IL VANGELO DI MATTEO
Terzo intermezzo narrativo
L’identità rivelata di Gesù: Messia e Figlio di Dio;
stupore e riconoscimenti, incredulità e incomprensioni
(Parte Quarta)
Gesù, dichiarato Figlio di Dio dal Padre,
si autoproclama egli stesso Figlio di Dio
Introduzione
Il cap.17 chiude il terzo intermezzo (capp.14-17) e con questo anche la vexata quaestio, dibattuta all'interno della comunità matteana e non solo, circa la filiazione divina di Gesù e il suo messianismo sofferente, che ha pervaso e animato l'intero intermezzo. Matteo ancora una volta pone sul tappeto la questione dell'incredulità, che occupa la parte centrale di questo capitolo (vv.14-21), mettendola, quindi, in particolare rilievo, e attorno alla quale ruota sempre il problema della filiazione divina di Gesù (vv.1-9 e vv.24-27) e del suo messianismo sofferente (vv.10-13 e vv.22-23). Lo fa dando una particolare struttura all'intero cap.17, che si sviluppa sullo schema dei parallelismi concentrici in C):
A) vv.1-9: il racconto della trasfigurazione, il cui cuore (v.5) è costituito dalla dichiarazione della filiazione divina di Gesù da parte del Padre; viene qui presentato un Gesù sfolgorante nella sua divinità;
B) vv.10-13: il Battista è l'Elia che doveva venire e la sua triste sorte prefigura quella di Gesù: “così anche il figlio dell'uomo sta per soffrire molto per causa loro” (v.12b). Viene quindi annunciato, una volta di più, il destino sofferente di Gesù;
C) vv.14-21: l'episodio del figlio lunatico costituisce un escamotage per introdurre il tema della persistente incredulità, che ha le sue radici in una perversione interiore, che provoca lo sdegno del Gesù matteano;
B') vv.22-23: il secondo annuncio della passione, come un coltello che si rigira nella piaga, ricorda il destino del messia sofferente e provoca il dolore dei discepoli;
A') vv.24-27: all'interno di un breve raccontino Gesù si autoproclama Figlio di Dio.
COMMENTO AL CAP. 17
Lo studio di questa pericope è particolarmente accurato nella ricerca delle immagini e nella sua struttura narrativa posta, anche qui, come il capitolo in esame, in forma di parallelismi concentrici, convergenti in E), v.5, che costituisce il cuore dell'intero racconto. Qui, infatti, Gesù verrà proclamato dallo stesso Padre suo beneamato Figlio, in cui si è compiaciuto.
La struttura di 17,1-9
A) v.1: Gesù con Pietro, Giacomo e Giovanni sale sul monte;
B) v.2: Gesù viene trasfigurato dalla luce divina, che lo avvolge e lo permea interamente;
C) v.3: Apparizione di Mosè e di Elia che conversano con Gesù;
D) v.4: Entusiasmo dei discepoli, che con la costruzione di tre tende desiderano rendere stabile la visione beatifica;
E) v.5: La rivelazione della figliolanza divina da parte del Padre all'interno di una cornice teofanica e apocalittica;
D') v.6: Il terrore dei discepoli;
C') v.7: Gesù riporta i discepoli alla realtà, esortandoli a rialzarsi e a non aver paura;
B') v.8: I discepoli vedono soltanto l'uomo Gesù;
A') v.9: Gesù e i discepoli scendono dal monte.
La struttura con i suoi abbinamenti paralleli va necessariamente spiegata, perché non è sempre immediatamente coglibile nel suo dispiegarsi e nelle sue associazioni. In A) si apre il racconto con Gesù che sale sul monte con i tre discepoli (v.1), mentre in A') vi è il movimento uguale contrario, che si pone a chiusura del racconto: Gesù scende dal monte con i tre discepoli (v.9). In B) viene presentato Gesù avvolto nello splendore della sua divinità (v.2), mentre in B') i discepoli vedono soltanto l'uomo Gesù, privo di ogni segno della sua divinità (v.8). Da qui la loro incredulità e la loro reticenza. In C) appaiono Mosè ed Elia che conversano con Gesù, e, quindi, in qualche modo a lui associati (v.3), mentre in C') i discepoli, toccati da Gesù, sono da lui esortati a rialzarsi dal loro stato di prostrazione (v.7), che non consente loro di cogliere la verità della sua persona, da loro pensata e associata ancora al mondo veterotestamentario. La cosa apparirà meglio nel momento dell'analisi dei vv.3 e 7. In D) appare l'entusiasmo dei discepoli nello scoprire la verità della dimensione divina di Gesù (v.4), mentre in D') essi sono assaliti da una forte paura (v.6), dovuta sia alla naturale reazione dell'uomo di fronte all'irrompere del divino nella storia; sia anche per le conseguenze derivanti dall'abbracciare la fede in un uomo ritenuto Dio, la quale cosa va a cozzare contro la stessa fede ebraica dell'assoluto monoteismo (Dt 6,4), di cui erano ancora impregnati i giudei cristiani. Il punto E), che funge da perno all'intera struttura, contiene la rivelazione della figliolanza divina di Gesù, proveniente dallo stesso Padre (v.5).
Il racconto della trasfigurazione, a motivo del forte simbolismo che lo permea e della cornice apocalittica e teofanica, entro cui il racconto è costruito e si muove, nonché per l'assenza di riferimenti storici e geografici, non sembra che sia storicamente accaduto, ma sia soltanto una costruzione degli evangelisti, che in qualche modo hanno parafrasato il racconto della salita al monte Sinai di Mosè (Es 24,12-15) o quanto meno si sono rifatti allo schema dei racconti teofanici. Del resto, se fosse realmente accaduto, come spiegare il tradimento di Pietro dopo una simile esperienza con il trascendente; o come spiegare le incertezze e i dubbi che attanagliavano i discepoli circa la divinità di Gesù e che li accompagneranno fino alle ultime battute del vangelo (Mt 28,17). Va detto, tuttavia, che non mancano esegeti che ritengono che tale episodio abbia degli agganci storici.
Il v.1 costituisce la cornice introduttiva dell'intero racconto della trasfigurazione e ne spiega il senso. Si tratta, come vedremo subito, di un ammaestramento che va a completare quel cammino di catechesi iniziato con il v.16,21 (“Da allora Gesù incominciò a render noto”) e che porterà i discepoli, loro malgrado, alla scoperta del senso autentico del messianismo di Gesù, quello associato alla sofferenza, e della sua figliolanza divina.
Il primo versetto si apre con una annotazione di tempo: “E dopo sei giorni”. Questa espressione rimanda e nel contempo aggancia il racconto della trasfigurazione e l'intero cap.17 alla solenne dichiarazione di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Con i vv. 16,24-28 Gesù aveva chiarito il senso del suo messianismo, mentre con questo racconto spiegherà il senso della sua figliolanza divina. Si tratta, dunque, di un unico cammino (Da allora Gesù incominciò ...) catechetico e rivelativo nel contempo (“... a render noto”). Ed è a questo punto che si inserisce l'espressione temporale “E dopo sei giorni”. Il numero sei nel linguaggio biblico indica l'imperfezione, ciò che non è completo e che abbisogna, dunque, di perfezionamento. Il sei, infatti, è dato dal sette, che simboleggia la perfezione e il completamento, meno uno. Ai sei giorni, dunque, per essere completi e perfetti manca ancora un giorno, il settimo, che è quello proprio in cui avviene la trasfigurazione. Quindi, soltanto, con la trasfigurazione il cammino catechetico e rivelativo, iniziato al v.16,21 e metaforicamente simboleggiato nei sei giorni, troverà la sua pienezza. Come dire che non è sufficiente credere nel messianismo, anche se accettato nella sua cornice di sofferenza, ma per la salvezza è necessario anche credere e accogliere la figliolanza divina di Gesù e, quindi, la sua stessa divinità. Soltanto in tal modo il credente si qualificherà come vero credente e potrà, così, accedere alla salvezza. La dichiarazione di Pietro, infatti, verteva non solo sul messianismo di Gesù, ma anche sulla sua figliolanza divina.
Nel settimo giorno Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. La scelta di questi tre discepoli non è casuale. Nei sinottici appaiono, assieme ad Andrea, come i primi tre discepoli chiamati da Gesù1 e sovente nei racconti evangelici sono citati assieme, occupando un posto di privilegio nel gruppo dei discepoli. Essi costituiscono una sorta di braccio destro di Gesù, coloro su cui Gesù sembra contare maggiormente2. Per questo egli li prende con sé e impartisce loro un particolare ammaestramento, fondato su di una teofania. Il verbo “paralamb£nei” (paralambánei), infatti, oltre che prendere con sé significa anche prendere sotto la propria autorità, formare, educare3. Il rapporto, dunque, che si instaura tra Gesù e i tre è squisitamente catechetico e nel contempo imprime all'intero racconto il senso di una catechesi rivelativa, finalizzata a far crescere nella conoscenza del mistero di Gesù e del progetto del Padre. È significativo, infatti, come l'autore sottolinei che il gruppetto non salì sul monte, ma è Gesù che “li fa salire”, un'espressione che indica l'azione propria del maestro nei confronti dei propri discepoli, fatti crescere nella conoscenza dal proprio maestro4. La tipologia di questa conoscenza è indicata dal termine monte, definito elevato5, che nell'immaginario degli antichi era considerato la dimora della divinità. Si tratta, dunque, di un essere accresciuti nella conoscenza di Dio, un avvicinarsi al suo mistero, che si disvelerà, nella potenza del suo fulgore, in Gesù.
Il v.1 termina con un'espressione verbale “kat' „d…an” (kat' idían, in disparte), che dà un po' il tono all'intero versetto: la scelta dei discepoli, il loro farli salire sul monte parla di separazione, che significa nel contempo elezione, poiché nessuno può imporre a Dio di rivelare il suo mistero, ma è Lui che sceglie e si fa dono al suo servo. Ma è anche raccoglimento e distacco. Quando ci si avvicina al mistero di Dio è necessario separarsi dalle cose (“salire sul monte”), entrare nel silenzio, fare spazio dentro di sé per accogliere il Dio che si dona nel suo rivelarsi. Il salmista si interroga: “Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo” (Sal 23,3-4). Condizione, dunque, necessaria per poter salire al monte di Dio, accostarsi alla sublimità del suo mistero, è la purezza del cuore, il non essersi immischiati nell'iniquità, perché soltanto i puri di cuore potranno vedere Dio (Mt 5,8). Una purezza che è sinonimo di povertà, di distacco dalle cose materiali e da tutto ciò che può in qualche modo ostacolare l'approccio con la sublimità di Dio e offuscare la sua visione beatifica.
Il v.2 introduce, come d'improvviso, il lettore nell'inatteso fulgore della dirompente e travolgente luce divina e lo fa scandendo il versetto in tre parti:
a) E fu trasfigurato: il kaˆ (kaì, e), con cui si apre il v.2, aggancia la scena della trasfigurazione al v.1 e ne dà continuità e consequenzialità, come tra causa (v.1) ed effetto (v.2). Il percepire la gloria di Dio nell'uomo Gesù, pertanto, è possibile solo dopo essere saliti sul monte ed essere stati messi in disparte, dopo aver compiuto, cioè, un cammino di rinnovamento interiore, in cui la fede compie un salto di qualità, sgombrando il cuore da ogni dubbio, consentendo, quindi, al di là delle semplici e modeste sembianze umane di Gesù, di percepire il fulgore della sua stessa divinità. Non a caso, infatti, nell'analisi strutturale del racconto il v.2, che presenta lo splendore della gloria divina, si contrappone al v.8, in cui i discepoli vedono soltanto Gesù nella sua semplice e modesta umanità. La contrapposizione dei due versetti dice come in Gesù si compenetrino sia la natura umana che quella divina. Ma mentre per la prima sono sufficienti i sensi, per la seconda serve un processo di crescita e di maturazione interiori verso il mondo di Dio, che consenta di sviluppare una nuova sensibilità spirituale, l'unica capaci di far accedere il credente al mistero di Dio nascosto in Gesù6. Quanto è avvenuto al v.1 è, pertanto, preliminare per poter accedere al mondo di Dio.
La trasfigurazione è espressa con un verbo al passivo “metemorfèqh” (metemorfótze), che nel linguaggio biblico esprime l'intervento di Dio. All'origine della trasfigurazione di Gesù ci sta, dunque, il Padre; così come il Padre, con la potenza dello Spirito, è la fonte primaria della risurrezione di Gesù (Rm 1,3-4), che qui in qualche modo viene richiamata. Il verbo usato per indicare la trasfigurazione è molto significativo perché se da un lato dice un cambiamento delle forme umane, tali da lasciar trasparire da esse il fulgore della luce divina; dall'altro dice come sia necessario, per percepire la divinità di Gesù, andare oltre queste forme umane attraverso una fede ferma e invincibile. Il verbo, infatti, è composto dalla particella avverbiale met£, che tra i vari significati racchiude anche il senso di ciò che viene dopo o che va oltre; e il verbo morfÒw (morfóo), che significa dare forma, rappresentare, figurare. Al di là, quindi, delle forme umane di Gesù c'è l'apparire della gloria di Dio.
b) davanti a loro: è il secondo elemento di cui si compone la scena della trasfigurazione e dice come questa sia coinvolgente, rendendo, di fatto, testimoni della divinità di Gesù loro, i discepoli. L'aver percepito la natura divina di Gesù e il riconoscerla nella fede carica di responsabilità il nuovo credente, che è chiamato, da un lato, ad accogliere nella propria vita, conformandola ad esso, l'uomo-Dio Gesù, ponendosi, quindi, dalla parte di Dio e a favore delle sue esigenze; dall'altro ad annunciarlo e a testimoniarlo davanti alle genti (Lc 2,30-32), perché la luce di Dio, che splende in Gesù, possa illuminare tutti gli uomini: “Così infatti ci ha ordinato il Signore: <<Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all'estremità della terra>>” (At 13,47).
c)
il
suo volto risplendette come il sole e le sue vesti divennero bianche
come la luce:
è questo il terzo elemento che completa la scena della
trasfigurazione e dice in che cosa consista questa trasfigurazione.
Cinque sono i punti rilevanti: “volto e vesti”; “sole, bianche
e luce”. I primi due ineriscono alla persona dell'uomo Gesù;
mentre i secondi tre proclamano la sua divinità. Matteo è l'unico
dei sinottici che parla del volto sfolgorante di Gesù, associandolo
al sole. Luca accenna soltanto ad un volto che cambia: “l'aspetto
del suo volto divenne un altro” (Lc 9,29a). Non c'è luce, non c'è
splendore, ma solo un cambiamento di aspetto; mentre Marco non ne
parla. Perché, dunque, Matteo presenta il volto di Gesù sfolgorante
di luce come quella del sole? L'autore è un ebreo e sta parlando
alla sua comunità di giudeocristiani, che ben conoscono le Scritture
e il loro linguaggio, per cui quando il volto splende di luce, questo
volto è quello proprio di Dio7.
Ma sa anche come Mosè, dopo quaranta giorni e quaranta notti, in cui
egli parlò
faccia a faccia con Dio
(Es 33,11; Dt 34,10), la pelle del suo volto divenne raggiante (Es
34,28-29). Due, dunque, sono le sottolineature: il volto splendente
di Gesù è quello proprio di Dio. Il suo volto sfolgora perché lui
è Dio; lo dice la luce del suo volto. Infatti, egli sta faccia a
faccia con Dio, è un suo pari e in lui si riflette la luce divina,
che lo avvolge e lo permea nella sua pienezza. Come non sentire in
questo la profondità della teologia giovannea, che vede il Verbo del
Padre, avvolto nello splendore della sua gloria, farsi carne e in lui
la contempla (Gv 1,1-2.14); un Verbo ripieno di luce divina, anzi
egli stesso è luce divina, che si emana sugli uomini illuminandoli
nelle loro tenebre (Gv 1,4-5). Verbo di luce
divina, una parola che negli scritti giovannei ricorre 37 volte ed
indica la natura stessa di Dio. In questo contesto, non va mai
dimenticato il fine che sta perseguendo Matteo: affermare, ma
soprattutto convincere i suoi della divinità dell'uomo Gesù.
Similmente
al volto raggiante come il sole, anche le sue vesti sono bianche, ma
il loro biancore non è un colore di cui l'uomo ha esperienza, poiché
si tratta di un bianco che qui è associato alla luce. Torna ancora
una volta il tema della luce, che in qualche modo ci riporta ai
primordi della creazione genesiaca e al primo atto creativo: “Dio
disse: "Sia la luce!". E la luce fu”
(Gen 1,3). Non si trattava della luce degli astri, che verranno
creati al quarto giorno (Gen 1,14-19), bensì della stessa luce
divina, entro cui veniva posta l'intera creazione, che in tal modo ne
era circonfusa e permeata; una creazione nuova, ancora incandescente
di Dio. Il bianco come luce riporta, pertanto, il lettore in seno al
mondo divino8,
mentre le vesti sono la metafora della stessa persona, che le indossa
e si identificano con essa.9.
Gesù è, quindi, avvolto e permeato nella sua essenza dalla stessa
luce di Dio. La trasfigurazione di Gesù, pertanto, lascia trasparire
la sua vera natura divina, benché tale natura sia velata da quella
umana, che impedisce di percepire le realtà spirituali: ciò che si
vede, infatti, è soltanto l'uomo Gesù e niente di più (v.8).
Il v.3 va a completare la visione beatifica, di cui beneficiano i tre discepoli prediletti, e nel contempo pone delle precisazioni sulla figura di Gesù e sul come intenderla nel suo rapporto con il mondo veterotestamentario. Ed ecco che accanto al Gesù trasfigurato e rilucente della stessa luce di Dio, che ne definisce la natura, si affiancano, ora, quasi all'improvviso e in modo inaspettato (kaˆ „doÝ, kaì idù, ed ecco), due personaggi veterotestamentari di rilevante importanza: Mosè ed Elia. Il primo è colui che Jhwh si scelse in modo del tutto particolare, per consacrarlo alla liberazione del suo popolo dall'oppressione dell'Egitto e perché lo conducesse in quella terra sicura, che Egli aveva promesso ai suoi Padri (Es 3,4-8). È colui che ha tenuto un rapporto particolare ed esclusivo con Jhwh, a cui parlava faccia a faccia come se fosse un uomo10, senza per questo risentirne, rivelando così la familiarità che intercorreva tra lui e Jhwh. Egli fu colui che ricevette direttamente da Dio la Torah, espressione della sua volontà, e la rivelò al suo popolo (Es 24,12). Fu un intercessore a favore del popolo (Es 32,7-14), l'intermediario dell'Alleanza fra Jhwh e Israele (Es 24,3-8; At 7,38).
Similmente, Elia fu colui che contrastò e si impose ai tradimenti del popolo e dei suoi governanti e, sfidando le ire della regina Gezabele e le pretese dei sacerdoti di Baal11, cercò di affermare la signoria di Jhwh in mezzo al popolo, mettendo a repentaglio la propria vita.
I due personaggi, Mosè ed Elia, sono colti nel momento in cui stanno parlando con Gesù. Non viene detto l'argomento della loro discussione, a differenza di Luca (Lc 9,31), la quale cosa lascia supporre che esso non rivesta alcuna importanza ai fini degli intenti dell'evangelista. Mentre importante è il fatto che i due stiano parlando con Gesù e rivolti a lui soltanto. Non viene detto che Gesù parla con loro, ma che loro parlano con Gesù; sono loro che convergono verso Gesù e non viceversa. Non vi è, dunque, un interscambio dialogico. La scena è carica di simbolismo e di significati. Matteo l'ha inserita per far comprendere ai duri della sua comunità il significato nuovo della figura di Gesù rispetto ai personaggi simbolo dell'A.T. e come essa sia stata in qualche modo preannunciata da loro. Gesù, quindi, non è un'aggiunta a Mosè e ad Elia, non è un loro prolungamento, ma il loro punto di convergenza. Essi costituiscono, per un certo verso, due attributi propri di Gesù e ne definiscono il senso della sua missione e del suo essere: come Mosè Gesù è stato prescelto dal Padre (Mt 3,17) e inviato ad Israele e all'intera umanità12 per liberarla dalla schiavitù del peccato e ricondurla in seno al Padre13. Egli è azione rivelativa e attuativa della volontà salvifica del Padre14, con il quale ha un rapporto esclusivo e unico di figliolanza e al quale si rivolge non come un uomo si può rivolgere al suo Dio, ma in modo diretto e con pari dignità15. Ma nel contempo si costituisce anche come mediatore tra Dio e gli uomini (Eb 8,6; 9,15; 12,24), una sorta di pontefice, che collega l'umanità a Dio, mentre la sua stessa persona è garanzia di alleanza tra Dio e gli uomini, sicura e definitiva, che non verrà mai meno (Eb 7,22; 13,20).
Per quanto riguarda Elia, il profeta che spese la sua vita e la pose a rischio per riaffermare Jhwh e il suo culto in seno al suo popolo, anche Gesù è colui che è venuto a ripristinare la volontà del Padre in mezzo agli uomini, a rivelarne le esigenze e a sollecitare gli uomini per un loro pronto ritorno a Dio. Egli, dunque, si costituisce come lo spazio storico del Padre, in cui il Padre si muove verso gli uomini e tende loro la mano. Mosè ed Elia, pertanto, furono figure paradigmatiche, tipiche, che preannunciarono in loro stessi i tratti essenziali della figura di Gesù (Lc 24,27), in cui essi convergono e trovano il loro compimento e la pienezza del loro senso (Mt 5,17). Il fatto poi che loro parlino con Gesù e che il loro dialogare sia rivolto verso Gesù significa che tra loro non vi è contrasto, contrapposizione, ma convergenza e complementarietà. Ma la scena del dialogo tra Mosè, Elia e Gesù è anche un forte richiamo per quegli irriducibili della comunità matteana che tendono a mettere sullo stesso piano Mosè, i Profeti e Gesù, non sapendo cogliere la novità insita nella sua persona. La cosa apparirà più evidente al v.4, dove Pietro propone tre tende, una per ciascun personaggio della visione, senza alcun segno distintivo tra i tre. Vi è un'implicita accusa di miopia spirituale. Il v.3, dunque, si presenta come una piccola, ma efficace catechesi sulla persona di Gesù e dei rapporti che intercorrono tra lui e l'A.T.
Con i vv. 2-3 Matteo fa, dunque, una doppia precisazione sulla figura di Gesù: da un alto, lo presenta rilucente della stessa natura di Dio (v.2); dall'altro, lo pone come punto di convergenza e di compimento dell'intero A.T. in cui Mosè ed Elia sono presentati come figure tipo, che trovano il loro svelamento e significato ultimo in Gesù stesso, preannunciato, in qualche modo, in loro.
Il v.4 denuncia un errore di prospettiva in cui la comunità matteana e il giudeocristianesimo in genere erano caduti: ritenere Gesù un grande personaggio, un profeta di spicco, un messia di rilievo, ma che non si discostava dai suoi predecessori veterotestamentari, significati in Mosè ed Elia, anzi a questi si doveva legare. Torna, dunque, nuovamente il problema della divinità e della figliolanza divina di Gesù disconosciute e dell'incapacità di cogliere la novità del mistero che albergava nella sua persona. Pietro, infatti, ha davanti a sé Gesù, Mosè ed Elia, tutti tre alla pari, e, senza distinzione alcuna, propone loro tre tende, una per ciascuno di loro. Sono tre tende anonime, identiche tra loro alle quali essi sono associati. Non c'è distinzione tra i tre. La tenda assume nella Bibbia molteplici significati: essa è semplicemente un luogo di abitazione e di riparo16, ma che talvolta, in senso allargato, diviene metafora della propria vita17; metafora anche dell'uomo, colto nella sua corporeità e nella sua dimensione storica18. Essa è la Dimora mobile di Jhwh che cammina nel deserto insieme al suo popolo19 e costruita secondo un modello celeste (Es 25,9; Eb 8,5); essa fu preceduta dalla tenda del convegno, dove Mosè e chiunque volesse consultare il Signore entrava20.
Di queste diverse tipologie di tende quella che più si addice al nostro caso è data dal senso metaforico di tenda-corpo e/o tenda-vita. Pietro, dunque, vuole assegnare ai tre personaggi altrettante identiche tende. Come dire che Pietro, e con lui il giudeocristianesimo, non ha saputo cogliere la novità racchiusa nel mistero di Gesù, che egli pone sullo stesso piano di Mosè ed Elia e ad essi associa21. Ancora non è risuscito a superare, comprensibilmente, i parametri del giudaismo.
Con il v.5 siamo giunti nel cuore del racconto, finalizzato a sottolineare la figliolanza divina di Gesù e, quindi, la sua stessa divinità. La rivelazione del mistero di Gesù tocca qui il suo vertice poiché sulla questione è ora impegnato Dio stesso, la cui presenza è richiamata da due elementi teofanici: la nube e la voce. La prima richiama da vicino la shekinàh, la presenza gloriosa di Jhwh22, mentre la seconda fuoriesce dalla prima e a questa è legata e dice il rivelarsi di Dio. Nube e voce formano, nell'ambito delle teofanie veterotestamentarie, un connubio inscindibile, che caratterizza le rivelazioni nell'A.T.23. Questa cornice rivelativa viene ora riprodotta qui da Matteo, segno che l'evangelista vuole legare le parole, che testimoniano la figliolanza divina di Gesù, allo stesso Dio-Padre, caricandole di indiscutibile verità, che obbliga alla fede. In qualche modo l'autore rende qui ufficiale, davanti a tre testimoni, in una solenne cornice teofanica, quella stessa rivelazione che Pietro aveva ricevuto privatamente dal Padre (v.16): “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (v.17).
Il v.5 è scandito in tre parti:
a) Mentre stava ancora parlando: con queste parole l'autore aggancia l'inintelligenza di Pietro, manifestata al v.4, circa la novità di Gesù rispetto al mondo veterotestamentario, al quale è ancora legato e su cui riparametra la sua esperienza di Gesù. È proprio questo tipo di inintelligenza che ha a che fare, come vedremo subito, con questa teofania del v.5
b) ecco una nube luminosa li nascose; ed ecco una voce dalla nube [...]: il dubbio e l'inintelligenza invincibili vengono ora sovrastati dalla shekinàh, dalla presenza gloriosa di Dio. Matteo è l'unico dei sinottici che definisce la nube come luminosa. Un particolare questo, che se da un lato sottolinea la natura divina di quella nube, dall'altro richiama la luminosità, di cui è circonfuso il Gesù trasfigurato (v.2), associandolo in tal modo alla divinità stessa del Padre, qui resa presente, e, quindi, dichiarandolo implicitamente Dio. La luminosità della nube contrasta, inoltre, con il verbo “™pesk…asen” (epeskíasen), adombrò, oscurò, il cui soggetto è la nube stessa. È stupefacente come una nube incandescente di luce divina possa oscurare e adombrare. In realtà questo gioco di parole parla di rivelazione e di nuova comprensione. Ciò che questa nube oscura, infatti, sono quei Gesù, Mosè ed Elia, che Pietro aveva posto tutti, in egual modo, sullo stesso piano, senza rilevarne la sostanziale differenza. È questa inintelligenza, che riparametra Gesù sulla falsariga dell'A.T., riconducendolo al suo interno, che viene offuscata, nascosta, cancellata, per così dire; mentre viene rivelata all'interno della luce divina il vero mistero che sottende la persona di Gesù.
c) Questo è il mio figlio amato, in cui mi sono compiaciuto. Ascoltatelo: l'espressione riproduce esattamente quella che il Padre proferì su Gesù nel battesimo (3,17)24. Il contesto in cui essa veniva pronunciata era sempre teofanico (cieli che si aprono e voce dal cielo). Tuttavia, qui, in questa teofania rivelativa compaiono due elementi nuovi: la nube e l'esortazione imperativa ad ascoltare Gesù; due elementi che proiettano Gesù in un contesto escatologico. La nube luminosa richiama, infatti, la venuta finale del Figlio dell'uomo, avvolto nella sua gloria e nella sua potenza25; mentre l'esortazione ad ascoltarlo richiama da vicino le parole che Mosè lasciò quale testamento spirituale e teologico al popolo: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18,15) e che Luca nei suoi Atti riferisce a Gesù (At 3,22; 7,37). Gesù, dunque, si qualifica come il profeta escatologico, come l'ultimo discorso che Dio rivolge all'umanità e che, in quanto ultimo, è anche carico del giudizio divino, poiché esso si attende una risposta da parte dell'uomo.
Il v.6 riporta la reazione dell'uomo di fronte all'irrompere del divino nella storia. Due sono i movimenti che descrivono questa reazione: il prostrarsi con il volto fino a terra e l'essere travolti dalla paura. Il primo descrive un atteggiamento consueto nelle apparizioni nel mondo veterotestamentario26 ed esprime lo stato di prostrazione e la condizione di estrema fragilità, che provoca la soverchiante presenza di Dio nell'uomo, e dice tutta la distanza che separa i due mondi. Nessuno, infatti, può vedere Dio e rimanere in vita27. Il secondo parla della paura che si impossessa dell'uomo. Anche questo aspetto del timore, della paura o del terrore è un elemento emotivo normalmente ricorrente nelle teofanie28. Si noti il verbo posto al passivo (™fob»qhsan, efobétzesan), per sottolineare il totale soggiogamento dell'uomo all'onnipotenza di Dio. Non è l'uomo che ha paura, ma viene preso dalla paura, di cui subisce l'influsso e sulla quale non ha alcun controllo, ma ne è in balìa, poiché la presenza gloriosa di Jhwh lo sovrasta e lo possiede tutto. Anche la descrizione dei tre discepoli di fronte a questa teofania sottolinea una volta di più il contesto divino in cui il Gesù trasfigurato è posto e al quale appartiene.
Il v.7 descrive gli effetti che la trasfigurazione ha avuto sui tre discepoli. Significativi sono i gesti e le parole di Gesù. Egli compie tre movimenti: si avvicina, li tocca e parla a loro. Sono i gesti29 e le parole30 che ricorrono sovente nei racconti di guarigione. L'autore, quindi, invita a leggere la ritrovata fede nella figliolanza divina di Gesù e nella sua stessa divinità come una guarigione da una cecità che impediva ai discepoli di vedere il mistero nascosto nella persona dell'uomo Gesù. Le guarigioni di ciechi nel linguaggio metaforico dei racconti evangelici, infatti, parlano della fede ritrovata. Cariche di significato, poi, sono le parole proferite: “Alzatevi e non abbiate paura”. Il verbo greco che esorta a levarsi è “'Egšrqhte” (Eghértzete), un imperativo passivo, che letteralmente potremmo tradurre con “siate risollevati”. Un passivo che nel linguaggio biblico indica un intervento divino. Il credere, quindi, nella divinità di Gesù non è mai la conclusione logica di un bel ragionamento; non nasce mai da una prova inconfutabile, ma è un dono del Padre (16,17). La fede, dunque, è sempre un gettarsi al di là di ogni barriera e di ogni ostacolo; uno slancio che trae la sua forza vitale, la sua convinzione e la sua giustificazione nel segreto del cuore, là dove si cela e si celebra il sacro mistero dell'incontro di Dio con l'uomo31. “Alzatevi” è la prima esortazione a risollevarsi da una deprimente inintelligenza, legata alla ricerca di sicurezze, basate su prove tangibili, su dei segni32; un'esortazione, però, che dice anche la trasformazione che i discepoli hanno subito attraverso il risveglio della fede. Il verbo, infatti, ha molteplici significati: destarsi, risvegliarsi, suscitare, elevare, innalzarsi, risuscitare, sorgere. Significati che parlano di risveglio spirituale, che apre la mente all'intelligenza di Dio e trasforma la propria vita, conformandola alle sue esigenze, manifestatesi nel suo Cristo. Un risveglio che nasce dalla fede. Risuona qui un'antichissima formula, tratta probabilmente da un inno che aveva a che fare forse con la liturgia battesimale, tramandataci dall'autore della lettera agli Efesini: “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14). La fede colta come il momento del risveglio dal sonno del paganesimo, della rivincita sulla materialità del vivere e che consente di entrare nella luce di Cristo e di accedere al mistero di Dio in lui rivelato. La seconda esortazione è un pressante invito a non temere: “Non abbiate paura”. È un'espressione che ricorre sovente nei vangeli e appare quasi sempre là dove l'uomo si incontra con il divino33. Egli è chiamato a non temere, ma a continuare ad aver fede (Mc 5,36), perché il risveglio in lui prodotto dalla fede non venga meno, ma da questa continui trarre il suo alimento. Non è semplice per una comunità di giudeocristiani professare la propria fede nella divinità di un uomo, per la quale cosa il nuovo credente sarà ghettizzato e condannato ad una morte civile, venendo espulso dalla sinagoga e perseguitato (Gv 9,22; 12,42). Proprio su questa difficoltà e su questa sofferenza del credere e dello spendersi per Cristo, Paolo griderà la sua totale consacrazione a lui: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35-39).
Il
v.8 presenta gli
effetti della guarigione e della trasformazione operata nei discepoli
per mezzo della fede ed è strutturato su due movimenti: a)
dopo aver sollevato gli occhi, b)
vedono soltanto Gesù e nessun altro. Il primo movimento è
rappresentato da un participio aoristo terminativo, che indica
un'azione compiutasi nel passato e che ha il suo effetto finale nel
vedere soltanto Gesù. L'occhio è l'organo della vista per
eccellenza, la finestra entro cui entrano la luce che illumina, i
colori, le immagini e consente all'uomo di orientarsi nell'ambiente,
di prenderne psicologicamente possesso e di muoversi in esso con
sicurezza e senza incertezze. Sovente nel linguaggio biblico è
metafora dell'intelligenza, della capacità di comprensione delle
cose34.
Il sollevare gli occhi, pertanto, dice un elevare la propria capacità
di comprensione, indirizzandola verso la verità che illumina; ed è
l'attuazione conseguente all'esortazione impartita al v.7 “Alzatevi”,
di conseguenza essi “sollevarono gli occhi”. C'è, dunque, un
passaggio, una trasformazione, una evoluzione dal meno al più.
Questo porta a vedere soltanto Gesù. Il verbo usato qui è eŒdon
(eîdon,
videro) ed è, nel linguaggio neotestamentario e in particolar modo
quello giovanneo, il verbo della fede raggiunta, della fede matura,
che sa andare oltre alle apparenze. Infatti, i discepoli ora vedono
soltanto Gesù. Mosè ed Elia sono scomparsi, non sono più associati
a Gesù, ma c'è soltanto lui, che sembra essere qui tornato in
sembianze umane. Ma è proprio questa sottolineatura da parte
dell'autore, “videro solo
Gesù”, che lascia intravvedere come, ora, Gesù non sia più
associato al mondo veterotestamentario, ma sia colto nella sua
individualità e novità di figlio di Dio e Dio lui stesso. Non a
caso il v.8 trova il suo parallelo contrapposto nel v.2 dove Gesù
appare trasfigurato nella sua divinità. Segno questo che l'uomo Gesù
è ora anche pensato nella sua alea divina.
Il v.9 vede i discepoli ricondotti entro la normalità del vivere quotidiano e del loro rapportarsi con l'uomo Gesù: essi, infatti, scendono dal monte; ed è proprio durante tale rientro che Gesù, similmente al v. 16,20 in cui impose ai suoi di non dire a nessuno che egli era il Cristo, ordina anche qui, al v. 17,9, il silenzio circa la visione, cioè la comprensione, che essi hanno avuto circa la sua natura divina; una comprensione racchiusa nella cornice della straordinarietà di una teofania, che si impone prepotente e frastornante, ma che richiede, proprio per questo, un tempo di decantazione per essere metabolizzata nella vita. Il silenzio imposto è per lasciare che il mistero intuito maturi e nel nascondimento cammini nei cuori dei credenti fino al suo trasparire nella testimonianza della vita, da questo trasformata. Solo allora il credente sarà in grado di associare la propria vita al Risorto. È quanto Paolo evidenzia alla comunità di Roma: “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). È necessario, quindi, attendere i tempi stabiliti perché Gesù venga compreso nella sua interezza e il credente sia in grado di accoglierlo nella sua vita, conformandola al mistero. E questi tempi vengono soltanto dopo che Gesù, terminato il suo ciclo storico, subirà la glorificazione della sua persona (™k nekrîn ™gerqÍ). Solo allora apparirà con chiarezza il senso del suo essere, della sua divinità e della sua messianicità. Solo allora le Scritture potranno essere ricomprese e acquisiranno un significato nuovo; solo allora, nel Risorto, la Legge e i Profeti troveranno il loro compimento. Il mistero, ora, deve essere avvolto nel silenzio di una imperfetta comprensione, che lascia intuire, ma non ancora raggiungere nella pienezza. Gesù apparirà risorto, infatti, soltanto dopo che i discepoli hanno compreso le Scritture, cioè dopo che essi hanno maturato, attraverso la riflessione sulla Parola, il senso della tomba trovata vuota. È significativo, infatti, quanto Giovanni commenta sulla scoperta della tomba vuota fatta dai discepoli: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa” (Gv 20,9-10). Tra la risurrezione di Gesù e la sua comprensione Giovanni pone di mezzo un tempo di riflessione, un tempo di ricomprensione delle Scritture. Prima che ciò avvenga la risurrezione è soltanto un'incomprensibile tomba vuota, che spinge a pensare ad un furto di cadavere (Gv 20,2b). Per questo i discepoli tornano a casa: non avevano ancora capito le Scritture. È l'identico cammino che i due discepoli di Emmaus hanno percorso, a loro volta, per arrivare a cogliere il Risorto. Soltanto dopo la rivisitazione e la ricomprensione delle Scritture (Lc 24,27.44-45), essi arriveranno a cogliere la vera dimensione del Gesù risorto, il mistero che si annidava in lui. Solo allora essi capiranno che il Gesù della storia, morto crocifisso, è veramente risorto. Non saranno le apparizioni a convincere i discepoli della risurrezione di Gesù, su cui nutrono parecchi dubbi e si dimostreranno incerti e titubanti35, ma il loro approccio alle Scritture36, la loro rivisitazione alla luce di un mistero che si è imposto nella loro vita.
Nell'attesa
che il mistero si compia è necessario il silenzio, perché il
mistero non venga banalizzato o rifiutato. Nel passo parallelo di
Marco, da cui dipende Matteo, l'evangelista significativamente
precisa che “[...]
essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse
dire risuscitare dai morti”.
Non c'era ancora il concetto di risurrezione, una realtà tutta da
scoprire e da capire. Nel frattempo, come sempre di fronte al
mistero, è necessario il silenzio finché il mistero si compia e il
cuore e la mente del credente, illuminato e preparato dalla Parola,
non sappia coglierlo e accoglierlo in sé.
vv.10-13: questa breve pericope è una sorta di forzatura narrativa molto intensa, che l'autore ha voluto inserire qui, immediatamente dopo la trasfigurazione, agganciandosi narrativamente al nome di Elia apparso al v.3; un aggancio narrativo francamente molto debole, in quanto il tema qui è completamente diverso da quello trattato dalla trasfigurazione e ben di più da quello del racconto successivo (vv.14-21). Perché, dunque, l'autore ha inserito questa breve pericope, che stride all'interno dell'economia narrativa? I motivi sono molteplici:
a) innanzitutto ha voluto rispettare la tradizione marciana, da cui dipende, e nel contempo quella lucana, che lega in termini espliciti la trasfigurazione alla passione e morte di Gesù (Lc 9,31);
b) ha voluto, poi, riempire un vuoto lasciato al v.3, dove non era stato detto l'argomento del dialogo di Mosè ed Elia con Gesù, cosa che invece Luca risolve precisando che i due parlavano dell'esodo di Gesù verso Gerusalemme, cioè della sua passione e morte (Lc 9,31);
c) ha voluto, inoltre, sottolineare, una volta di più, la natura messianica della figura di Gesù e lo ha fatto sia definendo Gesù con il titolo messianico di figlio dell'uomo (v.12b), sia creando una identificazione tra il Battista ed Elia (v.13), che secondo la tradizione, risalente ancora a Ml 3,23 (V sec. a.C.) e successivamente ripresa anche dal Sir 48,10, avrebbe dovuto precedere la venuta del messia. Il riferimento qui è reso esplicito dalla domanda che i discepoli pongono a Gesù (v.10). Non va tralasciato, poi, come questo accenno al messianismo di Gesù è collocato in un contesto di sofferenza e di morte (v.12b). Una questione questa mal digerita dai discepoli (vv.16,20-23). Matteo lo sa bene e per questo non perde l'occasione per sottolinearlo ulteriormente, aggiungendo inoltre un tocco di escatologia, che il ritorno di Elia portava con sé, nonché un tocco apocalittico, richiamato dal titolo di figlio dell'uomo, figura questa desunta dalla visione di Dn 7,13-14. La figura di Gesù, pertanto, è definita in termini di messianismo sofferente, incorniciato in un contesto apocalittico-escatologico.
Il
v.10 si richiama in
termini espliciti ad un'antica tradizione, che vedeva il ritorno di
Elia precedere negli ultimi tempi la venuta del messia. La credenza
trae la sua origine da un versetto di Malachia: “Ecco,
io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e
terribile del Signore, perché converta il cuore dei padri verso i
figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io venendo non
colpisca il paese con lo sterminio” (Ml 3,23-24). Il contenuto, dai
toni escatologici, è un forte richiamo alla conversione per
preparare il ritorno del Signore, evitandone il giudizio di condanna.
Un tema questo che richiama da vicino la predicazione radicale di
Giovanni (Mt 3,1-12).
Il v.11 riporta la prima parte della risposta di Gesù, che ha come soggetto Elia, che nel contesto dei vv.10-13 sembra richiamare la figura di Giovanni. Il richiamo al Battista, in realtà qui, è solo apparente, poiché la frase e il contesto, in cui questa viene posta, dice che il riferimento ad Elia è dato dalla persona stessa di Gesù e non da quella di Giovanni. Vi sono due elementi che lo indicano: a) il nome di Elia, a cui Gesù era riferito sovente dalla gente37; il fatto, quindi, che Gesù riferisca a se stesso tale figura non coglie di sorpresa il lettore, poiché il profeta Elia era una delle chiavi di lettura con cui si cercava di decifrare la persona di Gesù; b) i due verbi: Elia viene e restaurerà tutte le cose. Il primo è posto al presente indicativo, il secondo al futuro. Il primo verbo non può riferirsi al Battista, poiché nella dinamica narrativa egli era già morto (14,1-12). Quindi, quando Gesù parla il Battista già non c'era più e avrebbe dovuto pertanto usare un verbo al passato e non al presente. Infatti, quando si parlerà veramente del Battista, riferendolo ad Elia, il verbo viene correttamente posto al passato: “Egli è già venuto” (v.12a). Il secondo verbo è posto al futuro e indica l'azione conseguente alla venuta di questo Elia, un'azione che ha che vedere non con una conversione, ma con una nuova creazione: restaurerà tutte le cose, le rimetterà nel loro stato primitivo. È questo il senso del verbo “¢pokatast»sei” (apokatastései); un'azione rigeneratrice e restauratrice che richiama da vicino Ap 21,5a: “E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>”. Similmente, Paolo scrivendo alla sua comunità di Corinto, nell'ambito di una grandiosa visione escatologica intesa a sottolineare il senso e la potenza della risurrezione, affermava che tutte le cose saranno sottoposte al Risorto, egli poi si sottoporrà al Padre così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,23-28). Ricondurre, quindi, tutte le cose in seno al Padre per mezzo della loro ricapitolazione in Cristo (Ef 1,10), questo è il senso del verbo apokatastései, che verrà attuato attraverso la morte e risurrezione dell' “Elia che viene”.
Il v.13 costituisce la chiusura di questa breve e molto intensa pericope e fornisce la chiave di lettura del v.12, rendendo chiaro e inequivocabile il riferimento alla figura del Battista-Elia, a cui è associata quella di Gesù.
vv.14-21: già si era detto nell'introduzione al presente cap.17 come questa pericope fosse il cuore del capitolo stesso, attorno al quale ruota, ancora una volta, la questione sia della filiazione divina di Gesù e della sua divinità (vv.1-9.24-27), sia quella del suo messianismo sofferente (vv.10-13.22-23); due questioni sempre aperte e che hanno inferto, all'interno della comunità matteana e giudeocristiana in genere, una ferita mai pienamente e definitivamente rimarginata. In tal modo il cap.17 viene ad essere la sintesi di questo terzo intermezzo.
La pericope in esame (vv.14-21) è una sorta di metafora della stessa comunità matteana38, racchiusa nel suo dubbio persistente, che la fa altalenante nella sua fede. Essa, infatti, è paragonata ad un lunatico che va ora nel fuoco e ora nell'acqua, va di qua e va di là, vagando nella sofferenza del suo dubbio e delle sue incertezze. Solo la fede nella parola liberatrice di Gesù può guarirla e renderla a sua volta capace di essere essa stessa guaritrice.
La struttura del racconto, particolarmente curata, si suddivide in cinque parti:
a) v.14: cornice introduttiva;
b) vv.15-16: presentazione della questione: un padre ha un figlio lunatico, che preso da attacchi improvvisi ora si butta nel fuoco ora nell'acqua; a causa di ciò soffre molto. I discepoli di Gesù non sono in grado di guarirlo;
c) v.17: la sentenza di Gesù che condanna l'incredulità di un popolo da cui provengono e a cui sono associati i suoi stessi discepoli;
d) v.18: la guarigione operata per mezzo della parola;
e) vv.19-21: la catechesi che insegna la cura per guarire dall'incredulità e dalla durezza di cuore: fede, preghiera e digiuno.
Ciò che caratterizza l'intera pericope è l'invadente e penetrante presenza della parola: parla a lungo il padre, parla ripetutamente e a lungo Gesù, parlano i discepoli. Tutti parlano. Con questo escamotage l'autore evidenzia la centralità della parola, ma quale differenza. Vi sono parole di uomini, piene di dubbi e di incertezze (v.15), incapaci di dipanare qualsiasi matassa in cui sono aggrovigliati (v.16); e parole di Gesù, potenti e liberanti (v.18). Tante parole si muovono all'interno della comunità matteana e del mondo giudeocristiano, tante discussioni, tanti dibattiti, tanti problemi, che li spingono di qua e di là in una continua contrapposizione, ma l'unica parola capace di guarire, di illuminare e di liberare è quella di Gesù. A questa si deve guardare (v.17b). Come dire: non serve discutere su Gesù, sul suo messianismo sofferente e sulla sua divinità, poiché non si arriva a niente se non a divisioni interne. Ciò che serve è soltanto la fede (v.20), unica in grado di raggiungere il mistero racchiuso nella persona di Gesù.
Il
v.14
forma da stacco con il racconto precedente, introducendo il lettore
in una nuova unità narrativa, fungendo nel contempo da cornice
introduttiva al racconto stesso. Da un lato Gesù e i discepoli sono
giunti in mezzo alla folla; dall'altro un uomo, il cui anonimato è
garantito dalla generalità del termine con cui è definito: ¥nqrwpoj
(àntzropos).
Pur nel suo anonimato, che lo rende universale e in cui tutti possono
rispecchiarsi, questo uomo viene qualificato da due movimenti: va
verso Gesù, si avvicina a lui (prosÁlqen
aÙtù,
prosêltzen
autô)
e, dopo essersi avvicinato, cadde in ginocchi davanti a Gesù.
Vedremo, poi, al v.15, come questo uomo si rivolgerà a Gesù con una
formula propria della liturgia cristiana: “Signore, abbi pietà”.
Matteo con tre tocchi magistrali dice al suo lettore che qui sta
parlando della sua comunità, cioè di coloro che. dopo essersi
avvicinati a Gesù, cioè dopo essersi convertiti a lui (questo
richiama il verbo “prosÁlqen
aÙtù”),
hanno riconosciuto la sua grandezza, a cui si rivolgono e cadono in
ginocchio davanti a lui, invocandolo come il Signore. Si noti come
Matteo per dire “cadere in ginocchio” non usa il verbo
“proskunšw”
(proskinéo),
che significa prostrarsi e implica in se stesso un concetto di
adorazione e, quindi, di riconoscimento della divinità di Gesù, ma
il verbo “gonupetšw”,
che significa più semplicemente cadere in ginocchio davanti a
qualcuno, riconoscendo in questi un essere superiore a se stessi, ma
non necessariamente divino. Con questi piccoli accorgimenti letterari
l'autore probabilmente ha voluto sottolineare lo stato d'animo della
sua comunità, che aveva aderito a Gesù, ma in lui riconosceva
soltanto un grande personaggio, in cui riporre le proprie speranze,
ma nulla di più; così che anche l'invocazione “Signore, abbi
pietà” non assume un significato di riconoscimento della divinità
di Gesù, ma soltanto quello di una sua superiorità.
Il
v.15
entra nel vivo della questione: qui ci troviamo di fronte ad un padre
che intercede per il proprio figlio, definito come lunatico, che
spesso cade nel fuoco e spesso nell'acqua e che per questo è uno
sciagurato. L'espressione “kakîj
p£scei”
(kakôs
páschei),
infatti, non significa soltanto un soffrire malamente, ma anche
essere uno sciagurato, un disgraziato, definendo un modo di essere e
di comportarsi. Il termine lunatico parla di un individuo instabile,
volubile e tale che spesso va da una parte e dall'altra, passando dal
fuoco all'acqua, due elementi che definiscono gli estremi opposti e
che predicano l'incompatibilità reciproca. In questo contesto il
padre sembra essere la figura stessa di Matteo o del pastore, che
supplica e prega il suo Signore per una comunità che è
sostanzialmente spaccata in due: chi crede con fervore e chi invece è
scettico; ma in entrambi i casi vi è una profonda instabilità,
poiché si passa spesso dal fuoco della fede in Gesù, ad un totale
scetticismo nei suoi confronti, come messia sofferente e figlio di
Dio. Il dubbio mina la loro fede, spinge all'incostanza e spegne la
fede stessa.
Il
v.16
chiude la supplica del padre ed esprime tutta l'amarezza e
l'impotenza degli stessi pastori, incapaci di convertire nella
sincerità dei cuori un popolo dalla dura cervice, incapaci di
trasmettere la fede nella sua interezza ad un popolo duro di cuore,
chiuso nelle sue sicurezze, incapace di aprirsi, in ultima analisi,
alla salvezza proveniente da Gesù, il messia sofferente, figlio di
Dio e Dio lui stesso. Una volubilità di fede, una durezza di cuore e
una chiusura alla grazia, che l'autore non esita ad associare ad una
possessione demoniaca (v.18).
Il v.17 riporta la risposta di Gesù, dura e drastica, che nel tono profetico e nei contenuti si richiama alle Scritture; parole che l'agiografo aveva attribuito a Dio ed erano rivolte contro l'infedeltà e la durezza di cuore del popolo; esse acquisiscono, pertanto, anche la valenza di un'accusa e di un giudizio divino: “Generazione incredula e perversa39, fino a quando sarò con voi?40 Fino a quando vi sopporterò?41 Portatemelo qui”. Il fatto che Matteo metta in bocca a Gesù queste parole proprie di Jhwh dice come oggi si stia ripetendo la situazione di allora e che questo popolo è il degno figlio dei suoi padri; ma nel contempo afferma anche come Gesù abbia preso il posto di Jhwh e che le sue parole fluiscono da Dio stesso, evidenziandone, una volta di più, la sua provenienza divina. Si pone, dunque, un confronto tra il passato e il presente per constatare amaramente come il presente riproduce in sé il passato. Il tema verrà ripreso all'interno del cap.23, il più duro e il più polemico del vangelo matteano (Mt 23,29-31.37).
La sentenza si chiude bruscamente con un comando: “Portatemelo qui”. L'imperativo alla seconda persona plurale dice che il discorso si è spostato dal padre alle folle e ai discepoli, a queste associati per la loro incredulità, che li ha resi incapaci di trasmettere salvezza (v.16). Il figlio deve essere, dunque, portato a Gesù; è lui, ancora una volta il centro da cui promana la salvezza e la forza rigenerante, capace di trasformare l'incredulo in credente. Una frase simile Gesù l'aveva pronunciata nella prima moltiplicazione dei pani (14,15-21): “Portatemeli qui” (v.14,18), in riferimento ai pani. Da lui questi pani, resi fecondi di vita con la sua benedizione, furono in grado di sfamare le folle. Gesù, dunque, si conferma ancora una volta il centro propulsore di vita e di forza trasformante e rigenerante. È interessante notare come l'espressione “Portatemelo qui” è reso in greco con il verbo fšrw (féro): “fšretš moi aÙtÕn” (féreté moi autón), un verbo di movimento che presupporrebbe dopo di sé una particella, che indichi un moto verso luogo (e„j, prÒj, eis, pros) e che, invece, è reso con il dativo, segno che il verbo non dice più movimento, ma assume significati diversi ed esprime un senso di appartenenza come il procurare, procacciare, l'apportare, l'appartenere, l'essere di pertinenza di qualcuno42. Il comando di Gesù, dunque, sollecita i pastori a ricondurre a lui ciò che gli appartiene, ma è anche nel contempo un ricordare alla comunità matteana come essa appartiene a Gesù e che pertanto deve lasciarsi ricondurre a lui in una fede piena e matura, che non conosce più dubbi, incertezze, titubanze e volubilità.
Il
v.18,
scarno ed essenziale, è scandito in tre momenti:
a) Gesù rimprovera il demonio
b) questo esce
c) il fanciullo fu guarito
La sobrietà del versetto esprime tutta l'efficacia della parola, la cui natura dice il tipo di intervento che viene operato sul demonio. Se è vero che il verbo ™pitim£w (epitimáo) significa rimproverare, biasimare, tuttavia esso possiede in sé anche il senso di ingiungere, dare ordine, infliggere una sentenza di condanna. Non si tratta, dunque, di un benevolo richiamo all'ordine, ma di una dura azione di respingimento e di giudizio di condanna, che non lascia spazio a dialoghi tra Gesù e il demonio. L'efficacia della parola viene evidenziata dalla immediata esecuzione del comando: il demonio uscì da lui. Tra il dire di Gesù e l'uscire del demonio non vi sono intermezzi narrativi, ma l'azione è subito conseguente alla parola, ne è un suo effetto. Una dinamica questa che richiama da vicino il primo atto creativo, in cui il dire di Dio produce immediatamente la luce (Gen 1,3). Ci troviamo di fronte qui non ad una semplice parola, ma ad un dabar, cioè ad una parola che è azione concreta, azione creativa, che produce quello che dice (Eb 4,12). Una simile caratterizzazione della parola nel mondo ebraico era riservata soltanto a Dio. Significativa, infine, è la conclusione del miracolo: “da quel momento il fanciullo fu guarito”. “Da quel momento”: la guarigione, dunque, ha inizio dal pronunciamento della parola e trova la sua origine nella parola stessa di Gesù (Sal 106,20), così come l'intera creazione ha avuto origine dal dire di Dio43 (Sal 32,6). Non si tratta qui di un mal di pancia guarito, ma di un'azione divina finalizzata a rigenerare l'uomo a Dio. Il verbo “™qerapeÚqh” (etzerapeútze), infatti, è posto all'aoristo passivo. Si tratta di un aoristo di tipo incipiente, che coglie l'azione nel suo nascere (da quel momento), agganciandola in tal modo alla parola stessa; e in quanto verbo al passivo44 dice che questa azione defluisce da Dio.
Un
miracolo questo che, letto nel contesto del cap.17, assume una
valenza metaforica: l'incredulità pervicace dei giudeocristiani
nella divinità di Gesù e nel suo messianismo sofferente ha un
qualcosa di diabolico, che può essere guarito soltanto
dall'accogliere in sé la parola liberante e rigenerante di Gesù.
I vv.19-21 costituiscono una sorta di riflessione catechetica sul racconto dell'esorcismo, che affronta la questione della poca fede che affligge gli stessi discepoli, quelli più intimi, che potremmo pensare come i collaboratori di Matteo all'interno della sua comunità, senza però escludere da questa breve catechesi le masse dei convertiti.
Il v.19 è scandito in due momenti: nella prima parte l'autore presenta la natura dei discepoli: essi sono coloro che si avvicinano a Gesù e hanno un rapporto privilegiato con lui (in disparte); nella seconda parte viene posta la questione del loro fallimento: perché non sono riusciti a vincere il demone dell'incredulità. Perché, dunque, loro che hanno un rapporto particolare con Gesù e hanno deciso la loro vita per lui non riescono a cacciare questo tipo di demone in mezzo alla comunità, di cui sono in qualche modo responsabili.
La risposta di Gesù è articolata in due momenti: diagnosi (v.20a) e prognosi (vv.20b-21). La diagnosi è presto detta: “Per la vostra poca fede”, come dire che se loro, i discepoli, per primi non hanno una fede convinta nella divinità e nella messianicità sofferente di Gesù non saranno affatto convincenti neanche davanti agli altri, poiché non si può trasmettere ciò che non si ha. Non a caso Gesù, proprio sulla questione della sua divinità e del suo messianismo sofferente, definisce Pietro un satana e un inciampo (16,23); non a caso l'autore termina il suo vangelo rilevando che proprio tra i discepoli più intimi vi erano ancora molti dubbi sulla divinità onnipotente di Gesù (28,17b). E che qui Matteo stia puntando il dito contro i pastori o contro i suoi più stretti collaboratori lo si evidenzia sia dal fatto che questi non sono solo coloro che si sono avvicinati a Gesù, la quale cosa li renderebbe dei semplici discepoli, ma essi sono anche in disparte, cioè non appartengono alla massa dei convertiti, ma ne sono in qualche modo responsabili. La prima questione, dunque, è la loro poca fede, che non riesce a sostenerli nella loro azione pastorale. La pochezza della loro fede è ora quantificata in una misura inferiore ad un granello di senape, che già di per sé è molto piccolo; come dire che la loro fede è inconsistente, molto vicina allo zero. I primi a non crederci, dunque, sono loro, i pastori, i collaboratori. Primo rimedio, dunque, è rinforzare la fede nella divinità e nella messianicità sofferente di Gesù; essere intimamenti convinti che quell'uomo lì è Dio e ha la sua origine stessa in Dio; essere convinti che il messianismo sofferente rientra nel piano salvifico del Padre. Per poter accedere a questo tipo di fede è necessario rinnegare se stessi, cioè abbandonare gli antichi schemi della Legge mosaica e delle sue attese messianiche, ed essere pronti a testimoniare ciò con la propria vita fino alla croce (16,24).
Il v.21 completa la cura: preghiera e digiuno. È un'antica formula, in vigore sia nell'A.T. che nella chiesa primitiva; una formula che sta all'origine della vera conversione e che consente di accedere nelle benevolenze divine e al suo aiuto45. Preghiera e digiuno sono due elementi che nella loro dinamica sono molto efficaci, perché da un lato spingono l'uomo a liberarsi di se stesso (digiuno) e dall'altro ad elevarsi verso Dio e il suo mistero (preghiera), mentre la fede apre incondizionatamente il credente al suo Dio e lo predispone ad accoglierlo nella sua vita, conformandola alle sue esigenze. Un'operazione questa molto vicina e parallela all'esortazione di Gesù, che nel dettare le regole della sua sequela (16,24), sollecita a rinnegare se stessi (nella nostra fattispecie si parla di digiuno) e di seguirlo, cioè a conformarsi a lui e alle sue esigenze (nella nostra fattispecie si parla di preghiera, che eleva a Dio e predispone ad accoglierlo nella propria vita, creando un flusso vitale tra Lui e noi).
Una piccola catechesi, dunque, contro l'incredulità, che si presenta anche come una sintetica ed efficace lezione di elevazione spirituale, di cui ogni pastore e catecheta, posti in mezzo alla comunità, dovrebbero essere riforniti, nella coscienza che nihil datur quod non habetur, non si può dare, non si può trasmettere ciò che non si possiede. Forse anche questo è una concausa della grave crisi in cui versa oggi il cristianesimo nel mondo occidentale.
I
vv.22-23
riportano il secondo annuncio della passione. Esso viene collocato
immediatamente dopo il richiamo di Gesù sulla necessità di vincere
la propria incredulità, aprendosi in modo accogliente al disegno di
Dio per mezzo della fede in Gesù e attraverso la spogliazione dai
vincoli della Legge mosaica (digiuno) e il proprio riorientamento
spirituale verso il Dio di Gesù (preghiera). Soltanto in tal modo il
nuovo credente può rendersi disponibile a comprendere
l'apparentemente assurdo disegno di Dio, che si sta compiendo su Gesù
(1Cor 1,22-25).
In questi tre annunci della passione vi è una logica progressiva, che lascia intendere come Gesù abbia condotto una profonda catechesi di convincimento sui propri discepoli, per poterli allineare al disegno del Padre su di lui. Innanzitutto vi è una progressione geografica di avvicinamento a Gerusalemme: il primo annuncio viene compiuto, infatti, a Cesare di Filippo, nella Traconitide (16,13), luogo della manifestazione di Gesù come messia sofferente e come figlio di Dio. Siamo qui all'estremo nord della Palestina, ai confini con la Siria. Il secondo annuncio avviene in Galilea, in una località sconosciuta, a sud di Cesarea di Filippo. Siamo quindi in una fase discendente; il terzo annuncio si compie in Giudea, mentre il gruppo dei discepoli con Gesù sta salendo verso Gerusalemme (20,17-19), luogo dove si compiono i misteri della salvezza e dove il Risorto apparirà nella compiutezza della gloria di Dio. Vi è una progressione nel diverso modo di relazionarsi dei discepoli nei confronti di Gesù: dopo il primo annuncio, vi è solo Pietro, quale rappresentante del gruppo, che si oppone a Gesù, mentre gli altri sono adombrati nell'anonimato e distaccati dal loro Maestro; nel secondo annuncio l'autore rileva come i discepoli, invece, si sono stretti tutti attorno al loro Maestro (Sustrefomšnwn de aÙtîn, Sistrefoménon dé autôn); ed infine, nel terzo annuncio, mentre stanno salendo a Gerusalemme, Gesù prende con sé i discepoli, rendendoli partecipi della sua passione e morte. Vi è, infine, una progressione di maturazione nella comprensione del disegno del Padre su Gesù da parte dei discepoli: a Cesarea di Filippo, dopo il primo annuncio, vi è un atto di ribellione da parte di Pietro e dei discepoli, che ritengono inaccettabile il compiersi di un messianismo sofferente e umanamente perdente (16,22). Siamo di fronte ad un netto rifiuto dei discepoli e ad una dura presa di posizione da parte di Gesù. La reazione dei discepoli dopo il secondo annuncio è molto mitigata: “Ed essi furono molto addolorati” (17,23b). Siamo di fronte ad una sorta di intima sofferenza, che lascia intravvedere come non ci sia ancora una piena accettazione, ma non c'è più l'aperta ribellione, il rifiuto, l'opposizione del primo annuncio. Ed infine, il terzo annuncio, dopo il quale l'evangelista non rileva più nessuna reazione da parte dei discepoli, ma precisa che Gesù mentre saliva a Gerusalemme prese con sé (paršlaben, parélaben) i suoi discepoli. Giunti quindi alla fine del viaggio catechetico scandito dai tre annunci, Gesù prende con sé, cioè associa alla sua passione e alla sua morte i dodici, che ormai si sono affiancati al loro maestro, pronti a condividerne la sorte e ad allinearsi al disegno del Padre, che ha voluto fare del suo Figlio un messia sofferente.
Il v.22a si apre con un cambio di scena: “Mentre essi erano riuniti in Galilea, Gesù disse loro: ...”. I discepoli sono riuniti in Galilea, in un luogo imprecisato. È significativo come questo secondo annuncio avvenga in Galilea, che in questo cammino tra Cesarea di Filippo e Gerusalemme si pone in una posizione centrale e, quindi, di importanza. La Galilea, infatti, è il luogo dove Gesù ha stabilito il suo quartiere generale (Cafarnao: Mt 4,13) e da dove è partita la sua azione missionaria verso l'intera Palestina e le zone limitrofe (Mt 4,23-25; Lc 23,5). È il luogo dove il Risorto darà appuntamento ai suoi e consegnerà loro il mandato di proseguire la sua missione presso tutte le genti (Mt 28,7.18-20); ed è il luogo da dove partirà l'azione missionaria della chiesa primitiva (Mt 28,16-20).
Il
verbo che qui Matteo usa è “Sustrefomšnwn”.
Si tratta di un verbo un po' particolare, che parla di raggruppare,
unificare, di stringere insieme. Un verbo che è composto dalla
preposizione sun
(con,
insieme, assieme) e dal verbo stréfw
(stréfo),
che significa volgere, mutare, cambiare e in Mt 18,3 è usato
esplicitamente per indicare la conversione (™¦n
m¾ strafÁte,
eàn
mé strafête,
se non vi convertirete). Il verbo composto (sun
+
stréfw
), pertanto, parla del gruppo dei discepoli che si sono ritrovati e
stretti attorno al loro Maestro, lasciando intravvedere in ciò una
avvenuta conversione, benché, come vedremo subito, non ancora
pienamente compiuta.
Il v.22b riporta il secondo annuncio della passione in una forma sintetica, concisa, essenziale, stringata nel suo modo di esprimersi, rispetto agli altri due annunci dove, invece, si scende nei dettagli e si parla di Gerusalemme, degli anziani, dei sommi sacerdoti, degli scribi e dei pagani che lo scherniscono e lo flagellano per poi crocifiggerlo46. È probabile, quindi, che questo annuncio, a motivo della sua sobrietà, sia quello originario47, su cui sono stati poi costruiti gli altri due: “disse loro Gesù: <<Il figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno e il terzo giorno sarà risuscitato>>”.
L'annuncio ha come soggetto unico Gesù, che Matteo definisce con il titolo messianico “figlio dell'uomo”, collocato in un contesto di sofferenza e di morte. Torna, quindi, ancora una volta, la sottolineatura del messianismo sofferente di Gesù, che tanto scandalizza il giudeocristianesimo e ne rende difficoltosa la fede. L'annuncio viene posto sotto il segno dell'imminenza con il verbo “Mšllei” (Méllei, sta per) e spinge in tal modo i discepoli ad un rapido cambio di mentalità e ad allinearsi subito al compiersi del disegno del Padre su Gesù; un disegno che se nel primo annuncio è stato richiamato dal verbo “de‹” (deî, deve, bisogna, è necessario), qui viene sottolineato dai due verbi posti al passivo teologico o divino (parad…dosqai e ™gerq»setai), che nel linguaggio biblico neotestamentario indica l'agire di Dio. La passione e la morte di Gesù, così come la sua risurrezione sono poste sotto il potere di Dio, che crea e domina gli eventi della salvezza.
Un'attenzione va posta sul verbo “parad…dosqai” che, seguito dalla particella “e„j”, assume un significato di dare in balìa di qualcuno. A motivo del verbo al passivo, si deve dire che il Padre consegna il proprio Figlio in balìa degli uomini, spogliandosene, quale atto di amore e di donazione totale di sé nel Figlio. Per due volte, infatti, Gesù viene definito come figlio prediletto in cui il Padre ha riposto il suo compiacimento (3,17; 17,5b). Il verbo “parad…dosqai”, quindi, sottolinea l'amore totale del Padre per gli uomini ai quali ha fatto dono del proprio figlio “consegnandolo in loro balìa”, quasi una rinuncia al proprio figlio, uno spogliarsene in favore degli uomini. Un atto questo che Giovanni sottolineerà nel suo vangelo, indicandone anche le finalità: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Ma il dono in sé e per sé non ha alcun significato salvifico se non fosse seguito dalla risurrezione (1Cor 15,14.17), in cui trova il suo compimento e dalla quale riceve tutta la sua forza salvifica. Il verbo risorgere è posto qui ancora una volta al passivo (™gerq»setai, eghertzésetai), per evidenziare come il dono del Figlio a favore degli uomini e la risurrezione dello stesso fanno parte di un unico progetto salvifico, il cui autore è il Padre stesso; e Lui che aiuta a leggere la storia della salvezza come la storia di un dono, che traspare dalla proesistenza di Gesù e trova il suo definitivo compimento nella risurrezione, in cui è racchiusa la speranza dell'umanità.
vv.24-27: questo raccontino, dal ritmo narrativo gradevole, chiude il dibattito sulla tematica del messianismo sofferente di Gesù, sulla sua figliolanza divina e sulla sua stessa divinità, che ha costituito il leit-motiv di questo terzo intermezzo narrativo (14-17). Un racconto che apparentemente non sembra aver nulla a che fare con queste questioni. Sembra quasi un racconto messo qui, alla fine, per smorzare le tensioni dottrinali, che hanno appesantito non poco questo terzo intermezzo. Si tratta di una piccola e amena diatriba circa la questione delle tasse, che Pietro, quasi colto alla sprovvista dagli esattori, tenta timidamente di giustificarsi (v.25a). Ma l'autore non è il tipo da storielle: è molto preoccupato per la sua comunità, che gli sta dando notevoli problemi circa la natura di Gesù; è preoccupato perché i giudeocristiani della sua comunità non sono ancora in grado di dare una svolta decisiva alla loro conversione, staccandosi definitivamente dal giudaismo, ma coniugano questo con la nuova fede; è preoccupato per il clima di tensione e di ostilità da cui è oggetto la sua comunità e per le forti polemiche che animano i suoi rapporti con il mondo esterno e che si agitano anche all'interno della sua stessa comunità. Se, dunque, Matteo inserisce al termine del cap.17 questo raccontino è perché deve completare il tema della figliolanza divina di Gesù. Gesù, infatti, è stato riconosciuto e dichiarato Figlio di Dio dalla sua comunità (14,33); riconosciuto messia e Figlio di Dio da Pietro (16,16); è stato dichiarato tale direttamente dal Padre (17,5). Ora all'autore manca solo l'ultimo tassello per completare il ciclo sulla figliolanza divina di Gesù: la dichiarazione da parte di Gesù stesso che egli è Figlio di Dio. Lo fa ora, quasi di soppiatto, con questo breve racconto, la cui interpretazione, a nostro avviso, va fatta, tenendo conto del contesto entro cui è collocato e tenendo conto che questo racconto è soltanto di Matteo, per cui se l'evangelista lo inserisce in esclusiva qui significa che gli attribuisce un valore particolare, che va ricavato tenendo in considerazione il contesto in cui il racconto è posto.
La costruzione del racconto è tutta incentrata sulla sentenza finale di Gesù: “Quindi i figli sono liberi” (v.26b) e l'intera dinamica narrativa è finalizzata a mettere in rilievo il senso di tale sentenza. Nulla di importante e di rilevante possiede questa breve pericope se non la dichiarazione di Gesù.
Il racconto parla di una riscossione di tasse operata da alcuni esattori nei confronti di Gesù. Di quale tassa si tratti non è dato di sapere. Si ipotizza che si tratti della tassa annuale a favore del Tempio48, ma tre elementi, a nostro avviso, depongono a sfavore di tale ipotesi: a) quando Matteo scrive questo intermezzo la distruzione del Tempio era già avvenuta da alcuni decenni49 e questa tassa a favore del tempio ormai non esisteva più e non sarebbe stata più comprensibile ai suoi interlocutori. Si porrebbe, quindi, una questione che non riguarda più nessuno; b) al v.25, poi, si parla di tributi e di censo che i re della terra riscuotono. Non vi è alcun accenno al Tempio; il rifermento qui è meramente politico e di potere (si parla di re della terra). Forse Matteo con questa ultima osservazione allude, molto probabilmente al fiscus judaicus, che aveva sostituito la tassa del Tempio a partire dal 70 d.C.50 e il cui valore era appunto di due dramme; c) va, infine, considerato, sempre al v.25, l'uso del termine grecizzato “censo” (kÁnson, kênson), ma di origine latina, che indicava presso i Romani l'elenco ufficiale delle famiglie con la valutazione dei loro beni, che veniva rinnovato periodicamente51.
Il racconto, poi, non sembra essere realmente accaduto, ma inventato dall'autore per rafforzare la fede della sua comunità nella figliolanza divina di Gesù. Il racconto, quindi, è strumentale. Alcuni elementi sembrano deporre a favore della sua non storicità: a) gli esattori si rivolgono a Pietro e non a Gesù, che tuttavia sembra essere lì presente. Segno questo che la figura di Pietro sta prevalendo su quella di Gesù, ormai scomparso. È Pietro, quindi, l'interlocutore della comunità, mentre Gesù risulta essere, qui, soltanto un punto di riferimento: “Il vostro maestro non paga il didramma?”; b) l'escamotage del pesce con la moneta in bocca, il cui valore è giusto quello che serve per pagare la tassa, più che un miracolo vero e proprio è meglio assimilabile ad una storiella di tipo popolare52. Manca, infatti, la parte conclusiva del miracolo, che prova quanto Gesù aveva detto. L'accento, inoltre, non cade sul fatto portentoso del ritrovamento della moneta, ma sulla sentenza finale di Gesù. Tutto il racconto è stato costruito in modo convergente su di essa; c) il fatto, poi, che sia solo Matteo a riportare questo racconto non depone a favore della sua storicità53.
Il v.24 apre una nuova scena, introducendo il lettore, in un diverso contesto narrativo: i discepoli e Gesù entrano a Cafarnao e subito si fanno incontro a loro “quelli che riscuotono i didrammi54” (oƒ t¦
d…dracma lamb£nontej, oi tà dídracma lambánontes). La scena è verosimile perché il banco delle imposte era normalmente piazzato in posti strategici, che i residenti e i viandanti non potevano evitare, come una porta di entrata in città, un ponte, una strada pubblica principale. Nel nostro caso la postazione degli esattori doveva essere situata presso il lago di Tiberiade, sull'importante strada carovaniera che entra in Galilea da Damasco55; il gruppo, infatti, proveniva dai dintorni di Cesarea di Filippo (16,13), posta ai confini con la Siria e, quindi, probabilmente stava percorrendo questa strada. Si noti come gli esattori stranamente non si rivolgono a Gesù, lì presente, ma a Pietro. Un segnale questo che sembra indicare come questa scena si collochi in un tempo postpasquale, in cui predominante è la figura di Pietro. Si noti, inoltre, un altro particolare, probabilmente finalizzato a dare rilevanza alla figura di Pietro: nel v.22 si dice che il gruppo dei discepoli con Gesù era giunto a Cafarnao, ma poi lo statere è pagato soltanto da Gesù e da Pietro (v.26c), tutti gli altri sono scomparsi, eppure l'imposizione valeva per tutti. Di certo non è stata una svista dell'autore, che, invece, ha voluto sottolineare l'importanza di Pietro all'interno delle comunità credenti, associandolo alla figura stessa di Gesù: “... dalla a loro per me e per te”. Sempre in tal senso è, poi, significativa la sottolineatura che Pietro sta entrando nella casa, mentre Gesù sembra restarne fuori (v.25a). Pietro, qui, non sta entrando “in casa”, ma “nella casa” (e„j t¾n o„k…an, eis tén oikían). L'articolo determinativo indica che non si tratta di una casa qualsiasi, ma della comunità credente. Sovente, infatti, il termine casa nei vangeli acquista la valenza simbolica e metaforica della comunità messianica56. Non varia in alcun modo di significato anche se si pensasse che l'articolo determinativo indichi la casa di Pietro, visto che i discepoli e Gesù si trovano a Cafarnao (v.24a). In questo caso “casa di Pietro” è soltanto una variante per indicare la comunità credente. Comunque sia l'immagine qui riportata da Matteo sembra voler sottolineare la centralità di Pietro all'interno della comunità. Un elemento questo importante per la comunità matteana, al cui interno, come si è visto sopra (cap.16), era frequentata da giudeocristiani giudaizzanti (Ebioniti), che tenevano in gran considerazione Pietro come loro punto di riferimento, ma non credevano nella divinità di Gesù. Matteo, una volta di più, sembra indicare a costoro come la vera comunità credente è quella dove abita Pietro (v.25a), che ancora una volta associa a Gesù (v.26c). Ed è proprio nel frangente in cui Matteo indica la sua comunità come quella abitata da Pietro, che introduce, per l'ultima volta in questo terzo intermezzo, la questione della figliolanza divina di Gesù.
Il
v.25 riporta il
quesito che Gesù pone a Pietro: “Che cosa ti sembra Simone? I
re della terra da chi
prendono i tributi e il censo? Dai loro
figli o dagli altri?”.
Il quesito è finalizzato a preparare la risposta di Gesù. Si parla
di figli dei re della terra. Questa espressione costituisce il punto
cardine del quesito, poiché forma il parametro di raffronto che poi
Gesù applicherà a se stesso.
Il
v.26 è il punto
centrale del raccontino e contiene l'autoproclamazione di Gesù quale
Figlio di Dio57:
è lui il figlio del re. Il tributo, infatti, non è chiesto a Pietro
o ai discepoli, ma soltanto a Gesù (v.24b), benché poi Matteo
associ al pagamento anche Pietro, per sottolineare il binomio
Gesù-Pietro e, quindi, la loro identità all'interno della comunità.
Già lo aveva fatto al v.14,32, quando Gesù e Pietro, assieme,
salgono sulla barca. Essendo, dunque, soltanto Gesù l'interpellato
ai fini della tassa e vertendo il quesito da chi prendono i tributi i
re, è evidente che la sentenza di Gesù “Dunque i figli sono
liberi”, fa riferimento soltanto a se stesso, dichiarandosi in tal
modo figlio del Re, cioè di Dio. Non di rado, infatti, nell'A.T. Dio
è riconosciuto, invocato e celebrato come re e sovrano, che domina
sopra ogni cosa58.
Il v.27 conclude il raccontino con una sorta di accomodamento, noi diremmo pro bono pacis: “Per non scandalizzarli […] dopo averlo preso, dàllo a loro per me e per te”. Potremmo tradurre questo con “Per non scandalizzarli … adeguiamoci alle esigenze degli uomini”; come dire che Gesù, pur essendo Figlio di Dio e, in quanto tale, è decisamente superiore alle regole degli uomini, tuttavia si adegua ad esse e continua a vivere come un semplice uomo, che si muove tra uomini, pur nella sua piena divinità nascosta e resa impenetrabile dalla sua umanità. Risuona qui la logica delle tentazioni: “Se tu sei Figlio di Dio” fallo sapere a tutti con prodigi e con potenza (4,3-11); “Se sei il Figlio di Dio scendi dalla croce” (27,40). Ma Gesù ha scelto la via dell'umiltà, la logica del sofferente Servo di Jhwh; egli, infatti, “[...] pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Giovanni Lonardi
N O T E
2 Cfr. Mt 10,2; 17,1; Mc 1,29; 5,37; 9,2; 13,3; 14,33; Lc 6,14; 8,51; 9,28; At 1,13;
3 Cfr. il lemma “paralamb£nw” in Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco – Italiano, Ed. Società editrice Dante Alighieri, Roma 1993.
4 Il verbo greco “¢nafšrei” (anaférei) letteralmente significa “portare su”.
5 Isaia nella sua visione escatologica e messianica degli ultimi tempi sottolinea proprio questo aspetto dell'elevatezza e della sublimità del monte del Signore, che si imporrà al di sopra di tutte le altre divinità e verso il quale tutte le genti affluiranno: “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti” (Is 2,2)
6 Cfr. Mc 4,11; Rm 16,25; Ef 1,9-10; 3,3-5.8-12; Col 2,2; 4,3.
7 Cfr. Nm 6,25; Sal 4,7; 43,4; 88,16; 89,8;
8 Cfr. Dn 7,9; Mt 17,2; 28,3; Mc 9,3; 16,5; Lc 9,29; Gv 20,12; At 1,10; Ap 1,14; 3,4; 4,4; 6,11; 20,11. - Cfr. anche A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, e la voce “Bianco” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici. Tutte le opere citate.
9 Cfr. la voce “abiti” in M. M.Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.
10 Cfr. Es 33,11; Dt 34,10; Sir 45,5
11 Gezabele fu figlia di Et-Baal, re-sacerdote di Tiro e Sidone. Fu data in sposa ad Acab, re d'Israele per 22 anni (874-852 a.C.), per stringere un'alleanza tra Tiro ed Israele ed appianare, in tal modo, dissensi e ostilità sorti tra Israele e Damasco. Acab acconsentì che Gezabele continuasse ad adorare le sue divinità pagane anche in Samaria, sua nuova patria. Gezabele, dal temperamento molto focoso e determinato, coltivò con forza il culto al dio Melkart, Baal di Tiro. Pretese che 450 profeti di questa divinità e altri 400 profeti della dea Ashera fossero mantenuti a corte e si impose affinché alle sue divinità fosse riservato lo stesso trattamento riservato a Jhwh. Queste sue pretese e arroganze la pose in diretto conflitto con il profeta Elia, che sfidò i 450 profeti di Baal sul monte Carmelo, dove il popolo, convocato ad assistere alla sfida, fu posto davanti ad una scelta tra Baal e Jhwh. La vittoria, a tutto favore di Jhwh, fu schiacciante e il popolo massacrò i profeti di Baal. Questo scatenò le ire della regina Gezabele che cercò di uccidere Elia, nel frattempo fuggito. Sarà proprio in questo frangente che Dio ordinerà al profeta scoraggiato di andare, in una sorta di pelegrinaggio spirituale, sul monte Oreb, dove Mosè ricevette la Torah e ai piedi del quale Dio strinse alleanza con il suo popolo. Si trattò, quindi, di una sorta di ritornò alle sorgenti della fede, affinché il profeta rinnovasse il proprio impegno affidatogli da Dio e divenuto per lui ormai troppo pesante. - Cfr il ciclo di Elia in 1Re 17 – 2Re,10. Cfr. anche le voci “Elia” e “Gezabele” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
12 Cfr. Mt 15,24; Lc 2,29-32; 4,17-21; Gv 12,32. -
13 Cfr. Gv 1,29; 3,16; Mt 23,37.-
14 Cfr. Gv 1,18; 4,34; 6,38; 14,9-11. -
15 Cfr. Gv 3,35; 5,16-23.36; 17,1. -
16 Cfr. Gen 18,1; 24,67; 31,33; 35,21; Gdt 14,14
17 Cfr. Gb 4,21; 5,24; 18,6; 19,12; 22,23; Sal 90,10; Prv 14,11; Ger 10,20;
18 Cfr. Sap 9,15; Is 38,12; Sal 51,7; 2Cor 5,1.4; Eb 8,2; 9,11; 2Pt 1,13.14
19 Cfr. Es 25-27; 35,11
20 Cfr. Es 33,7-9; 39,32; 40,1-38
21 Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. - pag.381-382
22 Cfr. Es 16,10; 19,9; 20,21; 24,16; 40,34.35;
23 Cfr. Es 16,10b-11; 19,9; 20,21b-22; 33,9; Nm 11,25; Sal 98,7;
24 Per un approfondimento dell'espressione, cfr. il commento ai capp. 3-4, pagg. 38-40, della presente opera.
25 Cfr. Mt 24,30; 26,64; Mc 13,26; 14,62; Lc 21,27; Ap 1,7; 14,14;
26 Cfr. Gen 17,3.17; 18,2; 19,1; 24,26.52; Es 34,8; Lv 9,24; Nm 16,4.22; 20,6; 22,31; Gs 7,6; Tb 12,16; Ez 1,28; 3,23; Dn 8,18; 10,9. - L'atto di prostrarsi con la faccia a terra era un gesto comune nel mondo antico e veniva compiuto non solo di fronte a Dio, ma anche di fronte al re o ad un personaggio potente ed esprimeva tutta la deferenza e la disponibilità a porsi al suo servizio e ad accettare ogni sua decisione. Era una sorta di atto di sottomissione e di riconoscimento della superiorità dell'altro. In tal senso cfr. Gen 42,6; 43,26; Gs 5,14; Rt 2,10; 1Sam 24,9; 28,14; 2Sam 9,6; 14,4.22; 1Re 1,31;
27 Cfr. Es 33,20; Gdc 6,22-23
28 Cfr. Gen 28,17; Es 3,6; 19,16; 20,18; Tb 12,16; Is 2,10.19; Mt 28,4; Mc 16,5.8; Lc 24,5; - Significativo in tal senso vedere come Dio venisse talvolta definito con il termine “Terrore” (Gen 31,42.53)
29 Cfr. Mt 8,3.15; 29; 17,7; 20,34; Mc 1,41; 7,33; 8,22; Lc 5,13; 7,14; 22,51. -
30 Cfr. Mt 9,5-6; Mc 2,9.11; 5,41; Lc 5,23-24; 6,8; 7,14; 8,54; 17,19; Gv 5,8;
31 La Gaudium et Spes, parlando della coscienza dell'uomo la definisce mirabilmente come “[...] il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità” (GS § 16).
32 Cfr. 1Cor 1,22
33 Cfr. Mt 14,27; 17,7; 28,5.10; Mc 5,36; 6,50; 16,6; Lc 1,13; 1,30; 2,10; 5,10; 8,50; 12,7.32; Gv 6,20;
34 Cfr. Gen 3,5.7; 21,19; Nm 22,31; Sal 12,4; 18,9; 118,18.37; Prv 3,21; 17,24; 21,2; 29,13; Qo 2,14; Sap 3,2.4; Sir 17,5; 34,17;
35 Cfr. Mt 28,17; Mc 16,8.11.13-14; Lc 24,4a.11.12b.6.25.37-38.41; Gv 20,2.9-10.13-15.25.29.-
36 Cfr. Lc 24,27.32.45; Gv 9a.
37 Cfr. Mt 16,14; Mc 6,15; 8,28; Lc 9,8.19;
38 Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.- pag. 484
39 Cfr. Nm 32,13; Dt 1,25; 32,5.20; Sal 77,8; 94,10. -
40 L'espressione “essere con te” o “con voi” nell'A.T. si rifà sovente al tema dell'Alleanza e alla presenza benevola, feconda e rassicurante di Dio in mezzo al suo popolo. Lo sdegnato “fino a quando sarò con voi” suona come una minaccia di rottura definitiva tra Jhwh e il suo popolo, uno scioglimento di quell'Alleanza dalla quale Israele traeva la sua stessa vita, il senso del suo esistere e della sua identità (Es 19,5-6). - In tal senso cfr. Gen 6,18; 17,4.7; 26,3.24; 28,15; Es 3,12; 24,8; 33,14; 34,27; Lv 26,9; Nm 14,23; Dt 4,23; 9,9; 20,4; Ba 6,6; Ag 1,13; 2,4.5. -
41 Cfr. Nm 14,27; Sal 100,3.5; Is 1,14; Ger 44,22. -
42 Cfr. il verbo fšrw in L. Rocci, Vocabolario Greco – Italiano, op. cit.
43 Nel racconto genesiaco della creazione l'espressione “E Dio disse” vien ripetuta nove volte e ad ogni dire divino corrisponde l'essere del creato.
44 Nel linguaggio biblico neotestamentario il verbo al passivo riferisce l'azione a Dio stesso ed è definito come passivo teologico o divino.
45 Cfr. Ne 1,4; Tb 12,8a; Sal 34,13; 2Mac13,12; Bar 1,5; Dn 9,3; Lc 2,37; At 13,3; 14,23.
46 Cfr. Mt 16,21; 20,17-19
47 Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. - pag.387
48 Presso il popolo ebraico i maschi, a partire dall'età dei vent'anni, erano tenuti a versare annualmente una tassa al tempio di mezzo siclo, corrispondente a due dramme. L'imposizione era definita in Es 30,11-14: “Il Signore parlò a Mosè e gli disse: Quando per il censimento farai la rassegna degli Israeliti, ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita all'atto del censimento, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, computato secondo il siclo del santuario, il siclo di venti ghera. Questo mezzo siclo sarà un'offerta prelevata in onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, paghi l'offerta prelevata per il Signore”. Nel periodo successivo all'esilio babilonese, terminato nel 538 a.C. con l'editto di Ciro, l'imposta, a motivo della congiuntura del post esilio, venne portata da mezzo siclo a un terzo di siclo (Ne 10,33). Ai tempi di Gesù l'imposta era pagata da tutti gli ebrei, compresi quelli della diaspora.
49 La distruzione del Tempio è avvenuta nel 70 d.C. ad opera di Tito e Vespasiano nell'ambito della guerra giudaica (66-70 d.C.), mentre la redazione finale del vangelo di Matteo si colloca, a nostro avviso, verso la fine del I sec. e probabilmente anche oltre. Sulla datazione del vangelo di Matteo e sulla sua redazione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera.
50 Dopo la prima guerra giudaica (66-70 d.C.) l'imperatore Vespasiano (69-79 d.C.) impose a tutti gli ebrei indistintamente una tassa annuale di due dramme a favore del tempio di Giove Capitolino. L'odiosità della tassa era dovuta sia perché destinata a sovvenzionare un culto pagano con soldi provenienti dai giudei, contrari a culti idolatrici, sia perché quella tassa, prima, era destinata al tempio di Gerusalemme. Del fatto ce ne dà conto lo stesso Flavio Giuseppe in Guerra Giudaica: “Egli (n.d.r. Vespasiano) impose a tutti i giudei, dovunque risiedessero, una tassa di due dracme a testa da versare annualmente al Campidoglio come prima l'avevano versata al tempio di Gerusalemme. Tale, dunque, fu la sistemazione data allora alla Giudea” (Bell. Jud. VII, 6 § 18).
51 Cfr. James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), 2004 – pagg.195-196
52 Cfr. R. Fabris, Matteo, nota 7, pag. 390; O. da Spinetoli, Matteo, pag. 490 – op. cit.
53 Sulle questioni riguardanti questo racconto cfr. O. da Spinetoli, Matteo; R. Fabris, Matteo; A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico; James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento. Tutte le opere citate.
54 Per i Giudei la moneta principale era la dracma d'argento o dramma. Cento dracme valevano una mina e seimila dracme un talento. Questo specifico tipo di moneta è citato solo da Luca (Lc 15,8.9; At 19,19). Conosciuta è anche il didramma, citato qui da Matteo, ed equivaleva a due dramme o mezzo siclo. Vi è ancora lo statere che aveva il valore di quattro dracme o di due didrammi. In tal senso cfr. la voce “Denaro” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia e J.S.Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento. Tutte le opere citate
55 Cfr. James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, pag.198; op. cit.
56 Cfr. la voce “Casa” in Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici; J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli. Tutte le opere citate.
57 Cfr. O. da Spinetoli, Matteo; R. Fabris, Matteo. Tutte le opere citate.
58 Cfr. Es 15,18; 1Cr16,23-33; Est 4,17; 2Mac 5,20; 15,4; Sal 5,3; 23,8-10; 43,5; 46,7-8.9; 92,1; 95,10; 96,1; 97,6; 98,1.4; 144,1; 145,10; Ger 10,7;