IL VANGELO DI MATTEO

Terzo intermezzo narrativo


L’identità rivelata di Gesù: Messia e Figlio di Dio;

stupore e riconoscimenti, incredulità e incomprensioni



Analisi e commento ai capp. 14-17

Terza Parte (Cap. 16)






ANALISI E COMMENTO

AL CAP. 16






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Introduzione


Nell'introdurre il commento al cap.14 si era detto che Matteo, con quel capitolo, inseriva tra il terzo (cap.13) e il quarto (cap. 18) grande discorso di Gesù il suo terzo intermezzo narrativo (capp.14-17)1, la cui finalità era quella di mettere in rilievo la vera natura di Gesù, colto come Messia e come Figlio di Dio e, quindi, la sua stessa divinità. Abbiamo visto come il cap.14 terminava con la confessione della comunità credente, che riconosceva Gesù come vero Figlio di Dio: “Veramente tu sei Figlio di Dio” (14,33); il cap. 15, dal respiro universalistico e aperto al mondo pagano, verso la sua conclusione, presentava una figura plastica e solenne di Gesù, seduto sul monte della gloria divina, avvolto nella sua ieraticità e nella sua sacralità divine, mentre rigenerava un'umanità profondamente ferita dalla colpa, traendone una lode universale, che lo riconosceva come la manifestazione e l'azione stessa del Dio d'Israele in mezzo a loro: “E glorificavano il Dio d'Israele” (15,29-31). Ora, Matteo, con il cap.16, prosegue la sua analisi della figura di Gesù e giungerà a proclamarlo solennemente, in mezzo alla sua comunità, come Messia e Figlio di Dio, ponendo la confessione sulle labbra di Pietro (16,16), che viene colto come la pietra fondativa della chiesa stessa, l'erede storico del potere spirituale di Gesù (16,18-19). Un capitolo questo molto importante poiché si preciserà il senso del messianismo di Gesù, legandolo alla sua passione, morte e risurrezione (16,21). Un concetto totalmente nuovo e stravolgente per il giudaismo di quel tempo, scandalizzato e incredulo di fronte a simili dichiarazioni (16,22). Per questo si rende necessaria una radicale conversione e una profonda revisione sul proprio modo di pensare e di essere, che prevede un rinnegamento di se stessi, un caricarsi della croce per poter essere seguaci di un nuovo e scandaloso messianismo, che va contro tutte le regole e le logiche umane, poiché racchiude in sé la logica stessa di Dio (16,23-25). Un capitolo questo che preparerà ad un nuovo approfondimento della figura di Gesù come Figlio di Dio. Infatti, se il cap.16 chiarisce il messianismo di cui è portatore Gesù, il cap.17 indicherà tutta la gloriosa potenza che si racchiude dentro il titolo di “Figlio di Dio” (17,2-6). Tuttavia, prima di accedere a concetti così profondi, che trascendono la normale comprensione dell'uomo, è necessario far fare alla propria vita un salto di qualità, proprio della fede. Per questo il cap.16 si apre denunciando, ancora una volta, sia la pervicace incredulità del mondo giudaico, che Gesù abbandonerà definitivamente (16,1-4), sia l'inintelligenza dei discepoli, che pur seguaci del Maestro, tuttavia, faticano molto a comprendere la dimensione umano-divina di Gesù, le sue esigenze, il senso della sua missione, il suo essere Messia e Figlio di Dio.

Non deve scandalizzare questa difficoltà a credere in Gesù sia da parte del mondo giudaico che da parte dei discepoli. Una difficoltà per certi aspetti comprensibile e anche giustificabile. Gesù, infatti, non aveva nulla di appariscente, né si è mai presentato e mai ha operato in modo scoperto con la sua potenza divina; del resto egli stesso ha respinto fin dall'inizio una missione all'insegna del miracolistico e del portentoso (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). Mai il Padre è intervenuto a sua difesa , mai ha tentato una qualche sua sponsorizzazione eclatante davanti agli uomini, per facilitargli la missione2. Gesù si è totalmente assoggettato alle regole della storia e sempre si è presentato come un semplice uomo e come tale è stato percepito (Mt 13,55-56; Mc 6,3). Egli fu un uomo che nella sua predicazione e nel suo operare si poneva sovente contro la classe sacerdotale, contro le autorità religiose3 e non di rado violava o minimizzava la stessa Legge mosaica4, che cercò anche di reinterpretare (Mt 5,21-48; 15,10-11.17-20): violava sovente il sabato5, non rispettava le regole della purità e le contestava6, né osservava i sacri tempi del digiuno7; avanzava pretese di figliolanza divina, rivendicando per sé un rapporto diretto ed esclusivo con Dio, che dichiarava essere il suo vero Padre8. Del resto anche sua madre e i suoi stessi fratelli ebbero grandi difficoltà a capirlo e a credere in lui e lo ritenevano fuori di testa9; mentre la gente, pur vedendo i suoi miracoli, diffidava di lui e non gli credeva (Gv 12,37), e molti dei suoi discepoli, per la durezza dei suoi discorsi, lo abbandonarono (Gv 6,60.66) ed altri ancora dubitarono di lui fino alla fine (Mt 28,17).

A tal punto, chiediamoci quale sarebbe la nostra reazione di fronte ad un simile uomo, che sovente calpestava tutto ciò in cui noi crediamo da sempre e che affermava cose che andavano contro la Tradizione degli Antichi, dichiarata precetti di uomini, come dire carta straccia. Certo, compiva dei miracoli e dei segni prodigiosi, ma come interpretarli? Sono segni che provengono da Dio o da una possessione demoniaca?10 Noi, oggi, ci troviamo di fronte ad un Gesù, che è stato elaborato da duemila anni di comprensioni teologiche e ci viene chiesto di credere a questo Gesù ben filtrato dalla storia. Ma cosa succederebbe se tra di noi sorgesse un uomo che si dichiara figlio di Dio e Dio lui stesso (Gv 5,18b; 10,33), ma nel contempo si pone contro le autorità religiose cristiane e cattoliche, dichiara semplici dottrine di uomini la Sacra Tradizione della Chiesa e propone una dottrina tutta sua e del tutto nuova, che si discosta da tutto ciò che abbiamo creduto fino ad oggi e che il Magistero stesso insegna. Saremmo disposti a buttare tutto alle ortiche per seguire un simile personaggio, facesse pure dei miracoli? E come giudicheremmo o come tratteremmo i seguaci di un simile fanatico? Questa era la situazione di fronte alla quale si trovava il mondo giudaico, che personalmente non mi sento di condannare e che probabilmente non condannò neppure Gesù, anche se i vangeli ci tramandano dure prese di posizione e di condanna nei confronti degli “increduli” giudei da parte di Gesù, ma che sono, in realtà, il frutto della grande polemica sorta tra il giudaismo e l'incipiente cristianesimo del primo secolo. Il vero Gesù non lo sentiamo nelle violenti sferzate del cap.23 di Matteo, ma nell'abbraccio amoroso verso l'intera umanità nel momento della sua crocifissione (Gv 12,32), nelle parole di perdono incondizionato verso i suoi aguzzini (Lc 23,34) e verso quell'umanità derelitta, che stava morendo con lui (Lc 23,39-43); nelle parole di rimprovero verso quei discepoli che volevano incenerire i Samaritani, che lo avevano rifiutato (Lc 9,52-55); lo sentiamo nella parabola del Buon Samaritano (Lc 10,30-35) e del Figlio prodigo (Lc 15,18-32); lo vediamo nell'intimare a Pietro e ai suoi di perdonare sempre e comunque (Mt 18,21-22). Tuttavia, va detto che il rifiuto di Gesù comporta delle gravi conseguenze e pregiudica la stessa salvezza. Ma ciò non dipende da Dio, che è totale e piena accoglienza, bensì dal nostro rifiuto, che ci pone in una posizione contro Dio, vanificando la sua offerta di salvezza propostaci nel suo Figlio.

La struttura del cap.16


Il cap.16 presenta una struttura narrativa semplice, che sa legare bene i vari passaggi logici delle tre parti di cui è composto, rendendo credibile l'intera dinamica narrativa, tesa a mettere in rilievo la vera identità di Gesù e le difficoltà che si producono attorno a questa:


A) vv.1-12: Le difficoltà attorno a Gesù: chiusura e rifiuto da parte dei giudei, che chiedono a Gesù prove divine circa la sua identità (vv.1-4); inintelligenza da parte dei discepoli, che faticano non poco a capire il linguaggio di Gesù (vv.5-12).


B) vv.13-20: L'identità svelata: Gesù è il Messia ed è anche Figlio di Dio (v.16). Pietro è dichiarato pietra fondativa della chiesa ed erede del potere spirituale di Gesù (vv. 17-19). Divieto di parlare della messianicità di Gesù per evitare fraintendimenti (v.20).


C) vv.21-28: La catechesi circa il vero significato del messianismo di Gesù (v.21) e le reazioni negative ad un simile messianismo, che va contro tutte le logiche e tutte le attese (v.22-23); i criteri per la sequela di un simile messia (vv.24-28).



COMMENTO AL CAP. 16



vv.1-12: questa pericope precede la solenne confessione di Pietro sulla duplice identità di Gesù: messia e Figlio di Dio (v.16) e denuncia le resistenze che si addensano attorno a Gesù e, quindi, le difficoltà di raggiungere, sul semplice piano umano, la sua vera identità. Difficoltà che provenivano non solo dall'ostile mondo giudaico (vv.1-4), ma anche dall'interno della stessa comunità matteana (vv.5-12).

Questa pericope non dice nulla di nuovo. Infatti, l'identica questione era stata appena trattata nel capitolo precedente, dove si denunciavano sia la chiusura e la pervicace cecità dei farisei nei confronti di Gesù, da lui condannate (12,12-14), sia l'ottusità della comunità matteana, equiparata in questo agli stessi farisei (12,15-16). Tuttavia, Matteo sembra voler riprendere la questione per sottolineare, una volta per tutte, come il problema della vera identità di Gesù non potrà mai essere materia di indagine storica, né mai potrà essere storicamente raggiunta e provata. La pericope, infatti, vuole sottolineare il fallimento da parte di chi, sia esso giudeo o credente, si accosti a Gesù con l'intento di capirne il mistero con le sole forze umane. Essa, dunque, funge da preambolo a quanto Gesù dirà a Pietro, subito dopo la sua testimonianza: la scoperta di Pietro non è frutto della sua intelligenza, ma è dono che proviene direttamente dall'alto (v.17). A questa conclusione sono preordinati i vv.1-12, che pur costruiti con una loro coerenza narrativa interna, tuttavia, peccano di un'apparente ingenuità. Infatti, da un lato (vv.1-4), vengono riportati gli identici vv.12,38-39, inframmezzati da una parabola, che molti esegeti ritengono una interpolazione tardiva11; dall'altro (vv.5-12), si imbastisce un breve racconto, circa l'inintelligenza dei discepoli, attorno ad un equivoco che ha dell'incredibile se non dell'impossibile: Gesù parla del lievito dei farisei, chiaramente una metafora, gli altri capiscono, invece, un rimprovero per essersi dimenticati di prendere i pani avanzati nell'ultima moltiplicazione: sette ceste (vv.12,37). Come siano arrivati a questo è difficile dirlo. Ma forse è proprio con questo pacchiano e improbabile equivoco su lievito-pani, che l'autore voleva sottolineare la difficoltà di comprendere Gesù nel suo annuncio da parte dei suoi discepoli. Come dire: Gesù diceva una cosa e gli altri ne capivano un'altra. Se così fosse, Matteo voleva, allora, con questi versetti denunciare la situazione di grande inintelligenza, cioè di incapacità a comprendere l'evento Gesù nel suo manifestarsi, che affliggeva i seguaci in genere di Gesù e, in primis, la sua stessa comunità. In questo contesto, allora, si comprenderebbe bene il rimprovero di Gesù ai suoi: “gente di poca fede” (ÑligÒpistoi, oligópistoi, v.8); come dire che la comprensione dell'annuncio di Gesù va colto soltanto attraverso la fede, che apre e consente di accedere a livelli di comprensione superiori.

La pericope 16,1-12 è scandita in due parti: la prima riguardante il mondo giudaico, qui rappresentato da Farisei e Sadducei (vv.1-4); la seconda riferisce ai discepoli o, per meglio dire, alla stessa comunità matteana (vv.5-12).

La prima parte (vv.1-4) è caratterizzata dal ripetersi insistente di due parole chiave: segno (cinque volte); e cielo (quattro volte). Un'insistenza questa che denuncia l'innalzamento della posta nei confronti di Gesù da parte delle autorità religiose. Infatti, in 12,38 Scribi e Farisei chiedevano a Gesù semplicemente un segno. In tal senso Gesù ne aveva dati tanti: il suo parlare con un'autorità riconosciuta da tutti come superiore12 e gli stessi miracoli, che testimoniavano la sua natura messianica (Mt 11,3-6). Ora, qui, il semplice segno non è più sufficiente, ma si pretende che esso provenga dal cielo, cioè che abbia il marchio divino. Si vuole, dunque, che Dio testimoni a favore di Gesù, sottoponendo a prova Dio stesso. L'intero impianto dei primi quattro versetti, infatti, ci riporta nel contesto delle tentazioni di Gesù (4,1-11). Non a caso il v.1 presenta Farisei e Sadducei che si avvicinano a Gesù per sottoporlo a prova. Sono le identiche parole con cui si apre il racconto delle tentazioni, più evidente questo nel testo greco13: “e avvicinatosi il tentatore gli disse” (4,3a), letteralmente: “e avvicinatosi colui che sottopone alla prova gli disse”. Con questo gioco Matteo crea un parallelismo tra Satana e Farisei/Sadducei, che in comune con il primo hanno il loro voler conoscere miracolisticamente la vera natura di Gesù, impegnando Dio stesso e, quindi, tentandolo: “Se sei Figlio di Dio, trasforma questa pietra in pane … buttati giù dal tempio” (4,3.6) così che Dio intervenga a salvarti e tu mostri a tutti concretamente chi sei. In altri termini, Farisei e Sadducei avanzano le stesse pretese di Satana, sottoponendo Gesù alla stessa prova della sua divinità: mostraci un segno dal cielo e noi crederemo. Sono le stesse pretese che sempre queste autorità religiose, deridendolo, chiedevano a Gesù sulla croce: “<<Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!>>. Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: <<Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. E' il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!>>” (27,40-43). Le logiche sono identiche: servono segni, servono prove per credere. Segni e prove che devono portare allo scoperto la vera natura di Gesù, così che egli possa giustificare le sue pretese. E ancora sommi sacerdoti e anziani del popolo insistono: “<<Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?>>” (21,23). Significativa, infine, è l'ultima pretesa del sommo sacerdote, rivolta a Gesù sotto processo davanti al sinedrio: “[...] <<Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio>>” (26,63b). E' un continuo chiedere segni e prove tangibili, confessioni e dichiarazioni pubbliche per raggiungere la certezza del mistero di Gesù, che la comunità di Matteo, “uomini di poca fede”, scoprirà di poter raggiungere solo ed esclusivamente attraverso la fede: “[...] né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (v.17b). Un'ossessione quella del voler raggiungere le verità spirituali attraverso segni e prove, che caratterizzava il mondo giudaico e che Paolo stigmatizzerà nella sua lettera ai Romani: “E mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,22-24).

Il v.414 si chiude con il drastico commento dell'autore: “E lasciateli, se ne andò”. È l'abbandono definitivo del mondo giudaico da parte di Gesù; un mondo chiuso nelle sue sicurezze e impermeabile ad ogni richiamo. Quel Gesù, che inizialmente riteneva di essere stato inviato per le sole pecore d'Israele (Mt 10,6; 15,24), scopre alla fine che non è l'appartenenza religiosa al giudaismo che fa la differenza con gli altri popoli, ma solo la sua accoglienza nella fede. La fede, infatti, è unica e determinante per la salvezza, perché ha come elemento di fondo quella di essere essenzialmente accogliente e, per sua natura, aperta all'offerta salvifica manifestatasi in Gesù e in lui operante.

La seconda parte (vv.5-12) della pericope incentra la sua attenzione sulle difficoltà che i discepoli hanno nella comprensione dell'evento Gesù e del suo annuncio. La differenza che separa e discrimina i due gruppi in difficoltà, mondo giudaico e discepoli, è il loro atteggiamento nei confronti di Gesù: il primo, radicato alla Legge mosaica e chiuso nelle sue sicurezze, rifiuta ogni diverso annuncio che non sia quello mosaico; i secondi, invece, hanno operato una scelta esistenziale di fondo a favore di Gesù e hanno deciso di porre la loro vita alla sua sequela e al suo servizio, al di là di ogni comprensione. È questo l'atteggiamento proprio della fede, che non cerca di capire, non cerca ragioni, ma soltanto di accogliere. Pur nei loro limiti, quindi, i discepoli sono aperti e accoglienti nei confronti del loro Maestro.

È significativo, infatti, come il v.5 si apra con un verbo di movimento che riguarda esclusivamente i discepoli: “Kaˆ ™lqÒntej oƒ maqhtaˆ e„j tÕ pšran” (Kaì eltzóntes oi matzetaì eis tò péran). La Traduzione CEI dice: “Nel passare però all'altra riva, i discepoli ...”. Se è vero che l'espressione “e„j tÕ pšran” (eis tò péran) nell'ambito dell'economia narrativa può indicare in senso lato l'altra riva, considerato che Gesù dal cap.14 si sta muovendo attorno alle rive del lago di Genesaret o zone limitrofi, tuttavia il significato principale di questa espressione è “di là, nella parte opposta”. Il verbo al participio aoristo15eltzóntes”, inoltre, indica una condizione e un modo di essere dei discepoli, che dipende da una scelta posta nel passato (verbo all'aoristo): essi sono coloro che sono andati dalla parte opposta del mondo giudaico, che Gesù ha abbandonato a se stesso (v.4b). Il v.5, dunque, si apre con un tono di contrapposizione tra il gruppo delle autorità giudaiche, che non comprendono Gesù perché sono chiuse nel loro rifiuto, e i discepoli che, invece, sono andati nella parte opposta, passando all'altra sponda, quella dove si trova Gesù. E se è vero che essi, alla pari dei giudei, non comprendono Gesù è solo per la sublimità del mistero che in lui si racchiude e per il contesto culturale da cui provengono e appartengono (giudaismo), che li limita. All'interno di questa cornice va, pertanto, letta la pericope 16,5-12. Essa riporta un improbabile dialogo tra Gesù e i suoi discepoli, che si muove su di un banale equivoco, a mio avviso, per quel che mi è dato di capire, mal costruito da Matteo, nel senso che non c'era materia su cui equivocare. In altri termini, non si capisce bene cosa centri l'essersi dimenticati il pane con il lievito dei Farisei e Sadducei, quasi che questi siano stati dei panificatori. L'unico punto di richiamo, per altro assai debole, è il termine pane che si può richiamare in qualche modo al lievito, ma il contesto narrativo in cui sono stati inseriti i due termini è alquanto mal costruito e male legano tra di loro. Ma ben altre erano le cose che interessavano a Matteo.

Il contesto immediato che ha spinto Matteo a costruire questo dialogo è quasi certamente la difficile situazione di fede all'interno della sua comunità, la quale era formata prevalentemente da giudeocristiani, che, pur abbracciando Cristo, non avevano mai dismesso l'osservanza mosaica. Al suo interno, infatti, si doveva discutere l'evento Gesù e le sue pretese, ponendole a confronto con le esigenze mosaiche, cercando una sorta di sintesi micidiale tra i due eventi Mosè e Gesù, in cui Gesù avrebbe certamente perso l'elemento della sua novità salvifica, venendo, per così dire, “normalizzato” all'interno del giudaismo. Questo doveva essere il dibattito che si conduceva all'interno della comunità matteana, definita come “ÑligÒpistoi” (oligópistoi), cioè “gente di poca fede”. Per due volte, infatti, nei vv.7 e 8 viene evidenziata l'espressione “dielog…zonto ™n ˜auto‹j” (dieloghízonto en eautois), che letteralmente significa “discutevano in mezzo a loro stessi o dentro loro stessi”, lasciando intendere la profondità della questione, che stava coinvolgendo buona parte della comunità, se non tutta, e ogni suo singolo componente, minando alla radice la fede nel Risorto. Matteo, pertanto, apre questa seconda parte (vv.5-12) ricordando alla sua comunità che loro sono quelli che hanno operato una scelta esistenziale di fondo e sono andati dalla parte opposta del giudaismo, sull'altra sponda, dove c'è Gesù (v.5a).

Le due moltiplicazioni dei pani (14,15-21 e 15,32-38) devono essere state l'elemento ispiratore di Matteo per la costruzione di questa narrativamente poco felice pericope16, che presenta, da un lato, il gruppo dei discepoli, preoccupati per aver dimenticato il pane a riva, causando una qualche difficoltà alla loro stessa sussistenza, ma rassicurati da Gesù, che ricorda loro come essi avessero con sé colui che poteva sfamarli in abbondanza (vv.9-10); dall'altro lato, c'è Gesù che spinge i suoi ad aprirsi al suo linguaggio e su quanto stava dicendo (vv.8-11): “Guardatevi dal lievito17 dei Farisei e dei Sadducei”. È questo il tema che caratterizza questa pericope. L'espressione, infatti, viene ripetuta due volte in 16,6 e in 16,11b, formando un'inclusione, che dà il tono all'intera pericope. Il problema, dunque, è il lievito del giudaismo, che, insinuandosi nella comunità, la corrompe e la altera nell'autenticità e nella genuinità della sua fede in Gesù. Le due realtà, pertanto, non possono andare d'accordo, sia perché Gesù ha abbandonato il giudaismo al suo destino (v.4b), sia perché loro, i discepoli, sono passati dall'altra parte dove c'è Gesù (v.5a).

Il v.12 chiude questo dialogo tra Gesù e i discepoli e lascia trasparire come questi alla fine sono giunti alla comprensione di quanto il Maestro stava loro dicendo: si deve operare una scelta di fede decisa, esclusiva e totalizzante. In altri termini, non si può stare con un piede su due staffe, poiché la dottrina del giudaismo si discosta nettamente da quella innovativa di Gesù. Le due posizioni sono tra loro inconciliabili e irriducibili l'una all'altra. Non si può leggere la novità dell'evento Gesù con la lente d'ingrandimento della Legge mosaica. Paolo ricorderà proprio questo passaggio alle sue comunità della Galazia, che dopo aver abbracciato Cristo, lo hanno lasciato per seguire un Cristo predicato da giudeocristiani giudaizzanti (Gal 1,6-9): “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia.” (Gal 5,1-4).

Dopo questo travaglio, giocato tutto sull'equivoco lievito-pane, finalmente è partorita la fede all'interno della comunità, definita al v.8 come “gente di poca fede”: “Allora compresero”. Il traguardo è importante, perché consente di accedere alla pericope successiva (16,13-20), in cui la comprensione del mistero della persona di Gesù è giocata tutta sulla fede (v.17), unica in grado di far accedere il discepolo alle realtà superiori, che il Messia e Figlio di Dio porta con sé.

vv. 13-20: questa pericope costituisce un po' il cuore di questo terzo intermezzo narrativo (capp. 14-17), che è un cammino alla scoperta della vera natura di Gesù. Qui, infatti, viene riportata in modo solenne ed elaborato la confessione della comunità credente in Gesù, riconosciuto apertamente vero Messia e vero Figlio di Dio (16,16); una confessione fatta seguire da una precisazione sul come intendere il messianismo di Gesù e le condizioni per la sua sequela (16,21-26), e sul significato della sua figliolanza divina (17,1-9). Tuttavia, questa pericope è anche, per altri versi, la più discussa e la più contestata nell'ambito della storia del cristianesimo per le parole che Gesù proferì a Pietro e che gli conferirono un'incredibile autorità e un enorme potere (vv.18-19). Vi è, dunque, da una parte, il mondo cattolico, che la difende a spada tratta, perché vede in essa il fondamento teologico e divino del papato; dall'altra, il mondo protestante che cerca di sminuirne la portata, arrampicandosi spesso sugli specchi. Noi, da parte nostra, cercheremo di dare il nostro piccolo contributo, usando come unico criterio di ricerca non la confessionalità di appartenenza, non la dottrina, ma quello proprio dei dati e della storia, senza voler interpretare a favore di una parte o dell'altra, ma limitandoci a far parlare la storia. Ognuno, poi, trarrà le sue conclusioni. Devo anche dire che mi è stato molto difficile formulare questo mio pensiero per la sostenuta faziosità delle parti, che proprio per questo, non sono attendibili nelle loro affermazioni o quanto meno scarsamente attendibili. Gli interessi di parte e quelli personali18 spesso soffocano la verità o, comunque, la ingarbugliano per bene, di certo non le rendono un buon servizio.

La pericope si struttura in tre parti, che vedono come attori principali Gesù, i discepoli, Pietro e il Padre. Tutti si muovono attorno ad un duplice tema: l'identità di Gesù e la definizione della figura di Pietro in rapporto alla chiesa futura. L'intero racconto si sviluppa attorno a due tronconi distinti tra loro, ma strutturati al loro interno su dei parallelismi. Il primo troncone (vv.13-16) è caratterizzato da una duplice domanda: la prima riguarda il cosa pensa la gente (v.13); la seconda cosa pensano i discepoli (v.15). Unici destinatari di entrambe le domande sono i discepoli. La questione, quindi, è posta soltanto all'interno della comunità e riguarda, innanzitutto, i rapporti tra i suoi membri. Il tema è unico: l'identità di Gesù. Il secondo troncone (vv.17-19) mette in evidenza, da un lato, l'azione rivelativa del Padre nei confronti di Pietro (v.17); dall'altro, l'autorevole azione di Gesù, che investe Pietro e va a completare la rivelazione del Padre (vv.18-19).

Pertanto si avrà:

1) Gesù pone la questione sulla sua identità con riferimento a due categorie di persone: la gente e i discepoli, ottenendo due diverse risposte: generica e scontata da parte della gente; innovativa e rivoluzionaria da parte dei discepoli (vv.13-16). Solo chi segue Gesù, mettendosi al suo servizio e, quindi, in un atteggiamento disponibilità ricettiva, è in grado di percepire e di partecipare al mistero della sua persona.

2) Doppia controrisposta esultante di Gesù, che da un lato dichiara la beatitudine di Pietro, mettendo in rilievo l'azione rivelatrice del Padre (v.17); dall'altro, accodandosi all'azione del Padre (“anch'io”), definisce Pietro roccia fondativa della sua chiesa, attribuendogli autorità e potere (vv.18-19).

3) Il divieto di rivelare l'identità messianica di Gesù chiude la pericope (v.20).


Lo studio di questa pericope verrà affrontato in due momenti: analisi e commento teologico; analisi critica dei vv.18-19.


Analisi e commento teologico dei vv. 13-20


I vv. 13-16 sono ad alta concentrazione cristologica e storica nel contempo, sia perché riportano le voci che ricorrevano sulla persona di Gesù, una sorta di indagine statistica casereccia, sia perché questi quattro versetti sono un condensato di titoli finalizzati a mettere in rilievo il complesso e multiforme mistero della persona di Gesù: figlio dell'uomo, Elia, un profeta, Giovanni Battista, il messia, il Figlio di Dio. Siamo, dunque, giunti nel cuore della questione cristologica matteana che vede a confronto due gruppi di persone: gli uomini, estranei al gruppo dei discepoli, e i discepoli stessi. I primi propongono delle soluzioni secondo lo schema veterotestamentario; i secondi indicano una nuova e rivoluzionaria prospettiva circa la persona di Gesù. Un confronto, quindi, che si svolge tra un gruppo eterodosso, che fonda la sua comprensione di Gesù sul A.T. e, quindi, tende a spiegare Gesù secondo gli schemi della Legge mosaica, riconducendolo al suo interno; e un gruppo ortodosso, che staccandosi e contrapponendosi al primo indica in Gesù il nuovo evento salvifico del Padre. Vedremo nella seconda parte (momento di analisi critica dei vv.18-19) come questo confronto e la sostanziale diversità delle risposte date dai due gruppi dice due diverse posizioni che si erano venute a creare all'interno delle prime comunità credenti dell'area palestinese. Un confronto, non si dimentichi, che avviene a Cesarea di Filippo.

il v.13 è composto da due parti: a) un'annotazione di tipo geografico, che narrativamente crea uno stacco dal racconto precedente, introducendo il lettore in una nuova unità narrativa: Gesù giunge dalle parti di Cesarea di Filippo19. Come vedremo in seguito, la scelta di questa ambientazione per la confessione di Pietro e la dichiarazione della sua investitura da parte di Gesù, non è casuale; b) formulazione della prima domanda sull'identità di Gesù con riguardo alla gente: “Che cosa dicono gli uomini chi sia il figlio dell'uomo?”. A differenza di Marco (8,27) e di Luca (9,18) che si limitano a dire “Chi dicono gli uomini che io sia?”, Matteo sostituisce il pronome con l'appellativo qualificante di “figlio dell'uomo”20. Un'espressione questa che da Daniele in poi ha assunto una valenza escatologica e messianica, con tratti che la collocano nel mondo divino. Il fatto che il Gesù matteano sottolinei in questo contesto la sua identità di figlio dell'uomo indica come il mistero della sua umanità è posto in stretto collegamento con Dio e come la sua presenza in mezzo agli uomini inaugura i tempi escatologici, i tempi del ritorno di Dio, che portano con sé il giudizio divino che si sta compiendo in Gesù stesso. Di conseguenza Gesù si pone di fronte agli uomini come l'ultimo discorso e l'ultimo appello che il Padre rivolge a loro. Non a caso l'espressione “figlio dell'uomo” sarà ripresa in chiusura del cap.16 ed è collocata in un contesto squisitamente escatologico e di giudizio divino (vv.27-28).

Il v.14 riporta la risposta proveniente dalla gente, che si pone al di fuori del gruppo dei discepoli. La loro comprensione rientra nei canoni delle attese escatologiche proprie del giudaismo: Giovanni Battista, Elia, Geremia, uno dei profeti. L'elenco è identico a quello degli altri due sinottici con esclusione della sola aggiunta, tutta matteana, di Geremia. Elia e il Battista nel N.T. sono tra loro legati strettamente, da un lato per la funzione di precursore svolta da Giovanni, dall'altro per la diffusa credenza nel giudaismo che il profeta Elia, mai morto, ma rapito su di un carro di fuoco (2Re 2,11), sarebbe tornato alla fine dei tempi per preparare Israele al ritorno di Jhwh. Ne abbiamo una testimonianza in tal senso nel Libro del profeta Malachia21: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io venendo non colpisca il paese con lo sterminio” (Ml 3,23-24). Una testimonianza questa che trova la sua eco anche ai tempi di Gesù22. Ma il loro legame va ben oltre, per arrivare ad una identificazione tra la figura del Battista e quella di Elia, sottolineata dallo stesso Gesù23. Sia Giovanni che Elia, dunque, hanno in comune la missione di precorrere il ritorno di Jhwh, la quale cosa li colloca nell'ambito dei tempi escatologici dell'imminente venuta di Dio in mezzo al suo popolo. La comprensione, dunque, che la gente ha di Gesù come un novello Elia e un risuscitato Battista (Mt 14,2), proiettano sullo stesso Gesù la funzione di questi due grandi profeti e fanno di Gesù l'uomo escatologico, l'inviato ultimo di Dio per ricondurre a Lui il suo popolo (Mt 23,37), creando in tal modo un grande movimento escatologico, una sorta di nuovo esodo spirituale; l'uomo che come Elia è venuto per affermare gli interessi di Dio, pregiudicati dalla pochezza spirituale in cui era caduto Israele.

Similmente si pensava a Gesù come ad una sorta di profeta antico redivivo24 per risvegliare la coscienza del popolo e stimolarlo ad un ritorno a Jhwh. Siamo in un'epoca in cui era molto viva l'attesa di un ritorno di Jhwh (Lc 2,25-26.38), preceduto dal suo Messia (Lc 1,76-77). La presenza di una comunità a Qumran25, dai tratti fortemente escatologici e decisamente proiettati verso l'imminente ritorno di Dio, lo sta a testimoniare. Del resto, da dopo il ritorno dall'esilio (538 a.C.) Israele perse ogni sua connotazione di stato e di regno autonomo; fu sempre sottomesso a potenze straniere e costretto a convivere con popolazioni pagane, installatesi nel suo territorio durante l'esilio in Babilonia. La sua identità religiosa era inquinata dai culti pagani limitrofi e insidiata dai matrimoni misti. Il sogno, quindi, di ritornare ad uno stato di purità e di grandezza iniziali, ad essere ciò che il popolo ebreo era sotto il regno di Davide (1010-970 a.C.) e di Salomone (970-933 a.C.), ai tempi dello splendore spirituale, politico e militare era grande. Una forte tensione spirituale verso il ritorno di Jhwh, che doveva ristabilire le cose nel loro splendore originale, doveva aver contagiato in qualche modo anche il mondo del nascente cristianesimo, che, a sua volta, attendeva l'imminente ritorno di Cristo e l'instaurazione definitiva del suo regno in mezzo agli uomini. L'intera letteratura neotestamentaria ne è permeata26. Significativo, in tal senso, è il Libro dell'Apocalisse, che termina con un'invocazione della comunità tesa verso il suo Signore: “Colui che attesta queste cose dice: "Sì, verrò presto!". Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!” (Ap 22,20).

Secondo Matteo Gesù è percepito dalla gente anche come la riviviscenza di Geremia. Si è visto sopra come l'autore sia l'unico tra i sinottici a citare questo profeta e l'unico che in tutta la letteratura neotestamentaria canonica lo menziona per tre volte: qui in 16,14 e in due sue profezie riferite a Gesù (Mt 2,17-18; 27,9-10), rivelando una sua particolare simpatia per questo profeta, che in qualche modo vede simile a Gesù nella sua tormentata solitudine, perseguitato e tradito, incarcerato, flagellato e minacciato di morte, incompreso da tutti, perfino dai suoi amici, dai suoi stessi familiari e dai suoi compaesani. Ma vede simile a Gesù probabilmente anche nel suo messaggio, che propugna una religione basata sulla sincerità del cuore e su di un autentico culto a Dio, che si celebra prima nella vita e poi nel tempio.

È molto probabile, quindi, che l'associazione della figura di Geremia a quella di Gesù sia una produzione tutta di Matteo, che ha visto in questa sublime figura di profeta, così profondamente umano e toccante, nella sua missione e nel suo messaggio, in qualche modo, un riflesso della figura, della missione e della predicazione di Gesù27.

Termina qui la prima parte dell'indagine sull'identità di Gesù, percepito dalla gente come un antico profeta, una realtà legata ancora al mondo dell'A.T., non cogliendo la novità del suo evento. La risposta della gente dice la sua incapacità di staccarsi dai canoni veterotestamentari per proiettarsi nella nuova realtà di Dio, che si sta manifestando e attuando nella persona di Gesù. È gente che denuncia una sua incapacità di evolversi verso quei cieli nuovi e quella terra nuova che sono stati vaticinati da Isaia (Is 66,22) e contemplati da Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1); gente che non riesce a leggere la realtà se non attraverso il filtro della Legge mosaica. Eppure il profeta li aveva ammoniti: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,18-19a). Si viene, quindi, a delineare una prima categoria di persone, quelle chiuse in se stesse, rivolte ancora al passato, da cui provengono e in cui hanno deciso di rimanere.

Il v.15 riporta l'identica domanda del v.13, ma diversi sono i destinatari dell'indagine: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Tutto ruota su quel “Ma voi” (`Ume‹j de, imeîs de) preceduto dalla particella avversativa “ma” (de), che va a definire un gruppo di persone che si contrappone al primo. In gioco, dunque, ci sono due contrapposte visioni di Gesù: la prima legata ancora agli schemi veterotestamentari; la seconda evolutiva ed innovativa, che testimonia una nuova comprensione dell'evento Gesù e scopre in esso l'operare di Dio, che sta chiamando l'umanità verso una nuova creazione, nella quale l'uomo, ricreato ad immagine del suo Creatore (Rm 8,29-30), in Lui fatto nuova creatura (2Cor 5,17), è invitato ad entrare. Un invito che il Padre muove agli uomini, ad ogni singolo uomo nella persona stessa di Gesù (Ef 1,4-5).

Il v.16 è il punto culminante del terzo intermezzo narrativo (capp.14-17) ed è il vertice della fede cristologica matteana: Gesù è qui colto non come il Battista risuscitato dai morti (Mt 14,2), non come Elia, Geremia o uno degli antichi profeti, visione che tende a ricondurre l'evento Gesù all'interno della più comprensibile e tranquilla fede giudaica, ma come “Cristo e Figlio di Dio28”. Una visione nuova, dirompente, scandalosa, blasfema (Mt 26,63-65), ma proprio per questo rivoluzionaria, che apre il credente a nuove comprensioni del progetto salvifico di Dio, realizzato in Gesù, confessato Cristo e Figlio di Dio; un progetto che non è statico, ma evolutivo e proiettato nel divenire stesso di Dio, verso cui la storia e l'intera umanità tendono. Confessare Gesù come il Cristo significava riconoscere in lui il compimento delle promesse davidiche, il realizzarsi in Gesù di tutte le attese e le speranze, che per secoli il mondo ebraico coltivò ed elaborò pazientemente nel proprio seno; significava riconoscere la provenienza di Gesù da parte di Jhwh, riconoscerlo e accettarlo come suo inviato. Ma il passo successivo, che lo vede proclamato anche Figlio di Dio, fa compiere una riqualificazione al termine stesso di Messia, in cui si riconosce non semplicemente un uomo inviato da Dio, ma Dio stesso, che si fa azione in Gesù e del quale se ne riconosce la natura divina, così che Gesù diviene il Dabar29 del Padre. Giovanni, infatti, crea una identità tra il metafisico Verbo divino, contemplato nel seno del Padre e l'incarnazione dello stesso Verbo: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio […] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,1-2.14).

La combinata dei due titoli cristologici “Cristo e Figlio di Dio” è piuttosto rara nel N.T., soltanto otto volte30. Molto più numerose sono, invece, le volte in cui ricorre il titolo di Cristo, circa cinquecento; mentre l'espressione “Figlio di Dio” soltanto 47 volte, di cui trenta nei soli Vangeli. L'evidente sproporzione lascia pensare come per il mondo giudaico fosse più facile elaborare il concetto di Cristo attribuito ad un uomo, piuttosto che quello di Figlio di Dio. Infatti dietro al titolo di Cristo vi è una lunga e ben assodata tradizione, che si andò sviluppando fin dalle promesse fatte dal profeta Natan (circa 1000 a.C.) a Davide (2Sam 7,8-17) e, successivamente, in vario modo elaborate fino a creare tutta una teologia messianica sulla quale poggiavano e convergevano le speranze e le attese di Israele fino ai tempi di Gesù ed anche oltre31. Il legare assieme i due titoli, riferendoli alla sola persona di Gesù, doveva costituire il vertice della fede cristologica, poiché significava far convergere le attese messianiche e, quindi la stessa Tradizione dei Padri, nella novità sconvolgente della figliolanza divina dell'uomo Gesù, che in tal modo veniva anche confessato Dio. Significava, inoltre, attribuire al Messia, concepito sempre come un uomo, la divinità stessa di Jhwh. Arrivare a tanto per i giudeocristiani, legati ancora profondamente e comprensibilmente al mondo mosaico e al suo sentire, significava stravolgere la fede dei propri padri, violare gli imperativi del monoteismo (Dt 6,4) e dell'assoluta purezza spirituale e trascendente di Jhwh (Sal 10,4; 67,34; 114,3; 122,1); significava fare violenza a se stessi, al proprio modo di sentire e di pensare, al proprio modo di essere. Significativi, in tal senso, sono gli stessi scritti attribuiti a Paolo32, nei quali l'espressione “Figlio di Dio” compare solo tre volte: Rm 1,4; 2Cor 1,19 e in Gal 2,20. Tutte lettere queste scritte tra il 54 e il 58, in un cristianesimo che stava ancora balbettando i primi passi. Mentre nei rimanenti scritti neotestamentari, attestantisi intorno agli anni ottanta e fino al 135 d.C. l'espressione compare altre 14 volte. Ciò non significa che i giudeocristiani non credessero nella divinità di Gesù e nella sua figliolanza divina, ma di certo trovarono delle notevoli difficoltà a conciliare l'espressione “Figlio di Dio” con la loro stessa fede e con il loro modo di sentire e di essere, ancorati ancora nel giudaismo. Una difficoltà che si protrasse lungo i secoli e che, per altri versi, coinvolse lo stesso mondo ellenistico. Difficoltà che gli stessi concili non riuscirono a dissipare completamente33. Un dramma questo che neppure lontanamente sfiorò, invece, il mondo pagano convertito, abituato a divinità di ogni tipo. Non è un caso, infatti, se Marco pone sulle labbra di Pietro la confessione di Gesù come il Cristo (Mc 8,29), mentre su quelle del centurione romano il riconoscimento della figliolanza divina di Gesù (15,39).

vv.17-20: alla dichiarazione di Pietro gli altri due sinottici fanno seguire immediatamente il divieto di Gesù di rendere nota agli altri la sua identità. Probabilmente la tradizione autentica è proprio quella di Marco (8,30) e di Luca (9,21). Anche Matteo rispetterà la tradizione del divieto (Mt 16,20), ma egli, prima, ha un conto da regolare con la sua comunità e decide, quindi, di incentrare la sua attenzione su Pietro, sviluppando su di lui una riflessione molto intensa e tutta sua personale, che carica di incontestabile autorità, ponendola sulle labbra di Gesù. L'intento di Matteo è probabilmente quello di dare saldezza e solidità alla professione di fede in un Gesù Messia e vero Figlio di Dio, sulla cui identità molti dubbi sembrano esserci all'interno della sua comunità. La professione di Pietro, infatti, è fatta precedere da Matteo dalla difficoltà di cogliere la vera identità di Gesù sia da parte del mondo giudaico (vv.16,1-4) che dagli stessi discepoli (16,5-12). La cornice, che avvolge la professione di fede pronunciata da Pietro, nonché la sua stessa figura, è di una solennità unica, che ha il suo pari soltanto alla fine del vangelo (28,18-20). Ma anche là, come qui, la solennità contrasta sempre con la titubanza del credere (28,17). Il problema è sempre la divinità di Gesù, uno scoglio duro da superare per i rigorosi monoteisti provenienti dal giudaismo. Tutti, infatti, si prostrano dinanzi al Risorto, avvolto nella sua gloria divina, ma pur adorandolo vero Dio, nella profondità del loro cuore li rode sempre il tarlo del dubbio: “Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; essi però dubitavano”. Il verbo posto all'imperfetto indicativo (dubitavano) dice il persistere del dubbio nel tempo, denunciando in tal modo tutta la difficoltà del credere nella divinità dell'uomo Gesù. C'è, dunque, la necessità per Matteo di saldare la professione di fede alla persona di Pietro, presentato da Gesù quale indiscusso fondamento della sua chiesa e da lui ricoperto di autorevolezza e di autorità (vv.17-19). Non va dimenticato, infatti, come sia proprio Pietro, che sul lago in tempesta viene sottoposto alla prova della fede nel mare agitato del dubbio circa la divinità del Risorto, e in queste acque agitate egli sprofonda, ma è salvato da Gesù. Entrambi salgono nella barca, metafora di una comunità sconquassata dal dubbio, e solo quando essi entrano tutto si placa e la comunità finalmente può fare la sua bella professione di fede nel Risorto: “Veramente tu sei Figlio di Dio” (14,24-33). Questo è il compito primario che Gesù ha affidato a Pietro: confermare nella fede i propri fratelli: “<<Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli>>” (Lc 22,31-32).

Nell'ambito di questo contesto vanno compresi i versetti in esame, scanditi in tre parti secondo una logica progressiva, che tende a presentare Pietro come il saldo, indiscusso, indiscutibile e autorevole punto di riferimento per l'intera comunità, attorno al quale essa è chiamata a raccolta:

  1. v.17: Pietro è dichiarato beato da Gesù a motivo della rivelazione ricevuta dal Padre;

  2. v.18: Gesù costituisce Pietro roccia fondativa della sua chiesa, resa invincibile contro le forze del male;

  3. v.19: Gesù fornisce Pietro di poteri e autorità.


Il v.17 inquadra la figura di Pietro entro tre punti qualificanti: a) dichiarazione della beatitudine di Pietro; b) la conoscenza del mistero della persona di Gesù non deriva a Pietro da sue ricerche o studi personali, non dalla sua intelligenza o da sue recondite capacità cognitive; c) ma al mistero Pietro vi è giunto per un dono rivelatore del Padre.

A fronte della professione di fede, che svela la vera identità di Gesù, Pietro viene dichiarato beato. La beatitudine nell'A.T. delinea sempre lo stretto rapporto che intercorre tra l'uomo e Jhwh. L'uomo viene dichiarato beato perché rientra nell'alea di Dio ed è per questo adombrato dalla sua potenza, per cui egli partecipa in qualche modo della sua beatitudine, che in lui si riflette. Beato significa far parte in qualche modo di Dio e appartenergli, beneficiando della sua benevole attenzione. Indica, quindi, una sorta di elezione che Dio pone sul suo fedele, ma dice anche la scelta che quell'uomo ha operato a favore di Dio, ponendosi dalla sua parte e accogliendolo nella sua vita. Si tratta, comunque, di un rapporto e di una condizione di privilegio in cui il beato viene posto34. La dichiarazione di beatitudine di Pietro, dunque, inserisce Pietro nella sacralità stessa di Dio e lo definisce una sorta di persona a Lui consacrata. Matteo, quindi, crea già da subito attorno a Pietro un alone di sacralità, che lo colloca all'interno della stessa elezione divina. Ma dice anche l'incontenibile gioia di Gesù, che richiama da vicino la stupenda preghiera che egli ha rivolto a suo Padre, svelando il suo particolare rapporto filiale: “In quel tempo Gesù disse: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26).

La beatitudine di Pietro, quindi, dipende da una elezione divina, che gli ha consentito di accedere ai misteri del disegno salvifico, che si sta compiendo in Gesù. Per questo Pietro è beato, perché viene reso partecipe del progetto salvifico e, pertanto, posto in una condizione di privilegio divino.

Ma forse ciò che interessa in particolar modo Matteo è la contrapposizione delle due espressioni “carne e sangue” e “Padre mio nei cieli”. Come dire che il mistero della persona di Gesù non può essere raggiunto con le forze umane, poiché tale mistero le supera ampiamente in quanto si pone nel segreto stesso del Padre che è nei cieli. La comprensione su Gesù è, dunque, dono dall'alto, è rivelazione gratuita, che si attua soltanto se l'uomo si pone nei confronti di Dio in un umile atteggiamento di fede accogliente, senza avere la pretesa di capire, poiché Dio dona (Gv 3,16), ma non si lascia depredare (Gc 4,6; 1Pt 5,5). Ed è proprio ciò che il Battista risponde ai suoi discepoli, che si lamentavano della concorrenza di Gesù nel battezzare: “Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo” (Gv 3,27), così come similmente testimonia Gesù ai suoi discepoli: “<<Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio>>” (Gv 6,44.65). Un ammonimento di Matteo alla sua comunità in cui, come vedremo in seguito, vi erano alcuni che cercavano prove sulla divinità di Gesù, allineandosi agli increduli giudei (v.16,1), prove che testimoniavano la loro diffidenza e la loro incredulità circa la divinità dell'uomo Gesù e per i quali non erano sufficienti le testimonianze degli Apostoli.

I vv.18-19 si presentano come un completamento della rivelazione che il Padre ha riservato a Pietro (v.17), quasi una sorta di segnale divino che Dio ha rivolto a suo Figlio, indicandogli il suo candidato all'investitura (Gv 8,28). Non a caso il v.18 si apre con le parole di un Gesù che, dopo aver riconosciuto nella confessione di Pietro l'azione elettiva del Padre, dice “Anch'io ti dico” (k¢i egë dš soi lšgw, kai egò de soi légo), creando in tal modo sia uno stretto legame narrativo-teologico tra il v.17 e i due seguenti, sia dando continuità alla rivelazione/indicazione del Padre. Anche la parole di Gesù, quindi, vanno poste in questa alea di volontà divina, che consacrano Pietro come colui che dovrà fare le veci di suo Figlio, continuandone l'opera35, stabilendo, in tal modo, una sorta di diritto divino sulla figura di Pietro, colto qui non più come semplice persona, ma come posizione istituzionale. È indubbio, infatti, che le parole del Gesù matteano sono costitutive di una istituzione, in cui il termine chiesa non va più intesa semplicemente come l'assemblea della comunità messianica raccolta attorno a Gesù, ma come istituzione storica, continuativa di un'opera iniziata qui nella storia. Tutto lo sta ad indicare:

a) il Simone, figlio di Giona36 del v.17 viene qui ribattezzato con il nuovo nome di “Pietro”, significando come la figura di Simone assume da questo momento una nuova dimensione e una nuova connotazione sociale, legata non più alla sua persona, ma a quella di colui che gliel'ha imposto37. Il gioco di parole Pietro/pietra, che in aramaico sono tutte due al maschile38, richiama da vicino la persona stessa di Gesù, che, rifacendosi al Sal 117,2 e allo stesso Zc10,4, si autodefinisce come pietra angolare39 e come tale è indicato anche all'interno della chiesa nascente40; un Gesù la cui parola è definita da Matteo come una roccia (pštra), su cui si può costruire saldamente la casa, contrapposta all'inconsistente friabilità di altre parole, che non provengono da Gesù (Mt 7,24-27). Si viene in tal modo a creare una sorta di identità tra Gesù, che è pietra angolare, e Pietro, che è stato cambiato da Simone (v.17) in Pietro (v.18), indicando la sua funzione primaria di fondamento solido di una futura costruzione. La figura di Pietro, pertanto, non è più, qui, identificabile con una semplice persona, ma diventa una istituzione. Si sta parlando, infatti, di una pietra che è fondativa, poiché destinata a ricevere una costruzione futura (il verbo è al futuro: o„kodom»sw, oikodoméso), la quale radica le proprie fondamenta su questa pietra. Una costruzione che ha anche una dimensione divina, poiché la sua costruzione si fonda storicamente su Pietro, ma non è lui a costruirla, bensì il Risorto stesso. Qui si sta parlando, dunque, non della persona di Pietro, ma della funzione di questa pietra/Pietro.

b) In questo contesto di creazione istituzionale di una funzione, anche il termine chiesa (™kklhs…a, ekklesa), a cui è strettamente legata e dipendente, non può che assumere il significato di chiesa intesa nel senso vero e proprio di istituzione ecclesiastica, priva, quindi, di ogni addentellato teologico, ma semplicemente come espressione storico-organizzativa di una determinata comunità, il cui fondamento è in primis Cristo stesso (Ef 2,20), ma che trova la sua visibilità concreta e storica nell'istituzione fondativa Pietro, a cui è legato un potere divino, non solo per elezione (v.17), ma anche per delega (v.19); un potere simboleggiato nelle chiavi del Regno dei cieli. Si tratta di una chiesa che, pur di costituzione divina (“io edificherò”) e fondata storicamente sulla pietra/Pietro, si muove in mezzo a molte difficoltà, che l'aggrediscono sia dal suo interno che dall'esterno. Queste forze reazionarie e distruttive sono concepite come le porte dell'Ade, cioè come il potere degli Inferi, che aggredisce, ma non può distruggere, perché su tale potere è già stato posto il giudizio divino (Mt 13,38-43). E', dunque, una chiesa che deve imparare a convivere con le porte dell'Ade, nella certezza che esse non prevarranno, perché il Risorto le ha già sconfitte41. Una convivenza che richiama da vicino la parabola del buon grano e della zizzania, presenti e conviventi nello stesso campo, benché ben diverso sia il loro destino (13,24-30).

c) il v.19 viene riservato da Matteo alla trasmissione non di un potere terreno, ma divino, trattandosi di chiavi del Regno dei cieli. Anche qui il verbo è posto al futuro: “Ti darò” (dèsw soi, dÒso soi). Si tratta, infatti, di un potere che ora non è delegabile perché presente solo in Gesù (Mt 3,16; Lc 4,1.14), in cui risiede ancora la pienezza dello Spirito Santo (Gv 7,39; 16,7), che di questo potere è espressione dinamica e attuatrice42. Un potere divino che, proprio perché tale, lega il cielo alla terra e la terra al cielo. È un doppio canale, che riveste di divinità l'istituzione storica petrina, ma nel contempo l'azione storica petrina ha una profonda risonanza nei cieli. In altri termini la pienezza del potere di Cristo viene trasfusa nell'istituzione petrina. Una trasfusione di potere che ha la sua eco in Gv 20,22-23: “Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi>>”. Il verbo al futuro (ti darò) definisce una volta di più la cornice di una istituzionalizzazione della chiesa e del suo fondamento. Si sta, quindi, guardando ad un tempo che è decisamente postpasquale in cui le prime comunità si stanno istituzionalizzando per meglio rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente pagano e giudaico in cui sono nate e vivono e hanno bisogno di saldi punti di riferimento, che le sappiano guidare e difendere. Persecuzioni e polemiche, ma anche conversioni e, quindi, allargamento della comunità, con tutti i problemi organizzativi correlati e la capacità di rispondere ai vari problemi che l'essere nuovo credente in Cristo comportava all'interno della propria famiglia e della società di provenienza. Necessità di definire un nuovo culto a Cristo, stabilire dei percorsi catecumenali per i nuovi candidati, definire catechesi e rispondere alle questioni di vita concreta, non sempre compatibile con la novità dell'evento cristiano, che si è abbracciato. Questa era lo sfondo storico in cui si muovevano i primi credenti. È sufficiente un qualsiasi manuale di storia della Chiesa antica per rendersene conto o un qualche testo che studia le origini della Chiesa43; ma basta leggere anche qualche lettera di Paolo44 per comprendere l'enorme complessità delle dinamiche degli inizi e dei gravi problemi in cui le nuove comunità si muovevano. Tutto era da costruire, la stessa fede in Gesù e la comprensione del suo mistero era tutta da definire e questo comportava, come vedremo, il sorgere di eterodossie e di scissioni all'interno delle stesse comunità, che rischiavano l'autodistruzione (1Gv). Non esisteva ancora una letteratura neotestamentaria canonica a cui riferirsi, che inizierà soltanto verso la fine del II sec. per perfezionarsi intorno al IV sec.; non ancora un magistero consolidato.

Il v.20 conclude la pericope della confessione di Pietro con l'imposizione del silenzio ai discepoli da parte di Gesù circa la sua natura messianica, ma non sulla sua figliolanza divina, a cui, per il momento, si è già data una forte seppur concisa risposta (vv.17-19). La questione urgente da affrontare, ora, è il messianismo di Gesù, che deve essere definito nei suoi contenuti e soprattutto nelle sue modalità di attuazione. Il motivo di questa scelta nasce dalle plurisecolari attese e dalle aspettative che gli ebrei, e quindi anche la comunità matteana, avevano sul messia; attese e aspettative che, come vedremo, divergevano completamente dal messianismo sofferente incarnato da Gesù e la cui scelta era già stata operata all'interno del quadro narrativo delle tentazioni (4,1-11), che verranno in qualche modo qui richiamate al v.16,23. Per questo viene imposto il silenzio, per evitare fraintendimenti, che potrebbero generare confusione e sfociare in dolorose e cruenti soluzioni. Ma nel contempo, il richiamo al messianismo incentra l'attenzione sulla questione e la introduce. Il v.20, quindi, lo potremmo considerare di transizione, sia perché chiude il tema sull'identità di Gesù, scoperto e proclamato messia e Figlio di Dio; sia perché ne preannuncia un altro, che potremmo definire come complementare, perché punta a cogliere il significato e quindi i contenuti dei due titoli. Il primo verrà affrontato subito nei vv. 16,21-28; il secondo in 17,1-9. Vedremo, comunque, che entrambi i casi, messianismo e figliolanza divina, saranno sempre strettamente legati al tema della passione, morte e risurrezione (16,21; 17,9).


Analisi storico-critica dei vv. 18-19


Premessa

Affrontare un'analisi storico-critica su questi due versetti non è cosa semplice, poiché nel corso dei secoli si sono sovraccaricati di un'importanza eccessiva, per la profonda spaccatura e l'insanabile contrapposizione che si sono venute a creare tra mondo cattolico e quello protestantico; senza dimenticare le proteste, i dissensi e le decise prese di posizione da parte della Chiesa Ortodossa, anche se qui le cose si sono poste in termini meno virulenti. Troppa faziosità, troppi interessi, troppi litigi, troppe polemiche, troppe partigianerie, troppe minacce incombenti sugli esegeti e i teologi dei vari schieramenti, troppi condizionamenti per poter guardare con serenità a cosa volesse realmente dire Matteo con questa sua divagazione, perché niente di più che di una semplice divagazione si tratta, finalizzata non ad affermare il primato di Pietro, ma a dare importanza alla fede in un Gesù che non fosse soltanto atteso e venerato come messia, ma anche riconosciuto e adorato Figlio di Dio e Dio lui stesso. Matteo, infatti, ha davanti a sé la sua comunità di giudeocristiani, che non ha problemi a credere al messianismo di Gesù, anche se dovrà essere ricompreso nel suo significato, poiché il messia e la sua attesa facevano parte della loro cultura e, comunque, il messia era pur sempre un uomo. Ma questa comunità aveva certamente molti problemi circa la figliolanza divina di Gesù e, quindi, circa la sua stessa divinità, poiché questo pregiudicava la trascendenza di Dio, ne contaminava la purezza, violava il divieto di farsi immagine di Dio (Es 20,4). Era inconcepibile per un ebreo pensare a Dio tramite un'immagine e tanto meno umanizzarlo. Il solo pensarlo era blasfemo. Sono questi problemi che rischiano di creare delle spaccature all'interno della comunità matteana e per questo l'autore vuole dare peso all'affermazione di Gesù uomo Figlio di Dio. E che l'accento cada proprio sulla figliolanza divina e non sul messianismo, del quale ci si limita a precisare soltanto le modalità di attuazione (v.21), lo dimostra, oltre che la cornice solenne entro cui è posta la professione di Pietro (16,15-19), anche il v.14,33, in cui l'intera comunità si prostra davanti a Gesù proclamandolo vero Figlio di Dio. Tutto questo avviene sotto l'egida di Pietro e di Gesù, entrambi saliti nella barca (14,32a) e la cui contemporaneità del gesto crea una sorta di identità e di sovrapposizione tra i due: Gesù è Pietro, Pietro è Gesù; grazie alla loro presenza si acquietano immediatamente le acque del dubbio (14,32b). Si prelude così, in qualche modo, proprio ai vv.16,16-18, in cui la professione di fede messa sulle labbra di Pietro e il contesto di solenne sacralità in cui viene inserita, infonde certezza alla fede della comunità nell'uomo Gesù, Figlio di Dio e Dio lui stesso. Vi è poi la pericope 17,1-8, tutta dedicata a sottolineare la figliolanza divina e la divinità nascostamente operanti nell'umanità di Gesù (17,8). Un problema quello della figliolanza divina e della stessa divinità dell'uomo Gesù, che ricomparirà in termini drammatici sia davanti all'ufficialità del Sinedrio (Mt 26,63), simbolo del potere politico-religioso del giudaismo, che scandalizzato la rifiuterà (Mt 26,65-66); sia, per l'ultima volta, davanti alla stessa comunità matteana, che si prostra in adorazione davanti al Risorto plenipotenziario avvolto nella sua divinità (28,18), riconoscendolo così vero Dio (28,17a), ma è sempre divorata al suo interno dal dubbio che quell'uomo lì sia veramente “Figlio di Dio” e Dio lui stesso (28,17b). E, ancor prima, Matteo pone davanti alla sua comunità l'esempio del mondo pagano, che, proprio di fronte al crocifisso agonizzante, nella pienezza della sua impotenza, riconoscerà e proclamerà, per bocca del centurione, la figliolanza divina dell'uomo Gesù (27,54).

Non è difficile capire la posizione di questi cristiani provenienti dal giudaismo. Essi sono si dei convertiti al cristianesimo ed è vero anche che hanno con sincerità abbracciato Gesù, ma non hanno cancellato la loro fede mosaica, che è stata compattata e trasmessa nel loro DNA dalle generazioni passate dei loro Padri e che hanno succhiato dallo stesso seno materno. Non si può dismettere una fede plurimillenaria, che costituisce il tessuto vivo del vivere sociale e religioso di un popolo, di cui essi fanno ancora parte e ne sono viva espressione (At 22,12). Il giudaismo e la sua fede non sono un semplice abito, che si può dismettere semplicemente rinnegandolo, poiché fa parte dell'essere stesso della persona. In questo contesto, pertanto, si sono sviluppati dei movimenti che cercavano di far combaciare il giudaismo con la nuova dottrina di Rabbi Jehshuah, cercando di salvare capra e anche cavoli. In tal modo si generarono delle comprensioni distorte sulla figura di Gesù, del suo mistero e del suo insegnamento. È significativo, in tal senso, vedere come dopo la morte di Gesù i discepoli continuino a frequentare il tempio (At 3,1) e a coniugare, senza problemi, la pratica del giudaismo con la cena del Signore (At 2,46). Similmente, in At 10,14, Pietro, di fronte all'ordine di Dio di uccidere e mangiare gli animali proibiti dalla Torah per questioni di purità (Lv 11,1-47), risponde, da buon ebreo osservante, di non aver mai mangiato “nulla di profano e di immondo”. Lo stesso Giacomo, a capo della chiesa di Gerusalemme, imporrà ai pagani convertiti, pur esentandoli dalla circoncisione, alcune regole riguardanti questioni di purità, per facilitare i rapporti con i giudeocristiani, legati ancora al giudaismo (At 15,19). Sono proprio questi giudeocristiani, che pur avendo aderito a Cristo, vanno predicando agli etnocristiani (cristiani provenienti dal paganesimo) “Se non vi fate circoncidere secondo l'uso di Mosè, non potete esser salvi” (At 15,1b). Significativo, infine, come l'appellativo di “Figlio di Dio” dato a Gesù negli Atti degli Apostoli compaia soltanto una volta (At 9,20), mentre quello di “Cristo”, associato al nome di Gesù o a lui esplicitamente riferito, si ripete per ben 27 volte. Segno questo che il mondo giudeocristiano non ha problemi circa il messianismo di Gesù, ma ne ha molti nei confronti della sua divinità e della sua figliolanza divina. Questa premessa va sempre tenuta presente nell'ambito della nostra analisi.


Una lettura critica di 16,18-19


Va subito detto che quanto verrà esposto in questa sezione storico-critica non intende in alcun modo mettere in discussione il primato petrino, né tantomeno il papato, che riteniamo fondamentale e insostituibile nella sua funzione di guida sicura della Chiesa universale, costituendone, da un punto di vista storico, la stessa identità. Esso si pone inoltre come punto di aggregazione di tutte quelle forze, che intendono promuovere l'uomo; si colloca, infine, di fronte all'intera umanità come la sua stessa coscienza e la sprona moralmente e spiritualmente, indicandole la via sicura verso la sua piena affermazione e realizzazione. Nessun attentato, dunque, al papato né al suo primato, questioni queste che esulano totalmente dai nostri intenti e dai nostri studi.

Il nostro intento è soltanto quello di ricondurre nel loro originario alveo i vv.18-19, sfrondandoli interamente della carica polemica, che su questi si è andata cumulando nel corso dei secoli, convinti che la Parola di Dio non possa mai diventare strumento di polemica, usandola come una mazza per colpire l'avversario o affermare proprie posizioni, né tantomeno può mai essere in qualche modo manipolata. Riteniamo che un simile uso sia blasfemo e che tolga ogni dignità alla stessa Parola.

Nel giuramento antimodernista promulgato da papa Pio X45 il 1 ottobre 1910, al terzo articolo si legge: “Con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli”. Al di là del contesto storico-culturale in cui è stata formulata questa affermazione e nel quale va compresa e per certi aspetti giustificata, oggi, nel clima più tranquillo di una esegesi biblica più matura ed equilibrata, accolta ormai pacificamente al proprio interno anche dalla Chiesa cattolica46, una simile affermazione appare immediatamente inadeguata ed eccessivamente spinta, sottesa da un'apologia fortemente polemica.

Dire questo, infatti, significa che il Gesù della storia ha avuto la chiara e precisa intenzione di costituire, necessariamente al di fuori del giudaismo e in aperta concorrenza con questo, una nuova struttura religiosa, una nuova istituzione giuridicamente costituita, formata da un apparato direttivo e amministrativo di tipo gerarchico, dotato di poteri temporali e divini da lui stesso trasmessi. In buona sostanza un organo di salvezza storico e visibile, di fatto in alternativa al giudaismo. A supporto di tale tesi si citano solitamente Mt 16,17-19; 18,18; 28,18-20; Gv 20,22-23 e passi simili; in particolar modo ci si sofferma sul gruppo dei Dodici costituito direttamente da Gesù, i cui componenti sono stati da lui definiti apostoli (Lc 6,13), sottolineando come tra questi compaia sempre per primo il nome di Pietro (Mt 10,2). E di cose simili potremmo citarne ancora altre.

Pensare in questi termini significa prendere i Vangeli come una biografia d.o.c. su Gesù, come una sorta di diario di bordo in cui si sono scrupolosamente annotati, di volta in volta, i fatti che accadevano o le parole dette da Gesù; significa ritenere i vangeli documenti che attestano con scientificità storica quanto è avvenuto nella Palestina degli anni trenta d.C., una sorta di cronaca di quel tempo. Significa che non si pensa che tra l'accadere dei fatti e la loro prima stesura sono passati all'incirca tra i quaranta e i sessant'anni, nella migliore delle ipotesi, durante i quali si è lungamente elaborata e ricompresa, alla luce della risurrezione e degli eventi presenti al tempo della stessa stesura, la persona di Gesù, che lentamente ha subito delle trasformazioni dettate dalla fede e dall'approfondimento circa la sua comprensione. Significa non tener conto che il concetto di storia che avevano gli antichi, e a cui sono uniformati i vangeli, era esattamente agli antipodi del nostro. Per noi la storia è accettabile solo se fondata su documenti e testimonianze scientificamente prodotti e provati; ma per gli antichi ciò era pressoché irrilevante, ritenendo più importante il contenuto, di cui i fatti erano portatori, più che i fatti in se stessi. Ciò, tuttavia, non significa che gli antichi non dessero importanza ai fatti e al loro accadere, ma non erano certamente ossessionati, come noi, dal trasmetterli con rigore scientifico così come accaduti, essendo interessati maggiormente al loro contenuto. Significa, in ultima analisi, ignorare che i vangeli sono essenzialmente una elaborazione della fede delle prime comunità credenti nel Gesù risorto, una loro testimonianza su quanto loro hanno capito di lui, il punto di arrivo di una lunga riflessione. Chi poi ha scritto i vangeli non lo ha fatto pensando ai posteri e tanto meno a noi, ma sono stati redatti da alcuni responsabili per le loro comunità e tenendo conto dei problemi che si agitavano al loro interno. Le finalità, quindi, erano squisitamente pastorali e catechetiche.

Concludendo, riportiamo di seguito il pensiero di Siegfried Wiedenhofer47 sulla questione, che ci sentiamo di condividere pienamente: “Nell'esegesi recente questa concezione è diventata problematica per diverse ragioni48. Dal punto di vista storico, ad esempio, bisogna partire dal presupposto che i vangeli sono sorti nella situazione ecclesiale postpasquale. Questo significa che essi trasmettono le parole di Gesù in modo già attualizzato in riferimento a questa situazione ecclesiale49 . […]. Di fatto, però, le situazioni prima e dopo la Pasqua sono assai diverse: i vangeli annunciano le parole e le azioni di Gesù in modo nuovo e sulla base di una nuova esperienza, quella della morte e risurrezione di Gesù e della comunità, che a partire da essa si raccoglie e attende il ritorno del Signore. In Gesù, invece, al centro sta qualcos'altro: anzitutto la sua predicazione escatologica nella quale egli annuncia l'irrompere imminente del regno di Dio (attesa prossima) e, in secondo luogo, le sue azioni con carattere di segno nelle quali egli, in concrete situazioni di sventura, conferisce una forma percepibile nel nostro mondo all'amore incondizionato e senza limiti di Dio e alla sua misericordia. Oltre a ciò, Gesù si rivolge all'intero Israele (senza escludere alcun gruppo). Il suo scopo è la raccolta, il rinnovamento e la preparazione dell'intero popolo in vista del veniente regno di Dio50. In questa prospettiva Gesù non voleva né fondare una nuova comunità religiosa, né costituire un resto o una comunità particolare all'interno di Israele. Che da questo movimento di raccolta di fatto derivi una separazione non dipende dalla volontà di Gesù ma dal rifiuto dei destinatari. In tale quadro una fondazione della Chiesa secondo la comprensione tradizionale è in effetti difficile da collocare51.

Similmente e in modo incisivo Hans Küng nella sua opera “Cristianesimo, essenza e storia” afferma: “L'uomo di Nazareth, privo di ufficio e dignità, aveva annunciato il Regno di Dio, ma non aveva voluto dare vita ad una comunità speciale, distinta da Israele, con una propria professione di fede e un proprio culto, con una propria costituzione e propri ministeri. In altre parole, Gesù aveva avviato un grande movimento escatologico di raccolta, e i Dodici con Pietro erano per lui il segno della piena ricostituzione delle tribù d'Israele. Ma Gesù non aveva pensato di fondare una grande realizzazione religiosa; non ci sono, comunque, parole di Gesù, rivolte all'opinione pubblica, che invitino programmaticamente a una comunità degli eletti e alla fondazione di una chiesa. Anzi, stando ai Vangeli, egli non ha mai usato la parola <<chiesa>>”52

Benché non si possa dire che Gesù avesse avuto l'intenzione di fondare una chiesa, tuttavia va detto che ne ha messo, seppur involontariamente, le premesse sia con l'annuncio del Regno dei cieli, sia con il raccogliere intorno a sé quanti avevano deciso di seguire da vicino la sua proposta. Ma va detto anche che tutti gli aspetti organizzativi e istituzionali, che si possono cogliere in qualche modo dalle pagine dei vangeli e che investono in vario modo i seguaci di Gesù, sono un riflettersi delle stesse comunità credenti, già strutturatesi e istituzionalizzatesi in modo del tutto autonomo e certamente senza seguire precise indicazioni o disposizioni di Gesù. Un esempio ci viene dato dai termini apostolo e discepolo. Il primo ricorre nei vangeli soltanto nove volte53 contro le 235 del termine discepolo. Viceversa, le cose cambiano negli Atti degli Apostoli, in cui si narra della Chiesa postpasquale: il termine apostolo compare 29 volte, mentre il termine discepolo, citato anche questo 29 volte, assume un significato completamente diverso da quello dei vangeli ed indica semplicemente il convertito che ha abbracciato la nuova fede e che ad Antiochia verrà chiamato, per la prima volta, cristiano (At 11,26). La diversa e sproporzionata quantità nell'uso, che i vangeli fanno dei due termini di apostolo e discepolo (9 a 235), ci dice come il termine “apostolo” sia stato importato nei vangeli da un'esperienza successiva al Gesù storico e come l'attribuire a determinati discepoli il titolo di apostolo non fu Gesù, ma la stessa comunità, per designare coloro che hanno avuto un particolare rapporto con Gesù, dando loro in tal modo davanti alla comunità autorità credibile. Era, quindi, una sorta di credenziale. L'apostolo, infatti, è presentato come un inviato che possiede in se stesso autorità e potere che sono propri di Gesù e ne funge da alter-ego54. Infatti, il termine apostolo, dal greco "¢postšllw", significa "inviato, mandato" e, quindi, rivestito di una sorta di rappresentanza legale55. Questo comporta che il discepolo venga investito ufficialmente di autorità da parte del suo maestro e possa operare in suo nome e per suo conto in mezzo agli altri. Comporta, inoltre, che vi sia già una comunità ufficialmente costituita, operante in seno alla società civile e religiosa e da questa sia in qualche modo riconosciuta e accettata o respinta. Comporta, infine, che il discepolo possa operare autonomamente e separatamente dal suo maestro, avendone ricevuto mandato ufficiale, diventando lui stesso una sorta di “capo costituito”, di “alter ego” del suo maestro in mezzo agli altri. È, quindi, molto improbabile che figure simili e con tale significato coesistessero all'interno del gruppo dei discepoli durante l'esistenza storica di Gesù. Più credibile, invece, che le comunità credenti, costituitesi successivamente alla pasqua, attribuissero tale titolo a coloro che presiedevano le comunità o che predicavano, legando la loro figura direttamente a Cristo, per caricarla di autorità divina. Il termine apostolo, pertanto, riflette nei vangeli una situazione postpasquale56.

Lo stesso termine “i Dodici”, che indica il gruppo degli apostoli, parla di un gruppo già istituzionalizzato, una sorta di punto di riferimento ideale, che viene contrapposto alle dodici tribù d'Israele, per significare come i nuovi credenti siano il nuovo Israele, il vero erede delle promesse (Mt 21,43) e che il loro ceppo originale è nei Dodici, in cui ci si riconosce. Un'espressione questa che nella sua definizione denuncia in se stessa una istituzionalizzazione già da tempo avvenuta, con la quale si indicava una determinata categoria di persone, più che una vera e propria realtà. Un esempio in tal senso ci viene dallo stesso Matteo, il quale usa il termine apostolo una volta soltanto, incidentalmente, nel presentarci l'elenco degli apostoli; un elenco che deve aver trovato presso una qualche comunità o che comunque girava tra le comunità e che lui ha riportato pari pari, in modo acritico, senza alcun commento: “I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, che poi lo tradì” (Mt 10,2-4). E che così sia, lo attesta l'incongruenza del v.10,1: “Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità”. Matteo qui non si pone neppure il problema di definire i dodici come apostoli, ma li chiama semplicemente “discepoli”, perché questa era la vera identità dei seguaci del Gesù storico; mentre al versetto immediatamente successivo definisce i dodici come “apostoli”, senza avvertire la stonatura, probabilmente perché il termine apostolo esulava dal suo modo di pensare; mentre nel riportare l'elenco istituzionalizzato si adegua alla tradizione.

Posti in questa cornice critica anche i vv.16,17-19 riflettono in se stessi una realtà costituitasi soltanto in un tempo postpasquale, comunque molto lontano dai tempi di Gesù. Probabilmente qui siamo alla fine del I secolo, più realisticamente verso la metà del II sec., quando le prime comunità incominciano a prendere consistenza strutturale e si preoccupano della propria identità e della propria solidità nei confronti di un mondo, che comincia ad essere loro ostile e al nascere delle prime eresie. Non va dimenticato, inoltre, che la comunità matteana, che si riflette nel vangelo, è una realtà molto evoluta istituzionalmente ed ha già delle sue regole interne. Il termine “chiesa”, che qui compare per la prima volta, acquista una consistenza squisitamente istituzionale. Si parla infatti di una chiesa fondata su Pietro, che qui è colto come la roccia fondativa. Anche questa figura è ormai istituzionalizzata. Tutto qui parla di istituzionalizzazione, per cui, a nostro avviso, è improprio pensare a questo termine come alla comunità messianica o dei santi, che caratterizza, invece, le chiese paoline, che sono di tipo carismatico e non istituzionale. Il termine chiesa in Matteo indica una vera e propria istituzione ecclesiastica, sia pur ancora in nuce e certamente non da paragonare a quella odierna.

Per questo insieme di cose, possiamo concludere, con una certa tranquillità, che i due versetti in esame non possono essere attribuiti a Gesù, ma costituiscono una riflessione propria di Matteo, che egli propone alla sua comunità, la quale, come vedremo, sta vivendo momenti poco felici e di grande confusione circa la vera fede nell'uomo Gesù, vero Figlio di Dio e Dio lui stesso, così che Matteo ritiene di dovere porre in campo tutta l'autorità della fondazione petrina della vera chiesa di Gesù. L'intento, come vedremo, è quello di salvaguardare la fede e tagliar corto contro un'eresia serpeggiante e che, probabilmente stava infestando anche la sua comunità.


Lettura storica dei vv. 16,18-19


Si è detto sopra come i vangeli non sono la biografia di Gesù, né una sorta di sua cronistoria, né tantomeno una specie di diario di bordo, in cui si riporta con rigorosa e scrupolosa fedeltà scientifica il pensiero e l'operato di Gesù57. Ma sono essenzialmente una testimonianza di fede delle prime comunità credenti sull'evento Gesù, cioè quanto esse hanno compreso e hanno creduto di Gesù e, quindi, elaborato e incarnato nella loro vita58. Per questo motivo i vangeli riflettono in qualche modo la vita stessa della comunità, con i suoi problemi, le sue ansie, le sue attese, i suoi dubbi e i suoi conflitti. Avremo modo di vedere come il quarto discorso di Gesù (cap.18) riporti alcuni problemi della comunità matteana e le soluzioni che a questi sono state date, pensando al messaggio di Gesù ed elaborandolo secondo la loro necessità contingente. Non va, poi, dimenticato come i vangeli sono stati scritti tra i quaranta e i sessantanni dopo la morte/risurrezione di Gesù, per cui il suo messaggio e la sua opera vennero a lungo riflettuti, elaborati e ricompresi alla luce della risurrezione, nonché filtrati attraverso l'esperienza della quotidianità e del culto. Ciò che è giunto a noi non è una trascrizione di tipo notarile dell'evento Gesù, ma una sua elaborazione operata in seno alle comunità, che nei vangeli ci dicono cosa esse hanno compreso dell'uomo di Nazareth. Del vero Gesù della storia ci è rimasto ben poco. I vangeli, pertanto, sono una testimonianza di come le prime comunità hanno attualizzato al loro interno la predicazione di Gesù, il suo pensiero, la sua opera, letta e passata attraverso il filtro della risurrezione, in cui l'uomo Gesù non è più pensato soltanto nella sua dimensione orizzontale, ma viene fatto confluire nella sua regale e divina signoria di vero Figlio di Dio59, dando pertanto alle sue parole, al suo pensiero e alle sue opere la dimensione dell'eternità stessa di Dio, da cui egli è uscito per poi ritornarvi (Gv 16,28).

All'interno di questa cornice vanno letti e compresi anche i due versetti in esame. Il fatto che sia soltanto Matteo a riportarli, ci induce a pensare che l'evangelista, in questo contesto, stia affrontando un problema, che andava agitandosi da tempo all'interno della sua comunità, formata da convertiti provenienti dal giudaismo e per i quali sta scrivendo la sua opera. Si tratta, ora di capire, qual era il contesto vitale a cui questi versetti erano legati e dal quale sono sorti e, quindi, nei quali esso si riflette. In buona sostanza qual era il loro Sitz im Leben. In proposito Vittorio Fusco, parlando della storia delle forme60, afferma che “ognuna di esse è legata ad un certo Sitz im Leben, letteralmente “il posto nella vita”: termine che non bisogna usare, come a volte si fa oggi, in senso puramente storico, quasi fosse sinonimo di una qualsiasi situazione contingente, l'occasione in cui fu pronunziata una certa frase, ma sempre in senso sociologico, in riferimento a situazioni costanti, corrispondenti a bisogni permanenti di una certa comunità. Posta questa stretta connessione tra forma e Sitz im Leben, dalle varie forme dovrebbe essere possibile risalire alle loro collocazioni nella vita della comunità”61

Per affrontare la questione prendiamo in esame oggettivo i vv.13.16-19:

v.13: Giunto Gesù dalle parti di Cesarea di Filippo, interrogò i suoi discepoli dicendo: [...]


v.16: Rispondendo Simon Pietro disse: <<Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente>>;


v.17: Rispondendo Gesù gli disse: Beato sei, Simone, figlio di Giona, poiché carne e sangue non ti rivelarono, ma il Padre mio nei cieli.


v.18: Anch'io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte dell'Ade non prevarranno su di essa.


v.19: Ti darò le chiavi del regno dei cieli; e ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli.


Il primo quesito che ci poniamo è perché Matteo, e soltanto lui, colloca questo inserto (vv.17-19) nella confessione di Cesarea. La prima risposta, al momento necessariamente generica, è che Matteo aveva degli interessi suoi personali. In tal senso è necessario tener presente che nei vangeli nulla è messo a caso, neanche la punteggiatura. Non va dimenticato, infatti, che i vangeli non sono opere scritte di getto, ma la meticolosità pignolesca e quasi ossessiva con cui sono stati composti e strutturati, dice che essi sono stati studiati e composti a tavolino da gente veramente esperta e capace nell'arte della narrativa e della comunicazione. Sono opere di alto spessore culturale e intellettuale. Non sono testi di pietà cristiana, scritti da persone colte da un momentaneo raptus mistico, né tanto meno sono stati scritti per edificare spiritualmente i primi cristiani. Ma essi hanno finalità squisitamente teologiche, dottrinali e pastorali. Quindi, se Matteo ha inserito i vv.17-19, modificando, rispetto a Marco e a Luca, il v.16 è perché aveva degli obiettivi suoi personali da raggiungere.

Un secondo quesito: Perché viene menzionata la località? Si tratta solo perché Marco la cita e, quindi, Matteo, che da Marco dipende, la riporta? Matteo, benché citi la località, si colloca, tuttavia, in una posizione diversa da Marco. Il Gesù marciano, infatti, si sta solo dirigendo verso i villaggi di Cesarea e lungo il cammino pone la questione della sua identità, ma non è giunto a Cesarea di Filippo (Mc 8,27b). Il Gesù matteano, invece, pone la questione della sua identità soltanto quando è giunto nei dintorni di Cesarea di Filippo (Mt 16,13a). In Luca non è citata la località, ma il contesto è quello della preghiera (Lc 9,18).

Terzo quesito: Perché Matteo, a differenza di Marco e Luca, aggiunge alla confessione di Pietro circa l'identità di Gesù anche la dichiarazione solenne di figliolanza divina?

Quarto quesito: Perché solo Matteo lega la confessione di Pietro ad una rivelazione divina, di cui Pietro soltanto sembra aver beneficiato? Perché Pietro è dichiarato “beato” da Gesù, cioè legato ad una particolare elezione divina?

Quinto quesito: Perché Pietro è definito roccia fondativa su cui Gesù ha istituito la sua chiesa? E perché si dichiara l'invincibilità di questa istituzione divina? Perché, infine, Pietro è insignito di ogni potere divino? In ultima analisi, perché questa sorta di apoteosi celeste di Pietro, celebrata dai vv.17-19?

Per poter rispondere a questi quesiti e, quindi, capire gli intenti di Matteo è necessario rifarsi ad un contesto storico tale che soddisfi ogni quesito.

Da una prima analisi superficiale sembra di poter capire che l'evangelista volesse sottolineare con forza la figliolanza divina di Gesù e, quindi, la sua stessa divinità. Per farlo mette in bocca a Pietro la dichiarazione. A questo punto si tratta di dare forza e solennità alla persona di Pietro e a quanto egli ha dichiarato. Ecco pertanto i vv.17-19, la cui finalità è quella di esaltare, in una sorta di apoteosi divina, la figura di Pietro, che qui perde ogni contorno di immediatezza storica, per assumere le vesti di una istituzionalizzazione, che trascende la contingenza della storia e che difficilmente può essere fatta risalire a Gesù, per i motivi sopra riportati; come difficilmente può essere ricondotta all'interno del I sec. I versetti citati hanno come unico tema la figura di Pietro, che ad ogni versetto viene, via via in un crescendo continuo, celebrata ed esaltata e incastonata in una sorta di Empireo divino62.

La prima domanda è chiedersi perché Matteo si sia mosso narrativamente in questo senso. Qual era il suo obiettivo e la situazione storica in cui era coinvolta la sua comunità? Non si dimentichi che i vangeli sono documenti pastorali e non biografie di Gesù e sono stati elaborati per rispondere alle esigenze della comunità, che l'evangelista aveva davanti a sé e di cui era probabilmente anche il pastore e responsabile.

Sintetizzando, abbiamo quattro elementi: a) una dichiarazione di figliolanza divina e, quindi, di divinità di Gesù; b) una esaltazione della figura di Pietro, presentato come una sorta di istituzione fondativa della chiesa; c) un contesto geografico, che non è quello proprio di Cesare di Filippo, ma dei suoi dintorni. Qui avviene la dichiarazione e l'esaltazione petrine; d) chi narra il tutto è soltanto e unicamente il vangelo di Matteo.

È evidente che se Matteo si è mosso in questo senso è perché c'era un problema vitale e grave all'interno della sua comunità. Vediamo di ricostruirne lo Sitz im Leben.

Innanzitutto, se Matteo si sente di dover sottolineare la figliolanza divina di Gesù e, quindi, la sua stessa divinità è semplicemente perché c'era chi, all'interno della sua comunità, la negava o quanto meno la rifiutava. Vediamo, infatti come l'evangelista insista molto in questo terzo intermezzo (capp.14-17) sulla divinità di Gesù, lamentandosi per la cecità e le forti resistenze sia da parte delle autorità giudaiche e del popolo che della sua stessa comunità. Lo fa al v.14,33, a conclusione del racconto della tempesta sul lago, in cui era sballottata la barca, metafora del turbinio dei dubbi che stavano agitando la sua comunità; mentre al cap.15 punta il dito sia contro la chiusura-rifiuto dei giudei (vv.1-9), sia contro l'inintelligenza e le resistenze della sua comunità (vv.10-20), che in questo viene associata ai giudei (v.16); mentre guarda con occhio benevolo verso la disponibilità del mondo pagano convertito (vv.21-28) e pronto ad accogliere la divinità del Risorto (vv.22b.25). Nel cap.16 sottolinea in modo deciso, caricandola di solennità e di autorità, la dichiarazione di figliolanza divina di Gesù (vv.15-19), mentre nel cap. 17 spiega in che cosa essa consista (vv.1-9) e fa capire come questa divinità e questa figliolanza divina sono coglibili solo nella fede, al di fuori della quale si vede soltanto un uomo (17,8). Non va dimenticata, infine, la solenne quanto triste chiusura del racconto matteano, in cui serpeggia ancora il dubbio davanti al Risorto, avvolto nella sua onnipotenza divina (28,17).

Chi erano, dunque, questi negatori della divinità di Gesù? La risposta è semplice: erano i giudeocristiani giudaizzanti, cioè quei cristiani che provenivano dal giudaismo, ma non erano riusciti a staccarsi da questo e cercavano di coniugare questo con la nuova fede in Cristo. Sono proprio loro, infatti, che compongono in modo prevalente la comunità di Matteo63. Paolo ne parla diffusamente nelle sue lettere64 e li presenta come una sua grande sofferenza (2Cor 12,7), poiché destabilizzavano, inquinandola, la fede in Cristo, e tendevano a leggerlo attraverso il filtro della Legge mosaica, riconducendolo all'interno del giudaismo stesso, quasi ne fosse stato una specie di addentellato, negandogli, quindi, tutta la freschezza e l'originalità del suo messaggio e non riconoscendogli la sua potenza salvifica, ottenibile solo attraverso l'osservanza mosaica.

I giudeocristiani giudaizzanti si suddividevano in due categorie: quelli che si limitavano ad osservare la legge mosaica solo per se stessi, senza disdegnare la loro adesione di fede a Gesù. Erano questi i più moderati e probabilmente ad essi apparteneva anche Giacomo, il fratello del Signore, e con lui la chiesa di Gerusalemme; e quelli, invece, che volevano imporla anche agli etnocristiani, cioè ai cristiani provenienti dal paganesimo, negando decisamente l'efficacia della salvezza nel solo Cristo, sottolineando, invece, la necessità di sottoporsi, per mezzo della circoncisione, a Mosè. Questa seconda categoria si collocò fin da subito su posizioni eretiche e fu duramente avversata in ogni modo da Paolo. Al suo interno si distinsero in quattro filoni: gli Ebioniti, gli Elcasaiti, i Nazarei e i Nicolaiti. Tra questi ci occuperemo soltanto degli Ebioniti65, poiché tra tutti, presentano i tratti che meglio si adattano alla nostra questione e rispondono a tutti i quesiti che ci siamo posti.

Il loro nome compare per la prima volta in Ireneo66, ma senza che questi ne spieghi il significato. Più duri e incisivi furono Origene67 ed Eusebio68 che li definirono “poveri” per la loro limitata intelligenza e scadente comprensione di Cristo. Il nome viene fatto derivare dall'aramaico ebhyionim, che significa “i poveri”. Sembra che essi stessi si autodefinissero come tali perché si rifacevano alle beatitudini dei poveri in spirito (Mt 5,3) e si richiamavano ai primi cristiani degli Atti degli Apostoli, che alienavano i loro beni, depositandoli ai piedi degli Apostoli. Tuttavia, studiosi moderni, hanno anche sostenuto che il termine, in origine, non designasse alcuna setta eretica, ma solo gli ebrei cristiani ortodossi di Palestina, che continuavano ad osservare la legge mosaica.

Quanto alla loro dottrina, si distinguevano dagli altri cristiani perché sostenevano che per seguire Gesù ed ottenerne la salvezza era necessario sottoporsi alla Legge mosaica in tutti i suoi precetti, come la circoncisione, l'osservanza della purità, del sabato e delle altre festività ebraiche. Contro questo loro modo di pensare, diffusosi anche presso la comunità dei Galati, Paolo tuonerà: “Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,2-4)

Gli Ebioniti, inoltre, ritenevano che Gesù fosse l'atteso messia, ma, nel contempo, a motivo del loro rigoroso monoteismo rifiutavano di riconoscere la divinità di Gesù, che invece consideravano un semplice uomo, nato da Maria e Giuseppe e, pertanto, non credevano nella verginità di Maria. Fu a causa della sua grande rettitudine, che Dio lo adottò come suo figlio nel battesimo, posizione questa adozionista. Da quel momento Gesù si sentì chiamato a compiere la missione che Dio gli aveva affidato: morire in croce, giusto per i peccatori. Fu per questa sua totale dedizione che Dio lo risuscitò (Fil 2,9) e lo assunse presso di sé in attesa di tornare sulla terra per il giudizio finale.
Gli Ebioniti
non riconoscevano nessun testo sacro se non il Vangelo di Matteo, a cui facevano riferimento e da cui derivarono un loro vangelo, conosciuto come il Vangelo degli Ebioniti69. L'esclusiva scelta del Vangelo di Matteo, probabilmente è dovuta al fatto che l'evangelista, ebreo che scrive ad ebrei, riporta numerose citazioni veterotestamentarie che vede attuate in Gesù, ma sopratutto perché questo Vangelo non scredita la Torah, ma la esalta: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli”.

Quanto agli Apostoli, essi si riferivano solamente a Pietro e a Giacomo, ma avversavano fortemente Paolo sia perché lo ritenevano un apostata, sia perché lo consideravano un nemico di Pietro, probabilmente per i fatti di Antiochia (Gal 2,11-14).

Essi, sorti intorno alla metà del primo secolo, si stanziarono inizialmente in Giudea e in Siria e, successivamente all'editto di Adriano (135 d.C.), emigrarono verso est, al di là del Giordano, nella Perea, l'attuale Giordania, rimanendo tagliati fuori dal resto della Chiesa cristiana. Gli Ebioniti sembrano definitivamente estinti nel 637, a seguito dell'invasione della Siria da parte degli arabi.

Riassumendo le caratteristiche che definiscono gli ebioniti, risulta che questi:


  1. Erano diffusi nella Transgiordania e in Siria;

  2. Non credevano nella divinità di Gesù e nella sua figliolanza divina, ma ritenevano che questi, invece, fosse stato adottato da Dio nel battesimo come suo figlio, in quanto uomo perfetto (tesi adozionista, dichiarata eretica da Nicea 325 d.C.);

  3. In quanto giudaizzanti, rifiutavano Paolo, ritenuto un apostata e un traditore del giudaismo, ma stimavano, invece, Pietro e Giacomo a cui facevano riferimento;

  4. Il testo sacro da loro adottato fu quello di Matteo.


L'insieme di questi punti rispondono bene a tutti i quesiti che ci siamo posti:


  1. la dichiarazione della figliolanza divina di Gesù viene posta da Matteo non proprio a Cesare di Filippo, ma nei suoi dintorni (e„j t¦ mšrh, eis tà mére, “dalle parti”), probabilmente perché quella zona costituiva una sorta di enclave ebionita. La località, infatti, si trova sia nella Transgiordania, dove si erano diffusi numerosi, sia nei pressi dei confini della Siria, altra regione dove vi era un'alta concentrazione di ebioniti. In buona sostanza la regione attorno a Cesare di Filippo costituiva una sorta di cuore ebionita o quantomeno doveva esserci un'alta concentrazione di questi giudeocristiani. Il porre, dunque, la dichiarazione della figliolanza divina di Gesù e della sua divinità in questa località costituiva per Matteo sia una sfida a questi giudeocristiani ribelli, sia un forte richiamo e un forte messaggio rivolto a questi dissidenti.

  2. Matteo, inoltre, unico tra gli evangelisti, riserva uno spazio apposito (vv.16-19) nel suo vangelo a questa solenne dichiarazione, perché sa che questo è l'unico testo a cui fanno riferimento gli ebioniti e gode della loro fiducia e stima. Questo, probabilmente, come si è detto, perché Matteo era un ebreo, che si rivolgeva ai soli ebrei, e il suo vangelo non solo rivalutava la Torah (Mt 5,17-48), ma a questa si rifaceva nel leggere la figura di Gesù, colto come attuazione della Torah e non posto in sua contrapposizione (5,17).

  3. Inoltre, Matteo mette sulle labbra di Pietro la dichiarazione della figliolanza divina di Gesù e, quindi della sua divinità, esaltando all'inverosimile la sua figura, probabilmente perché questi ebioniti vedevano in Pietro, assieme a Giacomo, un giudeocristiano che doveva in qualche modo pensarla come loro. Dubbi sulla divinità di Gesù Pietro deve averne avuti non pochi e la sua posizione nei confronti della novità del cristianesimo fu sempre altalenante: da un lato si dichiara a favore degli etnocristiani, ma dall'altro egli è ancora molto legato al giudaismo: negli Atti dichiara che lui ha sempre osservato la legge di Mosè e non vuole violarla adesso, mangiando cibi proibiti; dopo la morte di Gesù continua a frequentare il tempio; nel racconto metaforico del lago in tempesta Pietro affonda nelle acque del dubbio e Gesù lo apostrofa come uomo di poca fede. Ma se Pietro è simile a loro e costituisce un loro punto di riferimento, Matteo sottolinea come questo Pietro è anche ritenuto il fondamento della vera chiesa di Gesù; è un prescelto da Dio stesso per compiere una missione universale e a cui lo stesso Gesù ha conferito ogni suo potere. Ed è proprio questo Pietro che dice loro come Gesù è vero Figlio di Dio e lui stesso Dio. Anche lui, dunque, uno come loro, uscito dal dubbio, è giunto ad affermare la divinità di Gesù. Per questo non c'è più motivo alcuno di insistere su comportamenti che vanno contro lo stesso Pietro, in cui loro dicono di credere e di cui si fidano.

Un'ultima osservazione va fatta sui vv. 16,17-19. Benché, ormai gli studiosi ritengano che questi non siano una interpolazione, a motivo della loro costruzione e dell'uso di determinati vocaboli, che li agganciano all'ambiente palestinese70, tuttavia, ritengo personalmente che essi siano in realtà una interpolazione, proveniente dal mondo palestinese. Ciò che me lo fa pensare è il fraseggiare ridondante di questi versetti, il loro incedere solenne, in cui la figura di Pietro non ha più nulla di umano e di storico, ma è una figura idealizzata, divenuta ormai una vera e propria istituzione fondativa di comune riferimento, da cui si fanno derivare, per trasmissione diretta gli stessi poteri di Gesù. Si è cercato, quindi, di creare una sorta di catena storica: da Gesù a Pietro in linea diretta, e da Pietro agli altri. Una figura questa di Pietro attorno alla quale aleggia un'alea divina, costituita da una rivelazione diretta ricevuta dal Padre, una sorta di elezione privilegiata. In ultima analisi vediamo che si è cercato di attirare Pietro nella stessa area del Risorto, creandone una sorta di continuità storica. In Mt 28,18, infatti, dopo la sua risurrezione Gesù si rivolge ai suoi nella pienezza dei suoi poteri divini, datigli dal Padre: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. Ma è esattamente ciò che ha detto a Pietro quando gli ha conferito il potere di legare e di sciogliere in cielo e in terra. Si è venuta ormai a creare una sorta di identità tra Gesù risorto e Pietro: la presenza di Pietro è quella di Gesù, dunque, il Risorto continua il suo cammino storico nella persona di Pietro. Ed è proprio questo che Matteo già aveva fatto intendere in 14,32: “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”. Il vento del dubbio cessa immediatamente non appena i due salgono sulla barca. Il comune e contemporaneo gesto del salire in barca crea una sorta di identità tra i due.

Pertanto possiamo concludere con una certa tranquillità che i vv.16,17-19, interpolati nel corso del II sec. d.C. per rispondere all'eresia ebionitica, riflettono una elaborazione teologica propria della comunità matteana e in genere delle comunità della Palestina, che cristallizzarono in questi versetti la loro fede, in cui si rispecchia e risuona anche la loro ormai consolidata esperienza di chiesa, intesa qui, come abbiamo visto, come istituzione storica. L'epoca di questi versetti può essere collocata, a mio avviso, tra il 120 e il 150 d.C. e non prima di tale periodo. Epoca questa in cui le comunità primitive incominciavano a darsi una loro vera e propria struttura di tipo gerarchico, ed hanno, quindi, già elaborato una teologia fondativa della chiesa e un concetto gerarchico e istituzionale di chiesa, che fanno risalire da Pietro a Gesù. È questa loro esperienza e questo loro comune sentire che viene opposto agli Ebioniti e proposto alla loro riflessione, perché anch'essi rientrino nella chiesa di Pietro, al quale, assieme a Giacomo, accordano la loro fiducia.

vv.21-28: l'ultima parte del cap.16 assume in modo più accentuato i contorni propri della catechesi, il cui intento è quello di aiutare la comunità matteana a superare lo scandalo della croce71, che la Torah considerava una maledizione divina (Dt 21,23). Come, dunque, conciliare il messianismo e la divinità di Gesù con la sua morte obbrobriosa (Rm 1,16; 1Cor 1,23)? La risposta viene dai vv.21-24, che insegnano come la passione, morte e risurrezione di Gesù non devono costituire motivo di scandalo perché rientrano in un preciso progetto divino (de‹, deî, bisogna, è necessario), che Gesù ha attuato pienamente in sé, conformandosi umilmente alla volontà del Padre72. Il problema, di certo, non era soltanto della comunità matteana o del mondo giudeocristiano, ma l'impatto di un messia e di un Dio crocifisso e sconfitto dagli uomini doveva costituire un serio problema per tutti, giudeocristiani o etnocristiani che fossero, se anche Paolo affronterà la questione con la sua comunità di Corinto: “E mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25). È necessario, dunque, guardare al Crocifisso con il penetrante occhio della fede, che sappia superare le limitate e fragili capacità della comprensione umana (vv.22-23). Ma non solo, e qui Matteo va ben oltre le aspettative e lancia la sfida ai suoi, è necessario anche che i seguaci del Crocifisso si conformino a lui nel sofferente cammino della croce, che diviene la “conditio sine qua non”, che caratterizza l'autentica sequela (v.24). Per sostenere i suoi in questo difficile processo di interiorizzazione e di metabolizzazione della croce per farne una cultura di vita, una sorta di forma mentis, Matteo svilupperà una breve quanto intensa riflessione sapienziale sul tema della sequela sofferente (vv.25-26), agganciandola ad una prospettiva escatologica (vv. 27-28).

La struttura della pericope in esame si divide in due parti, con delle sottodivisioni in ciascuna delle due:

A) vv.21-2473: tema fondamentale di questi versetti è lo scandalo della croce, che impedisce di credere nella messianicità di Gesù; ma nel contempo ne viene richiesto un superamento per poter qualificarsi come veri discepoli di Gesù. Il tema è giocato all'interno di questa sottostruttura a parallelismi concentrici in b) :

a) v.21: viene svelato ai discepoli (deiknÚein, deiknúein) il mistero che sottende la passione, morte e risurrezione di Gesù: in ciò si attua una precisa volontà del Padre e si compie il suo disegno di salvezza (de‹, deî, bisogna, è necessario). Non si tratta, dunque, di una sconfitta di Dio, ma della sua affermazione, che troverà la pienezza nella luce della risurrezione. Tutti i verbi posti al presente dicono che il progetto salvifico del Padre è in atto nell'agire stesso di Gesù.

b) vv.22-23 costituiscono il cuore del dramma: incomprensione di Pietro circa l'attuarsi del messianismo e decisa presa di posizione di Gesù, che richiama Pietro a sottomettersi alla dura legge della sequela (“Upage Ñp…sw mou, ípaghe opíso mu, va dietro di me);

c) v.24: la dura legge della sequela: rinnegare se stessi e abbracciare la croce. Essa impone al vero discepolo non solo di accogliere nella propria vita il messianismo sofferente del proprio Maestro, ma anche di conformarsi ad esso senza scandalizzarsi, facendone un tratto qualificante del proprio discepolato.

I vv. 21 (a) e 24 (c) costituiscono una sorta di inclusione in quanto il tema della passione e morte di Gesù (v.21) si riflette e si amplifica in modo parallelo all'interno della comunità dei discepoli (v.24), caratterizzandone la sequela. I vv.22-23 (b), invece, sono il punto di convergenza della struttura e, come si è detto, sono il cuore della questione: l'incredulità, lo scandalo e il rifiuto di un messianismo segnato dalla croce.

B) vv.25-28: tema di fondo di questi versetti è una sorta di riflessione sapienziale, il cui intento è quello di approfondire il tema della sequela sofferente, annunciato al v.24. Si tratta, dunque, di una sua ripresa e di un suo, che si muove su tre livelli:

a) primo livello, vv.25-26: tutto ruota attorno alla vita (v.25) e all'anima (v.26), che si giocano sul banco della testimonianza estrema di Gesù (v.25b), sofferente, morto e risorto, unica cosa che veramente conti per il credente (v.26a);

b) secondo livello, v.27: è una ripresa e uno sviluppo sul tema della risurrezione preannunciato al v.21, visto qui in una prospettiva escatologica e di giudizio finale. Come dire che dietro il mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù si cela la potenza di Dio (1Cor 1,18-21), che si esprime in termini di giudizio escatologico.

c) terzo livello, v.28: direttamente rivolto alla comunità matteana, per spronarla e sostenerla nella sua fragile e dubbiosa fede, sottolineando l'imminenza della venuta gloriosa del Gesù giudice, che instaurerà definitivamente il suo regno e di cui loro saranno i primi testimoni.

Il v.21 si apre con un'espressione che abbiamo già trovato in 4,17: “ 'ApÕ tÒte ½rxato Ð'Ihsoàj” (Apò tóte érxato o Iesûs), “Da allora Gesù incominciò ...”74 e che divide il racconto matteano in due grandi sezioni, che nel loro evolversi dinamico potremmo sintetizzare come un passare dall'annuncio alla sequela (4,17) e da questa alla rivelazione (16,21). L'espressione in 4,17, infatti, è seguita dai verbi “khrÚssein e “lšgein” che hanno a che fare con l'annuncio, rivolto indistintamente a tutti, non essendo precisati gli ascoltatori. Un annuncio che chiede una risposta da parte degli ascoltatori, una loro presa di posizione esistenziale. Si pone dunque una questione di fede nei confronti della persona di Gesù. In 16,21 l'espressione, invece, è seguita dal verbo “deiknÚein” (deikníein), che significa rendere noto, rivelare e gli interlocutori, qui, sono esclusivamente i discepoli (maqhta‹j, matzetaîs), cioè persone, che dopo aver accolto in se stesse l'annuncio (4,17), hanno operato una scelta personale di sequela, rendendosi in tal modo disponibili alla comprensione del mistero che vive nella persona di Gesù. Una comprensione che ha il suo vertice nella confessione di Pietro (16,16) Il v.16,21, quindi, segna una svolta nella missione di Gesù: si passa dall'annuncio (4,17) alla rivelazione (16,21) del mistero della sua persona e alla scoperta del senso della sua missione, che avrà il suo vertice in Gerusalemme e da qui sul Golgota.

Il v.21, pur inaugurando l'apertura di una nuova fase del racconto matteano, tuttavia è strettamente legato alla pericope precedente (vv.13-20) dall'espressione temporale “Da allora” ('ApÕ tÒte), che ha le sue radici nella stessa confessione di Pietro. In altri termini, il Gesù proclamato Cristo e Figlio di Dio (v.16) costituisce per Matteo il nucleo fondamentale del mistero di Gesù, che da questo momento ('ApÕ tÒte) sarà sottoposto ad una approfondita riflessione; un cammino catechetico, dunque, che accompagnerà l'ascoltatore, fattosi discepolo, fino ai piedi della croce75. Da questo momento, dunque, inizia la rivelazione del mistero dell'evento Gesù, proclamato in 16,16, e della quale beneficeranno soltanto i discepoli, cioè coloro che hanno operato una scelta di sequela, fondata sulla fede e non sui segni, rendendosi disponibili all'evento di salvezza apparso in Gesù, dono del Padre (Gv 3,16).

Ciò che Gesù rivela ai suoi discepoli sono essenzialmente tre cose, tutti dipendenti dal verbo de‹ (deî), che imprime all'accadere degli eventi il carattere della necessità e della ineluttabilità e, di conseguenza, rimanda ad un prestabilito disegno del Padre, a cui Gesù si sta sottoponendo76. Il suo soffrire, dunque, come il suo morire e il suo risorgere non sono eventi dettati dalla causalità; non sono il segno della sconfitta del Messia, di cui vergognarsi e respingere, ma dicono il compiersi di un prestabilito piano di salvezza che si sta in lui manifestando:


a) Il suo andare a Gerusalemme, che nella comprensione degli evangelisti è il cuore del compiersi dei misteri della salvezza. Una centralità più evidente in Luca che costruisce il suo vangelo attorno al viaggio di Gesù verso Gerusalemme (Lc 9,51-19,28);

b) il suo patire ad opera delle autorità religiose. Anche questo dipende da quel “deî, posto al presente indicativo, per esprimere l'attualizzarsi, qui e ora, del piano divino posto su Gesù. Significativo il fatto che nessun verbo è qui posto al futuro, poiché è il vivere stesso di Gesù, il suo esserci, che parla di un agire divino in atto;

c) il suo essere ucciso e il suo essere risuscitato, verbi che sono posti al passivo teologico o divino, rimandano l'azione a Dio stesso. Il suo patire e il suo morire, dunque, non sono opera degli uomini, ma azione del Padre; così come la risurrezione avviene per potenza divina77.


Un appunto particolare va fatto sui quattro movimenti fondamentali, che il Gesù matteano compie e a cui è legata la rivelazione del suo mistero e quello della sua chiesa, che sta per nascere. Essi sono una sorta di metafora della sua azione salvifica:


1) Primo movimento: Gesù dalla Galilea scende in Giudea dove il Battista (Mt 3,13), in un contesto escatologico molto spinto, sta annunciando l'imminente venuta di Dio e la necessità di ritornare a Lui con il cuore. Il battesimo è il segno dell'adesione alla conversione. Entro questo quadro del ritorno di un Dio atteso appare Gesù (3,13), che mostra tutta la sua solidarietà con l'uomo peccatore, aderendo, insieme a lui, al battesimo di conversione. In tale frangente, l'autore inserisce una teofania (3,16-17) in cui Gesù viene incastonato tra lo Spirito di cui è rivestito e il Padre, resosi presente su di lui con la sua voce. Gesù, dunque, è definito qui pieno di Spirito Santo e Figlio di Dio, operante in nome e per conto di Dio stesso (3,17). L'operare di Gesù, di fatto, non è quello di un profeta solitario, ma è squisitamente trinitario78. Il primo movimento, quindi, esprime la discesa di Gesù in mezzo ai peccatori e con loro solidarizza.

2) Secondo movimento: Gesù risale in Galileia (4,12) dove svolge gran parte della sua missione (4,23-25) e nell'ambito della sua missione si spinge nel punto geograficamente più a nord della Palestina, il punto più alto, più elevato: Cesarea di Filippo, ai confini con la Siria (16,13). Qui avverrà la seconda manifestazione del mistero della sua persona: quest'uomo è il Cristo ed è Figlio di Dio (16,16). Questo secondo movimento, quindi, esprime la missione rivelativa del mistero della persona di Gesù.

3) Terzo movimento: dal punto più alto della sua missione, Cesarea di Filippo, Gesù inizia il suo viaggio di discesa verso Gerusalemme dove non solo si attueranno le profezie, ma si compirà la salvezza e il riscatto dell'intera umanità. Qui si rivelerà in pienezza la gloria della sua figliolanza divina e della sua stessa divinità (Rm 1,4). Se il primo movimento esprime la discesa di Gesù in mezzo agli uomini, questo terzo movimento dice come la sua discesa sia stata portata all'estremo della croce (Fil 2,8), preannuncio della sua gloria (Fil 2,9-11).

4) Quarto movimento: nella pienezza della sua gloria divina risale in Galileia dove incontra per l'ultima volta i suoi ancora titubanti e dubbiosi discepoli, affidando loro la prosecuzione della sua missione lungo il cammino della storia. Da qui, dalla Galileia, da dove è partita la missione terrena di Gesù, riparte, ora, quella della chiesa nascente, con la promessa che Egli, il Risorto, sarà sempre in mezzo ad essa fino alla fine dei secoli (28,7.16-20). Il quarto movimento è abbinato alla risurrezione, geograficamente espressa nel risalire di Gesù da Gerusalemme, luogo della sua passione e morte, verso l'alto della Galileia. Da qui, dalla sua risurrezione, riparte il cammino di salvezza che dovrà raggiungere tutti gli uomini fini agli estremi confini della terra.

A ben guardare, questi movimenti geografici di Gesù, composti, in modo alternato, da due discese e da due risalite, sono sempre legati al mistero della sua persona e ne sono una sorta di metafora:

1) nel primo movimento Gesù discende dall'alto della Galileia per rendersi solidale con l'uomo peccatore e qui, ripieno di Spirito Santo, si manifesta nella sua figliolanza divina, alludendo alla sua missione rivelativa e salvifica;

2) nel secondo movimento Gesù risale da dove è venuto, in Galileia, e soltanto nel punto più elevato, Cesare di Filippo, rivelerà il mistero della sua vera natura di messia atteso e della sua figliolanza divina. Un movimento che preannuncia la risurrezione (punto più alto) in cui apparirà evidente il suo stretto rapporto con il Padre e la sua stessa provenienza divina (mistero della sua natura);

3) nel terzo movimento Gesù scende a Gerusalemme, dove si abbassa fino alla morte di croce. Una discesa che è metafora del suo abbassamento e parla della sua spogliazione da ogni addentellato con il mondo divino, da cui proviene (Fil 2,6-8), ma che prelude nel contempo all'esaltazione della gloria divina in lui (Rm 1,4; Fil 2,9-11), manifestandosi per quello che da sempre è: Figlio di Dio e Dio lui stesso. Aspetto, quest'ultimo, che viene metaforicamente rappresentato dall'ultimo movimento;

nel quarto movimento Gesù risale dal punto più basso della sua missione, Gerusalemme, a quello originario di partenza: la Galileia, dove su di un monte (Mt 28,16), sede della divinità, apparirà ai suoi nella sua onnipotenza divina (Mt 28,18). Da qui, dall'alto del monte della sua gloria divina, parte l'annuncio a tutto il mondo della sua avvenuta redenzione, accompagnata dalla promessa della sua presenza in mezzo ai suoi: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20).

Il v.22 riporta la reazione di Pietro all'annuncio di Gesù. I toni narrativi sembrano pacati e Pietro, da buon discepolo, si preoccupa dei discorsi strani che fa il suo Maestro. Non lo vuole perdere e il suo cuore si turba. A questa preoccupazione e amorevole rimprovero del suo discepolo Gesù sembra, invece, rispondere in modo duro, stizzito, quasi rozzo e il suo tono raggiunge il limite dell'offesa (v.23). Ma tutto ciò è solo un'apparenza. In realtà la posizione di Pietro nei confronti dell'annuncio della passione e morte di Gesù è alquanto dura e presenta i caratteri di un vero e proprio scontro, che si è prolungato nel tempo e lascia intendere come i discepoli assieme a Pietro non fossero per niente disposti a seguire Gesù a quelle condizioni. Del resto, non è la prima volta che i discepoli abbandonano il loro Maestro per le stranezze del suo comportamento e i suoi incomprensibili discorsi, talvolta al limite del blasfemo (Gv 6,60-66).

Il v.22 si apre con un movimento di Pietro, che “prende con sé Gesù”. Il testo CEI traduce “Ma Pietro lo trasse in disparte”. In realtà il verbo greco proslabÒmenoj (proslabómenos), presenta in se stesso i caratteri di un vero e proprio assalto a Gesù, una sorta di tentativo di impossessarsi di lui per costringerlo a cambiare idea. Il verbo, infatti, è un composto dalla particella “proj”, che significa verso, contro; e il verbo lamb£nw (lambáno) che significa prendere, afferrare. Il verbo, pertanto, possiede in sé un senso di avversione e di ostilità. Esso, infatti, significa: cerco di attirare a me, di procacciarmi, di conquistare, di impadronirmi, di far conciliare. Il verbo, quindi, delinea fin dall'inizio l'atteggiamento ostile di Pietro, e con lui quello dei discepoli, nei confronti della rivelazione che Gesù fa a loro (v.21). Quanto segue conferma come all'interno del gruppo l'aria non è più tanto amichevole, ma sa di scontro e di resistenza. Prosegue, infatti, l'autore dicendo che “Pietro incominciò a rimproverarlo”. Va rilevato subito il movimento parallelo tra l' “incominciare a render noto” di Gesù e l' “incominciare a rimproverare” di Pietro. Il verbo usato da Matteo, “½rxato” (érxato), è identico sia per Gesù che per Pietro, creando in tal modo un parallelismo e un rapporto di contrapposizione e di ostilità tra i due. All'incominciare di Gesù si contrappone, dunque, quello di Pietro: l'uno rivela, l'altro rigetta. Il verbo incominciare, inoltre, dice l'inizio di un fare che non si esaurisce nel presente, ma continua nel tempo, dando l'idea di uno scontro destinato a perdurare. Non a caso il verbo érxato è stato posto in un aoristo di tipo incipiente, che esprime un'azione colta nel suo punto iniziale. Il rimprovero di Pietro, poi, è espresso in greco con il verbo ™pitim©n (epitimân), il cui significato è, si, rimproverare, ma anche “ingiungere, fare divieto, dare ordine di”, come anche “rincarare, alzare il prezzo”. C'è, dunque, tra i due una contrapposizione dura e decisa, che si esprime anche nel loro dire: quanto Pietro dice a Gesù, infatti, è l'esatto contrario a quanto Gesù ha detto di sé. Egli ha annunciato per se stesso persecuzione, passione e morte; Pietro, invece, gli augura ogni prosperità e bene, affermando categoricamente che quanto egli ha detto non avverrà mai.

Sembra, dunque, che i discepoli e Gesù siano arrivati qui ai ferri corti.

Perché tanta contrapposizione e tanta animosità tra Gesù e i suoi discepoli? Perché la partita che si sta giocando concerne il senso e il significato della stessa identità di Gesù e, di conseguenza, la messa in discussione della scelta che i discepoli hanno operato a favore del loro Maestro. In ultima analisi, la questione verte sul modo di intendere e di attuare il messianismo di Gesù e, pertanto, il ruolo che i discepoli devono giocare all'interno di tale messianismo.

Nella loro plurisecolare tradizione gli ebrei erano in attesa del messia79, dell'Unto di Jhwh, il cui compito era quello di riportare Israele agli antichi splendori dell'invincibile regno davidico. La figura del Messia, affondava le sue radici nella promessa che Dio fece al re Davide (2Sam 7,1-17) ed era strettamente legata alla regalità e al Regno80 . Nel corso dei secoli il messia assunse contorni sempre più storici, concreti e diversificati: era l'inviato di Jhwh che doveva cacciare i nemici oppressori e ricondurre Israele allo splendore e alla gloria del suo passato; doveva ristabilire l'equità e la giustizia in mezzo al popolo e in mezzo alle genti; era un sacerdote che doveva riformare il culto a Jhwh e ravvivare la fedeltà all'Alleanza; era un uomo chiamato a fondare in mezzo al popolo e alle genti il regno di Dio. Un personaggio, quindi, circonfuso di gloria e di potenza, illuminato e guidato da Dio stesso, per questo temuto e rispettato da tutti e a cui tutti dovevano sottomettersi. La sua venuta e la sua missione, pensate in termini squisitamente storici, erano concepite come una marcia trionfale sui nemici di Israele. La sua persona, quindi, era una sorta di manifestazione divina finalizzata a stabilire qui nella storia il regno di Dio, del quale Israele era la primizia. Queste erano le attese del popolo ebraico e queste erano le attese dei discepoli, che nella persona di Pietro avevano compreso come quell'uomo Gesù, il loro Rabbi, in realtà fosse il Messia atteso. Ma non ne avevano compreso il senso. E che così fosse ce ne danno testimonianza sia Mc 10,35-45 che Mt 20,20-28, che da Marco dipende: la madre dei due figli di Zebedèo, Giacomo e Giovanni, si era appressata a Gesù per chiedergli che, nel regno che egli stava per fondare, i suoi due figli avessero un posto di preminenza su tutti, tra l'indignazione e i rimbrotti degli altri discepoli, che si erano visti superati nei giochi di potere che si stavano giocando all'interno del gruppo. Così come si discuteva chi fosse il più grande tra di loro81. Del resto, difficilmente l'ebreo, per la concretezza del suo modo di pensare, concepiva realtà diverse da quelle storiche, per cui molto facilmente i discorsi e le parole di Gesù potevano essere fraintese e per questo Gesù impone il silenzio circa il suo stato di Messia (v.20).

In questo contesto storico-culturale è facilmente comprensibile lo choc che i discepoli dovevano aver provato nel sentirsi dire dal loro Messia, dal loro eroe, che egli sarebbe stato uno sconfitto e nel modo peggiore: crocifisso e, quindi, maledetto da Dio (Dt 21,23). Fine dei loro sogni di gloria! Avevano sbagliato tutto! Si erano illusi di poter coprirsi di gloria e di onore, seguendo quel uomo. Si sentivano in qualche modo imbrogliati da Gesù, verso cui dovevano provare un certo astio82. Questi dovevano essere i sentimenti che si agitavano in loro. Per questo Matteo rileva come da un lato “Gesù incominciò a rendere noto ai suoi discepoli”, mentre dall'altro, “Pietro incominciò a rimproverare Gesù, cercando di convertirlo a sé (proslabómenos), dissuadendolo dai suoi folli progetti (“Questo non ti accadrà”)”. La contrapposizione non poteva che essere dura, al limite della rottura. Ne andava della loro scelta di sequela e, quindi, ne andava delle loro vite e dei loro progetti.

Il v.23 contiene la drastica risposta di Gesù e si apre in modo molto significativo: “Ma egli, voltatosi, disse a Pietro”. Seguendo pedissequamente il racconto, sembra che qui Gesù stia camminando in avanti e Pietro, dietro di lui, gli sta parlando, per cui Gesù, sentendo le sollecitazioni di Pietro, si gira e lo richiama all'ordine. In realtà, la scena è ben diversa, come diverso è il significato e il senso del “voltarsi” di Gesù. Pietro, infatti, nel versetto precedente prende Gesù vicino a sé e, quasi in un tu per tu confidenziale, gli confida i suoi timori e gli fa i suoi auguri di un futuro migliore da quello da lui prospettato. La posizione fisica di Gesù, dunque, è faccia a faccia con Pietro, l'uno di fronte all'altro. Perché, allora, Gesù si volta? E verso chi si volta? Perché in effetti Matteo non dice verso chi si volta Gesù. Quale, dunque, il significato di quel “voltatosi” di Gesù? Il verbo greco è “strafeˆj” (strafeìs), che significa, sì, voltarsi, ma anche rivolgersi verso, nel senso di puntare verso un'altra direzione, rovesciare, capovolgere, volgersi indietro, allontanarsi da una certa posizione83. Quel voltarsi di Gesù, dunque, sottolinea la sua diversa e contrapposta posizione nei confronti di Pietro. Sono, in buona sostanza, due posizioni tra loro irriducibili e contrapposte che dicono tutta la distanza che intercorre tra Gesù e Pietro.

La risposta che Gesù dà a Pietro si articola in tre parti:

a) Va dietro di me, satana (“Upage Ñp…sw mou, Satan©, ípaghe opíso mu, Satanâ). La battuta, apparentemente semplice e di immediata comprensione, in realtà sottende un duplice messaggio. Vi è, innanzitutto, un forte richiamo al racconto delle tentazioni di Gesù (4,1-11), in cui l'uomo Gesù, scoprendosi Dio, è chiamato a spogliarsi della sua onnipotenza divina ed accettare di operare nelle fragili e limitate e limitanti vesti di un semplice uomo84. L'aggancio alle tentazioni è duplice: tematico e letterario; il primo è dato dalle sollecitazioni di Pietro ad abbracciare un messianismo trionfalistico, così come suggeriva Satana in quel racconto; il secondo è dato dall'espressione “ípaghe […], Satanâ ”, che si ripete identico in 4,10, a conclusione delle tentazioni subite. Vi è quindi una sorta di parallelismo tra il comportamento di Pietro e quello di Satana, suggerito anche dall'appellativo con cui viene apostrofato Pietro. Quel voltarsi di Gesù, inoltre, non sembra solo evidenziare la sua contrapposizione alle pretese di Pietro, ma pare anche un suggerimento, che Matteo dà alla sua comunità, quello di voltarsi indietro anche lei e di andarsi a rivedere proprio quel racconto delle tentazioni che egli, qui, palesemente richiama. All'origine del diniego di Gesù, quindi, c'è una scelta di fondo, che ha improntato non solo la sua missione, ma l'intera sua vita. Una scelta questa sulla quale a lungo hanno riflettuto le primissime comunità credenti, regalandoci, a conclusione, quello stupendo e teologicamente ricco inno cristologico, che Paolo ha riportato nella sua lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11).

Il secondo messaggio, che l'autore invia alla sua ostica comunità, è racchiuso in quel “Ñp…sw mou” a cui strettamente si collega il perentorio ““Upage”, da cui dipende. La CEI traduce l'espressione con “Lungi da me, Satana”; una traduzione che, a nostro avviso, forse non rende pienamente giustizia a ciò che l'autore intendeva dire. Innanzitutto il verbo ““Upage”, che letteralmente significa “andare sotto, sottomettersi, condurre sotto, mettere in potere di …, attirare a sé, trarre dalla propria parte, procedere”. L'imperativo, quindi, più che un ordine di allontanarsi è un comando a sottomettersi al disegno di Dio, come lui, il Cristo, si è sottomesso (v.21b); un ordine che nel successivo v.24 si tradurrà in una condizione di sequela. Similmente, l'ordine che Gesù impartisce a Satana nel racconto delle tentazioni (“Upage, Satan©), più che un “Vattene, Satana” dice meglio il comando di sottomettersi a Dio. È significativo, infatti, come proprio questa espressione sia posta dall'autore a conclusione delle tentazioni, il cui intento era quello di ribellarsi al progetto del Padre.

Quanto all'espressione “Ñp…sw mou” letteralmente significa “dietro di me”. Essa compare in tutta la Bibbia 29 volte e per circa una ventina di volte ha a che fare con il verbo seguire. Ed è probabile che qui l' “Ñp…sw mou” abbia il significato proprio della sequela e non del rifiuto. Tale espressione, infatti, comparirà identica al versetto immediatamente successivo (v.24), in cui Gesù detta le condizioni dell' “Ñp…sw mou”, cioè della sua sequela. L'espressione, dunque, assume un valore non di rifiuto nei confronti di Pietro, ma di un deciso invito a Pietro a sottomettersi al volere divino, riprendendo la sequela di Gesù, rivelatosi (deiknÚein, deikníein), ora, un messia sofferente, in netta rotta di collisione con quanto ritenevano, invece, i discepoli. Una contrapposizione che apparirà più evidente nella terza parte della risposta di Gesù, in cui si rimprovererà a Pietro di pensare come gli uomini e non come Dio.

Un ultimo appunto va posto sul titolo di “satana” affibbiato a Pietro. Il termine ha la sua radice nel verbo ebraico “śtn”, che significa avversare, accusare, andare contro. La comparsa di tale appellativo in questo contesto ha una duplice finalità: richiamare, assieme al verbo ““Upage”, sia il racconto delle tentazioni che la definizione dell'avverso comportamento di Pietro nei confronti di Gesù. Pietro è un satana, cioè un avversario, che intralcia il compiersi del disegno di Dio. Nessuna associazione, dunque, con il mondo demoniaco. E che così sia, verrà evidenziato nella seconda parte della risposta di Gesù, in cui, a nostro avviso, si preciserà il significato del termine “satana”.

b) Mi sei di scandalo. Se l'appellativo “satana” definisce Pietro come l'avversario, in quanto si pone contro le logiche di Dio, l'espressione “Mi sei di scandalo” allude in qualche modo all'attivarsi concreto di Pietro affinché tale progetto non si compia. Del resto, nel suo reagire alla rivelazione di un messianismo sofferente (v.21), Pietro è stato categorico nei confronti di Gesù: “Questo non ti accadrà”. Una frase, che non è soltanto bene augurante, ma sembra racchiudere un programma (verbo al futuro) finalizzato ad impedire una simile follia; un programma, che all'occorrenza, è anche capace di armarsi e di colpire gli avversari con la spada85. Nella sua accezione originaria lo scandalo parla di ostacolo, di insidia, che tende a fuorviare e ad impedire il realizzarsi di un progetto o di un intento. Così, paradossalmente, Pietro, la roccia sicura su cui Gesù progettava di costruire la sua chiesa (v.18), diventa una pietra d'inciampo per il suo tesso Maestro, un ostacolo al realizzarsi del disegno salvifico del Padre.

c) Perché non pensi le cose di Dio, ma quelle degli uomini. Quel “perché”, con cui si conclude la dura presa di posizione di Gesù nei confronti di Pietro, porta allo scoperto la vera motivazione che sottende la definizione che Gesù dà di Pietro: satana e inciampo, avversario di Dio e intralcio, che si frappone insidioso sul cammino del compimento di un progetto di salvezza, agganciato alla sofferenza e alla morte, e tende a farlo fallire.

Tre sono gli elementi che caratterizzano questa motivazione: Dio, gli uomini e il pensare. Dio e gli uomini, il Creatore e la creatura, la santità e il peccato, la trascendenza sublime e il fango, la polvere (Gen 2,7; 3,19), sono i due estremi che dicono l'enorme scarto che separa i due. Ma dicono anche il grande cammino di conversione a cui l'uomo è chiamato, perché lo scarto si riduca e l'uomo si avvicini sempre più a Dio. Isaia ricorda come il modo di pensare di Dio si discosta enormemente da quello degli uomini: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9). Per questo, di rincalzo, gli fa eco il Levitico: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2b). Un invito a farsi santi, cioè ad entrare nelle logiche di Dio e a configurare il proprio vivere alle sue esigenze, che traccia nella vita dell'uomo una continua chiamata alla conversione per passare dalle logiche umane a quelle divine.

Tra i due estremi si pone il pensare, un'attività spirituale propria ed esclusiva dell'uomo, che lo caratterizza nel suo essere tale e lo distingue nettamente da ogni altro essere vivente. Un'attività che lo permea interamente e si insinua nella profondità del suo essere e della sua coscienza. Il pensare, dunque, alle cose dell'uomo piuttosto che a quelle di Dio dice l'orientamento esistenziale dell'uomo, che lo contrappone a Dio, precludendogli ogni possibilità di accesso al suo mondo e alla comprensione delle realtà divine e lo rende cieco. La cecità di Pietro, dunque, è profonda perché Pietro ancora non ha operato un passaggio da se stesso a Dio. E sarà proprio il richiamo che Gesù rivolgerà ai suoi discepoli: non ci si può accostare al mistero di Dio, nascosto nel suo Cristo, se non si opera una radicale conversione tale da allineare il discepolo alle logiche di Dio.

Quest'ultima parte della risposta che Gesù da a Pietro, costituisce in un certo senso il preambolo, la premessa al v.24 e seguenti.


Il v.24 è la conclusione di un triplice passaggio, che porta a riconfigurare l'immagine del discepolo: nel v.21 Gesù si rivela un messia sofferente; v.22, rifiuto di Pietro; v.24, reimpostazione delle condizioni del discepolato. Il v.21, infatti, ha impresso una svolta decisiva alla missione di Gesù, che lo porterà al Golgota (“Da allora Gesù incominciò ...”). La sequela, quindi, non può più essere quella di prima, ma il disvelamento della croce impressa sul Messia atteso, apertamente riconosciuto e confessato tale (v.16), comporta una radicale modificazione della sequela stessa. Seguire significa innanzitutto accettare, accogliere, introiettare, fare proprio lo stile di vita di Gesù sofferente e crocifisso, metabolizzandolo nella propria vita e fare sì che lo stile di questo messia sofferente divenga per il discepolo la sua nuova forma mentis. Paolo sottolineerà proprio questo passaggio nella sua lettera ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Per Paolo, dunque, la vita del vero discepolo è un con-vivere, un con-soffrire e un con-morire con Cristo, che qui egli coglie come colui che ha fatto un dono pieno e totale di sé per ogni singolo uomo. La metabolizzazione di questo Cristo nella vita di Paolo fa si che non sia più Paolo a vivere, ma Cristo stesso vive ed opera in lui. Vi è, dunque, una vera e propria cristificazione, che dà l'autenticazione al vero discepolato. Seguire, dunque, significa lasciarsi cristificare.

È significativo, infatti, come, a differenza del Gesù marciano, che convoca attorno a sé folla e discepoli (Mc 8,34), quello matteano si rivolge soltanto ai discepoli, cioè a coloro che hanno già operato una scelta di vita. È evidente che qui Matteo sta parlando alla sua comunità, che tanti problemi ha nell'accettare non solo la divinità dell'uomo Gesù, ma anche un messianismo improntato alla sofferenza, alla morte, alla sconfitta. Non è questa, infatti, l'idea del messia atteso, che i padri hanno loro trasmesso. Ma è proprio perché il discorso del Gesù matteano è rivolto ai discepoli e soltanto a loro, che si chiede un radicale cambiamento nel proprio modo di pensare e di seguire Gesù; e nuove regole, nuove condizioni vengono dettate circa la sequela o discepolato.

Il discorso di Gesù, rivolto ai soli discepoli, inizia con un'espressione al condizionale, la quale fa si che quanto segue assuma i toni di un discorso programmatico: “Se uno vuole venire dietro di me”; una frase che costituisce il titolo del discorso stesso e che si potrebbe tradurre liberamente con “Le condizioni della sequela”. Matteo, quindi, pone dei paletti alla sua turbolenta comunità, in cui si agitavano, come abbiamo visto sopra, dei dissidenti, che turbavano la fragile fede nascente.

Nel v.23 Gesù si era rivolto a Pietro accusandolo di pensare alle cose degli uomini e non a quelle di Dio. Ora si pone la questione: come passare dal modo di pensare degli uomini a quello di Dio? Il v.24 costituisce la risposta all'interrogativo e detta le nuove regole della sequela, affinché il discepolo nel suo modo di pensare, di vedere le cose e di approcciarsi ad esse lo faccia sempre dalla prospettiva di Dio e guardando alle sue esigenze e ai suoi interessi. Insomma deve crearsi una nuova forma mentis, prendere coscienza, per dirla con Paolo, che egli è diventato una nuova creatura in Cristo (2Cor 5,17; Gal 6,15) e che in novità di vita lo deve accogliere e fare proprio (1Cor 5,7). Soltanto questa trasformazione interiore può consentire di pensare alle cose di Dio e non a quelle degli uomini.

Il v.24 è scandito in cinque parti:

 a) L'indirizzo: Gesù si rivolge ai discepoli, a persone, quindi, che già hanno operato la scelta della sequela, ma che abbisognano di riconfigurarla secondo nuovi parametri, emergenti dopo la svolta del v.21 .

b) Il titolo: “Se qualcuno vuole venire dietro a me (opíso mu)”, costituisce il tema del discorso e ne contiene già qui, in nuce, il senso. Quel “Ñp…sw mou” (opíso mu), infatti, non dice soltanto una andare dietro a Gesù, ma anche un sottomettersi a lui, una sottomissione che non è schiavitù, ma parla principalmente di conformazione al Gesù sofferente;

c) La prima regola: rinnegare se stessi. Non si tratta qui di rifiutare se stessi, il proprio modo di essere, la quale cosa porterebbe ad inevitabili conflitti di ordine psicologico ed esistenziale, che avrebbero delle nefaste conseguenze su se stessi e sugli altri. Dio ha bisogno di uomini nella pienezza della loro maturità umana. Qui si tratta di riconfigurare il proprio modo di essere in funzione di una nuova rivelazione, avvenuta nel v.21: “Da allora Gesù incominciò a render noto ...”, una riconfigurazione che ne costituisce la risposta. Rinnegare significa, in primis, riconoscere la distanza che separa l'uomo da Dio e la necessità di percorrere un cammino di conversione verso di Lui, perché il pensare di Dio, il suo mondo, le sue realtà diventino anche le nostre. Un rinnegare se stessi che dice un decentrare il proprio IO per dare spazio e centralità alla Parola, quale elemento fondamentale su cui riparametrare il proprio vivere. Ma nel contesto storico in cui veniva a trovarsi la comunità matteana significava anche una forte e sferzante esortazione all'abnegazione di se stessi, alla rinuncia di compromessi, che portavano fatalmente a scontri sociali e religiosi, a ghettizzazioni, persecuzioni, incarcerazioni e alla lacerazione degli stessi nuclei familiari. In tale contesto rinnegare se stessi significava mettere da parte se stessi, le proprie giuste esigenze di sicurezza e tranquillità per dare spazio alle esigenze di Dio, che richiedevano, talvolta, una testimonianza cruenta.

d) La seconda regola: prendere la propria croce86. È il cuore della riconfigurazione del nuovo discepolato, in cui si riflette, trova spazio e riecheggia il cammino verso Gerusalemme del proprio Maestro. L'invito, si noti, non è di prendere la croce di Gesù, conformandosi alle sue sofferenze e fare del suo soffrire il senso del nostro vivere, ma quella propria del discepolo (aÙtoà, autû, sua); quella croce che doveva nascere non tanto dalla difficoltà del vivere quotidiano, proprio di tutti gli uomini, ma dal suo essere con Gesù, dal crederlo, al di là di ogni convincimento personale, Figlio di Dio e vero Dio, testimoniarlo messia crocifisso. Non pensiamo che ciò fosse stato semplice per l'ebreo di quei tempi, poiché credere in queste cose significava credere in autentiche bestemmie, abbandonare la Tradizione degli Antichi, farsi dei nemici, crearsi ostilità e non pochi conflitti all'interno della propria famiglia, rischiando di essere denunciati dai propri stessi familiari o sedicenti amici; significava essere espulsi dalla sinagoga e messi al bando (Gv 9,22; 12,42), le quali cose equivalevano ad una morte civile e religiosa. Il clima di ostilità e di persecuzione in cui viveva la comunità matteana ci è testimoniato dai vv. 5,10-12; 10,16-23; 23,34. Questa è la croce a cui il vero discepolo è chiamato: non un cammino trionfale verso il potere e verso la realizzazione di un glorioso regno d'Israele, ma un cammino fondato sulla quotidianità di una testimonianza sofferente, che non di rado finiva con la morte. Proprio in questo contesto di persecuzioni il Gesù matteano ricorderà ai propri discepoli che “Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone” (10,24), mentre il Gesù giovanneo nel medesimo contesto affermerà “[...] Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20b). Espressione significativa questa perché sottolinea la coincidente corrispondenza tra maestro e discepolo, un discepolo in cui risuona il vivere sofferente del proprio maestro e che proprio da questo soffrire viene qualificato e garantita l'autenticità della sua sequela.

e) L'ammissione alla sequela: “mi segua”. Il discorso di Gesù iniziava con il condizionale “Se uno vuole venir dietro a me” e termina con l'esortazione “mi segua”. Di mezzo ci sta tutto quel dinamismo che deve portare il discepolo, che vuole diventare autentico discepolo, a rinnegare se stesso e ad abbracciare la croce. Un cammino di purificazione interiore da tutte quelle attese ed aspirazioni personali che accompagnano nella vita ogni uomo, ma che ostacolano le esigenze di Dio, perché il pensare degli uomini non è quello proprio di Dio. La necessità di questa catarsi interiore, di questo ricostruire la nostra mente, riparametrandola e riconformandola a quella di Cristo appare immediatamente evidente dal tipo di sequela che è esigita da Gesù: “¢kolouqe…tw moi” (akolutzeíto moi). Il verbo greco dice molto di più di un semplice seguire. Esso significa tener dietro, andare insieme, aderire, lasciarsi guidare, imitare e contiene implicitamente in se stesso il concetto del servire, del dedicarsi. Non a caso, infatti, il participio presente di questo verbo significa servo, schiavo. Posta in questo contesto, la sequela esigita da Gesù non è una semplice scampagnata tra amiconi, ma una dedizione esistenziale totale e totalizzante, che dice dono di sé, anche estremo. Tutti i verbi del v.24 sono posti al presente indicativo, per indicare l'attualità di una tale sequela esigente, che interpella, hinc et nunc, ogni discepolo, il quale deve dare, ora, la sua risposta esistenziale perché il suo discepolato sia insignito dall'autenticità.


I vv.25-27 sono, assieme al precedente e al v.28, una raccolta di detti dal sapore sapienziale, che Matteo inserisce in questo contesto per spingere la sua comunità a riflettere attentamente sull'impegno che deve porre nel suo testimoniare con fermezza e perseveranza quel mal sopportato Gesù, Figlio di Dio e Messia sofferente. I tre versetti in esame costituiscono lo sviluppo del v.24 e di questo, in particolare, l'esortazione a rinnegare se stessi. I tre versetti sono un approfondimento che si muove su tre livelli, posti all'interno di una cornice squisitamente escatologica, sul cui sfondo compare in modo invasivo il giudizio finale.

Il primo livello (v.25), letterariamente, è costruito da due frasi a specchio, secondo lo schema: salvare-perdere / perdere-trovare (sinonimo di salvare, seppur con qualche sfumatura); al centro dello schema ci sta il tema della vita, attorno alla quale si sviluppano i giochi, sottesi da opposte motivazioni, una, la più importante, esplicita (a causa mia), e l'altra o le altre non citate. Si vengono in tal modo a delineare due vie: quella del bene, del servire il Signore o della vita; e quella del male, dell'allontanarsi da Dio o della morte. Un tema quello delle due vie già conosciuto nell'A.T.87, poi ripreso anche dalle prime comunità credenti88.

Le due frasi a specchio, proprio perché tali, sono per definizione tra loro contrapposte, pur avendo in comune l'identico tema: come giocare la propria vita perché essa non si perda. È evidente che proprio per la loro naturale contrapposizione i giochi che si compiono in ciascuna di esse avranno esiti esattamente opposti. Ciò che determina e guida i giochi è la motivazione, una, come si è poc'anzi detto, nota; le altre non sono citate o meglio sono soltanto ignorate. L'anonimato delle diverse motivazioni ignorate è finalizzato da un lato a ricomprendere tutte le motivazioni possibili e immaginabili; dall'altro, implicitamente, esalta ed assolutizza l'unica motivazione nota, che non teme confronti: a causa di me (›neken ™moà, éneken emû). Come dire che il vivere in funzione di Gesù, a qualsiasi prezzo, è di gran lunga superiore a tutto il resto. Ed è proprio questo che fa del credente un autentico discepolo. L'espressione “›neken ™moà” ricorre otto volte e soltanto nei Sinottici, di cui quattro solo in Matteo89, che la usa sempre in un contesto di sofferenza e di persecuzione.

Nella prima frase (v.25a) Matteo racchiude quei credenti della sua comunità che di fronte alle difficoltà della testimonianza a favore di Cristo la disertano per salvare la propria vita. Ebbene, la conclusione per questi sarà la perdizione. Si notino i tempi dei due verbi di questa prima espressione: il primo (chi vuole salvare) è posto al presente indicativo ed è un chiaro riferimento ad una situazione che si stava agitando nella sua comunità in quel momento; il secondo è al futuro (la perderà), che apre al giudizio in un contesto escatologico. La salvezza che si cerca qui nel presente, dunque, è in realtà una perdita secca, perché su tale specie di salvezza è già stato posto il giudizio di condanna: la perderà. La perdizione viene accentuata dall'imminenza del ritorno del Signore e del suo giudizio, che verrà annunciato al v.27.

La seconda frase speculare (v.25b), diametralmente all'opposto, rispecchia la situazione di un'apparente perdita della propria vita causata dalla testimonianza spesa a favore di Cristo, ma in realtà ciò che si è perduto qui verrà ritrovato. Si noti come qui entrambi i verbi sono al futuro. Il primo futuro ha un valore durativo, che richiama la persistenza di una testimonianza data ad oltranza. Come dire che l'atteggiamento del distacco e del rinnegamento, perché produca i frutti di un ritrovamento, dovrà essere persistente, fino alla fine. Già l'autore lo aveva ricordato in 10,22: “E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato”. - Il secondo futuro, invece, ci riconduce nel contesto escatologico del giudizio finale, reso imminente sempre dal v.27, che vede il figlio dell'uomo che sta per ritornare per dare a ciascuno il suo.

Il secondo livello (v.26) riprende il v.25 svolgendo il tema della perdita e della salvezza in termini di interessi (giovamento), di guadagno, di danno e di riscatto. Se il v.25, infatti, annunciava un principio senza alcun riferimento a situazioni concrete e specifiche, il v.26 si incarica di applicare la teoria alla pratica e colloca il discepolo nel suo concreto vivere nel mondo in cui ha i suoi interessi, che tutela e cerca di affermare sempre più, ampliandoli e spingendoli alla conquista di spazi sempre più ampi. Ma questo suo eccessivo impegno storico, finalizzato a procurarsi solo beni materiali, in cui riporre le proprie sicurezze, alla fine lo perderà90. E a questo punto con quale bene materiale potrà comprare la vita eterna? Il Gesù lucano ricorderà proprio questo passaggio con la sua parabola del ricco stolto, che aveva riposto la sua sicurezza e la sua salvezza nei soli beni materiali, per i quali ha dedicato tutta la sua vita: “<<[...] Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio>>” (Lc 12,19-21). Anche in questo versetto i verbi sono posti al futuro, che forma una cornice escatologica. La forte insistenza sull'escatologico e del giudizio che in essa incombe crea una forte tensione tra il presente e il futuro e si trasforma in un pressante richiamo a far filtrare nel presente quel futuro che li attende, ma che in qualche modo è già qui presente fin d'ora e condiziona il vivere dei veri credenti.

Il terzo livello (v.27) costituisce la fase conclusiva di questo continuo crescendo di forte tensione escatologica e di giudizio incombente, che si sono venuti a creare nei due versetti precedenti, introducendo il lettore in un grandioso e terrificante scenario dalle forti tinte apocalittiche ed escatologiche. Ecco l'apparire di un Gesù, insignito del titolo messianico di “figlio dell'uomo”, che richiama da vicino la grandiosa e molto simile visione di Daniele91; è avvolto nella gloria del Padre, da questa compenetrato e incandescente (™n tÍ dÒxV toà patrÕj, en tê dóxe tû patròs), accompagnato dalle schiere dei suoi angeli. È la descrizione della fastosità della corte regale di un grande e potente re, che appare nello splendore della sua invincibile e intramontabile onnipotenza. In questa cornice di sublimità maestosa e di maestà sublime è inserita la scena del giudizio finale, la cui travolgente drammaticità, che incute terrore, è assicurata dalla cornice stessa in cui è inserito. Un giudizio che si muove ancora su logiche retributive, che caratterizza la religione ebraica; le più eque secondo la nostra mentalità, che considera la giustizia come un dare a ciascuno il suo. Ma se queste si muovono all'interno del rapporto tra Dio e l'uomo sono anche le più devastanti e le più distruttive per l'uomo stesso. Di questo si è accorto lo stesso salmista, che rivolto a Jhwh lo supplica: “Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere?” (Sal 129,3). Ma è proprio ciò che Matteo vuol far vedere ai coriacei della sua comunità, che non ne vogliono sapere di riconoscere nell'uomo Gesù il Messia sofferente e la divinità stessa del Figlio di Dio, creando resistenze e scompiglio al suo interno. Un giudizio che sta per esplodere sulle loro teste e la cui imminenza è assicurata da quel “mšllei” (méllei), che dice come il tempo ormai è lì lì per scadere.

Il v.28, nel chiudere il cap.16, si propone un duplice obiettivo: da un lato completare la visione apocalittico-escatologica del v.27; dall'altro lanciare una sorta di ultimatum ai duri della comunità matteana.

Quanto al primo obiettivo, si è visto come al v.27 l'autore abbia presentato l'imminente compiersi dei tempi, squarciati dal glorioso e travolgente imporsi del giudizio divino. La visione, tuttavia, secondo le logiche dell'apocalittica, non è ancora completa, poiché Dio, dopo aver vinto e giustiziato i suoi nemici, deve instaurare il suo regno glorioso ed eterno, in cui entreranno i giusti, coloro che gli sono stati fedeli nella prova92. Di questo secondo aspetto si occuperà il v.28, che completerà in tal modo il quadro apocalittico-escatologico del precedente versetto.

Il v.28 si apre con l'espressione ebraica “Amen”, che letteralmente significa “è certamente così”, e imprime il senso della veridicità, della certezza e della sicurezza a quanto segue, incastonandolo in una cornice solenne. Si è, dunque, di fronte ad una sorta di proclama divino. Ed ecco apparire nuovamente il figlio dell'uomo, che nel v.27 era presentato come colui che sta per venire, mentre qui si manifesta come colui che viene (™rcÒmenon, ercómenon). Si passa, quindi, dall'imminenza dell'accadere all'accadere stesso e il cui evento principe è l'instaurazione del Regno, al cui interno è già presente e in esso agisce il figlio dell'uomo, definito come il “veniente” per eccellenza, cioè come colui che continuamente viene, garantendo, quindi, la sua eterna presenza, che risuonerà proprio nella solenne chiusura del vangelo matteano: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b). È significativo, infatti, vedere come, qui, al verbo di moto a luogo “ercómenon” (colui che viene o il veniente) corrisponde una particella che dice invece stato in luogo “in” (™n): “™n tÍ basile…v” (en tê basileía). Questo particolare rileva come il Regno messianico ed escatologico è già in atto e che il messia o il veniente93 sia una realtà già presente e in esso operante.

Il secondo obiettivo che si pone questo versetto è accentuare, se non esasperare, l'imminente compiersi sia del giudizio divino, legato dal ritorno del Messia veniente, sia l'instaurarsi del Regno, che Matteo qui legge come già in atto. Questo lo fa rilevando come alcuni di quelli che sono lì presenti non moriranno prima che tutto ciò si compia. I tempi, quindi, sono estremamente ridotti. L'ala dura e irriducibile della sua comunità è, dunque, avvertita: questi non hanno più scampo perché stanno per essere travolti dal giudizio divino e spazzati fuori dal Regno in cui egli, il Messia veniente è già presente ed operante.

                                                                                                                                                                                                                                                                    Giovanni Lonardi


N O T E


1Circa la struttura del Vangelo di Matteo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, alla voce “Data di composizione”- Pag. 14.

2Cfr. Mt 27,39-44; Mc 15,29-32; Lc 22,41-44; 23,35-37

3Cfr. Mt 5,20; 16,6; 21,12-13; 23; Mc 12,38-40; Lc 11,37-48; 16,18

4Cfr. Mt 9,11.14; 12,1-8.10-13; Mc 2,16.18.23-27; 7,5; 10,2-8; Lc 5,20-21; 6,6-10; 14,1-6; 15,2.

5Cfr. Mt 12,1-5.10-13; Mc 2,23-28; 3,1-5; Lc 6,1-5.6-10; 13,10-16; 14,1-6; Gv 5,5-11.16.18a; 7,22-23; 9,13-14.16a. -

6Cfr. Mt 15,1-2.3-11; Mc 7,2-23.-

7Cfr. Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33.-

8Cfr. Gv 5,18b; 8,42; 10,30; 14,8-11; 16,28

9Cfr. Mc 3,21.31; Lc 2,48-51; Gv 7,5.-

10Cfr. Mt 9,34; 12,24; Mc 3,22; Lc 11,15; Gv 7,20; 8,48.52; 10,20

11Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico; R. Fabris, Matteo – opp. citt.

12Cfr. Mt 7,29; Mc 1,22.27; Lc 4,32.36

13Il testo greco delle Tentazioni dice: “Kaˆ proselqën Ð peir£zwn e�ipen aÙtù” (Kai proseltzòn o peirazon eìpen auto); il testo in esame similmente dice: “Kaˆ proselqÒntej oƒ Farisa‹oi kaˆ Saddouka‹oi peir£zontej ™phrèthsan aÙtÕn” (Kai proseltzontes oi Farisaioi kai Saddukaioi peirazontes eperotesan auton).

14Il v.4 ripete in modo identico 12,38. Per il suo commento, dunque, rimando all'analisi e al commento di 12,38.

15L'aoristo in greco corrisponde al nostro passato remoto e indica un'azione che si è definitivamente compiuta nel passato e lì vi rimane come azione puntuale nel tempo.

16Si è ipotizzato anche che la sentenza di Gesù sul lievito sia nata dall'assonanza dei termini aramaici “hamîrâh” (lievito) e “ 'amîrah” (dottrina, insegnamento). Cfr. nota 3 di pag. 365 in R. Fabris, Matteo, op. cit.

17Il lievito altro non era che della vecchia pasta fermentata, che inserita in quella nuova la faceva fermentare a sua volta, alterandone la struttura originaria. Esso, sia presso il giudaismo che presso le prime comunità cristiane, fu sempre considerato negativamente, come metafora della corruzione morale e spirituale. Per una più completa trattazione cfr. la nota n.69 del commento al cap.13 della presente opera.

18Che cosa succederebbe, ad esempio, ad un teologo o ad un esegeta cattolico se nella sua ricerca arrivasse a concludere che quelle parole (16,18-19) non furono mai dette da Gesù, ma furono soltanto una semplice interpolazione, finalizzata a rispondere a determinate pretese di alcuni gruppi di cristiani, e pertanto le dichiarasse inconsistenti alla fine della fondazione del papato? O cosa succederebbe ad un pastore se, viceversa, dichiarasse il contrario? Se è vero che la verità rende liberi (Gv 8,32b), altrettanto vero è che per raggiungerla si deve essere, per quanto possibile, interiormente liberi e mossi unicamente dal suo amore, porsi al suo servizio.

19La città greca di Cesarea di Filippo sorgeva nei pressi della sorgente di Nahr Banyas, una delle tre sorgenti del fiume Giordano. In epoca ellenistica la grotta, da cui scaturiva il fiume, era sacra a Pan, il dio greco delle sorgenti. Nel 20 a.C. Erode il Grande vi costruì un tempio di marmo in onore all'imperatore Augusto, nelle vicinanze dell'altare di Pan. Nel 3-2 a.C. il tetrarca Filippo, uno dei figli di Erode il Grande, la ricostruì e la costituì capitale del suo tetrarcato, chiamandola Cesarea, in onore di Augusto. Giuseppe Flavio e il N.T., per distinguerla da Cesarea Marittima, sede dei procuratori romani in Giudea dal 6 d.C., la chiamarono “Cesarea di Filippo”.

20L'espressione “figlio dell'uomo” ricorre in tutta la Bibbia circa 186 volte, di cui 101 volte nell'A.T. e di queste ben 94 solo nel Libro di Ezechiele. Quanto al N.T. essa si ripete 85 volte. In tutti i casi tale espressione si presenta come una circonlocuzione per indicare l'uomo nella sua caducità carnale ed esprime, in particolar modo in Ezechiele, la grande distanza che separa il profeta da Dio. Sarà soltanto con Daniele che questa figura assumerà dei contorni misteriosi e dei tratti divini, che la collocano in un contesto escatologico: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14). Nel N.T. essa viene riferita esclusivamente a Gesù e porta sempre con sé la carica escatologica e divina che ha ereditato dal “figlio dell'uomo” di Daniele.
21Poco si conosce su questo profeta, il cui testo viene fatto risalire tra il 480 e il 450 a.C. - Il suo stesso nome, che significa il “mio messaggero” (mal' aki), è molto incerto e sembra essere stato dedotto da Ml 3,1a in cui si dice: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me”. Egli fa parte dei profeti minori e di lui ci è rimasto un piccolo scritto di soli tre capitoletti per complessivi 55 versetti.


22Cfr. Mt 17,10-11; Mc 9,11

23Cfr. Mt 11,14; 17,12; Mc 9,13; Lc 1,17

24Cfr. Mt 14,5; 21,11.45; Lc 7,16; 9,19; 24,19; Gv 4,19; 6,14; 7,40; 9,17.

25La comunità di Qumran sorta all'incirca intorno al 150 a.C. scomparve, senza lasciare traccia, nel 70 d.C. Durante la guerra giudaica (66-70 d.C.)

26A titolo esemplificativo si cfr. Rm 13,11-14; 1Ts 4,13-5,1-6; 2Ts 2,1-12; 1Cor 7,29-31; 15,23-28; Ef 1,10.22; 6,10-18; Eb 10,34-37; Gc 5,7-9; 1Pt 4,1.13.17; 2Pt 3,3-18; Ap 1-22 e in particolare Ap 22,20

27 Contemporaneo di Sofonia, Abacuc, Nahum ed Ezechiele, Geremia nacque nel 650 a.C. ad Anatot, un villaggio levitico situato a circa 6 Km nord-nord-est di Gerusalemme. Appartenente alla tribù di Beniamino, fu figlio di Chelkia, sacerdote ad Anatot e, probabilmente, discendente di Abiatar, sacerdote esiliato ad Anatot da Salomone per aver sostenuto il suo rivale Adonia nella corsa al trono. Geremia fu chiamato da Dio ancora "giovane", nell'anno XIII di Giosia, cioè nel 627. Il termine "giovane" (ebr. na'ar) ha fatto discutere molto gli esegeti, che hanno individuato l'età tra i 17/18 anni fino ai 30 anni. E' molto più ragionevole se si pone l'età della chiamata intorno ai 20/25 anni. L'epoca in cui Geremia esercita la sua missione può idealmente essere suddivisa in quattro momenti storici di cui tre coincidenti con altrettanti regni di Giosia (640-609 a.C.), Ioiakim (609-598 a.C.) e Sedecia (598-587 a.C.); il quarto momento da dopo la caduta di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor (587-582 a.C.). Nel 582, anno in cui Ismaele assassina Godolia, successore di Sedecia, Geremia è costretto a fuggire in Egitto, dove si perdono le tracce e dove, probabilmente, muore.

Nelle sue confessioni (Ger. 11,18-12,6; 15,10-21; 17,12-18; 18,18-23; 20,7-13) Geremia esprime tutto il suo dramma e il peso del suo essere profeta. Egli è stato investito di una missione: essere la parola di Dio, essere la sua bocca in mezzo al popolo. Geremia è un uomo sensibile, introverso, pacifico e amante della vita semplice, ma la parola che deve annunciare è irruente, bizzarra, violenta e lo scuote in tutto il suo essere; una parola che gli provoca nemici, persecuzioni e lo rende solitario, perché tutti gli sono contro. Significativa è la sua quinta confessione (20,7-13), che rivela tutto il suo dramma interiore: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me. Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: "Violenza! Oppressione!". Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!". Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo. Sentivo le insinuazioni di molti: "Terrore all'intorno! Denunciatelo e lo denunceremo". Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: "Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta". Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile. Signore degli eserciti, che provi il giusto e scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di essi; poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori”.

Geremia è il propugnatore di una nuova religione basata sul sull'autenticità del rapporto con Dio; un rapporto che si fa più spontaneo e sincero; un rapporto che parte dalla vita e dalla storia, di cui egli fa una lettura teologica. E' una religione che si interiorizza sempre più, in cui la preghiera si fa più autentica e nasce dalla vita coinvolgendola.; una religione priva di formalità e che diventa comunione di cuori tra Dio e l'uomo, e che consente di scoprire il senso della vita e della storia. Infatti, la maggior parte degli oracoli di Geremia sono una sistematica lettura della storia in cui agisce la salvezza offerta da Dio, ma da cui emerge, anche, violento il rifiuto dell'uomo.

28L'espressione “figlio di Dio” non è nuova per il mondo veterotestamentario e in particolare quello ebraico. Nell'Antico Oriente i nomi teoforici erano piuttosto frequenti, come Ben-Hadad (figlio di Hadad, dio della tempesta e del tuono) o Abibaal (Baal è mio padre). Questi nomi e simili esprimevano la fiducia nella divinità e ponevano sotto la sua protezione chi lo portava. Figlio di Dio era considerato anche il re, che presso gli egizi era pensato figlio in senso fisico, mentre presso Sumeri e Babilonesi era pensato nei termini di una figliolanza adottiva e similmente lo era presso Israele (Sal 2,6-9). Presso il mondo ebraico l'espressione “Figlio di Dio” assume significati diversi. Al plurale (Figli di Dio) si riferisce al mondo celeste, che fa parte della corte di Jhwh e lo serve (Sal 28,1; Gb 1,6; 2,1;38,7). Di questo gruppo fanno parte anche i figli di Dio (angeli o esseri celesti) che si ribellarono a Dio e che, dimenticando la loro origine celeste, si unirono alle figlie degli uomini (Gen 6,1-4). Figlio di Dio è considerato anche il giusto, fedele a Dio e attento agli orfani e alle vedove (Sir 4,10; Sap 2,18; 5,1-5). Lo stesso Israele era considerato come figlio primogenito di Dio (Es 4,22; Sap 18,13), mentre gli israeliti sono chiamati figli di Dio (Sap 12,7; Os 2,1). Non è, dunque, una novità per l'israelita l'espressione “figlio di Dio”, ma tale termine era inteso sempre in senso metaforico e mai, in nessun caso, in senso reale. Il significato cambierà radicalmente nel N.T. in cui tale titolo verrà attribuito a Gesù in senso proprio e autentico, indicando in lui una vera e propria filiazione divina diretta e unica, quale generato direttamente da Dio stesso e in quanto tale Dio lui stesso. Anche i credenti in Cristo sono considerati figli di Dio, ma in termini di sola partecipazione della vera filiazione di Gesù. Quindi, figli nel Figlio. - Cfr. la voce “Figlio/Figli di Dio” in M. M.Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici; e la voce “Figlio di Dio” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere - opp. citt. -

29Il termine ebraico dabar significa parola, ma non nel senso di semplice flatus vocis o di suono, ma come una parola che è anche azione, in cui il parlare e l'agire coincidono. In tal senso si pensi alla creazione genesiaca, in cui il mondo fu generato dalla Parola di Dio: “E Dio disse” e fu. Il Dabar, quindi, designa un evento che si compie per mezzo della Parola e nella stessa Parola, una Parola che si fa evento. Per questo Gesù può essere definito e ritenuto come l'agire stesso del Padre (Gv 14,10), lo spazio storico in cui il Padre incontra gli uomini e li invita a rientrare in seno a quel Dio da cui sono usciti.

30Mt 16,16; 26,63; Mc 1,1; 14,61; Gv 11,27; 20,31; Rm 1,4; 2Cor 1,19;

31Si pensi alla seconda grande guerra giudaica (132-135), orientata in senso messianico, contro i romani e capeggiata da Shimon bar Kossiba, che Rabbi Aqiba, una delle più quotate guide spirituali del tempo, lo definì Bar Kokhba (figlio della stella) e in cui riconobbe esplicitamente l'atteso messia. Una guerra che costò circa 850.000 morti, la distruzione di Gerusalemme, ricostruita con il nome pagano di Aelia Capitolina, e il divieto di accedervi da parte dei giudei.

32Il corpus paulinum è composto di 14 lettere, ma soltanto sette sono considerate autentiche dagli esegeti: Prima ai Tessalonicesi, Prima e Seconda ai Corinti, Galati, Romani, Filippesi e Filemone. Tutte lettere scritte da Paolo tra il 50/51 e il 58 d.C. La più antica è la la Prima Lettera ai Tessalonicesi, considerata anche il più antico testo cristiano ad oggi conosciuto.

33Si pensi al concilio di Nicea (325 d.C.) in cui si dichiarò la consustanzialità del Figlio al Padre; si pensi ai concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451) in cui si dichiarò la doppia natura, umano-divina, di Gesù. Concili, le cui tematiche sulla natura divina e umana di Gesù ,vennero riprese da successivi concili (Costantinopoli II del 553; Costantinopoli III del 680-681). E' sufficiente questa breve annotazione per comprendere le notevoli difficoltà che il mondo non solo giudaico, ma anche quello ellenistico hanno trovato nell'accettare Gesù come vero uomo e vero Dio e, di conseguenza, la sua reale e diretta figliolanza divina.

34Cfr. Dt 33,29; Sal 1,1-3; 33,9; 39,5; 64,5; 83,13; 93,12; 105,3; 111,1; 118,1-2; Prv 3,13; Sir 14,20; Is 30,18; 56,2; Tb13,15; Bar 4,4.

35Cfr. Lc 22,32; Gv 21,21,15-17

36L'espressione “S…mwn Bariwn©” (Símon Barionâ), tradotta con “Simone, figlio di Giona o Barjona”, è probabile che si tratti in realtà di una forma aramaica abbreviata per indicare “figlio di Giovanni”. Con questa espressione è definito Pietro nel vangelo di Giovanni (Gv 1,42; 21,15.16.17). Il nome Giona, infatti, ai tempi di Gesù non era più in uso. L'etimologia di Barjona nel senso di “rivoluzionario, anarchico o incolto” non ha lasciato traccia nel N.T. In tal senso cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico; e R. Fabris, Matteo – nota 6 di pag. 371 - Tutte le opere citate.

37Secondo la cultura degli antichi il nome non indica soltanto la persona, ma ne esprime l'identità più profonda e più vera, la sua essenza. Imporre un nome nuovo ad una persona significano due cose: a) quella persona non è più quella di prima, ma ha subito un radicale cambiamento, che, in genere, il nome stesso indica; b) la stessa persona dipende da chi le ha imposto i nome nuovo e a questa viene associata. - In tal senso cfr. la voce “Nome, Imposizione del nome” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e la voce “Nome” in Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici; opp. citt.

38Similmente la parola italiana pietra ha una duplice espressione in greco: una al maschile “pštroj”, corrispondente al nome con cui è stato ribattezzato Simone; e una al femminile “pštra”.

39Cfr. Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17.

40Cfr. At 4,11; Ef 2,20; 1Pt 2,6.7;

41Cfr. Gv 16,33; Rm 8,31-39; At 5,38-39; 1Gv 5,4.

42Cfr. Mt 1,20; 12,28; Lc 11,20; Gv 6,63; 14,26;15,26; 16,13-14; 20,22-23.

43Cfr. K. Bilmeyer – H. Tuechle, Storia della Chiesa – 1- l'antichità cristiana, Editrice Morcellania, Brescia – Tredicesima edizione settembre 2000; Anton Vögtle, La dinamica degli inizi, vita e problemi della Chiesa primitiva, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1991; Alexandre Faivre, I laici alle origini della Chiesa, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1986.

44In tal senso si cfr. le lettere ai Corinti o quella ai Galati o il contesto storico in cui è stata composta la prima lettera ai Tessalonicesi.

45Nonostante la sua preghiera di preservarlo da una simile incombenza per la quale non si sentiva sufficientemente preparato, particolare questo che ricorderà egli stesso in apertura della sua prima enciclica “E Supremi Apostolus” del 4 ottobre 1903, il 4 agosto dello stesso anno, con 50 voti a favore su 62, venne eletto papa il patriarca di Venezia Giuseppe Melchiorre Sarto, che assunse il nome di Pio X. Sua missione e sua cura principali furono il rinnovamento interno della Chiesa, incentrandosi sul problema religioso e pastorale. Lo stesso anno della sua elezione al pontificato, con la sopra menzionata enciclica, indicava lo scopo del suo pontificato, sintetizzandolo nel motto “Instaurare omnia in Christo”. A motivo dell'impostazione del suo pontificato e dell'impegno che vi profuse, Pio X venne accusato dagli intellettuali cattolici di chiusura nei confronti delle nuove idee che si andavano affermando e che essi intendevano introdurre all'interno della Tradizione e della Dottrina della Chiesa. Nasceva in tal modo quel movimento che andò sotto il nome di Modernismo, la cui finalità era quella di “ammodernare” la Chiesa, cercando di superare la frattura che si era venuta a creare nel tempo tra il pensiero cattolico e la cultura moderna; frattura che rendeva molto difficile comunicare la fede al mondo del XIX sec., tutto in fermento per le nuove ideologie socialiste e per l'introduzione dell'esegesi biblica, che fu l'elemento scatenante del Modernismo. Tutto ciò rischiava di compromettere l'identità stessa della fede. Contro il Modernismo e i pericoli che vi erano insiti, Pio X emanò dapprima il decreto “Lamentabili Sane Exitu” del 3 luglio 1907, in cui condannava gli errori del Modernismo, che circolavano tra i cattolici, e pochi mesi dopo, l'8 settembre 1907, l'enciclica “Pascendi Dominici Gregis”. - Cfr. August Franzen – Remigius Bäumer, Storia dei Papi, Ed. Club della Famiglia Spa, Milano 1993, su licenza della Editrice Queriniana.

46Cfr. §§ 12 e 23 Dei Verbum e il “Documento sull'Interpretazione della Bibbia nella Chiesa” della Pontificia Commissione Biblica del 15 aprile 1993.

47S. Wiedenhofer, nato nel 1941 a Fladnitz (Steirmark), dopo aver studiato in varie università filosofia e teologia, si è addottorato in teologia a Regensburg nel 1974 ed è stato assistente del prof. Joseph Ratzinger. Dal 1981 è professore di dogmatica cattolica presso l'università di Francoforte.

48La concezione che l'autore, qui, ritiene problematica è il concepire la chiesa come fondata storicamente direttamente da Gesù.

49 Come dire che nei vangeli si riflette il modo di pensare e di essere delle comunità, il loro vivere e i loro problemi, vissuti e ricompresi alla luce del Risorto. Non vi è quindi una sorta di reportage storico e documentaristico su Gesù, ma una testimonianza di fede e una loro ricomprensione del Gesù della storia, fortemente influenzata dall'evento della risurrezione.

50In tal senso cfr. Mt 23,37

51Cfr. S. Wiedenhofer, la Chiesa, Lineamenti fondamentali di ecclesiologia, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (Mi), 1994 -Pagg. 48-49

52Cfr. H. Küng, Cristianesimo, essenza e storia, Ed. BUR SAGGI, Bergamo 1999 – pag.87

53Una volta soltanto in Mt, Mc e Gv; sei volte in Lc

54Cfr. Mt 10,1; 20,18-20; Mc 3,14-15; 6,7; Lc 9,1; Gv 20,20-23.

55 Il significato di apostolo è probabilmente quello di plenipotenziario. Secondo K.H. Rengstorf dietro la figura dell’apostolo ci sta quella giudaica dello saliah, che era un rappresentante ufficialmente accreditato dalle autorità religiose in Gerusalemme, al quale si affidavano messaggi e denari ed era autorizzato a trattare. Cfr. la voce Apostolo in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme – Casale Monferrato (AL) – II Edizione 2005 e in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) - 1988

56Sulla definizione di discepolo e di apostolo cfr. l'opera “Il racconto di Matteo” alla voce “Discepolo”, presente su questo sito nella sezione esegetica.

57Sulla questione cfr. G. Jossa, La Verità dei Vangeli, Gesù di Nazaret tra storia e fede, Ed. Carrocci Editore, Roma 1998; A.Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.; voce “Vangeli” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.; Gianfranco Ravasi, La Buona Novella, le storie, le idee, i personaggi del Nuovo Testamento, Ed. Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano 1996.

58Cfr. Gianfranco Ravasi, La Buona Novella, le storie, le idee, i personaggi del Nuovo Testamento, Ed. Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano 1996. - Pag. 24.

59Cfr. Mt 14,33; 26,63-64; 27,43.54; Mc 1,1; Lc 1,35; 22,70; Gv 1,49; 11,27; 20,28.31; Rm 1,4; 2Cor 1,19.

60La Storia delle Forme o Formgeschichte, sorta verso il 1920 e i cui rappresentanti più significativi furono M. Dibelius, R. Bultamann e K.L. Schmidt, M. Albertz e G. Bertram, studia la formazione dei vangeli, che concepisce come una sorta di antologia, che raccoglie in sé un insieme di unità letterarie, imbastite tra loro dagli evangelisti, con tenui fili di sutura redazionale, per dare la parvenza di una logica narrativa. In questo contesto l'opera degli evangelisti era del tutto trascurata se non ignorata, riducendoli al semplice rango di raccoglitori di materiali, che assemblarono senza senso. Pur nei suoi limi, questo metodo ha tuttavia consentito di porre in evidenza il rapporto che intercorreva tra i vangeli e le comunità primitive e l'influsso che queste ebbero sulla formazione del materiale che poi, successivamente, tra gli anni 69 e 100, sarebbe confluito nei vangeli stessi. Ciò permise, inoltre, di gettare luce su quel periodo oscuro di trenta/quarantanni di tradizione orale che separò Gesù dalla redazione del primo vangelo, quello di Marco, sorto verso l'anno 69. Allo strapotere della Formgeschichte venne contrapposto nel 1954 quello della Redaktiongeschichte o studio della redazione dei vangeli, i cui fautori furono G. Bornkamm, H. Conzelmann, W. Trilling e W. Marxen, a cui si deve la denominazione di Redaktiongeschichte. Un metodo che tendeva a sottolineare, invece, l'importanza degli autori i quali, contrariamente a quanto pensava la Formgeschichte, erano i veri e propri creatori dei vangeli, i veri redattori. Questi, infatti, non solo raccolsero per proprio conto le varie unità letterarie createsi all'interno delle comunità e da queste utilizzate per le proprie attività di culto, catechetico, apologetico, polemico, ecc., ma le modificarono e le misero assieme secondo una loro teologia, che mettesse in evidenza il mistero di Gesù, tenendo conto, però, delle proprie comunità, alle quali i vangeli erano destinati. In buona sostanza si trattava di creare delle opere che inculturassero il messaggio e la figura di Gesù all'interno della dinamica delle prime comunità. I vangeli pertanto potremmo considerarli come quattro diversi punti di vista su Gesù. - Per la bibliografia cfr. nota n.56 del presente commento.

61Cfr. termine “Vangeli” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.

62Secondo la teologia medievale l'Empireo era il cielo più alto, sede della presenza di Dio in coabitazione con gli angeli e le anime del Paradiso. Tale luogo divino è celebrato anche da Dante nel Paradiso, che contiene nove cieli al di spora dei quali sovrasta, immobile, perfetto e solenne l'Empireo.

63Cfr. la voce “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

64Cfr. in tal senso la lettera ai Galati, la Seconda ai Corinti e quella ai Filippesi. La questione sui giudaizzanti, che traspaiono dalle lettere paoline, e sulla loro identità è piuttosto complessa e il dibattito è ancora aperto. Qui non si intende affrontare nei dettagli il problema, che ci porterebbe lontano dai nostri intenti. Per una buona trattazione della questione si cfr. le voci “Giudaizzanti” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, op. cit.

65Sull'intera questione degli Ebioniti sono stati da me consultati i seguenti testi: K. Bihlmeyer – H. Tiechle, Storia della Chiesa – Primo Volume: l'antichità cristiana, Editrice Morcellania, Brescia, Tredicesima edizione 2000; Dizionario di Paolo e delle sue lettere, op. cit.; Le parole dimenticate di Gesù, a cura di Mauro Pesce, Fondazione Valla, Arnoldo Mondadori Editore, ottobre 2004; la voce “Giudeo-cristiani” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; G. Filoramo e D. Menozzi, Storia del Cristianesimo – L'Antichità, Poligrafico Dehoniano per conto della Gius. Laterza & Figli Spa, Bari agosto 1997.

66Cfr. Adversus Haereses, I, XXVI, 2

67Cfr. Contra Celsum, II, I; De Principii, IV, I, 22

68Cfr. Historia Ecclesiastica, III, XXVII.

69Il Vangelo degli Ebioniti ci è noto grazie alle sette citazioni che Epifanio di Salamina (315-403 circa), che egli ha fatto nella sua opera “La cassetta dei medicinali”. Egli afferma che questo vangelo sarebbe una trasformazione di quello di Matteo.

70Cfr. O. Spinetoli, Matteo, op. cit.

71Cfr. O. Spinetoli, Matteo, op. cit. -pagg. 467-468.

72Cfr: Gv 4,34; 5,30; 6,38; Fil 2,6-8.

73Nelle dividere i versetti di questa pericope (21-28) normalmente gli esegeti adottano il seguente tipo di suddivisione: a) vv.21-23, in quanto riportano il dialogo tra Gesù e Pietro; b) vv.24-28, in quanto che qui Gesù si rivolge a tutti i discepoli e non più al solo Pietro, creando in tal modo uno stacco rispetto ai vv.21-23; e, inoltre, perché questi versetti costituiscono una sorta di piccola raccolta di detti sapienziali. Io ho preferito adottare la suddivisione sopra riportata sia perché ritengo che i vv.21-24 costituiscano un'unica pericope delimitata dall'inclusione dei vv. 21 e 24, formando a sua volta una struttura a parallelismi concentrici in b); sia perché ritengo che i vv.25-28 costituiscano una sorta di ripresa e di approfondimento di tipo sapienziale del v.24. Entrambe le soluzioni sono, a mio avviso, comunque accettabili.

74Per un commento più approfondito sulla questione, cfr. il titolo “Analisi strutturale” della presente opera – pagg. 2-4

75Con il v.21 ci troviamo di fronte ad una sorta di piccolo credo, una primissima ed antichissima elaborazione di fede sul mistero della nostra salvezza, che riecheggerà per altre due volte in 17,22-23 e in 20,17-18. I tratti di questa primordiale formulazione di fede, colta qui sul suo nascere e nel suo primo strutturarsi, sono ancora incerti e in fase di formazione. La formula, infatti, si ripete tre volte, ma ogni volta varia nel suo esprimersi; manca quindi di uniformità, che caratterizza invece le formule di fede definitivamente elaborate e giunte alla loro piena maturazione. La prevalenza dei dati da cui è composta, infatti, sono ancora squisitamente storici e molto particolareggiati, la quale cosa ci dice come la riflessione sul significato della passione, morte e risurrezione di Gesù sia ancora molto vicina agli eventi su cui riflette, rimanendone pertanto influenzata. Una formula che non ha ancora raggiunto la raffinatezza dell'approfondimento proprio della teologia, che pur radicandosi nella storia la trascende, dando prevalenza al significato degli eventi, che vengono solo accennati. Tuttavia la sequenza dei dati che compongono la formula è ormai già consolidata e quindi in una fase abbastanza avanzata. Il verbo “de‹” (bisogna, è necessario, deve) lascia intendere come dietro la lettura dei fatti storici si stia già pensando alla presenza di un progetto divino. C'è, quindi, una prima lettura teologica dei fatti; l'espressione “terzo giorno”, che si ritrova in tutte e tre le formule, ha la cadenza propria di una elaborazione già avvenuta e consolidata. Questa formula, dunque, è in fase di formazione ed ha la sua origine, probabilmente, nella stessa catechesi della comunità.

76Paolo nella sua lettera ai Filippesi, rifacendosi ad un antico inno cristologico, ricorda proprio la totale obbedienza e sottomissione di Gesù al Padre: “[...] spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,7-8).

77Cfr. At 2,24.32; 3,26; Rm 1,4; 4,24-25; 6,4a; 10,9; 1Cor 6,14; 2Cor 4,14; Gal 1,1; Col 2,12.

78Cfr. Lc 4,18a; 11,20; Gv 1,32-33; 14,10.26.

79Sulla questione del Messia cfr. la voce “Messia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; voce “Messianismo” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica; tutte le opere citate.

80Sul tema Regno di Dio e Messia cfr. la nota n.20 del commento ai capp. 3-4 della presente opera.

81Cfr. Mt 18,1; Mc 9,34; Lc 22,24

82Tra le varie ipotesi avanzate per spiegare il tradimento di Giuda, probabilmente uno zelota, si è proposto anche la sua delusione nel messianismo di Gesù, che egli concepiva in termini di rivolta contro l'oppressore romano. In tal senso cfr. la voce “Giuda” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

83In tal senso si cfr. il lemma “stršfw” in L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, op. cit.

84Cfr. pagg. 42-51 del commento ai capp. 3-4 della presente opera.

85Cfr. Mt 26,51-52; Mc 14,47; Lc 22,49; Gv 18,10-11

86L'espressione “prendere la propria croce”, molto diffusa nel mondo cristiano, era già nota al mondo palestinese ai tempi di Gesù, per la triste esperienza che ne ebbero i giudei sotto il regno del re asmoneo Alessandro Ianneo (103-76 a.C.), che aveva fatto crocifiggere 800 suoi oppositori. Fatto questo che provocò un grande scalpore, perché violava ogni principio etico proprio dell'A.T., in cui non si conosceva la pena della crocifissione a motivo della sua crudeltà. I corpi, invece, venivano appesi ad un albero soltanto dopo essere stati giustiziati, per incutere timore e come segno del rifiuto di Dio del giustiziato. Fatto questo che viene ricordato in Dt 21,22-23: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità”. Il passo, in una successiva lettura cristiana, verrà applicato a Gesù, giustiziato e sepolto nello stesso giorno (Cfr. Mt 27,57-60; Gv 19,31; At 5,30; 10,39; 1Pt 2,24; Gal 3,13).

87Cfr. Dt 11,26-28; 28,1ss.15ss; 30,15-18; Ger 21,8; Sir 15,17.

88Cfr. Didaché, dottrina dei Dodici Apostoli, a cura di Simona Cives e Francesca Moscatelli, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, MI – 1999.

89Cfr. Mt 5,11; 10,18; 10,39; 16,25. - Marco usa l'espressione tre volte in 8,35; 10,29; 13,9. - Luca una volta soltanto in 9,24.

90La comunità matteana era formata da convertiti benestanti e ricchi, il cui attaccamento ai beni doveva costituire dei notevoli impedimenti per una testimonianza più decisa e determinata. Il racconto del giovane ricco, che vedremo al cap.19, era rivolto proprio a quella parte benestante, che nicchiava nei confronti di una sequela, che chiedeva la rinuncia a tutto per abbracciare in modo pieno e totale la causa di Cristo.

91Nel suo racconto delle visione notturne, Daniele vede “”[...] apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14)

92Paolo presenta nella sua Prima ai Corinti questo schema apocalittico-escatologico dell'instaurarsi del Regno di Dio e i vari gradi del suo instaurarsi: “Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,23-28)

93Il participio presente greco, tradotto in italiano con “il veniente”, è “Ð ™rcÒmenoj”, espressione con la quale si designava il messia.