Dalla
risurrezione all'annuncio
a tutte le genti
La missione del Risorto continua nei suoi
Introduzione
Il cap. 28 è un racconto, così come lo è l'intero vangelo di Matteo e così come lo sono gli altri vangeli e gli stessi Atti degli Apostoli. Tutto è una grande riflessione teologica attraverso la quale viene riscoperto e ricompreso il Gesù della storia, ora assorbito totalmente nella risurrezione, confluendo, e noi con lui, nell'Infinito di Dio, Padre suo e Padre nostro; Dio suo e Dio nostro (Gv 20,). Pensare di trovarci di fronte ad un resoconto storico o ad un reportage cronachistico dell'epoca, come amano, invece, pensare i detrattori del cristianesimo, è semplicistico e fuorviante. Il linguaggio, qui, come quello del racconto della passione e morte di Gesù, è metaforico e simbolico, l'unico, come già più volte si è detto, in grado di farci entrare nelle realtà divine. Qui la storia è trasformata dal racconto e il racconto aiuta a capire la valenza e il significato profondo degli eventi della storia della salvezza, l'unica cosa che veramente interessava agli evangelisti. Non è da pensare, infatti, che di fronte allo sconvolgente dramma della morte di Gesù, al suo visibile e tangibile fallimento umano, dopo essersi dichiarato palesemente Messia e Figlio di Dio, i primi discepoli siano stati smarriti soltanto per qualche giorno, per poi scoprire, da lì a qualche ora, che egli, alleluia, era risorto, così che tutti vissero felici e contenti per molti e molti anni. Questo è il mondo delle favole, ma non quello della fede. Il cammino per giungere alla certezza della risurrezione di Gesù e comprenderne il significato, il peso salvifico e trasformante per noi, fu lungo e difficile e non tutti vi arrivarono, travolti, e comprensibilmente, dal dubbio2. Vedremo come Matteo, qui, lasci trapelare tutto questo e come anche gli altri evangelisti lo affiancano pedissequamente. Niente fu facile e scontato per i primi credenti. Tutto, invece, fu conquistato con l'aiuto dello Spirito. La formazione della fede nel Risorto non dipese da facili, miracolistiche ed entusiastiche apparizioni, ma fu un lungo parto travagliato, al termine del quale apparve ai credenti il Risorto, ma apparve loro nella fede, cioè compresero la verità del Gesù risorto, che essi reincontrarono nella fede, nella Parola e nello spezzare il pane. Non è, quindi, da pensare alle apparizioni post-pasquali sulla falsariga di quelle mariane o similmente. Lo lascia intendere chiaramente Giovanni, che nel suo racconto della tomba vuota (Gv 20,1-10), in cui non si parla mai di risurrezione, ma soltanto di trafugamento di cadavere e di incomprensibili segni trovati nella tomba, come le bende per terra e il sudario ben ripiegato e posto a parte. Un cammino che in Giovanni è simbolicamente significato e scandito da tre verbi fondamentali, che intessono l'intero racconto: blšpw, qewršw e Ñr£w. Il primo verbo indica un vedere fisico, materiale, un vedere che non va al di là di ciò che appare. Esso è riferito alla Maddalena, che, giunta al sepolcro, lo trova vuoto e capisce soltanto che hanno rubato il corpo di Gesù (20,1-2) e ne è talmente convinta che lo chiederà anche al presunto giardiniere (Gv 20,13). Il secondo verbo, qewršw, indica un vedere attento, un vedere che si interroga, un vedere che spinge alla riflessione e costringe alla ricerca di una risposta. È questo il verbo che viene associato a Pietro e al discepolo che Gesù amava. Questi, in un primo momento, entrati nella tomba vuota, osservarono sbalorditi non solo il vuoto della tomba, ma in particolar modo la loro attenzione fu attratta dai panni, che avevano avvolto il corpo di Gesù. Su questi segni essi incominceranno la loro riflessione, sul cosa fosse veramente successo. Viene, dunque, abbandonata, la prima tesi del trafugamento di cadavere e nel loro cuore e nelle loro menti iniziano a farsi spazio altri inattesi orizzonti. E, infine, il terzo verbo, Ñr£w. Esso significa, come gli altri, vedere, ma si tratta di un vedere qualificato, un vedere superiore, capace di trascendere le limitate realtà delle apparenze; un vedere che possiede già in se stesso delle risposte e delle certezze; esso è il verbo proprio della fede. È questo il verbo a cui è associato soltanto il discepolo che Gesù amava: “Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette” (Gv 20,8). Ma il loro vedere era ancora incompleto e, per quanto avanzato, doveva essere completato e supportato dalle Scritture; per questo “I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.”, perché “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”.
Similmente il racconto lucano dei due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-31) è alquanto emblematico di una chiesa che, sconfitta dalla morte di Gesù, si stava allontanando da Gerusalemme, il luogo dei misteri della salvezza; una chiesa delusa, perché sperava che fosse Gesù la chiave risolutiva delle sue attese e delle sue speranze; che fosse lui che visibilmente avrebbe fondato il Regno di Dio in mezzo agli uomini. Invece, niente di tutto questo. Era da tre giorni ormai che egli giaceva nella tomba e non dava più nessun segno. Il tre, un numero che non indica un preciso spazio temporale, ma esprime un tempo compiuto. È una chiesa che sembra votata al disfacimento, perché ora, almeno apparentemente, è sola e vorrebbe riavere con sé nuovamente Gesù, come prima. Ma ecco che qualcosa accade di inatteso: un tale, uno sconosciuto si avvicina ai discepoli e comincia a parlare loro e li aiuta a rileggere e a ricomprendere le vicende di Gerusalemme alla luce delle Scritture e il loro cuore comincia ad agitarsi e sono pervasi da una grande gioia; ma sarà soltanto nello spezzare il pane che ad essi si dischiuderanno gli occhi e riconosceranno Gesù. È una chiesa che finalmente si è ricongiunta al suo Signore e lo riconosce suo Signore, non più visibilmente e tangibilmente come prima e come avrebbe voluto continuare, ma, ora, raggiungibile solo attraverso la Parola e il rito dell'Ultima Cena. Saranno questi i luoghi delle apparizioni, in cui Gesù viene ritrovato e ricompreso nella fede (24,31). Un cammino che fu difficile anche per la comunità lucana, che viene rimproverata perché solo con difficoltà e tardivamente si è resa disponibile ad accogliere Gesù sotto forma di Parola e di Pane, mentre sognava ancora il Gesù della storia: “Ed egli disse loro: "Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!” (Lc 24,25).
Vi fu dunque un lungo cammino di ripensamenti, di riflessioni, di contrasti interni alle comunità, di smarrimenti, ma alla fine si giunse a comprendere la grande Verità: Gesù era veramente risorto ed esso sarebbe sempre stato in mezzo ai suoi, certo, non più come prima, ma sotto forma di Parola e di Eucaristia, sotto forma sacramentale, sotto forma dell'altro, in cui egli si era identificato (Mt 25,40.45). L'approccio, dunque, non sarebbe più stato fisico, bensì spirituale ed impegnava fortemente e duramente i suoi discepoli nella fede in lui. È significativo, infatti, come il Gesù lucano sparisce sotto gli occhi dei due discepoli di Emmaus, quando questi lo riconoscono nello spezzare il pane. Una sparizione che denuncia come i discepoli, acquisita con certezza la fede nel Risorto, non sentono più il bisogno del Gesù della storia, poiché il sentire dei sensi è stato ora sostituito dal vedere della fede. Un'esperienza del tutto nuova ed esaltante, poiché grazie alla fede, alla Parola e allo spezzare del pane essi, ora, hanno ritrovato nuovamente Gesù, che sentono in mezzo a loro.
Anche questo racconto matteano della tomba vuota testimonia questo difficile cammino, in cui la comunità di Matteo giunse alla comprensione che Gesù era veramente risorto e come non era finito tutto, ma tutto stava per ricominciare, ripartendo proprio da là, dove egli, insieme ai suoi, aveva incominciato, e come una nuova era si era inaugurata per loro, in cui essi, insieme a lui, erano i protagonisti. Il cammino del Risorto, dunque, era ripreso nei suoi, nella sua Parola, nell'Eucaristia, nei Sacramenti, nell'altro. Egli sarebbe sempre stato così in mezzo ai suoi e in mezzo agli uomini fino alla fine del tempo.
Il cap.28 si struttura in quattro quadri tra loro paralleli in modo alterno: i vv.1-8 si accompagnano ai vv. 11-15; mentre i vv.9-10 si accoppiano ai vv.16-20. Per cui si avrà:
A)
vv.1-8:
l'annuncio della risurrezione alle donne da parte dell'angelo;
A') vv.11-15: l'annuncio della risurrezione alle autorità giudaiche da parte delle guardie;
B) vv.9-10: l'incontro di Gesù con le donne e l'affidamento della missione interna alla comunità;
B') vv.16-20: l'incontro di Gesù con i discepoli e l'affidamento della missione universale;
I
vv.1-8,
a loro volta, formano una pericope scandita in cinque momenti:
d)
vv.5-7:
l'annuncio della risurrezione e l'affidamento della missione, da
compiersi all'interno della comunità, alle parte delle donne:
annunciare ai discepoli che Gesù è risorto e che li attende in
Galilea;
e)
vv.8:
l'adempimento della missione da parte delle donne.
Il cap.28 si apre, pertanto, con una annotazione di tempo: “Dopo il sabato”. Siamo, quindi, in un tempo successivo al sabato; un tempo che è già stato superato, mentre, ora, si sta entrando in un nuovo spazio temporale, infatti, “era incominciato a splendere il primo giorno della settimana”. Ciò che caratterizzava Israele era l'osservanza scrupolosa del sabato (Lv 16,31), divenendo questo un segno perenne di alleanza (Es 31,16). Fu per Israele un elemento distintivo in mezzo agli altri popoli, una sorta di bandiera nazionale, che lo caratterizzava e lo teneva separato dalle altre nazioni. In merito al sabato Giuseppe Flavio lo definisce come “il nostro costume nazionale”3. L'essere “dopo il sabato”, dunque, significa che con la morte di Gesù è terminata l'epoca caratterizzata dal culto sabbatico. Alla sua morte, infatti, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, significando così la fine dell'antico culto4 (Mt 27,51). Superato il tempo del sabato, il lettore è ora introdotto in una dimensione temporale completamente nuova con un'espressione, che richiama da vicino i primi versetti genesiaci, quando la creazione incominciò nel primo giorno della settimana creativa con la creazione della luce (Gen 1,3-5); anche qui, sottolinea l'autore, fu il primo giorno della settima: “mentre era incominciato a splendere il primo giorno della settimana”; anche qui, come là, stava sorgendo una nuova luce, un nuovo giorno, il primo di una nuova settimana creativa, che ha la sua radice vitale, la sua fonte nella risurrezione di Gesù, da cui sgorga una nuova creazione, in cui ogni credente è fatto in Cristo nuova creatura, perché le cose vecchie sono passate, e ne sono nate di nuove (2Cor 5,17; Is 43,19a). La prima parte del v.1, quindi, lascia tralucere tra le righe il sorgere di un nuovo giorno, che si pone al di là del sabato giudaico e sarà testimone di un nuovo evento, che cambierà il senso e i destini della storia: la risurrezione di Gesù.
La seconda parte del v.1 presenta due donne, che si erano distinte come testimoni della morte e sepoltura di Gesù: Maria Maddalena e l'altra Maria, cioè la madre di Giacomo e Giuseppe (27,56). Le avevamo lasciate sedute di fronte alla tomba, chiuse nel loro immobilismo, impotenti e attonite. Si era detto che esse raffiguravano la comunità matteana, che di fronte alla morte di Gesù non ebbe la forza di trascenderla, ma fu soggiogata da essa, subendo un forte contraccolpo nella fede5. Come infatti si poteva credere ad un Messia crocifisso, ad un Figlio di Dio sconfitto, che non ha saputo salvare se stesso (27,40-43)? Ora queste donne vennero6 nuovamente “a guardare la tomba”. Mentre Marco e Luca dicono che le donne erano tornate alla tomba il mattino successivo con degli aromi, per dare degna sepoltura al corpo di Gesù7, funzione questa che in Giovanni venne svolta da Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea al momento della sepoltura stessa (Gv 19,39-40); in Matteo le due donne tornano soltanto per “guardare la tomba”. Questo è il motivo del loro ritorno: guardare la tomba. Non c'è alcun accenno alle unzioni funebri, presenti, invece, negli altri tre evangelisti. Non fu certamente una dimenticanza. Il problema di Matteo, infatti, non era la corretta inumazione di Gesù, che probabilmente egli dà per scontata, essendo essa un'usanza dei Giudei (Gv 19,40c). Il problema, invece, è proprio quella tomba, che sigillava in se stessa il corpo morto di Gesù. Infatti, per ben due volte l'evangelista pone le due donne, metafora della sua comunità, davanti alla tomba. Esse sono qualificate in 27,61 come “sedute” (kaq»menai), cioè incapaci di superare il grosso scoglio della morte di Gesù; mentre qui, in 28,1b, il giorno dopo il sabato, sono ritornate per guardare la tomba. In questo secondo momento viene rilevato un movimento: esse non sono più sedute, ma si sono messe in movimento verso la tomba e qui non si siedono come prima, quando erano ancora nel sabato giudaico, ma la guardano con attenzione. Il verbo usato qui da Matteo per indicare il vedere delle donne è “qewršw”, che, come si è detto sopra, analizzando i tre verbi del racconto giovanneo della tomba vuota, indica un vedere attento, un osservare che porta alla riflessione e che spinge quelle donne, cioè la comunità matteana, a trovare proprio in quella tomba muta delle risposte ai propri interrogativi, alle proprie incertezze e ai propri dubbi, che le paralizzavano nella loro fede, tanto da farle sedere inerti di fronte al sepolcro (kaq»menai ¢pšnanti toà t£fou). Per fare questo passo importante, però, si doveva uscire dal sabato, cioè dal giudaismo, per immettersi in una prospettiva nuova, che sola consentiva di entrare nel mistero di quella morte così deludente e disarmante. Non si poteva più coniugare l'antico con il nuovo; non si poteva più mettere una pezza nuova su di un abito vecchio, né del vino nuovo in otri vecchi. Se la comunità di Matteo, infatti, formata da giudeocristiani, non avesse avuto la forza di troncare con la la propria religione di provenienza, non avrebbe mai potuto accettare il Crocifisso, né tantomeno comprenderne il mistero. Ed è soltanto nel momento in cui la comunità matteana è riuscita a superare il legame con l'antico culto giudaico, che essa è riuscita anche ad entrare nel mistero del Risorto, trasformandosi in testimone ed annunciatrice. Saranno i vv.2-8 a testimoniare questa trasformazione spirituale ed esistenziale delle due donne-comunità.
I vv.2-8 sono strutturati a sandwich, cioè il racconto dell'angelo è frammezzato dall'episodio delle guardie (v.4), posto al centro del racconto stesso. È fuor di dubbio che qui non ci troviamo di fronte ad un reportage cronachistico, bensì ad una teofania, cioè ad una manifestazione del divino che irrompe nel mondo dell'umano. I tratti che la contraddistinguono sono l'angelo, il suo abbigliamento candido, il suo aspetto come un bagliore di folgore, il suo discendere dal cielo e il terremoto. Certamente Matteo qui non voleva impressionare il suo lettore, ma indicare le conseguenze del cammino intrapreso dalla sua comunità. In altri termini, come la sua comunità e in genere le comunità degli inizi sono giunte alla risurrezione di Cristo, superando il grosso scoglio della sua morte. Già lo si è visto sopra, per sommi capi, in Luca e in Giovanni. Ora anche Matteo racconta come le comunità palestinesi sono giunte alla fede del Risorto.
Nel v.1b abbiamo lasciato le due donne-comunità a riflettere attentamente sulla tomba (qewrÁsai tÕn t£fon). C'è, quindi, in esse la volontà di comprendere, la disponibilità ad accogliere in se stesse un mistero così difficile, che le stava paralizzando nella nuova fede, “Ed ecco, ci fu un grande terremoto”. Quel “kaˆ „doÝ” con cui si apre il racconto dell'angelo dice l'aprirsi di un nuovo scenario ed evidenzia l'istantaneità di quanto è successo. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una sorta di intuizione del mistero di quella tomba vuota, che una riflessione teologica successiva, più sistematica, trasformerà in piena comprensione. Un'intuizione che opera un terremoto, un profondo scuotimento nella comunità matteana, che la spinge a rompere gli indugi con quel sabato da cui essa proviene, per immettersi in una nuova realtà, non più compatibile con esso. Un'intuizione che viene percepita come una sorta di ispirazione, di illuminazione di origine divina. Non a caso Matteo presenta l'angelo, che per sua natura è un messaggero divino. Lo si arguisce dal suo vestito bianco, che lo lega al mondo di Dio, mentre l'aspetto, cioè la natura di quest'angelo, è come un bagliore di folgore, indicando in tal modo la modalità con cui si è percepito il mistero della tomba, attraverso una sorta di intuizione-ispirazione-illuminazione. Ed ecco che questo angelo ispiratore e illuminante rovescia la pietra che sigillava la tomba e vi si siede sopra. Segno questo che la tomba non è più un tabù, un ostacolo nel cammino della nuova fede, ma acquista un suo nuovo significato alla luce di quanto è successo e che verrà esposto nell'annuncio dell'angelo, che indica come la comunità degli inizi è giunta alla comprensione che Gesù è risorto.
A questo punto il racconto sull'angelo si interrompe e l'autore inserisce l'episodio delle guardie, che le autorità giudaiche avevano poste alla tomba (27,62-66). Esse vengono descritte come agitate dalla paura, divenendo come morte. È la reazione caratteristica dell'uomo di fronte alle teofanie, all'irrompere del mondo divino nella storia. Segno, quindi, che anche le guardie sono state coinvolte nella teofania, poiché anch'esse, come le donne, saranno chiamate ad essere testimoni ed annunciatori della risurrezione presso le autorità giudaiche (v.11). I soldati, tuttavia, non sono da considerarsi veri e propri discepoli, poiché essi sono “come morti” di fronte a questa teofania, cioè incapaci di comprenderne il significato. Il messaggio teofanico, infatti, è rivolto esclusivamente alle donne, le vere discepole. Solo a loro l'angelo si rivolge.
I vv.5-7 contengono l'annuncio dell'angelo, che in realtà si rivelerà essere il cammino che la comunità matteana ha percorso per giungere alla risurrezione di Gesù, partendo dalla tomba su cui si era soffermata in riflessione (v.1b). Il messaggio dell'angelo è scandito in tre parti:
a) il v.5 è sostanzialmente un'esortazione a porsi di fronte alla morte di Gesù e alla sua persona in modo diverso, non più secondo gli schemi storici abituali, poiché ora il Gesù, così come conosciuto nella storia, non esiste più, poiché è confluito nella gloria del Padre;
b) il v.6, cuore dell'annuncio, è strutturato a forma di sandwich, ponendo al centro di tutto l'annuncio della risurrezione, colta come azione della potenza di Dio a favore di Gesù (verbo al passivo teologico o divino);
c) il v.7 riporta la missione affidata alle donne: annunciare la risurrezione di Gesù presso i discepoli e dove egli potrà essere visto da loro.
Si
tratta, quindi, di un triplice passaggio, che la comunità matteana
ha percorso: dalla presa di coscienza che il Gesù storico non c'è
più, al comprendere che egli ora è risorto e, quindi, entrato nella
dimensione di Dio, e, quindi, all'annuncio del nuovo evento. Questo
comporta un radicale mutamento nel pensare Gesù e nel rapportarsi
con lui, che richiede un reimpostare ex
novo
il proprio orientamento esistenziale.
Il
v.5,
dai toni parenetici, è un sollecito ai nuovi credenti a non
lasciarsi traviare dai timori e dai dubbi di fronte alla tomba, che
sigilla le loro attese e le loro speranze deluse (Lc 24,21). Un
invito a superare i limiti della morte e dell'umano di Gesù. Un
invito, quindi, a pensare a Gesù in un modo diverso e completamente
nuovo, che richiede di reimpostare i rapporti con lui, poiché egli,
ora, è raggiungibile soltanto su di un piano di fede e non più
sensibile. Essi, infatti, stanno ancora cercando Gesù, il
crocifisso, quel Gesù che è ancora drammaticamente segnato dagli
eventi della storia. Essere legati a questo Gesù significa
precludersi ogni via alla speranza e ogni comprensione delle nuove
realtà da lui portate e in cui essi sono chiamati a farne parte. In
altri termini, significa il fallimento della loro fede e, pertanto,
la sua inutilità. Il Gesù della storia, infatti, non c'è più,
poiché egli è confluito in una nuova dimensione, che il v.6
si incarica di far comprendere e in cui cerca di traghettare i nuovi
credenti. Questo versetto è strutturato a sandwich
in modo tale che l'annuncio della risurrezione sia collocato al
centro della constatazione che Gesù non è più qui, cioè non
appartiene più alla dimensione storia, dove i discepoli ancora lo
stanno cercando e in cui essi lo vorrebbero ancora trovare, come ai
vecchi tempi. L'invito dell'angelo è esplicito e indica la tomba
vuota, presso la quale erano tornate a riflettere le donne-comunità:
“orsù, guardate il luogo dove era deposto”. Le due donne,
infatti, erano tornate a guardare la tomba (v.1b); ora l'angelo le
invita a guardare il luogo della sepoltura (v.6c). Ma l'invito a
guardare la tomba da parte dell'angelo è un invito a guardarla in
modo completamente diverso da prima. L'autore, infatti, qui, non usa
più come al v.1b il verbo qewršw,
che indica un guardare che si interroga e che spinge alla ricerca di
una risposta; un guardare che è ancora immerso nel dubbio e nella
titubanza, bensì mette sulla bocca dell'angelo il verbo Ñr£w
(‡dete),
che indica un vedere più qualificato, un vedere superiore, un vedere
che è capace di trascendere i limiti delle apparenze ed è in grado
di cogliere ciò che sta al di là. In ultima analisi, nel linguaggio
neotestamentario, è il verbo proprio della fede. L'approccio a Gesù,
dunque, non può più, ora, essere fatto per mezzo di logiche umane;
non c'è più un toccare e un vedere sensibili, ma deve essere
sostanzialmente diverso, poiché egli “è stato risuscitato”. Il
verbo, qui, posto al passivo teologico o divino, ºgšrqh,
lascia intendere come la risurrezione, questo passaggio trasformante
dell'umano in divino, sia opera di Dio. Se la tomba è vuota, dunque,
non è opera di trafugamenti di cadaveri, bensì è opera di Dio. Ma
per vedere e comprendere tutto questo è necessario che si passi dal
qewršw
all' Ñr£w,
dal disquisire umano, dal trovare giustificazioni ragionate, alla
fede, l'unica in grado di introdurre il credente nel mistero di Dio e
di prendervi parte.
Il
v.7
contiene l'affidamento della missione alle due donne: l'annuncio
della risurrezione di Gesù ai discepoli. La missione avviene dopo
aver preso coscienza che Gesù non è più il Crocifisso (v.5), bensì
il Risorto (v.6). È proprio questa nuova condizione di vita di Gesù,
che giustifica l'annuncio e lo rende efficace. Senza risurrezione,
infatti, non trova senso nessuna predicazione, è inutile ogni fede,
nessuna colpa è perdonata, nessuna salvezza è assegnata al credente
(1Cor 15,14.17-18). E' soltanto la risurrezione, che riscattando il
Gesù della storia dal suo relativismo storico, lo rende palesemente
ed efficacemente Figlio di Dio (Rm 1,4). E' significativo come il
primo annuncio della risurrezione alla comunità credente sia
affidato a delle donne. Non va trascurato, a mio avviso, il ruolo
naturale e proprio delle donne: esse sono preposte dalla natura ad
accogliere in loro stesse il seme della vita per generare la vita.
Anche nel momento in cui la chiesa prendeva vita per opera dello
Spirito Santo, là, nel chiuso del cenacolo, come nel chiuso di un
utero materno, vi era la presenza di alcune donne e di Maria, la
madre di Gesù, sulla quale Luca accentra l'attenzione del suo
lettore (At 1,14). Essa, ancora una volta, così come aveva generato
Gesù per opera dello Spirito Santo, è chiamata a generare
nuovamente, pero opera dello stesso Spirito, la Chiesa, nella quale e
per mezzo della quale il Risorto prosegue la sua missione salvifica
in mezzo agli uomini. Maria, pertanto, prosegue nel tempo il suo
ruolo generativo e materno. Forse bisognerebbe chiedersi perché
all'origine di ogni annuncio e di ogni creazione, agli inizi di un
qualcosa di nuovo Dio si sia scelto delle donne e come queste nella
chiesa primitiva (Rm 16,1) e antica avessero ruoli di primaria
responsabilità e venissero consacrate diaconesse, per mezzo
dell'imposizione delle mani8.
Sono loro, quindi, che sono chiamate a generare nella comunità la
fede nel Risorto per mezzo del loro annuncio. Se Cristo ha scelto
loro per il primo kerygma,
il più importante perché è quello che genera la comunità
messianica, da cui poi partirà la missione alle genti (vv-19-20a),
forse è perché la maternità, sia biologica che spirituale, è
inscritta nella loro natura. E Dio rispetta le regole che egli stesso
ha creato.
L'annuncio che l'angelo affida alle donne è diretto ai discepoli, cioè alla comunità dei nuovi credenti, ed è triplice:
a)
annunciare che Gesù è stato risuscitato. Anche qui il verbo è
posto al passivo teologico o divino (ºgšrqh)
per evidenziare l'intervento di Dio. L'annuncio della risurrezione
con quel “risuscitato dai morti” risente qui della cadenza
catechistica. Siamo ormai già alla formulazione dottrinale e fa
parte del kerygma
proprio dei primi predicatori9.
Una piccola formula di fede che percorre l'intero N.T. e che Matteo
recupera e inserisce nel suo racconto.
b)
“vi precede in Galilea”. È il secondo momento dell'annuncio,
fatto a Gerusalemme, il luogo dove si sono compiuti i misteri della
salvezza; il punto culminante e ultimo del lungo viaggio di Gesù,
che uscito dal Padre e disceso tra gli uomini in veste umana, ha
raggiunto la cima del Golgota, da dove egli è ritornato al Padre (Gv
16,28). I discepoli da Gerusalemme devono ora ritornare in Galilea,
da dove era partita la missione di Gesù. Egli li riconduce là quasi
a significare come essi dovessero riprendere quella sua missione e
protrarla, ora, nel tempo in mezzo agli uomini. La missione di Gesù,
quindi, non è finita, ma ora il Risorto si affida ai suoi e per
mezzo dello Spirito si sacramentalizza in essi. Per questo essi
devono ripartire da là, dalla Galilea, poiché nei suoi ora Gesù
riprende il suo cammino nella storia e i suoi devono maturare questa
coscienza di essere sacramenti del Risorto e come questo, ora, si
muoverà tra agli uomini e nel tempo soltanto per mezzo loro.
c) Il terzo momento dell'annuncio è “là lo vedrete”. Non si tratta della promessa di un'apparizione in senso tecnico. Il verbo qui usato è il futuro di Ñr£w (Ôyesqe) il verbo della fede. Si tratta, quindi, di un ritorno alle origini della loro fede, alle origini di quell'evento, che ha cambiato le sorti della loro vita e formava ora la sostanza della loro fede, a cui avevano consacrato le loro esistenze. Si trattava di una sorta di pellegrinaggio, che già aveva impegnato il fuggiasco Elia per quaranta giorni e quaranta notti verso il monte Oreb, dove egli ritrovò il Dio dei suoi Padri e da dove ricevette nuova forza e nuovo vigore per portare a compimento quella missione che Jhwh gli aveva affidato e che egli aveva abbandonato per paura dei suoi nemici che lo stavano perseguitando (1Re 19,1-16). “Là lo vedrete”, là coglierete nella fede la verità del Risorto, quel Risorto che dovranno far proprio per portarlo alle genti. È significativo, infine, come il verbo “vedrete”, che nel messaggio angelico doveva riferirsi ai soli discepoli, in realtà, qui, assieme ai discepoli, include anche le donne. La comprensione di chi sia il Risorto, la fede in lui e l'annuncio della sua risurrezione non riguarda soltanto alcuni discepoli, ma l'intera comunità credente, che è coinvolta nella comune missione, ereditata in egual modo dal loro comune Maestro e Signore.
Il v.7 si chiude con “Ecco, ve l'ho detto”. Si tratta di una sorta di sigillo, un punto fermo, che chiude il messaggio. Ma giunti alla fine del messaggio, non è più ben chiaro a chi questo sia rivolto. Inizialmente sembrava rivolto esclusivamente ai discepoli e le donne sembravano esserne delle semplici messaggere. Ma dopo quel “vedrete”, che le coinvolgeva come destinatarie del messaggio, anche quel “ve l'ho detto”, quel pronome “voi” sembra acquistare il volto della comunità intera, in cui anche le donne sono coinvolte, accomunate nella medesima missione di annuncio e di testimonianza. Esse, infatti, alla pari degli Undici, incontreranno Gesù, che confermerà la missione affidata loro dall'angelo (vv.9-10). Vi è, dunque, in tutto ciò una sorta di elezione divina, una chiamata e un apostolato al femminile, di pari dignità di quella degli altri discepoli, poiché esso fu conferito dallo stesso Risorto.
Il v.8, nel concludere il racconto dell'angelo, imprime nelle donne-comunità una forte vitalità e una forte carica, scaturiti dalla folgorazione che esse hanno avuto presso la tomba, trasformandole in annunciatrici del grande evento. Due sono, infatti, i verbi di moto: il primo descrive il rapido allontanamento dalla tomba; il secondo, conseguente al primo, evidenzia la forza che le donne hanno saputo trarre da quella intuizione folgorante, che le ha trasformate in annunciatrici, e che il tempo si sarebbe incaricato, poi, a trasformala in comprensione e in riflessione teologica, consolidandola nella fede. Si erano lasciate le donne sedute davanti alla tomba in 27,61 e in 28,1b esse vi erano ritornate a contemplare, a riflettere su di essa. Era, dunque, una comunità ancora legata alla tomba, che racchiudeva il loro passato, da cui non riusciva a distaccarsi, incapace di superare i tristi e drammatici eventi della storia. Ma il grande terremoto, conseguente alla folgorazione divina, da cui la comunità fu travolta, imprime in essa una nuova forza, che l'allontana velocemente dalla tomba, che viene in tal modo abbandonata e finalmente superata, e la trasforma in decisa e ferma annunciatrice dell'evento risurrezione presso i propri fratelli. Si tratta, dunque, di una comunità, che vinte le pastoie del passato e abbandonato il Gesù della storia, da lei ora non più raggiungibile, si è aperta alla nuova dimensione divina in cui essa si è lasciata condurre e attrarre dalla loro nuova comprensione di Gesù, creduto come il Signore glorificato. Osserva Matteo che le done furono avvolte da timore e grande gioia. Espressione questa che descrive la nuova condizione esistenziale, alla quale ora esse appartengono, e che preannuncia l'incontro con il loro Signore.
I vv.9-10 narrano dell'incontro del Risorto con le donne, che stavano andando, su ordine dell'angelo, ad annunciare l'evento della risurrezione ai discepoli. Sono due versetti solo apparentemente posti in parallelo all'annuncio dell'angelo (v.7), ma, in realtà, essi possiedono una carica e un significato totalmente diversi, completamente innovativi e molto profondi. Innanzitutto va detto che l'angelo, nell'ambito dell'economia narrativa, come si è sopra accennato, è metafora dell'illuminazione, dell'ispirazione, dell'intuizione folgorante, ritenuta di origine divina, nata dalla riflessione sulla tomba vuota (v.1b). Da questa folgorazione nasce l'intuizione della risurrezione, che verrà confermata dalla riflessione successiva e soprattutto dalle Scritture10. Su questa loro intuizione le donne si fanno annunciatrici dell'evento salvifico. Ma questa è una loro iniziativa, conseguente ad una loro comprensione. Esse si sentono spinte dall'angelo a fare ciò, cioè dalla loro comprensione ritenuta di origine divina. Ma non si può rendersi auto-annunciatori del Risorto e farsene suoi auto-testimoni. Serve, invece, un carisma diverso, più significativo, più autorevole; un carisma che imprima all'annuncio un'autorevolezza indiscutibile, che solo l'incontro con il Risorto e l'esperienza di lui possono dare. Questo è il significato primario delle apparizione: il conferimento dell'autorità necessaria per compiere con autorevolezza l'annuncio in nome e per conto del Risorto, dandone, quindi, continuità; un'autorità che solo lui può conferire. Questo carattere primario delle apparizioni viene attestato da At 10,39-42: “E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio”. Ecco, dunque, il significato primario delle apparizioni: il conferire una missione, fondata su di una autorevole e indiscutibile volontà divina. Vi è, poi, un carattere secondario delle apparizioni: rendere tangibile l'esperienza del Risorto. In altri termini, Gesù risorto non è un fantasma, non è un'allucinazione, non è una fantasia o una mistificazione, ma una realtà concreta, che alcuni privilegiati, diventati, poi suoi autorevoli testimoni, hanno potuto sperimentare direttamente mangiando con lui, toccandolo e parlando con lui. La seconda finalità delle apparizioni, dunque, è quella di dare concretezza storica all'evento risurrezione, diversamente non percepibile, essendo un evento spirituale, metastorico.
Il v.9 si apre con l'espressione “kaˆ „doÝ”, la stessa con la quale si era aperto il v.2. In esso si raccontava della teofania angelica, cioè della folgorante intuizione che ebbero le donne circa la risurrezione, riflettendo sulla tomba vuota (v.1b). Questa identica apertura (kaˆ „doÝ) crea, pertanto, un forte richiamo e un forte legame tra i due racconti: l'incontro dell'angelo-intuizione viene qui confermato dal concreto incontro con il Risorto. La loro intuizione, la loro ispirazione, ritenuta di origine divina, ha trovato, dunque, concreta conferma nell'incontro con il Risorto. Non si tratta più, dunque, di una mera supposizione, di una fantasia femminile, ma di una incredibile e tangibile realtà, che sconvolge il ritmo esistenziale delle prime comunità credenti (Lc 24,22a); mentre la missione delle donne non nasce più da una loro iniziativa privata, ma viene conferito loro il carisma dell'annuncio. I due racconti, quindi, si completano a vicenda: dall'intuizione personale, dall'autonoma iniziativa dell'annuncio si passa ora all'ufficialità consacrata dall'incontro con il Risorto.
Il v.9 è scandito in due parti: la prima è caratterizzata da due movimenti: Gesù va incontro alle donne e le donne si avvicinano a lui. In questo duplice movimento vi è un comune punto di convergenza e di congiunzione dato dal comando divino “Gioite!” (Ca…rete, Caírete). Non si tratta di una semplice esortazione ad essere felici e contenti perché finalmente ci si è ritrovati sani e salvi dopo le disavventure di qualche giorno prima. La gioia di cui qui si parla non è un sentimento o un'effimera emozione, bensì uno stato di vita, una condizione del proprio modo di vivere, che nasce dall'incontro del Gesù della storia ora riconosciuto e accolto Risorto nella propria vita per mezzo della fede. Un incontro che colloca il credente nella vita stessa di Dio per mezzo del suo Cristo. La gioia, quindi, indica la dimensione propria della vita divina, in cui il credente, accogliendo il Risorto nella propria vita per mezzo della fede, viene collocato. Essa, dunque, dice il partecipare in Cristo della stessa vita divina. Viene, dunque, radicalmente modificato, in Cristo e per Cristo, il rapporto del credente con Dio e del suo rapporto con lo stesso Gesù. Non a caso, il Risorto definisce i suoi discepoli “fratelli” (v.10), confessando in tal modo la comune origine, la comune paternità, condivisa con ogni credente. Il Gesù giovanneo, rivolto alla Maddalena, sarà più esplicito: “va dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17b). L'angelo matteano esortava le donne ad andare dai discepoli e ad annunciare ai discepoli; Gesù, qui, non parla più di discepoli, bensì di fratelli, indicando la profonda trasformazione dei rapporti non solo tra lui e il Padre, ora Padre comune e condiviso con lui, ma anche una trasformazione dei rapporti intracomunitari. Non si è più discepoli, ma fratelli in Cristo, perché ora, grazie al Risorto, scorre in ciascun credente lo stesso DNA divino, filtrato attraverso Cristo.
La seconda parte del v.9 è caratterizzata da due movimenti: le donne abbracciano i piedi di Gesù e si prostrano davanti a lui. L'abbracciare i piedi, se da un lato indica sottomissione, essendo questo un gesto caratteristico dello schiavo nei confronti del suo padrone, dall'altro attesta la concretezza della persona del Risorto. Egli non è un fantasma, ma una persona viva e reale. I piedi, infatti, sostengono il corpo e ne consentono la deambulazione. Con i piedi l'uomo resta legato alla terra, vi lascia le sue impronte, esprimendo in tal modo tutta la concretezza della sua corporeità. Ricorre anche nel nostro modo di dire “avere i piedi per terra”, per indicare il concreto realismo del proprio vivere11. L'abbracciare i piedi di Gesù, dunque, significa averne fatto una concreta esperienza e dall'altro prelude a quel “prosekÚnhsan” (prosekínesan), si prostrarono, che nel linguaggio neotestamentario esprime l'atto proprio di adorazione del credente, che riconosce in Gesù il vero Figlio di Dio e, quindi, Dio lui stesso. Vi è, quindi, in questa prostrazione adorante un riconoscimento della divinità e della signoria del Risorto, manifestatesi in lui nella risurrezione.
Il
v.10
ripete sostanzialmente il messaggio dell'angelo, ma cambiano
radicalmente i soggetti mandatari e alcuni aspetti del contenuto del
messaggio. In entrambi i racconti vi è un sollecito a “Non
temere”, che narrativamente forma inclusione con il v.5. Cambiano i
verbi del comando. Nel racconto dell'angelo vi è soltanto
un'esortazione “andando velocemente, dite ai suoi discepoli ...”,
mentre nell'incontro con Gesù vi è il comando: “Andate e
annunciate” e, quindi, una sorta di investitura, che fornisce al
mandatario autorità e autorevolezza, operando egli in nome e per
conto del Risorto stesso. L'annuncio non va più rivolto ai
discepoli, bensì ai “miei fratelli”. Cambiato lo stato
esistenziale del Risorto, cambiano, quindi, anche i rapporti con i
suoi discepoli, che nella sua morte e risurrezione sono stati
attratti nella sua dimensione e resi partecipi della sua stessa
realtà divina, condividendone la paternità. Non vi è più la
precisazione dell'angelo che Gesù li precede in Galilea, ma sono i
suoi discepoli, che devono ritornare in Galilea. Segno questo che ora
l'iniziativa non è più nelle mani di Gesù, ma nelle loro. Sono
loro, infatti, che ora devono ritornare in Galilea, nel luogo dove
ha avuto inizio la loro fede e la loro avventura con il Gesù della
storia. Si tratta, però, di operare una profonda conversione, che li
riporti a quelle loro origini e li renda nuovamente disponibili a
reincontrare Gesù, ma ora in modo completamente nuovo. Solo se
accettano questa nuova sfida essi potranno vederlo nuovamente,
stabilendo con lui un nuovo contatto e un nuovo rapporto fondato,
ora, soltanto sulla fede. Dalla fede nel Risorto, da una nuova
ricomprensione di lui, ripartirà, dunque, la nuova missione.
I vv.11-15, per il cui commento rimandiamo al cap.27,62-66, in quanto ad essi strettamente legati e complementari, potremmo definirli come l'ultimo inganno. Lo sfondo su cui si muovono è squisitamente polemico e apologetico nel contempo. Essi costituiscono una risposta ad una diceria che circolava ancora ai tempi, in cui Matteo stava scrivendo il suo racconto. All'annuncio della risurrezione (vv.2-4), infatti, gli avversari insinuano che si tratta di una sottrazione di cadavere da parte dei discepoli (v.13), che del resto già avevano paventato in 27,64. Si tratta, quindi, di una mistificazione. La comunità matteana risponde con questo racconto: sono soltanto dicerie da quattro soldi messe in piedi dalle autorità giudaiche. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad una sorta di battibecco tra le due parti avverse, che compare soltanto in Matteo. Anche questo racconto, tuttavia, prende le mosse dall'evento risurrezione, in cui sono state direttamente coinvolte sia le donne che le guardie (v.4). Entrambi si fanno portatrici, ognuna a modo loro, del medesimo annuncio: Gesù è risorto. Gli effetti, tuttavia, sono diametralmente opposti: le donne con il loro annuncio generano una nuova comunità; le guardie, invece, generano scompiglio tra le autorità giudaiche, che, per la loro pervicace chiusura ad ogni annuncio, sanno partorire soltanto una menzogna. La discriminante che separa e contrappone le due parti è solo la fede, elemento essenziale e fondamentale per comprendere in modo adeguato l'evento Risorto, di fronte al quale le sole categorie storiche si rivelano del tutto impotenti.
I vv.16-20 potremmo definirli come il vertice e il capolavoro dell'intero racconto matteano, che l'autore consegna alla sua comunità. Una sorta di testamento spirituale. Con questa stupenda unità narrativa si chiude il racconto di Matteo, che ci presenta, ormai, una comunità matura e aperta all'annuncio universale; una comunità che ha superato sostanzialmente i propri limiti interni, anche se permangono ancora dei dubbi sulla reale dimensione divina e messianica del Risorto e sul suo nuovo stato di vita. Non va dimenticato, infatti, che la comunità matteana è formata prevalentemente di cristiani provenienti dal giudaismo, che ha inculcato loro un concetto di messia esattamente all'opposto di quello di cui si fregiava Gesù, e il forte monoteismo, di cui erano impregnati, impediva loro di riconoscere Dio nell'uomo Gesù. Quanto alla risurrezione, non tutti, poi, vi credevano e chi vi credeva la pensava ad una rivivificazione, cioè ad un tornare allo stato di vita precedente, ma nulla di trascendentale o di divino12. La comunità matteana, tuttavia, ora si sente pronta ad accogliere l'invito missionario del suo Signore, facendone risuonare l'insegnamento tra le genti, nella coscienza che il Risorto è sempre in mezzo ad essa e che l'accompagnerà nel suo cammino nella storia in mezzo agli uomini; uomini che la nuova comunità, ricostituita e ricompattata nel suo Signore, dovrà fare discepoli del Risorto attraverso la Parola e il Battesimo. È una comunità che si colloca in un contesto temporale ormai molto lontano dagli avvenimenti storici di quel venerdì e di quella domenica successiva e che ora è più preoccupata a portare avanti la missione universalistica, di cui si sente portatrice e responsabile di fronte a tutte le genti. Non compare più, qui, il verbo khrÚssw (kerísso) caratteristico del primissimo annuncio, ma prevalgono i verbi propri dell'insegnamento (did£skw, didásko) e dell'apprendimento (manq£nw, mantzáno); il vedere Gesù non è più un vederlo fisicamente nel suo aspetto storico o un vederlo ancora in modo incerto e confuso, ma è un vederlo nella fede („dÒntej, idóntes), un ascoltarlo e un accoglierlo nella sua Parola; è un Gesù che è percepito nella pienezza della sua glorificazione, plenipotenziario, il Signore che domina tutti gli eventi della storia e del cosmo intero; il Signore che esercita il suo nuovo potere su tutte le genti, che egli chiama a sé attraverso la nuova comunità messianica, che egli ha insignito del suo potere e della sua autorità, per mezzo non più dell'annuncio (khrÚssw), ma dell'insegnamento (manq£nw), mentre le genti, le nazioni intere sono definite come le nuove discepole. La comunità messianica ristretta, dunque, non esiste più, ma come il suo Signore, essa ha acquisito una nuova dimensione: quella dell'universalità, alla quale, ora, si sente chiamata e nella quale è proiettata.
La struttura dell'unità narrativa (vv.16-20) è scandita in due parti, caratterizzate dalla presenza dei personaggi, che le animano. La prima parte ha come attori i discepoli, che l'autore definisce in quattro movimenti, a loro volta, suddivisi in due momenti:
a)
vanno in Galilea;
b)
salgono sul monte;
a')
vedono
Gesù e gli si prostrano davanti;
b')
sono presi dal dubbio.
Nella seconda parte domina la figura di Gesù, colto nel fulgore della sua onnipotenza divina. Questa seconda parte è scandita, a sua volta, in tre momenti:
a) Gesù si presenta come il Cristo cosmico, in cui ogni potere è stato accentrato;
b) In virtù del suo potere affida ai discepoli la sua missione, che consiste nel fare discepole tutte le nazioni;
c) Battesimo ed Insegnamento sono le due modalità con cui attuare la missione;
Questa unità
narrativa e l'intero racconto matteano si chiudono con la promessa
(28,20b) della presenza di Gesù in mezzo ai discepoli, che li
accompagnerà lungo cammino della storia, in mezzo agli uomini, fino
alla fine dei tempi.
Questa seconda parte è caratterizzata dal ripetersi, quasi ossessivo (ben 4 volte), dell'aggettivo quantitativo “p©sa” o “p£nta” (“tutto”): tutto il potere; tutte le nazioni; tutto quanto; tutti i giorni. Esso dà il senso della totalità e della pienezza dell’azione del Cristo risorto, che si estende universalmente, ormai senza più limiti spazio-temporali. Con la risurrezione, dunque, il Gesù della storia è stato trasformato nel Cristo cosmico, che per mezzo della comunità credente si dona a tutte le genti13.
I vv.16-17 introducono il lettore in un contesto squisitamente ecclesiale. Il racconto, infatti, sembra essere quello proprio di una apparizione, ma, in realtà, manca qui tutta la struttura storico-narrativa delle apparizioni vere e proprie: il Gesù che appare, i discepoli che non lo riconoscono, lui che si fa riconoscere con qualche gesto tangibile, l'incontenibile gioia da parte dei discepoli, che lo riconoscono e si intrattengono con lui. Qui, niente di tutto questo: i discepoli lo vedono e si prostrano davanti a lui in adorazione. L'impatto con Gesù qui è immediato, non vi sono più emozioni o fremiti di gioia, ma soltanto un difficile atto di fede nel Risorto. Essi, infatti, salgono sul monte e lo vedono (“E vedendolo”). Il verbo usato è “„dÒntej”, il verbo proprio della fede. Gesù ora è colto soltanto nella fede e nella sua parola. Il contenuto di questo atto di fede è il riconoscerlo e l'adorarlo vero Dio. Il verbo usato, qui, è quello proprio dell'atto di adorazione, quello che lega esistenzialmente lo schiavo al suo padrone: “prosekÚnhsan” (prosekínesan), segnando in tal modo tutto lo scarto che intercorre tra il Risorto i suoi discepoli, tra il suo nuovo stato di vita e quello dei discepoli. Il vedere dei “discepoli” ora è solo quello della fede; e i discepoli a cui Matteo qui allude non sono più i primissimi seguaci di Gesù, bensì coloro che compongono la comunità dei credenti, la sua stessa comunità, la quale crede e adora Gesù come Figlio di Dio, ma nutre dei dubbi sulla sua figura di risorto e sulla sua divinità, per i motivi che sopra si erano accennati; ecco perché “vedendolo si prostrarono, ma essi dubitarono”.
Il dubbio è una costante che accompagna le apparizioni del Risorto e viene superato da un gesto materiale di Gesù, come il mangiare (Lc 24,42-43); o da una verifica empirica, come per Tommaso (Gv 20,26-28); o da una nuova apparizione, come in Mc 16,14ss. o da un miracolo come in Gv 21,5-7a. Qui, in Matteo, niente di tutto questo. Ciò che fa superare il dubbio è soltanto la parola, il messaggio che Gesù lascia ai discepoli. Siamo, quindi, ben lontani dai tempi dei fatti. La cornice storica è sostituita dalla Parola; la fede poggia, ora, solo sull’annuncio, che si è fatto Tradizione. Anche questa apparizione, che si pone in parallelo a quella dei vv.9-10, riservata alle sole donne, è, pertanto, una costruzione di Matteo, che indica alla sua comunità come, ora, l'unico modo per poter vedere Gesù e per poterlo raggiungere è soltanto la fede nella sua Parola, quella Parola che è stata loro tramandata dalla Tradizione, che conserva in sé l'esperienza e la fede dei primi testimoni.
Il v.16 si apre con una connotazione storica: “Gli undici discepoli”, in quanto che il dodicesimo, Giuda, si era perduto. Tuttavia, l'aggancio ad essi è soltanto apparente. Per l'autore, infatti, la figura dei discepoli è divenuta ormai paradigmatica, vedendo riflessi in essi i credenti della sua comunità, la quale affonda le sue radici e ha le sue origini nel Gruppo dei Dodici. Anche questo passo, quindi, viene riletto in chiave ecclesiale. Inoltre, quel “fate discepole tutte le nazioni” lascia ben intendere che, ormai, il concetto dei discepoli storici è stato superato per lasciar spazio a quello più ampio di “discepolato universale”, in cui confluiranno tutte le genti.
Gli “Undici discepoli ”, pertanto, che “vedono”, cioè credono, e che “si prostrano”, cioè adorano la divinità di Gesù, ma dubitano della sua risurrezione e della sua figliolanza divina, riflettono, in realtà, la situazione dei credenti della comunità matteana, che sono in bilico tra l’adorazione e il dubbio.
Essi “andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva comandato loro”. La Galilea, una regione geografica, che viene menzionata 16 volte nel racconto matteano. Essa è la patria di origine di Gesù (Mt 21,11), il luogo in cui egli reclutò i suo primi discepoli (4,18-22) e che egli evangelizzò per prima e da cui partì la sua missione universale (4,23-25; 27,55); è il luogo in cui egli fissa l'appuntamento con i suoi dopo la sua risurrezione (26,32); il luogo, quindi, del ritrovamento e della ricostituzione della prima comunità messianica attorno al suo Signore. La Galilea, dunque, più che un luogo geografico, nel racconto matteano, diventa un luogo teologico, dove trae le sue stesse origini spirituali la comunità dell'evangelista. Per tre volte, infatti, il nome Galilea, qui, viene associato al verbo Ñr£w, il verbo proprio della fede (28,7.10.16-17). Questo significa che la comunità matteana, ora, è chiamata a ripercorrere l'avventura del suo Signore, che essa saprà ritrovare e sperimentare, ma soltanto nella fede, creando una sorta di continuità spirituale tra la primitiva missione di Gesù e la propria. Una continuità che viene anche esplicitamente sottolineata nel v.20a: “Insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato”. L’insegnamento di cui, ora, i discepoli devono farsi carico è strettamente agganciato a quello lasciato loro dal Gesù terreno, creando, così, una stretta e inscindibile continuità tra storia e metastoria.
L'appuntamento galilaico trova il suo vertice sul monte, che Gesù aveva comandato loro. In realtà non vi è nessun ordine circa il luogo preciso del ritrovamento, ma soltanto un'indicazione generica della regione: ci si doveva trovare in Galilea (26,32; 28,7.10). Ora, qui, viene precisato il luogo esatto del ritrovo: il monte. Non si tratta di un monte qualsiasi, ma “del monte”, un luogo che è qualificato sia da un articolo determinativo (e„j tÕ Ôroj, eis tò óros, sul monte) che da un comando che lo riguarda (oá ™t£xato, û etáxato, di cui ha comandato); è un monte che non possiede un nome, perché non si tratta di un luogo geografico, ma di una metafora, un simbolo, che si aggancia ad altri monti propri del racconto matteano. L'ordine impartito è di trovarsi sul monte. L'attività predicatoria di Gesù inizia proprio su di un monte e attorno a lui si avvicinarono i discepoli (5,1) e a loro Gesù rivolge il primo grande discorso (5-7). Egli, là, si era mostrato come il nuovo Mosè che impartiva la nuova costituzione per il nuovo credente; il Dio che sedeva nuovamente in mezzo al suo popolo e lo ammaestrava14. Il monte è il luogo in cui era stata posta quella città metaforica, simbolo della nuova comunità messianica, che si era radunata attorno al suo Signore, perché non restasse nascosta, ma diventasse punto di riferimento per tutti, espletando in tal modo la sua funzione universale (5,14). Il monte è il luogo dove Gesù condusse alcuni suoi discepoli e là si manifestò loro nella verità della sua gloria (17,1-2), perché essi ne diventassero testimoni a tutte le genti dopo la sua risurrezione (17,9). Ed ecco, questo monte, nella pluralità dei suoi significati, ricomparire qui, per l'ultima volta. I discepoli sono convocati sul monte, sede della dimora di Dio15, dove il Risorto associa a sé i suoi, ricompattandoli nuovamente attorno a sé, ora in modo nuovo. Da qui egli, sacramentato nei suoi, fa ripartire la sua missione di sempre, quella che il Padre gli aveva affidato e che ora egli affida ai suoi, perché siano testimoni della sua gloria (17,9). Dal Padre a Gesù, da Gesù ai suoi (Gv 20,21). Tutti apostoli, dunque, tutti inviati dell'unico e comune Padre (Gv 20,17b), perché Egli possa essere anche Padre di tutti, così com'era nei primordi dell'umanità (1Cor 15,28). La missione dei discepoli, qui trasformati in apostoli, parte, dunque, dal monte della gloria divina e ha, quindi, le sue origini nello stesso Risorto, che dal Padre ha ricevuto la pienezza di ogni potere (28,18b), che trasferisce ai suoi (28,19a).
Con i vv.18-20 cambia lo scenario narrativo, si passa dai discepoli, certo credenti e adoranti (v.17a), ma dalla fede ancora incerta e titubante (v.17b), allo splendore di un Cristo plenipotenziario, che si staglia sullo sfondo della sua gloria, ormai indiscussa e imperitura, e che non conosce più la relatività della storia e i limiti spazio-temporali. Un Cristo che si muove in una dimensione universale e cosmica, che abbraccia, ormai, tutte le genti e con esse, per un principio di solidarietà16, l'intero creato. Una scena che richiama da vicino Dn 7,13-14, dal quale Matteo, forse, l'ha in qualche modo mutuata, se non letteralmente, almeno trasferendovi il senso dell'invincibile e definitiva onnipotenza e dell'insuperabile grandiosità dello splendore, da cui si irradia ogni potere divino: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”. Una visione a cui, similmente, si associa anche Paolo nella sua 1Cor 15,20-28, in cui egli vede l'azione rigenerante della risurrezione di Cristo, dal quale si sprigiona un potere che sottomette tutte le forze avverse, così che tutto venga riconsegnato al Padre nel suo splendore originario. Egli, il Risorto, ora è posto sul monte glorioso di Dio e appartiene definitivamente alla sua dimensione; da qui egli si manifesta nella sua sublime e insuperabile signoria. Una visione questa che si aggancia in qualche modo alla terza tentazione in cui il diavolo portò Gesù “su di un monte altissimo”, promettendogli un potere universale immediato ed eclatante (4,8-9), che Gesù ora ha comunque raggiunto, ricevendolo, però, direttamente dal Padre, dopo essere passato attraverso l'obbedienza della croce (Fil 2,8). “Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,9-11).
La struttura di questi ultimi vv.18-20, molto elaborati, è scandita in tre parti:
a) v.18: cornice introduttiva
b) vv.19-20a: il mandato
c) v.20b: la promessa
Il v.18 è suddiviso in due momenti. Nel primo momento dominano tre verbi: avvicinarsi, parlare e dire. Nel secondo vi è l'annuncio del Cristo plenipotenziario, che dà il tono all'intera pericope, riempiendola di autorità e potenza divine. Il versetto si apre con due movimenti di Gesù il quale si avvicina ai discepoli. Il verbo usato è “prosšrcomai” (prosércomai), che letteralmente significa “andare verso” e, quindi, avvicinarsi, accostarsi, mettersi a fianco di. Il precedente v.17 si chiudeva presentando i discepoli credenti („dÒntej), adoranti (prosekÚnhsan), ma ancora afferrati dal dubbio sulla vera natura di Gesù (oƒ de ™d…stasan). Ora egli si avvicina a loro, togliendo dunque le distanze del dubbio, il quale ancora li separa da lui, e lo fa per mezzo della sua parola, espressa dai due verbi dicendi “™l£lhsen” e “lšgwn”. Ora Gesù può essere creduto e percepito soltanto attraverso la sua parola. Anche i due discepoli di Emmaus riescono a raggiungere e a sperimentare il Risorto soltanto attraverso la sua parola e le Scritture (Lc 24,25-27.32). La fede della chiesa primitiva, dunque, si fonda sulla Parola e sulle Scritture. Soltanto queste, ora, possono togliere ogni dubbio e consentire l'accesso al Risorto, sperimentandone la forza salvifica.
La seconda parte del v.18 riporta l'espressione che mette in evidenza il nuovo stato di vita di Gesù, una sorta di carta di identità, che qualifica la sua nuova condizione: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. “'EdÒqh moi” (Edótze moi), “Mi è stato dato”. Il verbo è posto all'aoristo passivo. In quanto passivo divino o teologico, esso rimanda l'azione a Dio stesso; in quanto verbo all'aoristo esso esprime un atto puntuale nel tempo, da cui si è originato il dono; un dono che ha una duplice origine, la prima prossima, che rimanda alla risurrezione stessa, nella quale Gesù è manifestato vero Figlio di Dio con potenza per mezzo dello Spirito di santificazione, che lo associa a Dio stesso (Rm 1,4); la seconda assoluta, che si richiama a quella gloria e onnipotenza, che Gesù aveva avuto presso il Padre prima della sua incarnazione (Gv 17,5), quando Giovanni contemplava il Verbo nel principio eterno e assoluto del Padre (Gv 1,1-2). Quel “'EdÒqh moi”, dunque, parla della riconquistata posizione del Figlio presso il Padre, che in quel dono compiuto nella risurrezione, lo ha ricoperto di ogni potere (p©sa ™xous…a, pâsa exusía), ricostituendolo Figlio nella sua gloria eterna, di cui si era spogliato per assumere una natura di servo, divenendo simile agli uomini (Fil 2,6-7). Quel “'EdÒqh moi”, dunque, restituisce al Risorto quella gloria e quel potere che gli erano propri e connaturati fin dall'eternità. Si tratta di un potere pieno, assoluto e indiscusso, che non conosce più i limiti della relatività storica e che assume, invece, le connotazioni dell'universalismo cosmico. Si tratta di un potere e di una gloria divini, che abbracciano il cielo e la terra, che vengono in tal modo avvolti e coinvolti dalla potenza salvifica di Cristo. Si compie così il disegno del Padre, fare di Cristo il cuore del mondo, ricapitolando in lui tutte le cose (Ef 1,10), perché tutto fosse a lui sottoposto, così che tutto fosse in lui riscattato e nuovamente ricondotto al Padre nel suo splendore originario (1Cor 15,23-27).
I vv.19-20a sono dedicati alla missione affidata agli Undici, che lascia trasparire in realtà la struttura e il sentire missionari propri della comunità matteana, che ci collocano ben oltre il I sec. Una missione che si è già data degli obiettivi e degli strumenti di attuazione. Innanzitutto il proselitismo, come dice il verbo “maqhteÚsate” (matzeteúsate), “rendere discepolo” attraverso il far conoscere, il far comprendere, l'informarsi, lo studiare. Questo è il senso del verbo manq£nw. Siamo dunque molto lontani dal verbo khrÚssw, che indica il primissimo annuncio, nato nella spontaneità e nell'entusiasmo del primo momento. Esso è il verbo proprio dei primi annunciatori, di quei predicatori, provenienti dal folto gruppo di discepoli, che seguivano da vicino Gesù per le strade della Palestina, affascinati dalle sue parole e dal suo operare. Nel verbo manq£nw non c'è più niente di lasciato al caso, più niente di spontaneo, ma una organizzazione di ruoli e una sistematica programmazione, che nasce dalla coscienza della propria nuova identità e dei compiti che ne conseguono. In secondo luogo vi è il battesimo, che funge da strumento di incorporazione nella nuova fede e che si dà al termine di un cammino di fede, espresso dal verbo “manq£nw”. E che il battesimo si trovi alla fine di un cammino di fede, che potremmo paragonare ai primi catecumenati, lo dice proprio la particella e„j (eis) che indica un moto a luogo. Il battesimo viene dato nel (eis) “nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Si tratta, quindi, di uno strumento che conduce il nuovo credente nel seno della Trinità, mettendolo in stretta relazione con essa, di cui condivide, ora, la vita. La missione, quindi, viene concepita come un raccogliere le genti attorno al nuovo annuncio di salvezza, per ricondurle tutte in seno a Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. La formula battezzatoria risente ormai di una assodata liturgia, propria della comunità matteana, frutto di una sintesi teologica e dottrinale, che deve essere durata parecchi decenni. Essa, dunque, non nasce dalle labbra di Gesù, ma vi è stata posta da Matteo. Certo, i nomi di Dio Padre, di suo Figlio e dello Spirito Santo già circolavano in vario modo negli Scritti neotestamentari, allora in fase di formazione17. Il concetto di Trinità, dunque, anche se non espresso in termini dottrinali chiari era già presente. Matteo, dunque, non ha inventato niente, ma ha preso dalla Tradizione e ne ha fatto una sua elaborazione. Ed è proprio questa elaborazione dottrinale, tradotta in formula liturgica e sacramentale, che rispecchia una chiesa, ormai, molto avanzata nel tempo e che da qualche decennio ha già superato il I sec.
Il terzo momento è l'indottrinamento, espresso dal verbo “did£skw” (didásko), che dice insegnamento, istruzione, ammaestramento, indottrinamento. Esso riguarda non l'annuncio di Gesù, bensì tutte quante le cose che lui ha comandato (p£nta Ósa ™neteil£mhn Øm‹n, pánta ósa eneteilámen imîn). Non si tratta più, dunque, di annuncio, bensì di comandi, di prescrizioni, di cose da eseguire; si tratta di elaborazioni dottrinali fondate sulle disposizioni imperative di Gesù, che la Tradizione passa ai nuovi credenti..
Con l'espressione “tutte quante le cose che vi insegnai” Matteo riallaccia il Gesù risorto a quello terreno, creando una continuità, che differisce solo nel modo di porsi, ma non nella sostanza. Per Matteo, dunque, l’insegnamento del Gesù terreno, riscattato dal Cristo risorto, diventa un comandamento (™neteil£men= comandare, ingiungere, ordinare). Qui Matteo usa l’aoristo (™neteil£men) per indicare un fatto puntuale nel tempo (Gesù terreno), ma che, in virtù della risurrezione, produce i suoi effetti anche nel presente. L’annunciare, quindi, del Gesù risorto implica il ricordo e l'aggancio al Gesù storico.
Questo ampio sviluppo missionario, dal respiro universale (p£nta t¦ œqnh) e aperto al mondo dei gentili, è qualificato da due termini con cui inizia il v.19: “poreuqšntej oân” (poreutzéntes ûn), “Andando, dunque”. Il primo termine (poreuqšntej), tradotto in italiano con un gerundivo, è in greco un participio presente, che indica la natura e la modalità dell'essere di chi compie l'azione; e, in quanto verbo al presente, esprime la persistenza dell'azione, che vede il discepolo impegnato in una costante attualizzazione e inculturazione dell'annuncio, di cui è portatore. I discepoli sono, dunque, degli “Andanti”. Il verbo poreÚw significa partire, camminare, andare, viaggiare, attraversare. Si tratta di un verbo di moto, che designa il dinamismo del movimento missionario, il cui significato e il cui senso vengono definiti dai verbi che abbiamo analizzato sopra: rendere discepoli, battezzare e insegnare. Ma ciò che dà senso a tutta l'azione missionaria, infondendo in essa autorità e autorevolezza è quel “dunque” (oân), che lega, rendendoli conseguenti e dipendenti dal v.18b, i vv. 19-20a, cioè l'intera missione nel suo completo e pieno esprimersi. Il Gesù glorioso si è presentato ai suoi sul monte nella pienezza del suo potere e nella sua onnipotenza (v.18b). Egli li ha associati a sé, rivestendoli e rendendoli partecipi del suo potere universale. Da questo monte, sede della dimora divina, ricoperti dello stesso potere del Risorto sono stati resi strumenti della sua azione in mezzo agli uomini di ogni latitudine e di ogni tempo. L'azione missionaria, di cui sono investiti tutti i discepoli, per loro natura, ha, dunque, origini divine e possiede in se stessa l'autorità e l'autorevolezza dello stesso Risorto.
Il v. 20b chiude l'intero racconto matteano con una solenne promessa di Gesù e lo fa in modo brusco, aprendo un nuovo e improvviso scenario inatteso con quel “Ed ecco” (kaˆ „doÝ): “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo”.
Quell’espressione “sono con voi” è carica di significati. Essa richiama da vicino le promesse di assistenza che Jhwh faceva ai suoi eletti o all'intero popolo, impegnati in qualche missione18. Qui, alla stregua di Jhwh, Gesù promette la sua presenza gloriosa in mezzo ai suoi discepoli; una presenza che richiama da vicino la shekinah, la presenza gloriosa di Jhwh in mezzo al suo popolo. Si viene, quindi, a creare un forte parallelismo tra Gesù e Dio. Gesù, dunque, è il “Dio con noi”, cioè l’Emmanuele e come tale viene qui indicato da Matteo.
Si ha, pertanto, qui, un’inclusione con il v. 1,23, che abbraccia l'intero vangelo: “Ecco, la vergine avrà in grembo e partorirà un figlio e chiameranno il suo nome Emmanuele (Is.7,14), che tradotto significa “Dio con noi”. Questa ampia inclusione qualifica il Gesù matteano come il Dio che è tornato in mezzo al suo popolo, accompagnandolo per un tratto della sua storia, ma lasciandogli l'eredità della sua Parola, in cui egli si è sacramentato e in cui il suo popolo lo può sempre incontrare.
Se
Gesù è il “Dio-con-noi”, ciò significa che in Cristo
“noi-siamo-con-Dio”, siamo tornati ad essere nuovamente sua
proprietà, regno di sacerdoti e popolo santo (Es 19,5-6). Gesù si
costituisce, quindi, come il punto della ritrovata ricongiunzione tra
Dio e gli uomini. In questa prospettiva, tutta l’opera di Gesù va
compresa come il tentativo di Dio di ricucire i rapporti con gli
uomini, riprendendo quel dialogo interrotto nel Paradiso Terrestre,
tra Dio e Adamo. Dopo la colpa Dio si era messo subito alla ricerca
dell'uomo perduto e, rivolgendosi a lui, lo invocava: “Dove sei?”
(Gen 3,9). Ora in Cristo e per Cristo, questo uomo perduto e travolto
dalla colpa, è stato ricostituito ad immagine e somiglianza di Dio;
quest'uomo, ora, senza più alcun timore e alcuna paura, può
rispondere al suo Dio, che lo cercava: “Signore, eccomi, sono qui”,
poiché, ora, “Non c'è più nessuna condanna per coloro che sono
in Cristo Gesù” (Rm 8,1). L'uomo, infatti, in Cristo è stato
posto nel giusto rapporto con Dio e reso capace di riprendere quel
dialogo interrotto. Un dialogo che, iniziato nel suo Cristo, ora
continua attraverso la comunità dei credenti (Gv 14,23) e per mezzo
della sua Parola interpella gli uomini di ogni epoca e di ogni
latitudine, spingendoli a far nuovamente parte del suo mondo, così
com'era nei primordi, quando “Dio
vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”
(Gen 1,31a); quando tutto era ancora incandescente di Dio.
1I racconti evangelici lasciano trasparire, anche se non in modo immediato, come i discepoli di Gesù non fossero soltanto dodici, un numero questo del tutto simbolico, che si aggancia e si contrappone alle dodici tribù d'Israele, proponendosi in prospettiva come la matrice di un nuovo Israele, il cui capostipite non è più Giacobbe e i suoi dodici figli, bensì Gesù e i suoi Dodici. Luca, infatti, ci racconta che Gesù “Dopo questi fatti designò altri settantadue discepoli” (Lc 10,1). Quel “altri” dice “oltre” i dodici, che Gesù aveva chiamati a sé e definiti in Lc 9,1. E', comunque, da pensare che questi settantadue, che Gesù scelse e inviò, costituendoli in tal modo apostoli, non fossero soltanto loro, bensì un numero di molto superiore, altrimenti l'evangelista avrebbe detto che Gesù prese gli altri settantadue, cioè quelli rimasti dopo aver scelto i primi dodici (9,1). Giovanni ci informa, inoltre, come “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.” (Gv 6,66). Si era, dunque, trattato di un numero consistente; ma è da pensare che i discepoli restanti non fossero un numero esiguo. È molto probabile, inoltre, che quelle folle, che attorniavano costantemente Gesù e insistentemente lo seguivano nei suoi movimenti, nella sua predicazione e nel suo operare, divenendone testimoni anonimi, fossero, in realtà, dei discepoli, che, affascinati, seguivano Gesù, senza, tuttavia, aver compiuta la scelta di una sequela aperta e definitiva, che li avrebbe impegnati in un modo diverso e non soltanto anonimo. Paolo, del resto, riportandoci un'antica tradizione, ci testimonia come Gesù “[...] apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti” (1Cor 15,6). Ci vengono testimoniati, poi, altri discepoli, oltre ai dodici, come Giuseppe d'Arimatea (Mt 27,57; Gv 19,38), Nicodemo, il quale, benché non venga esplicitamente insignito del titolo di “discepolo”, tuttavia, secondo il IV vangelo, sembra che lo fosse (Gv 3,1-10; 7,50-52; 19,39); si pensi, ancora, ai due discepoli di Emmaus, di cui conosciamo il nome di uno, Cleopa (Lc 24,13); Matteo, poi, menziona un gruppo di donne, che seguirono fedelmente Gesù dalla Galilea fino al Golgota per servirlo (Mt 27,55), svolgendo per prime un servizio di diaconia all'interno di una comunità, in via di formazione, di discepoli. L'insieme, quindi, di questi dati lascia intendere come il movimento di seguaci e discepoli, che Gesù aveva prodotto attorno a sé, fosse molto ampio e consistente e tale da poter, nel giro di pochi mesi dalla morte-risurrezione di Gesù, costituirsi in numerose comunità credenti, testimoniateci da Paolo e dagli stessi Atti degli Apostoli.
2Cfr. Mt 28,17b; Mc 3,21; 16,8; Lc 24,16.21; Gv 7,5.
3Cfr. Antichità Giudaiche, XVI, 63
4Cfr. il commento del cap.27,51 della presente opera.
5Cfr. il commento al cap. 27,61 della presente opera.
6Il verbo “venire” è stato tradotto qui al plurale, “vennero”, riferendosi alle due donne. In greco, tuttavia il verbo è al singolare, “Ãlqen” (êltzen, venne). Questo lascia pensare che vi fu una rielaborazione redazionale. Probabilmente l'unità originale presentava soltanto il nome di Maria Maddalena, come nella versione giovannea (Gv 20,1), ma poi l'autore ha voluto aggiungere, per dare una sequenza narrativa logica al suo racconto, anche l'altra donna, la madre di Giacomo e Giuseppe, che faceva coppia con la Maddalena in 27,61, dimenticandosi, però, di concordare il verbo con il soggetto, ora reso al plurale.
7Cfr. Mc 16,1-2; Lc 23,56-24,1.
8Il canone XV del Concilio di Calcedonia (451 d.C.) recita testualmente: “Non si ordini diacono una donna prima dei quarant'anni, e non senza diligente esame. Se per caso dopo avere ricevuto l'imposizione delle mani ed avere vissuto per un certo tempo nel ministero, osasse contrarre matrimonio, disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia anatema insieme a colui che si è unito a lei”. Se nel 451 i Padri della danno delle disposizioni circa l'ordine del diaconato delle donne, ciò significa che vi era un ordine femminile del diaconato, che essi si sentono in dovere di regolamentare per evitare gli abusi fin lì commessi. Si stabilisce un'età canonica di 40 anni, si esige un'adeguata preparazione che deve passare al vaglio di un attento esame, si esige da essa il nubilato e, infine, le si impone le mani in segno di consacrazione. Questo canone non fu mai soppresso dalla Chiesa ed è pertanto tuttora vigente anche se totalmente ignorato.
9Cfr. At 3,15; 4,10; 10,41; 13,30; 17,3; Rm 1,4; Ef 1,20; 1Ts 1,10; 2Tm 2,8.
10Cfr. Lc 24,25-27.32; Gv 20,9; At 10,43
11Per la simbologia dei piedi cfr. la voce “Piedi” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.
12In tal senso si pensi al quesito che i Sadducei posero a Gesù sulla questione di quella donna che aveva sposato sette fratelli (Mt 22,24-30): “Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie? Poiché tutti l'hanno avuta” (Mt 22,28). Sulla questione cfr. il commento ai vv. 22,23ss della presente opera.
13Cfr. 1Cor 15,27-28; Ef 1,10; Col 1,16.
14Cfr. il commento ai capp.5-7 della presente opera.
15Così era pensato il monte nell'antichità.
16Cfr. Gen 6,11-13;Rm 5,12-15; 8,19-23.
17Cfr. Mt 3,13-17; Gv 14,16-17a; 15,26; Rm 15,30; 1Cor 12,4-6; 2Cor 13,13; 1Pt 1,2. La stessa formula battezzatoria di Matteo si trova anche nella Didaché, in 7,1, che così recita: “Riguardo al battesimo, battezzate così: avendo in precedenza esposto tutti questi precetti, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in acqua viva”.
18Cfr. Gen 46,3-4; Es 3,12; 4,15; Dt 20,1-4; Gs 1,5; Is 41,10; 43,1-5; Ger 1,8.19; 15,20; 30,11; 46,28; Bar 6,6.-