroveranno la loro unità nel matrimonio, divenendo una sola carne (Gen 2,24); così similmente gli animali entrano nell'unica arca due a due (7,29), creando una sorta di unità voluta dal progetto divino; una unità che rimanda sempre a quella divina. Il due matteano, quindi, se da un lato allude ai gruppi e alle fazioni interne alla comunità, dall'altro lascia intendere che i due possono ricomporsi nell'unico Cristo, qui invocato, significativamente, due volte come Signore e figlio di Davide.

Entrambi i ciechi sono seduti presso la via. Sono persone sedute, persone che si sono fermate e dissociate dal cammino dinamico del resto del gruppo, che sta salendo con il suo Maestro a Gerusalemme, unito a lui nella passione e morte (vv.17-18). Essi, infatti, sono seduti presso la via. Si noti come Matteo indica la via con un articolo determinativo. Non si tratta di una delle tante strade della Palestina, ma è “la via” per eccellenza, quella che Gesù, assieme a quelli che si sono associati a lui (vv.17-18), sta salendo verso il Golgota. Il termine via, infatti, nell'intero cap.20 si riscontra due volte: al v.17, dove Gesù associa a sé i dodici sulla via (™n tÍ Ðdù, en tê odô) che li porta assieme a Gerusalemme (v.18), verso la passione; e qui, al v.30 (par¦ t¾n ÐdÒn, parà tén odón), dove i due ciechi, incapaci di cogliere la verità di Gesù e di accoglierla nella propria vita, conformandosi ad essa, si sono fermati. È la via che tutti i credenti hanno intrapreso, ma che non tutti sanno percorrere, perché è la via dell'abnegazione di se stessi per gli altri, la via del servizio, in cui l'altro riveste un'importanza primaria e il proprio Io è in funzione dell'altro (vv.25-28).

I due ciechi “avendo udito che Gesù passa, gridarono”. È interessante rilevare l'uso dei tempi dei verbi che qui Matteo fa: “avendo udito” (¢koÚsantej, akúsantes) si tratta di un participio aoristo, che rimanda ad un'azione svoltasi nel passato; e il verbo “passa” (par£gei, parághei), posto al presente indicativo, per indicare un'azione che si sta attuando qui nel presente. In altri termini, l'annuncio accolto a suo tempo (akúsantes) e che li ha qualificati come credenti, anche se oggi sono ciechi e seduti lungo il cammino intrapreso con il loro Maestro, risuona ancor oggi e ha ancora il suo peso determinante, capace di muovere i due ciechi e spingerli, ancora una volta, ad invocare insistentemente in un'unica e comune preghiera il loro unico e comune Maestro. Sarà grazie a questa invocazione comune, rivolta all'unico Gesù che hanno accolto nella loro vita, che essi ritroveranno la vista e i due si ricomporranno nuovamente nell'unico cammino, indicato e percorso dal loro Maestro. Gesù, dunque, il Gesù in cammino verso il Golgota, che è venuto per servire e dare la vita per molti (v.28), diventa, all'interno della comunità credente, il polo catalizzatore e unificante, l'elemento che crea unità e comunione e capace di far superare ogni dissenso, ogni rivalità, ogni dissidio, ogni protervia e prevaricazione, sostituendo le logiche del prevalere a quelle del servizio. Il grido dei due ciechi è ripetuto due volte, tanti sono i gruppi in divisione e rivalità tra loro nella comunità matteana, e soltanto nell'unico e comune grido di fede ritrovano il loro comune linguaggio di unità. Si tratta di un'antichissima formula di fede molto ricca e teologicamente densa, che formava e fondava l'identità dei primi credenti nel Risorto: “Abbi pietà di noi, Signore, figlio di Davide”. I due titoli richiamano, il primo, la divinità del Risorto, in cui si viene riconosciuta la Signoria di Dio stesso39; il secondo, la messianicità davidica di Gesù, indicando in lui, in modo inequivocabile, l'atteso dalle genti e l'erede di quanto Natan aveva profetizzato a Davide (2Sam 7,8-16). Si tratta, infine, di una anticipazione di quanto verrà poi proclamato pubblicamente dalla folla osannante: “Osanna al figlio di Davide” (21,9), a cui, ora, si sono associati anche i due ciechi, che, alzatisi, hanno seguito Gesù fino a Gerusalemme (v.34b).

Entrambi i titoli sono preceduti da un'invocazione di misericordia e di compassione per lo stato di degrado fisico e morale in cui i due ciechi versavano: “Abbi pietà di noi”. Anche questa è un'invocazione molto comune presso le primitive comunità credenti e che troviamo numerose volte nei vangeli. Essa, rivolta al Risorto, riconosciuto nella su Signoria divina e nella sua messianicità gloriosa, proclama e testimonia come Gesù, il Signore e il Messia, sia l'unica fonte di salvezza e di perdono, in cui ogni credente ritrova se stesso, rigenerato nel Risorto40, fonte di vita nuova. Ogni miracolo di guarigione, in quanto capace di rigenerare l'uomo ad una vita nuova, restituitagli nella sua integrità originaria, richiama e in qualche modo anticipa gli effetti della risurrezione.

Tra le due invocazioni, Matteo riporta l'annotazione dell'opposizione della folla all'invocazione di perdono e al grido di fede nel Risorto (v.31a). Benché, l'autore rispetti in questo la tradizione dei vangeli41, tuttavia, essa, posta nel contesto del cap.20, viene ad assumere un significato particolare. Probabilmente Matteo sta qui alludendo a posizioni di opposizione, sorte all'interno della sua comunità, contro queste divisioni, provocate da gruppi troppo legati a logiche umane e interessi personali, che provocavano disordini e turbamenti. Posizioni probabilmente radicali, che volevano espellere dalla comunità o, comunque, isolare dalla sua vita questi agitatori. Una resistenza che va, anche questa, superata nella pervicace fede comune (“ma quelli più forte gridarono”), che deve ricomporre tutte le fazioni nella comunione dell'unico Cristo.

vv.32-34: se con i vv.30-31 Matteo presentava la pietosa condizione dei due ciechi, protesi verso Gesù, invocato nella sua divinità e nel suo messianismo davidico, ostacolati dai presenti, che volevano in qualche modo disfarsene, i vv.32-34 collocano il lettore in un clima di toccante serenità e di intimo colloquio salvifico con l'unico possibile salvatore: i due ciechi e Gesù.

Il v.32 mostra tutta l'umanità di Gesù, tratteggiata da due movimenti: Gesù si ferma; Gesù chiede loro cosa vogliono. Il fermarsi di Gesù interrompe, sia pur momentaneamente, il suo cammino verso il Golgota e in questo suo fermarsi lungo la via, si associa in qualche modo alla condizione dei due ciechi, fermi lungo la stessa via e con loro si fa solidale. Il suo fermarsi non è per rinunciare al cammino, ma per risollevare e associare a sé chi si era fermato. È la caratteristica propria della redenzione: Dio si fa uomo per incontrare gli uomini, si assoggetta alle loro debolezze, eccetto che al peccato (Eb 4,15); le fa proprie, si rende solidale con loro (Fil 2,6-8), per riscattarli dal loro degrado spirituale e morale (Gv 3,16; 12,32).

Il secondo movimento vede Gesù rivolgersi direttamente e personalmente ai due ciechi, interrogandoli sui loro desideri più intimi e segreti, rendendosi totalmente disponibili a loro: “Cosa volete che vi faccia”. Gesù si è fermato per loro ed ora è tutto per loro. Siamo di fronte ad un'altra caratteristica qualificante dell'azione redentiva, operata da Dio in Gesù: l'attenzione particolare che Dio, nel suo Figlio, ha posto per ogni singolo uomo. La salvezza non è un atto generico, una sorta di pioggia benefica gettata a caso su tutto e su tutti; non è un'azione spersonalizzata e spersonalizzante, ma è un atto singolo che coinvolge personalmente e singolarmente ogni uomo, che Dio cerca individualmente nel suo Figlio e che in lui interpella, invitandolo a rientrare42; poiché “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Ef 1,4-7).

Il v.33 riporta la singolare richiesta dei due: “Signore, che i nostri occhi si aprano”. La richiesta è singolare perché i due non chiedono di vedere, ma che i loro occhi vengano aperti. Il vedere, infatti, in greco oraw (orao), è la metafora della fede raggiunta e che introduce nel mistero. Ma qui non ci troviamo di fronte a degli increduli che vogliono diventare credenti. Sono persone che hanno operato la loro scelta di vita, sono persone che hanno già udito l'annuncio, che hanno accolto nella loro vita. Per due volte, infatti, invocano Gesù con il linguaggio proprio del credente consumato: “Abbi pietà di noi, Signore, figlio di Davide”. Il problema è che la loro fede è fragile, insufficiente per operare quel salto di qualità che li porti ad un radicale cambiamento di vita e li renda capaci di vedere pienamente. Per questo chiedono non di vedere, ma che la loro capacità di vedere (fede già acquisita) sia definitivamente aperta e li impegni seriamente sulle orme del Maestro, che si è fatto servo di tutti e ha dato la sua vita per molti. Il verbo qui usato, infatti non è orao, bensì ¢nognumi (anoígnimi), che significa aprire, svelare, scoprire. C'è, dunque, sugli occhi della loro fede una sorta di velo, intessuto di orgoglio, protervia, prevaricazione, rivalità, affermazione di sé, che rende impossibile proseguire nel cammino inizialmente intrapreso con il loro Maestro, fondato sull'abnegazione di sé a favore degli altri; sul mettere da parte il proprio Io per dare spazio agli altri; uno spazio fondato sul servizio che impegna tutta la vita.

Il v.34, molto denso, chiude sia il racconto dei due ciechi che il cap. 20, mettendo in rilievo la dominante figura di Gesù e il suo agire salvifico e rigenerante, verso cui sia ciechi che cap.20 convergono. Lo sfondo, quindi, è squisitamente cristologico. Si tratta, infatti, di un versetto, che prelude all'azione salvifica di Gesù, quella del Golgota, ormai imminente, e che sintetizza in sé i tratti fondamentali della storia della salvezza. Il Padre si fa vicino all'uomo nella persona di Gesù, gli tende la mano e lo sospinge ad aprirsi alla sua proposta di salvezza; chi si apre a Lui, accettandola, viene rigenerato alla vita stessa di Dio e gli appartiene, divenendo una nuova creatura nel suo Figlio; l'apertura accogliente verso Dio, che ha associato il credente alla stessa vita divina, deve trovare un'eco profonda nella vita. Posta in questi termini, la storia della salvezza diventa un dialogo salvifico tra Dio e l'uomo, che si attua in Cristo; un dialogo che interpella l'uomo personalmente, spingendolo a prendere posizione e a dare la sua risposta esistenziale (Mc 1,15).

Il versetto è scandito in tre tempi, che sono i tempi propri della storia della salvezza:


a) L'agire di Gesù: si commuove e tocca gli occhi;

b) Gli effetti dell'intervento: subito riacquistano la vista;

c) La risposta dei due ciechi: la sequela.


Il v.34 si apre con un verbo, che sintetizza in sé e testimonia tutta la forza dell'amore di Dio, un amore che coinvolge Gesù nella profondità del suo essere, testimoniando storicamente, quasi facendocelo toccare con mano, tutta la passionalità di Dio per l'uomo: “splagcnisqeˆj” (splancnisteìs), “essendosi commosso”. Il verbo al passivo43 lascia intendere come l'attore principale di questa commozione-compassione, che si agita in Gesù, è lo stesso Padre, che opera nel Figlio (Gv 14,10-11). È una commozione che non parte dal cuore, ma sale dal profondo delle viscere, coinvolgendo Gesù nella sua interezza umano-divina. Non a caso il sostantivo spl£gcanon (splancánon), da cui deriva il verbo splagcaneÚw, significa viscere, le profondità dell'essere umano.

L'aprirsi del v.34 con questo verbo, da cui poi tutto discende, lascia intendere come l'origine della storia della salvezza risiede nell'amore stesso di Dio, che in quel splancnisteìs si rende concreto e raggiungibile dall'uomo. Non si tratta, quindi, di un amore spirituale, ma storico, che si radica nelle stesse viscere di un uomo-Dio e che per questo si rende vicino all'uomo, talmente vicino da poterlo toccare. Ed è proprio questo il secondo movimento di Dio, che raggiunge concretamente l'uomo nel suo vivere quotidiano al punto di toccarlo. Il tocco è ciò che congiunge due esseri, li mette tra loro in comunicazione, provoca delle sensazioni, crea un ponte attraverso il quale passa la stessa vita divina, che filtra e penetra nell'uomo (Mt 9,20-22), che si lascia toccare, e lo rigenera ad una vita nuova, che lo accorpa a Dio stesso e ne fa un suo stretto familiare, figlio nel Figlio (Ef 2,19). Il verbo toccare compare nei vangeli trentuno volte, di cui ben ventisette riguardano i miracoli di guarigione, che avvengono proprio attraverso il toccare di Gesù o dell'ammalato. Un gesto semplice, ma che lascia intendere tutta la vicinanza di Dio all'uomo e come questi sia concretamente da Lui raggiunto. I due si incontrano in questo tocco, da cui fluisce la vita eterna. L'effetto di tale tocco è immediatamente percepibile: “subito riacquistarono la vista”. Si noti come l'evangelista qui non dice che acquistarono la vista, ma la “riacquistarono”. Era una vista, una fede, che i due ciechi già avevano, ma non ancora matura, debole, sovraccaricata da antiche eredità culturali e religiose e incapace di vincerle. Per questo erano ciechi, perché non riuscivano a cogliere la sconvolgente novità dell'evento Gesù. Soltanto l'aprirsi e l'affidarsi a lui nell'umiltà e nella totalità della propria vita, mettendo da parte le pretese del proprio Io e facendogli spazio in sé consente la piena guarigione, che rigenera ad una vita nuova, collocandola nella stessa dimensione divina. Solo dopo questa trasformazione interiore i due ciechi furono in grado di seguire Gesù su quella via che porta a Gerusalemme, verso il Golgota, divenendo pienamente discepoli. Il verbo usato ci è già noto: “ºkoloÚqhsan” (ekolútzesan), che parla di una sequela che si fa servizio, un servizio che porta in sé l'impronta stessa della croce e che fa della propria vita un dono di amore, un pane che si spezza per l'altro.



                                                                                                                                   Giovanni Lonardi




N O T E


1Cfr. Mt 7,6; 15,26; Mc 7,27; Fil 3,2; Ap 22,15.

2Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica – Storia e teologia, op. cit.

3In tal senso, cfr. la voce “Giudaizanti” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), Seconda Edizione 2000

4Matteo nel suo vangelo illustra i vari aspetti del Regno dei cieli attraverso dieci parabole: 1) Il grano e la zizzania (13,24-30); 2) il granellino di senape (13,31-32); 3) il lievito e la pasta (13,33); 4) il tesoro nascosto (13,44); 5) la perla preziosa (13,45-46); 6) la rete gettata in mare (13,47-50); 7) il servo malvagio (18,23-34); 8) i lavoratori chiamati nella vigna (20,1-16); 9) il banchetto di nozze del figlio del re (22,2-14); 10) le dieci vergini (25,1-12).

5L'espressione “casa di Israele” ricorre nell'A.T. 31 volte ed è sinonimo di Israele. Nel linguaggio profetico l'espressione è posta quasi sempre in relazione con Dio, che è sentito come il re e il Signore di Israele (Gdc 8,23; 1Sam 8,4-7; Is 46,3; Ez 20, 32-33; Ger 3,14; 13,11; 18,6; Os 2,18; Ez 20,33; Mi 4,7; Ml 1,6)

6Sul tema della vigna, metafora di Israele, confronta anche Sal 79,9-16; Is 3,14-15; Ger 2,21; 6,9; 8,13; 12,10; Na 2,2

7In questa parabola Matteo suddivide la giornata secondo lo schema romano, che vedeva la giornata divisa in due parti di dodici ore ciascuna: giorno e notte. Ciascuna di queste due parti era, a sua volta, suddivisa in quattro parti di tre ore ciascuna. Il giorno iniziava al sorgere del sole e terminava al tramonto. Il computo delle quattro parti del giorno portava il nome della terza ora, per cui il primo quarto di giornata (ore 6,00-9,00) era chiamato ora terza (ore 9,00 del mattino); il secondo quarto (ore 9,00-12) era l'ora sesta (ore 12,00 del mattino o mezzogiorno); il terzo quarto (12,00-15,00) era l'ora nona (ore 15,00); il quarto quarto (15,00-18,00) era l'ora dodicesima (ore 18,00). La notte, similmente al giorno, era suddivisa anch'essa in quattro parti, denominate vigilie, con riferimento ai turni di guardia.

8Sul significato del numero quattro cfr. il termine “quattro” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, op. cit.

9Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia; la voce “Gentili” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere; tutte le opere citate.

10L'elezione del popolo ebreo da parte di Jhwh è uno dei principi fondamentali di Israele. Fin dall'inizio è presente il tema dell'elezione di Israele in funzione di tutti i popoli. Così con Noè Dio stabilì un patto di pace e riconciliazione con l'umanità (Gen 6,18; 8,15-22; 9,9-17); così con Abramo, in cui vengono benedette tutte le genti della terra (Gen 12,2-3); così con Israele raccolto ai piedi del Sinai e reso da Dio sua proprietà, nazione santa e popolo di sacerdoti (Es 19,5-6); esso è sentito dal trito Isaia come la luce delle nazioni (Is 2,3; 60,1-3). Cfr. anche A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, op. cit.


11Similmente cfr. anche Es 15,22-27 e 16,2-13

12Il verbo “gÒggÚzw” (gonghízo, mormoro) e il sostantivo corrispondente “gÒggusmÒj” (gonghismós, mormorazione) compaiono in tutto l'A.T. 14 volte, tutte poste in un contesto di rivolta contro Jhwh. Similmente verbo e sostantivo compaiono nove volte in tutto il N.T., anche qui in un contesto di atteggiamento avverso contro Gesù.

13Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit. - Cfr. anche Rm 9,30-33; 10,2-3;

14Cfr. Gv 1,17; At 15,11;1Gv 3,5; 2Tm1,9; Tt 2,11;

15In tal senso cfr. At 15,1; Gal 1,6-7; 2,4-5; 2Cor 11,3-5.13; 2Pt 2,1; Tt 1,10-11.

16Per una migliore comprensione ed una visione d'insieme dei tre annunci della passione di Gesù in Matteo, si cfr. il commento ai vv. 17,22-23 – parte quarta -, nella loro parte introduttiva – Pagg. 18-19 della presente opera.

17Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.437, op. cit.

18Cfr. il commento ai capp. 19-23 – prima parte – Introduzione al quarto intermezzo.

19Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico; R. Fabris, Matteo; tutte le opere citate.

20Già più volte si è detto come nel linguaggio biblico neotestamentario i verbi posti al passivo indicano l'agire di Dio. Per questo tale passivo è chiamato teologico o divino.

21Cfr. Mt 4,21; 10,2; 17,2; Mc 1,19.29; 3,17; 5,37; 9,2; 10,35; 10,41; 13,3; 14,3; Lc 5,10; 6,14; 8,51, 9,28; 9,54; At 1,13; 12,2. -

22Cfr. At 12,1-2.

23Cfr. A. Poppi, I quattro Vangeli, commento sinottico; R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo. Tutte le opere citate

24Betsabea era la moglie di Uria l'Hittita, un prode soldato del re Davide. Il re, invaghitosi di sua moglie, lo fece uccidere durante un'azione di guerra contro gli Ammoniti, per poi appropriarsene. La manovra criminale venne denunciata dal profeta Natan e Davide, scoperto pubblicamente, si pentì amaramente del suo peccato. Da questo pentimento nacque il salmo 50. Betsabea, entrata nell'harem di Davide, gli diede un figlio, Salomone, destinato a succedergli. Cfr. 2Sam 11,1-12,10.

25Cfr. “La regola della guerra” in Luigi Moraldi, I Manoscritti di Qumran, Editori Associati, Milano 1986; Ernest – M. Laperrousaz, Gli Esseni secondo la loro testimonianza diretta, Editrice Queriniana, Brescia 1988.

26Cfr. Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23.

27Cfr. Mt 1,1; 9,27; 12,23; 15,22; 20,30.31; 21,9.15.

28Il calice o la coppa sono recipienti con cui l'uomo porta alla bocca dei liquidi che hanno a che fare strettamente con la sua vita, come l'acqua e il vino. In tal modo il calice diviene, in senso simbolico, un mezzo di comunicazione per l'uomo, da cui egli attinge ciò che ha attinenza con la sua vita. Il contenuto del calice può essere buono o cattivo, può essere espressione di benedizione o di maledizione, di gioia o sofferenza, di salvezza o di maledizione. (Cfr. la voce “Calice e Coppa” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, op. cit. L'espressione “bere il calice” diviene, pertanto, una metafora del “vivere una certa situazione o un determinato evento della propria vita”, il più delle volte spiacevole, anche se non necessariamente tale. Il termine calice, infatti, nell'A.T. assume, a seconda dei casi, significati diversi. Esso può divenire metafora della vita (Sal 15,5; 22,5) o di una punizione che sta per attuarsi o eseguita (Sal 74,9; Is 51,17.22; Ger 49,12; Lam 4,21; Ab 2,16) o di un'azione che sta per compiersi o compiuta (Sal 115,13; Ger 16,7). Così similmente nel N.T. Cfr. Mt 20,22.23; 26,39.42; Mc 10,38.39; 14,36; Lc 22,42; Gv 18,11.

29Similmente cfr. Mt 10,24-25; Lc 6,40

30Cfr. anche Gv 5,30; 6,38-40;

31Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico; op. cit.


32L'espressione “figlio dell'uomo” compare circa un centinaio di volte nell'A.T. ed indica l'uomo, in particolare nel suo confronto con Dio, esprimendone tutta la fragilità e la distanza, che lo separa da Lui (Nm 23,19). Sarà soltanto a partire dal Libro di Daniele (Dn 7,13-14) che questa figura, dai tratti misteriosi e trascendentali, verrà identificata con il messia e le prime comunità credenti, ravvisarono in Gesù risorto.

33Cfr. Gv 18,37.39; 19,3.14.15.-

34L'espressione “riscatto per molti” riecheggia il quarto canto del misterioso Servo di Jhwh (Is 52,13-53,12). E' molto probabile che Marco, che per primo usa questa espressione (Mc 10,45), da cui Matteo dipende, avesse presente tale cantico, in cui si parla del soffrire e del morire del Servo di Jhwh in relazione a “molti. Tale espressione “per molti”, quindi, non deve far pensare che la morte di Gesù sia esclusiva e riduttiva. Il sostantivo greco al plurale “pollîn” (pollôn) esprime una grande quantità in senso generico, che ha una valenza inclusiva e sta per totalità (In tal senso cfr. Teodor Costin, Il perdono di Dio nel Vangelo di Matteo. Uno studio esegetico-teologico, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 2006). Tuttavia, non va escluso, a mio avviso, anche un senso restrittivo, poiché se è vero che la redenzione operata da Gesù è a favore dell'intera umanità, in cui è coinvolta la stessa creazione (Rm 8,18-22), vero è anche che tale redenzione è pienamente operante soltanto per coloro che hanno aderito alla proposta di salvezza, che il Padre ha manifestato e offerto nel suo Figlio (Gv 3,16-18). Paolo ricorderà alla comunità di Roma proprio questa universalità della salvezza condizionata, però, dall'adesione alla fede: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco.” (Rm 1,16). Come dire che la potenza di Dio opera la salvezza per tutti (“chiunque”), ma questo “chiunque” non è generico e anonimo, ma è definito dal credere. Del resto Dio, pur offrendo la salvezza indistintamente a tutti, tuttavia non costringe nessuno ad amarlo. Del resto lo stesso S. Agostino affermava che quel Dio che ci ha creati senza il nostro consenso, non può salvarci senza di noi.

35Il nome Gerico deriva quasi certamente da yārēah, che significa luna, con probabile allusione al culto cananeo della divinità lunare. Essa corrisponde all'odierna città araba di Er Riha. Situa a 259 mt sotto il livello del mare, è la città più depressa della terra. Da qui passò il popolo ebreo, proveniente dall'Egitto, e iniziò la conquista della Palestina. - Cfr. la voce “Gerico” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

36Cfr. 16,21; 17,22-23; 20,17-19.

37In tal senso cfr. la voce “cecità” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici; e J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli. Tutte le opere citate

38Sul simbolismo del due cfr. la voce “numero” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e la voce “numeri” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici. Tutte le opere citate.

39Cfr. At 2,36; 10,42; Rm 1,4; 10,9; Ef 1,22; Eb 1,2; 3,6.-

40Cfr. Rm 6,4-11; Gal 6,15; 2Cor 5,17; Tt 3,5; 1Pt 1,3.23.-

41Cfr. Mc 10,48; Lc 18,39.-

42Cfr. Mt 18,12; Lc 15,4.6; Gv 10,3-4.

43Siamo di fronte ad un passivo teologico o divino, che nel linguaggio biblico neotestamentario indica l'agire di Dio.