IL VANGELO DI MATTEO


Il quarto grande discorso di Gesù



ALCUNE REGOLE DI CONVIVENZA CRISTIANA

ALL' INTERNO DELLA COMUNITA' MATTEANA:


particolare attenzione ai piccoli,
gradualità nei richiami,
importanza della preghiera comune
e in comunione,
perdono incondizionato




Introduzione, analisi e commento al cap. 18



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Introduzione


Dopo il lungo e pesante intermezzo di ben quattro capitoli (14-17), in cui Matteo ha dibattuto all'interno della sua comunità l'ostico problema della figliolanza divina di Gesù, della sua stessa natura divina e del suo messianismo sofferente, aspetti questi mal visti dai giudeocristiani perché urtavano contro la loro sensibilità religiosa e contro i principi della stessa Torah, a cui erano ancora saldamente vincolati, l'evangelista presenta con il cap. 18 il quarto grande discorso di Gesù. Anche questo è una raccolta di detti e di parabole di Gesù, finalizzati a stigmatizzare alcuni comportamenti all'interno della comunità matteana, sollecitandola ad adottare un nuovo stile di vita e di relazione, conformando il proprio vivere comunitario alle esigenze della nuova fede, che ha come fondamento non più la Legge mosaica, bensì la persona stessa di Gesù; un'esistenza, quella di Gesù, caratterizzata dal suo donarsi totale e incondizionato a favore di tutti, fino all'estremo gesto della sua consumazione sulla croce. Dono totale, unico e irripetibile del Padre agli uomini (Gv 3,16), che nel donare il proprio Figlio ha fatto dono anche di se stesso, porgendo in Gesù la mano all'intera umanità, parlandole di pace, di riconciliazione (Gv 20,19.21.26), di perdono e di accoglienza incondizionata (Mt 9,2; Lc 23,24). L'intero discorso, pertanto, si radica su di un solido fondamento cristologico e teologico (vv.5.10.11.14.35). Il tema di questo diciottesimo capitolo è dato proprio questo nuovo atteggiamento esistenziale nei confronti degli altri, improntato alla misericordia, al perdono e all'accoglienza; un comportamento che deve informare le relazioni comunitarie e sociali dei nuovi credenti.

L'evangelista, dopo la premessa di una sollecita e necessaria conversione all'umiltà e alla semplicità di vita (vv.3-4), tocca sostanzialmente quattro questioni, che molto probabilmente erano vivamente sentite all'interno della sua comunità1: a) particolare attenzione e rispetto verso i più piccoli nella fede (vv.5-10); b) gradualità nel richiamare chi ha sbagliato, tenendo presente che il Padre vuole tutti salvi (vv.12-18); c) il valore della preghiera comune e celebrata in comunione (vv.19-20); d) necessità di perdonare sempre e incondizionatamente (vv.21-35). A ben guardare, in ultima analisi, il leit motiv di questo capitolo è un vivo richiamo all'amore vicendevole, che tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, tutto perdona (1Cor 13,7).

Questo capitolo viene normalmente definito dagli esegeti e dai teologi come il discorso ecclesiale di Matteo. Personalmente non mi sento di condividere tale definizione, sia perché l'evangelista non sembra dare alcuna impostazione sistematica al suo quarto discorso; sia perché non si tratta di una esposizione ordinata di regole, che coinvolgono vari aspetti del vivere comunitario, ma si limita a delle esortazioni a tenere dei comportamenti nuovi, motivandoli sia teologicamente che cristologicamente; sia perché non si può parlare di vere e proprie regole, ma semplicemente di esortazioni di tipo pastorale e sapienziale, che hanno come parametro di raffronto il Padre e Gesù; esortazioni che sono sollecitate da persistenti problemi interni alla comunità e a cui il pastore, con accento preoccupato, cerca di far fronte2. Manca, infine, in tutto questo, il respiro oggettivo, astratto e universalistico, che è proprio di una regola e di un regolamento, finalizzati a stabilire dei modelli comportamentali e casistici, validi per tutti i componenti, rafforzati da sanzioni. Del resto basterebbe poco per rendersi conto della sostanziale differenza che intercorre tra questo cap.18 e le regole, che normavano la vita della comunità di Qumran. Siamo molto lontani da un vero e proprio regolamento ecclesiale, benché sembra essercene un piccolo accenno molto primitivo e rudimentale ai vv.15-17.

Il quarto grande discorso è sviluppato su di una struttura molto elaborata e complessa, certamente molto curata. La viva attenzione riservata da Matteo a questo capitolo lascia intuire il suo particolare interesse per le questioni qui trattate e che andavano a cadere nel bel mezzo di una comunità benestante, fatta di cittadini, ricchi commercianti e latifondisti3, ma che aveva anche come contropartita una vasta componente di poveri e di sfruttati. Entrambe le categorie di persone, giunte parimenti alla nuova fede, erano chiamate a convivere assieme nel reciproco rispetto; erano chiamate a condividere la stessa mensa, lo stesso culto e tutte si riferivano a Dio come loro unico Padre. Era, quindi, necessaria una profonda azione di riconciliazione tra tutte le componenti della comunità. Punto di partenza per tutti è un comune atto di conversione (vv.3-4), che deve portare a disarmare il cuore dall'odio, dai risentimenti, dalle invidie, dalle rivalità per aprirsi alla semplicità, alla disponibilità e all'accoglienza incondizionata di tutti.


La struttura del cap. 18

La struttura di questo capitolo si sviluppa su cinque parti4:

A) vv.1-10: questa pericope è piuttosto elaborata e la sua unità è garantita dal tema, che viene sviluppato su cinque livelli tra loro concatenati: viene posta la questione (v.1b) a cui si dà una prima risposta estesa, che va dalla definizione di chi è il più grande (v.4), a cosa si deve fare per diventarlo (v.3) e, per finire, quali sono gli atteggiamenti più consoni (v.5) e quali, invece, quelli da evitare (vv.6-9) nei confronti dei piccoli nella fede, che si scoprirà essere i veri grandi del Regno dei cieli. Il tutto si chiude con una sentenza finale ammonitrice (v.10a), che si muove su di uno sfondo teologico, fungendo da motivazione (v.10b).

Questa pericope si articola in tre parti:

1) I vv.1-4 sono delimitati dall'inclusione data dall'espressione “chi è il più grande nel regno dei cieli”, posta nei vv.1b e 4. All'interno di questa inclusione, i vv.1-2 formano la cornice introduttiva al quarto grande discorso, il cui tema di fondo è “Chi è il più grande nel Regno dei cieli”. La risposta viene data, in vario modo, dall'intero capitolo, che presenta alcune regole comportamentali (ma forse è meglio parlare di esortazioni), che devono guidare i rapporti e le relazioni all'interno della comunità. I vv.3-4, invece, portano alla scoperta che il più grande nel Regno è in realtà quello considerato più piccolo tra gli uomini. A questo si giunge attraverso un processo di conversione interiore. Questi versetti costituiscono la prima risposta alla domanda posta al v.1b;

2) i vv.5-6 delineano i due comportamenti estremi, tenuti nel relazionarsi con i più piccoli: accoglienza (v.5) e scandalo (v.6). Potremmo considerarli come due versetti di transizione, in quanto che il v.5 porta a logica conclusione la pericope vv.1-4, mentre il v.6 introduce il tema della pericope successiva: vv.6-10

3) i vv.6-10 formano un'unica unità narrativa compatta, delimitata dall'inclusione “uno di questi piccoli”, posta nei vv. 6 e 10. Tema centrale di questa pericope sono i piccoli, verso i quali si accentra la riflessione sullo scandalo. La pericope è articolata, a sua volta, in quattro parti:

a) v.6: accusa e sentenza;

b) v.7: ammonimento circa l'inevitabilità degli scandali;

c) vv.8-9: la risposta nei confronti degli scandali deve essere drastica e senza tentennamenti;

d) v.10: questo versetto si pone come sintesi conclusiva dell'intera pericope, assommando in sé sia l'inclusione del v.6 (“uno di questi piccoli”) che l'ammonimento del v.7 (Badate), che ha due destinatari: il mondo (v.7) e la stessa comunità matteana (v.10).

B) v.11: questo versetto è stato omesso perché non è presente in molti testimoni. Tuttavia, esso, così come inserito nel testo e nel contesto, forma sia da introduzione alla pericope seguente (vv.12-18) che da motivazione al perdonare: nessuna condanna per nessuno perché Gesù è venuto a salvare e non a condannare (fondamento cristologico del perdono). Per questo di fronte a chi sbaglia sono dettate alcune regole procedurali, finalizzate a recuperarlo. Solo nel caso estremo della persistenza nell'errore, il peccatore viene espulso dalla comunità, per evitare lo scandalo al suo interno.

C) vv.12-18: il tema di fondo di questi versetti è il recupero di chi all'interno della comunità sbaglia. La pericope è divisa in due parti:

a) vv.12-13: riportano una breve parabola finalizzata a sottolineare l'attenzione e la cura da tenere nei confronti di chi si è perduto. Essa è nel contempo preparatoria alla sentenza finale del v.14.

b) vv.15-18: se i vv.12-14 hanno costituito la parte motivazionale e teologica, questi, invece, formano la parte pratica e applicativa di quelli. Si tratta di una procedura di infrazione nei confronti di chi ha sbagliato. Questa prevede una gradualità nei richiami: dapprima, un richiamo personale e individuale; poi, un richiamo semiufficiale davanti a dei testimoni; infine, il deferimento ufficiale davanti alla comunità, che può scomunicare l'impenitente.

D) vv.19-20: Intermezzo circa l'efficacia della preghiera fatta in comune (dove ci sono due o tre) e in comunione (“si accordassero” … “riuniti nel mio nome”). Si vedrà, poi, come questi due versetti, più che un intermezzo, sono finalizzati a sottolineare la necessità di una armoniosa comunione, che deve caratterizzare non soltanto la preghiera in comune, ma lo stesso vivere della comunità.

E) vv.21-35: questi versetti affrontano la questione del perdono incondizionato e ampliano, completandolo, il tema della pericope vv.12-18, in cui si parlava dell'universale volontà salvifica di un Padre, che ha a cuore chi si è perduto. Qui, in questa pericope (vv.21-35), il tema è parallelo: c'è sempre chi sbaglia e c'è chi deve perdonare e non condannare, perché attraverso il perdono il perdonato si salvi. Nel comportamento del credente, quindi, deve riflettersi la volontà salvifica del Padre, che si esprime nel tentativo di recuperare chi si è perduto.

Anche questa pericope è scandita in tre parti:

a) vv.21-22: introduzione al tema del perdono, che deve caratterizzare il comportamento del nuovo credente;

b) vv.23-34: la parabola del servo malvagio;

c) v.35: la sentenza finale, che richiama da vicino la preghiera del Padre nostro, là dove si dice: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).



COMMENTO AL CAP. 18



vv.1-2: i due versetti formano la cornice introduttiva all'intero capitolo e ne forniscono la chiave di lettura, presentando fin da subito due atteggiamenti tra loro contrapposti: da un lato i discepoli, che perseguono posti di privilegio e di personale affermazione all'interno della comunità5; dall'altro Gesù, che indica lo stile di vita che deve caratterizzare il vivere comunitario, fondato sulla semplicità, sull'umiltà, sull'accoglienza, sulla disponibilità e simbolicamente rappresentato dal fanciullo.

Il v.1 si apre con una annotazione di tempo, che serve all'autore per creare uno stacco narrativo rispetto al precedente capitolo, introducendo il lettore in una nuova sezione letteraria: il quarto grande discorso di Gesù. Il versetto è caratterizzato dal movimento dei discepoli verso Gesù e da una questione che essi gli pongono e che, in qualche modo, rispecchia in se stessa il senso del movimento stesso: “Chi è il più grande nel regno dei cieli?”. Il verbo che ha per soggetto i discepoli è “prosÁlqon” (prosêltzon, si avvicinarono). È un verbo che qualifica la natura stessa del discepolo, il quale è colui che va verso Gesù, si avvicina a lui, ma ancora non ha innescato un processo di identificazione tale che chi vede il discepolo vede Gesù6, creando con lui una vera e propria simbiosi. Il verbo di moto, infatti, dice che il discepolo è in movimento verso (pros + êltzon) Gesù, ma non lo ha ancora raggiunto, non lo ha ancora fatto suo, non lo ha ancora metabolizzato nella sua vita. Si tratta di un discepolato ancora imperfetto, immaturo, segnato dall'intelligenza e dall'incapacità di compiere una scelta radicale e definitiva per Cristo. È molto probabile che qui Matteo stia pensando alla sua comunità di giudeocristiani, che si sono convertiti, ma non hanno ancora lasciato la Torah e il loro mondo mosaico. Il loro modo di concepire il Regno di Dio è molto concreto e pensano ad una sua realizzazione storica, ad un messianismo trionfante, ad un regno politico e militare, in cui la loro comunità costituisce il luogo in cui trovare spazi alle loro ambizioni e sognano posti di privilegio7. Da ciò la domanda, che tende ad ottenere un'indicazione da parte di Gesù, che consenta loro di farsi spazio in mezzo agli altri e poter, quindi, emergere sugli altri8. La questione non va sottovalutata e, a mio avviso, ha dei riferimenti storici reali, rispecchiando una tendenza, che doveva serpeggiare in modo vistoso e fastidioso all'interno delle prime comunità credenti. Doveva esserci una certa tendenza a rivaleggiare, a mettersi in mostra, a proporsi per incarichi e responsabilità che dessero lustro e privilegio in mezzo alla comunità. Si era molto lontani da una mentalità di servizio e di umile dono di se stessi in favore degli altri. Ne abbiamo degli accenni sia nei vangeli che negli scritti neotestamentari in genere9, mentre i ripetuti e insistenti richiami all'umiltà, alla mansuetudine, all'amore reciproco, ad essere servizievoli, accoglienti stanno ad indicare la diffusa litigiosità e competizione, che dovevano agitare molte comunità10.

La domanda posta, quindi, se da un lato lascia intravvedere, quasi in filigrana, questo agitarsi dei diversi membri della comunità matteana, dall'altro serve al suo pastore per porre al centro dell'attenzione e della riflessione dei suoi il vero atteggiamento che deve animare e informare i nuovi rapporti intracomunitari dei nuovi credenti.

Il v.2 fa da preambolo immediato al quarto discorso e ne lascia intravvedere il contenuto. Gesù, alla maniere degli antichi profeti, che con gesti simbolici trasmettevano il messaggio che Dio affidava loro11, pone in mezzo ai discepoli un bambino. Il versetto è scandito in due parti:


a) Gesù chiama a sé un bambino: è interessante rilevare il verbo che qui l'autore ha usato: “proskales£menoj” (proskalesámenos, dopo aver chiamato), composto dalla preposizione “pros”, che indica sia un moto a luogo (verso) che uno stato in luogo (presso); e il verbo “kalesámenos”, che significa chiamare, convocare. Gesù, dunque, chiama, convoca verso di sé e presso di sé un fanciullo. Ci troviamo di fronte ad una sorta di elezione e di predilezione, che Gesù riserva ad una determinata categoria di persone, definita con il termine “paid…on” (paidíon), che significa bambino, fanciullo, ma anche piccolo servo, piccolo schiavo; un'accezione quest'ultima che coniuga in sé non soltanto le caratteristiche proprie del fanciullo, ma anche quelle del servo, che per condizione e stato di vita è totalmente disponibile all'altro, che considera superiore a se stesso e da cui la propria vita dipende. Un termine, quindi, che da un lato parla di semplicità e accoglienza, dall'altro di umiltà, disponibilità, abnegazione, servizio12. Ecco, dunque, il modello che piace a Gesù, che predilige e sceglie per la sua nuova comunità messianica, riunita nel suo nome (v.20).

b) lo pone in mezzo ai discepoli: due sono gli elementi di rilievo in questa seconda parte del v.2: il verbo “œsthsen” (éstesen) e l'avverbio di luogo “™n mšsJ” (en méso). Il primo significa collocare, erigere, porre con forza, con vigore; ma anche disporre, ordinare, istituire, stabilire. L'azione di Gesù, dunque, non si limita ad indicare il modello da lui prediletto, ma il suo collocare, il suo porre il fanciullo-servo in mezzo alla comunità dei discepoli, diventa una sorta di statuto vincolante, su cui tutti i membri della nuova comunità devono confrontarsi e riparametrarsi. Non è un optional lasciato alla discrezionalità e alla sensibilità dei credenti, ma un preciso comandamento, uno statuto che deve qualificare e caratterizzare i rapporti intracomunitari dei nuovi credenti.

L'avverbio “en méso”, in mezzo a loro, dice fin da subito la centralità che deve occupare in seno alla comunità tale modello divino. Esso è collocato nel cuore stesso della comunità dei credenti, perché tutti vi si riferiscano e vi possano attingere, così che il ritmo della loro vita, dei loro rapporti, il loro relazionarsi, sia intra che extra comunitario, riflettano sempre in se stessi tale modello.

I vv.3-4 sono tra loro complementari. Il primo, infatti, indica la strada per realizzare in se stessi il modello indicato al v.2; mentre il secondo chiude l'indicazione con una sentenza, che sancisce, in riferimento al Regno dei cieli, la superiorità e la grandezza della persona umile e piccola13, che l'evangelista già aveva rilevato al v. 11,11, dove nell'affermare la grandezza di Giovanni Battista, sottolineava l'indiscutibile superiorità del più piccolo nel Regno dei cieli.

Il v.3 si apre con una intonazione solenne, che gli conferisce un tono di gravità: “'Am¾n lšgw Øm‹n” (Amèn légo imîn), “In verità vi dico”. Un'espressione che ricorre 31 volte nel solo vangelo di Matteo e che suona come una sorta di giuramento, che conferisce un'impronta di indiscussa e solenne veridicità a quanto segue, impegnando su questo la stessa Parola di Dio14.

Se il v.2 ha indicato il modello su cui si è incentrata la predilezione divina, il v.3 espone le modalità per attuare nella propria vita tale modello di relazione comunitaria, che vede, nella semplicità e nell'umiltà di cuore, il porsi l'uno al servizio dell'altro. Anche qui due sono i verbi più significativi, che indicano il cambiamento che ognuno è chiamato a compiere nella propria vita, per far vivere in se stessi questo modello: “strafÁte kaˆ gšnhsqe” (strafête kaì ghéneste). Sono due verbi che scandiscono in profondità il movimento della conversione: il primo significa volgere indietro, dare un'altra direzione, rovesciare, cambiare; il secondo, invece, dice diventare, accadere, nascere, compiere. Per incarnare in se stessi e metabolizzare nella propria vita un simile modello di origine divina è necessario, quindi, rovesciare completamente il proprio modo di vivere e, ancor prima, il proprio modo di essere e di porsi nei confronti dell'altro; è necessario cambiare direzione e tornare indietro, tornare alla semplicità e alla mitezza del cuore proprio del bambino e del piccolo servo, la cui vita dipende da quella degli altri; una vita, quindi, che non gli appartiene, ma che viene spesa in funzione dell'altro, che egli sente superiore a se stesso (Fil 2,3). Ma non è sufficiente questo radicale dietro-front, è necessario anche “diventare”, la quale cosa implica un cammino verso un nuovo stile di vita, che viene sentito come un evento dirompente in se stessi, come una nuova nascita. A Nicodemo il Gesù giovanneo ricorda che “[...] se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3). Benché in questo passo Giovanni intendesse cose ben diverse da ciò che stiamo considerando, tuttavia rimane pur sempre significativo come per entrare nel Regno dei cieli sia necessario rinascere dall'alto, cioè riprodurre nella profondità del proprio cuore e del proprio essere le esigenze di Dio, che Gesù ha significato, nel nostro caso, nel bambino. Di certo non si tratta di adottare comportamenti infantili. Quel “come bambini” sta ad indicare che è necessario incarnare nel proprio cuore le virtù caratteristiche del bambino, che gli sono proprie in questa fase della vita non per meriti, ma per natura. Sono proprio loro i privilegiati della rivelazione, che il Padre ha attuato nel suo Cristo, e a loro è dedicata la stupenda preghiera del Gesù matteano: “[...] <<Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.>>” (Mt 11,25-26). L'espressione “così è piaciuto a te” in greco ha la stessa radice del compiacimento che il Padre ha riposto nel Figlio in occasione del suo manifestarsi nel battesimo e nella trasfigurazione (Mt 4,17; 17,5b). Questa equivalenza dice come l'attenzione e l'amore del Padre, posti su Gesù, siano parimenti, pur nel rispetto della sostanziale diversità dei destinatari, riservati ai piccoli, che in tal senso vengono assimilati al Figlio, il quale nel racconto delle tentazioni ha optato per una rivelazione e una testimonianza del Padre all'ombra e nel nascondimento della debolezza della propria carne (Fil 2,6-8).

Il v.4 sai apre con la particella oân (ûn, pertanto), che dà un senso conclusivo e definitivo al contenuto dell'intero versetto, rafforzandone il tono sentenziale. L'universalità della sentenza, che coinvolge ogni credente, è evidenziata dal pronome Óstij (óstis, chiunque). Il versetto è scandito in due parti tra loro contrapposte e tali da sfiorare il paradosso: “chiunque si renderà umile … questo è il più grande”. La contrapposizione non è soltanto un semplice escamotage oratorio, per meglio colpire l'attenzione del lettore, ma contiene in se stessa un profondo concetto teologico e cristologico insieme: l'umiltà, il servizio agli altri, lo spendere la propria vita per l'affermazione degli altri, il trovare la propria realizzazione in quella degli altri, tutto questo è la vera grandezza, che ha il suo prototipo sia nel Padre sia in Cristo. Quanto al Padre, perché donando il Figlio ha donato se stesso in lui (Gv 3,16); quanto al Figlio, perché ha operato in se stesso uno svuotamento delle proprie prerogative divine, assumendo le vesti di una natura umana decaduta e degradata dal peccato, assaporandone l'amarezza e il dolore fino alla morte di croce, facendo della sua vita un dono totale e totalizzante a favore dell'intera umanità (Gv 1,1-2.14a; Fil 2,5-8). Molto significativo in ciò è il verbo tapeinèsei (tapeinósei), che significa rendersi umile, piccolo, insignificante, che, da un lato, si associa a quel rinnegare se stessi per poter seguire Gesù sul cammino della croce; e dall'altro, richiama quel processo di svuotamento della gloria divina (˜autÕn ™kšnwsen, eautòn ekénosen, svuotò se stesso – Fil 2,7a) sopra ricordato, a cui si è sottoposto Gesù, facendo della propria vita una proesistenza.

I vv.5-6 nell'ambito dell'economia narrativa della pericope in esame (vv.1-10) sono molto importanti sia perché delineano in forma sentenziale (chi accoglierà … chi scandalizzerà) due modi contrapposti di relazionarsi a questi bambini; sia perché viene operata una identificazione tra questi bambini e Gesù; sia, infine, perché viene operato un passaggio fondamentale dai bambini ai piccoli, chiarendo in tal modo il vero significato del termine bambino, lasciando intravvedere di chi, in realtà, si stia parlando qui. Vedremo, poi, come dal v.15 e seguenti viene operato un terzo passaggio: dai bambini ai piccoli, dai piccoli ai fratelli. In ultima analisi Matteo sta parlando dei membri della sua comunità.

Se nei versetti precedenti si era messo in rilievo l'importanza del bambino, fondata esclusivamente sulla sua stessa natura di bambino, ora, con il v.5, la naturalità viene supportata e avvalorata con una motivazione cristologica, ponendo una identità tra il bambino e Gesù: chi accoglie un bambino nel suo nome, accoglie lui stesso. Un principio questo (identità tra Gesù e i piccoli), che doveva esser caro all'autore, se verrà da lui ripreso per ben due volte nell'ambito del discorso sul giudizio finale (25,40.45) e, per un'altra volta ancora, parlando dell'accoglienza dei missionari (10,40).

Il v.5 introduce, inoltre, un principio di accoglienza nel nome di Gesù, dando in tal modo un accento di sacralità liturgica all'accoglienza stessa, la quale rende sacro l'accolto, che assume in questo contesto l'identità di Gesù. Non si dice, infatti, “come se accogliesse me”, bensì “accoglie me”, ponendo in tal modo una corrispondenza non paragonativa, bensì diretta e reale tra il bambino e Gesù. Il motivo di questa sacralità, che affonda le sue radici nel divino, è motivata dal fatto che i loro angeli vedono continuamente il volto del Padre (v.10b). In tal modo la sacralità di questi bambini non ha soltanto un fondamento cristologico (riceve me), ma anche teologico, poiché viene ricondotta e agganciata alla fonte di ogni santità: il Padre che è nei cieli. Non si tratta qui di dare ospitalità nel senso tradizionale del termine, ma di di rendersi disponibili e rispettosi nei confronti di questi bambini, dando loro, in tal modo, spazio dentro se stessi, accettandoli per quello che sono, senza prevaricazioni, ma riservando loro un'attenzione servizievole.

La definizione della sacralità e della santità di questi bambini, motivata sia cristologicamente che teologicamente, se da un lato introduce simili figure nell'alea dell'appartenenza divina, dall'altro giustifica la dura presa di posizione nei confronti di chi arreca scandalo, introdotta con il v.6, altrimenti incomprensibile e inspiegabile alla luce della volontà universalmente salvifica del Padre (v.14) e di un perdono da donare sempre, comunque e in modo incondizionato (vv.21-35).

La sentenza del v.6, che implica in se stessa un giudizio divino, è scandita in due momenti: a) individuazione del reato: chi scandalizza uno di questi piccoli; b) la pena da auto-infliggersi, quale esecuzione di una sentenza divina emessa su di lui15. Si tratta della peggiore delle pene, perché legata alla disperazione di una colpa irreparabile e imperdonabile, poiché va a colpire direttamente ciò che apparitene a Dio e che Egli ha assimilato a Sé (vv.5.10). Lo scandalo, infatti, secondo il mondo biblico, non va inteso come un cattivo esempio, che in qualche modo turba l'animo di uno di questi piccoli, ma si tratta di porre in essere dei comportamenti tali da creare un ostacolo, un impedimento sul loro cammino di fede verso Cristo, fuorviandoli e facendoli cadere. Nella Bibbia l'idea di scandalo, infatti, attiene sempre all'idea del rapporto dell'uomo con il suo Dio, un rapporto che viene interrotto e che lo allontana da Lui16. La gravità di questo scandalo è data dal fatto che esso va a colpire i piccoli, definiti come coloro “che credono in me”. Il bambino, di cui si è parlato ai vv.1-5 acquista qui una sua più precisa fisionomia. Gesù, dunque, non stava parlando dei bambini, ma di persone ad esse assimilabili e che ora definisce come “i piccoli che credono in me”. Erano persone che dovevano formare, in buona parte, la comunità matteana e la cui fede non era ancora ben consolidata, ma in via di formazione. L'espressione “pisteuÒntwn e„j ™mš” (pisteuónton eis emé, coloro che credono in me), infatti, lascia intravvedere che sono persone convertite, ma non ancora giunte alla perfezione di una fede matura, che invece appare come in fase di formazione. La particella e„j (eis, in) esprime, infatti, l'idea di un moto a luogo, definendo il loro credere non ancora formato. Sono i semplici nella fede e, quindi, anche i più deboli, i più facili a subire gli scandali, che possono avere, nel loro cammino verso Gesù, degli effetti devastanti e tali da impedire di raggiungerlo in pienezza, se non addirittura di perderlo definitivamente.

La seconda parte del v.6 attiene alla sentenza da eseguirsi su chi ha messo in atto comportamenti che costituiscono un inciampo ai semplici e agli umili, legati ad una fede fragile e semplicistica. Si tratta chiaramente di un paradosso, finalizzato a rilevare la gravità del comportamento tenuto da questi scandalizzatori, che probabilmente agitavano la comunità di Matteo. L'immagine qui descritta, pertanto, è una metafora che indica la rovina eterna che incombe su di loro e dalla quale saranno travolti inesorabilmente. Tre gli elementi da rilevare nel v.6b, che tendono ad evidenziare la gravità del comportamento scandaloso:

a) il verbo sumfšrei aÙtù (simférei autô), che significa “è per lui conveniente”. Quanto vi sia di conveniente nel lasciarsi legare una macina di pietra al collo ed essere sprofondato nella profondità più profonda del mare non è comprensibile. Ma con questa espressione paradossale l'autore intende sottolineare come per questa categoria di persone non c'è più scampo e la vita per loro è comunque finita, perché su di loro e in loro grava già la sentenza di condanna;

b) un secondo elemento è la macina da molino, il cui peso doveva essere alquanto notevole, probabilmente di qualche quintale, visto che doveva essere mossa da un asino. Il nostro testo parla, infatti, di una “mola da somaro” (mÚloj ÑnikÕj, mílos onikòs). Il notevole peso qui indicato ha soltanto lo scopo sia di non dare scampo allo sventurato sia di farlo sprofondare rapidamente e inesorabilmente, senza possibilità di recupero.

c) il terzo elemento è la curiosa espressione usata soltanto da Matteo e che significa essere sprofondato nel mare aperto (lett. nel mare aperto del mare), dove le acque erano più profonde. Particolare il verbo usato katapontisqÍ (katapontistê), associato all'espressione. Il verbo è usato complessivamente otto volte in tutta la Bibbia: sei volte nell'A.T., con il significato di rovinare, e soltanto due volte in Matteo17 , con il senso proprio di affondare, affogare.

Questa seconda parte del v.6, con il suo linguaggio paradossale e simbolico, condanna il portatore di scandali ad uno sprofondare rapido, inesorabile e senza alcuno scampo (grossa macina da molino) nel più profondo del mare, le cui acque, nel linguaggio biblico, sono espressione del Male, a cui egli appartiene. Non è da escludersi, a mio avviso, che in questo rapido, folgorante sprofondamento, Matteo abbia avuto presente il passo di Isaia, che si scagliava contro l'arroganza devastatrice punita del re di Babilonia, a cui associa idealmente gli scandalizzatori, incuranti dei piccoli, che calpestano nella fragilità della loro fede: “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei stato steso a terra,signore di popoli? Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell'assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all'Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell'abisso!” (Is 14,12-15).

Il v.6 si completa con il v.10, al quale è strettamente legato sia tematicamente che dall'identica espressione “uno di questi piccoli” (vv.6.10), che forma inclusione, dando compattezza all'intera pericope (vv.6-10). Infatti se il v.6 costituisce una sentenza di giudizio posta sugli scandalizzatori dei piccoli, il v.10 diventa un ammonimento rivolto direttamente alla comunità matteana (Badate), che viene messa in guardia non solo dallo scandalizzare (v.6), ma anche dal disprezzare (v.10a). Il disprezzo, infatti, costituisce la premessa e la base in cui si radica lo scandalo nei dei piccoli. Ogni atteggiamento negativo, quindi, va evitato. Il motivo è squisitamente teologico: “Vi dico, infatti, che i loro angeli vedono continuamente il volto del Padre mio, che è nei cieli”. È interessante rilevare come Matteo per indicare il vedere degli angeli usi il verbo blšpw (blépo), che indica un vedere fisico e diretto, stabilendo, in tal modo, un forte legame tra gli angeli dei piccoli e lo stesso Padre. Un linguaggio figurato che dice come questi piccoli siano continuamente alla presenza del Padre e, quindi, posti in una condizione di privilegio rispetto a tutti gli uomini. Di conseguenza, lo scandalizzarli o anche il solo disprezzarli comporta una sorta di loro dissacrazione, che offende direttamente Dio, alla cui presenza essi stanno.

I vv.7-9 si collocano al centro, tra i vv.6 e 10, che formano tra loro inclusione, data dall'espressione “uno di questi piccoli”, fornendo nel contempo le due motivazioni, cristologica e teologica, finalizzate a sostenere l'attenzione e il rispetto dovuti nei confronti di questi piccoli. Questa loro particolare collocazione fa si che essi formino un'unica unità narrativa compatta (vv.6-10), che va a completare il discorso sugli scandali. Infatti, se i vv.6.10 puntavano a stigmatizzare gli scandali provenienti dall'interno della comunità credente, questa breve pericope (vv.7-9) si incentra, invece, sulla ineluttabilità degli scandali provenienti dal mondo e indica nel contempo la risposta che la comunità deve dare a questi; una risposta che si richiama al primo grande discorso (vv.5,29-30), che costituisce una sorta di charta magna della nuova comunità messianica.

La pericope in esame (vv.7-9) è composta da due momenti:

a) v.7: un doppio ammonimento, uno rivolto al mondo e uno indirizzato ad ogni uomo. Tra i due ammonimenti viene intercalata una riflessione circa la ineluttabilità degli scandali, che richiama da vicino la parabola della zizzania (13,24-30.38-42), in cui il buon grano è costretto a convivere necessariamente, suo malgrado, con la zizzania; mentre quel doppio “Guai” (oÙaˆ, uaì), che in greco suona quasi come un lamento funebre, ci rimanda al giudizio che incombe sugli scandali (13,41).

b) I vv-8-9 non dicono nulla di nuovo, ma sottolineano una volta di più la necessità di una risposta decisa e drastica, che la comunità e ogni suo componente sono chiamati a dare agli scandali, da qualsiasi parte essi vengano. Le immagini, volutamente iperboliche, vengono recuperate dai vv.5,29-30; cambia soltanto il contesto: là si parlava dello scandalo dell'adulterio; qui dello scandalo in genere, che va a colpire la fragilità spirituale e di fede dei piccoli. Ma sempre di scandalo si tratta.

Termina con questa sezione, che potremmo definire degli scandali (vv.1-10), l'attenzione che Matteo riserva a tale questione, che doveva affliggere e agitare non poco la sua comunità e che doveva essere motivo di particolare preoccupazione per lui, se si pensa che il termine scandalo o scandalizzare risuona nel suo solo vangelo ben sedici volte contro le sole dodici complessive degli altri tre evangelisti. L'autore accenna a varie aree di scandalo. Tra le maggiori spiccano quelle che presentano scandali provenienti dalla comunità e dalle singole persone (sette versetti18); quelle riguardanti la persona di Gesù (cinque versetti19); quelle provenienti da situazioni difficili e di persecuzione (due versetti20); scandali che provengono dagli stessi pastori, che intralciano l'attività missionaria e della vita di comunità (un versetto21); scandali che saranno sottoposti a giudizio (un versetto22).

vv.11-18: questa pericope continua il discorso sui piccoli; una continuità che è garantita letterariamente dall'espressione “uno di questi piccoli” (v.14), che viene ripetuta nei vv. 6.10.14, dando in tal modo unità tematica. Tuttavia, se nei vv.6-10 il tema erano gli scandali , che colpivano i piccoli, (il termine scandalo ricorre 6 volte), qui, in vv.11-18, l'attenzione è spostata sulle conseguenze dello scandalo: la perdizione dei piccoli (il verbo perdersi torna per 5 volte).

La struttura della pericope, piuttosto elaborata, è scandita in due parti:

a) I vv.11-14 costituiscono la premessa e l'introduzione alle pericopi vv.15-18 e vv.21-35. Essa è costruita su di una inclusione di tipo tematico, che fornisce la motivazione sia cristologica (v.11) che teologica (v.14), in cui trova le sue ragioni e la sua giustificazione la cura verso i piccoli affinché non si perdano. Il cuore dei vv.11-14 è dato da una breve parabola sulla pecorella smarrita, finalizzata ad illustrare l'attenzione e la cura che il pastore deve avere verso di lei.

b) I vv.15-18 presentano la prima applicazione pratica dei vv.11-14: una gradualità di interventi finalizzati a recuperare il fratello che ha sbagliato. In questa pericope si potrebbe ravvisare una procedura di infrazione della stessa comunità matteana contro quei suoi membri che hanno sbagliato, benché ancora molto rudimentale ed ereditata, molto probabilmente dalla prassi del giudaismo e dal mondo qumranico.

Il v.11 non compare nel vangelo di Matteo, perché è omesso da molti testimoni e, pertanto, potrebbe risultare come una sorta di interpolazione successiva e comunque spuria rispetto al testo matteano. Ciononostante, noi lo prenderemo comunque in considerazione, perché si inserisce molto bene e in modo significativo nel nostro testo in esame, dandogli completezza teologica. Il v.11, infatti, forma con il v.14 una inclusione di tipo tematico e nel contempo fornisce la motivazione cristologica all'intera pericope (vv.11-14): “E' venuto il figlio dell'uomo a salvare ciò che era perduto”23. Esso trova il suo corrispondente nel v.14, in cui viene presentato un Padre determinato nel salvare tutti, in particolare i piccoli, in cui si compiace (11,25): “Così non c'è volontà davanti al Padre vostro, che è nei cieli, che si perda uno di questi piccoli”24; espressione questa che funge da motivazione teologica all'attività pastorale spesa a favore dei piccoli. I vv.11 e 14 sono, pertanto, tra loro complementari e teologicamente consequenziali l'uno all'altro: la volontà salvifica del Padre (v.14) trova la sua piena attuazione e manifestazione nella missione di Gesù, finalizzata a recuperare tutti gli uomini, riconducendoli in seno al Padre, così che egli sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28). Un concetto questo che ritroviamo riprodotto nel vangelo di Giovanni, in cui Gesù è presentato come dono del Padre a favore degli uomini e della loro salvezza: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). Questa determinata volontà salvifica divina, attuata e rivelata in Gesù, deve costituire il fondamento di ogni attività pastorale, che qui Matteo vede orientata ai piccoli, a quelli che sono i più fragili nella fede e che maggiormente richiedono cure e attenzioni pastorali.

All'interno di questi due versetti (vv.11 e 14) l'autore colloca la piccola parabola della pecora perduta (vv.12-13), che se da un lato diventa metafora dei vv.11 e 14., dall'altro richiama da vicino il cap.34 di Ezechiele, tutto dedicato all'infedeltà, alla negligenza e alla prevaricazione dei pastori d'Israele, ma che contiene in sé anche la visione dell'avvento di un nuovo pastore, inviato da Dio al suo popolo, perché si prenda cura delle pecore più deboli : “Poiché voi avete spinto con il fianco e con le spalle e cozzato con le corna le più deboli fino a cacciarle e disperderle, io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda: farò giustizia fra pecora e pecora. Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore” (Ez 34,21-23). Gesù è l'attuazione di questa promessa di Dio; è lui il buon pastore, che come tale verrà colto e indicato dalla nascente chiesa primitiva25.

La parabola trova il suo parallelo in Lc 15,4-7, ma diversi sono gli intenti dei due evangelisti e il clima che vi si respira è esattamente all'opposto: il racconto lucano è tutto pervaso da una gioia luminosa (per tre volte viene ripetuto il termine gioia e gioire); essa scaturisce dalla certezza del ritrovamento (kaˆ eØrën, kaì euròn, “e trovatala”) della pecora perduta (¢polšsaj, apolésas), metafora del peccatore convertito (Lv 15,7). Diversamente Matteo, scarno ed essenziale nel suo racconto, non parla di pecora perduta, ma che “è stata fuorviata; indotta in errore” (planhqÍ, planetzê) e per la quale non c'è la certezza del suo recupero (“E se gli capita di trovarla”). L'aria che si respira qui è cupa e pessimistica. In Luca c'è una comunità che si apre gioiosa nei confronti del peccatore e lo accoglie nella gioia della salvezza, che lascia intravvedere, quasi in filigrana, la gioiosità che scaturisce dalla stessa vita divina, che la comunità lucana è portatrice e datrice. Al contrario, in Matteo c'è una comunità preoccupata di se stessa, che ha forti tensioni interne, da cui provengono scandali, che provocano turbamento e defezioni. Qui non si parla di peccatori perduti e ritrovati, ma di “piccoli”, di fragili nella fede, per i quali c'è un Padre pronto a difenderli perché nessuno di questi si perda, lasciando intravvedere nella volontà determinata del Padre la minaccia di un giudizio divino che incombe sugli scandali. Il clima qui è di assedio.

I vv.15-18 presentano una prima applicazione pratica del principio sancito nei vv.11-14, dove si evidenziava la cura e l'attenzione che i pastori dovevano rivolgere alla comunità e in particolare ai piccoli. Infatti la ferma volontà del Padre che nessuno dei piccoli vada perduto (v.14) trova la sua manifestazione e la sua attuazione in Gesù, che è venuto a salvare ciò che era perduto (v.11). Su questa linea devono muoversi i responsabili della comunità e ogni suo membro, tenendo conto anche della vera natura dei piccoli (vv.1-10), legata alla santità stessa di Dio e identificati con Gesù. Una definizione, quindi, sostenuta, anche qui, sia cristologicamente (“nel mio nome, riceve me” v.5) che teologicamente (“i loro angeli vedono il volto del Padre mio” v.10).

Su tali premesse va ora compresa la pericope in esame. Si tratta di una esposizione casistica (“se il tuo fratello”), la quale, più che normare giuridicamente i rapporti intracomunitari, ha l'intento di instaurare una prassi ordinata nei rapporti, evitando che questi sfocino in conflitti interni e prevaricazioni interpersonali, scandalizzando in tal modo i più deboli, che ne diverrebbero le prime vittime. Potremmo definirle delle regole di buona condotta, finalizzate a salvaguardare i rapporti comunitari, contenendoli entro i confini della carità e di una costante ricerca di pacificazione. Questa procedura, che si trova soltanto in Matteo, risente sia delle disposizioni e delle prassi interne al giudaismo che delle regole della comunità di Qumran, le quali prevedono tre gradi di intervento per regolamentare i rapporti intracomunitari26.

Il v.15a, che dà l'intonazione all'intera pericope (vv.15b-18), si presenta incerto nei manoscritti: “Qualora tuo fratello sbagliasse [contro di te]”. Il versetto tra le due parentesi quadre è presente in molti testimoni ma assente in quelli più importanti, come il Sinaitico e il Vaticano27. La questione non è di poco conto, poiché se si propende per la presenza dell'espressione “contro di te”, l'intera pericope assume un tono personalistico e riguarda, quindi, le questioni strettamente personali tra due membri e, pertanto, anche il v.18 andrebbe colto in tale contesto. Diversamente, il tono diventa comunitario e universalistico, responsabilizzando direttamente tutti i membri della comunità nei confronti di tutti i fratelli, per cui ognuno è chiamato ad intervenire sull'altro, se questi sbaglia. In questo caso il peccatore sembrerebbe pubblico e, pertanto, sarà la comunità a giudicarlo, decidendo per il perdono o meno. In questo secondo caso, il v.18 assumerebbe il significato di un vero e proprio mandato per il perdono, la cui depositaria prima è la comunità e tutti i suoi membri. Questa seconda lettura sembra la più idonea perché si inserisce bene nel contesto dell'intero cap.18, che dà disposizioni di tipo generale, le quali investono l'intera comunità e tutti i suoi membri28.

Il v.15a introduce in termini volutamente generici il caso di un fratello che sbaglia. Il verbo usato,¡mart£nw (amartáno), rafforza questa genericità. Esso, infatti, è ricco di significati, che possono chiarire meglio il senso di quello sbagliare: deviare, fallire, non cogliere l'obiettivo o la meta posta davanti, perdere, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, da ciò che è giusto e onesto, ingannarsi, sbagliare, rendersi colpevole, peccare. Si tratta, dunque, di un membro della comunità (fratello29), che tiene comportamenti disdicevoli, che si discostano dalla retta via e dal comune vivere e sentire degli altri membri e per questo diviene un elemento di disturbo e di scandalo per gli altri fratelli. A fronte di questa provocazione ogni fratello è reso personalmente responsabile ed è chiamato in prima persona ad intervenire per recuperare il membro in errore. Il v.15b, infatti, delinea il comportamento che deve animare il credente verso ogni membro della comunità: nessuno deve sentirsi estraneo. L'uso dei verbi alla seconda persona singolare, se da un lato si può comprendere come un “tu” generico, dall'altro, proprio perché generico, in questo “tu” ogni membro della comunità deve riflettersi e sentirsi chiamato in coscienza. Un principio questo, della responsabilità personale verso chi cade in errore, che viene introdotto nel Libro di Ezechiele: “O figlio dell'uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti; ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia. Se io dico all'empio: Empio tu morirai, e tu non parli per distoglier l'empio dalla sua condotta, egli, l'empio, morirà per la sua iniquità; ma della sua morte chiederò conto a te. Ma se tu avrai ammonito l'empio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte, egli morirà per la sua iniquità. Tu invece sarai salvo” (Ez 33,7-9). Ogni credente, quindi, in virtù della sua triplice funzione sacerdotale, regale e profetica, acquisita nel battesimo, è chiamato a stigmatizzare le colpe e i modi di vivere sbagliati, che creano scandalo presso i piccoli nella fede e davanti al mondo. Nessuno può dirsi estraneo, ma di fronte all'errore, da cui è interpellato in prima persona, non può sottrarsi, poiché la salvezza degli altri è affidata a ciascuno di noi, a partire dalle persone che ci sono vicine come i familiari, gli amici e i conoscenti.

Il v.15b detta il comportamento da assumere nei confronti del fratello che ha sbagliato. I verbi, che l'autore usa, parlano di un'azione decisa, condotta con forza, mentre il risultato positivo è concepito come un guadagno, un lucro, un profitto. Nell'insieme non si ha l'idea di un richiamo benevolo e fraterno, ma rude, che punta ad ottenere risultati utili, concreti e immediati. Forse un simile linguaggio era dettato da una difficile situazione che si agitava all'interno della comunità matteana e che richiedeva interventi decisi, senza tentennamenti, da parte di tutti i membri. Il primo verbo che si incontra è un imperativo: “Ûpage” (ípaghe), che se da un lato significa avvicinarsi, dall'altro, letteralmente dice mettere sotto, condurre sotto, sottoporre, sottrarre, trarre a sé, guadagnare alla propria causa, adescare, sedurre. Questa pluralità di significati definisce il senso dell'avvicinarsi al fratello che ha sbagliato: si tratta di sottrarlo, con ogni mezzo e con determinazione, all'errore in cui è caduto, riconducendolo sulla retta via, restituendolo alla comunità come elemento vivo. Segue immediatamente il secondo verboœlegxon” (élenxon), che significa far convincere dell'errore. Tuttavia, qui non si tratta di una disquisizione logica o filosofica finalizzata a far emergere la verità; non si tratta di tirare di fioretto. Niente schermaglie intelligenti, sopraffini o intellettuali, ma sonore randellate. Il verbo, infatti, significa anche far vergognare, considerare vile, spregevole, rimproverare e biasimare. Si tratta, quindi, di un approccio nei confronti del fratello errante deciso e rude, senza tanti convenevoli, che punta a risultati pratici, così come il commerciante si approccia al cliente, pensando a far soldi e tutto è finalizzato al guadagno venale. Questo, infatti, dice il terzo verbo™kšrdhsaj” (ekérdesas) che parla di un guadagno, inteso in senso concreto, quale risultato utile di un'azione mirata e condotta con fermezza e decisione.

Il v.16 vede un secondo grado di intervento nel caso fallisse il primo approccio diretto e strettamente personale: “Ma se non ti ascoltasse”. Benché questo versetto richiami da vicino una procedura giuridica sancita da Dt 19,15 e a cui Matteo probabilmente si è ispirato30, tuttavia non sembra che ci si trovi di fronte ad una procedura giuridica, ma semplicemente ad una prassi comunitaria, finalizzata a dar consistenza ed efficacia al recupero dei fratelli erranti. Una sorta di metodo pedagogico, ma certamente non giuridico. Non è prevista, infatti, nessuna pena, né vi è la previsione del comportamento da sanzionare. Si tratta, quindi, di mere indicazioni formali, indirizzate all'intera comunità, perché ognuno sappia cosa fare nel caso si dovesse trovare di fronte a situazioni spiacevoli. Il v.16 comporta in sé un primo passaggio: dal richiamo strettamente privato e personale ad uno semiufficiale, che prelude al terzo passaggio, ma che ancora è contenuto in un'area ristretta semiprivatistica, finalizzata a creare una maggiore pressione e sollecitazione. Si noti infatti come si parli di prendere con sé uno o due testimoni, affinché il tutto si conduca sulla testimonianza di due o tre. Da un testimone da prendere con sé si arriva fino a tre testimoni. Già si forma, quindi, un piccolo gruppo di quattro o cinque persone, una piccola squadra che si pone contro il fratello errante.

Il v.17 considera un terzo passaggio, in cui il richiamo da privato (v.15) e da semiufficiale (v.16) passa ora all'ufficialità dell'assemblea stessa (™kklhs…a, ekklesía). Il termine ekklesía ricorre in tutto il N.T. 114 volte e assume in genere il significato di chiesa, intesa, però, non ancora come istituzione, ma più semplicemente come comunità di credenti. Con il significato di istituzione ricorre soltanto in Mt 16,18. Nel nostro caso assume il senso di assemblea appositamente convocata per giudicare il caso dell'impenitente. Il termine ekklesía, infatti, traduce generalmente l'espressione qāhāl, il cui senso è fatto derivare da un gruppo lessicale che significa riunirsi, e talvolta traduce anche il termine 'ēdāh, che designa un gruppo di persone che si riuniscono su appuntamento. È probabile, quindi, che il nostro ekklesía, inserito in questo contesto, abbia quest'ultimo significato: il riunirsi degli anziani della comunità per giudicare il caso31. Questo termine, infatti, è sostanzialmente diverso da quello riportato al v.16,18, in cui si alludeva non tanto ad un gruppo di persone, bensì, come si è detto, ad una istituzione.

In chiusura, il v.17 detta le ultime indicazioni di fronte al persistere del fratello nel proprio errore e alla sua chiusura ad ogni richiamo: “sarà per te come il pagano e il pubblicano”. Non siamo ancora di fronte ad una vera e propria scomunica giuridicamente intesa, ma semplicemente ad una espulsione dalla comunità, sulla falsariga delle espulsioni dalla sinagoga per quegli ebrei che avevano tradito la fede32. Di conseguenza l'impenitente non era più considerato un fratello, ma era eguagliato ai pagani e ai pubblicani, cioè vi era una sorta, per così dire, di riduzione allo stato laicale, un personaggio da cui tutti i credenti dovevano guardarsi.

Questa prassi, che si snoda in tre gradi successivi e sempre più coinvolgenti l'intera comunità, non è finalizzata all'espulsione del fratello impenitente, bensì al suo recupero. L'espulsione dalla comunità è l'extrema ratio. Tutta la procedura, infatti, dipende dai vv.11-14 e dal loro spirito deve essere animata. È uno spirito che punta a cercare e a recuperare ciò che era perduto (vv.12-12); una ricerca che è sottesa da una volontà salvifica universale del Padre (v.14), manifestatasi ed attuatasi nel suo Cristo (v.11).

Il v.18 va letto e compreso all'interno di questo contesto. Esso conclude la prima parte del cap.18, ma nel contempo, assieme ai vv.11-14, funge da premessa introduttiva alla pericope sul perdono (vv.21-35).

Questo versetto in genere viene considerato dalla critica un conferimento di potere ai discepoli, colto come estensione del potere precedentemente conferito a Pietro33 (16,19). Quindi vi è una sorta di catena discendente: dal Padre a Gesù (Mt 9,6; 28,18; Gv 13,3), da Gesù a Pietro (Mt 16,19), da Pietro ai discepoli (Mt 18,18;). A nostro avviso, qui, non ci troviamo di fronte ad un conferimento di poteri assolutivi, ma soltanto ad una dichiarazione chiarificatrice o rivelatrice, finalizzata a rilevare le conseguenze dei propri comportamenti verso gli altri. Infatti, l'espressione che qui parla di legare e di sciogliere non è conseguente né dipendente da un qualche dono di potere, come si rileva chiaramente, invece, in Mt 16,19 in cui Gesù parla di dare le chiavi del regno dei cieli, metafora del potere proprio di Dio, che si esprime nell'assolvere o nel legare; così in Gv 20,22-23, dove il potere di rimettere i peccati è strettamente legato al dono dello Spirito. Similmente, il potere di scacciare i demoni e di guarire gli ammalati è conseguente ad una chiamata elettiva (Mt 10,1). Il v.18, invece, dipende esclusivamente dai vv.15-17 e ne è la conclusione. In altri termini, questo versetto risponde alla domanda: che cosa succede se si perdona o meno, se si condanna o si assolve un proprio fratello? E ancora: l'azione in sé è indifferente e riguarda soltanto i rapporti interpersonali o ha, invece, anche un risvolto spirituale, una risonanza nel regno dei cieli, coinvolgendo Dio stesso? Questo versetto è molto simile a quello di Mt 6,12 che vede l'assoluzione delle proprie colpe da parte di Dio nella misura in cui si perdonano quelle degli altri; o, similmente, il proprio misurare gli altri ha un suo risvolto su se stessi, per cui si verrà misurati, a sua volta, con la stessa misura (Mt 7,2). Sono tutte espressioni che indicano come il proprio comportamento verso l'altro, il giudicarlo o meno, il perdonarlo o meno non è indifferente, ma trova una sua risonanza e un suo corrispettivo nei cieli. In tal modo viene posto un stretto legame tra la terra e il cielo, tra il proprio modo di comportarsi e quello di Dio nei nostri confronti. Un concetto questo che verrà ripreso e chiarito dalla successiva pericope sul perdono, che si conclude con la sentenza: “Così anche il Padre mio, che è nei cieli, farà a voi, se non rimetterete ciascuno al suo fratello, dal vostro cuore” (v35). Del resto Matteo, qui, si sta rivolgendo alla sua comunità, cercando di convincerla a cambiare comportamento nei confronti dei suoi membri e di inaugurare, sulla base di motivazioni teologiche e cristologiche, dei nuovi rapporti intracomunitari. Il contesto qui è, pertanto, squisitamente pastorale e non dottrinale come in 16,16-19.

La conseguenza di tutto ciò è che vi è una responsabilità oggettiva e personale nel proprio porsi nei confronti degli altri, poiché il proprio agire impegna Dio stesso. Non va dimenticato, infatti, quanto il Gesù matteano afferma nel racconto circa il giudizio finale: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”, ponendo in tal modo una consequenzialità e una corrispondenza diretta tra il credente e Gesù stesso, tra il suo agire verso l'altro e il suo riflesso su Gesù. Ogni azione che il credente compie qui sulla terra ha, quindi, un suo inevitabile risvolto spirituale nei cieli. Una corrispondenza tra terra e cielo, che è sottolineata dalla struttura stessa del v.18, la cui importanza è rimarcata dall'espressione introduttiva “In verità vi dico”: il legare e lo sciogliere sulla terra corrisponde direttamente al legare e allo sciogliere nel cielo. Dio, infatti, non può assolvere una persona se non siamo noi ad assolverla, poiché Dio non può sostituirsi al perdono degli uomini, ma deve conformarsi di conseguenza: “Così anche il Padre mio”. Del resto, se così non fosse, Dio bypasserebbe la libertà di ogni uomo, deresponsabilizzandolo. Non va mai dimenticato che Dio nel decretare la creazione dell'uomo ha di fatto, sia pur a livello creaturale, creato un altro se stesso, con cui è chiamato ad interagire (Gen 1,26).

I vv.19-20 sembrano staccarsi nettamente dal tema dell'intero cap.18, che si preoccupa di sottolineare il rispetto dei piccoli, la cura e l'attenzione nei loro confronti, tenendo presente una precisa volontà salvifica universale del Padre (v.14), manifestatasi e attuatasi in Gesù (v.11), e sulla quale ogni credente e l'intera comunità sono chiamati a riparametrare il proprio modo di relazionarsi con i fratelli, guardandoli dalla prospettiva di Dio e tenendo conto delle sue esigenze (vv.15-18.21-35). La diversità tematica è, tuttavia, soltanto apparente poiché Matteo, nel parlare della preghiera comunitaria, sottolinea con forza la comunione che la deve animare e caratterizzare, motivandola cristologicamente (v.20) e teologicamente (v.19b). La sottolineatura, da parte di Matteo, di una preghiera che si fonda sulla comunione in Gesù affronta, probabilmente, un problema di un pregare individualistico diffuso nella sua comunità. Tale ipotesi è rafforzata dal fatto che questo versetto è riportato soltanto da Matteo. Se, quindi, l'evangelista ha sentito l'esigenza di inserirlo in questo contesto di regole rivolte alla propria comunità, è evidente che tende a stigmatizzarne un individualismo spirituale, dettato quasi certamente da divisioni e contrasti interni.

Il v.19 si apre con l'espressione “P£lin (¢m¾n) lšgw Øm‹n” (Pálin, (amèn) légo imîn, “Di nuovo, in verità vi dico”, che narrativamente si aggancia nell'immediato alla pericope precedente (vv.15-18), ma tematicamente e idealmente all'intero capitolo, sottolineando con forza la necessità, per essere bene accetti al Padre, di fare comunione in Cristo, cioè di ritrovarsi tutti uniti in lui e a lui. Il verbo, cuore dell'intero versetto, è “sumfwn»swsin” (simfonésosin), che letteralmente significa formare un accordo, una sinfonia, essere del medesimo parere. Il verbo è composto dalla preposizione “sun” + “fwnšw”; la preposizione dice “assieme, con”, mentre il verbo significa “parlare, dire, alzare la voce”. Il verbo, così composto, indica, quindi, un essere concordi e unanimi nel parlare, che richiama da vicino lo stile di vita delle prime comunità credenti, così come immaginato e idealizzato da Luca: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32).

Come al v.18, anche qui torna il parallelismo terra-cielo e la stretta rispondenza del comportamento di quaggiù che trova la sua risonanza lassù. Infatti, l'accordo, l'unanimità, la comunione tra i credenti nel loro rivolgersi, qui sulla terra (™pˆ tÁj gÁj, epì tês ghês), verso il Padre nei cieli, trova l'immediata accoglienza, poiché in tal caso vi è perfetta sintonia tra Dio e i credenti, tra il cielo e la terra. Ancora una volta l'autore sottolinea come il comportamento che il credente tiene nel suo vivere quotidiano ha il suo riflesso, la sua risonanza nei cieli. Viene posta in questo versetto la motivazione teologica che deve animare la preghiera comune. Infatti, perché la preghiera dispieghi la sua efficacia presso il Padre non è sufficiente che sia comunitaria, cioè fatta da più persone, quasi che Dio si intimorisca per il numero di credenti, dispiegato dalla comunità; ma è indispensabile che tra questi credenti, indipendentemente dal numero, sono sufficienti anche due o tre fratelli, regni la pace e la concordia, l'unanimità, la comunione. Solo così l'amore qui sulla terra trova la sua risonanza in Quello del cielo. È significativo, infatti, quanto Matteo dice, parlando sempre alla sua comunità, ai vv.5,23-24: “Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono”. Anche questi versetti sono inseriti in un contesto narrativo dove si sottolinea la necessità dell'amore e dell'accordo con i fratelli (5,22.25). Anche qui, ancora una volta di più, si sottolinea la necessità della comunione fraterna prima di presentarsi davanti al comune Padre che è nei cieli, perché il nostro rapportarsi a Lui esordisca tutta la sua efficacia, venendo in tal modo riconosciuti tutti figli dell'unico Padre.

Il v.20, pur nella sua brevità, è molto denso e costituisce la motivazione cristologica su cui deve fondarsi la preghiera comunitaria: “Infatti, dove ci sono due o tre, riuniti nel mio nome, là sono in mezzo a loro”. Se al v.19 si sottolineava la necessità della concordia e della comunione tra i fratelli, che si pongono di fronte al comune Padre celeste, qui viene precisata la caratteristica che deve avere questa comunione, che non è frutto della buona volontà personale e degli sforzi umani, ma si radica in Cristo stesso e in lui trova la sua giustificazione. È l'essere in Cristo che fa dei membri di una comunità una cosa sola; soltanto l'essere in comunione con lui fa sì che tutta la comunità abbia i suoi membri in comunione tra loro. Significativa è l'espressione che Matteo usa per dire “riuniti nel mio nome”: “sunhgmšnoi e„j tÕ ™mÕn Ônoma” (sinegménoi eis tò emòn ónoma). Innanzitutto il verbo “sunhgmšnoi”, il quale, oltre che riunire, significa mettere insieme, convocare, unire, congiungere, condurre verso qualcosa o qualcuno. Ma parla anche di un operare assieme, di un agire in comunione, di un andare assieme, di un muoversi assieme. Il verbo, infatti, è un composto di sun + ¥gw. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un verbo che parla di un comune e unanime movimento non all'interno del nome di Gesù, ma verso il suo nome (e„j) , la quale cosa lascia presupporre come il vivere nel suo nome o, meglio, rivolti verso di lui, non sia un fatto scontato, ma comporti una continua conversione, un continuo riorientare la propria vita verso Gesù, che qui assume una dimensione comunitaria. Non a caso il verbo è seguito dalla particella di moto a luogo “e„j” (eis), che parla di un convergere unanime e comune in Cristo di tutti i membri della comunità. Si tratta, dunque, di un indirizzare la propria vita in Cristo dove “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Ma se tutti sono uno in Cristo è perché Cristo, fautore primo di questa unità-comunione, è in tutti; infatti “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).

Il v.20 si chiude con una sentenza rassicurante: “là sono in mezzo a loro”, che riprende il tema caro a Matteo: la presenza di un Dio che si è concretamente e stabilmente realizzata in Gesù. Non a caso il Gesù matteano, fin dall'inizio del vangelo, è chiamato con il soprannome di Emmanuele, il Dio con noi (Mt 1,23), indicandone la natura stessa, mentre la promessa di essere sempre con noi fino alla fine dei tempi (Mt 28,20) ne sigilla la fine, creando in tal modo una grande inclusione, che abbraccia l'intero vangelo, che vede in Gesù la dimora fissa di Dio in mezzo agli uomini, una presenza che si accompagna con la sua chiesa e con l'intera umanità lungo il cammino della storia. Una promessa che se da un lato si è attuata visibilmente in Gesù, dall'altro già era stata preannunciata ai Padri: “Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (Lv 26,11-12)34. La promessa di Gesù, quindi, di essere “in mezzo a loro” (v.20b) rispecchia e attua in sé un progetto divino e si muove nelle logiche della storia della salvezza, ma è anche la logica conclusione dell'essere riuniti nel nome di Gesù, che assimila ogni credente a se stesso e fa si che tutti siano uno in lui, così che tutti formino una cosa sola tra loro. Risuonano qui alcuni echi della stupenda preghiera sacerdotale del Gesù giovanneo: “Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi […] perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. […] E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola” (Gv 17,11.21.22). E' il rispecchiarsi del cielo sulla terra, è la comunità che nella sua comunione in Cristo riflette la luce della gloria divina, la perfetta unità e la perfetta comunione che sussistono tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo. In tal modo la comunità, riunita nel nome di Gesù, diventa un raggio di luce, un riflesso della gloria stessa di Dio, diventa una sorta di sua shekinah, di presenza gloriosa di Dio in mezzo agli uomini, testimone della stessa vita divina, che abita e vive in lei e si esprime nell'unità che si fa comunione.

vv. 21-35 Questa pericope è incentrata tutta sul perdono illimitato e incondizionato. Matteo, infatti, ha la necessità di disarmare il cuore della sua comunità dalle faziosità, dai risentimenti, dai rancori e dallo spirito di rivalsa, di cui era probabilmente vittima. Atteggiamenti simili nascono dal profondo di un animo che non sa perdonare, che ritiene gli altri debitori verso di sé, che si sente defraudato da altri e superiore agli altri. Proprio in tal senso Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, la esorta a rendere “a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto. Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge” (Rm 13,7-8). In fondo al cuore ci deve essere la capacità del perdonare, che si radica e si alimenta nell'amore. Ad una nuova vita in Cristo deve corrispondere un nuovo stile di vita, caratterizzato dall'amore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Che cosa sia, poi, questo amore e che cosa comporti concretamente nei rapporti intracomunitari, lo evidenzia Paolo, rivolto alla sua comunità di Corinto ferita da divisioni e da faziosità interne (1Cor 1,11-12), tracciandone i tratti fondamentali: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7).

Anche qui, in questa pericope, Matteo lega la necessità di un amore perdonativo ad un giudizio divino che pesa su ogni membro della comunità. Sarà proprio l'atteggiamento verso l'altro, che determinerà l'atteggiamento di Dio verso il discepolo (v.35). Una volta di più, Matteo pone una corrispondenza diretta tra il comportamento di ogni singolo credente e quello di Dio nei suoi confronti, legando una volta di più il cielo alla terra. La comunità è avvertita: nel giudizio ogni suo membro verrà misurato con la stessa misura che egli ha usato verso gli altri (Mt 7,2).

La struttura della pericope si snoda su tre parti:

a) I vv.21-22 fungono da cornice introduttiva. Viene posta la questione del perdono, che Pietro riduce ad una semplice questione quantitativa: “Signore, quante volte ...”. L'intervento di Gesù traduce la quantità in qualità: il perdono va dato sempre e deve costituire lo stile di vita del nuovo credente”;

b) I vv.23-34 contengono la parabola finalizzata a illustrare la risposta circa la questione posta da Pietro. Essa si articola su tre parti: le prime due, tra loro parallele e strettamente connesse l'una all'altra, pongono a confronto tra loro i due comportamenti: quello enormemente generoso del re (vv.23-27); e quello incredibilmente meschino ed egoistico del servo (vv.28-30). Narrativamente il confronto è basato su due iperboli: da un lato abbiamo un debito dalle proporzioni galattiche, enormi e impossibili, il cui condono mette in rilievo l'altrettanto enorme misericordia compassionevole del re; dall'altro, abbiamo un debito irrisorio e quasi impercettibile, che scompare totalmente di fronte all'enormità del primo; ma è proprio questa pochezza che mette in rilievo il comportamento assurdo del servo perdonato e tutta la sua colpevolezza, accendendo di sdegno e d'ira l'ascoltatore. Nella terza parte confluiscono le prime due e si ritrovano assieme entrambi i personaggi, re e servo, questa volta per un giudizio finale, che sarà senza alcuna pietà e misericordia.

c) Il v.35 costituisce la sentenza finale, noi diremmo la morale della favola, che nel chiudere la parabola, traendone delle conclusioni pratiche, dà la risposta non più a Pietro, ma all'intero gruppo dei discepoli (“farà a voi”). Vi è, quindi, un cambio di destinatari: da Pietro, fautore della questione, ai discepoli, ossia alla stessa comunità matteana.


Il v.21 si apre con un avverbio di tempo, tutto redazionale, “Allora”, finalizzato, da un lato, a dare continuità narrativa al racconto; dall'altro a legare contenutisticamente il v.18 alla nostra pericope (vv.21-35). Ancora una volta emerge attivamente la figura di Pietro, che stimola Gesù su di una questione rilevante e dibattuta anche all'interno del mondo giudaico, il quale era arrivato alla conclusione che il perdono, per uno stesso errore, dovesse essere dato per non più di tre volte35. Pietro si spinge ben più in là della normale prassi e propone a Gesù un perdono dato per ben sette volte, più del doppio. Un numero questo, il sette, che nella simbologia ebraica parla di compiutezza, di perfezione voluta da Dio36. La proposta di Pietro, quindi, prospetta un comportamento di eccellenza spirituale.

Il v.22 dà una prima indicazione, che svincola la questione dai ristretti limiti quantitativi, che sono propri dell'uomo: non più sette volte, bensì settanta volte sette. Un ebraismo questo per dire sempre. Vi è quindi un passaggio dall'eccellenza spirituale (sette volte) alla perfezione (settanta volte sette), che spinge il credente al di là di ogni prospettiva e di ogni logica umana, introducendolo nelle logiche stesse di Dio. Al giovane ricco che interpellava Gesù per sapere come ottenere la vita eterna, Gesù nell'indicargli la strada maestra dei comandamenti, gli prospetta anche un'altra via, che lo spinge al di là della semplice osservanza, coinvolgendolo nella totalità del suo essere e del suo vivere: la sequela, colta come la via della perfezione spirituale (19,16-21). La prospettiva del cristianesimo non è mai contro l'uomo, né lo vuole umiliare entro la ristretta gabbia di precetti e di norme, ma lo sollecita continuamente verso una sua perfezione spirituale, che lo coinvolge nell'interezza della sua umanità, portandola alla sua piena affermazione. La Gaudium et Spes sottolinea con forza come Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo” (GS §41). Il modello di vita, infatti, che ci propone Gesù non rientra nelle ristrette logiche umane, ma le supera di gran lunga, spingendo il credente negli stessi spazi di Dio, dove è la sua destinazione finale. Entro questa prospettiva va colto anche il perdono, che deve essere totale e incondizionato per tutti, cioè divino Non ci deve mai essere un limite al perdono, ma questo deve caratterizzare il modo di relazionarsi con gli altri e la modalità per dirimere le questioni sia personali che comunitarie, testimoniando un nuovo stile di vita, improntato all'amore misericordioso, di cui per primo il credente ha beneficiato. Alla norma che imponeva al pio ebreo di amare il suo correligionario, ma di respingere chi non lo fosse, Gesù prospetta un nuovo e rivoluzionario modo di porsi di fronte anche ai pagani: “ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,44-48). Il vivere cristiano è dunque un vivere che assimila l'uomo a Dio, portando la sua umanità alla perfezione divina. Con la fede e la Parola nel battesimo, infatti, è stato iniettato nel credente il DNA stesso di Dio.

Il v.23a introduce la parabola del servo malvagio, la cui finalità è quella di illustrare la qualità del perdono, così come inteso da Gesù: non si tratta più di un perdono legato a parametri legali e quantitativi, bensì fondato sull'amore misericordioso e compassionevole, dato in modo incondizionato e che affonda le sue radici nelle stesse logiche del Regno di Dio: “Per questo il Regno dei cieli fu assimilato ad un uomo re”. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un'altra parabola che rivela un ulteriore aspetto di questo regno, che ha le stesse dimensioni di Dio e nel quale l'uomo è chiamato ad entrare, riparametrando la propria vita su questi aspetti essenziali, che gli vengono rivelati dalle parabole.

Con il v.23b inizia la parabola del servo malvagio e in prima scena appare “un re che volle fare i conti con i suoi servi”. Il testo greco dice “un uomo re” (¢nqrèpJ basile‹, antzrópo basileî), aprendo in tal modo un confronto parallelo con un altro re che, invece, non è uomo e che al v.35 si scoprirà essere lo stesso Padre. Un parallelismo che verrà confermato all'inizio dello stesso v.35 con l'avverbio di paragone “OÛtwj kaˆ”(útos kaì, così anche), che rivela come l'intera parabola stava parlando in realtà non di un re, ma di Dio stesso. In altri termini, si parla di cose umane (uomo re), ma si pensa a quelle divine (così anche il Padre), a cui quelle umane sono in qualche modo collegate e corrispondenti. Il parallelismo allude proprio a questa stretta convivenza tra il quaggiù e il lassù.

Lo scenario che si apre è quello proprio di un giudizio finale (volle fare i conti), in cui il re-Dio convoca davanti a sé i suoi servi. Si noti come i convocati non sono i sudditi, ma i servi. Questo giudizio, quindi, non è posto sul mondo, ma sui discepoli. Matteo, infatti, qui sta parlando alla sua comunità. Nel corso dei conti viene scoperto e trascinato davanti al re un servo, debitore di diecimila talenti. Il verbo “proshnšcqh” (prosenécze) possiede in se stesso un senso di costrizione, significa spingere in avanti, portar fuori, portare alla luce, presentare. Ciò che era nascosto, ora viene portato alla luce; nessuno può pensare di farla franca. Il verbo, inoltre, è posto al passivo, assumendo qui un duplice significato: da un lato, il servo sta subendo un'azione costrittiva e di giudizio; dall'altro, questo giudizio è posto sul servo da Dio stesso; ci troviamo, infatti, di fronte ad un passivo teologico. L'ammontare della somma, diecimila talenti37, è enorme, iperbolica e, per questo, impossibile e non credibile; così come non è credibile la promessa fatta dal servo, scoperto con le mani nel sacco, di pagare tutto il suo debito (v.26): non gli sarebbero bastate 4.000 vite.

Al di là dei numeri, l'intento qui è di porre a confronto i diecimila talenti dovuti al re con i cento denari dovuti da un altro servo. Due quantità, due valori che sono semplicemente incomparabili e che proprio per questo creano un abisso tra i due comportamenti. Ma qui siamo nell'ambito di un racconto e l'intento del narratore non è quello di riportare dei fatti di cronaca, ma quello di sollecitare il suo lettore all'indignazione finale, in cui si sentirà naturalmente coinvolto, quando scoprirà che questo servo non ha saputo condonare ad un suo collega una insignificante manciata di denari, e condividerà, quindi, con grande plauso, la condanna inflittagli dal re. La parabola, infatti, ha proprio questo intento primario, quello di coinvolgere in prima persona l'ascoltatore stesso, che, a sua insaputa, diventa parte dei personaggi che si muovono nella parabola.

Altrettanto irrilevante di fronte all'astronomica somma di 10.000 talenti era la decisione del re di vendere come schiavi l'intera famiglia del servo, nonché tutti i suoi beni patrimoniali (v.25). Basti pensare che all'epoca il valore di uno schiavo si aggirava tra i 500 e i 2.000 denari. Quantità valoriali del tutto insignificanti rispetto al debito prodotto, che mai con le sue sole forze il servo avrebbe potuto sanare neppure in parte. I vv.24-26, attraverso un iperbolismo di tipo galattico, tendono a creare un contesto di perdizione irreparabile, che niente poteva sanare. Allo schiavo non resta che un'ultima carta da giocare: la richiesta di un atto di clemenza e di misericordia, accompagnata da una promessa, impossibile e assurda, di saldare l'intero debito (v.26). Che cosa farà ora il re? Tutti si aspettano che il re dia seguito al suo ordine di distruggere quel servo infedele e tutta la sua progenie. Ma ecco, inaspettatamente, il re fu mosso a compassione verso quel servo disgraziato. Il verbo usato per esprimere la compassione è “splagcnisqeˆj” (splancnisteìs), che indica una compassione viscerale, che nasce dalla profondità del cuore di questo re; una commozione che lo prende totalmente e che lo porta a liberare quel servo da ogni suo debito, restituendogli la sua dignità di persona libera e salvando nel contempo la sua stessa famiglia dalla distruzione. La statura morale di questo re è gigantesca come gigantesco è il perdono concesso al suo servo infedele.

I vv.28-30 introducono l'altro episodio parallelo, riguardante i due servi. Lo schema narrativo è volutamente identico per creare un immediato confronto e uno stretto legame tra i due comportamenti. Variano le dimensioni del debito: 10.000 talenti il primo, 100 denari il secondo; la supplica dei due debitori è letterariamente identica; ma radicalmente opposta è la decisione dei due creditori: di un'enorme, incomparabile e inaudita generosità nel primo episodio; egoistica, meschina, incomprensibile e assurda la seconda. Di conseguenza opposta è la fine dei due debitori: perdonato e riabilitato nella sua dignità il primo; gettato in prigione il secondo. Si noti come a fronte della supplica del suo servo il re è preso da una profonda commozione; mentre nel secondo caso il servo, di fronte al suo collega, si dimostra duro e chiuso a ogni comprensione e ad ogni pietà: “non volle”.

La conclusione dei due episodi va a confluire nei vv.31-34, una breve pericope veramente magistrale, che racchiude il senso ultimo della parabola e la vera motivazione del perdono: si deve sempre perdonare, perché per primi siamo stati perdonati da Dio. In tal modo il nostro perdono diventa testimonianza vivente dell'amore misericordioso di Dio. Lo schema su cui si muove la breve pericope è quello proprio del giudizio:

a) vi è una denuncia da parte dei servi, testimoni del reato commesso dal servo infedele (v.31);

b) vi è la chiamata in giudizio del servo (v.32a);

c) si richiama la fattispecie del reato (v.32b);

d) il dibattimento della causa (v.33);

e) la sentenza finale di condanna (v.34).

Rispetto al primo episodio (vv.23-27), in cui il servo non solo non viene condannato, ma neppure rimproverato, lo scenario qui è capovolto: il servo è qui definito malvagio (Doàle ponhrš, Dûle poneré); una definizione che contiene in sé una recriminazione, che fin da subito lascia intuire sia l'animo adirato e sdegnato del re che la sentenza finale. Un attributo che solo apparentemente definisce il servo, ma in realtà lascia capire come è giudicata l'incapacità di perdonare: si tratta di malvagità, che porta con sé una condanna inappellabile. Gli irriducibili della comunità matteana sono avvertiti. Il re richiama all'attenzione del servo il grande beneficio che lui ha ricevuto, grazie alla sua sola supplica. Sta proprio qui il motivo di fondo del perdono cristiano: il servo, senza alcun merito particolare, riceve il condono di un debito insanabile, che lo vedeva già irreparabilmente perduto. Solo la magnanimità del suo signore lo ha salvato. Posta la premessa al perdono, ora, al v.33, viene indicata la logica conseguenza, che ricade esclusivamente sul servo come il vero scotto da pagare al suo re: il perdono ricevuto deve trasferirsi anche verso gli altri. Perdonati, si perdona. Solo così la sorgente del perdono, l'Amore divino, può continuamente defluire verso tutti gli uomini, che perdonati sanno a loro volta perdonare.

Il v.33 si apre con un'espressione, che pone in debito il servo a motivo del perdono ricevuto e lascia intuire come proprio per questo il perdono diventa obbligato da parte del servo, il quale, avendo colpevolmente (“non volle”) disatteso il comandamento, è definito malvagio: “Non bisognava che anche tu”. Due sono gli elementi significativi in questa espressione: il verbo “bisognava” (œdei, édei), che dice come il perdono sia un dovere, una necessità che incombe sul servo perdonato; e la congiunzione “anche”, che aggancia direttamente il servo al comportamento altamente magnanime del suo signore. Un comportamento che egli, il malvagio, doveva riprodurre nella sua vita, allineandosi in tal modo alla grandezza morale e spirituale del re: “come anch'io ho avuto pietà di te”. La compassione misericordiosa di questo re, di cui il servo ha beneficiato, doveva, quindi, costituire un punto di raffronto, su cui riparametrare la propria vita. Solo in tal modo egli si rendeva degno del perdono del suo signore.

Il v.34 se da un lato è la giusta conclusione per una malvagità pari soltanto alla grandezza del perdono ricevuto, dall'altro esso trasfonde nell'animo del lettore una tristezza infinita, perché qui il servo viene perduto per sempre e per lui non c'è più alcuna possibilità di riscatto.

Il v.34 si apre con un kaˆ (kaì, e), che narrativamente lo aggancia ai versetti precedenti, giustificando in tal modo lo sdegno del re. Quella compassione misericordiosa, che aveva commosso nella profondità delle sue viscere il re, ora si trasforma in uno sdegno iroso, che sfocia in una condanna: lo consegnò ai carcerieri, facendo ricadere così su di lui lo stesso comportamento che egli ha tenuto nei confronti del suo collega. Ma in tutto questo, ciò che più pesa è una condanna che non ha più riscatto: finché non avesse restituito tutto il dovuto. Ma già si era detto sopra come le proporzioni astronomiche del debito non potevano mai essere sanate. Per questo la condanna è priva di ogni riscatto, ogni speranza gli è stata tolta.

Il v.35 chiude il racconto del servo malvagio con una sentenza, che lascia ammutoliti e sgomenti tutti gli ascoltatori, poiché, all'improvviso, si passa dal racconto alla realtà, in cui tutta la comunità matteana è coinvolta e chiamata in prima persona al perdono, ma nel contempo sente pesare su di sé questa sentenza di condanna, che non le lascia alcuna possibilità di appello: “Così anche il Padre mio, che è nei cieli, farà a voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”. Questa sottolineatura del Padre che è nei cieli, il quale riserva a quelli che sono sulla terra una condanna per il loro comportamento, lascia intendere come ogni comportamento ha la sua risonanza e la sua conseguenza anche nei cieli. Il credente è contemporaneamente cittadino di due patrie, una terrestre e una celeste38, e tutto ciò che fa in una ha una ineluttabile conseguenza anche sull'altra e lo avrà per sempre. Quel “Così anche il Padre mio” sottende come noi saremo misurati con la stessa misura con cui misuriamo e il giudizio che noi riserviamo ai nostri simili, sarà riservato a noi (7,2). Del resto Gesù stesso ha insegnato ai suoi discepoli di rivolgersi al Padre chiedendogli di rimettere i propri debiti, come loro li rimetteranno ai propri debitori (6,12). Presupposto, dunque, al nostro perdono è il nostro saper perdonare. Siamo, dunque, noi stessi, che ci prepariamo qui sulla terra i parametri del nostro stesso giudizio, perché “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2,13).


                                                                                                                                                        

                                                                                                                                                           Giovanni Lonardi


N O T E


1 Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. - pagg. 394-395

2 Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit. - pag. 492

3 Cfr. il titolo “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

4 Secondo una diversa prospettiva, il Gnilka rileva una cesura al v.15, che divide l'intero cap.18 in due parti. Nella prima (vv.1-14) prevale il ripetersi del vocabolo “piccoli”; nella seconda parte (vv.15-35) prevale il termine “fratelli”. Entrambe le parti si concludono con una parabola, che ha come tema di fondo il comportamento del Padre. - Similmente, benché da prospettiva diversa, il Fabris vede il cap.18 diviso in due parti, ognuna delle quali si snoda attorno alle due domande: la prima posta dai discepoli (v.1), la seconda da Pietro (v.21). - Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit. - Benché queste suddivisioni abbiano un loro fondamento oggettivo e vadano comunque tenute in considerazione, tuttavia, personalmente ho preferito rilevare la struttura del racconto seguendo lo sviluppo narrativo e di pensiero dell'autore. In tal modo viene reso più facile comprendere il filo conduttore che lo ha mosso, dando una solida unità strutturale all'intero cap.18 .-

5 Cfr. anche Mt 20,20-24.

6 Paolo nella sua lettera ai Galati presenta la vera natura del credente, colto come colui che si è lasciato assorbire da Cristo: “ non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a).

7 Cfr. Mt 18,1-5; 20,20-24; Mc 9,33-37;10,35-45; Lc 9,46-48; 22,25-27

8 Più o meno è ciò che succede nelle nostre parrocchie, in cui, grazie sovente alla colpevole quiescienza dei pastori, vi sono alcune persone molto attive, sospinte più che da uno spirito di servizio da una necessità personale di emergere, intrallazzate in più attività per le quali, non hanno quasi mai alcuna preparazione e competenza per poter rendere un vero servizio qualificato alla comunità. Sono queste persone che usano la comunità in funzione di se stesse, rendendo un servizio soltanto a se stesse, mentre non capiscono che l'unico vero e valido servizio, che potrebbero rendere all'intera comunità, è quello di sapersi ritirare.

9 Cfr. le citazioni della precedente nota 6 e Mt 23,8-12; Lc 14,7-14; Gv 13,12-15; Rm 12,16; 1Cor 1,10-13; Fil 1,15-17; 2,1-5; Col 3,11-14;

10 Cfr. le citazioni delle precedenti note 6 e 7 + Mt 5,22-24; 6,14-15; 11,29; Lc 6,37; 1Cor 13,1-13; Ef 4,1-4.23-32; Rm 12,9-21; Col 3,7-15; Tt 3,1-2;

11 Cfr. Ger 13,1-14; Ez 12,1-28; 24,15-27 Os 1,1-9.-

12 Circa l'atteggiamento di servizio, che deve regnare nei rapporti intracomunitari, è mirabile quanto Paolo scrive alla comunità di Roma: La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male (Rm 12,9-21).

13 I vv.1-4 richiamano da vicino un detto rabbinico, che dice: “Colui che si fa piccolo in questo mondo a causa della Torah sarà grande nel regno che sta per venire; colui che si fa schiavo in questo mondo a causa della Torah sarà libero nel mondo che sta per venire” (Baba Mezia 85 ss). Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, nota 6 di pag.496 – op. cit.

14 Sul significato del termine Amen cfr. la nota n.73 del commento al cap. 10 della presente opera.

15 I verbi legare la macina attorno al collo e affogare nel mare in greco sono posti al passivo, che nel linguaggio biblico neotestamentario indica l'azione di Dio. Questi passivi sono definiti come “passivi teologici o divini”.

16 Cfr. la voce “scandalo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

17 Cfr. 2Sam 20,19.20; Sal 51,6; 54,10; 68,16; Qo10,12 e in Mt 14,30; 18,6.-

18Cfr. Mt 5,29.30; 17,27; 18,6.7.8.9;

19Cfr. Mt 11,6; 13,57; 15,12; 26,31.33

20Cfr. Mt 13,21; 24,10

21Cfr. Mt 16,23

22Cfr. Mt 13,41

23Il v.11 trova il suo corrispondente in Lc 19,10, posto, in tono sapienziale, a chiusura del racconto di Zaccheo.

24Nel tradurre questo versetto ho privilegiato la costruzione greca ad un corretto italiano, per rimanere il più fedele possibile al testo originale.

25Cfr. Mt 26,31; Mc 14,27; Gv 10,1-16; Eb 13,20; 1Pt 2,25; 5,4; Ap 7,17

26Mt 18,15 rimanda a Lv 19,17 Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d'un peccato per lui”; così similmente ricorda Sir 19,13-17: “Interroga l'amico: forse non ha fatto nulla, e se qualcosa ha fatto, perché non continui più. Interroga il prossimo: forse non ha detto nulla, e se qualcosa ha detto, perché non lo ripeta. Interroga l'amico, perché spesso si tratta di calunnia; non credere a ogni parola. C'è chi sdrucciola, ma non di proposito; e chi non ha peccato con la sua lingua? Interroga il tuo prossimo, prima di minacciarlo; fa intervenire la legge dell'Altissimo”. Mt 18,16, invece, si rifà espressamente a Dt 19,15: “Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”. - Nella regola di Qumran è prevista una procedura per tre gradi, che si riflette nella pericope matteana 18,15-17. Recita, infatti, la Regola della Comunità: “Si ammoniranno l'un l'altro con verità, umiltà e amore benevolo verso ognuno. Nessuno parli a suo fratello con ira, con brontolamenti, con il collo inflessibile o con cuore duro o con spirito malvagio. Non lo deve odiare nell'incirconcisione del suo cuore, bensì nello stesso giorno lo riprenda e così non addosserà su di sé una colpa per causa sua. Inoltre, nessuno introduca una causa contro il suo prossimo davanti a molti, se prima non vi è stata una riprensione davanti a testimoni” (1QS V,25-V,1). Così anche nell'altro testo di Qumran, il Documento di Damasco, nel commentare Lv 19,17 dispone: “A proposito di quanto ha detto: <<Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo>> , colui che è entrato nel Patto e adduce un'accusa contro il suo prossimo senza averlo (prima) rimproverato davanti a testimoni o la sostiene con collera ardente o la riferisce ai suoi anziani per attirare su di lui il disprezzo, costui è uno che si vendica e conserva rancore; […]. Se conserva il silenzio verso il suo prossimo, un giorno dopo l'altro, e parla contro di lui con collera ardente, è un'accusa di morte che adduce contro se stesso, non adempiendo gli ordinamenti di Dio, il quale gli disse: <<Riprenderai francamente il tuo prossimo e così non avrai a causa sua la responsabilità di un peccato” (CD IX, 2-8). I testi qui riportati, relativi a Qumran, sono stati tratti L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, Editori Associati Spa, Milano – Prima edizione TEA febbraio 1994.

27Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

28Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

29Con tale termine nel N.T. vengono definiti i nuovi credenti. In tal senso gli Atti degli Apostoli, in cui il termine ricorre 57 volte, usano quasi sempre la parola fratello nel senso esclusivo di appartenente alla comunità cristiana o di credente in Cristo. Similmente anche gli altri testi neotestamentari (le lettere), in cui il termine ricorre 182 volte, lo usano quasi esclusivamente nel senso sopra detto. Nei Vangeli il termine ricorre 82 volte ed è usato in ugual modo sia nel senso metaforico ricordato, che nel senso espresso di fratelli carnali. Il termine fratello, quindi, che in questa breve pericope è usato in senso metaforico, non deve far pensare ad un rapporto di amore fraterno, ma soltanto indica i componenti della comunità. Vedremo subito, infatti, (v.15b) come il rapporto con il fratello che ha sbagliato sia oltremodo duro, senza alcuna comprensione e pietà, come del resto dimostra il proseguo dell'azione contro il fratello, fino alla sua espulsione dalla comunità.

30Il testo di Dt 19,15 recita: Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”.

31Le prime comunità cristiane, in particolar modo quelle dell'area palestinese, formatesi nel corso del primo secolo, avevano una struttura, che avevano mutuato dalla sinagoga, in cui, oltre al capo sinagoga, vi era anche un consiglio di anziani. È pensabile, quindi, che l' ekklesìa, a cui Matteo accenna qui, si riferisca al gruppo degli anziani, che assieme al responsabile della comunità, la dirigevano. - In tal senso cfr. Raymund Kottje- Bernd Moeller, Storia ecumenica della Chiesa, 1°Vol. Chiesa Antica e Chiesa Orientale, Ed. Queriniana, Brescia 1992- pagg. 43 e 71-73; cfr. anche le voci assemblea, comunità, sinagoga in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

32Cfr. la voce Sinagoga in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit. - In tal senso cfr. anche Gv 9,22; 12,42.

33Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.

34Similmente cfr. anche Es 25,8; 29,46; Nm 16,3; Dt 6,15; 7,21; Is 12,6; Ez 37,26-27; 43,9b; Os 11,9b; Gl 2,27; Sof 3,15.17; Zc 2,14.15. -

35Secondo lo Yoma VIII, 9 il Giorno del Pentimento assolve dalle colpe di fronte a Dio, ma non di fronte alla persona offesa finché non se ne ottiene in modo esplicito il perdono. Il perdono, da parte dell'offeso, va dato attraverso un preciso rituale, che vede l'offensore chiedergli per tre volte il perdono, davanti a dei testimoni. - In tal senso cfr: Abraham Cohen, Il Talmud, traduzione di Alfredo Toaff, Editori La Terza, Bari 1999; R. Fabris, Matteo, op. cit. - pag. 408, nota 2 e A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, opp. citt.

36Cfr. la voce “Sette” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, op. cit.

37Per poter comprendere in termini concreti le dimensioni valoriali di cui si sta parlando al v.24 (10.000 talenti), si pensi soltanto che il valore del talento era pari a circa 36 Kg. di argento, corrispondente in valore a circa 10.000 denari. Ora se consideriamo che la paga giornaliera di un operaio si aggirava intorno ad un denaro, il servo per poter rimborsare quanto aveva sottratto al suo re, con il quale si era impegnato a rifondergli tutto, avrebbe dovuto lavorare per 100 milioni di giornate, pari a circa 278 mila anni di lavoro continuato. Per un altro termine di paragone, si pensi che la rendita annua del regno di Erode il grande era di 900 talenti e che il gettito erariale proveniente dalla Galilea e la Perea era di 200 talenti. - Cfr. R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo; R. De Vaux, Le Istituzioni dell'A.T.; la voce “Talento” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia. Tutte le opere sono state citate.

38Cfr. 1Cor,15,47-49; 2Cor 5,1-3; Col 1,13; 3,1-6; Ef 2,19; Eb 3,1; - Lo sconosciuto autore cristiano del II sec. scrivendo una lettera al suo amico Diogneto, per convincerlo della bontà del cristianesimo, parlando del mistero cristiano, affermava come i cristiani Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo (Dio. V,8-9).