IL VANGELO DI MATTEO

Quarto intermezzo narrativo

Capp. 19 - 23




Richiami ed esortazioni alla comunità matteana (capp. 19-20)

Atti di accusa e polemiche roventi contro il giudaismo (capp. 21-23)






Introduzione al quarto intermezzo


Il quarto ed ultimo intermezzo, che comprende i capp. 19-23, segna, nell'ambito dell'economia narrativa di Matteo, una svolta decisiva tutta orientata verso il Golgota ed è scandita dalle numerose tappe del viaggio, che da Cafarnao portano Gesù e i suoi discepoli verso Gerusalemme, dove gradualmente il lettore viene introdotto nei misteri della salvezza. Al v.17,24, infatti, Gesù assieme ai suoi si trova a Cafarnao, dove, dopo l'episodio degli esattori delle tasse, pronuncia il quarto discorso (cap.18). Al v.19,1b, terminato il discorso, Gesù muove decisamente verso Gerusalemme: “Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano”. Questa indicazione geografica è molto importante poiché dà il tono all'intero quarto intermezzo, che va, pertanto, letto e compreso alla sua luce; si tratta, infatti, di un cammino verso la passione, morte e risurrezione di Gesù, che portano a compimento la sua missione redentrice. Si tratta, quindi, non di una meta geografica, bensì teologica, costituendo il vertice della storia della salvezza, che si sta per compiere. All'interno di questo cammino, l'autore ne indica al suo lettore il significato ai vv.20,17-18, dove si associa il salire a Gerusalemme di Gesù con il suo patire, morire e risorgere, che l'evangelista coglie qui come un servizio di redenzione a favore dell'umanità (v.20,28). Sempre durante questo viaggio, carico di arcani significati, Matteo aiuta a comprendere, con i vv.21,1-11, come il cammino di Gesù verso la croce non è un incedere verso una vergognosa e irreparabile sconfitta, ma il rivelarsi pubblicamente della sua vera natura di messia e di re, che parla a nome e per conto di Dio, e per questo è riconosciuto come “il profeta” per eccellenza (21,11). Al v.21,12 Gesù, dopo essere entrato a Gerusalemme, sia addentra ancor di più, fin nel suo cuore: il Tempio, dove ricorda come questo è la casa di suo Padre e, pertanto, anche la sua, dichiarandosi in tal modo, implicitamente, vero figlio di Dio. Da questo momento, Gesù entrerà ed uscirà dal Tempio per due volte, quasi a volerne prendere possesso (21,12.17.23; 24,1). E' significativo, infatti, come Matteo evidenzi il fatto per la prima volta in tutto il suo racconto.

E che questo sia un cammino verso il Golgota lo ricordano anche sia la densità della polemica di questi capitoli, che non trova pari in tutto il vangelo matteano, sia l'insistente rilevare come le autorità religiose, sentendo ormai insopportabile la presenza di Gesù, congiurano per eliminarlo1.

Questo quarto intermezzo si sviluppa su due direzioni: la prima, formata dai capp. 19-20, è rivolta alla comunità matteana. Qui il tono è squisitamente pastorale e parenetico, molto evoluto su di un piano spirituale e morale, in quanto pregno di una spiritualità del tutto nuova per quel tempo. Si prospetta, infatti, una rinuncia alla santità del matrimonio e ai beni terreni per consacrarsi totalmente al Regno e alle sue esigenze, con animo semplice e disponibile (cap.19); ma vi è anche un deciso richiamo all'umiltà e al servizio verso gli altri, che ha come parametro di raffronto lo stesso donarsi di Gesù sulla croce (cap.20). La seconda direzione, data dai capp. 21-23, è indirizzata al giudaismo, così come espresso dai suoi capi. Qui la tensione è palpabile ed è un formidabile atto di accusa contro il formalismo cultuale, l'impenetrabile incredulità di fronte ai persistenti messaggi e richiami, provenienti sia dal Battista che da Gesù. Vengono denunciati la disponibilità del mondo pagano verso Gesù e il rifiuto del giudaismo, che sta armando la sua mano contro di lui (21,1-22,14). L'atto di accusa, dopo aver colpito la durezza di cuore e la cecità dei capi dei giudei, che rifiutarono persistentemente la novità dell'evento Gesù, passa, con il cap.23, a colpire nel cuore lo stile di vita del giudaismo, evidenziandone le gravi contraddizioni interne, che ne inficiavano la validità, dichiarandolo implicitamente incapace di rendere un vero culto a Dio e tale da coinvolgere il popolo nel cuore e nella vita.


Analisi e commento al cap. 19


Le nuove prospettive del Regno:

Il matrimonio ricondotto alla sua santità originale;
divorzio come attentato all'ordine stabilito dalla creazione;
la rinuncia al matrimonio e ai beni terreni
per il Regno dei cieli.
Solo i semplici di cuore ne possono comprendere
il valore e l'importanza




Introduzione

Questo capitolo, come il seguente, Matteo lo ha riservato alla sua comunità, indicandole la via della perfezione (cap.19) e quella dell'umiltà nel servizio (cap.20), che ha la sua giustificazione e il suo parametro di raffronto nel Gesù sofferente fino alla morte di croce (20,17-19.28). La riflessione che si sviluppa in questi capitoli è molto profonda ed evoluta su di un piano morale e spirituale e sembra essere, oltre che una forte spinta alla crescita verso il Regno, anche una sorta di testamento spirituale, che Matteo vuole lasciare alla sua comunità. Essa ha, infatti, al suo interno dei seri problemi sia morali che di relazione. I quattro racconti2, che compongono i due capitoli, infatti, hanno quasi certamente il loro sitz im leben3 proprio all'interno della comunità stessa.

La struttura del cap. 19 segue uno schema abbastanza semplice, che ha il suo cuore nei vv.13-15; questi formano la chiave di lettura dell'intero capitolo. Lo schema si sviluppa su due racconti (vv.3-9 e vv.16-22), seguiti entrambi da alcune riflessioni articolate ad essi legate (vv.10-13 e vv.23-29), che costituiscono il pregio di questo capitolo.

La struttura del cap. 19:


A) vv.1-2: sono versetti di transizione che chiudono il cap.18 (v.1a) e traghettano il lettore verso una nuova sezione narrativa (vv.1b-2);

B) vv.3-12: viene presentato il primo episodio. Si tratta di una diatriba sul divorzio, che mette in luce una nuova comprensione del matrimonio, riportato al suo stato originario (vv.3-9). Essa, se da un lato denuncia una certa situazione intracomunitaria, dall'altro costituisce l'occasione da cui l'autore trae la sua riflessione, prospettando ai suoi ascoltatori un nuovo indirizzo di vita in favore del Regno (vv.10-12), diverso dal matrimonio;

C) vv.13-15: una sorta di intermezzo, la cui finalità è mettere in luce il giusto atteggiamento da tenere nei confronti del Regno, per comprenderne le esigenze: disponibilità accogliente nella semplicità e nella fiducia.

D) vv.16-29: viene presentato il secondo episodio, quello del giovane ricco che cerca la via della perfezione, indicata da Gesù nella spogliazione dei propri beni e nella sequela (vv.16-22). Anche questo racconto ha il suo sitz im leben nella ricca e benestante comunità matteana4, probabilmente molto legata agli affari, che mal si combinavano con il nuovo stile di vita abbracciato con il discepolato. Il racconto, come il precedente, se da un lato colpisce la comunità nella sua debolezza, dall'altro diventa motivo per una duplice riflessione: a) l'attaccamento alle ricchezze e ai beni materiali in genere creano difficoltà e ostacoli nei confronti del Regno e delle sue esigenze, al punto tale da diventare tra loro incompatibili (vv.23-26); b) la ricompensa spirituale per chi ha abbandonato tutto per il Regno (vv.27-29).

E) Il v.30 è posto in chiusura al cap.19, ma in realtà non ha molto a che vedere con questo e sembra piuttosto un'aggiunta postuma. Di fatto è legato con il racconto successivo (20,1-16), delimitato dall'inclusione data dall'espressione posta in 19,30 e 20,16. è, comunque, un versetto di transizione.


Il commento


v.1: questo versetto è scandito in due parti: la prima, v.1a, chiude il quarto grande discorso di Gesù (cap.18), creando in tal modo uno stacco netto con la sezione precedente; mentre la seconda parte del versetto, v.1b, con una segnalazione di tipo geografico, introduce il lettore in una nuova sezione narrativa. Questa seconda parte, tuttavia, assume un'importanza di particolare rilievo teologico, poiché dà una svolta radicale alle vicende riguardanti la missione propria di Gesù. Egli, infatti, “partì dalla Galilea e andò ai confini della Giudea, al di là del Giordano”. Gesù, dunque, abbandona la sua terra, che è stata teatro del suo primo annuncio, e con fare deciso si muove verso Gerusalemme, luogo dove la sua missione troverà il suo pieno compimento e dove si attueranno i misteri della salvezza. Luca, l'evangelista che meglio sottolinea l'importanza e il valore teologico e soteriologico del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, a cui dedica ben dieci capitoli del suo vangelo (Lc 9,51-19,28), che ne conta ventiquattro, sottolinea con forza come l'inizio di questo viaggio fu intrapreso da Gesù con decisa fermezza. L'espressione usata da Luca associa l'incamminarsi di Gesù verso il suo drammatico destino a quello proprio del Servo di Jhwh5, creando in tal modo una identificazione tra i due ed evidenziando nel contempo come in Gesù si attuava la profezia isaiana: “Avvenne che compiendosi i giorni della sua assunzione, indurì il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme” (Lc 9,51). L'intero quarto intermezzo, pertanto, va letto e compreso entro questa cornice di geografia teologica, che lascia intravvedere, quasi in filigrana, il dramma che si sta compiendo e che in qualche modo è lasciato trasparire dalla forte polemica, che anima in particolare i capp. 21-23, preannunciando contemporaneamente i toni drammatici del quinto ed ultimo grande discorso di Gesù, che occuperà per intero i capp.24-25. Il viaggio geografico, che inizia a Cafarnao (Mt 17,24), si compie al di là del Giordano, attraversando la Decapoli e la Perea, per poi entrare in Giudea, riattraversando il Giordano all'altezza di Gerico e, passando per questo, si sale, con un'impennata di circa 1000 metri6 verso Gerusalemme. È il percorso che in genere compiono i pellegrini che vengono da fuori Palestina, ma che Gesù, invece, compie probabilmente per evitare di passare per la Samaria, regione notoriamente ostile ai giudei7.

v.2 Il muoversi di Gesù verso il compiersi dei misteri della salvezza non avviene in drammatica solitudine, ma numerose sono le folle che l'accompagnano. È significativo questo grande movimento di masse di persone (Ôcloi pollo…, ócloi polloí), che assieme a Gesù camminano verso i luoghi della loro redenzione. È proprio questo grande movimento attorno a Gesù, che dà il senso dell'universalità della salvezza, che si sta per compiere e che investe tutti coloro che si uniscono a Gesù e decidono con lui il santo viaggio. Un salmo dell'ascensione, che accompagnava i pellegrini verso Gerusalemme, verso il tempio del Signore, cantava: “Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L'anima mia languisce e brama gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio. Beato chi abita la tua casa: sempre canta le tue lodi! Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio. Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente, anche la prima pioggia l'ammanta di benedizioni. Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion. Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera, porgi l'orecchio, Dio di Giacobbe. Vedi, Dio, nostro scudo, guarda il volto del tuo consacrato. Per me un giorno nei tuoi atri è più che mille altrove, stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi. Poiché sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine. Signore degli eserciti, beato l'uomo che in te confida” (Sal 83). E' questa tensione verso Gerusalemme, questa attrazione verso il Tempio, che riempie l'animo del pellegrino e che risuona in questo santo viaggio, che Gesù sta compiendo, accompagnato da una nuova umanità, che ha deciso la propria vita con lui e per lui. Si tratta di una sorta di pellegrinaggio, a cui l'intera umanità è chiamata, un cammino verso quella nuova Gerusalemme (Ap 3,12; 21,2), dove il tempio è sostituito da Gesù stesso (Gv 2,19-21), che nella sua passione, morte e risurrezione ha attratto a sé tutti gli uomini (Gv 12,32). La nuova città santa dove non c'è più “[...] bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello” (Ap 21,23); dove “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5). E che questa sia la visione, che Matteo sembra avere in questo v.2 o che comunque lascia intuire in qualche modo, viene dato dalla struttura stessa di questo versetto e dai termini che l'autore usa. Il versetto è diviso in due parti: da un lato vengono presentate numerose folle che accompagnano Gesù; dall'altro Gesù le guarisce. Due movimenti che sono l'uno conseguente all'altro. L'accompagnamento di Gesù verso Gerusalemme da parte delle folle è espresso da Matteo con il verbo “ºkoloÚqhsan” (ekolútzesan), che dice ben di più che un semplice accompagnare, lasciando intravvedere altri aspetti concomitanti a questo accompagnamento, come seguire, tener dietro, andare assieme, lasciarsi guidare, aderire, servire, mettersi a disposizione. Sono folle, quindi, che hanno già operato una loro scelta di vita a favore di Gesù e che qui hanno attuato in se stesse l'ammonimento del loro Maestro: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (16,24). Anche qui il verbo “seguire” è espresso con il corrispondente greco “¢kolouqe…tw” (akolutzeíto). Sono folle che hanno associato, quindi, la loro vita al destino di Gesù, riproducendolo nella loro vita8. Esse sono un'immagine dei futuri credenti. La conseguenza di questo tipo di sequela è indicata nella seconda parte del v.2: “e là le guarì”. La guarigione qui operata da Gesù non va intesa come una guarigione miracolosa di ammalati. Qui non si parla di ammalati, ma di folle che hanno seguito Gesù, sono state associate alla sua passione e morte (ºkoloÚqhsan) e che sono state da lui guarite. Oggetto, quindi, di questa guarigione non sono gli ammalati, bensì le folle. Il testo greco, infatti, dice “kaˆ ™qer£peusen aÙtoÝj ™ke‹” (kaì etzerápeusen autùs ekeî), cioè “e là le guarì”. Una guarigione che in questo contesto è metafora e sinonimo di redenzione. Due sono gli elementi che portano a questo: il verbo “ºkoloÚqhsan”, che qualifica le folle come coloro che si sono associati a Gesù nel suo cammino verso Gerusalemme; e l'avverbio “là” (™ke‹), che va riferito a Gerusalemme, dove si compiranno i misteri della salvezza, dove il Gesù giovanneo ricorderà: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Quel “là”, infatti, è strettamente legato alla metà precisata nel v.1b, verso cui è diretto Gesù assieme alle folle e indica il luogo da cui defluirà la redenzione per tutti i credenti.

I vv.1-2, pertanto, formano la cornice introduttiva dell'intero quarto intermezzo, dando una svolta radicale alla missione di Gesù, che punta direttamente verso il Golgota, dove si compirà la redenzione per tutti coloro che hanno operato la loro scelta esistenziale per Gesù, lasciandosi associare alla sua passione e morte9. Si noti come Matteo ha un concetto di redenzione che è relativamente universale, nel senso che la salvezza è offerta indistintamente a tutti gli uomini, ma essa sarà operativa ed efficace soltanto per coloro che si sono resi disponibili e accoglienti verso di essa, conformando il loro vivere alle nuove esigenze di Dio, manifestate nel suo Cristo. Anche qui, due sono gli elementi che portano a concludere questo concetto di universalità relativa della salvezza: il primo è dato proprio dal v.2, in cui compaiono molte folle che si sono associate alla passione e morte di Gesù, per questo sono state guarite, cioè redente. Il secondo elemento è indicato dai vv.20,28 e 26,28 da dove si evince come il sacrificio di Gesù e la nuova alleanza instaurata nel suo sangue è data “per molti”. Non per tutti, quindi, ma “per molti”. Questa esclusione dalla redenzione per chi non rientra nei molti non è selettiva e riduttiva, né sa di predestinazione, ma è soltanto condizionale, poiché presuppone una disponibilità accogliente da parte di chi vi vuole accedere. L'offerta è indistintamente universale e rispecchia l'universale volontà salvifica di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4), infatti “E' apparsa [...] la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,11-13); una salvezza, che se offerta a tutti gli uomini è tuttavia riservata soltanto a quelli che credono, cioè a coloro che hanno operato la loro scelta esistenziale per Dio: “Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono” (1Tm 4,10).

vv.3-12: con questi versetti l'autore introduce il suo lettore nel vivo del quarto intermezzo (capp. 19-23), che si apre significativamente con una diatriba; essa mette in contrapposizione i rappresentanti del mondo giudaico con Gesù e preannuncia lo scontro finale, che si concluderà sul Golgota. Non a caso compare proprio qui, al v.3a, il verbo “peir£zontej” (peirázontes), mettere alla prova, tentare, che si ripeterà altre due volte in questo quarto intermezzo (22,18.35). Gesù, dunque, è sottoposto alla prova da parte dei Farisei, che prelude ad un'altra prova verso cui egli, assieme alle folle, che si sono associate a lui, si sta dirigendo.

La struttura di questa pericope è scandita in tre parti:

a) vv.3-9: viene esposta la prima diatriba delle sei10, che animeranno questa sezione (19-23) e riguarda l'indissolubilità del matrimonio, ma costituisce anche l'occasione per introdurre una riflessione rivoluzionaria circa uno stato di vita alternativo al matrimonio;

b) v.10: potremmo considerarlo come un versetto di transizione, perché da un lato chiude la diatriba sull'indissolubilità del matrimonio; dall'altro introduce la successiva questione sul celibato;

c) vv.11-12: viene prospettato una nuova condizione di vita, alternativa al matrimonio e in funzione del Regno dei cieli.


I vv.3-9 propongono una diatriba sullo stile delle dispute farisaiche, che è scandita in due parti:

a) vv.3-6: alla domanda che imposta la questione (v.3), viene controbattuto con un'altra domanda, che fa appello all'autorità scritturistica (v.4) a cui fa seguito la sentenza conclusiva (vv.5-6);

b) vv.7-9: ripresa della disputa da parte del primo interlocutore, che si appella all'autorità di Mosè (v.7); controrisposta di Gesù, che contrappone l'autorità mosaica a quella scritturistica (v.8); la sentenza finale, che provocherà scalpore tra i discepoli (v.9).


Il v.3 si struttura su due parti: la prima presenta la scena dei farisei, che si accostano a Gesù per tentarlo; la seconda introduce la questione del ripudio, che dà corpo alla prova, a cui è sottoposto Gesù. Nella prima parte del versetto vi sono due termini, “prosÁlqon, prosêltzon” e “peir£zontej, peirázontes” che agganciano questa prova a quella che è la matrice di tutte le prove11: le tentazioni di Gesù nel deserto (Mt 4,1-11). Là, Satana, definito come colui che tenta (peir£zwn, peirázon), si avvicina a Gesù (proselqën, proseltzòn) per metterlo alla prova. Similmente anche i Farisei sono coloro che si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova. Da quel momento per altre quattro12 volte compare il verbo peir£zw, riferito sempre ai Farisei nei loro rapporti con Gesù; si viene a creare, in tal modo, una sorta di parallelismo tra Satana, il tentatore, e i Farisei, che attuano le tentazioni, ponendosi, in tal modo, al servizio del Tentatore per eccellenza, la fonte di ogni prova rivolta contro Gesù. Luca, infatti, lascia intendere proprio questo aspetto, quando conclude il suo racconto delle tentazione con l'annotazione “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato” (Lc 4,13). E', dunque, Satana, secondo la lettura degli evangelisti, l'orchestratore di ogni attività contro Gesù13, mentre le autorità religiose giudaiche sono quelle che ne danno corpo.

La seconda parte del v.3 introduce una questione molto dibattuta all'epoca: “E' lecito ad un uomo ripudiare sua moglie per qualsiasi motivo?”. La questione non è nuova, ma viene ripresa, almeno in parte, dai vv. 5,31-3214 e qui portata a completamento. La domanda posta dai Farisei fa riferimento alle disposizioni di Dt 24,1-4, che per la loro genericità e ambiguità, avevano dato adito a molteplici posizioni giuridiche circa il divorzio. Nel I sec. d.C. sulla questione si erano formate sostanzialmente due posizioni contrapposte, che ruotavano entrambe attorno all'interpretazione della disposizione deuteronomica di 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio15 e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”. Su tale disposto, la scuola rigorista di Shammai16 prevedeva il divorzio solo in caso di adulterio (“qualcosa di vergognoso”); quella più permissiva della scuola di Hillel prevedeva la possibilità di divorziare anche per motivi meno gravi o futili, come il lasciar bruciare il cibo cucinato. La posizione di Hillel non deve scandalizzare poiché trovava la sua giustificazione sul concetto di vergognoso nella donna, proprio di quel tempo. Era considerata, infatti, condotta vergognosa per una donna sposata e tale da giustificare il divorzio senza pagarle la Kethubah17, ad esempio, il suo andare in pubblico a capo scoperto. Infatti, all'atto di sposarsi, la donna si copriva i capelli e, da allora, si considerava una forma di grave immodestia lo scoprirli18. Altri casi simili erano il filare per strada o il conversare in pubblico con un qualche uomo, il maledire i figli di suo marito in sua presenza o il parlare ad alta voce in casa, così che i vicini potessero udire ciò che essa diceva. Sulla stessa linea lassista era la posizione di Rabbi Aqiba, il quale, interpretando l'espressione deuteronomica “se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi” (Dt 24,1), affermava che si poteva ripudiare la propria moglie anche nel caso in cui il marito ne avesse trovata una più graziosa19. L'interpretazione di Hillel, pertanto, rispecchiava molto bene il sentire di quel tempo e prevalse su quella più rigorista di Shammai e venne adottata come legge. Per questo i Farisei, rivolgendosi a Gesù pongono la questione, che rispecchia la posizione hilleliana: “E' lecito ad un uomo ripudiare sua moglie per qualsiasi motivo?”.

vv.4-6: Il problema posto dai Farisei riguardava esclusivamente la questione giuridica del divorzio e l'ampia e dibattuta casistica che lo consentiva, rendendolo giuridicamente valido. Per la verità, la formulazione della domanda (“per qualsiasi motivo”) era provocatoria e doveva spingere Gesù a schierarsi a favore di una delle due posizioni all'epoca più diffuse: scuola shammaita o hilleliana. Qui sta la prova a cui è sottoposto Gesù (v.3a). Egli è chiamato a schierarsi secondo le logiche degli uomini, togliendogli, quindi, quel alito divino che rendeva nuove tutte le cose (Ap 21,5a), come era fin da principio (Gen 1,31). L'abilità di Gesù consistette nello spostare il problema dal divorzio al matrimonio (v.4). Una volta compreso il senso più vero e profondo del matrimonio, si comprenderà allora la vacuità e la blasfemia del divorzio, che in se stesso è dissacrante e profanatore della creazione e trova la sua origine nella colpa adamitica, che ha separato l'uomo da Dio, contrapponendolo ad Esso, così che i due (Dio e l'uomo) non furono più una cosa sola.

Alla questione posta dai farisei Gesù, sullo stile delle dispute rabbiniche, risponde con un'altra domanda (v.4), che trova la sua soluzione ai vv 5-6. La risposta, apparentemente semplice, ma dottrinalmente complessa, si articola su tre livelli:

a) v.4: viene posto un richiamo biblico, che riconduce la questione non più a Mosè, ma alle origini della creazione stessa: “colui che ha creato da principio”, spostando nel contempo il problema dal divorzio al matrimonio;

b) v.5: riporta la prova scritturistica a sostegno della tesi gesuana, che si richiama a Gen 2,24;

c) v.6: è scandito in due parti: 1) ripresa, sotto forma di riflessione, di Gen 2,24b, finalizzata a sottolineare la profonda unità della coppia: “così che non sono più due, ma una carne sola”. Questa prima parte del v.6 (6a) è preparatoria alla seconda (6b) e ne forma la motivazione; 2) sentenza finale, che conclude la questione e ne dà la risposta.

Il v.4 si richiama al dato biblico di Gen 1,27 e sposta nel contempo la questione dai dettami di Mosè a quelli propri di Dio. Gesù, dunque, si appella a Dio stesso, circoscrivendo in tal modo l'autorità di Mosè, facendola dipendere dalla Scrittura. È un duro attacco alla stessa autorità mosaica, ritenuta per principio espressione massima della stessa volontà divina. Gesù, invece, la scinde, innescando un confronto tra Dio e Mosè, tra ciò che è frutto di tradizione umana e ciò che è volontà divina: la prima va asservita e ricondotta alla seconda. Non tutto ciò che Mosè ha detto, quindi, è sacro e inviolabile, ma trova la sua autorità prima ed ultima, la sua autorità fondativa e giustificativa soltanto in Dio. I Farisei colgono questo aspetto e rilanceranno al v.7 la questione dell'autorità mosaica e ne chiederanno conto a Gesù. Anche quest'ultimo aspetto costituisce una prova per Gesù, poiché egli è chiamato a pronunciarsi sull'autorità stessa di Mosè, che aveva messo in discussione con la sua sentenza del v.6b.

Il v.4, quindi, riconduce le cose alla loro origine, al loro senso primo e più vero: “[...] colui che ha creato da principio li fece maschio e femmina”. Il problema del divorzio, quindi, va ricompreso alla luce del matrimonio, così come concepito da Dio stesso nel suo primordiale atto creativo. Il matrimonio, pertanto, ancor prima di essere un contratto tra uomini è disposizione divina, che trova la sua configurazione nell'essere proprio dell'uomo, maschio e femmina.

Il versetto si scompone in tre parti:

  1. Non avete letto”, espressione che reindirizza gli interlocutori di Gesù da Mosè, a cui essi si riferivano con la questione da loro posta al v.3b, all'autorità stessa di Dio. In tal modo Gesù sgancia il giudaismo dalla dipendenza mosaica e lo riconduce alla purezza della sua origine, che si colloca in Dio stesso. È da qui che esso deve ripartire.

  2. che colui che ha creato”, l'espressione è la traduzione del participio aoristo “Ð kt…saj” (o ktísas) di tipo incipiente, che colloca, cioè, l'azione nella sua origine, nel suo nascere e che richiama da vicino il primo versetto della Genesi: “In principio Dio creò”. In principio, quindi, ci sta Dio da cui tutto dipende e da cui tutto discende. Il tentativo che Gesù qui sta compiendo è quello di ricondurre il giudaismo alla purezza della volontà divina e far sì che si scrolli di dosso il peso di secoli di tradizione mosaica, ormai infarcita di adattamenti umani, in cui l'originaria volontà divina è stata trasfigurata e ridotta a mere dottrine di uomini (Mt 15,9), perdendo il suo splendore primordiale.

  3. da principio li fece maschio e femmina”. Il richiamo qui è a Gen 1,27: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. L'espressione temporale “da principio” è resa in greco con “¢p' ¢rcÁj” (ap'archês), che indica un principio di tipo storico, che rimanda direttamente all'ordinamento originale della creazione, così come uscita dalle mani di Dio, il quale “vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a), poiché Egli si rifletteva in tutto; tutto era incandescente di Lui. Tutto, quindi, e ancora una volta, va ricondotto e ricompreso entro il quadro della primordiale creazione, da cui è nato l'uomo nel suo duplice aspetto di maschio e femmina; un'unica realtà da due non contrapposte, ma complementari sfaccettature. È significativo, infatti, il decreto divino di Gen 1,27 in cui Dio decide di creare l'uomo a sua immagine e questa immagine si rivelerà essere maschile e femminile nel contempo. Si noti come qui l'autore sacerdotale non dice che creò l'uomo e la donna, ma maschio e femmina. Creò, quindi, l'umanità conformandola ai due aspetti che sono unitamente presenti in Dio, la mascolinità e la femminilità. Una mascolinità e una femminilità che Egli ha impresso, quale segno indelebile di Se stesso sull'umanità, associandola, in tal modo, alla sua stessa immagine, facendola essa stessa, come Lui, sorgente di vita. Un'umanità, quindi, che è riflesso stesso di Dio. Non sono due realtà tra loro rivaleggianti, ma in perfetta comunione tra loro. Per questo Dio è la sorgente stessa della vita e la vita defluisce continuamente da Lui. Così l'umanità, maschio e femmina, è chiamata alla perfetta unione-comunione e soltanto in questa perfetta comunione essa si fa fonte della vita, in cui è impressa l'impronta stessa di Dio. Mascolinità e femminilità, pertanto, trovano il loro senso e la loro vera e unica identità soltanto nella perfetta unione-comunione, riproducendo in tal modo in se stessa la divinità, lasciandone trasparire l'immagine. Scindere i due aspetti dell'umanità, contrapponendoli l'uno all'altro o, peggio, asservendoli l'uno all'altro, significa dissacrare e profanare quella sacralità divina che vede nella loro perfetta unione-comunione il rivelarsi stesso di Dio. Che cosa ciò significhi concretamente e come esso si esprima storicamente, viene detto al v.5.-

Il v.5, quindi, dà attuazione a quel principio trascendentale di mascolinità e femminilità, che defluisce direttamente da Dio e si trasfonde e si imprime nell'uomo, divenuto in tal modo maschio-femmina, reso così immagine di Dio, sua impronta nella storia: “Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e sarà unito a sua moglie e i due saranno in una carne sola”. La consequenzialità, come di causa ed effetto, è significata dall'espressione ““Eneka toÚtou” ('Eneka tútu): “Per questo motivo”. Ci si aggancia, quindi, all'enunciazione dottrinale del v.4, da cui il v.5 dipende e ne diventa logica conseguenza. Significativo quel “sarà unito” (kollhq»setai, kolletzésetai), un verbo posto al passivo, che nel linguaggio biblico indica l'azione propria di Dio. L'unione dell'uomo alla sua donna non è, dunque, frutto di un decisione umana, bensì di una volontà divina, che attua, proprio in questa unione, che si fa comunione, la sua stessa immagine di maschio-femmina. Questa unione-comunione maschio-femminea, d'impronta divina e defluente da Dio stesso, trova la sua attuazione storica nella unione-comunione della carne, tipizzata come maschio e femmina; una unione tale che assimila l'uomo a Dio, diventando i due una carne sola. I due principi della mascolinità e della femminilità, che tipizzano l'intera umanità, sono da Dio stesso ricondotti e ricollocati in Se stesso (kolletzésetai), così che l'uomo e la donna, quasi perdendo le loro singole e diverse identità, si ritrovano in un unico essere carnale, così come Dio, nei suoi due principi di mascolinità-femminilità tra loro in perfetta unione-comunione, si ritrova un unico Essere identico a Se stesso e fonte primaria di vita.

Il v.6 porta a conclusione il complesso impianto ragionativo innescato dai vv.4-5: “così che non sono più due, ma una carne sola”. Non ci sono più due esseri tipizzati in maschio e femmina, non c'è più uomo e donna, non ci sono più due identità, ma la mano divina, che ha posto il sigillo dell'unione-comunione sui due esseri, li ha trasformati in una nuova realtà, in una nuova creatura: una carne sola, che rispecchia in se stessa l'unicità divina. Tutto ciò premesso (vv.4-6a) eccone la conseguenza: “Pertanto, ciò che Dio ha unito, l'uomo non separi”. Quel “Pertanto” (oân, ûn) dà alla sentenza un senso conclusivo e assoluto, imprimendole una valenza divina che rimanda a Dio l'unione-comunione dell'uomo e della donna. Se tutto ciò è opera di Dio, l'uomo non deve permettersi di contrastarla e tantomeno di distruggerla, diversamente tale opera divina verrebbe posta dall'uomo sotto il segno della sua colpa, che lo porterà nel tempo non solo alla perdita della propria identità, del senso del suo essere, ma alla distruzione della stessa società, che su questa nuova creazione è fondata e benedetta, resa pertanto feconda da Dio stesso (Gen 1,28), di cui essa è immagine (Gen 1,27).
Gesù, dunque, dà una nuova visione del matrimonio, riconducendolo alla sua origine, così come defluito da Dio nel suo primordiale atto creativo. Di conseguenza si può ben comprendere la gravità del divorzio, come atto distruttivo non solo dell'opera divina, ma del fondamento stesso dell'umanità nel suo porsi storico. In buona sostanza un attentato alla stessa creazione.

vv.7-9: se i vv.4-6 hanno dato una nuova visione del matrimonio, riconducendolo alla verità delle sue origini divine, ponendolo nel contesto della creazione e, quindi, come uno degli elementi fondativi dell'ordinamento cosmico, i vv.7-9, alla luce dei vv.4-6, spiegano il senso del divorzio, riconducendolo sotto il segno del peccato, quale atto di ribellione e di contrapposizione a Dio, generato dalla la durezza di cuore (“sklhrokard…a”, sklerokardía), che dice tutta l'insensibilità dell'uomo, degradato dal peccato, nei confronti del suo Dio.

La magistrale trattazione del matrimonio, ricondotto alle sue origini divine e sottratto, quindi, alla disponibilità umana e, pertanto, allo stesso Mosè, mette in allarme i Farisei, che vedono nella sentenza finale di Gesù (v.6b), un diretto attacco non solo all'autorità di Mosè, ma anche allo stesso sistema sociale e religioso del giudaismo; la quale cosa, come vedremo, allarmerà anche i discepoli (v.10). Ne chiedono, pertanto, giustificazioni. La risposta di Gesù (v.8) chiama in causa tre elementi:

a) primo tra tutti la durezza di cuore di Israele. Il termine sklerokardía e il verbo skleróo compaiono spesso nell'A.T. per denunciare, da un lato, l'incapacità di Israele a cogliere le cose dalla prospettiva di Dio; dall'altro per stigmatizzare la chiusura nei suoi confronti e l'ostinazione in comportamenti contrari alle disposizioni divine. Tale termine, quindi, tende ad evidenziare un comportamento impermeabile a Dio e del tutto insensibile alle sue esigenze, comportamenti ostinati e pervicaci nel perseguire il male20. Un comportamento che porta a Dio a definire il suo popolo “di dura cervice”21, un popolo ribelle22, una generazione tortuosa e perversa23. Un popolo indisponibile a Dio, che porterà a rifiutarlo e a perseguitarlo quando Egli assumerà fattezze umane (Gv 1,11).


b)
L'autorità di Mosè, che violando un principio divino ha concesso il divorzio (Dt 24,1-4). Le disposizioni mosaiche, quindi, seguono la durezza di cuore di Israele, quasi la blandiscono, ma nel contempo tradiscono i disposti divini di Gen 1,27 e 2,24. Anche se Matteo non muove un chiaro e diretto atto di accusa a Mosè, che non ha saputo, come suo fratello Aronne ai piedi del Sinai (Es 32,1-6), far fronte alla perversità di Israele e alla sua durezza di cuore, adeguandosi ai suoi usi e costumi, tuttavia lo lascia intendere, così come lascia intendere che quanto Mosè ha disposto non ha nulla a che fare con l'originaria volontà di Dio, anzi, la viola (“ma da principio non era così”). La sentenza del v.6b, infatti, giustificata dalle motivazioni apportate nei vv.4-6a, di autorità divina, annulla di fatto e di diritto le disposizioni deuteronomiche. Il tutto, quindi, viene riportato alla sua originale purezza, riconformando l'istituzione del matrimonio al primordiale volere divino, reinserendo il matrimonio nelle logiche della creazione e della legge naturale.

c)  L'autorità di Dio stesso, che fin da principio ne sancì l'indissolubilità: “ma da principio non fu così”. Due sono gli elementi di rilievo: a) l'espressione temporale “¢p' ¢rcÁj (ap'archês, da principio), che stabilisce un inizio storico coincidente con la creazione stessa, per cui il matrimonio è inserito nel quadro della creazione, dà attuazione al comando divino di Gen 1,28 e riflette in sé un preciso volere divino, che conforma l'uomo a Dio stesso. Il termine “¢p' ¢rcÁj”, inoltre, si ripete sia al v.4 che qui al v.8, e forma un'inclusione che delinea una pericope, il cui tema (il matrimonio) è ricondotto alle sue origini (ap'archês). Come dire: se volete capire il matrimonio nella sua verità profonda, dovete tornare alle origini della creazione, poiché tutto ha avuto inizio da qui. Tutto, quindi, è posto sotto l'egida degli inizi e lascia chiaramente intendere come il matrimonio non è di istituzione umana, bensì divina e in quanto tale è reso indisponibile all'uomo. Questo ap'archês, quindi, afferma una volta di più l'originaria volontà divina, impressa nella natura stessa del matrimonio, al cui interno viene ricondotto, sottraendolo ai dettami delle disposizioni mosaiche. b) il secondo elemento è il verbo “gšgonen” (ghégonen), un perfetto aoristo che indica un'azione compiuta nel passato e in se stessa perfetta e immodificabile, ma i cui effetti perdurano anche nel presente. Anche il divieto di divorziare, dunque, viene ricondotto alle origini e produce tutta la sua validità nel presente.

Il v.9 porta a termine l'intero ragionamento sul tema matrimonio-divorzio (vv.3-8) e ne trae una prima conclusione: “Ma io vi dico che chi ripudia sua moglie, se non per lussuria, e sposa un'altra, commette adulterio”. Il tema del v.9, che già abbiamo trovato nei nostri commenti a 5,32 e ai quali rimandiamo, si apre con una contrapposizione, che si riferisce ai disposti di Mosè (v.19,7; Dt 24,1-4) e che nella sua struttura si richiama alle sei antitesi (5,21-48), con le quali Gesù reinterpretava la Legge, facendo pesare tutta la sua autorità, superiore a quella di Mosè. Questo versetto, pertanto, posto sotto forma sentenziale, e quindi autoritaria, conclude il dibattito sul divorzio (vv.7-8) e si pone in parallelo, completandola, alla prima sentenza con cui Matteo concludeva il dibattito sul matrimonio (v.6b). Combinati nel loro insieme, queste due sentenze formano la nuova chiave di lettura sulla questione matrimonio-divorzio: “Ciò che Dio ha unito l'uomo non separi” (v.6b); di conseguenza, si avrà che “chi ripudia sua moglie, se non per lussuria, e sposa un'altra, commette adulterio” (v.9). Questo, dunque, il nuovo disposto, che, superando in modo autoritario le disposizioni mosaica in materia (Dt 24,1-4), apre il credente a nuove comprensioni e a nuove e impensate prospettive. Benché la sentenza di Gesù venga qui posta con autorità ed appaia come un qualcosa di nuovo e di inaudito, tuttavia, il Gesù matteano sembra qui richiamarsi al profeta Malachia, che, rivolto a Israele, sferzava duramente la pratica del divorzio, richiamandosi anch'egli, come Gesù, a Gen 2,24: “E chiedete: Perché? Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che ora perfidamente tradisci, mentre essa è la tua consorte, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest'unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore Dio d'Israele, e chi copre d'iniquità la propria veste, dice il Signore degli Eserciti. Custodite la vostra vita dunque e non vogliate agire con perfidia” (Mal 2,14-16).

vv.10-12: Questa breve pericope porta a compimento la trattazione del tema matrimonio-divorzio, prospettando una soluzione alternativa al matrimonio, inconcepibile per quel tempo, in particolar modo nell'ambito del mondo giudaico: l'astensione dal matrimonio in funzione del Regno dei cieli. Per la verità, la scelta celibataria per dedicarsi totalmente allo studio della Torah o all'attesa degli eventi escatologici non è un'invenzione del cristianesimo. Già il mondo di Qumran, nato nella seconda metà del II sec. a.C. , ci testimonia come i membri della setta, anche se non tutti, optavano per il celibato per dedicarsi totalmente all'attesa dell'avvento del Signore e in preparazione alla guerra finale tra le forze della luce e quelle delle tenebre, che l'avrebbe preceduta. Lo stesso Geremia riceve l'ordine da Jhwh di non sposarsi, quale prefigurazione del giudizio divino che Egli aveva posto sulle infedeltà di Israele (Ger 16,1-12), anche se il profeta vivrà questa imposizione con tristezza e rassegnazione, rinchiuso nella sua dolorosa solitudine (Ger 15,17-18). Rabbi Eleazar ben Azarja, pungolato da Simeon ben Jochai24 per il fatto di non essersi sposato, rispose che tutta la sua anima era presa dallo studio della Torah e che altri avrebbero pensato a portare avanti la specie umana25. Gli esempi di celibato qui riportati, sono tuttavia delle eccezioni, poiché la regola era il matrimonio, considerato un obbligo grave in osservanza al comando di Gn 1,28, mentre il celibato, così come la verginità, erano considerati una vergogna26.

L'aggancio al tema del matrimonio-divorzio è meramente redazionale e si presenta come risposta all'affermazione dei discepoli “non conviene prendere moglie” (v.10b), che forma da stimolo per introdurre il tema del celibato. Di fatto la proposta celibataria, più che una proposta innovativa di Gesù27, sembra essere una risposta che lo stesso Matteo dà alla sua comunità di giudeocristiani, probabilmente per giustificare al suo interno una scelta ascetica fondata sulla particolare comprensione, che alcuni convertiti avevano avuto del Regno, consacrandogli per intero la loro vita. È probabile che questo sia lo sitz im leben a cui è legato il singolare ed esclusivo intervento di Matteo. Lo lascia intendere, infatti, la terza categoria di eunuchi, enunciata al v.12: “e vi sono alcuni eunuchi che resero sterili se stessi per il regno dei cieli”. Il verbo posto all'aoristo, infatti, induce a pensare che l'evangelista si riferisca, qui, ad una situazione già consolidatasi all'interno della sua comunità e tale da creare una certa tendenza e sulla quale, per evitare chiacchiere e malintesi, egli si sente di dover intervenire, per difendere e giustificare quanti, all'interno della sua comunità, avevano rinunciato al matrimonio per porsi a totale servizio della testimonianza del Regno e della stessa comunità, di cui erano membri. Non è da escludere, tuttavia, che l'evangelista, forse, abbia voluto in qualche modo anche spiegare ai suoi il senso dello stato celibatario di Gesù e di alcuni suoi seguaci, che poteva creare dei problemi all'interno del mondo giudaico28. Ma tutto ciò non deve stupire, poiché l'enunciato di Mt 19,11-12 rientra in un quadro storico-culturale, che caratterizzò la chiesa fin dal suo nascere. Il senso dell'imminente ritorno glorioso di Gesù, il giudizio finale incombente, la convinzione del volgere verso la fine della storia e l'inaugurazione del Regno di Dio erano temi ricorrenti e molto sentiti presso la chiesa delle origini. Tutto ciò spingeva molti, anche talvolta in forme fanatiche, a rinunciare agli impegni di questo mondo (1Ts 4,10b-12; 2Ts 3,6.11-13), matrimonio compreso (1Tm 4,3a), votandosi ad una vita ascetica, tutta protesa verso il compimento degli eventi escatologici, ritenuti imminenti. Lo stesso Paolo non è esente da questo sentire molto diffuso e propone, a sua volta, una vita di ascetismo, dedita al Signore, ritenendola migliore del matrimonio29; così similmente, altri scritti neotestamentari ce ne danno testimonianza30.

Il v.10 è di transizione in quanto chiude la controversia sul matrimonio-divorzio e traghetta il lettore verso una nuova prospettiva, alternativa al matrimonio: il celibato per il Regno. Viene qui riportata una considerazione scandalizzata dei discepoli, che testimonia come l'istituto del divorzio fosse profondamente radicato nella cultura di quel tempo al punto tale da non potersi concepire un matrimonio senza l'alternativa del divorzio, quasi che questo fosse l'altra faccia naturale del matrimonio. Esso, se da un lato costituiva l'uscita legale dal matrimonio, dall'altro esprimeva l'irrinunciabile potere dell'uomo sulla donna, del marito sulla moglie, alla quale non era concesso di divorziare, ma soltanto di avanzare richiesta di divorzio presso il marito, che si riservava la decisione ultima; mentre costui aveva piena libertà di farlo31. Già queste poche battute lasciano intravvedere come il proclama dell'indissolubilità del matrimonio da parte di Gesù sconvolgeva uno dei fondamenti della società ebraica ed antica, andando ad intaccare diritti ritenuti inviolabili, sia perché consacrati dall'autorità mosaica sia perché rientranti nella cultura profondamente maschilista e patriarcale di quel tempo. L'indissolubilità del matrimonio, dunque, interpella il nuovo credente nella profondità del suo essere e gli impone di riallineare la propria mentalità umana, corrotta dal peccato, a quella originaria di Dio, che proclamò la creazione uscita dalle sue mani come cosa molto buona (Gen 1,31).

La risposta di Gesù (vv.11-12) alla riflessione degli scandalizzati discepoli (v.10) si snoda in due parti: la prima (v.11) lascia intravvedere come il rinunciare al matrimonio non sia cosa semplice e immediatamente recepibile, sia perché si pone contro un diritto naturale, impresso nell'uomo fin dal suo nascere e per l'esercizio del quale la natura stessa lo ha conformato, caratterizzandolo nell'interezza del suo essere; sia perché viola lo stesso comandamento divino sancito in Gen 1,28, da cui nasce un dovere morale e religioso, che vincola ogni israelita. In altri termini, la proposta celibataria va contro ogni logica sia naturale che religiosa, opponendosi alle stesse disposizioni divine. Per questo è di difficile comprensione, sopratutto se la proposta è estesa ad ogni credente. La seconda parte della risposta (v.12) si rifà ad un antico detto, già presente in mezzo al popolo e che Matteo riprende e completa prospettando una nuova tipologia di eunuchi.

Il v.11 forma da premessa e da introduzione al v.12, indicando nella disponibilità del proprio cuore a Dio, la chiave di lettura e di comprensione del difficile discorso, che Gesù sta per fare (v.12). La prima parte della risposta si struttura su due momenti: il primo parla di una parola (tÕn lÒgon, tòn lógon) non immediatamente comprensibile e non raggiungibile da tutti, per i motivi sopra riportati. Di quale parola si tratta? Personalmente preferisco tradurre il termine greco “tÕn lÒgon” con “discorso” e non con “parola”, poiché il sostantivo “parola” allude a un qualcosa di preciso, che qui è difficile individuare, lasciando aperte diverse ipotesi32. Il sostantivo “discorso”, invece, abbraccia un più ampio contesto letterario, che è quello proprio del dibattito matrimonio-divorzio, in cui si inserisce questa seconda parte innovativa, indicata come alternativa alla prima. Matteo, infatti, qui sta preparando una risposta di rottura, concorrente al binomio matrimonio-divorzio: celibato-Regno. Di certo, comunque, il v.11 letterariamente si aggancia, nel suo immediato, alla battuta finale del v.10. Il secondo momento di questa prima risposta riconduce il lettore sia al v.11,25, in cui Gesù ringraziava il Padre per aver rivelato i suoi misteri ai piccoli; sia al v.13,11 in cui Gesù precisa come ai discepoli è dato di conoscere i misteri del Regno. Con questo secondo momento Gesù, dunque, aggancia la capacità di comprendere il significato del celibato per il Regno allo stesso disegno salvifico del Padre, a cui sono chiamate a partecipare due categorie di persone: i piccoli, che nella loro semplicità di cuore si rendono disponibili a Dio, cercando di conformarsi esistenzialmente alla sue esigenze (11,25); e i discepoli, che, operando una scelta esistenziale, hanno deciso di porsi alla sequela di Gesù, mettendo la propria vita al suo servizio (13,11). Entrambe le categorie hanno un comune denominatore: la disponibilità di accogliere Dio nella propria vita, mettendo in secondo piano le proprie esigenze. Agli interessi personali, dunque, vanno preposti gli interessi del Regno, che nel suo primo grande discorso Gesù aveva già suggerito: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (v.6,33).

Il v.12 riprende un antico detto che l'autore aggiorna, aggiungendo alle due originali previsioni di eunuchi33, naturali e resi tali, una terza tipologia di eunuchi34, del tutto innovativa e inaspettata: quelli che si sono resi da se stessi eunuchi per il Regno dei cieli. In questa breve tipologia di eunuchi è interessante notare come nei primi due casi i verbi sono posti al passivo (™genn»qhsan, eÙnouc…sqhsan, eghennétzesan, eunuchístzesan), per indicare come la condizione di eunuco fu subita e pertanto imposta o dagli uomini o da eventi naturali; mentre nel terzo tipo di eunuchi, quelli per il Regno, il verbo è posto all'attivo “eÙnoÚcisan” (eunúchisan). Attori primi, pertanto, sono gli eunuchi stessi, i quali sono giunti a questo stato di vita volontariamente, lasciando supporre un cammino di riflessione, di maturazione interiore, che li ha portati ad una scelta esistenziale di fondo, che caratterizzerà la loro vita. Sono questi personaggi, che hanno rinunciato volontariamente ad una legittima e doverosa procreazione biologica (si tratta quindi di un eunuchismo spirituale e non fisico) per rendersi pienamente fecondi spiritualmente, dedicandosi alle esigenze di Dio e del suo Cristo, ai membri della comunità credente, a cui appartengono, all'annuncio e alla testimonianza del Regno. Si viene a creare, pertanto, all'interno della comunità credente una categoria di persone, che ammaliate dai valori spirituali del Regno, decidono la loro vita per questo. Quel “di¦ t¾n basile…an” (dià tèn basileían), per il Regno, indica la causa e la motivazione, che giustifica la loro scelta di vita, tutta dedicata alle esigenze del Regno nel suo molteplice porsi storico, divenendo testimoni delle realtà future, già fin d'ora presenti anche se non ancora in modo pieno e definitivo. Paolo, scrivendo alla sua comunità di Corinto, in un contesto di forte tensione escatologica, raccomanda ai suoi: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni” (1Cor 7,29-35)35. Il rendersi eunuchi per il Regno, dunque, non diventa una menomazione fisica, ma una sublimazione e una santificazione della persona nella sua interezza, che in tal modo si realizza pienamente anche nella sua umanità; così che “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo” (GS §41). L'eunuchismo spirituale, pertanto, non è sinonimo di menomazione della propria persona o della propria umanità, ma riorientamento dell'essere proprio di ogni persona verso quelle realtà eterne, che già in qualche modo sono presenti e vivono in ogni credente e alle quali egli, insieme con il resto dell'umanità, è chiamato e incamminato e dove troverà la pienezza del suo essere e del senso del suo vivere.

Il v.12 si chiude con l'espressione “Chi può comprendere, comprenda”, che forma inclusione con l'intero v.11 e a questo si riferisce. Non a tutti è dato di capire queste cose, ma soltanto a coloro a cui è stato dato; per questo la parte conclusiva del v.12 diventa una sorta di sollecitazione a riflettere dentro se stessi, a ritornare nel silenzio del proprio cuore, là dove la voce di Dio si fa più forte e più nitida e illumina quanti si rendono a Lui disponibili nella semplicità del loro vivere. In al modo ogni credente prenderà coscienza del suo grado di evoluzione spirituale verso Dio e potrà capire quanto spazio Egli ha nella sua vita e quanto questa, libera da ogni pregiudizio e da ogni interesse individualistico, si è resa accogliente del proprio Dio, in un unico abbraccio salvifico.

vv.13-15: questa breve pericope si colloca nel cuore del cap.19 e funge da sua chiave di lettura. Infatti, sia per comprendere il senso profondo e più vero del matrimonio e la sua dissacrazione nel divorzio (19,3-9); sia per poter recepire il valore di una totale e piena dedizione alle esigenze del Regno, quale valida alternativa al matrimonio (19,10-12); sia per poter comprendere il significato e il valore della sequela, superiore ad ogni bene materiale e tale, anzi, da doversene liberare, per una adesione piena e perfetta (19,21), è necessario disarmare il proprio cuore dai pregiudizi, dai troppi ragionamenti, dalle proprie diffidenze, dalle proprie esigenze, dai propri interessi, dai propri individualismi ed egoismi. È necessario, in ultima analisi, svuotare il proprio cuore di se stessi per fare spazio alle esigenze del Regno dei cieli, che il Padre ha manifestate e rivelate in Gesù. Condizione indispensabile, infatti, per poter accedere alla sequela di Gesù, che è essenzialmente una sequela segnata dalla croce, è il rinnegare se stessi (16,24); solo così si arriva al vero discepolato, che comporta una identificazione del discepolo con il suo maestro crocifisso. Paolo, rivolgendosi alle sue comunità della Galazia, sottolinea proprio questo passaggio: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Il Cristo che vive in Paolo è, dunque, un Cristo crocifisso, a cui Paolo si è lasciato assimilare. Un Cristo che proprio nella crocifissione si è rivelato come dono estremo del Padre all'umanità (Gv 3,16). Su questa linea Paolo ha seguito il suo Cristo, facendosi dono per i Gentili, accettando sofferenze e dolori di ogni genere (2Cor 11,23-30) e facendosi forte della sua stessa debolezza, unico suo vanto (2Cor 12,5.10). Ma per poter giungere a questo svuotamento interiore è necessario operare una profonda revisione del proprio cuore, rivestendolo degli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2,5), che, pieno della sua divinità, svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,6-8); sentimenti, quindi, di di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza (Col 3,12b); quei sentimenti che ci portano a non aspirare a cose troppo alte, piegandoci invece a quelle umili, non facendoci di noi stessi un'idea troppo alta (Rm12,16), considerando, invece, gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi (Fil 2,3). Tutti sentimenti questi, radicati in una carità che “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7), testimoniano un modo di sentire in cui il proprio Io è percepito come al servizio del Regno e degli altri (20,28). Ed è proprio questo nuovo atteggiamento e questo nuovo sentire interiori, che Matteo sintetizza e simboleggia nel bambino e nei piccoli, che divengono metafora di questo nuovo modo di essere e di sentire, indispensabile e fondamentale per porsi in un atteggiamento umilmente accogliente nella semplicità del cuore. Matteo sente molto questo tema, perché all'interno della sua comunità vi sono persone ricche e benestanti e probabilmente alla ricerca di affermazione di se stesse e in rivalità tra loro (11,25; 20,20-27; 23,11)36. Per questo crea attorno al bambino e ai piccoli una sua propria teologia, scandita in otto passi variamente distribuiti nella sua opera, ma tutti collegati tra loro da un unico filo conduttore. Innanzitutto l'evangelista vede nei bambini dei chiamati da Dio, dei suoi eletti e prediletti (18,2a), sui quali Dio ha riposto la sua benedizione, che li consacra a sé (19,13a). Da Lui privilegiati e a Lui consacrati, essi, nella loro semplicità e purezza di cuore, divengono strumento della lode divina davanti agli uomini (21,15.16; Sal 8,3). Essi sono l'immagine stessa di Gesù, in cui egli si identifica (18,5) e ama raffigurarsi (25,40.45); per questo li attrae a sé, così da fare di loro una sola cosa con lui (19,14). Questo capolavoro della grazia di Dio, in cui si rispecchia vivida la purezza della prima creazione, ancora incandescente di luce divina (Gen 1,3.31a), viene posto da Gesù in mezzo ai suoi a modello di vita (18,2b), stabilendoli quale condizione per poter accedere al Regno dei cieli (18,3), divenendo nel contempo il parametro di raffronto della grandezza spirituale degli abitanti di tale Regno (18,4).

La pericope in esame (vv.13-15) è particolarmente elaborata e studiata dall'autore, segno dell'importanza che le attribuisce. Innanzitutto essa costituisce la risposta al “Chi può comprendere, comprenda”, con cui si chiude il v.12. Soltanto chi, libero da pregiudizi personali e culturali, si è rivestito della semplicità di cuore, propria del bambino, può comprendere. Non a caso la pericope inizia con un avverbio di tempo “Allora” (Tòte, tote), che se da un lato crea una continuità narrativa, di natura tutta redazionale, dall'altro forma una sorta di contenitore temporale in cui confluiscono e trovano la loro risposta i vv.10-12. Parimenti, la nostra pericope, costituisce anche la soluzione al problema della sequela. Il v.13, infatti, inizia con un verbo di movimento dei fanciulli verso Gesù, così come il v.16 si apre sempre con un movimento di un giovane verso Gesù: i primi sono accolti da Gesù e a lui consacrati (vv.13a.15a) e in essi Gesù si identifica (18,5); il secondo, invece, si allontana triste da Gesù (v.22), poiché il suo cuore non è rivestito di umiltà e semplicità e, quindi, di disponibilità accogliente, ma di beni materiali, a cui non ha saputo rinunciare; e non ha rinunciato perché non ha capito e non ha capito perché non c'era il bambino, il piccolo dentro di lui. Non c'è, dunque, spazio per il Regno, poiché, aveva ricordato Matteo in 6,24 “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona”. S'imponeva, dunque, una scelta che non ha saputo fare perché non ha capito.

I vv.13-15, inoltre, sono inclusi dall'espressione “imporre le mani”, che si trova nei vv.13a e 15a. L'inclusione, se da un lato crea una unità narrativa compatta, dall'altro caratterizza, con il significato proprio dell'espressione includente, l'intera pericope, mettendo in tal modo in rilievo come sui bambini e i piccoli grava la predilezione divina, che se li è riservati con un atto consacratorio, espresso dell'imposizione le mani.

Infine, i vv.13-15 sono costruiti su di uno schema di parallelismo convergente in B), che diventa il cuore della pericope. Pere cui si avrà:


A) v.13a: i bambini sono portati a Gesù perché imponga loro le mani;

B) v.14: esortazione-comando a non essere di ostacolo ai bambini nel loro andare verso Gesù. Invito questo che richiama da vicino il minaccioso comando a non scandalizzare uno di questi piccoli (18,6)

A') v.15: Gesù impone le mani ai bambini e si allontana da là, movimento quest'ultimo, uguale contrario a quello dei bambini, che vanno verso di lui.


Il v.13 funge da cornice introduttiva all'intera pericope, fornendole il senso, ed è scandito in tre parti: a) i bambini sono portati a Gesù; b) perché imponga loro le mani e preghi su di loro; c) opposizione dei discepoli. Nella prima parte (a) rilevante è il verbo “proshnšcqhsan” (prosenéctzesan), posto all'aoristo passivo di tipo ingressivo, che se da un lato significa portare verso, accostare, avvicinare con riferimento ad un evento iniziale che ha provocato questa spinta verso Gesù, dall'altro significa anche presentare, donare, offrire a Dio e ha a che fare con la liturgia cultuale37. Il verbo, poi, è posto al passivo e questo lascia intravvedere in questo sospingere i bambini verso Gesù sia l'azione stessa del Padre38, che riserva loro la comprensione dei misteri del Regno (11,25; 13,11); sia l'aprirsi, nel contempo, anche dell'ipotesi che questi bambini siano presentati a Gesù da persone adulte, che li accompagnano in un contesto di sacralità liturgica battesimale. La finalità, infatti, che viene presentata nella seconda parte (b), è “l'imporre le mani e il pregare su di loro” da parte di Gesù. Questa espressione è caratteristica della chiesa primitiva, quando, nell'ambito della liturgia battesimale venivano presentati i catecumeni o, in diverso contesto, venivano presentati dei candidati per ricevere una consacrazione personale per svolgere un incarico ufficiale all'interno della comunità39. Ed ecco, inaspettatamente nella terza parte (c), l'opposizione dei discepoli che rimproverano questi bambini, che stanno per accedere a Gesù. Qui sta il problema e qui è racchiusa la motivazione che ha spinto Matteo a modificare sostanzialmente il senso di questa breve pericope, (vv.13-15) mutuata da Marco (Mc 10,13-16) e che anche Luca ha riportato nel suo vangelo (Lc 18,15-17) dalla medesima fonte marciana, ma, a differenza di Matteo, conservandone integralmente il senso. Innanzitutto sia Marco che Luca usano il verbo “prosfšrw(prosféro, presentare) all'imperfetto indicativo attivo; un tempo verbale questo che caratterizza le semplici narrazioni, i racconti, ma non ha particolari implicanze se non in determinati contesti narrativi. Al contrario Matteo pone questo medesimo verbo all'aoristo passivo di tipo ingressivo. Questa modifica verbale consente all'autore di creare un quadro storico e teologico completamente diverso dagli altri due evangelisti. Infatti, in quanto aoristo il verbo allude ad un evento passato, puntuale nel tempo e per questo irripetibile (aoristo); in quanto con senso ingressivo suggerisce come quell'evento abbia introdotto i “bambini” all'interno di un cammino verso Gesù, un cammino che ha avuto inizio, per l'appunto, da quell'evento significato dal verbo. L'allusione al battesimo, evento irripetibile, che si pone all'inizio del cammino cristiano e introduce il credente in Cristo, qui è evidente. In secondo luogo, Marco e Luca vedono la presentazione dei bambini a Gesù “perché li toccasse”. Il verbo greco usato dai due sinottici è ¤ptw (ápto), che significa toccare, ma nel senso qui di abbracciare, un senso che in Marco è confermato anche in chiusura di racconto, dove sottolinea come Gesù li abbracciò (10,16a). Giustamente qui la CEI traduce il verbo ¤ptw (ápto) con l'espressione “perché li accarezzasse” (Mc 10,13; Lc 18,15). È un incontro, quindi, quello tra Gesù e i bambini che ha implicanze prevalentemente di affetto e di tenerezza. Similmente in Luca. In Matteo le cose cambiano completamente: la finalità per cui i bambini sono presentati a Gesù non è perché lui li tocchi o in qualche modo li abbracci; verbi questi che non compaiono in Matteo, che invece precisa “perché imponesse loro le mani e pregasse” su di loro. Il contesto qui non è più di ordine meramente umano, bensì teologico e cultuale. L'autore ha qui voluto dare un taglio del tutto particolare al suo racconto per rispondere, molto probabilmente, a dei problemi che agitavano la sua comunità e che riguardavano i “bambini della sua comunità”. Il termine qui usato per indicare i “bambini” è “paid…a” (paidía), che nella chiesa primitiva veniva usato quale metafora di neofita, di iniziato nella fede40. A questi “bambini” i discepoli si opponevano con dei rimproveri. A cosa volesse alludere qui Matteo è difficile dire, ma dal contesto sembra di poter capire che questi neofiti, animati e infervorati dalla nuova fede e ligi agli insegnamenti ricevuti nel recente catecumenato, fossero rigorosi osservanti delle norme, la cui violazione o scarsa osservanza rimproveravano agli altri o, non avendo ancora ben maturato il viver cristiano in loro, fossero soggetti a comportamenti scrupolosi all'interno della comunità e tali da creare dei problemi alla vita comunitaria o, proprio per il loro fervore di neofiti, essere anche derisi e ghettizzati all'interno della stessa comunità da parte di chi era già adulto nella fede. Tracce di tali comportamenti e di simili problemi si trovano nelle stesse lettere di Paolo41.


Il v.14 riprende e sintetizza in sé i vv.18,3-6 e ne dà attuazione pratica: “Lasciate che i fanciulli vengano a me e non ostacolateli, infatti il regno dei cieli e di questi”. Questo versetto è composto da due
parti: la prima è formata da una doppia esortazione, una posta al positivo (lasciate che vengano a me), l'altra al negativo (non ostacolateli). Questa prima parte riprende il tema dello scandalo, che crea 
impedimento ai “bambini nella fede” e a motivo del quale il v.18,6 minacciava la perdizione eterna; la seconda parte, introdotta da un “g¦r” (gàr, infatti) dichiarativo, fornisce la motivazione 
giustificativa della prima: infatti il regno dei cieli è di questi. Il regno dei cieli, dunque, già appartiene a questi bambini per la loro stessa natura di bambini, una natura che doveva essere riprodotta anche 
negli altri, quale conditio sine qua non per poter accedere a loro volta nel regno (18,3). L'essere bambini, quindi, che delinea un atteggiamento di disponibilità accogliente verso Gesù, diventa il 
parametro con cui ogni credente deve confrontarsi per poter accedere al Regno. Matteo, dunque, in 18,1-6 aveva posto le premesse motivazionali, che dovevano supportare, ora, l'esortazione del
v.14.
Il v.15 potremmo definirlo come il versetto degli addii e degli impegni affidati da Gesù alla comunità dei credenti: “Imposte le mani su di loro, partì di là”. È, dunque, un versetto che chiude definitivamente la lunga riflessione, iniziata con il cap.18, sul tema della disponibilità accogliente nei confronti della parola di Gesù, simboleggiata nelle figure del bambino e del piccolo, nonché sul rispetto dovuto a loro, piccoli e semplici di cuore, caratterizzati dalla loro fragilità nella fede o da una fede ancora giovane. L'imposizione delle mani (v.15a), espressa con un verbo all'aoristo (™piqeˆj, epitzeìs), dice come su questa categoria di persone si è posata non solo la predilezione divina, ma come essi siano stati in qualche modo consacrati a Dio e divenuti sua proprietà, a Lui appartenenti e pertanto già facenti parte del Regno dei cieli (v.14b). Mentre quel “partì di là”, così secco ed essenziale, richiama in qualche modo da vicino la dipartita di Gesù nel suo morire, risorgere e ascendere al Padre, lasciando quale sua eredità preziosa, in affidamento alla comunità credente, la fede di questi piccoli, su cui poggia la sua benedizione consacrante.


vv.16-29: Matteo ha fin qui proposto alla sua comunità delle prospettive di vita diverse dalle solite culturalmente acquisite: si passa da un matrimonio con il divorzio incorporato ad un matrimonio indissolubile, ricondotto alla sua originaria purezza quando ancora la creazione era incandescente di Dio e l'uomo viveva della stessa vita divina (vv.3-9); viene poi prospettata una nuova e scandalosa scelta di vita, posta in concorrenza e in alternativa al matrimonio: la consacrazione della propria vita per la causa del Regno (vv.10-12). Sono questioni queste difficili da comprendere e non tutti riescono a coglierne la novità e il loro valore. Per questo è necessario intraprendere un cammino di rigenerazione spirituale, che porti il nuovo credente a rinascere interiormente, accogliendo queste novità sconvolgenti con la semplicità di cuore propria di un bambino (vv.18,3-4.19,13-15). Ora, Matteo, con quest'ultima pericope (vv.16-29) lancia una nuova sfida alla sua già turbata (vv.19.25), ma ricca e benestante, comunità e le indica la via della perfezione: spogliarsi dei propri averi e porsi sulle orme di Gesù, messia sofferente in cammino verso il Golgota42.


La pericope in esame si struttura su tre parti:


a) vv.16-22: viene narrato il racconto del giovane ricco, che ha declinato l'impegnativa e innovativa proposta di Gesù a motivo del suo attaccamento alle ricchezze. L'intero racconto ruota attorno a tre domande del giovane e alle relative risposte di Gesù ed è strutturato, come vedremo subito, a parallelismi concentrici in C);
b) vv.23-26: pausa riflessiva sul comportamento del giovane ricco e le conseguenze del suo rifiuto;
c) vv.27-29: la proposta di Gesù, rifiutata dal giovane ricco, è stata invece accolta dai discepoli. Conseguenze di questa loro accettazione.

L'intento di Matteo, qui, è quello di presentare alla sua comunità di benestanti giudeocristiani, legati alle ricchezze e, come vedremo poi al cap.20, al potere, la via della perfezione, imperniata sulla spogliazione dei propri averi e sull'abbraccio incondizionato della sequela di Gesù. Davanti a questa ardita e sfrontata proposta si aprono due vie: quella del rifiuto, dettato dall'attaccamento ai propri vecchi schemi mentali, che porta alla perdizione (vv.23-26); e l'accettazione, che riserva, invece, copiose benedizioni e la partecipazione alla vita stessa di Dio (vv.27-29).
I vv.16-22 narrano l'incontro del giovane ricco con Gesù. Il racconto è particolarmente curato dall'autore a motivo della sua importanza, poiché pone la sua comunità davanti ad una scelta esistenziale di fondo, spingendola a compiere un decisivo e radicale salto di qualità nel loro tentennante cristianesimo pieno di compromessi.
Il racconto, secondo le logiche della retorica ebraica, si struttura su di uno schema a parallelismi concentrici convergenti in C), in cui viene descritto il comportamento della comunità matteana, desiderosa di seguire Gesù nella perfezione, ma, a motivo della sua condizione di benessere, tergiversa e ricorre a compromessi, cercando di combinare la sequela di Gesù con l'attaccamento ai loro beni e al conseguente stile di vita, dimenticando che non si può servire a due padroni (6,24), ma serve una scelta radicale di vita:


A) v.16: un giovane si avvicina a Gesù speranzoso e pieno di buone intenzioni, per avere da lui l'indicazione della strada sicura per accedere alla salvezza;

B) vv.17-19: Gesù indica al giovane la comune via della salvezza, conosciuta da ogni pio ebreo: l'osservanza dei comandamenti mosaici;

C) v.20: il giovane è già un rigoroso osservante della Legge e vuole, quindi, andare oltre, tentare una nuova esperienza spirituale, poiché sente che la Torah ormai gli va stretta. Matteo, qui, sembra voler presentare la condizione della sua comunità di giudeocristiani, che hanno già operato una scelta di perfezione, ma, a motivo del loro attaccamento ai propri beni e interessi, nicchiano e ancora non si decidono radicalmente per la sequela;

B') v.21: la nuova proposta di Gesù, che dovrebbe soddisfare le esigenze morali e spirituali del giovane: spogliazione dei propri averi per abbracciare la sua sequela;

A') v.22: il giovane deluso nelle sue attese, si allontana tristemente da Gesù.

In questo gioco di paralleli A) e A') presentano due comportamenti contrapposti del giovane: il primo impatto con Gesù è pieno di entusiasmo e di speranze; il secondo pieno di delusione e amarezza. In A) il giovane si avvicina a Gesù; in A') si allontana da lui. In B) Gesù indica la tradizionale via della salvezza; in B') viene presentata la nuova proposta molto più impegnativa e radicale. In C), cuore del racconto, Matteo denuncia il comportamento della sua comunità, formata da buoni ebrei osservanti e desiderosi di far compiere alla loro vita un salto spirituale di qualità, mettendosi alla sequela di Gesù, a cui hanno poi rinunciato o in qualche modo si sono defilati o cercando dei compromessi perché, ricchi e benestanti, non volevano rinunciare al loro tenore di vita. In ultima analisi il racconto del giovane ricco altro non è che la storia della comunità di Matteo, in cui non pochi, intrapreso il cammino di una nuova proposta di vita, poi abbandonavano perché incapaci di rinunciare al loro vecchio mondo, fatto di benessere, ricchezze, affari e piaceri.

Il v.16 si apre con con un avverbio indicativo “Ed ecco” (Kaˆ „doÝ, kaì idù), di fonte redazionale, finalizzato a creare uno stacco con la narrazione precedente ed aprire un nuovo spazio narrativo, in cui il lettore viene introdotto. È l'aprirsi di un sipario, che convoglia l'attenzione dello spettatore verso una nuova scena. Da un punto di vista letterario questa espressione avverbiale è molto efficace ed ha un forte impatto narrativo; non a caso essa si riscontra oltre un centinaio di volte nei soli vangeli, negli Atti degli Apostoli e nell'Apocalisse.
Il versetto forma da cornice introduttiva, in cui viene presentato sia un personaggio anonimo (eŒj, eîs, uno, un tale) sia il tema dell'intera pericope 19,16-29: la ricerca del bene come perfezione dell'uomo. La questione qui posta è, dunque, squisitamente morale e riguarda le modalità di rapporto del credente con Dio. Quanto all'anonimato di questo personaggio, esso è solo apparente, poiché una serie di indizi, abilmente distribuiti dall'autore nel suo racconto, lo definiscono come un catecumeno o un neofita (v.22a43) proveniente dal mondo giudaico (vv.16-20) e dalla società bene di quel tempo (v.22b), ma che, a causa del suo bel vivere e del suo stato di benessere materiale, non sa accettare l'impegnativa e radicale proposta cristiana (v.22a), che premette ai beni materiali le esigenze del Regno e i suoi valori (6,33), imponendo, talvolta, là dove fosse necessario, la rinuncia a tutto ciò che poteva essere in contrasto con la nuova fede44. Questa difficoltà, dovuta all'incapacità di lasciare il loro vecchio mondo per quello nuovo, spesso spingeva i catecumeni o i neofiti ad abbandonare il cammino intrapreso. Il fenomeno doveva essere abbastanza rilevante se Matteo, quale responsabile e buon pastore della sua comunità, dedica in esclusiva a questa categoria di persone il suo racconto e indirizza loro i suoi rimproveri, mentre altrove sottolinea l'importanza di premettere i valori del Regno ai beni materiali, spingendo i nuovi credenti ad una scelta radicale (6,24.33; 13,22; 16,24; ).
La richiesta, che questo giovane pone, lo rivela come un ebreo profondamente legato alla Torah, sia culturalmente che religiosamente: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?”. La religione ebraica, infatti, è concepita come una sorta di prassi religiosa, una mera esecuzione di ordini e comandi divini45. La Torah, infatti, era colta come concreta espressione della volontà divina, che come tale andava soltanto eseguita e non discussa46. A fronte della corretta esecuzione Dio era tenuto a dare al suo fedele la ricompensa promessa. Si trattava, quindi, di una sorta di rapporto contrattuale, che il pio ebreo aveva stipulato con Dio nell'ambito dell'Alleanza47. La fedeltà all'Alleanza, intesa come fedele esecuzione dei suoi comandi, era promessa di vita eterna (Lv 18,4-5; Ab 2,4). Significativo in tal senso è l'atteggiamento del fariseo, che sale al tempio e si pone davanti a Dio, dichiarando tutta la sua giustizia perché egli è un perfetto esecutore della Legge (Lc 18,11-12). Entro queste logiche si comprende la richiesta del giovane “cosa devo fare per avere”. Siamo, dunque, ancora nell'ambito di una logica contrattuale, nella logica del fare per avere48, ma nel contempo lascia intuire il desiderio profondo di aprirsi ad un nuovo rapporto con Dio, capace di superare i vecchi schemi del do ut des. Ed è proprio questa esigenza di un rinnovo interiore e di crescita spirituale, che ha indirizzato questo giovane verso Gesù.
A differenza degli altri due sinottici (Mc 10,17b; Lc 18,18b), Matteo inserisce dopo “Il che cosa devo fare” il termine “buono”. Il sostantivo ha una doppia valenza: una narrativa, in quanto diviene la parola aggancio, che servirà all'autore per sviluppare il suo pensiero al successivo v.17; e una teologica e morale. In altri termini, che cosa il giovane chiede a Gesù con quel “buono”? Nel mondo ebraico il termine ṭōb significa lieto, allegro, piacevole ed è stato reso dalla LXX con l'aggettivo “¢gaqÒj” (agatzós), che significa “buono” nel senso comunemente inteso. Questo attributo nella Bibbia viene assegnato per eccellenza a Dio49, da cui ogni cosa buona ed ogni bene provengono (Gen 1,1; Sir 38,8) e tutto ciò che è bene e buono è espressione e riflesso della sua bontà (Gen 1,31; Sal 8); e tutto ciò che è buono gli appartiene per antonomasia (1Cr 29,11-12)50. Di conseguenza tutto ciò che conduce l'uomo a Dio, in primis i suoi comandamenti, in cui è contenuta la sua volontà, è, per sua natura, buono, perché riflette in sé l'impronta stessa di Dio e si traduce per l'uomo in bene51. Ciò che il giovane, quindi, chiede a Gesù è un cammino, che lo conduca alla vita eterna52, che è per definizione la vita stessa di Dio. Il giovane, pertanto, si pone di fronte a Gesù in un atteggiamento di ricerca, mosso da un suo profondo desiderio di rinnovamento interiore. Questo giovane è una sorta di metafora di un certo mondo giudaico, che sentiva l'esigenza di un rinnovamento spirituale di cui andava alla ricerca. I giudeocristiani erano convinti d'averlo trovato nel messaggio spirituale innovativo e rigenerante di Gesù e vi aderirono53, benché non tutti quelli che vi si erano avvicinati lo avevano seguito con determinazione; dubbi e incertezze54 e il dover abbandonare con una scelta radicale il proprio mondo li potevano distogliere dal cammino intrapreso.

Il v.17 contiene la prima risposta di Gesù, che si articola in tre parti:

a) “Perché mi interroghi su ciò che è buono?”. La domanda qui posta si aggancia, attraverso il termine “buono”, al v.16 e, riprendendo il termine, mette le premesse per precisare il concetto di buono, rimandando, di fatto, il suo interlocutore alle sue tradizionali conoscenze bibliche e religiose, codificate nello Shema''55, e che Gesù, in qualche modo, richiama all'attenzione del giovane;

b)
“Uno è il Buono” (eŒj ™stin Ð ¢gaqÒj, eîs estin agatzós), indicando in tal modo la fonte prima, unica ed esclusiva di ogni bontà e, quindi, l'oggetto primo della ricerca del giovane: Dio, che è vita eterna (v.16) o più semplicemente, indicata con l'articolo determinativo, “la vita” (v.17).


c)
“Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”: viene indicato il cammino che conduce alla vita, qui equivalente di “vita eterna”, che per antonomasia è vita divina.



Nei vv.18-19 Gesù, sollecitato dalla domanda del giovane (“Quali?”), specifica i comandamenti a cui egli alludeva al v.17. La domanda del giovane non è polemica e tantomeno peregrina se si pensa all'enorme massa di comandamenti che le scuole rabbiniche (70 d.C.) e ancor prima la Tradizione orale o Torah orale, sempre in costante aggiornamento, sfornavano di continuo. La domanda, tuttavia, più che un desiderio di precisazione, letta nel contesto del racconto, nasconde l'impulso ad una continua ricerca di nuove vie per raggiungere al meglio colui che è il Buono per eccellenza e poter accedere, quindi, alla sua vita divina. La risposta di Gesù è singolare perché, da un lato, enumera i comuni comandamenti, tratti da Es 20,12-16 e dal suo parallelo di Dt 5,16-20, riconducendo la ricerca alle origini stesse dell'Alleanza, tralasciando in tal modo i comandi della Torah orale o Tradizione dei Padri, che Gesù aveva definito come dottrine di uomini. La ricerca, quindi, va ricondotta direttamente verso la fonte divina: la Torah scritta, segno storicamente visibile e tangibile del rapporto di Israele con Dio e in cui il popolo trova la sua identità e il senso del suo esserci (Es 19,5-6); dall'altro, perché non elenca tutti i comandamenti, ma solo quelli della seconda parte, riguardanti il rapporto con gli uomini, quasi ad indicare come il rispetto degli altri sia l'inequivocabile via per accedere alla vita eterna, che è vita stessa di Dio. Matteo, unico tra i sinottici, aggiunge a completamento, la breve citazione di Lv 19,18b: “e amerai il prossimo tuo come te stesso”, lasciando intuire come il rispetto dei comandi della Torah trova il suo compimento nell'amore per il prossimo, colto come mezzo per adempiere anche all'amore verso Dio, anticipando nel contempo quanto egli dirà in 22,37-40, in cui farà viaggiare in parallelo l'amore di Dio e quello del prossimo, due aspetti tra loro inscindibili. In tal senso Giovanni nella sua prima lettera sottolinea come “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,20-21).
 
I vv. 17-19, benché commentati separatamente, tuttavia formano un unico blocco, che ha come finalità quella di creare un parametro di raffronto con la nuova proposta che Gesù farà al giovane (v.21) e che ha come momento di passaggio tra la prima e la seconda il v.20: “[...] che cosa mi manca ancora?”. In ultima analisi, Matteo qui sta prospettando ai suoi catecumeni e neofiti due vie per raggiungere la vita eterna: l'osservanza della Torah, da cui essi provengono, sospinti da una insoddisfazione di fondo, che li apre alla ricerca di nuovi orizzonti; e la via della sequela, certamente più impegnativa perché radicale, ma è anche l'unica che porti alla perfezione della vita in Dio, che è quella che essi stanno cercando e alla quale aspirano: “Se vuoi essere perfetto ...”.

Il
v.20 è il cuore dell'intero racconto perché mette in evidenza la motivazione che spinge questo giovane ad aprirsi a nuove vie: egli è un pio ebreo osservante, ma sente che ciò non gli è più sufficiente e gli manca ancora qualcosa. Egli, infatti, è insoddisfatto della mera osservanza-esecuzione della Torah. È proprio questo che lo ha spinto verso Gesù, cercando in lui una risposta alla sua insoddisfazione di fondo (v.16).

Il versetto in esame è scandito in due momenti. Il primo momento è dato dall'affermazione del giovane: “Ho osservato tutte queste cose”. L'uso dell'aoristo (™fÚlaxa, efílaxa, osservai) dice non solo che queste cose hanno fatto parte della sua vita e come queste appartengono ormai al suo passato, ma lascia intuire anche come queste cose non gli sono più sufficienti per soddisfare la sua sete di rinnovamento spirituale. Egli è pronto, dunque, a compiere il passo definitivo, il salto di qualità verso un futuro di rigenerazione spirituale e di rinascita interiore. Ecco, quindi, il terzo interrogativo che egli pone a Gesù: “che cosa mi manca ancora?”. Quest'ultima domanda è ricca di significati: da un lato, lascia intendere che quanto ha fin qui vissuto (i comandamenti mosaici) non gli è più sufficiente, anzi lo sente carente rispetto alle sue attese; dall'altro, egli si proietta in avanti verso quei beni che ha intuito nella persona di Gesù, a cui si è rivolto con il titolo di “Maestro” (v.16b) e a favore del quale egli ha già operato una sua scelta (“avvicinatosi”, v.16a); e infine, questa domanda lascia intendere la condizione di ricerca di perfezione, che anima questo giovane, caricandolo di entusiasmo. La risposta del giovane, pertanto, parla di un grande ed entusiastico desiderio di Dio e di perfezione spirituale, che non trova più adeguate risposte nella Legge mosaica, che pur ha diligentemente osservato, e che vede, nel contempo, in Gesù la risposta piena e completa alla sua sete di Dio (9,36; 11,28; 14,14). Si badi bene che questo giovane non rinnega il suo passato, di cui fa ancora parte, ma lo sente tuttavia insufficiente; per questo egli va alla ricerca di un perfezionamento, che egli scorge nel messaggio di Gesù, il quale non è venuto per abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento (5,17), portandola alla perfezione voluta dal disegno di Dio.


Il v.21 riporta la risposta di Gesù, che è scandita in tre parti:


a) la prima è condizionale e da questa dipende tutto il resto: “Se vuoi essere perfetto”. È la specificazione della domanda del giovane: “che cosa mi manca”, che denuncia in se stesso una deficienza. Entrambi, Gesù e il giovane, sono giunti a conclusione che la Legge e i Profeti, pur accompagnando il credente nel suo cammino verso Dio, sono tuttavia insufficienti e hanno bisogno di un compimento, di un perfezionamento che Gesù indica in se stesso (“da qui seguimi”), a cui il giovane si è associato (“avvicinatosi”);

b) la seconda parte della risposta-proposta di Gesù al giovane detta le condizioni della perfezione, che la Torah non riesce a dare: “va, vendi i tuoi averi e dalli ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli”, che riprende il tema dell'istruzione, che Gesù aveva già impartita nel suo primo grande discorso: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano” (6,19-20). L'importanza, dunque, è prioritariamente assegnata al Regno dei cieli, a cui dedicare ogni sforzo e ogni impegno, e verso il quale orientare concretamente la propria vita. La Torah si limitava a tracciare la strada verso Dio, lastricata di comandi e di divieti, imponendone l'esecuzione fedele, ma non toccava l'intimità del cuore. Una perfetta esecuzione dava una coscienza tranquilla, la certezza di essere giusti e di avere un certo qual potere su Dio, che in qualche modo era costretto a riconoscere la fedele esecuzione del suo comando. Ma il cuore dell'uomo era lontano da Lui. Gesù, riprendendo le parole di Is 29,13, ebbe modo di lamentarsi di questo legalismo religioso, che impegnava il popolo in grandi profusioni rituali, ma non lo toccava nell'intimità della sua vita: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me” (15,8). Ora Gesù propone al giovane di liberarsi di tutti i suoi averi e il ricavato di donarlo ai poveri, in tal modo avrebbe ottenuto beni spirituali nei cieli. Non sorprende la richiesta di Gesù, che già in 16,24 aveva condizionato la sua sequela al rinnegamento di se stessi e all'associarsi alla sua croce. Non si può infatti servire Dio e mammona (6,24), è necessario prendere posizione perché chi non è schierato con Gesù è sempre contro di lui (12,30). È questa la radicalità del cristianesimo, che per sua natura è sequela di un Dio che svuotò se stesso della sua divinità per assumere sembianze umane, sottoponendosi al progetto del Padre fino alla croce e facendo in tal modo della sua vita un servizio di redenzione per l'uomo (Fil 2,6-8). Vendere tutto per dare ai poveri, spogliarsi dei propri averi, di ciò a cui si tiene in particolar modo, del proprio Io, per farsi dono agli uomini nella sequela di un Gesù crocifisso, a cui si è associati nella sequela (Gal 2,20). Ciò che in ultima analisi Gesù chiede al giovane è quello di sottoporsi alle logiche della stessa redenzione, che chiede lo svuotamento di se stessi a favore degli altri, per farsi dono agli altri. Del resto queste sono le logiche di Dio, manifestatesi in Gesù.

c) il terzo momento della risposta di Gesù al giovane è l'esortazione a seguirlo: “da qui seguimi”. L'avverbio di moto “deàro” (deûro, da qui) indica il punto di partenza della sequela: la spogliazione degli averi, dei propri beni materiali, della propria mentalità, dei propri interessi, dei propri calcoli e progetti umani. Si tratta, come per il Figlio di Dio, che ha rinunciato ad ogni sua prerogativa divina, di operare una sorta di propria kenosis per creare in sé uno spazio totalmente riservato alle esigenze del Regno. La spogliazione, la kenosis quale punto di partenza. Del resto la sequela per sua natura è esigente e non ammette deroghe: “¢koloÚqei moi” (akolútzei moi). Il verbo indica una sequela che va ben al di là di un semplice discepolato, poiché richiede una totale dedizione alla causa del regno, un porsi esistenzialmente al suo servizio, senza distrazioni di sorta. Da qui la necessità di una spogliazione dei beni materiali, quale segno e metafora di una spogliazione interiore, che dice apertura e spazio di accoglienza.


L'intero racconto è basato su di un dialogo serrato tra il giovane e Gesù. Tra i due sembrava esserci intesa: l'uno cercava la perfezione, l'altro gli aveva indicata la via, di gran lunga superiore e decisamente più impegnativa delle esigenze della Torah, poiché chiedeva il coinvolgimento della sua persona, a partire dal suo cuore. Ed ora, ecco, inaspettatamente, il v.22 chiude il racconto in un silenzio sconvolgente: Gesù non parla, il giovane tace e un'alea di gelo oscuro avvolge di tristezza quell'incontro e divide i due. L'incontro era iniziato con il giovane che si era avvicinato a Gesù (v.16a) e in qualche modo già gli apparteneva (il verbo “proselqën”, infatti, è stato posto al participio aoristo); ora si chiude con il giovane taciturno che si allontana da Gesù. Il motivo di questo fallimento morale e spirituale, che parla di una salvezza rifiutata, viene indicato dall'autore inequivocabilmente nel possedimento dei beni: “Infatti era uno che aveva molte ricchezze”. Il mondo dei valori, la dimensione dello spirito, la vita eterna sono orizzonti divini, che nulla hanno a che fare con il mondo di quaggiù e non accettano compromessi né concorrenze con questo, poiché “Il regno di Dio [...] non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole” (Rm14,17-19). Infatti “[...] la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità” (1Cor 15,50). Del resto Matteo già aveva sollecitato la sua comunità di benestanti a conformarsi alla povertà dello spirito (5,3), partendo quindi dal cuore e mettendo davanti ai propri interessi quelli del Regno (6,33), poiché “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona” (6,24).

vv.23-26: questa breve pericope costituisce una piccola pausa di riflessione sul racconto del giovane ricco ed è scandita in due momenti, di fatto tematicamente scollegati tra loro, ma soltanto giustapposti l'uno accanto all'altro. Il primo momento, dato dai vv.23-24, è direttamente conseguente al racconto del giovane ricco, ed è l'unico che sviluppa una vera e propria considerazione sul suo rifiuto, noi diremmo una sorta di “morale della favola”, che vuole dimostrare come i ricchi o, meglio, coloro che fondano le loro sicurezze sui propri averi e, quindi, su se stessi, non sono idonei al Regno dei cieli. Difficilmente, infatti, un ricco entrerà nel Regno dei cieli. Quanto sia difficile questo, viene detto dal v.24, che vede un cammello passare più facilmente da una cruna dell'ago, sottolineando l'impossibilità per un ricco di accostarsi al Regno dei cieli, poiché fonda la sua salvezza sui beni materiali e non su Dio. Un paradosso questo che ricorre anche in alcune sentenze proverbiali della tradizione rabbinica56.

Il
secondo momento, composto dai vv.25-26, solo apparentemente si aggancia al racconto del giovane e, in particolare ai vv.23-24. In realtà esso tratta un tema completamente diverso: quello della salvezza, la cui fonte primaria è Dio stesso e non l'uomo. Infatti, il rifiuto della sequela da parte del giovane non lo condanna alla perdizione eterna, poiché egli segue da sempre, con scrupolosa attenzione, la prima via, che Gesù stesso gli ha indicato, per ottenere la vita eterna: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (v.17b). I vv.23-24, quindi, non parlano della salvezza, ma della sequela come via alla perfezione spirituale. In altri termini Gesù ha proposto al giovane un cammino migliore, più evoluto, perfetto per raggiungere la salvezza, di fatto declassando come imperfetta la via della Torah, che trova il suo compimento soltanto in Gesù (5,17). La questione, dunque, qui, non è la salvezza, ma un confronto tra due diverse strade per raggiungerla: la Torah e Gesù. Gesù ha indicato al giovane la migliore in assoluto, ma senza escludere o sopprimere con ciò l'altra (5,17), che comunque egli ha indicato in prima battuta (v.17b). In altri termini la sequela è solo per i spiritualmente aperti e, che hanno avuto il coraggio di compiere il salto di qualità, che li proietta verso orizzonti nuovi, apparsi con Gesù e in lui; orizzonti che non sono per tutti. Gesù stesso, infatti, lo aveva ricordato al v.11: “Non tutti comprendono questo discorso, ma quelli a cui è stato dato”. È da chiedersi, allora, perché Matteo abbia inserito i vv.25-26 nel contesto del racconto del giovane ricco, considerato che la questione, come si è visto, non è la salvezza, ma semplicemente il modo migliore per raggiungerla. Personalmente ritengo che Matteo, considerata la sua vis polemica, abbia voluto dare con i vv.25-26 una stoccata a quanti ritenevano sufficiente per la salvezza la via della Legge mosaica, chiudendosi alla novità dell'evento Gesù, o affrontavano la novità Gesù con le stesse logiche: una semplice osservanza, una buona esecuzione dei dettami della Torah o delle nuove disposizioni di Gesù e il gioco era fatto. Dio avrebbe dovuto soltanto constatare la buona esecuzione prima di Mosè e ora di Gesù per dare la salvezza all'antico come al nuovo credente. All'interno di un simile contesto, protagonista della salvezza non era Dio, bensì l'uomo, che con il suo impegno poteva poi pretendere da Dio la salvezza promessa (Rm 4,2-6). Un simile ragionamento, trasferito sul nuovo evento Gesù, lo avrebbe ricondotto all'interno del giudaismo, negandone di fatto la novità e l'annuncio di una salvezza come dono gratuito del Padre e alla quale il nuovo credente doveva dare la sua risposta esistenziale. La cosa non è indifferente, poiché ci sono sotto due logiche salvifiche letteralmente contrapposte e irriducibili l'una all'altra: l'una antropocentrica, cioè la salvezza dipende soltanto dall'impegno dell'uomo, mentre Dio, qui, svolge un ruolo puramente passivo, una sorta di buon notaio che registra il bene e il male, ne prende nota e poi dà la ricompensa, che l'uomo si è guadagnato. Di fatto, Dio viene escluso dal ciclo della salvezza, il cui protagonista e fautore principale è soltanto l'uomo. L'altra è teocentrica o, meglio, cristocentrica, cioè la salvezza non proviene dall'impegno dell'uomo, bensì da Dio, che si è rivelato e si è donato all'uomo nel suo Cristo e ciò indipendentemente dalla sua bravura o dalla sua santità o dal suo peccato57. Salvezza, quindi, come dono di amore gratuito e incondizionato, a cui l'uomo è chiamato a dare la sua risposta esistenziale (Gv 3,16). In questo contesto il protagonista primo e assoluto è soltanto Dio, fonte di ogni santità e santificazione. L'uomo è solo oggetto privilegiato dell'amore divino (Gv 3,16a), chiamato in Gesù a dare la sua adesione esistenziale58, lasciandosi coinvolgere dal piano salvifico del Padre, rivelatosi in Gesù (Gv 14,8-11.24). Questa posizione teocentrica/cristocentrica è propria di Matteo, che nella sua radicalità sottolinea come la salvezza provenga direttamente ed esclusivamente da Dio, escludendo ogni diversa possibilità di raggiungerla per l'uomo, incapace di produrre salvezza da se stesso. Una dura accusa contro il giudaismo e quei giudeocristiani che non avevano ancora colto in pienezza la novità sconvolgente del messaggio di Gesù, ma ancora lo vivevano attraverso il filtro del giudaismo e secondo i suoi schemi.



vv.27-29: se la precedente pericope (vv.23-26) era l'immediata reazione al v.22, questa in esame si presenta come l'attualizzazione del v.21. Lo schema qui adottato dall'autore è speculare, per cui al v.22 fanno seguito i vv.23-26 e al v.21 i vv.27-29, con un movimento che va dall'interno all'esterno. In tal modo l'autore attualizza il comportamento del giovane all'interno della sua comunità, da un lato stigmatizzando coloro che, dopo aver intrapreso o stanno intraprendendo il cammino cristiano, lasciano perché incapaci di una scelta radicale, non avendo saputo posporre i propri interessi alle esigenze del Regno (22.23-26); dall'altro, rispondendo a coloro che, invece, hanno accolto nella loro vita la proposta di Gesù (v.21.27-29).


Questa pericope (vv.27-29) è scandita in tre parti:


A) la prima (v.27) è introduttiva e forma da aggancio al v.21, riprendendone il tema;


B) la seconda (v.28) parla della ricompensa spirituale e delle nuove identità spirituali riservate ai Dodici, che per primi, accettando il rischio della sequela, hanno deciso la loro vita per questa, venendo in tal modo associati al destino di Gesù. Si tratta di una ricompensa che viene inquadrata in un contesto escatologico, e che ha come tema il giudizio finale


C) la terza (v.29) riguarda una ricompensa offerta a tutti i futuri seguaci di Gesù. Essa ha un duplice volto: orizzontale e verticale nel contempo, ma che si radica in vario modo fin d'ora nel presente.


Il v.27 si apre con l'espressione “Replicando59, Pietro disse”. La replica di Pietro è riferita non tanto a quanto è stato detto alla pericope immediatamente precedente (vv.23-26), bensì al v.21, che qui viene ripreso. Infatti, al “va e vendi i tuoi averi” del v.21 corrisponde qui l'attualizzazione “noi abbiamo lasciato tutto”; il “da qui seguimi” del v.21, poi, trova la sua contropartita già attualizzata in “ti abbiamo seguito” del versetto in esame. In altri termini, la via della perfezione indicata al v.21 nella spogliazione dei propri beni per dedicarsi in piena libertà alle esigenze della sequela, ha trovato una sua prima risposta proprio nei discepoli, che hanno lasciato tutto per seguire Gesù. Pietro, pertanto, replica all'indicazione del cammino di perfezione richiamando l'attenzione sul fatto che quel cammino loro, i discepoli, già l'hanno attuato. Si tratta, dunque, di capire o, per meglio dire, di dettagliare quell'espressione sibillina “avrai un tesoro nei cieli” del v.21. Da qui la logica domanda di Pietro “che cosa, dunque, avremo?”. Si badi bene che qui Pietro non cerca di barattare la loro decisione di sequela con Gesù, cercando di ricavarne il più possibile. Non c'è qui nessun baratto. Pietro semplicemente riprende le parole di Gesù “avrai un tesoro nei cieli” e chiede a Gesù, di cosa si tratti. Nessuna trattativa sindacale, pertanto, nessuna meschineria utilitaristica, nessuna ricerca di tornaconto, ma soltanto ricerca di quella verità che è già insita nel destino di coloro che hanno optato per una radicale e integrale sequela di Gesù, unendosi incondizionatamente al suo destino.
I vv.28-29, nel rispondere alla domanda di Pietro, specificano il contenuto e il senso dell'espressione “avrai un tesoro nei cieli” del v.21 e, pertanto, rivelano il destino che aspetta a coloro che si sono resi discepoli nella sequela, che è conformazione del proprio vivere a Gesù. La risposta che Matteo dà qui è duplice: la prima (v.28) è riservata agli intimi di Gesù, al suo gruppo storico, che lo ha seguito incondizionatamente; la seconda (v.29) guarda al futuro di una chiesa in espansione (Mt 28,19-20) ed è rivolta all'universalità dei credenti (“chiunque”).

Il
v.28 riporta la prima risposta di Gesù, propria questa del solo Matteo60 e che l'autore riserva in via esclusiva al gruppo dei Dodici, istituzionalmente intesi. La particolare attenzione che l'evangelista incentra sui Dodici risente della forte istituzionalizzazione della comunità di Matteo, che probabilmente, per superare all'interno della propria comunità delle tensioni centrifughe o troppo autonome o dottrinalmente deviate o non troppo ortodosse, rimarca una volta di più la centrale importanza dei Dodici, quale fondamento e matrice di ogni comunità credente. Il gruppo dei Dodici sono qui presentati non solo come intimamente associati al destino di Gesù, ma anche come i capostipiti del nuovo Israele. Si tratta, quindi, di una sorta di apoteosi dei Dodici, assimilati a Gesù sia nel cammino della croce che in quello della sua risurrezione, creando, quindi, una profonda saldatura tra Gesù e loro, così da essere colti come una sorta di prosecuzione storica del Risorto, che vive ed opera in loro.

Il v.28 inizia con l'espressione “In verità vi dico”, imprimendo veridicità e certezza ai vv.28 e 29 e dando loro un tono di solennità. I discepoli sono qui definiti come coloro che hanno seguito Gesù e si sono posti al suo servizio (oƒ ¢kolouq»santšj, oi akolutzésantes61). Il verbo al participio aoristo, infatti, definisce, in quanto participio, la natura stessa dei discepoli; in quanto aoristo62 indica come all'origine della loro sequela-servizio ci sta una scelta che si colloca nel passato ed ha cambiato la loro natura, trasformandoli da semplici uomini in nuove creature. Significativo in tal senso è la chiamata che Gesù rivolge ai primi discepoli: “Orsù, venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” (Mt 4,19), un'espressione che lascia intravvedere come la sequela porta ad una trasformazione, ad un cambiamento profondo (verbo al futuro), che coinvolge il discepolo nella sua interezza. Marco sottolinea maggiormente il senso della trasformazione dicendo “vi farò diventare” (poi»sw Øm©j genšsqai, poiéso imâs ghenéstzai) in cui il verbo genšsqai, lascia intravvedere una nuova nascita63. Questa nuova nascita si colloca in una prospettiva di una nuova creazione (™n tÍ paliggenes…v, en tê palinghenesía), in cui il Figlio dell'uomo viene descritto come intronizzato nella sua gloria, e ha a che fare con la rigenerazione, originatasi nella risurrezione. In tal senso, Paolo, rivolto alla sua turbolenta comunità di Corinto, scrive: “Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17); così similmente Giovanni nella sua Apocalisse indica come nel Risorto si sia compiuta una nuova creazione, rinnovata per mezzo dello Spirito: “E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; [...]” (Ap 21,5), per questo egli è in grado di vederla “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più” (Ap21,1). Nuova creazione, nuova generazione di celi nuovi e terra nuova, che già erano stati preconizzati da Isaia “Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente” (Is 65,17)64. Un rinnovamento, una palingenesi, che Ezechiele vede in una rigenerazione dell'infedele Israele, in esilio a Babilonia (597-538 a.C.), in nuova creatura fedele a Dio e rispondente alle sue esigenze, per mezzo della potenza del suo Spirito: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia. Moltiplicherò i frutti degli alberi e il prodotto dei campi, perché non soffriate più la vergogna della fame fra le genti” (Ez 36,25-30). Ed è proprio lo Spirito il fautore di questa palingenesi, di questa ricreazione, che è rigenerazione e trasformazione della materia corrotta e corruttibile in materia spiritualizzata, che si è operata dapprima in Gesù e poi in tutti coloro che gli appartengono65 e sui quali è stato posto come sigillo e caparra delle realtà future66. Questa è la visione di una nuova creazione, rigenerata nello Spirito e per mezzo dello Spirito, in cui loro, i discepoli che hanno seguito Gesù, mettendosi al suo servizio, entreranno. La sequela li ha associati e assimilati a Gesù, messia sofferente, sul cammino della croce, per questo saranno associati e assimilati a lui nella sua gloria: “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21.23). Concetto questo che Paolo esprime a modo suo con profondità teologica e dottrinale: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 6,3-8).
Il v.28 parla, dunque, del gruppo dei Dodici, definiti come seguaci e servitori di Gesù, a lui assimilati, pertanto, nella sua gloria. La gloria e la potenza del Risorto, espressa all'interno di una cornice di palingenesi, di creazione rinnovata nello Spirito e da questo nuovamente generata, è simboleggiata dal suo trono da cui si irradiano, quale impronta di questo trono e sua diretta emanazione, altri dodici troni, su cui siedono i Dodici. Essi sono qui colti come il principio, l'inizio, la matrice di un nuovo Israele, che affonda le sue radici nella sua matrice prima del Gesù glorificato. La visione di questi Dodici, assimilati alla gloria di Gesù, quasi in una sorta di sua emanazione divina, e collocati all'interno di un contesto di una nuova creazione, rigenerata nello Spirito, dice come la chiesa sia il luogo visibile di questa nuova creazione (Ap 21,1-5) e come tutti quelli che le sono fedeli nei Dodici possono dirsi da essi generati e ad essi appartenenti e, per questo, fin d'ora partecipi della gloria futura. Questa catena di fedeltà che lega il credente ai Dodici e per mezzo di questi al Risorto e alla sua gloria, viene ricordata da Giovanni nella sua prima lettera: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4).
Il v.29 è quello che meglio risponde alla domanda di Pietro “noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa, dunque, avremo?”. Esso costituisce, pertanto, la seconda parte della risposta di Gesù ed è rivolta non più al gruppo dei Dodici, associato nella palingenesi alla gloria del Risorto, ma a tutti coloro che hanno operato la loro scelta esistenziale in favore del Regno: “p©j Óstij” (pâs óstis, chiunque). Il versetto, quindi, possiede in sé un respiro di universalità ed è aperto all'intera umanità. Il peso dell'intero versetto va a cadere sull'espressione “a causa del mio nome”, che motiva e giustifica sia l'abbandono dei beni terreni sia la ricompensa per tale abbandono. Si noti come qui non si tratta di rinunciare solo a dei beni materiali, ma anche al mondo degli affetti più vivi e più sinceri, che si radicano nella vita stessa di ogni uomo. Ancora una volta Matteo torna sul concetto della primarietà del Regno su tutto. A coloro che si preoccupavano del vivere quotidiano, manda a dire che la cosa più importante è la ricerca del Regno (6,33); mentre a quelli, che per motivi familiari titubavano o rinunciavano alla fede, ricorda che “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me” (10,37); mentre a colui che chiede di adempiere al pietoso della sepoltura nei confronti del padre, prima di seguirlo, Gesù replica: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu và e annunzia il regno di Dio” (Lc 9,60). Sono certo dei paradossi, ma lasciano intendere la radicalità con cui si impongono le esigenze del Regno di Dio e la determinazione di chi ha deciso di consacrargli la sua vita e che il verbo “¢fÁken” (afêken) esprime molto bene67.
La ricompensa del centuplo certamente non va pensata in termini letterari o materiali, ma, come simboleggia il numero cento, di cui è metafora, parla di totalità, di pienezza, di completezza68, che sfocia naturalmente nella vita eterna, di cui è fatto erede il vero credente. Una vita eterna che già è allusa e contenuta in qualche modo in quel centuplo. Matteo, a differenza di Marco (Mc 10,30) e di Luca (Lc 18,30), elimina ogni espressione che leghi la ricompensa alla storia e, quindi, alla materialità della ricompensa stessa, probabilmente per togliere ogni equivoco alla sua comunità di ricchi e benestanti cristiani provenienti dal giudaismo, il quale vedeva nel benessere e nelle ricchezze il segno della benedizione divina; ma soprattutto per sgombrare il campo dall'illusoria attesa di beni materiali, quali ricompensa per la dedizione alla causa del Regno.
Il v.30 riporta un detto di Gesù, che il suo autore ha collocato a conclusione del cap. 19 e dà una sensazione di chiusura
brusca e, francamente, sembra un detto messo lì all'ultimo momento, ma che poco ha a che fare con il tema di questo 
capitolo. A cosa esso si riferisca è difficile dirlo, tuttavia, chi lo ha inserito deve aver ritenuto che, in qualche modo, tale 
detto commentasse sinteticamente il contenuto dell'intero capitolo. Si parla di primi e di ultimi, le cui sorti saranno 
rovesciate.

Il detto contiene in sé un senso escatologico, poiché questo tipo di rovesciamento di cose era atteso da Israele soltanto negli ultimi tempi, quale giudizio posto sulla storia da Dio. Il verbo posto al futuro, poi, sembra confermarlo. In tal senso esso coincide con il v.27 in cui si parla di una ricompensa futura (“che cosa avremo”) per la scelta operata a favore del Regno e si accompagna bene, di conseguenza, anche alle due risposte dei vv.28-29, in cui coloro che si sono spogliati di tutto a favore del Regno, ponendosi, quindi, tra gli ultimi, si ritrovano negli ultimi tempi a condividere la gloria e la pienezza della vita assieme al Risorto. Ma il loghion sembra forse anche alludere ad altri ultimi e ad altri primi, sempre in rapporto al Regno. Il cap.19, infatti, introduce discorsi e prospettive piuttosto pesanti sia da capirsi che da accettare: si parla di indissolubilità del matrimonio, che vede il divorzio, sancito dalla Legge mosaica, messo al bando e condannato come atto contrario alla legge della creazione stessa; si prospetta, al contrario, un nuovo stile di vita, che vede il Regno dei cieli messo al centro della propria vita e dei propri interessi, al punto da rinunciare allo stesso legittimo e doveroso matrimonio; si parla di una sequela che esige la spogliazione dei propri beni. La comprensione e l'accettazione di queste nuove realtà, che richiedono nuovi stili di vita, non sono alla portata dei primi, in questo caso delle autorità giudaiche (v.3) e dei ricchi (vv.22-23), i quali hanno molto da perdere e, quindi, per questo si rendono indisponibili alla sconvolgente proposta del Regno, così lontana dal loro sentire e dalle loro logiche. Al contrario, i piccoli, che nulla hanno da perdere e si pongono di fronte a Gesù con semplicità e umile disponibilità, sono i primi a cogliere queste nuove realtà e a comprendere i misteri del Regno a cui sono chiamati (vv.11.13-15). Per questo, nel contesto delle nuove realtà apportate dal Regno e del suo instaurarsi in mezzo agli uomini, i primi saranno gli ultimi e questi i primi. Il rovesciamento è operato dalle nuove logiche del Regno, che in definitiva sono le stesse di Dio. Egli, infatti, ricorda al suo popolo come “[...] i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie […]. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9). Per questo si rende necessario un atteggiamento di costante conversione, per riconfigurare la propria vita alle logiche divine, aprendosi alle sue esigenze, rese manifeste e raggiungibili nel Regno.
Il loghion, inoltre, da un punto di vista narrativo, si pone come introduzione alla parabola immediatamente seguente, quella degli operai chiamati a lavorare nella vigna (cap.20,1-15), la quale termina con l'identico loghion (v.20,16), formando con il primo (v.19,30) una inclusione, che delimita la parabola in questione sia tematicamente che come unità narrativa a se stante.


                                                                                                                                                        Giovanni Lonardi


NO T E

1Il tema del tentare Gesù e di congiurare contro di lui ricorre prima di questo quarto intermezzo soltanto due volte, nei vv.12,14 e 16,1; mentre qui ricorre significativamente per ben sei volte: 19,3; 21,15.45; 22,15.34-35; 26,3-4.

2I quattro racconti sono, in ordine: la diatriba sul divorzio (19,3-9), il giovane ricco e la sequela (19,16-22), gli operai dell'ultima ora (20,1-15), i due figli di Zebedeo e i primi posti (20,20-28). Vi è anche un quinto racconto conclusivo dei due capitoli, che narra della guarigione dei due ciechi di Gerico (20,29-34), ma che qui non viene associato agli altri perché mosso, come vedremo, da sue logiche interne e non denunciano problemi della comunità, benché ad essa sia rivolto.

3L'espressione tedesca significa letteralmente “il posto nella vita” ed è usata dagli esegeti per indicare il contesto vitale (storico, sociale e culturale) a cui è legato o da cui è nato il racconto.

4Cfr. La voce “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

5L'allusione è qui è a Is 50,7: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”, tratto dal terzo canto del Servo di Jhwh.

6Gerico si trova a circa 259 mt sotto il livello del mare ed è la città più depressa del mondo, mentre Gerusalemme è situata a circa 740 mt sul livello del mare. Gesù, dunque, passando da Gerico per raggiungere la sommità di Gerusalemme doveva innalzarsi di circa 1000 metri. - Cfr. il termine “Gerico” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

7Cfr. Mt 10,5; Gv 4,9b; 8,48. È significativo in tal senso come i termini Samaria o Samaritani siano citati in tutto il N.T. venti volte, di queste soltanto una volta, in senso negativo dall'ebreo Matteo (10,5), nessuna volta dal connazionale Marco, sette volte da Giovanni, in senso tendenzialmente positivo, che pur essendo ebreo tuttavia compose il suo vangelo al di fuori della Palestina, probabilmente ad Efeso; dodici volte da Luca, l'evangelista dei gentili, che vede con occhio favorevole la conversione del mondo pagano, in primis, proprio i Samaritani, ai quali non nasconde la sua simpatia.

8In tal senso cfr. Gal 2,20; Rm 6,3-11.

9Cfr. Rm 6,4-8; Gal 2,20

10Le altre cinque diatribe sono riguardanti la provenienza dell'autorità di Gesù (21,23-27); il tributo a Cesare (22,15-22); la risurrezione dei morti (22,23-33); qual è il comandamento più grande (22,34-40); il messianismo di Gesù (22,41-46).

11Cfr. anche il commento al v.16,1 della presente opera.

12Cfr. Mt 16,1; 19,3; 22,18.35

13Anche per Giovanni il diavolo è il burattinaio che muove le fila degli avversari di Gesù (Gv 13,2.27).

14Cfr. commento ai vv. 5,31-32 (pagg.27-28) della presente opera.

15Lo scioglimento del matrimonio, di diritto spettante soltanto al marito, consisteva nel pronunciare davanti a due testimonio la frase uguale e contraria a quella con cui si era concluso il matrimonio: “Essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito” (Os 2,4a). La pronuncia veniva poi formalizzata con l'atto di ripudio, denominato Ghet, consegnato direttamente dal marito alla moglie o per mezzo di un suo intermediario. Con tale atto la ex moglie veniva liberata dal vincolo e poteva sposarsi nuovamente. - Cfr. A. Cohen, Il Talmud, Editori Laterza, Bari 1999; R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, op. cit.

16La tradizione rabbinica ha conservato il ricordo di due grandi farisei, Shammai e Hillel, fondatori, tra il 10 e il 70 d.C., di due scuole, la Bet Shammai e la Bet Hillel, le cui tradizioni sono state raccolte dalla scuola di Yavne o Jamnia, fondata nel 70 d.C. da Rabbi Jochanan ben Zakkaj, subito dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani. Fu questa scuola che dette origine al giudaismo rabbinico. Il fariseo Shammai nacque in Giudea a cavallo tra il I sec. a.C. e l'inizio del I sec. d.C. - Svolse la sua attività a Gerusalemme e fu un convinto sostenitore delle tradizioni orali del fariseismo. Egli avanzava delle serie riserve sul metodo di Hillel che, anziché rifarsi al criterio dell'autorità della Tradizione, preferiva risolvere le questioni legali attraverso il ragionamento. Il fariseo Hillel visse tra il 50 a.C. e il 10 d.C. - Giunse a Gerusalemme da Babilonia in età matura. Fu il promotore del metodo che deduce la legge orale dal testo biblico, applicando certi principi esegetici. Egli imprime nella sua scuola la tendenza a risolvere i conflitti legali ricorrendo al ragionamento e non all'autorità degli Antichi. - Cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, op. cit.- pagg. 130-131.

17Il Kethubah è il contratto di matrimonio, sottoscritto durante la cerimonia matrimoniale, da due testimoni non legati da vincoli di parentela con gli sposi. L'elemento essenziale del contratto è l'impegno che l'uomo si assume di onorare la sua sposa, provvedere al suo necessario sostentamento e accreditarle una determinata somma. Tale somma, secondo il diritto rabbinico è di duecento zuz (un zuz corrisponde ad una giornata di lavoro) per una vergine; di soli cento zuz per una vedova o una ripudiata. In caso di morte del marito, la moglie riceve la parte di eredità consistente nel patrimonio esistente fino a quel momento. In caso di separazione senza colpa, la donna riceve tutto ciò che le spetta; in caso di colpa, essa riceve solo la dote, ma perde l'assegno di indennizzo. - Cfr. Gunter Stemberger, La Religione ebraica, Edizioni Dehoniane, op. cit.

18Una testimonianza in tal senso si trova nella Prima Lettera ai Corinti: “Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra” (1Cor 11,6).

19Sulla questione della casistica che giustificava il divorzio cfr. A. Cohen, il Talmud, op. cit. - pagg. 207-209

20Cfr. Es 4,21; 7,22; 8,15; 9,12.35; 10,27; 33,3; Dt 2,30; 9,6.27; 31,27; Gdc 2,19; 2Re 17,14; 2Cr 30,8; 36,13; Ne 9,16.17.29; Sal 94,8; Prv 17,20; 28,14; Sir 3,26.27; 16,10; Is 48,4; 63,17; Ger 4,4; 7,26; 17,23; 19,15; Ez 3,7;

21Cfr. Es 32,9; 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; 10,16; 31,27; 2Re 17,4; 2Cr 30,8; Ne 9,16.17.29; Ger 7,26; 17,23; Bar 2,30; Ez 3,7.-

22 Cfr. Sal 77,8; Sir 16,6; Is 30,9; 65,2; Ger 2,31; 3,6.8; 5,23; 31,22; 49,4; Os 4,16; 12,1.-

23Cfr. Dt 32,5.20; Sap 12,10; 23,22.-

24I due rabbini facevano parte della seconda generazione di Tannaiti (90-130 d.C.). Questi erano maestri di riconosciuta autorità, il cui insegnamento era trasmesso oralmente, mediante fedele ripetizione. Questi rabbini appartengono ai primi due secoli d.C. fino a Rabbi Jehudah ha-Nasì, che si assunse il compito di mettere per iscritto tutta la Torah orale, dando vita alla redazione della Mishnah, la cui interpretazione dette origine alla alla Ghemarah e nel loro insieme formeranno il Talmud. - Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e Teologia, op. cit.

25Cfr. R. Fabris, Matteo, nota 11 di pag 423

26Cfr. la voce Matrimonio in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

27Matteo è l'unico a riportare questo inciso sul celibato a favore del Regno dei cieli e probabilmente è una sua elaborazione, più che un detto di Gesù, per rispondere alla scelta celibataria compiuta da alcuni, particolarmente sensibili ai valori del Regno, all'interno della sua comunità e detestata da altri. Sarà proprio questa sensibilità verso i valori del Regno, che spingerà molti cristiani a ritirarsi nel deserto, dando vita, intorno al III sec., al monachesimo, che ha avuto una sua prima fase nell'ascetismo cristiano, molto diffuso e che traeva la sua aspirazione proprio dai cosiddetti “consigli evangelici”di Mt 19,12.21 e di 1Cor 7,7ss. In tal senso cfr. K. Bihlmeyer – H Tuechle, Storia della Chiesa, 1-L'antichità cristiana, op. cit.

28Cfr. R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo; tutte le op. cit.

29Cfr. Rm 13,11-14; 1Cor 4,5; 7,1b.25-31; 10,11b; 16,22b; 1Ts 3,13; 4,15; 5,1-11.23; 1Tm 4,1-5; 2Tm 3,1;

30Cfr. At 1,6-7; 2Ts; Eb 10,37; 1Pt 1,5.20; 2Pt 3,10.12; 1Gv 2,28; Gd 1,18; Gc 5,7a.8; Ap 22,20.

31Cfr. A. Cohen Il Talmud, op. cit.

32Circa le diverse ipotesi a cui apre il termine parola cfr. R. Fabris, Matteo, pag. 422, op. cit.

33Il giudaismo conosceva due tipi di eunuchi: quelli resi tali dagli uomini (sārīs 'ādām) e quelli generati tali (sārīs hammāh). Quest'ultima espressione, sārīs hammāh, letteralmente significa “eunuco del sole”, cioè colui che è eunuco da quando ha visto il sole e, pertanto, fin dalla nascita.

34L'etimologia del termine eunuco non è chiara e sembra derivare da una parola assira, che letteralmente significa “colui che sta vicino alla testa”, sotto inteso quella del re. Il significato principale, quindi, non sembra essere quello di castrato, bensì di ministro o funzionario del re. Erano, a detta di Erodoto, storico greco (Hist. 8,105), personaggi molto affidabili e per questo venivano presi spesso a servizio dei sovrani orientali come maggiordomi. Nella lingua ebraica il termine assunse anche il significato di castrato. È difficile, quindi, capire, talvolta, a quale dei due significati ci si riferisca o se, invece, si pensi ad entrambi. Nelle corti orientali gli eunuchi, uomini resi impotenti, avevano anche funzioni di custodia dell'harem del re, benché svolgessero anche altri incarichi. In tal senso il termine greco eunuco (eÙn» œcw) significa letteralmente “colui che ha (la custodia del) letto”. - Per le note 31 e 32 cfr. la voce “Eunuco” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

35Similmente il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sula Chiesa, Lumen Gentium, al riguardo della natura della vita consacrata, al § 44, afferma che “[...] egli (il fedele) si dona totalmente a Dio amato al di sopra di tutto, così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all'onore di Dio. Già col battesimo è morto al peccato e consacrato a Dio; ma per poter raccogliere in più grande abbondanza i frutti della grazia battesimale, con la professione dei consigli evangelici nella Chiesa intende liberarsi dagli impedimenti che potrebbero distoglierlo dal fervore della carità e dalla perfezione del culto divino, e si consacra più intimamente al servizio di Dio. La consacrazione poi sarà più perfetta, in quanto legami più solidi e stabili riproducono di più l'immagine del Cristo unito alla Chiesa sua sposa da un legame indissolubile. […] la loro vita spirituale deve pure essere consacrata al bene di tutta la Chiesa. Di qui deriva il dovere di lavorare, secondo le forze e la forma della propria vocazione, sia con la preghiera, sia anche con l'attività effettiva, a radicare e consolidare negli animi il regno di Cristo e a dilatarlo in ogni parte della terra. Per questo la Chiesa difende e sostiene l'indole propria dei vari istituti religiosi. Perciò la professione dei consigli evangelici appare come un segno, il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana. Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale rende più liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l'esistenza di una vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste. [...] Infine, in modo speciale manifesta l'elevazione del regno di Dio sopra tutte le cose terrestri e le sue esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli uomini la preminente grandezza della potenza di Cristo-Re e la infinita potenza dello Spirito Santo, mirabilmente operante nella Chiesa. […].”.

36Cfr. la voce “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

37In tal senso cfr. Mt 5,23; Gv 16,2; At 21,26; Nm 17,3; Eb 5,1.3; 8,3.4; 9,7.9.25; 10,1.2.8.11; 12,7.-

38Più volte si è ricordato come nel linguaggio neotestamentario i verbi al passivo alludono all'intervento di Dio. Per questo i verbi al passivo sono definiti come passivi teologici o divini.

39Cfr. At 6,3-6; 13,1-3; 28,8.-

40Cfr. 1Cor 3,1-3; Gal 4,1-11; Ef 4,14-15; Eb 5,11-14; 1Pt 2,2. - Cfr. anche la voce “Bambino” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.

41Cfr. Rm 6,19a; 14,1-23; 15,1-2.7; 1Cor 8,1-13; 10,23-33; 1Ts 5,14; Gc 4,11a.-

42Cfr. vv.16,20-21; 17,22; 20,17-19

43Matteo, unico tra i sinottici, definisce il nostro personaggio con il termine giovane (v.22a). Per Marco, infatti, è una persona adulta, considerato che questa afferma di osservare i comandamenti fin dalla sua giovinezza (Mc 10,20); e parimenti adulto è l'uomo di Luca, indicato come uno dei capi (Lc 18,18) e anche lui, come il personaggio marciano, osservava i comandamenti fin dalla sua giovinezza (Lc18,21). Se Matteo, scostandosi dalla tradizione, definisce questa persona come un “giovane” (v.22a), ciò significa che il suo messaggio è indirizzato ad una particolare categoria di persone, che noi riteniamo essere quella dei catecumeni e/o dei neofiti, cioè i giovani di fede. Due, infatti, sono gli indizi: questo personaggio è definito come “colui che si è avvicinato a Gesù” (In greco è reso con un participio aoristo, che in genere indica la natura di una persona e la qualifica per quello che è: eŒj proselqën, eîs proseltzòn). Non si tratta, quindi di uno che già segue Gesù ormai da tempo, ma che si è avvicinato a lui, che è orientato verso di lui (proj + elqën), anche se non lo ha ancora definitivamente raggiunto, lasciando intuire una sorta di cammino catecumenale, a cui erano sottoposti i candidati al battesimo e che nella chiesa primitiva aveva la durata di circa tre anni. Il secondo indizio sta nella definizione dell'età di questo personaggio: è un giovane. Il termine, tuttavia, non va preso alla lettera, ma è metafora del giovane nella fede, cioè del catecumeno o del neofita. A loro probabilmente Matteo si rivolge per sferzarli a motivo della loro indecisione, dei loro tentennamenti e dei loro compromessi con la nuova fede e il loro vecchio modo di vivere.

44La durezza del catecumenato ci è testimoniato da Ippolito di Roma nella sua operetta La Tradizione Apostolica, fatta risalire intorno al 215. Chi desiderava entrare nel cristianesimo doveva essere presentato da alcune persone che dovevano testimoniare sulla serietà delle sue intenzioni e, quindi, il candidato sottostava ad un severo esame per accertarsi della sincerità delle sue disposizioni, del suo stato sociale e civile e della sua professione, che dovevano essere compatibili con le esigenze della nuova fede altrimenti l'aspirante cristiano veniva respinto finché non si verificavano tutte le condizioni di accesso. Se il candidato superava la prima prova di idoneità, incominciava un cammino di preparazione al battesimo della durata di tre anni, che veniva denominato catecumenato. Al termine del periodo i candidati venivano sottoposti ad un'ulteriore selezione e solo chi aveva saputo dimostrare la sua idoneità veniva fatto accedere al battesimo. - Cfr. Ippolito di Roma, La Tradizione Apostolica,Paoline Editoriale Libri, Milano 1995.

45Cfr. Es 7,6.10.20; 12,28; 19,8; 24,3.7; 25,9; Lv 24,3; Dt 5,27; 30,12; 32,46.-

46Il giudaismo di fatto non sviluppò mai una sua vera e propria teologia, ma si limitò sempre ad una meticolosa analisi della Torah e dei suoi comandi, finalizzata ad inculturare nella quotidianità i comandamenti stessi.

47Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, pagg. 259 e 384-386 – op. cit.

48Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pag. 534 – op. cit.

49Cfr. 1Cr 16,34; 2Cr 5,13; 7,3; 30,18; Sal 24,8; 33,9; 85,5; 99,5; 102,8; 105,1; 115,5; 134,3; 144,9; Ger 33,11; Na 1,7; Dn 3,89; Sap 15,1. -

50Cfr. il termine “Buono, Bontà” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

51Cfr. Gen 26,4-5; Es 19,5-6; Lv 26,3-7; Dt 4,40; 11,13-15; Sal 118; Prv 7,2; Sir 1,23;

52L'espressione “vita eterna” è sinonimo di vita di Dio. Essa è resa in greco con “zw¾n a„ènion” (Zoèn aiónion) in cui il sostantivo Zoèn indica una vita qualitativamente superiore a quella fisica, che viene definita con il nome di b…oj. Per questo molto spesso nella Bibbia, ma in particolar modo negli scritti giovannei, in cui il termine ricorre 59 volte, è sempre riferito alla vita di Dio.

53Mc 1,22.27; Mt 4,20.25; 7,29; 8,1.19; 9,9; 20,34; 21,23; Lc 4,32.36; Gv 12,10-11.

54Mt 28,17; Mc 3,21; Gv 6,60.66; 7,5; 12,37.-

55Lo Shema' Israel (Ascolta Israele) più che una vera e propria preghiera era una sorta di promemoria, che il pio israelita recitava due volte al giorno, al mattino e alla sera. Esso costituisce il cuore della fede ebraica. Letterariamente è composto da una premessa (Dt 6,4), che proclama l'unicità di Dio e la sua assoluta signoria, e da tre parti, tratte da alcuni testi della Torah. La prima parte, che proviene da Dt 6,5-9, esorta ad un amore di Dio totalmente coinvolgente la persona fin nel profondo del suo essere, radicato nei comandamenti divini, da trasmettere alle generazioni future; la seconda, dettata da Dt 11,13-21, riporta la promessa di benedizioni e maledizioni riguardanti rispettivamente l'osservanza o la trasgressione dei comandi divini; la terza parte, composta da Nm 15,37-41, dispone le modalità utili per ricordare, attraverso simboli da portare addosso, i comandamenti divini.

56Cfr. R. Fabris, Matteo, nota 5 – pag. 428, op. cit.

57Cfr. Rm 3,19-30; 5,6-10; Gal 2,16.

58Cfr. Rm 8,28-30; 1Cor 1,2.9; 1Pt 1,15. -

59Il verbo greco “¢pokriqeˆj” (apokritzeìs), benché significhi anche rispondere, tuttavia possiede in sé anche un senso di critica su ciò che è stato detto, che implica una sorta di discernimento per meglio comprendere e, quindi, lascia intendere un atteggiamento di discussione e di ricerca. Per questo abbiamo preferito tradurre con il verbo “replicando”, che meglio si avvicina al senso del verbo ¢pokrnw (apokríno).

60Luca riporta in 22,28-30 un testo simile a questo di Matteo, ma posto in un contesto completamente diverso, quello dell'ultima cena. In Marco, invece, non vi è nulla che si possa assimilare a Mt 19,28.

61Il verbo ¢kolouqšw significa seguire, ma possiede in sé anche un forte senso di servizio. Si tratta, quindi, di una sequela che si traduce e si esprime in una dedizione totale della propria vita a Gesù, posta al suo servizio. Per questo Gesù lamenterà che l'attaccamento alle ricchezze e ai beni materiali costituisce un ostacolo all'entrata nel Regno dei cieli (19,23).

62L'aoristo è un tempo verbale greco che corrisponde al nostro passato remoto e indica un'azione puntuale nel tempo.

63Il verbo ggnomai, tra i numerosi significati, tutti legati al diventare, all'accadere e all'essere, ha anche quello di nascere.

64Cfr. anche Is 66,22

65Cfr. Rm 1,4; 1Cor 15,20.22

66Cfr. 2Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14.

67Il verbo ¢fhmi significa gettare, scagliare, mandare via, scacciare, lasciar andare, ripudiare. Verbi questi che inducono a pensare alla drasticità e alla determinazione dell'azione con cui il vero credente è chiamato ad operare e su cui conformare il suo modo di vivere.

68Cfr. la voce “Dieci” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.