IL VANGELO DI MATTEO

 

 

Il terzo grande discorso di Gesù

 

 

 

LE PARABOLE DEL REGNO

 

Una svolta discriminante nella missione di Gesù

 

 

 

Introduzione, analisi e commento al cap. 13

 

 

 

 

 

 

Premessa

 

Nei due precedenti capitoli si erano addensati attorno alla figura di Gesù dubbi (11,2-3), contraddizioni (11,16-19), chiusure e atteggiamenti di rifiuto nei suoi confronti (11,20-24), che si trasformarono in opposizioni polemiche (12,1-15) e in accuse di possessione demoniaca (12,24), pretendendo da Gesù un segno, che giustificasse le sue pretese (12,38). Il clima che ci siamo lasciati alle spalle non era certo dei migliori. Proprio per superare questi continui ostacoli, che si frapponevano sul cammino della sua missione, Gesù costituisce una nuova realtà: la prima comunità messianica, che svincolata dai legami della carne e del sangue, si agganciasse a lui per mezzo dell’unico legame spirituale, che assembla tutti in uno: il fare la volontà del Padre (12,46-50). Questo è l’elemento che non solo muove l’intera missione di Gesù[1], ma sui cui si fonda anche la sua stessa vita (Gv 4,34; 5,30), che associa a quella dei suoi discepoli, che egli ha indicato come la sua nuova famiglia. Si vengono a formare in tal modo due gruppi: quello che fa la volontà del Padre, accomunato per questo a Gesù, che con lui condivide l’unico e comune Padre (Gv 20,17b); e quello, invece, che si accosta a Gesù con logiche puramente umane, rendendosi in tal modo incapace di cogliere le vere realtà che palpitano in Gesù (13,54-58). Saranno proprio questi due gruppi, che formeranno lo schema di fondo su cui si muove l’intero cap.13, in cui si delinea il doppio atteggiamento dell’uomo nei confronti del disvelarsi del Regno nella persona di Gesù.

 

Introduzione

 

Il cap.13 costituisce il cuore del racconto matteano e contiene il terzo grande discorso di Gesù, che   si muove su due temi principali: a) il Regno di Dio[2]; b) la presa di posizione di Gesù nei confronti della contrastante e contrapposta reazione della gente all’annuncio del Regno.

 

Quanto al Regno di Dio, esso è colto nella sua natura, nella sua dinamica e nel suo rapporto con gli uomini. Attorno ad esso ruotano e attingono il loro senso i cinque grandi discorsi di Gesù e gli stessi intermezzi riguardanti la sua attività[3].

Il capitolo raccoglie sette parabole a tema unico, che rispecchiano la diversa composizione sociale della comunità matteana. Esse sono tra loro accoppiate in base all’area di appartenenza: a) agricoltura; b) commercio e città, c) pesca, così come di seguito dettagliato:

 

 

 

Area Agricoltura

 

-          Il Seminatore (vv.3b-9)

-          Il grano e la zizzania (vv. 24-30)

-          Il granello di senape (vv.31-32)

-          Il lievito (v.33)

 

Area commercio e città

 

-          Il tesoro nel campo (v.44)

-          La perla di grande valore (vv.45-46)

 

Area pesca

 

-          La rete gettata in mare (vv.47-50)

 

Ogni area contiene in sé un numero di parabole, che decresce del 50% rispetto all’area precedente, per cui la prima area riporta quattro parabole, la seconda due e la terza una. L’insieme delle parabole è sette, un numero che nel linguaggio biblico[4] indica il compimento, la perfezione, la pienezza. Le sette parabole, quindi, nell’ottica di Matteo esprimono i tratti salienti del Regno di Dio, la sua dinamica e le sue esigenze nei confronti degli uomini. Ma il sette, riferito alle parabole, dice anche qualcosa del Regno: esso è la pienezza dell’opera salvifica, che il Padre ha portato a compimento nel Figlio, richiamando, in qualche modo, la conclusione della creazione genesiaca: “Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto” (Gen 2,2-3). Il Regno, quindi, è lo spazio sacro, costituito in Cristo e per Cristo[5], che Dio si è riservato e in cui ha portato a compimento il suo disegno di salvezza (Col 1,19-20), invitando l’uomo ad entrarvi per partecipare alla stessa vita divina, condividendola con Dio in Cristo.

 

Non vanno trascurati, inoltre, i numeri decrescenti delle parabole contenute in ogni area: Quattro, due, uno. Il quattro, secondo il linguaggio biblico, esprime la totalità e la completezza, per indicare come il Regno avvolga l’intera umanità e ad essa sia destinato; ma dice anche come esso sia la pienezza di Dio posta in mezzo agli uomini. Il due dice bipolarità e nel contempo contrapposizione: bianco-nero, buono-cattivo, giusto-ingiusto e richiama da vicino la necessità di una scelta radicale[6] (Mt 12,30), quale risposta esistenziale a questa nuova realtà divina, che interpella l’uomo nella sua dimensione storica e lo spinge a prendere posizione. Infine il numero uno, che nella Bibbia ha una valenza fortemente teologica in quanto si riferisce all’unicità di Dio (Dt 6,4), una unicità rimarcata anche dalla terza posizione, che occupa questo numero nell’elenco delle aree in cui sono inquadrate le parabole. Il numero tre, infatti, è il numero che tutto comprende, poiché esso dice l’inizio, il centro e la fine, decretando in se stesso il superamento della dualità e di ogni contrasto e si riferisce alla stessa santità e perfezione divine. Non a caso Isaia definisce Jhwh tre volte Santo (Is 6,3), un trisagio[7] che trova la sua eco in Ap 4,8.

 

In questo contesto simbolico, assume un particolare significato il fatto che le sette parabole siano dislocate in tre aree di attività, che rispecchiano in loro stesse la quotidianità del vivere dell’uomo. Un’indicazione questa che ci porta a comprendere come la realtà del Regno non è estranea all’uomo, ma fa parte di lui e si intreccia con la sua dimensione; una realtà con la quale egli deve fare i conti e che da lui esige una risposta esistenziale; una realtà, che una volta accolta dall’uomo, si esprime e vive attraverso la sua testimonianza.

 

Tematicamente le parabole si suddividono in quattro parti, che di seguito proponiamo:

 

A)    Il Seminatore (vv. 3b-9) è una parabola introduttiva e a se stante. Essa illustra i vari comportamenti assunti nei confronti della Parola del Regno da parte degli ascoltatori (v.19). Questa è un seme largamente e indistintamente dato a tutti con generosità, ma diverse e spesso deludenti sono le risposte da parte degli uomini, in conformità alla loro natura e alle situazioni in cui essi vengono a trovarsi.

B)    Grano/zizzania (vv.24-30) e Rete gettata in mare (vv.47-50): esse riguardano la collettività umana, in cui si muovono buoni e cattivi (i pesci), che generano contesti positivi o negativi (grano e zizzania). Entrambe si chiudono con il tema del giudizio finale (vv.30 e 48-50), che viene posto sugli uomini.

C)    Granello di senapa (vv.31-32) e Lievito (v.33): indicano la grande potenza espansiva e di crescita del Regno, una realtà fortemente dinamica in continuo fermento.

D)    Tesoro nel campo (v.44) e La perla di grande valore (vv.45-46): riguardano la singola persona e raccontano la scoperta della grandezza del Regno e la sua acquisizione, che passa attraverso una totale spoliazione.

 

Il racconto delle sei parabole, propriamente riferite al Regno (la prima è solo introduttiva e prelude alla scelta di Gesù e ne fornisce la motivazione), si muovono secondo una precisa logica tematica: il Regno in rapporto alla collettività umana (Lett. B); il Regno in rapporto ai singoli uomini (Lett. D); la natura propria del Regno, come realtà in essere (Lett. C).

 

Il secondo tema, trattato dal cap.13, è la presa di posizione di Gesù nei confronti della persistente incredulità dei suoi ascoltatori. Un tema questo che si muove in parallelo a quello del Regno e descrive la nuova strategia adottata da Gesù nella sua predicazione. A seguito di ciò si viene a creare la divisione dei seguaci di Gesù in due gruppi: chi lo ascolta, ma non gli dà retta, rimanendo fermo nelle sue posizioni: non c’è conversione, non c’è evoluzione spirituale, non c’è rinnovamento interiore; chi, invece, segue Gesù ed è aperto al suo nuovo messaggio, facendosi suo discepolo. Ai primi Gesù parlerà con il linguaggio della parabola, criptando i misteri del Regno attraverso la metafora; ai secondi, invece, a parte e in modo diretto, li svelerà. La scelta discriminante di Gesù nasce dal fatto che, nell’ambito della sua predicazione e della sua missione, egli ha trovato numerose resistenze ed opposizioni, radicate in una invincibile incredulità (capp.11-12).

 

La contrapposizione dei due gruppi, nati dalla scelta discriminatoria di Gesù (v.11), costituisce lo schema di fondo entro cui si snoderà il racconto delle sette parabole del Regno.

 

I tratti fondamentali che caratterizzano i due gruppi e strutturano il cap.13 sono i seguenti:

 

a)      I due movimenti di Gesù, che esce di casa (v.1) verso le folle e poi rientra in casa (v.36) verso i discepoli, divide il cap.13 in due grandi sezioni, entro cui si collocano e sono caratterizzati i due gruppi tra loro contrapposti;

b)     la caratterizzazione dei due gruppi: A) Le folle, dalle quali Gesù prende le distanze: egli sale in barca, le folle rimangono ferme sulla spiaggia (v.2b). Si crea in tal modo una lontananza tra i due. A queste Gesù decide di non rivelare i segreti del Regno, ma di annunciarlo attraverso il linguaggio criptato delle parabole (vv.11b e 34). Le folle, poi, sono definite come un popolo dal cuore divenuto ottuso (v.15a). Infine, Gesù, nel rientrare in casa, manda via le folle (v.36a), escludendole in tal modo dalla rivelazione dei misteri del Regno, che invece riserva solo ai suoi discepoli (v.11a). B) Il gruppo dei discepoli è caratterizzato dal verbo prosšrcomai (prosércomai) (vv.10a e 36b), cioè dal loro andare verso Gesù, dal loro avvicinarsi a lui, che evidenzia un orientamento esistenziale nettamente a favore di Gesù. Ciò denota una scelta di vita già avvenuta. Essi sono i depositari dei misteri del Regno (v.11a) e sono definiti “Beati” da Gesù (v.16). A differenza delle folle, ferme in riva al mare, questo gruppo privilegiato è caratterizzato dalla “casa” (vv.1 e 36), che nel linguaggio metaforico dei vangeli molto spesso indica, come in questo caso, la nuova comunità messianica, dove i nuovi credenti si stringono attorno a Gesù.

 

 

La struttura del cap. 13

 

 

La struttura narrativa di questo capitolo è piuttosto complessa e di non immediata decifrazione. Il capitolo presenta una parte introduttiva (vv. 1-9), seguita da due parti tra loro omogenee e parallele (vv.10-33 + 34-50), che formano il corpo del capitolo stesso; vi è una conclusione (vv.51-53) e, infine, un’appendice che costituisce una sorta di applicazione pratica (vv.54-58) dei vv. 12,46-50.

 

Ciò premesso, il ritmo narrativo si snoda nel seguente modo:

 

Parte Introduttiva  (vv. 1-9)

 

Questa parte si compone di due momenti: una cornice spazio-temporale (vv.1-2), che svolge una duplice funzione: la prima, quella di creare uno stacco narrativo rispetto al precedente cap.12; la seconda, quella di indicare la costituzione di un gruppo, che si polarizza intorno a Gesù, ma fuori dalla casa, e al quale Gesù parlerà soltanto in parabole. Vedremo come questo gruppo si contrapporrà a quello che si coagula attorno a Gesù dentro alla casa (v.36), al quale invece Gesù riserva la spiegazione delle parabole (v.11).

 

Il secondo momento di questa prima parte introduttiva è composto dal racconto della parabola del Seminatore (vv.3-9). Essa, pur facendo parte del gruppo delle parabole del regno, si distacca dalle altre sia per la generalità del tema (la parola del Regno e gli effetti che essa produce nelle persone); sia perché, unica tra tutte, non è introdotta dall’espressione “il Regno dei cieli è simile”, che, invece, introduce tutte le altre parabole, creando una sorta di comune denominatore narrativo.

 

Le due parti parallele e omogenee  (vv.10-33 + 34-50)

 

Queste due parti seguono un identico schema:

 

Prima Parte

 

A)    Primo Intermezzo (vv.10-17): viene motivato l’uso delle parabole nella predicazione di Gesù verso le folle. La profezia di Isaia (Is 6,9-10) è applicata nei confronti delle folle;

B)    Spiegazione della parabola del Seminatore (vv.19-23);

C)    Primo gruppo di parabole (vv.24-33): Grano/zizzania (vv.24-30); Granello di senape (vv.31-32); Lievito (v.33).

 

 

Seconda Parte

 

A1) Secondo Intermezzo (vv.34-35): viene motivato l’uso delle parabole nella predicazione di Gesù. La profezia, tratta questa volta dal Sal 78,2, è applicata a Gesù. vi è, quindi, una sorta di complementarietà tra il primo e il secondo intermezzo: Folle + Gesù;

B1) Spiegazione della parabola del Grano/zizzania (vv.36-43);

C1) Secondo Gruppo di parabole (vv.44-50): Tesoro nascosto (v.44); Perla preziosa (vv.45-46); Rete gettata in mare (vv.47-50).

 

Parte conclusiva del terzo grande discorso (vv.51-53)

 

Appendice applicativa (vv.54-58): i giudei, a motivo della loro incredulità, si rapportano a Gesù come ad un semplice uomo e ciò impedisce loro di coglierne la divinità.

 

 

 

COMMENTO AL CAP. 13

 

 

 

vv.1-2: questi versetti formano la cornice narrativa, che introduce il terzo grande discorso di Gesù. Il primo versetto inizia con una nota temporale (“in quel giorno”), fatta seguire da una spaziale (“uscito di casa, stava in riva al mare”). Le connotazioni, tutte redazionali, servono all’autore per staccare narrativamente i capp. 11-12 dal presente e introdurre il suo lettore in un nuovo contesto narrativo. Tuttavia esse offrono anche delle indicazioni utili a comprendere la situazione, che si sta parando davanti. Una prima osservazione va fatta sull’espressione “In quel giorno” (“'En tÍ ¹mšrv ™ke…nV”, En tê eméra ekeíne), che se, da un lato, esprime dei contorni temporali indefiniti, dall’altro, richiama l’attenzione su quel giorno, che si rivelerà essere non un giorno qualsiasi, ma un tempo in cui Gesù è chiamato a compiere una scelta particolare, che segnerà una svolta radicale nella sua predicazione[8] e nella sua missione (v.11). L’espressione “'En tÍ ¹mšrv ™ke…nV”, infatti, in Matteo si trova soltanto qui, mentre in tutto il N.T. compare altre tre volte: due volte, in cui si parla del giorno del giudizio (Lc 10,12; 2Ts ); una volta in cui si evidenzia il particolare successo dell’annuncio della parola (At 2,41). Quando compare questa espressione, quindi, gli autori si riferiscono sempre a un tempo particolarmente rilevante o di particolare interesse, che ha a che fare, da un lato, con un’azione discriminatrice (giudizio) e, dall’altro, con l’affermarsi inarrestabile della Parola. Ed è proprio ciò che accade qui. L’intero cap.13, infatti, tematicamente è dominato da due elementi fondamentali: l’annuncio del Regno, colto nella sua dinamica e nei suoi rapporti con gli uomini, presi sia collettivamente che singolarmente; nonché la scelta discriminante, che Gesù è costretto ad operare nell’ambito di tale annuncio, poiché se a tutti il Regno viene annunciato, non a tutti sono rivelati i suoi misteri.

 

Una seconda osservazione va fatta sulla duplice connotazione di tipo spaziale: Gesù esce di casa e siede presso il mare. L’uscire di casa segna il primo movimento, che trova il suo opposto nell’entrare in casa (v.36). L’uscire (v.1) e l’entrare (v.36) dividono il cap.13 in due parti tra loro contrapposte, che designano e caratterizzano due gruppi di ascoltatori: quelli che sono in casa (v.36b) e quelli che sono fuori, fermi sulla riva del mare (v.2b), e che Gesù congeda prima di rientrare in casa (v.36a). Soltanto ai primi vengono rivelati i misteri del Regno (v.11a); ai secondi, invece, viene somministrato l’annuncio attraverso il linguaggio delle parabole, il cui contenuto è criptato dalla metafora. I due movimenti, dunque, stabiliscono una discriminazione tra gli auditori di Gesù. Così pure i due sostantivi casa e mare. La casa, nel linguaggio metaforico e simbolico dei sinottici, spesso indica la prima comunità messianica[9], in cui si trova Gesù. Da qui egli esce per andare verso la gente (vv.1b-2). Qui, nel nostro caso, essa è il luogo della rivelazione dei misteri del Regno (v.36). Che non si tratti di una casa qualsiasi, ma della nuova comunità credente, è suggerito anche dall’articolo determinativo, che precede il sostantivo “casa”. Gesù, infatti, non esce da una casa qualsiasi, ma “dalla casa” (“™xelqën [...] tÁj o„k…aj”, exeltzòn … tês oikías). Alla casa, luogo dell’intimità e della riservatezza, si contrappone il “mare”, per sua natura aperto e vasto, ma anche insidioso, poiché nasconde al di sotto della superficie un mondo sconosciuto, avvolto dall’anonimato. Un mare che talvolta viene letto metaforicamente come l’immagine dei popoli[10]. Ed è proprio qui, in riva al mare, che Gesù si siede; un verbo questo che atteggia Gesù a maestro e ne esprime l’autorità[11]. Il suo sedersi in riva al mare anticipa, quindi, metaforicamente il v.2.

 

In sintesi, il v.1 nel suo linguaggio metaforico e simbolico introduce l’intero tema del cap.13: Gesù, dopo aver definita e costituita in 12,46-50 la sua vera familia-comunità credente, in cui si riconosce e che associa a sé, esce da questa casa messianica per andare verso la gente, in mezzo alla quale si siede ammaestrandola. Questo suo ammaestramento, tuttavia, per le modalità con cui viene compiuto, diviene anche un atto discriminatorio, una sorta di giudizio, posto sulle folle. Per questo, quanto avviene “in quel giorno” (v.1a) determina una svolta radicale nella predicazione di Gesù, che si trasforma in un atto di accusa a motivo dell’incredulità della gente (vv.14-15).

 

Il v.2 riprende 13,1b e, sciogliendone la metafora, ne spiega il significato. Esso è scandito in tre momenti tra loro paralleli e convergenti in b), due riguardanti la folla (a + c)   e uno Gesù (b):

 

a)      La folla si raduna attorno a Gesù;

 

b)     Gesù prende le distanze dalla folla, salendo sulla barca, da dove impartisce il suo insegnamento (si siede);

 

c)      La folla rimane ferma sulla spiaggia, in ascolto di Gesù, ma distaccata da lui, così che essa non lo può raggiungere.

 

Al centro della breve narrazione si colloca un Gesù, che prende le distanze dalla folla e, da questa posizione di distacco, impartisce il suo insegnamento (b). Gesù, infatti, è sulla barca e la folla sulla spiaggia; ognuno, quindi, è fermo nelle sue posizioni; in tal modo, si viene a creare tra i due una situazione di incomunicabilità. Attorno a Gesù, infatti, si raggruppa una folla dal comportamento contradditorio: lo cerca (a), ma nel contempo non si muove dalle proprie posizioni, rimanendo ferma sulla spiaggia (c). Il verbo “eƒst»kei” (eistékei, stava ferma), posto al piuccheperfetto indicativo, descrive un’azione, che nasce da un comportamento passato (la Tradizione mosaica) e che persiste cocciutamente nel presente. Pertanto il rimanere della folla, lì ferma, quasi impiantata per terra, senza alcun movimento verso Gesù, descrive l’atteggiamento di chiusura della folla stessa, il suo essere abbarbicata alla tradizione mosaica e, quindi, la sua incapacità di evolversi spiritualmente verso i tempi nuovi, che avanzano in Gesù. Il motivo di questo comportamento verrà descritto ai vv.10-15.

Il verbo eƒst»kei, inoltre, che sottolinea l’immobilismo della folla, si contrappone a quello con cui inizia il v.10 “proselqÒntej” (proseltzóntes, avvicinatisi), che descrive il movimento opposto dei discepoli, che, invece, si avvicinano a Gesù e a lui si rendono disponibili. I due gruppi, quindi, sono caratterizzati dal loro atteggiamento di fondo: le folle rimangono ferme e chiuse nelle loro posizioni (eƒst»kei), senza alcun movimento di conversione; mentre i discepoli sono qualificati per il loro andare verso Gesù (proselqÒntej).

 

v.3a: dopo la cornice narrativa dei vv.1-2, il v.3a apre il terzo grande discorso, incentrato, come abbiamo visto, su due temi fondamentali: la presa di distanza di Gesù dalla folla e la presentazione del Regno di Dio in alcuni suoi aspetti fondamentali: il suo dinamismo e la sua natura (vv.31-33) e i suoi rapporti con gli uomini, presi sia collettivamente (vv.24-30.47-50) che individualmente (vv.44-46).

 

Già in questa prima parte del v.3, l’autore apre uno spiraglio sia sullo stato d’animo di Gesù che sulla sua decisione di creare una selezione tra i suoi seguaci; una sorta di scrematura per evitare la banalizzazione della sua missione, che porterebbe ad un inevitabile fallimento. Due sono gli elementi che inducono a pensare a questo: il verbo “™l£lhsen” (elálesen, parlò), che in questo cap.13 viene usato cinque volte in riferimento alle parabole; e il sostantivo “parabola‹j” (parabolaîs, in parabole), che compare qui per la prima volta.

 

Quanto al verbo lalšw (laléo, parlare, dire, chiacchierare), questo è usato da Matteo 23 volte nel senso comunemente inteso di dire, parlare, raccontare[12], ma che non impegna mai il magistero di Gesù, per il quale l’evangelista si riserva verbi specifici, come did£skw[13] (didásko, insegno) o khrÚssw[14] (kerísso, proclamo, annuncio). Il fatto che Matteo usi qui, insistentemente (cinque volte), il verbo laléo[15] e non quello più consono di didásko, che ci si aspetterebbe e che Marco, dal quale Matteo mutua il presente capitolo, invece, usa per ben tre volte (Mc 4,1-2), lascia intendere come il discorso del Regno, rivolto alle folle, non si qualifica né come annuncio, né come insegnamento, ma come una semplice esposizione, quasi una sorta di comunicazione, un raccontare. Ciò mette in evidenza tutta l’estraneità e la sfiducia di Gesù nei confronti di una folla pervicacemente incredula (capp.11-12) e chiusa ad ogni annuncio, così che l’esposizione delle parabole, non accolte, diviene per essa motivo di condanna (vv.13-15).

 

Quanto al termine “parabola”, essa è una figura retorica, che si fonda prevalentemente sulla metafora, per cui il contenuto qui narrato racconta di una realtà, che allude, però, ad un’altra. In altri termini la realtà vera, alla quale ci si riferisce con la parabola, è criptata sotto il linguaggio della metafora, per cui è necessario sciogliere questo linguaggio figurato per far apparire ciò a cui si alludeva. In altri termini, qui il Gesù matteano si rivolge alla gente con un linguaggio criptato, volutamente oscuro. La parabola, quindi, diviene uno strumento che nasconde e non che rivela i misteri del Regno. La rivelazione di questi, invece, viene offerta, in disparte, soltanto a chi si è avvicinato a Gesù (v.10a e v.36).

 

Dall’insieme dei due termini (laléo + parabola), che introducono il terzo grande discorso del Gesù matteano, si comprende come questo sia, da un lato, fortemente selettivo e discriminante; dall’altro rivelativo di un Gesù che teme come la propria missione possa anche fallire per la persistente e pervicace incredulità che incontra tra la gente[16]. E sarà proprio la parabola del Seminatore, con la quale Matteo apre il terzo grande discorso, che denuncerà le titubanze e i timori di Gesù circa il successo della sua missione.

 

vv.3b-9: Già avevamo accennato come questa parabola fosse introduttiva e si staccasse da tutte le altre sia per la diversità del tema (la reazione della gente di fronte all’annuncio del Regno) che per la diversa introduzione della parabola stessa rispetto alle altre[17]. Essa si apre significativamente con un movimento del seminatore, che esce per seminare e che, in qualche modo, richiama da vicino il movimento di Gesù che esce dalla casa per annunciare alle folle la Parola del Regno (v.1a). I due movimenti sono legati tra loro dal medesimo verbo “™xšrcomai” (exercomai, uscire), che legano tra loro anche i due personaggi: Gesù e il Seminatore. Segno, dunque, che con questa parabola Gesù sta parlando di se stesso e delle difficoltà, che egli trova nel suo ministero e forse cela una latente paura, che la sua missione possa anche fallire. La parabola, dunque, denuncia tutta la difficoltà che Gesù trovava nell’espletare la sua missione, ma nel contempo tradisce anche le difficoltà che la stessa comunità matteana aveva nel suo porsi in seno ad una società pagana e prevalentemente strutturata sull’ebraismo, con la quale aveva già rotto o era in fase di rottura[18]. Essa è, comunque, un avvertimento sulle difficoltà, che l’annuncio del Regno incontra sul suo cammino; un cammino che porterà Gesù sul Golgota[19]. Tutto, all’interno della parabola, parla di queste difficoltà: il seme che cade sulla strada anziché nella terra fertile del campo; il luogo pietroso, il sole che brucia e rinsecchisce le radici poco profonde; le spine che avviluppano, quasi in un abbraccio mortale, la timida spiga e la soffocano, mentre il grano, finalmente caduto sul buon terreno, produce si, ma in modo decrescente: cento, sessanta, trenta. Forse questo decrescere di numeri allude alla difficoltà della risposta, che la comunità matteana trovava nel suo annuncio nei confronti di una società, che lei sente e vive come ostile: dapprima esso produceva molte adesioni, ma più in là si andava nel tempo, più aumentavano le difficoltà e le resistenze, che spesso sfociavano anche in persecuzioni; minore, quindi, era la risposta. La latente e non sempre contenuta polemica, che il vangelo di Matteo trasuda, lascia trapelare questo clima di difficoltà e di scontro. Si tenga presente, infine, che il vangelo di Matteo, scritto intorno agli anni ottanta e redatto, a nostro avviso, definitivamente verso la fine del primo secolo o forse anche oltre[20], sentiva già tutto il peso e la durezza di una lotta continua per la diffusione del Regno in un contesto socio-culturale ostile, come quello giudaico. Diversamente, nel vangelo marciano, che riporta l’identica parabola (Mc 4,3-8), da cui Matteo ha attinto, i numeri sono crescenti (trenta, sessanta, cento), probabilmente per una diversa prospettiva teologica o un diverso contesto storico e sociale in cui Marco scriveva[21]. Mentre nel vangelo lucano la parabola del seminatore (8,5-8) termina con una visione totalmente ottimistica, propria di Luca, e si parla di come la semente “fruttò cento volte tanto” (Lc 8,8a).

 

Il v.9 chiude la prima parabola con una breve sentenza ammonitrice, che si ripete 14 volte in tutto il N.T., sia pur con qualche variante: “Chi ha orecchi ascolti” [22]. Spesso nell’A.T. gli organi di senso, in particolare gli occhi e gli orecchi, sono metafora di facoltà superiori, come quelle dell’intelletto o della capacità di comprendere, e delineano atteggiamenti spirituali di disponibilità o di chiusura a Dio[23]; anche se Gesù sa che il comprendere i misteri del Regno non dipende dall’intelligenza dell’uomo, ma dall’azione del Padre (Mt 16,17), che li preclude ai sapienti e agli intelligenti per aprirli ai piccoli (Mt 11,25), a coloro che si pongono in un umile atteggiamento di ascolto.

Posto, tuttavia, in questo contesto di forte tensione, a motivo di una profonda e diffusa incredulità, che spinge Gesù ad operare una diversa strategia nella sua predicazione, il detto proverbiale suona come una sorta di sfida a coloro che si chiudono nelle sicurezze della Legge mosaica e con quei parametri pretendono di soppesare le nuove realtà spirituali inaugurate da Gesù. Il linguaggio della parabola, infatti, che cripta attraverso la metafora i contenuti del Regno, richiede un’intelligenza superiore, capace di leggere le novità in esse contenute, così che del tutto insufficienti risultano gli strumenti veterotestamentarii per scorgerle.

 

vv.10-18: questi nove versetti sono interamente dedicati a motivare la predicazione di Gesù in parabole, la cui finalità non è quella di attrarre piacevolmente l’attenzione della gente con dei raccontini, ma di nascondere i misteri del Regno, criptandoli con il linguaggio della metafora. La parabola, infatti, è una racconto di una realtà fittizia, che ne nasconde un'altra reale; per cui si parla di una cosa, ma se ne intende un’altra. Essa, quindi, non è fine a se stessa, ma punta in una direzione precisa, la cui comprensione è lasciata tutta e soltanto all’ascoltatore. Essa, pertanto è rispettosa della libertà individuale, ma richiede anche un’intelligenza superiore, che è direttamente proporzionale alla disponibilità interiore ad accogliere l’annuncio del Regno. In altri termini, la parabola si dischiude solo a chi è disponibile a capire, mentre per chi frappone degli ostacoli o delle resistenze essa diventa impenetrabile o deviante. Tutto, quindi, si gioca sulla disponibilità o meno dell’ascoltatore e a lui viene demandata ogni responsabilità. In tal modo la semente gettata non si disperde, ma cade sempre su di un buon terreno, portando variamente frutto.

 

La struttura di questa pericope è scandita in tre momenti:

 

 

A)    vv.10-12: costituiscono l’introduzione tematica dell’intera pericope: a) viene introdotta la questione del perché Gesù parla in parabole (v.10); b) viene immediatamente fatto capire il valore discriminante della parabola (v.11); c) che di fatto costituisce un giudizio posto sugli uomini (v.12).

B)    vv.13-15: espongono la motivazione per cui Gesù parla in parabole. Si parte con un’affermazione di principio (v.13), che viene, poi, supportata scritturisticamente con la citazione di Is 6,9-10, in cui Matteo vede il compiersi della profezia (vv.14-15).

C)    vv.16-18: riportano la proclamazione di beatitudine rivolta a coloro ai quali è destinata la comprensione dei misteri del Regno; gruppo questo che si contrappone a quello precedente dei vv.13-15. Essi sono beati non solo per il disvelamento del mistero, ma anche perché essi sono il punto di arrivo e di compimento di lunghe attese e di un desiderio a lungo accarezzato dai profeti e dai giusti. Anche questa proclamazione di beatitudine costituisce un elemento di giudizio, che va a completare quello già emesso al v.12 .

 

 

Il v.10a si apre presentando un movimento: l’avvicinarsi dei discepoli a Gesù. Un movimento, questo, che si contrappone a quello precedente delle folle, che, invece, rimangono ferme sulla spiaggia, creando uno spazio di incomunicabilità tra loro e Gesù (v.2c). Questo avvicinarsi dei discepoli a Gesù qualifica la loro stessa natura di discepoli. Il verbo greco (proselqÒntej, proseltzóntes), infatti, è un participio aoristo di tipo ingressivo, che parla di una scelta compiuta in passato e che ha la sua influenza anche nel presente. Questo verbo, poi, è composto da due termini: un avverbio di moto a luogo “prÒj” (prós, verso) + il verbo “œrcomai” (ércomai, vado). Quindi i discepoli sono definiti come coloro che hanno operato nella loro vita una scelta di fondo (verbo all’aoristo), che li ha orientati verso Gesù (proseltzóntes), dichiarandogli, in tal modo, la loro disponibilità e la loro apertura esistenziale. Sarà proprio questo movimento che li renderà idonei ad accogliere i misteri del Regno e che farà capire, per contro, perché agli altri non sono svelati.

 

Il v.10b, di chiara impronta redazionale, è finalizzato ad introdurre il tema che sta a cuore a Matteo: perché usare la parabola e non un linguaggio diretto, immediatamente comprensibile? Questo semplice interrogativo è sotteso da quattro fondamentali interessi: a) serve per dire che Gesù, nell’ambito della sua missione, ha compiuto una scelta discriminante (v.11), b) che diventa, ipso facto, anche un giudizio posto sugli uomini (v.12); c) si vuole sottolineare in questo l’attuarsi della Scrittura (vv.14b-15), un aspetto molto caro a Matteo, che vede in Gesù il compimento della Legge e dei Profeti (5,17); d) ma nel contempo, sempre in vv.14b-15, si rafforza anche scritturisticamente la condanna, riversata sull’invincibile incredulità del popolo.

 

vv.11-13: questi tre versetti ancora non forniscono la vera motivazione della scelta discriminante, che Gesù decide di operare nell’ambito del proprio annuncio. Qui si dà soltanto atto che è avvenuta una scelta discriminante, che divide gli ascoltatori in due gruppi: “a voi è dato di conoscere” – “a quelli non è dato” (v.11); “Chi ha” – “Chi non ha” (v.12); si fornisce anche l’obiettivo che si intende raggiungere nell’ambito di questa discriminazione: “quelli che vedono, non vedano e quelli che odono non odano né capiscano” (v.13). Tale discriminazione non ci raggiunge improvvisa e inattesa, ma trova la sua primitiva radice nell’imperscrutabile disegno del Padre di tenere nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, per rivelarle, invece, ai piccoli (Mt 11,25-27). Una scelta che si aggancia a sua volta ad un atteggiamento di prudente attenzione verso i misteri, che sostanziano la vita della comunità credente stessa. Da qui il sollecito: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi” (Mt 7,6). Già da questo insieme di considerazioni si comprende come l’annuncio, pur rivolto a tutti, non per tutti è rivelativo e già da qui si evidenzia come gli ascoltatori sono divisi in due gruppi, discriminati in base al loro atteggiamento, assunto nei confronti dell’annuncio stesso.

 

Il v.11 fornisce, senza alcuna motivazione, una prima sentenza discriminante, già preconfezionata, calata dall’alto e sulla quale non si fa alcun commento; come dire: è così!: “A voi è dato” (`Um‹n dšdotai, imîn dédotai) – “A quelli non è dato” (™ke…noij dš oÙ dšdotai, ekeínois dè u dédotai). Il verbo (dédotai) è qui posto al perfetto medio-passivo. In quanto passivo il verbo rimanda l’azione a Dio[24] (passivo divino o teologico) e, pertanto, il dare o non dare è determinato da Dio stesso[25]; mentre il tempo perfetto del verbo greco sottolinea una situazione presente, conseguente ad una passata. Pertanto la decisione discriminante del “dare o non dare” si aggancia a un qualcosa di già preesistente, ad una sorta di piano divino[26], che si sta attuando e manifestando in Gesù[27]. Paolo ricorda alla comunità di Roma proprio questo passaggio di elezione, che sottende implicitamente una discriminazione: “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati[28] li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8,28-30). Vi è, dunque, una logica nello sviluppo del piano salvifico divino, che si fonda su di una elezione-chiamata, che si origina fin dall’eternità di Dio (Ef 1,4) e che punta a riconformare l’uomo ad immagine e somiglianza di Dio, configurandolo a Cristo e in lui rendendolo santo in previsione di una sua glorificazione finale in Cristo e per Cristo. Questa, in qualche modo, come sottolinea l’autore della Lettera ai Colossesi, è già attuata, benché non ancora definitivamente: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio!” (Col 3,3).

 

L’oggetto, attorno al quale si crea la discriminazione, sono i “misteri del Regno dei cieli”. Secondo l’apocalittica giudaica ai tempi di Gesù, l’espressione “misteri del Regno” indicava le disposizioni nascoste di Dio circa la fine dei tempi[29] e che, qui, Matteo trasferisce sulla persona di Gesù, inteso come il rivelatore e attuatore ultimo della volontà salvifica del Padre; l’ultimo discorso e l’ultimo appello, che il Padre rivolge agli uomini. Per Matteo, dunque, i tempi finali sono già giunti in Gesù, che nel corso della sua missione ha rivelato e dettato le disposizioni ultime del Padre, a cui gli uomini sono chiamati a conformarsi, poiché su di loro, con la venuta di Gesù, è già stato posto il giudizio divino[30]. Quali che siano i misteri del Regno, questi vanno colti, a nostro avviso, esclusivamente dalle stesse parabole, che esplicitamente ne parlano[31]. In esse viene rivelata la dinamica del Regno, il rapporto che intercorre tra il Regno e gli uomini, le sue logiche e le sue pretese. Questi misteri sono tali perché essi contengono realtà superiori, imperscrutabili e irraggiungibili dalla semplice mente umana[32] e ai quali si può accedere solo se vi è un’intima predisposizione ad accoglierli nella propria vita, senza pregiudizi e con onestà intellettuale. Per questo tali realtà celesti, sono nascoste e criptate dal linguaggio metaforico della parabola, perché esse non siano banalizzate e calpestate dall’incredulità (Mt 7,6), che costituisce l’elemento discriminante e sottopone l’uomo al giudizio divino.

 

La sentenza del v.12 introduce un immancabile[33] elemento di giudizio divino, che viene posto su entrambi i gruppi, i quali vengono definiti dai verbi “Chi ha” e “Chi non ha”. Questi due gruppi sono identificati nei discepoli “ai quali è dato” (v.11a), perché essi sono coloro che si avvicinano a Gesù (v.10a); e nelle folle “alle quali non è dato” (v.11b), perché queste, a differenza dei discepoli, stanno ferme sulla spiaggia (v.2c) e non fanno un passo verso Gesù, creando in tal modo un distacco incolmabile. Il “Chi ha”, dunque, sta per “chi ha accolto” Gesù nella propria vita fino alla sequela. A questa categoria di persone sono associati due verbi al passivo, che indicano una crescita spirituale strepitosa: “sarà dato” (doq»setai, dotzésetai) e “sarà reso abbondante” (perisseuq»setai, perisseutzésetai). I due verbi passivi, posti al futuro, indicano che in questo continuo crescendo spirituale (questo dice il verbo al futuro) vi è l’azione propria di Dio (questo dice il verbo al passivo), che porta a perfezione in Cristo chi si apre alla sua azione salvifica[34]. In contrapposizione a “Chi ha accolto”, vi è, poi, il gruppo di “Chi non ha accolto”. Anche a questo secondo gruppo è associato un verbo al passivo futuro “sarà tolto” (¢rq»setai, artzésetai), per indicare il compiersi fin d’ora di un giudizio finale (questo dice il verbo al futuro) ad opera di Dio (questo dice il verbo al passivo). Questo gruppo è formato dalle folle dei giudei chiuse nella loro incredulità. A loro era stata riservata ogni promessa fatta ad Abramo[35]; loro erano il popolo eletto, costituito proprietà di Dio, a Lui consacrato, santificato per mezzo della sua Alleanza e reso popolo di sacerdoti in mezzo alle genti (Es 19,5-6); per loro era stata data la profezia di Natan al re Davide (2 Sam 7,8-12). Avevano tutto, ma tutto è stato perduto per la loro chiusura a Dio e per la loro incapacità di cogliere i segni dei tempi (Gv 1,11; 12,37), che si stavano compiendo e manifestando in Gesù. La durezza del v.12, che di fatto costituisce una sentenza di giudizio inappellabile, trova il suo riscontro, la sua sintesi e la sua spiegazione in Mt 21,43: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. Anche qui ricorrono gli stessi verbi passivi, posti al futuro, che già abbiamo incontrato in questo v.12: “¢rq»setai” (sarà tolto) e “doq»setai” (sarà dato).

Concludendo questo v.12, riportiamo il commento chiarificatore del Poppi, che ci sembra significativo: “Gli ebrei <<non sono stati all’altezza della loro rivendicazione di essere popolo eletto di Dio>>, venendo così privati del loro privilegio di popolo d’elezione; ad essi subentrano i cristiani come <<comunità escatologica di Dio, che un giorno erediterà il regno di Dio>>”[36]

 

La questione dell’invincibile quanto mai caparbia chiusura del popolo ebreo nei confronti del messaggio salvifico di Gesù, era molto sentita e turbava non poco le prime comunità credenti della Palestina e i loro responsabili, creando in essi sgomento e molta sofferenza. Paolo non sa darsi pace e nella sua lettera ai Romani dedicherà i capp. 9-11 alla questione: “Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne” (Rm 9,1-3). E si chiede come ciò sia potuto avvenire, proprio loro che “sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” (Rm 9,4-5). Egli inizierà, allora, una sofferta analisi su quanto è avvenuto al suo popolo e darà una duplice risposta: A) gli ebrei si sono intestarditi a cercare la giustificazione nelle opere della Legge, anziché nella fede e questo ha costituito un grave inciampo: “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d'inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso” (Rm 9,30-33). B) La seconda risposta Paolo la dà ricorrendo al piano salvifico di Dio: Dio ha indurito i loro cuori perché il Regno e le promesse, tolti da loro, fossero date ai pagani: “Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!” (Rm 11,11-12)[37]. Per Paolo, dunque, l’indurimento di Israele rientra nel misterioso disegno di Dio ed è stato operato a tutto favore del mondo dei Gentili, ma non durerà per sempre: “Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe” (Rm 11,25-26).

 

Il v.13 riprende la domanda dei discepoli (v.10) e funge da cornice introduttiva al vero motivo per cui Gesù parla in parabole; un motivo, di tipo scritturistico, che verrà esposto nei successivi vv.14-15. Esso costituisce la parte conclusiva e integrativa di un ragionamento più ampio, contenuto nei vv.11-12, fornendo in tal modo un quadro piuttosto complesso delle giustificazioni e delle motivazioni del parlare in parabole. I vv.11-13, infatti, sono una risposta molto articolata alla questione del parlare in parabole: il v.11 fornisce un supporto teologico, rimandando ad un disegno imperscrutabile di Dio (verbo “dare” al passivo teologico); il v.12 aggancia la cosa ad un aspetto storico-sociale: il popolo ebreo, privilegiato da un particolare rapporto con Dio (Legge e Alleanza), si è chiuso in se stesso, mancando di quello slancio evolutivo, proprio dello spirito, che avrebbe completato e coronato tutte le sue attese, in cui ha sempre creduto. In altri termini, potremmo dire che il popolo ebreo ha mancato l’appuntamento con Dio, qui nella storia. Il v.13 completa la questione con il supporto scritturistico, che anticipa, ma che sarà sviluppato nei versetti seguenti.

 

Il senso del v.13 viene dato dalle particelle, tra loro dipendenti, “di£” (diá) e “Óti” (óti), che dividono lo stesso versetto in due parti: la prima, introdotta da “di£”, dà un senso causale a quanto segue, cioè al parlare in parabole. Come dire, ora vi spiego la causa del mio parlare in parabole. La seconda particella “Óti”, di tipo dichiarativo, strettamente collegata alla prima e da questa dipendente, ne costituisce il suo sviluppo logico. Come dire la causa del mio parlare in parabole è questa … Le due particelle, quindi, attribuiscono al v.13 una particolare importanza, accentrando l’attenzione del lettore sul vero motivo del parlare in parabole di Gesù e che in qualche modo spiega anche gli altri aspetti introdotti dai vv.11-12 (aspetto teologico e storico-sociale).

 

La seconda parte del v.13, introdotta dalla particella “Óti”, sintetizza in una sorta di detto sapienziale i motivi del parlare in parabole, anticipando i vv.14-15: “perché quelli che vedono non vedono e quelli che odono non odono né capiscono”. Si tratta, quindi, di una dichiarazione che è una presa d’atto, una constatazione di una situazione di chiusura nei confronti di Gesù. Tutti i verbi, infatti, sono posti al presente indicativo, segno questo che Matteo sta puntando il dito contro una persistente quanto invincibile incredulità dei suoi concittadini e correligionari, stabilendo in tal modo una sorta di giudizio su di loro, che il tempo presente dei verbi dice già in atto. Questa espressione, tuttavia, definisce anche una categoria negativa di persone: quelle incredule, che si contrappone a quell’altra positiva: quelle credenti del v.16, definite, invece, beate. Torna ancora una volta il sottofondo polemico di Matteo, che contrappone la comunità ebraica, chiusa e in opposizione a Dio, alla sua comunità credente, che ha saputo, invece, accogliere nella propria vita il messaggio salvifico di Gesù, entrando in tal modo nella beatitudine di Dio. Per questo sono definiti beati.

 

I vv.14-15 riportano fedelmente Is 6,9-10. Il contesto, da cui sono stati mutuati questi versetti isaiani, riguarda la vocazione di Isaia e la missione stessa del profeta. Questa missione rivolta ad Israele, costituiva più che un appello alla conversione, una sorta di atto di accusa e un giudizio posti sulla durezza di cuore del popolo (Is 6,9-10), la cui sentenza, poi, sarebbe stata la devastazione dello stesso Israele (Is 6,11-13), cosa che avverrà nel 722 a.C., per il Regno del Nord o Regno di Israele, ad opera di Sargon II (722-705 a.C.). Il trasferimento letterale di quei versetti isaiani al difficile contesto riguardante la missione di Gesù, fa pensare che l’autore abbia voluto non solo creare un parallelo tra il profeta e Gesù, tra l’Israele di allora e quello presente, tra distruzione del Regno del Nord e la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.); ma soprattutto abbia voluto trasporre qui quel clima di accusa, di giudizio e di condanna, che si trova in Isaia. L’attuarsi della profezia di Isaia, pertanto, non riguarda soltanto le parole del profeta, ma anche il riprodursi di quel contesto storico-spirituale in questo, in cui opera Gesù. Come l’Israele di allora, anche questo Israele è di dura cervice e la sua chiusura e la sua resistenza a Dio sono ataviche; essi, infatti, sono “i figli di uccisori dei profeti” (Mt 23,31). Ed è proprio questo atteggiamento di pervicace chiusura che provocherà il lamento di Gesù su Gerusalemme e spingerà Matteo a vedere nella guerra giudaica e nella distruzione di Gerusalemme l’inevitabile punizione divina (Mt 23,37-38), così, come allora, per Isaia.

 

La profezia isaiana riporta quasi esclusivamente termini ed espressioni riguardanti i sensi: guardare, vedere, ascoltare, udire, comprendere, occhi, orecchie, cuore che, come abbiamo già visto[38], sono metafora della capacità della comprensione spirituale, che qui costituisce l’oggetto principale sia dell’atto di accusa contro il popolo che del giudizio stesso. La struttura della citazione è parallela convergente e ha il suo fulcro nel v.15a:

 

A)    v.14b: “ascolterete con l’udito non comprenderete; e guardando, guarderete e non vedrete”

 

B)    v.15a: “Infatti, il cuore di questo popolo è diventato ottuso,”

 

A1) v.15b: “e udirono con le orecchie in modo appesantito e chiusero i loro occhi, per non vedere con gli occhi e udire con le orecchie …”

 

È, dunque, all’ottusità del cuore che punta l’accusa e su questa verte il giudizio. Il cuore[39], secondo il linguaggio biblico, esprime l’interezza dell’uomo, colto in tutti i suoi aspetti fisici, psichici e spirituali. Esso ne costituisce la parte più vera e più intima e ne rivela la natura stessa; per questo il cuore è il luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo e ne esprime tutta la verità. L’ottusità del cuore, dunque, è sinonimo di una vita chiusa e impermeabile a Dio e dice l’orientamento esistenziale di un uomo in opposizione a Dio stesso. E ciò rende impossibile a Dio ogni salvezza (13,15c).

 

I vv.16-18 formano una piccola pericope di riflessione, che potremmo definire di transizione, sia perché conclude il discorso sulle motivazione, che sono alla base del parlare in parabole (vv.11-15); sia perché è introduttiva alla spiegazione della parabola del Seminatore.

 

La struttura di questa breve pericope è scandita in tre momenti, legati tra loro da una forte concatenazione logica, che possiede nel suo svilupparsi una certa solennità; quasi un incedere processionale, attraverso le attese del’A.T., verso il loro compimento nel N.T. in cui i nuovi credenti sono proclamati beati:

 

A)    v.16: dichiarazione di beatitudine, perché nell’oggi di Gesù i discepoli vedono e sentono. Essi si contrappongono all’altro gruppo di coloro che, invece, non vedono e non sentono (v.13).

B)    v.17: si innesca un raffronto tra il presente dei discepoli con il passato veterotestamentario dei profeti e dei giusti, dei quali viene messo in evidenza il desiderio, non soddisfatto, di vedere e sentire. Tale tempo, quindi, è qualificato come il tempo dell’attesa e della speranza; un tempo che va verso il suo compimento ed è in vista di questo; al contrario, i discepoli sono l’attuazione di quel sogno e di quelle attese.

C)    v.18: costituisce la conclusione logica dei vv.16-17 e introduce all’esegesi della parabola del Seminatore. Dopo essere stati proclamati beati (v.16) e dopo essere stati qualificati come coloro che realizzano nel loro vedere e sentire il desiderio, lungamente atteso, dell’A.T. (v.17), i discepoli sono ora introdotti alla conoscenza dei misteri del Regno.

 

Il v.16, contrapponendosi nella sua logica ai vv.13-15, enuncia una beatitudine: “Beati i vostri occhi poiché vedono e le vostre orecchie perché odono”. È questa la categoria di persone, contrapposta a quella del v.13, che invece non vede e non sente, a cui Gesù si rivolgerà non più in parabole, ma in modo diretto e aperto, svelando i misteri del Regno; per questo sono beati, perché resi partecipi del progetto di Dio sull’umanità e in quanto tali, resi partecipi anche alla sua vita divina, che per definizione è beata: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Non si tratta di una conoscenza intellettuale[40], ma di una partecipazione spirituale alle nuove realtà, che Gesù è venuto a svelare e ad inaugurare nella sua morte e risurrezione e che fanno si che la sua Parola sia fonte di vita eterna[41]: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Il rendere partecipi i discepoli dei misteri del Regno significa, in ultima analisi, introdurli nella vita stessa di Dio.

 

Tutti i verbi di questo versetto sono posti al presente indicativo, quasi a sottolineare la grandezza dell’oggi, che i nuovi credenti sono chiamati a vivere e che li rende beati, cioè partecipi della stessa vita divina. I verbi vedere e sentire sono resi in greco rispettivamente con blšpw e ¢koÚw; entrambi sono verbi di senso, che si richiamano al vedere e al sentire fisico, legando, da un lato, la beatitudine dei discepoli ad un fatto storico che loro, a differenza del mondo veterotestamentario, stanno sperimentando (1Gv 1,1-4): la persona stessa di Gesù, il Verbo del Padre, fatto carne (Gv 1,1-3.14); dall’altro, sottolineano la grandezza del momento presente.

 

Con il v.17 si apre un confronto tra il passato veterotestamentario e il presente neotestamentario. I due tempi sono legati tra loro dal filo delle attese e delle speranze, che animarono l’A.T. e che trovarono il loro compimento nel N.T. L’importanza del versetto è dato dal suo aprirsi con un “¢m¾n” (amèn) seguito da un “g¦r” (gàr, infatti). Il primo dà il tono di solennità e di certezza all’intero contenuto del versetto[42], che impegna in prima persona chi lo pronuncia; il secondo, gàr, di natura esplicativa, aggancia  il v.17 a quello precedente, così che il v.17 diviene la spiegazione del v.16, in cui si dichiarano beati i discepoli. L’intero versetto si gioca intorno ad un contrasto tra il passato e il presente, tra l’A.T. e il N.T. Da una parte si hanno i profeti e i giusti, che abitarono un tempo qualificato dal desiderio del vedere (desiderarono), da una forte tensione che spingeva l’intera storia verso il suo compimento in Cristo (Mt 5,17; Ef 1,10) e che li apriva alla speranza. Significativo in tal senso è il verbo “vedere”, che riguarda il mondo dei profeti e dei giusti: “„de‹n” (ideîn), che contrasta con il verbo “vedere” dei discepoli: blšpw (blépo). Il primo (ideîn) parla di un vedere nella fede, nel desiderio, un vedere che non si aggancia a nessuna realtà fisica, ma la trascende nella speranza; mentre il secondo (blépo) indica un vedere fisico, quasi un toccare con gli occhi; è un verbo che parla di un compimento di quelle speranze, che si sono attuate nell’oggi dei discepoli[43]. Essi, pertanto, sono il punto di convergenza di tutte quelle attese e sono gli eredi di quelle speranze, che sono divenute le realtà dell’oggi, di cui i discepoli sono testimoni oculari. I verbi riguardanti il vedere e il sentire dei discepoli, infatti, sono tutti posti al presente indicativo, che li aggancia alla concretezza della realtà presente; mentre il vedere e il sentire dei profeti e dei giusti sono legati al verbo “desiderarono” posto all’aoristo (passato remoto). Il confronto tra il passato e il presente, tra l’A.T. e il N.T. si chiude con una nota di amarezza per il primo (A.T.), che si traduce in gioia e beatitudine per il secondo (N.T.): i profeti e i giusti desiderarono di vedere e di sentire, ma non videro e non sentirono quello che i discepoli, invece, vedono e sentono.

 

Il v.18 è caratterizzato dalla particella “oân” (ûn, pertanto, dunque), che gli dà un senso conclusivo, agganciando il versetto a tutto il discorso precedente (vv.10-17). Il senso conclusivo è rafforzato, inoltre, anche dal verbo “¢koÚsate” (akúsate, ascoltate), posto all’imperativo aoristo terminativo, che imprime al verbo stesso un profondo significato: a) è un imperativo esortativo, che sprona i discepoli a creare in loro un atteggiamento di ascolto accogliente di quanto Gesù ora sta per rivelare loro: i misteri del Regno, a loro esclusivamente riservati (v.11); b) il tempo del verbo è un aoristo, che corrisponde al nostro passato remoto. L’ascolto a cui i discepoli sono esortati, quindi, ha un suo aggancio e una sua origine molto lontani e si radica nel desiderio di sentire e di vedere, che il mondo dei profeti e dei giusti coltivarono dentro di loro, così che essi, i discepoli, testimoni delle realtà presenti, sono gli eredi e gli attuatori di quel lontano desiderio; c) il verbo è un aoristo di tipo terminativo, che esprime un’azione sorta nel passato (aoristo) e che ha avuto la sua conclusione nell’ascolto dei discepoli (terminativo). Nell’ascolto dei discepoli, dunque, si sono compiute le attese e i desideri del vedere e del sentire veterotestamentarii.

 

vv.19-23: questi versetti costituiscono una sorta di esegesi della parabola del Seminatore (vv.3b-9), che Matteo mette sulle labbra di Gesù, quasi a darne un’invincibile autenticità. In realtà questa spiegazione diverge non poco dalla parabola originaria. Segno che questa esegesi è stata prodotta dalla comunità matteana, che ha cercato di adattarne il contenuto alla sua situazione contingente, in cui essa si rifletteva[44]. Un tentativo, dunque, di inculturazione dell’originario testo attribuito a Gesù. Sono molteplici i segnali, che inducono a pensare come nella spiegazione risuoni una situazione ormai molto lontana dal tempo in cui è nata la parabola:

 

A)    Vi è, innanzitutto un cambio di soggetto: nella parabola è il seminatore colto nell’atto del seminare una semente, dai diversi destini. Nella spiegazione la figura del seminatore e la semente sono completamente scomparsi per lasciare posto, invece, al terreno, del quale si sottolinea preferibilmente i diversi modi di reagire nelle diverse situazioni. Qui prevale il comportamento del singolo credente, che già ha avuto modo di accedere alla parola e di elaborarla a modo proprio nella sua vita. Siamo, quindi, in una fase successiva al kerigma apostolico e la spiegazione ci porta dentro ad una comunità, che ormai è già istituzionalizzata e in cui i singoli componenti hanno già configurato in qualche modo la catechesi ricevuta (logos). Questa spiegazione, quindi, sembra essere una sorta di predica, di catechesi che Matteo fa alla sua comunità.

 

B)    Diverso è l’auditorio. Là, nella parabola, sono le folle dei giudei (v.2), che vengono ammaestrate; qui è un gruppo chiuso di persone, genericamente definite con il termine di discepoli, che si sono avvicinati a Gesù (v.10). Sono persone queste che stanno sperimentando le difficoltà del vivere cristiano e le prove del credere a causa del vangelo, che qui, però, non è più chiamato vangelo, ma parola (logos), termine questo che più si avvicina ad una catechesi che ad un annuncio (v.21)[45].

 

C)    Le difficoltà descritte nella spiegazione riflettono una situazione ormai lontana dai tempi di Gesù e meglio si addicono al contesto storico, in cui si trova la comunità matteana. Innanzitutto si evidenzia che c’è una difficoltà a comprendere la parola del Regno. Siamo, dunque, nell’ambito non di un annuncio, ma di una spiegazione applicativa ai membri di una comunità già da tempo costituita, i quali devono conformare il proprio vivere alla parola del Regno. Si mettono in evidenza e si stigmatizzano, infatti, i diversi comportamenti reattivi della singola persona nei confronti della parola del Regno. Si parla, infatti, di “parola del Regno” (lÒgon tÁj basile…aj, lógon tês basileías) e non più di annuncio del vangelo. Il termine lÒgoj, che qui compare cinque volte, è totalmente assente nella parabola; esso indica il parlare, il ragionare, il discutere, il dibattere; è un termine più imparentato con la riflessione e l’apprendimento che con un vero e proprio annuncio dirompente e pubblico, per il quale gli autori neotestamentari prediligono il verbo tecnico “khrÚssw” (kerísso, annunciare, proclamare), che ricorre 72 volte nel N.T. Si parla di una parola accolta subito con gioia (v.20), un atteggiamento questo che richiama da vicino l’entusiasmo del catecumeno e del neofita, affascinati dalla nuova predicazione, ma  che non conoscono ancora bene i risvolti della durezza del vivere cristiano, affrontato con una certa superficialità. Si parla ancora di tribolazioni e persecuzioni a causa della parola, espressione che ci rimanda ad un contesto successivo a Gesù, intorno agli anni 70-80, quando ormai il cristianesimo andava assumendo una sua identità più definita e si stava scontrando duramente con il mondo giudaico e quello pagano, dai quali subiva persecuzioni, offese e ghettizzazioni sociali e religiose (Gv 9,22; 12,42). I termini “tribolazione” (“ql…yeijtzlípseis) e “persecuzione” (“diwgmÒj”, diogmós), poi, sono espressioni proprie dell’apocalittica, che caratterizzava la tensione escatologica del vivere cristiano durante il primo secolo.

 

D)    Vi è, infine anche una questione linguistica, che spinge a pensare che questa spiegazione sia il frutto della primitiva comunità cristiana e non opera di Gesù. I termini logos nel senso di vangelo; speirein (seminare), rhiza (radice), proskairos (incostante), un grecismo quest’ultimo che non ha corrispondenza in aramaico; apaté (lusinga), ploutos (ricchezza), acarpos (senza frutto), karpophorein (portare frutto) ,ecc. Sono tutti termini che non ricorrono mai nella predicazione propria di Gesù, mentre si trovano in Paolo e negli altri scritti neotestamentari[46].

 

La spiegazione della parabola è incentrata sullo studio di quattro comportamenti, che dovevano caratterizzare i componenti della comunità matteana. Qui a Matteo non interessano più il seminatore, né la sua predicazione (la semente gettata), che ormai è stata elaborata in catechesi (logos), ma la capacità di accoglienza e di inculturazione della parola nella vita dei singoli credenti, che formavano la sua comunità. Vedremo, infatti, come le questioni qui evidenziate rispecchiano le problematiche proprie della stessa comunità, un po’ superficiale e disinvolta nel suo essere cristiana, forse impermeabile ai richiami del proprio pastore, forse anche per l’elevato tenore di vita e di benessere diffuso tra i suoi membri[47]. Facile pensare, poi, all’entusiasmo del catecumeno o del neofita, che agli inizi del suo cammino cristiano, ancora non ha soppesato la durezza del vivere credente in un contesto sociale molto avverso, nemico, dove persecuzioni, insulti, minacce, ghettizzazioni sociali e religiose erano la quotidianità.

 

La struttura della pericope (vv.19-23) è segnata da un’inclusione, data dal verbo “non comprendere” (v.19a) e “comprendere” (v.23a). Al suo interno si pongono gli altri due comportamenti (vv.20-21; v.22), che sono varianti del “non comprendere” o di un “comprendere” superficiale e imperfetto. Tutto, però, si gioca sull’ascolto, su cui si fonda la fede di ogni singolo credente (Rm 10,17; Ef 1,13-14), quale risposta personale alla parola (catechesi). Il credente, infatti, qui è definito come “colui che ascolta” (“¢koÚwnakúon). L’importanza del verbo ascoltare, inoltre, è dato dal suo ripetersi qui quattro volte e ben 16 volte nel cap.13.

 

Il v.19 si apre con una formula sentenziale, che dà il tono all’intera pericope (vv.19-23): “ognuno che ascolta la parola del Regno”. L’accento cade sull’ascolto della parola, mentre quel “pantÕj” (pantòs, ognuno), che qualifica qualsiasi credente, definito come l’ascoltante, dà un tono di universalità al versetto stesso. Il problema, dunque, ci porta all’interno della comunità matteana ed è incentrato su chi ascolta la parola del Regno e su come questa viene elaborata nella propria vita da ciascuno.

 

La prima categoria di credenti, probabilmente quella più significativa e che maggiormente popolava la comunità matteana, era data da persone che non riuscivano a comprendere nella sua pienezza e nella sua novità il nuovo insegnamento. Viene, infatti, qui denunciata l’inintelligenza di questa categoria di persone, definite come coloro che non comprendono (“m¾ sunišntojmè siniéntos). Non va, infatti, dimenticato che la comunità di Matteo è composta da giudeocristiani, che hanno nel loro DNA tutta la tradizione giudaica, alla quale sono profondamente legati e dalla quale difficilmente sanno staccarsi. Essa è diventata per loro una sorta di forma mentis, attraverso la quale tutto viene filtrato, interpretato ed elaborato, anche il nuovo messaggio cristiano. Si crea in essi, pertanto, una sorta di impermeabilità alla parola del Regno, che pur entrata nel loro cuore, non è riuscita ad attecchire e a trasformarli a causa della loro inintelligenza. Pertanto, il deposito della fede (logos) viene facilmente rubato dal malvagio (“Ð ponhrÕj”, o poneròs). Il termine “malvagio”, più che maligno o diavolo, va compreso nell’ambito del contesto. È probabile che qui Matteo si riferisca a quei giudeocristiani giudaizzanti, che distorcevano la corretta parola del Regno, reinterpretandola alla luce della Legge mosaica[48]. Vi sono, infatti, degli accenni, all’interno del racconto matteano, che alludono a persone giudeocristiane o, comunque, infiltrate nella comunità, che seminavano la zizzania di una diversa dottrina o davano interpretazioni distorte alla parola del Regno (Mt 7,6.16-24). Un accenno a questa situazione ci viene dallo stesso Papia[49], vescovo di Ierapoli: “Quanto a Matteo dice (Papia) queste cose: Matteo pertanto mise in ordine le cose dette in lingua ebraica, ma ognuno le interpretò come era capace[50]. Sembra, quindi, di poter capire che mentre Matteo stava componendo la sua prima opera, altri ne distorcevano in qualche modo il contenuto, dandone una libera interpretazione e lettura. Questo primo tipo di credenti, refrattari alle novità di Cristo e incapaci di accoglierle in modo rigenerante nella propria vita a motivo del loro attaccamento al giudaismo, sono definiti come persone che non comprendono, pur avendo accolto l’insegnamento del Regno.

 

I vv.20-21 riportano una seconda categoria di credenti, che potremmo definire come gli entusiasti. Anche questi sono qualificati dall’ascolto della parola del Regno, che accolgono con gioia e con slancio, ne sono coinvolti emotivamente e sentimentalmente. Tuttavia, qui non c’è approfondimento (“non ha radici in lui”), ma solo una risposta superficiale, entusiastica, certo, ma tutto si ferma lì o quanto meno non c’è stato ancora il tempo opportuno e sufficiente per metabolizzare nella propria vita la parola accolta con tanto fervore. Probabilmente Matteo si riferisce ai catecumeni o ai neofiti della propria comunità, pieni di ardore sacro, ma che devono ancora affondare bene le radici della fede nel terreno della propria vita; così che, giunto il momento della prova (tribolazioni e persecuzioni a causa della parola) e della testimonianza “subito si scandalizza”, cioè la difficile situazione del credente diviene un inciampo alla nuova fede.

 

Il v.22 riporta una terza categoria di persone, che abbraccia probabilmente un’ampia fascia della comunità: i ricchi e i benestanti[51]. Anche qui c’è l’ascolto della parola Regno, ma questa viene calata in un contesto di benessere materiale, il cui peso è troppo coinvolgente e tale da non dare spazio all’insegnamento del regno. Due sono gli elementi che soffocano la parola: il darsi pensiero, la cura, la sollecitudine, che si fanno pena, ansietà per i beni materiali (tutto questo dice il termine “mšrimnamérimna) o, in genere, per le cose di questo mondo (“toà a„înojtû aiônos, del secolo e, quindi, di questo mondo). In questa categoria di persone non sono compresi soltanto i ricchi o i possidenti benestanti, ma tutte quelle persone, la cui attenzione e i cui interessi sono rivolti verso la terra, trascurando o dimenticandosi della dimensione celeste, dove il credente già in qualche modo abita e verso la quale è per sua natura incamminato (Col 1,13; 3,1-3). Il secondo elemento che toglie ogni spazio vitale alla parola, soffocandola, è l’inganno della ricchezza. L’espressione posta al singolare non indica le ricchezze in genere, ma la condizione di benessere, che deriva dal possesso dei beni materiali, verso i quali si profondono le proprie attenzioni, e nella quale viveva una buona parte della comunità matteana. Ed è proprio a questa area del benessere, che Matteo pone il suo aut aut: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6,24); a queste persone era rivolto il racconto del giovane ricco, che tristemente si allontana da Gesù, perché troppo attaccato ai suoi beni (Mt 19,16-24). Il v.22 si conclude con una costatazione amara e inquietante circa la parola del Regno, seminata in questa area della sua comunità: “diventa infruttuosa”, cioè incapace di rigenerare a Dio il suo disattento ascoltatore.

 

Il v.23 presenta la quarta categoria di credenti, quelli autentici. Anche questi, come tutti i precedenti, sono caratterizzati dall’ascolto della parola del Regno, ma vi è in essi un elemento determinante, che mancava ai precedenti: l’intelligenza di Dio, cioè la capacità spirituale di comprendere (sunie…j, sineís) il valore dell’insegnamento (logos) e di radicarlo nella propria vita. Questi si contrappongono sia alla prima categoria (v.19), qualificata come incapace di comprendere (m¾ sunišntoj, mè siniéntos), che a quelli afflitti dalla materialità del proprio vivere (v.22), per i quali la parola del Regno è stata resa sterile, cioè incapace di portare frutto (¥karpoj, ákarpos). Qui, al contrario, la parola si trasforma in portatrice di frutto (karpofore‹, karpoforeî) e, quindi, portatrice di vita eterna, capace di rigenerare la persona a Dio (1Pt 1,23). Si viene, quindi, a stabilire un confronto vincente tra quest’ultima categoria (v.23) e quelle dei vv.19 e 22 e nel contempo si evidenzia come l’infruttuosità della parola o la sua fruttuosità dipendano unicamente dalla capacità di comprensione o meno della parola del Regno, che denuncia, a sua volta, il livello di evoluzione dal giudaismo alla novità del cristianesimo dei nuovi credenti, poiché è proprio questa mancata evoluzione, che evidenzia uno stato di chiusura alle nuove realtà portate da Gesù.

 

vv.24-30: questa seconda parabola è strettamente agganciata a quella del Seminatore (vv.3-9) e ne costituisce uno sviluppo complementare. Il contesto è sempre quello agricolo, in cui si ritrovano la figura del seminatore, del campo e della semente; cambiano, tuttavia, le prospettive: la parabola del Seminatore, infatti, riguardava la diversa e molteplice risonanza della parola del Regno all’interno della comunità matteana; questa seconda parabola, invece, pone l’accento sullo scandalo della resistenza opposta dalla società giudaica e pagana alla novità del Regno.

 

La parabola è un sondergut[52] di Matteo, una sua elaborazione personale o comunque della sua comunità; tuttavia non si tratta di una sua invenzione, ma di una elaborazione di materiale antico già esistente. Un accenno in tal senso ci viene direttamente dal verbo “`Wmoièqh” (omoiótze, fu paragonato), che in questa forma si trova soltanto un’altra volta in 22,2. Il verbo è un aoristo passivo, che rimanda ad un’azione puntuale nel tempo, e si riferisce, quindi, ad un evento già compiuto e quindi esistente. A questo Matteo si rifà con la sua elaborazione parabolica. In Mc 4,26-29 viene riportata una parabola del grano che cresce, ma molto diversa da quella elaborata da Matteo. Difficile dire se l’autore si sia ispirato a Marco. Probabilmente l’evangelista si è rifatto ad un nucleo molto più antico di sua conoscenza, rielaborandolo e arricchendolo con una drammatizzazione scenica tra padrone e servi[53].

 

La parabola, da un’analisi interna, non sembra attribuibile a Gesù, poiché il suo contenuto si addice meglio ad un tempo postpasquale[54]:

 

a)      Viene evidenziata, infatti, in modo accentuato, la contrapposizione della nuova comunità credente (buona semente) con il mondo giudaico e pagano (zizzania); in questo contesto si oppone l’azione del seminatore del buon grano (Gesù) a quella del suo nemico (giudaismo).

 

b)     Lo sconcerto per le resistenze opposte all’annuncio del Regno trova la sua giustificazione nella malvagità del mondo giudaico, colto come il nemico per eccellenza (™cqrÕj, ectzròs) dell’opera di Gesù. Non si tratta qui del maligno o diavolo[55], ma dei giudei e delle loro autorità, concepite come nemiche di Gesù. Sono loro, infatti che seminano sopra (™pšspeiren, epéspeiren, seminò sopra) il campo già seminato (v.25b) con il buon grano della parola del Regno, la zizzania[56], cioè la predicazione della Legge mosaica, infarcita di un esasperato legalismo soffocante e tale da tradire il cuore stesso della Torah: amare Dio e amare il prossimo con tutto il proprio cuore (Lv 19,8.34; Dt 6,5). Quindi qui si parla di un tempo successivo alla predicazione di Gesù (“vi seminò sopra”). Quel “seminare sopra” dice la reazione del mondo giudaico alle pretese di quella che agli inizi era considerata una setta giudaica.

 

c)      I discepoli, inoltre, sono concepiti come i “servi del padrone di casa”, a cui si rivolgono con l’epiteto di “Signore”, un titolo postpasquale con il quale si indicava il Risorto.

Si afferma, infine, come grano e zizzania apparvero come realtà sempre più contrapposte e radicalmente diverse tra loro soltanto al momento della loro crescita e, quindi, in un tempo successivo a quello della semina. In altri termini, man mano che la nuova fede si andava delineando e assumendo una propria identità, si incominciò a percepire la radicale diversità delle due sementi. Da qui le contrapposizioni. Questa insanabile divergenza, che portò al divorzio del cristianesimo con il mondo giudaico, apparve soltanto intorno agli anni 80 circa, epoca in cui Matteo scriveva questa parabola; prima il cristianesimo era percepito come una setta del giudaismo.

 

La parabola si struttura su tre livelli:

 

A)    vv.24-26: viene presentato il contesto scenico, caratterizzato da una forte tensione, generata da una elevata quanto insanabile contrapposizione, che lascia intravvedere una contesa sostenuta, che si sviluppa intorno al campo di proprietà del padrone (“suo campo”). Già la sottolineatura di appartenenza del campo indica come il nemico sia soltanto un intruso e un prevaricatore, poiché semina dove un altro ha già seminato, gettandovi sopra della zizzania e invadendo una realtà che non gli appartiene. Il padrone del campo è qualificato dalla buona semente, il nemico dalla zizzania; un nemico, che è indicato con un aggettivo possessivo “suo”; questo, se da un lato mette in stretta relazione il nemico della zizzania con il padrone del buon grano, contrapponendoli l’uno all’altro, dall’altro personalizza e radicalizza lo scontro tra due realtà tra loro inconciliabili e irriducibili. Il v.26, che richiama da vicino 7,16.20 e 12,33, ci proietta in un contesto decisamente postpasquale. Giudaismo e cristianesimo sono nati entrambi nell’ambito dell’unico campo di Israele; entrambi sono stati seminati da un’unica mano divina, ma sarà soltanto la loro crescita e il loro sviluppo a differenziarli e a contrapporli reciprocamente. Israele, nato da un progetto divino di salvezza universale[57], si è appropriato dell’Alleanza, sviluppando attorno ad essa una ridda di precetti, il cui intento era di salvaguardare il deposito della volontà di Dio nella Torah[58]. Tuttavia, questi finirono per soffocarla, sostituendola con precetti, che erano soltanto dottrine di uomini[59] e imponendo pesi morali e cultuali insostenibili, che rendevano difficile, se non impossibile, un sincero culto a Dio (Mt 23,4). La religione e il culto furono trasformati in una serie di atti formali, regolamentati da minuziose norme, allontanando di fatto Israele da Dio stesso[60]. Israele divenne “l’uomo nemico” ('EcqrÕj ¥nqrwpoj), che si contrappose alla semina di un culto rinnovatore (Mt 23,37), il cui intento era quello di radicarsi nel cuore dell’uomo[61], ponendo al centro del progetto di salvezza non Dio, ma l’uomo, oggetto delle attenzioni salvifiche divine[62]. La storia della salvezza non è la storia dell’uomo che va verso Dio, ma di Dio che va verso l’uomo e si fa dono per lui (Gv 3,16), rendendolo partecipe della sua stessa vita divina in Cristo[63]. Sarà proprio il crescere del cristianesimo e l’affermarsi sempre più nella sua identità, che farà “apparire la zizzania”, cioè la vera natura del giudaismo, permeato da un legalismo asfissiante e, proprio per questo, la sua debolezza.

 

B)    vv.27-29: questi versetti presentano la seconda scena, che Matteo drammatizza in un dialogo tra servi e padrone di casa. Se i vv.24-26 hanno esposto i gravi problemi sorti nell’ambito della convivenza tra giudaismo e cristianesimo, ponendoli tra loro a confronto e in forte tensione, questa breve pericope (vv.27-29) si interroga sulla soluzione di questo insanabile contrasto. La prima questione[64], che la comunità matteana, proveniente dal giudaismo, si pone, è come sia stato possibile che la semente divina, che generò il popolo ebreo, si sia trasformata in zizzania; com’è possibile che sia avvenuto un simile tradimento della Torah, ridotta a precetti d’uomo, che ha allontanato Israele da Dio al punto tale da renderlo cieco di fronte all’evento Gesù, manifestazione storica di Dio stesso (Gv 1,11): “Signore, non hai seminato buona semente nel tuo campo? Come mai, dunque, hai zizzania?”. La risposta di Gesù è lapidaria: “L’uomo nemico ha fatto questo”, come dire che fu l’evoluzione storica di Israele, che non ha saputo far fruttificare, a causa della fragilità umana, il buon seme della sua elezione, dell’Alleanza e della Torah. Nessun atto di accusa, dunque, contro Israele, che è e sarà sempre il popolo prediletto, quello della prima elezione (Rm 11,28-29), il depositario degli strumenti della salvezza (Rm 9,4-5) e che Paolo vede riscattato alla fine dei tempi (Rm 11,1-2b.11a.15-16.25-26). Gloria e onore a Israele, eletto e prediletto da Dio (Es 19,4-6), nonostante il suo fallimento, dovuto ad un errore di prospettiva: ottenere la giustificazione mediante le opere della legge e non per mezzo della fede in Dio: “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d'inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso.” (Rm 9, 30-33); e proseguendo, Paolo riconosce la sincerità d’animo di Israele e il loro zelo per Dio, benché questo non fosse fondato in una retta coscienza: “Rendo infatti loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza; poiché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio” (Rm 10,2-3). La soluzione al problema indicata dai servi è radicale: “vuoi che andiamo a raccoglierla?” In altri termini si chiede di sradicarla. Cosa nasconde questa proposta? Forse un’azione di forza contro i giudei? Una proposta di difesa contro le continue aggressioni, le ghettizzazioni sociali e religiose e le quotidiane vessazioni, a cui erano sottoposti i cristiani della prima generazione? (Gv 9,22; 12,42). Difficile dirlo, certamente la soluzione presa in esame non manifesta intenti pacifici. Le soluzioni di forza, del resto, non è nuova nel gruppo dei discepoli (Mt 26,51; Lc 9,54; Gv 18,10-11). La controindicazione è categorica: “No, per niente, perché raccogliendo la zizzania, sradichereste insieme a quella anche il grano buono”. La soluzione è di buon senso: evitare azioni che sicuramente si ritorcono contro la comunità e tutto a suo danno.

 

C)    Il v.30 costituisce l’ultima parte della parabola e apre la comunità matteana ad una soluzione di tipo escatologico: il giudizio finale. La soluzione prevede due tempi: a) il primo tempo (v.30a) riguarda l’oggi della comunità ed è un invito a lasciare e, quindi, a sopportare che grano e zizzania crescano insieme, rinunciando a qualsiasi azione di forza e rimettendo, invece, tutto nelle mani del padrone di casa. Il tempo presente, pertanto, va vissuto nella sofferenza e nella perseveranza fino al tempo stabilito per la mietitura, metafora del giudizio finale[65]; b) il secondo tempo (v30b) è caratterizzato dal giudizio, in cui grano e zizzania verranno discriminati tra loro ad opera dei mietitori. Questi ultimi non sono i membri della comunità cristiana, ma, nel linguaggio apocalittico, gli angeli mandati da Dio. È significativa questa precisazione, perché viene rimandata a Dio ogni decisione e ogni giustizia. Non spetta, dunque, alla comunità cristiana metter in atto azioni di forza, ma tutto deve essere lasciato alla giustizia divina. Il tempo presente, pertanto, troverà la sua soddisfazione nel giudizio di Dio, al quale tutti, grano e zizzania sono sottoposti, sia pur con destini diversi. Questa seconda parte del versetto, pertanto, è intrisa di toni e colori apocalittici, che richiamano da vicino la predicazione del Battista dove la scure è già posta alla radice dell’albero, pronta a colpire chi non porta frutto; mentre il ventilabro libera il grano dalla pula per essere deposto nel granaio del Signore.

 

vv.31-33: dopo la presentazione della parabola del Seminatore (vv.3b-8), in cui si denunciavano le difficoltà e le resistenze, che la parola del Regno trovava nel suo essere accolta dai membri della comunità matteana; e di quella del grano e la zizzania (vv.24-30), che rilevava lo scontro in atto tra la comunità matteana e il mondo giudaico e quello pagano, queste due parabole, che chiudono il primo ciclo, caratterizzato dalla predicazione alle folle (v.2) e dallo sfondo agricolo entro cui sono costruite, sottolineano la grande dinamicità e la grande potenza intrinseche al Regno dei cieli. Si comprende, quindi, come il Regno, pur soggetto a limiti e prepotenze e a continue lotte e defezioni, tuttavia si affermerà con forza. Una spinta e un incoraggiamento, che Matteo inietta alla sua comunità, chiamata ad un continuo confronto e ad una estenuante lotta per  la propria sopravvivenza e la propria affermazione.

 

Le due parabole, riportate anche da Luca (Lc 13,18-21), formano un dittico, proveniente dalla fonte Q[66], comune ad entrambi gli evangelisti. Esse sono legate tra loro sotto diversi aspetti: a) letterariamente da un’identica introduzione: “Il Regno dei cieli è simile a”. Si tratta, dunque, di similitudini, cioè di un parallelismo che l’evangelista crea tra realtà umane conosciute e realtà spirituali, la cui conoscenza è raggiungibile attraverso le prime; b) narrativamente si hanno diversi elementi accomunanti: uomo e donna, seme di senape e lievito, il primo nascosto nella terra, il secondo nascosto nella farina, il primo cresce e si espande, il secondo fa crescere e trasforma; c) tematicamente esprimono un identico messaggio: l’intrinseca potenza del Regno di Dio; una forza che si manifesta sia nel suo espandersi (granello di senape), sia nella sua capacità di trasformare (lievito) dal proprio interno l’uomo, la società, il mondo, ogni realtà che ne viene investita; d) dinamicamente esse si polarizzano sul contrasto “il più piccolo - il più grande” (granello di senape), lievito-tre misure di farina (lievito). Proprio attraverso questo contrasto, l’autore mette in evidenza la potente dinamicità del Regno, una forza incontenibile.

 

I vv.31-32 presentano la prima parabola, scandita in due momenti: a) il primo (v.31) forma il quadro scenico della parabola. Il contesto è sempre quello agricolo ed è strettamente imparentato con le due parabole precedenti, per la presenza di un triplice comune elemento: il seminatore, la semente e il campo; b) il secondo momento (v.32) costituisce una sorta di riflessione sul seme di senape, dalla quale scaturisce il messaggio ed è, pertanto, il cuore della parabola.

 

La parabola, pur nella sua brevità, contiene in se stessa numerosi verbi di movimento, che le imprimono una forte dinamicità, in cui si riflette anche quella del Regno: prendere, seminare, crescere, diventare, venire, dimorare. Tutta l’attenzione del lettore è incentrata sul granello di senape e tutto il racconto è funzionale ad esso. Non a caso, infatti, l’evangelista lo nomina espressamente, poiché è proprio nella sua natura e nei suoi dinamismi che si nasconde il messaggio. Viene rilevato, innanzitutto, che esso è il più piccolo tra i semi allora conosciuti, ma, una volta affidato alla terra, si trasformerà in un albero, le cui dimensioni possono raggiungere, in condizioni ambientali favorevoli, anche i cinque metri di altezza, benché si attesti normalmente intorno ai tre/quattro metri[67]. Il confronto, volutamente esagerato, delle dimensioni (seme-albero) serve a Matteo per significare la potenza espansiva del Regno, l’energia esplosiva contenuta in quel piccolo seme, capace, una volta raggiunto il suo naturale dispiegamento, di ospitare in modo permanente (dimorarono) gli uccelli del cielo. Il riferimento agli “uccelli del cielo” non è casuale, poiché essi nella tradizione ebraica alludono ai popoli pagani[68]. In questo dinamismo espansivo, quindi, Matteo legge in proiezione missionaria universalistica la sua comunità, che, pur di piccole dimensioni, è chiamata all’annuncio e alla testimonianza del Risorto verso tutte le genti (Mt 28,19-20).

 

Il v.33 presenta il secondo aspetto della forza del Regno, questa entità spirituale che permea e possiede ogni singolo credente: la forza rigenerante e trasformante di chi l’accoglie. Tre sono gli elementi significativi di questa brevissima parabola, che occupa il solo spazio di un versetto: il lievito che viene nascosto, le tre misure di farina e il fermento dell’intero impasto. Il lievito[69] assume nel solo linguaggio biblico neotestamentario un significato negativo, per il suo potere di corrompere la pasta in cui viene inserito, facendola fermentare; mentre nell’A.T. esso è nominato prevalentemente nell’ambito del culto e nel rituale della festività degli Azzimi. In questo solo contesto (Mt 13,33) esso assume una valenza positiva e indica l’azione propria del Regno, che, pur di piccole dimensioni, è capace di produrre una radicale trasformazione dell’intera umanità (ólon) , raffigurata dalle tre misure di farina. Ancora una volta viene posto il confronto tra il poco e il tanto, tra il piccolo e il grande, per evidenziare la sproporzione di forze, ma anche la grande potenza rigeneratrice, che è racchiusa nel Regno, in cui la stessa comunità matteana si identifica. Si tratta, infatti, di un lievito, che è nascosto nel grande contesto del mondo giudaico e pagano, quasi impercettibile, tanto da non essere, nei suoi inizi, distinto dallo stesso giudaismo, del quale lo si riteneva un’appendice. L’azione del fermentare, che investe tutto (Ólon, ólon), è espressa con un verbo posto all’aoristo passivo di tipo terminativo (™zumèqh, ezimótze, fu fermentato). Il verbo al passivo indica l’azione propria di Dio, che attraverso i nuovi credenti, opera un nuovo fermento spirituale, capace di trasformare l’umanità in tutte le sue espressioni storiche. In quanto aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, il verbo colloca l’azione del fermentare in un passato, che ha il suo inizio ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e si manifesta ora in Gesù (Rm 16,25-27; Ef 1,9). Questo aoristo passivo, inoltre, è di tipo terminativo, rafforzato anche dalla particella “›wj” (éos, finché, fino a che). Esso indica lo svolgersi di un’azione, che ha un suo preciso scopo, un proprio obiettivo da raggiungere, per cui essa continuerà incessante finché il tutto (ólon) non viene investito e trasformato. Vi è, dunque, in atto un’azione divina potente, depositata all’interno dell’umanità e che punta a trasformarla, secondo un prestabilito disegno divino, che vede la ricapitolazione dell’intero cosmo in Cristo (Ef 1,9-10). Protagonista storica di questa avventura salvifica è la stessa comunità matteana, che investita della stessa potenza di Dio, è inviata alle genti perché siano ricondotte in seno al Padre (Mt 28,18-19).

 

vv.34-35: nell’ambito dell’economia narrativa del cap.13, questi versetti formano un’inaspettata interruzione, all’apparenza priva di logica, poiché essi costituiscono, di fatto, una chiusura del discorso, che, invece, riprende con il v.36. In realtà Matteo, di proposito, ha voluto creare uno stacco netto tra il predicare di Gesù alle folle e il suo rivolgersi ai discepoli. Il netto cambio di scenario: dalle folle, dal mare, dalla barca al chiuso della casa, che ha come unici spettatori i discepoli; la stessa inclusione, data dai vv.3a e 34a, che racchiudono la prima parte del discorso in parabole, servono a creare due blocchi distinti e contrapposti all’interno dell’unico grande discorso. Tutto questo è finalizzato ad accentuare la scelta discriminante, che Gesù ha operato nell’ambito della sua predicazione: da un lato le folle, dall’altro i discepoli; da un lato il suo parlare in parabole, dall’altro il rivelarne il senso. Due diversi modi per annunciare i misteri del regno, poiché due sono i diversi e opposti atteggiamenti, che gli ascoltatori hanno assunto nei confronti di Gesù: diffidenza e incredulità nel primo caso; disponibilità e sequela nel secondo.

 

Strutturalmente questa breve pericope si divide in due parti:

 

A)     una considerazione conclusiva, il cui intento è sottolineare la scelta, che Gesù ha operato nella sua predicazione. Significativo è il ripetersi per due volte del termine parabola: una al plurale (parabola‹j, parabolaîs), con riferimento alle parabole precedenti; una al singolare (parabolÁj, parabolês), che richiama il tema del parlare in parabole, affermando la netta presa di posizione nell’ambito della predicazione; posizione che viene rafforzata e assolutizzata da quel “nulla diceva” (oÙdšn ™l£lei, udén elálei). Il verbo, posto qui all’imperfetto, sottolinea un’azione persistente nel tempo. L’insieme del quadro, quindi, dà l’idea di una radicalizzazione della scelta di Gesù, una svolta decisiva nella sua missione.

B)    La citazione del v.35 va a completare quella precedente dei vv.14-15. In questi ultimi l’autore si richiama ad Isaia e vede nella durezza di cuore delle folle il compiersi della profezia isaiana, che giustifica il parlare in parabole di Gesù; con il v.35, invece, Matteo vede nel parlare in parabole di Gesù l’attuarsi di un’altra profezia. Sia la scelta di Gesù, quindi, di criptare i misteri del Regno con il linguaggio metaforico delle parabole, sia il comportamento ottuso e incredulo dei giudei trovano la loro origine e la loro giustificazione nelle stesse Scritture, rientrando in tal modo in un progetto divino. Il messaggio rassicurante, che Matteo invia alla sua comunità, è quello di non preoccuparsi dei difficili rapporti con il mondo esterno, giudaico e pagano, e di conseguenza, la necessità di serbare gelosamente i misteri del Regno in via esclusiva ai soli credenti (7,6), poiché tutto ciò rientra in un prestabilito piano salvifico in atto[70].

Il v.35 si apre con una congiunzione finale (Ópwj, ópos) e il verbo posto al passivo (plhrwqÍ, plerotzê, fosse compiuto). Se il verbo al passivo pone come soggetto principale del compiere Dio stesso, la congiunzione finale riconduce questo compiere all’attuarsi di una profezia, che riguarda direttamente Gesù. Egli, quindi, è il fedele attuatore della volontà del Padre, che, in lui e per suo mezzo, realizza il suo progetto di salvezza, preannunciato già nelle Scritture. Il parlare in parabole, quindi, non obbedisce a criteri discrezionali di Gesù o a sue politiche personali, ma è un fedele compiersi in lui del disegno del Padre. Matteo, quindi, sembra mettere davanti alla sua comunità la discrezione e il comportamento prudente, che Gesù aveva nel parlare dei misteri del Regno alle folle, per evitarne la dispersione o la banalizzazione.

La citazione, che l’evangelista attribuisce al “profeta”, in realtà è un richiamo elaborato al salmo 78,2[71]. Non ha comunque importanza la correttezza della fonte, poiché per l’autore è significativo come già nelle Scritture si potessero rinvenire degli annunci, che egli vede realizzarsi in Gesù, da lui colto come il vertice e il compimento della Legge e dei Profeti (Mt 5,17).

 

vv. 36-43 : la parabola del buon grano e della zizzania (vv.24-30) trova qui la sua spiegazione, anche se, in realtà, cambiano le prospettive e il senso. C’è insomma uno spostamento del baricentro: se nella parabola la questione principale, su cui tutto convergeva, era la presenza e la convivenza di elementi e di situazioni, che interferivano con la comunità matteana, sia internamente che esternamente, rendendone difficile l’esistenza; qui, nella spiegazione, l’attenzione è incentrata tutta sul giudizio finale, collocato in uno scenario squisitamente apocalittico, che sembra abbracciare non solo gli elementi cattivi della comunità, ma l’umanità intera (kÒsmoj, kósmos, mondo), resa comunemente responsabile davanti all’evento unico dell’annuncio cristiano, incarnato nella comunità credente isolata e perseguitata. Lo stesso titolo dato all’interpretazione della parabola “La zizzania del campo” (v.36b) accentra l’attenzione del lettore non sul rapporto grano-zizzania, bensì solo su quest’ultima, sulla quale incombe il giudizio divino. L’intera pericope esegetica è, quindi, orientata e costruita attorno al giudizio finale contro la zizzania, così che questa spiegazione (vv.36-43) diventa la ripresa e lo sviluppo logico ed elaborato della sola parte conclusiva della parabola stessa (v.30).

 

Quanto all’origine di questa spiegazione va detto che come la parabola non è attribuibile a Gesù, per i motivi sopra ricordati, così anche questa spiegazione, ovviamente, non  può essere attribuita a Gesù o, comunque, fatta risalire a lui, ma trova la sua origine nella stessa comunità matteana. Il linguaggio usato ci colloca, infatti, verso la fine del primo secolo, quando le prime comunità ecclesiali erano già sufficientemente strutturate e istituzionalizzate, così da contrapporsi alle comunità civili-religiose ospitanti; per cui abbiamo il buon grano dei figli del regno che si contrappone alla zizzania dei figli del maligno e il campo di battaglia è il mondo, divenuto terra di conquista e di scontro della comunità matteana (Mt 28,19-20a). Il contesto in cui viene collocata la spiegazione, inoltre, ha forti tinte apocalittico-escatologiche, che caratterizzeranno il tempo della chiesa post-pasquale, benché il linguaggio e le immagini vengano mutuate dall’apocalittica giudaica, che ha conosciuto il suo periodo d’oro tra il II sec. a.C. e il II d.C. Non va escluso, tuttavia, che Matteo sia qui ricorso a materiale molto antico, del quale si è servito per elaborare la propria drammatizzazione del giudizio finale (vv.41-43). La stringatezza, quasi rudimentale,  dei vv.38-39, che urta con lo stile elegante e raffinato dell’autore, lo lascia pensare.

 

La struttura della pericope si snoda su quattro parti:

 

A)    v.36 costituisce la cornice introduttiva;

 

B)    vv.37-39: fornisce, in modo schematico ed essenziale, la traduzione allegorica dei termini che compongono la parabola (vv.24-30);

 

C)    v.40: formula di transizione, che nel riprendere la spiegazione allegorica di alcuni termini spiegati in B), introduce ai versetti seguenti;

 

D)    vv.41-43: drammatizzazione del giudizio finale, collocato entro un quadro a forti tinte escatologiche e apocalittiche.

 

Come si è già sopra accennato, l’intera esegesi della parabola del buon grano e della zizzania è stata costruita per mettere in rilievo il solo v.30 della parabola stessa. I vv.37-39, infatti, presentano soltanto la materia prima della costruzione, che passando attraverso il filtro trasformatore del v.40, esplode nel breve quanto intenso racconto apocalittico-escatologico del giudizio finale. In questo viene coinvolta soltanto la zizzania, mentre il buon grano apparirà come tale in tutto il suo splendore, a seguito della scrematura operata dal giudizio escatologico: “Allora i giusti rifulgeranno”, cioè appariranno nella loro piena identità, risplendenti della stessa luce divina. I termini, infine, che compaiono nei vv.37-39 vengono modificati nel loro significato una volta introdotti nel racconto dei vv.41-43. Tali sono il “figlio dell’uomo seminatore” che diventa “figlio dell’uomo raccoglitore” e, quindi, giudice, secondo la logica sapienziale di chi semina anche raccoglie (Gb 4,8; Prv 22,8); il figlio dell’uomo, inoltre, ha come suo contrappunto finale il Padre; mentre il suo Regno, dalle dimensioni spazio-temporali (mondo), si trasforma nel “Regno del Padre”; i “figli del regno”, trasferiti in un contesto apocalittico, si manifestano come i “giusti”; mentre i “figli del maligno” sono indicati secondo il loro operato “scandali e quelli che compiono l’iniquità”; il “mondo” diventa il “Regno” del figlio dell’uomo, il luogo del giudizio; mentre il “diavolo”, definito come il padre della zizzania e diretto nemico del figlio dell’uomo, viene identificato con il suo contesto naturale: la “fornace del fuoco” e il “pianto e stridore di denti”. Tutto il materiale dei vv.37-39, dal contenuto squisitamente storico, una volta inserito nel quadro apocalittico ed escatologico dei vv.41-43, subisce una nuova lettura trasformante, apocalittica, perché rivela e manifesta la vera verità e la reale realtà ultima dei giochi che si stanno compiendo qui sulla terra, dove si trova a vivere, a lottare, a soffrire e a sperare la comunità matteana, perché è proprio di lei che l’autore sta parlando. In ultima analisi, l’esegesi della parabola del “buon grano e della zizzania”, ma è meglio dire del v.30 di questa parabola, funge da chiave di lettura, che Matteo fornisce alla sua comunità, perché sappia comprendere il suo difficile ruolo e i difficili tempi che è chiamata a vivere.

 

Il v.36 si suddivide in due parti:

 

A)     la prima segna il momento di transizione da un contesto ad un altro; dalle folle ai discepoli; dal mare all’intimità della casa. Si ha, quindi, un cambio di scenario, che completa la svolta nell’ambito dell’attività predicatoria di Gesù. Questo cambio di scenario, infatti, dice che ci stiamo introducendo in una nuova dimensione, che già era stata, comunque, preannunciata (v.11). Infatti, se la prima parte del cap.13 (vv.3b-35) si apriva con una parabola rivolta alle folle (il Seminatore), introducendo il tema del “parlare in parabole” riservato alle sole folle; la seconda parte del capitolo (vv.37-53) completa il tema, che vede i discepoli come testimoni privilegiati dei misteri del Regno, per cui significativamente questa seconda parte si apre non con una parabola, bensì con la spiegazione di una parabola, quella del buon grano e della zizzania (vv.24-30). Con questo ultimo giro (vv.37-53), quindi, si porta a compimento quanto detto al v.11: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del Regno; a quelli non è dato”.

 

B)    La seconda parte del v.36 è costituito dalla domanda che i discepoli pongono a Gesù: “Spiegaci la zizzania del campo”. Si tratta, dunque, di una richiesta di spiegazione, che nasce dai discepoli e che introduce la seconda parte del tema: la spiegazione delle parabole riservata ai soli discepoli. Nessuna richiesta in tal senso, infatti, era mai pervenuta da parte delle folle. La richiesta, tuttavia, funge anche da titolo alla spiegazione stessa: “La zizzania del campo”. Non si parla più qui del rapporto tra il buon grano e la zizzania, entrambi conviventi nell’unico campo, ma l’attenzione si sposta tutta sulla sola zizzania e sul suo drammatico e ineluttabile destino. Vi è quindi uno spostamento non solo di tema (da convivenza grano-zizzania a sola zizzania), ma anche di contesto (dal piano storico a quello apocalittico-escatologico e trascendentale), nel quale viene ricondotto il nuovo tema della zizzania.

 

Il v.36 si apre con un movimento pendolare ritornante di Gesù, che dice come con questa seconda parte si completi la sua attività di annuncio. Al v.1, infatti, Gesù esce dalla casa e si pone a disposizione delle folle e il suo linguaggio è squisitamente metaforico (parabole); qui, al v.36, Gesù, congedate le folle, rientra in casa dove gli si avvicinano i discepoli e qui il suo linguaggio diventa esegetico e rivelativo. La casa spesso nel linguaggio biblico è sinonimo di comunità credente[72], al cui interno si trova Gesù attorniato dai suoi discepoli. Ed è qui, all’interno della comunità credente, che Gesù svela i segreti del Regno, poiché essi trovano il terreno fertile della fede, che si è fatta sequela. Per questo le folle non possono entrarvi, ma vengono allontanate (¢feˆj, afeìs) dalla casa. Folle e discepoli, infatti, sono due realtà diverse, che l’autore caratterizza acutamente nei loro stessi movimenti nei confronti di Gesù: al v.2 esse vengono presentate nel loro riunirsi attorno a Gesù (sun»cqhsan prÕj aÙtÕn, sinéctzesan pròs autòn), ma non si avvicinano a lui; movimento questo che, invece, è riservato ai soli discepoli, che per due volte in questo capitolo (vv.10.36) sono definiti come “coloro che si avvicinano a Gesù” (proselqÒntej, proseltzóntes). Le folle, invece, pur riunite intorno a Gesù, a motivo della loro poca fede o di una fede forse ancora troppo acerba e che non riesce a tradursi in sequela, sono separate da lui: Gesù, infatti, è in barca, mentre le folle rimangono sulla spiaggia (v.2). Gesù, dunque, prosegue nel suo cammino di rivelazione e di perfezionamento di una nuova comunità messianica, nella quale deposita i misteri del Regno; ma le folle rimangono ferme, inchiodate, lì, sulla spiaggia (™pˆ tÕn a„gialÕn eƒst»kei, epì tòn aghialòn esitékei), non si muovono verso Gesù a motivo della loro sostanziale incredulità. Per questo Gesù le congeda. Non sono ancora mature per accogliere i misteri del Regno. Soltanto la comunità credente diventa il luogo della rivelazione.

 

Già si è sopra accennato come i vv.37-39 presentano in modo conciso, essenziale, grezzo i significati allegorici delle immagini che compongono la parabola del buon grano e della zizzania (vv.24-30). Non abbiamo qui un commento di quelle figure, ma semplicemente una loro enumerazione con accanto il significato inteso; quasi una equivalenza matematica: questo vuol dire quest’altro. Proprio per la loro forma e la loro struttura, questi versetti sembrano essere materiale molto antico, che l’autore deve aver trovato presso qualche fonte propria e riportato senza modifica alcuna. Non è da escludersi che proprio su questa primitiva elencazione di immagini, con accanto la loro traduzione, Matteo abbia elaborato la sua parabola del buon grano e della zizzania, che troviamo soltanto in lui[73]. In tal senso, è significativo il fatto che la parabola, come si è già osservato, unica tra tutte, inizi con il verbo “`Wmoièqh” (omoiótze), cioè il Regno dei cieli fu paragonato, alludendo con questo aoristo passivo probabilmente a del materiale molto antico, che potrebbe essere proprio questo elenco in analisi.

 

Come si presenta il contenuto dei vv.37-39:

 

a)      Seminatore = figlio dell’uomo;

b)     Campo  =   mondo;

c)      Buona semente = figli del Regno;

 

d)     Zizzania = figli del maligno;

 

c1Nemico = diavolo;

b1) Mietitura = fine del tempo;

a1) Mietitori = angeli.

 

Sono certamente elementi sintetici, ma sufficienti per un abile narratore, qual è Matteo, per costruire un racconto. Gli elementi in causa sono sette, un numero, che nel linguaggio semitico, indica la perfezione e la completezza; quasi a dire che qui ci sono tutti gli ingredienti utili per leggere e comprendere il dramma che sta vivendo la comunità matteana, che assurge a parametro di raffronto per le altre comunità credenti della Palestina[74].

 

Un’ultima osservazione va posta sull’ordine di elencazione delle immagini: esse sono poste tra loro in parallelismi convergenti in d). Per cui abbiamo che il figlio dell’uomo che semina è anche colui che miete (v.41a) e trova il suo strumento di mietitura negli angeli (a; a1); il mondo è legato alla fine del tempo, divenendo il luogo in cui si svolge il dramma (b; b1); i figli del Regno hanno il loro oppositore permanente nel diavolo (c; c1); al centro, da sola, si pone la Zizzania, cioè i figli del maligno. È questo, infatti, l’oggetto di cui si parlerà nel racconto escatologico-apocalittico dei vv.40-43 ed è proprio la Zizzania, come si è visto, che forma il titolo stesso della spiegazione (vv.36-43).

 

Il v.40 crea uno stacco netto tra i vv.36-39 e i vv.41-43 e funge da elemento introduttivo alla seconda parte di questa pericope (vv.41-43). Le immagini interpretate ed elencate nei versetti sopra stanti (vv.37-39) sono ora inserite in una narrazione di tipo escatologico ed apocalittico, e all’interno di questa cornice acquistano la loro identità e la loro vitalità.

 

Tutto ruota attorno ad un paragone che si appoggia sulle particelle “ésper” (ósper, come) e “oÛtwj” (útos, così): la zizzania raccolta e gettata nel fuoco deve far pensare a quanto avverrà alla fine del tempo. Il v.40 annuncia, ma già si sapeva, il tema di fondo: il drammatico destino della zizzania. Tutto ruota attorno a questo e tutto è in funzione di questo. Anche i giusti, che compariranno al v.43, sono totalmente dipendenti dalla dolorosa fine della zizzania. Il loro splendore, infatti, emergerà sfolgorante come una sorta di conseguenza di quel destino: “Allora i giusti rifulgeranno”.

 

La particella “oân” (ûn, pertanto) si richiama, così come il contenuto stesso del v.40, non al contesto immediato, come in genere avviene, bensì al v.30, che qui viene ripreso e sviluppato in un quadro narrativo dai toni squisitamente apocalittici. In tal modo si comprende come l’intera pericope in analisi (vv.36-43) non è l’esegesi dell’intera parabola del buon grano e della zizzania, come già si è detto, ma soltanto del v.30.

 

I vv.41-43, che qui anticipano, sintetizzandoli, i vv. 25,31-46, drammatizzano all’interno di una cornice apocalittica il giudizio finale, in cui viene eseguita la definitiva sentenza contro la zizzania. Questa, che in 38b era definita come i figli del maligno, viene ora indicata come “gli scandali” e “gli operatori di iniquità”. Il termine scandalo esprime l’idea dell’impedimento e dell’inciampo, che si frappone nel rapporto con Dio e lo può far fallire[75]. Non è chiaro a chi Matteo si riferisca con questo termine e con l’espressione “operatori di iniquità” [76]. È pensabile che l’autore si rivolga, in primis, alla sua comunità, al cui interno vi erano elementi, che con il loro comportamento e i loro discorsi turbavano la fede dei fratelli. A questi Matteo sembra riferirsi in 7,15-23, sollecitando, per contro, i suoi a fondare la propria vita sulla roccia della Parola (7,24-27). È proprio in questo passo che definisce alcune categorie di persone, probabilmente dei carismatici turbolenti e presuntuosi, come “operatori di iniquità” (7,23). Non è sufficiente, ricorderà l’evangelista, invocare il nome del Signore per essere degli autentici discepoli, ma è necessario conformare il proprio vivere alla volontà divina (7,21-22). Ma certamente Matteo, negli scandali e negli “operatori di iniquità” vedeva anche l’invincibile incredulità dei giudei e il lascivo e dispersivo modo di vivere del mondo pagano, che si rendevano impermeabili all’annuncio del Vangelo. Erano del resto, queste, situazioni comuni a tutte le comunità credenti e che ritroviamo anche nelle lettere paoline e in quelle di Giovanni[77].

 

Un’attenzione va riservata al termine “¢nom…a” (anomía, iniquità), composto da un’a (alfa) privativo e da nom…a, che significa legalità. Anom…a, quindi, significa assumere comportamenti che non solo si pongono fuori dalla legalità, ma sono privi di qualsivoglia giustificazione, sconfinando, quindi, nella illegalità e cadendo nell’ingiustizia e nell’empietà. Il termine, quindi, contiene in sé il concetto di una violazione profonda delle leggi primordiali proprie della natura umana, che viene offesa nelle sue intime dinamiche costitutive; esso, tuttavia, denuncia anche la violazione dei diritti fondamentali di Dio nei confronti dell’uomo, al quale è impedito e profanato il suo naturale impulso verso il proprio Creatore. Che cosa sia l’iniquità, che si contrappone alla “dikaiosÚnh[78] (dikaiosíne, giustizia), Paolo ne dà una mirabile e insuperabile descrizione nella sua lettera ai Romani: “In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.

Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa” (Rm 1,18-32).

 

Un appunto va speso sull’inaspettata apparizione dell’espressione “Regno del Padre” (v.43). Fino a questo momento si è sempre parlato di campo (vv.13,24.27.36.38), la cui proprietà era attribuita al seminatore (vv.24.27), allegoria di Gesù, indicato con il suo titolo messianico di “figlio dell’uomo” (v.37), definito, nella sua relazione con i servi, come il “Signore”, il “padrone di casa” (v.27). Tale proprietà fa si che quel campo sia lo spazio proprio di attività di questo seminatore, cioè di Gesù. In buona sostanza esso è il suo Regno, qualificato dalla sua presenza di seminatore e dalla convivenza di grano e zizzania (vv.30.38). Questo seminatore, poi, si erge anche a mietitore-giudice (vv.30.41). Insomma, un ciclo completo di semina, crescita, maturazione e, infine, mietitura, con relativa separazione tra grano ed erbacce, che vengono puntualmente bruciate. Tutto quadra perché il padrone è chiaramente lui ed è lui, quindi, che svolge tutte le sue funzioni. Ma ecco che, all’improvviso, sparisce tutto e compare una nuova realtà, di cui non si era mai detto prima: il “Regno del Padre”. Sembra, dunque, esserci un’evoluzione dal Regno di Gesù, dai tratti storico-spirituali a quello del Padre, che sembra essere la definitiva meta di luce dove i giusti, prima adombrati dalla zizzania, rifulgeranno della stessa luce divina. Un’immagine questa che richiama da vicino l’Apocalisse: “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli.” (Ap 22,5). Una simile visione, dalle dimensioni squisitamente escatologiche ed apocalittiche, viene richiamata dallo stesso Paolo nella sua prima Lettera ai Corinti: “[…] e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”.

 

vv.44-46: anche queste due parabole sono materiale proprio di Matteo. Esse sono una coppia gemellata e solo in apparenza identiche, ma in realtà differiscono notevolmente tra loro. Si  riferiscono a due categorie di persone, probabilmente presenti nella stessa comunità matteana, alle quali l’autore si rivolge sollecitandole.

 

Le parti comuni alle due parabole sono date:

 

a)      dal valore intrinseco della scoperta: un tesoro e una perla di grande valore;

b)     dagli autori della scoperta: un uomo, senza alcuna precisazione nel primo caso, un trafficante nel secondo caso, entrambi definiti genericamente “uomo” (¥nqrwpoj, ántzropos);

c)      dall’identico comportamento: entrambi, dopo averlo scoperto, vendono tutto il loro avere (p£nta Ósa œcei, pánta ósa échei) per acquistare il bene trovato.

d)     dalla comune introduzione: “Il Regno dei cieli è simile a …”, che fa delle due parabole, due similitudini, in cui si tende ad evidenziare più che i personaggi o il contesto in cui si muovono, il loro comportamento, con cui il lettore è chiamato a confrontarsi;

 

 

Le parti che differiscono nelle due parabole:

 

 

a)      i verbi delle due parabole hanno i tempi invertiti: nella prima parabola i verbi riguardanti la scoperta del tesoro sono posti all’aoristo (v.44a); mentre quelli riguardanti la gioia e la vendita dei beni per l’acquisto del campo, sono tutti al presente indicativo (v.44b). Viceversa, il verbo della seconda parabola riguardante la ricerca della perla è posto al presente indicativo (v.45); mentre quelli riguardanti la vendita e l’acquisto della perla sono posti all’aoristo (v.46).

b)     nella prima parabola l’autore mette in rilievo la reazione di gioia dell’uomo che ha scoperto il tesoro; nella seconda non vi è alcun accenno alla gioia né alcuna reazione emotiva alla scoperta;

c)      nella prima parabola la scoperta del tesoro è casuale; nella seconda è frutto di una costante ricerca (zhtoànti, zetûnti, il cercante).

 

Le parti in comune formano un’unica cornice, al cui interno vengono poste le differenze, che forniscono alle due parabole una loro propria identità. Il tema di fondo, ragione d’essere delle due parabole, è la radicale decisione, che in entrambi i casi viene sollecitata di fronte alla scoperta del tesoro/perla: vendere tutto per acquisirne il possesso.

 

Il v.44 si divide in due parti: la prima riguarda il rinvenimento di un tesoro (v.44a); qui i verbi sono posti tutti all’aoristo. La seconda parte presenta la reazione dell’uomo di fronte alla scoperta (v.44b); qui i verbi sono posti tutti al presente indicativo. I verbi posti al passato (v.44a) parlano di persone che hanno compreso la ricchezza del Regno; mentre i verbi posti al presente (v.44b) indicano il comportamento conseguente ad una scoperta precedentemente fatta e che incide nel presente della loro vita. La decisione radicale, che coinvolge esistenzialmente queste persone, dipende, pertanto, dal valore scoperto, che provoca in loro gioia. Siamo, quindi, nel mondo dei catecumeni e dei neofiti, che con entusiasmo e dedizione vivono la loro prima esperienza del Regno.

 

C’è, dunque, un tesoro che si trova in un campo[79]. Già siamo stati edotti circa il significato del campo: esso è il mondo (v.38a), in cui si trova il tesoro, precedentemente nascosto (il verbo è al perfetto: kekrummšnJ, kekrimméno). Colui che si imbatte in esso è definito genericamente con il termine “uomo” (¥nqrwpoj, ántzropos) nel senso di uomo qualunque, un uomo qualsiasi[80]. Ci si riferisce, quindi, alla generalità degli uomini. Quest’uomo, dopo aver trovato il tesoro, lo nascose nuovamente per non rivelarne la presenza. Non c’è qui una ricerca specifica, ma l’incontro è dato dalla casualità. Ma la sua scoperta apre l’uomo ad una gioia incontenibile, che lo spinge ad alienare tutto quanto possiede pur di venirne in possesso. Matteo, qui, si riferisce probabilmente ad una categoria particolare di cristiani, quelli provenienti dal mondo pagano. Questi, infatti, non cercano il Regno di Dio, che non conoscono, ma si imbattono casualmente in esso. La grandezza della scoperta di una simile realtà a cui hanno aderito, li porta a non divulgare i misteri del Regno, per evitarne la banalizzazione (Mt 7,6.15-16; 11,25-27); ma la loro vita cambia radicalmente; una radicalità che viene metaforicamente espressa dall’alienazione di tutti quanti i beni (p£nta Ósa œcei, pánta ósa échei). Quel “tutti quanti i beni che ha” dice ogni bene che è proprio di quella persona; beni, quindi, che trascendono la materialità e che coinvolgono ad ogni livello la persona, che ha fatto esperienza del Regno. È la regola per chi vuole farsi discepolo. Anche al giovane ricco era stata proposta: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (19,21); e similmente: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (vv.16,24-24). Abbracciare il Regno e farne parte significa spogliarsi della propria mentalità terrena per porsi dalla prospettiva di Dio, poiché “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole.” (Rm 14,17-19). La necessità di una scelta radicale e inequivocabile nasce dal fatto che “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona” (6,24).

 

I vv.45-46 propongono un’altra categoria di persone, molto diverse dalle precedenti. Innanzitutto non sono dei semplici uomini, che si imbattono casualmente in un tesoro, ma sono definiti come dei commercianti, dei trafficanti di beni, gente, quindi, già esperta di tesori e di valori; inoltre essi sono definiti come persone in continua ricerca di beni anche nel presente (zhtoànti, zetûnti, il cercante); gente che avendo trovato la loro perla hanno già venduto tutto per essa; hanno, quindi, già operato una loro scelta. Infine, quando questi commercianti in continua ricerca di perle  preziose ne trovano una di grande valore non gioiscono, ma semplicemente decidono di vendere tutto per acquisire questa nuova perla. Matteo sembra qui indicare la scelta dei giudeocristiani. Essi sono già degli esperti di Dio, del suo mondo, già hanno intrattenuto e intrattengono rapporti di Alleanza, già possiedono il manifestarsi della sua volontà nella Torah; persone alla continua ricerca della perfezione nella Legge. Ed è proprio in questo loro atteggiamento di “cercanti”, che trovano la perla di assoluto valore. Essi non gioiscono, poiché per loro il Regno di Dio non è una scoperta in assoluto, ma una ricomprensione e una rivisitazione del loro credo, che li apre a nuove dimensioni, non sempre facili da capire, poiché essi sono condizionati dalla fede mosaica in Jhwh e tendono a cogliere la novità come una sorta di evoluzione o di prolungamento della loro fede. Non c’è qui lo slancio gioioso di chi ha trovato il tesoro: questi spinto dall’entusiasmo non ci pensa un istante a disfarsi dei suoi beni pur di impossessarsi di ciò che per lui è il sommo bene. Qui, al contrario, c’è una sorta di contrattazione, un vendere si, ma attento, filtrato da interessi personali. In tal senso sono significativi i verbi che l’autore usa per indicare la vendita dei beni per l’acquisizione del tesoro e della perla. Nel primo caso (v.44) si ha il verbo “pwlšw” (poléo), che significa vendere, mettere in vendita, dare in vendita e caratterizza il vendere proprio di chi vuol disfarsi di un bene, ma non ci specula sopra; si tratta di una normale alienazione di un proprio bene, da cui ricavare del denaro fresco da impiegare subito. Nel secondo caso (vv.45-46) viene usato il verbo “pipr£skw” (piprásko), che significa sempre vendere, ma è una vendita di tipo professionale, che implica una trattativa, un trafficare e un contrattare, un cercare il proprio tornaconto. Tutto qui è reso più razionale, più attento, più difficile. Non a caso, infatti, qui non compaiono sentimenti di gioia o di entusiasmo, che invece, caratterizzano il v.44.

 

La parabola, tuttavia, sollecita anche questo secondo gruppo di persone a spogliarsi delle proprie resistenze mosaiche[81] e di aderire con fiducia e con lo slancio del primo gruppo, adoperandosi per un cambiamento radicale, poiché ciò che essi hanno trovato è una perla di grande valore, che la pone al di sopra di tutte le altre perle, che essi già possedevano (eŒcen, eîchen, aveva).

 

È forse proprio con l’accostamento di questi due tipi di credenti, etnocristiani e giudeocristiani, che Matteo vuol spingere la propria comunità, proveniente dal giudaismo, a caricarsi di quella determinazione e di quella gioia che caratterizza, invece, il gruppo proveniente dal mondo pagano. Anche loro, i giudeocristiani, devono operare una scelta radicale e definitiva: abbandonare una volta per tutte la Legge mosaica per abbracciare pienamente l’evento Gesù, la cui novità i giudeocristiani non sembrano aver ancora  colto pienamente.

 

vv.47-50: che si fosse in un clima da resa dei conti già lo si era capito da due elementi fondamentali: a) dall’inclusione data dai vv.41-42 con i vv.49-50, che forma una doppia cornice[82]; b) dall’accorato appello che Matteo rivolge ai giudeocristiani della sua comunità perché, ad imitazione dei convertiti provenienti dal mondo pagano (v.44), anch’essi abbandonassero definitivamente e senza reticenze o incertezze la Legge mosaica, per abbracciare senza rimpianto alcuno e con slancio di gioia la novità unica dell’evento Gesù (vv.45-46).

 

Con il tema del giudizio escatologico si chiude il capitolo sulle parabole del Regno. L’insistenza su questo tema tende a rimarcare il concetto della serietà e dell’importanza del Regno dei cieli e delle sue esigenze, che spingono il credente, e con lui ogni uomo, a prendere esistenzialmente posizione a favore di Dio e a porsi dalla sua parte, cercando di cogliere le cose dalla sua prospettiva. Ciò   comporta una continua ricerca e un continuo rinnovamento interiore (Rm 12,2). Ma il richiamo agli inevitabili eventi escatologici costituisce anche un pressante e minaccioso messaggio, che Matteo invia alla sua tentennante e riluttante comunità, perché si apra incondizionatamente e definitivamente, senza più timori e reticenze, alla novità del Regno. Il tema del giudizio escatologico, infine, suggerisce anche come ormai siano giunti gli ultimi tempi e come, da dopo Gesù, incombe sull’intera umanità il giudizio divino. Una realtà quest’ultima con la quale l’uomo, ogni uomo, è chiamato a fare i conti e che già è in atto, ieri nella persona di Gesù, oggi nella sua stessa Parola; una presenza ed una Parola, che creano un’incessante discriminazione già fin d’ora: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30). La presenza in questo cap.13 di due parabole, che hanno come sfondo (vv.24-30.36-43) e come tema (vv.47-50) il giudizio escatologico, sottolineano in modo ossessivo l’urgenza sia della comprensione dei tempi come ultimi, sia l’impellenza di un radicale e pronto cambiamento di vita. L’uomo, ogni uomo, è avvertito.

 

La presente pericope costituisce una sorta di duplicato e di integrazione della parabola del grano e della zizzania (vv.24-30.40-43). Infatti, mentre quella del grano e della zizzania metteva l’accento sulla convivenza dei figli del regno con i figli del maligno (v.38), riservando al giudizio escatologico soltanto il v.30; questa della pesca, invece, pone l’accento sul giudizio escatologico, lasciando solo intuire il tema della convivenza dei pesci buoni con quelli cattivi. Nella rete, infatti, viene raccolta ogni specie di pesce, la cui cernita verrà fatta soltanto sulla spiaggia.

 

Strutturalmente i vv.47-50 si dividono in due parti: la prima ha come contenuto la parabola (vv.47-48); la seconda ne è la spiegazione (vv.49-50).

 

Ciò che caratterizza i vv.47-48 sono due verbi posti al passivo: “blhqe…sV” (bletzeíse, che fu gettata) e “™plhrèqh” (eplerótze, fu riempita). Nel linguaggio biblico i verbi posti al passivo hanno come soggetto Dio stesso[83]. Il gettare la rete, pertanto, come il riempirla rimandano a Dio stesso, ad un suo piano già in atto. La rete, che per la sua natura è finalizzata a prendere, dice l’azione stessa di Dio, che attraverso il suo Regno raccoglie ed accoglie in sé l’intera umanità, indipendentemente dalla sua qualità morale e spirituale (pesci di ogni specie). Questo denota una precisa volontà salvifica di Dio, interamente spesa a totale favore dell’uomo[84]. Ma se questa rete abbraccia ogni uomo senza discriminazione di sorta (pesci di ogni specie), tuttavia contiene in se stessa un principio discriminatore, che si attuerà non nel mare, ma sulla spiaggia. Ma ogni cosa a suo tempo. La rete, infatti, deve essere prima riempita (™plhrèqh, eplerótze), un termine questo che rimanda ad un disegno di compimento[85], che trova la sua attuazione soltanto alla fine dei tempi, verso i quali l’umanità è in cammino (trascinata sulla spiaggia). C’è, quindi, in atto, secondo la visione di Matteo e della chiesa primitiva, un’evoluzione dei tempi verso il loro compimento finale, nei quali l’uomo è coinvolto suo malgrado (rete trascinata sulla spiaggia). Solo qui vi sarà la cernita. Si noti come non è Dio che stabilisce qual è il pesce buono e quale quello cattivo, ma sono i pesci stessi che si presentano davanti a Dio come buoni o cattivi; così similmente in Mt 25,32-33 non è Dio che stabilisce chi è capro e chi pecora, ma sono gli stessi animali, per la loro natura, ad essere capri o pecore. Ciò significa che l’autore primo della propria fortuna o della propria rovina è l’uomo stesso. Non è Dio che condanna o premia, ma l’uomo, che sarà pienamente e definitivamente nell’aldilà, al di là dello spazio e del tempo dove non c’è più divenire, ma soltanto un atto pieno e compiuto,  ciò che è stato qui. Sarà il suo orientamento esistenziale, qui nell’oggi, a determinare la sua natura spirituale, ciò che egli sarà domani. Qui nell’oggi si gioca la salvezza, quando la rete non è ancora giunta a riva.

 

vv.51-52: questi versetti costituiscono la parte conclusiva del terzo grande discorso di Gesù. Essi presentano un’ultima parabola, a se stante e non assimilabile alle altre sette precedenti. Infatti, queste hanno come oggetto il Regno dei cieli e i diversi comportamenti e situazioni, che si sviluppano attorno ad esso. In questa parabola, invece, l’oggetto di attenzione è uno scriba che si è fatto discepolo del Regno e che sembra proporsi ad esempio dei suoi ascoltatori.

 

Il v.51 è una sorta di accertamento, che Gesù compie sui suoi discepoli: “avete compreso tutte queste cose?”. Esso, nel suo contesto immediato, si aggancia direttamente al v.36, in cui i discepoli chiesero a Gesù di spiegare loro la parabola della zizzania. In un contesto più ampio il v.51 si richiama al v.11, in cui si dice che ai discepoli è dato di conoscere i misteri del Regno; essi, infatti, hanno occhi e orecchi che sanno vedere e udire (v.16), così che Gesù azzarda la sua prima spiegazione, invitandoli ad ascoltare (v.18). Il “si” che i discepoli rispondono a Gesù, quindi, è la prova confermativa di quanto si è andato dicendo nel corso del presente capitolo (vv.11.16.18): essi sanno comprendere i misteri del Regno, perché a loro è dato.

 

Il v.52 riporta la parabola dello scriba, che noi abbiamo interpretato come una sorta di icona autobiografica dell’autore[86]. Il termine scriba compare 22 volte nel vangelo di Matteo, 20 al plurale e soltanto due al singolare: al v.8,19, in cui uno scriba si avvicina a Gesù promettendogli di seguirlo ovunque; e qui, dove sempre uno scriba si presenta come discepolo di Gesù, che già ha elaborato il suo precedente credo (Legge mosaica) con le esigenze del nuovo evento Gesù. È probabilmente lo stesso Matteo, che si coglie agli inizi della sua vocazione (8,19) e nella sua ormai consumata esperienza di discepolo, che ha saputo coniugare l’antico con il nuovo. Per questo egli si propone quale esempio alla sua comunità di giudeocristiani, che come lui si sono convertiti e fatti discepoli del Maestro. Ma a sua differenza, essi stentano ad accettare pienamente la novità Gesù e tendono a leggerlo in chiave mosaica, snaturandone il messaggio e il contenuto. Matteo, scriba convertito, ha compreso il vero senso delle Scritture e della figura di Gesù e vede come i due stanno tra loro in un rapporto di annuncio e di compimento (5,17). Non c’è, dunque, opposizione tra Mosè e Gesù, tra il mondo dei Profeti e Gesù, ma integrazione complementare, che vede in Gesù il vertice di ogni compimento (Ef 1,10; Col 1,16b). Poco prima, il Gesù matteano, rivolto ai suoi discepoli, li dichiarava beati: “Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!” (Mt 13,16-17). Vengono messi in contrapposizione due gruppi: chi desiderava e, quindi, tendeva verso l’oggetto dei suoi sogni e dei suoi desideri; e chi, invece, con mano toccava quei sogni e quei desideri divenuti realtà. Una convergenza che viene ricordata anche nell’episodio della trasfigurazione dove: “[…] apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.” (Mt 17,3). Non contrapposizione, dunque, ma una forte tensione dell’antico verso il nuovo, in cui confluisce e trova il suo compimento e il suo pieno appagamento.

 

Il v.53, in modo sobrio, chiude il terzo grande discorso di Gesù, che l’autore colloca al centro del suo vangelo, all’interno di un parallelismo concentrico tra i cinque grandi discorsi, che, alternandosi con altrettante parti narrative, compongono e strutturano l’intero racconto matteano[87]. Si tratta di una formula standard e ripetitiva, sulla cui falsa riga tutti i cinque grandi discorsi concludono. Si tratta di una sorta di segnale letterario, che se da un lato chiude il discorso, dall’altro preannuncia un cambio di scenario[88].

 

vv.54-58: questi versetti costituiscono la riflessione conclusiva dell’intero cap.13. Un’amara conclusione poiché si sottolinea ancora una volta di più l’atteggiamento di chiusura e di incredulità, che affligge i concittadini di Gesù. Già il cap.12 si chiudeva con il rinnegamento, da parte di Gesù, della sua famiglia carnale (12,48), per sua natura limitata dalla spazio-temporalità e, quindi, segnata dalla relatività storica e dalla diffidenza e incredulità nei suoi confronti; ma nel contempo eleggeva una sua nuova famiglia, caratterizzata dall’attenta ricerca e attuazione della volontà del Padre (12,49-50). Una famiglia segnata, quindi, dallo Spirito, trascendente ogni limite spazio-temporale e perciò stesso idonea ad accogliere, in ogni tempo e in ogni luogo, chiunque decida di dedicarsi all’attuazione di tale volontà nella propria vita. In questa scelta Gesù supera gli stretti limiti della storia per aprirsi alla transtoria, alla quale si accede solo attraverso la fede.

 

Nell’apertura del cap.13 si pone subito la questione del rapporto tra Gesù e le folle, un rapporto segnato anche qui dalla diffidenza e dall’incredulità (vv.13-15); Gesù, infatti, sale in barca e si allontana dalle folle, ne prende le distanze, mentre le folle rimangono ferme sulla spiaggia, incapaci di avvicinarsi a Gesù (v.2), contrariamente a quanto invece fanno i suoi discepoli (v.10.36). Ora il tema della famiglia carnale di Gesù e dell’incredulità, che segna una svolta nell’attività missionaria di Gesù (v.11), viene ripreso a conclusione del cap.13 e applicato non più soltanto alle folle, ma esteso anche all’intero mondo giudaico, alla sua famiglia carnale e alla stessa comunità matteana (v.57b), proveniente dal giudaismo. Una comunità che doveva avere dei problemi nei confronti della nuova fede, se Matteo, al termine della missione terrena di Gesù, ricorda che i discepoli si prostrarono davanti al Risorto, ma alcuni dubitavano ancora di lui (Mt 28,17).

 

La pericope è delimitata da una doppia inclusione, che forma una sorta di doppia cornice entro la quale viene posto il tema dell’incredulità, estesa all’intero popolo giudaico. La prima inclusione è data dalla parola “patria” in 13,54a e in 13,57b; un nome collettivo che indica come il contenuto dell’inclusione riguardi la generalità del popolo ebreo. La seconda inclusione è data dall’espressione “Da dove viene a costui tale sapienza e i miracoli?” in 13,54b, che trova il suo corrispondente in 13,56b: “Da dove, dunque, a costui tutte queste cose?”. Due interrogativi questi che spingono il lettore ad accentrare la propria attenzione sulla ricerca dell’identità di Gesù o meglio sulla sua provenienze, alludendo larvatamente alla sua trascendenza divina. Ma gli interrogativi contenuti nei vv.55-56a dicono come la ricerca viene posta, invece, nell’ambito di un’area squisitamente umana e storica, proprio quell’area che Gesù in 12,49-50 aveva ripudiato, aprendosi, invece, e aprendo ogni credente ad una nuova dimensione, qualificata dalla ricerca e dall’attuazione della volontà del Padre.

 

Il v.54 è costituito da tre passaggi: a) Gesù è giunto nella sua patria; b) ammaestra nella loro sinagoga; c) reazione di stupore all’insegnamento di Gesù, che fa andar fuori di sé i suoi concittadini (™kpl»ssesqai, ekpléssestai, essere sconvolto, turbato).

 

Dopo la sua decisione di dare una svolta alla sua attività missionaria (Mt 13,10-11), a motivo dell’incredulità e delle resistenze incontrate (Mt 11,20-24; 13,15), Gesù rientra nella sua patria. Sia Matteo che Marco, da cui il primo evangelista dipende, non specificano il nome di questa patria, che invece Luca indica come Nazareth, “dove [Gesù] era stato allevato” (Lc 4,16a). Il termine patria, dunque, non va qui inteso nel senso esclusivo di un territorio proprio di una nazione, legato alla propria identità, ma come il luogo delle origini di Gesù, dove egli aveva lasciato la sua famiglia e i suoi affetti[89]. Tuttavia, considerato che l’autore non definisce questa patria con il nome di Nazareth e pensando al contesto di incredulità, che permea l’intera pericope (vv.54-58), e dell’immancabile polemica, che Matteo fa filtrare larvatamente tra le righe (“nella loro sinagoga”), non è da escludere che con tale termine l’autore volesse riferirsi in senso lato anche ai suoi connazionali[90]. Qui a Nazareth Gesù sembra svolgere per qualche tempo la sua attività di insegnamento. Dal contesto, infatti, l’ammaestramento di Gesù ai suoi compaesani non sembra essere un fatto occasionale ed episodico, come invece precisano gli altri due Sinottici (Mc 6,2; Lc 4,16). In Matteo, infatti, non viene precisato in quale giorno Gesù insegnava nella loro sinagoga, benché questo sia da supporre di sabato; ma è il verbo ammaestrare, posto all’imperfetto indicativo (™d…dasken, edídasken, insegnava), che indica un’azione ripetuta e prolungata nel tempo[91]. Inoltre i suoi compaesani non stupiscono soltanto per la sua sapienza, ma anche per i miracoli compiuti da Gesù davanti a loro (v.54c). Quindi non sembra che la presenza di Gesù a Nazareth si sia limitata solo ad un giorno di sabato, come, invece, indicano nel passo corrispondente gli altri due Sinottici. Dall’insieme si ha l’impressione che Gesù abbia insistito con la sua predicazione e la sua opera presso i suoi concittadini. Certamente la sottolineatura di ordine temporale, a nostro avviso, non ha una valenza di tipo storico, bensì teologico. Matteo, infatti, indicando la predicazione di Gesù ai nazzareni come persistente (verbo all’imperfetto) e il manifestarsi della sua opera potente (dun£meij, dinámeis, segni di potenza[92]), li carica anche di una grave responsabilità a motivo della loro incredulità. Il clima diventa ancor più pesante, ma soprattutto polemico, quando l’evangelista precisa che Gesù insegnava nella “loro sinagoga”. Matteo non sente più la sinagoga come un luogo di culto che gli appartiene, non fa più parte della sua cultura e non è più espressione della sua religiosità. Egli cita nove volte il termine sinagoga e per sei volte lo fa precedere dall’aggettivo possessivo “vostre” e “loro”[93], per sottolinearne tutta l’estraneità. In Marco e Luca tale modo di esprimersi compare soltanto una volta (Mc 1,39; Lc 4,15).

 

Il v.54 termina con una duplice reazione da parte dei nazzareni: a) lo stupore di fronte alla predicazione di Gesù e alla sua opera; b) il loro interrogarsi sull’origine della sapienza e della potenza, che si sprigionano dal loro concittadino. Quest’ultima parte del versetto non esprime di fatto un atteggiamento negativo da parte dei compaesani di Gesù, anzi essi si pongono di fronte a Gesù e alla sua opera nel modo giusto: stupiscono e si interrogano. Ma questo atteggiamento positivo, posto nelle mani di Matteo, si trasforma in un’arma a doppio taglio, che si riverserà di fatto in un pesante atto di accusa di pervicace cecità e di incredulità (v.58). Il verbo “™kpl»ssesqai” (ekpléssestzai, così da essere stupiti), infatti, è posto al passivo, che nel linguaggio biblico rimanda all’azione divina, così come lo stupore costituisce la normale reazione dell’uomo di fronte al manifestarsi del numinoso. Il loro stupore, pertanto, ha una stretta attinenza con l’agire di Dio, che si manifesta nella sapienza e nella potenza di Gesù e che loro in qualche modo hanno colto e ne sono rimasti colpiti. Ed è questo stupore che spinge i nazareni ad interrogarsi; e l’interrogarsi è il preambolo di una ricerca, che dovrebbe condurre l’uomo in seno a Dio, poiché proprio per questo Dio si manifesta all’uomo. Giovanni, in chiusura del suo vangelo, sottolineando le finalità del suo racconto, evidenzia proprio questo aspetto: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31). La ricerca, come si è visto sopra, verte sull’identità di Gesù o, per meglio dire, sull’origine del suo sapere e della sua potenza (pÒqen, pótzen, da dove) ed è evidenziata dall’inclusione data dalle espressioni “Da dove a costui tale sapienza e i miracoli?” (v.54c) e “Da dove, dunque, a costui tutte queste cose?” (v.56b). La ricerca, quindi, passando attraverso le opere di Gesù e la sua parola, dovrebbe condurre i nazzareni all’origine della sua sapienza e della sua potenza. Ma a causa della loro incredulità non riescono a superare gli aspetti visibili e tangibili che accompagnano e circondano la figura di Gesù: “Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?” (vv.55-56a). Matteo elenca in questi versetti l’intera famiglia carnale di Gesù[94]: il padre, conosciuto per la sua attività di falegname o carpentiere; la madre, individuata nel preciso nome di Maria; i fratelli, i cui nomi sono noti all’interno della chiesa primitiva, in particolar modo quello di Giacomo, conosciuto anche da Paolo con l’appellativo de “il fratello del Signore” (Gal 1,19); ed infine, un numero imprecisato di sorelle. Ma è proprio questa numerosa famiglia carnale, che Gesù ha disconosciuto in 12,47-50, indicando, invece, come i suoi più stretti familiari “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Ciò, dunque, che lega Gesù a chi gli sta intorno non è la carne e il sangue, ma il vincolo dello Spirito, che a tutti fa gridare “Abbà, Padre” (Gal 4,6[95]). L’indagine porta i nazzareni a cercare l’origine di Gesù all’interno del ristretto e relativo spazio della storia, poiché manca in loro la disponibilità ad andare oltre. Per questo il Gesù matteano redarguirà i loro capi definendoli “guide cieche” (Mt 15,14; 23,16.24), incapaci di vedere per la loro indisponibilità interiore. Ma nel contempo, lascia intendere come la ricerca della vera provenienza della sapienza e della potenza di Gesù vada ricercata altrove, oltre la carne e il sangue, poiché “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17).

 

I vv.57-58 sono scanditi in tre parti: a) la reazione dei nazareni nei confronti di Gesù (v.57a); b) la reazione verbale di Gesù di fronte allo scandalizzarsi dei suoi compaesani (v.57b); c) la reazione fattuale di Gesù di fronte all’incredulità persistente (v.58).

 

Il v.57a costituisce la risposta dei nazareni all’ammaestramento di Gesù (v.54b): “E si scandalizzavano di lui”. La reazione di stupore e di sbalordimento (v.54c), che essi provarono nei confronti del loro concittadino, per la sua sapienza e la sua potenza, lasciava trasparire come questi avessero colto nell’immediato la natura divina dell’operare di Gesù; un’intelligenza, tuttavia, che si oscurò e andò perduta quando la loro prima comprensione si scontrò con la realtà storica e umana di Gesù. La questione gira tutta attorno a quel “pÒqen” (da dove), ripetuto due volte (vv.54.56). Essi cercavano l’origine e la provenienza dell’agire di Gesù, ma non seppero andare oltre alla sua dimensione orizzontale; su questa inciamparono e caddero in una persistente incredulità, che li chiudeva ad ogni prospettiva salvifica. Era inaccettabile per loro l’idea di un Dio-uomo.  Il verbo “™skandal…zonto” (escandalízonto, si scandalizzavano) viene posto all’imperfetto indicativo, che indica un’azione sorta nel passato, ma che persiste nel tempo, denunciando in tal modo la chiusura definitiva nei confronti di Gesù, causa dell’inciampo (™n aÙtù, en autô). Paolo nella sua Lettera ai Romani commenterà proprio questo atteggiamento di chiusura dei giudei nei confronti di Gesù, presentato come inciampo alla loro fede e alla loro conversione: “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d'inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso” (Rm 9,30-33). In altri termini, i giudei non seppero cogliere in Gesù l’azione stessa di Dio, da un lato, per la loro congenita incapacità di saper coniugare l’umano con il divino; dall’altro, per il loro caparbio rifiuto di accettare la novità dell’evento Gesù, così che egli “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11).

 

A questo atteggiamento di pervicace chiusura nei suoi confronti Gesù risponde in due modi: citando un proverbio (v.57b); limitando la sua potenza salvatrice a causa della loro incredulità.

 

Matteo dipende per il proverbio da Marco, ma vi apporta una leggera modifica, togliendo la voce “parenti”. Il secondo evangelista, infatti, sottolinea come il disprezzo verso il profeta si fosse realizzato in tre aree: in patria, tra i parenti e nella sua casa (Mc 6,4), sottolineando il largo e diffuso dissenso nei suoi confronti. Il primo evangelista, forse per non affondare la spada della sua polemica nella cerchia del parentado di Gesù, che comunque aveva già velatamente colpito in 12,46, presentandolo come quello che non segue Gesù, ma se ne sta fuori e in disparte, toglie la diretta allusione ai parenti, forse troppo esplicita e personale, lasciandola probabilmente sottointesa nel termine “casa”, che definisce “sua”, cioè di Gesù. Il termine casa, quindi, per Matteo acquista una duplice valenza: allude al parentado di Gesù (sua) e, nel contempo, alla stessa comunità matteana, la quale, di origine giudaica e non completamente distaccata dalla Legge mosaica, presentava ancora delle difficoltà a credere pienamente in Gesù (Mt 28,17).

 

Significativa, inoltre, la sottolineatura del profeta disprezzato, che allude in qualche modo al destino stesso di Gesù[96], il profeta escatologico, l’ultimo appello che il Padre rivolge all’umanità, chiamandola a raccolta attorno a lui, ma inutilmente. E Matteo ricorderà questo aspetto in 23,37: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!”. Vi è, dunque, nel proverbio citato un’accusa che non risparmia nessuno (patria e casa) e una velata allusione alla triste sorte di Gesù.

 

Il v.58 chiude l’intero cap.13 con una nota dolente: “E non fece là molti miracoli a causa della loro incredulità”. Un’espressione questa che sintetizza il senso dell’intero capitolo: Gesù ha scelto di parlare attraverso il linguaggio metaforico delle parabole, criptando con questo i misteri del Regno, a motivo dell’incredulità della sua gente (v.15). Ma la parola che opera non è mai disgiunta dall’azione, per cui anche la sua potenza salvifica viene solo accennata in qualche miracolo. Nello stesso contesto (Mc 6,1-6) Marco più significativamente commenta l’azione di Gesù: “E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì” (Mc 6,5). Marco qui distingue il prodigio dalla guarigione miracolosa: nel primo vi è la manifestazione del numinoso, coglibile soltanto attraverso la fede; nel secondo c’è soltanto ciò che appare: l’azione di un terapeuta.

 

 

 

                                                                                                                                                                                                  Giovanni Lonardi

 

 

 

 

 

NOTE
 

[1] Cfr. Mt 6,10; 26,42; Lc 22,42; Gv 6,38

[2] I cinque grandi discorsi di Gesù sono posti tra loro in un rapporto di parallelismo convergente secondo lo schema A), B), C), B1), A1) in cui il terzo grande discorso sul Regno, è posto centralmente in C). Questa centralità evidenzia l’importanza che l’evangelista ha voluto attribuire al terzo discorso. In tal senso cfr. la Premessa al commento dei Capp. 5-7, presente in questa opera.

[3] Il vangelo matteano si struttura secondo uno schema che alterna i cinque grandi discorsi con i racconti sull’attività di Gesù, così come di seguito illustrato:

 

       1) Primo discorso: 5,1 - 8,1

                                                                             a) Racconti sull’attività di Gesù:   8,2 – 10,4

       2) Secondo discorso: 10,5 – 11,1      

                                                                             b) Racconti sull’attività di Gesù: 11,2 – 13,2

       3) Terzo discorso: 13,3 - 53

                                                                             c) Racconti sull’attività di Gesù: 13,54 – 17,27

      4) Quarto discorso: 18,1 – 19,1

                                                                             d) Racconti sull’attività di Gesù: 19,2 – 23,29

      5) Quinto discorso: 24,1 – 26,1

                                                                             e) Racconti sull’attività di Gesù: 26,2 – 16

 

In tal senso si cfr. anche  la voce “data di composizione” nella Parte Introduttiva della presente opera.

 

[4] Sul significato simbolico dei numeri cfr. M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici; voce “Numero” in Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia. Tutte le opere citate.

[5] Cfr. Ef 1,10; Col 1,16b

[6] Il tema delle due vie, quella del bene e quella del male, della vita e della morte, costituisce una sorta di ritornello che percorre l’A.T. e mette in guardia il popolo perché faccia la sua giusta scelta. In tal senso cfr. Gen 2,9; Dt 30,15-20; Sal 1,1-6; Prv 4,18-19; 12,28; 15,24; Sir 15,17; 33,14; Ger 21,8.

[7] Termine greco che letteralmente significa “tre volte santo”.

[8] In proposito O. da Spinetoli afferma: “La frase “in quel giorno” è stereotipa, ma non è improbabile che nella mente dell’evangelista richiami una “giornata” particolare, che ha segnato una svolta nella vita di Gesù”. Cfr. O. Spinetoli, Matteo, op. cit. – pag..375

[9] Cfr. la voce “Casa” e “Mare” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1990; J. Mateos – F. Comacho, Vangelo: figure e simboli, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1997.

[10] Cfr. Is 17,12.13; 60,5; Sir 39,33; Ez 26,3.5; 32,2; Sal 64,8; Ap 17,15.

[11] Cfr. Mt 5,1; 13,2; 19,28; 20,23; 23,2; 24,3a.4a; 26,55; 26,64; Mc 9,35; 10,37.40; 14,62; 16,19; Lc 2,46; 4,20; 5,17; 22,69; Gv 8,2;

[12] Cfr. Mt 9,18.33; 10,19.20; 12,22.36.46; 13,3.10.13.33.34; 17,5; 23,1; 26,13.47; 28,18.

[13] Cfr. Mt 3,1; 4,17.23b; 9,35b; 10,7; 11,1; 26,13.

[14] Cfr. Mt 4,23a; 5,2; 7,29; 9,35a; 11,1; 13,54; 21,23; 26,55.

[15] Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. – nota 2 di pag. 304

[16] Cfr. Mt 28,17; Mc 3,21; Gv 6,60.64.66; 7,5; 12,37

[17] Cfr. la voce “La struttura del cap.13”, sottovoce “Parte Introduttiva”, pag.5 del presente commento al cap.13.

[18] Cfr. il titolo “la comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[19] Luca vede la missione di Gesù come un cammino rivolto verso Gerusalemme e struttura l’intero suo racconto evangelico attorno a questo cammino di sofferenza per la redenzione, a partire dal cap.9,51 al cap. 19,28. Tuttavia l’orientamento di Gesù verso Gerusalemme compare già nel vangelo dell’infanzia, che funge da prologo al vangelo stesso. Gesù viene portato al tempio di Gerusalemme dove viene offerto al Signore (Lc 2,22); ed è qui a Gerusalemme  che il vecchio Simeone attendeva il conforto d’Israele (Lc 2,35) e con lui quanti speravano nella redenzione di Gerusalemme (Lc 2,38); a Gerusalemme Gesù tornerà per la festa di Pasqua e qui a Gerusalemme rimarrà per conversare con i dottori della Legge, e a Gerusalemme torneranno per cercarlo i suoi genitori (Lc 2,38-45). A Gerusalemme lo condurrà satana nella terza tentazione, dove verrà elevato sul pinnacolo del Tempio (Lc 4,9), che in qualche modo prelude al suo innalzamento sulla croce e dove il diavolo tornerà al momento fissato (Lc 4,13b). L’importanza di Gerusalemme nel vangelo lucano è rilevata anche dal numero di volte che il nome compare: 30 volte, contro le 36 complessive che si trovano negli altri tre vangeli (12 in Mt; 11 in Mc e 13 in Gv).

[20] Cfr. il titolo “Luogo e data di composizione” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[21] Marco scrive il vangelo tra il 65 e il 69, quasi certamente a Roma, dove era già formata una solida, numerosa quanto florida comunità cristiana, impegnata in un’attività missionaria molto feconda e aperta all’annuncio universale del Vangelo, favorevole all’integrazione dei pagani. La visione, quindi, non poteva essere che positiva e tendente all’ottimistico, nonostante le immancabili difficoltà, le forti tensioni, per motivi di proselitismo, con la locale comunità ebraica molto numerosa, e gli inevitabili pericoli provenienti dal mondo pagano e dalle autorità imperiali. Per questo, probabilmente, Marco vede un successo crescente del Vangelo rivolto al mondo pagano, terra di conquista. Forse per questo nella parabola marciana del Seminatore i numeri sono crescenti. Diversamente per Matteo che, invece, si rivolge ad una comunità di giudeocristiani ed opera in Palestina, in mezzo alla coriacea società giudaica, chiusa ed aggressiva nei confronti di qualsiasi annuncio, che la possa distogliere dalla Torah. Probabilmente per questo la visione di Matteo è tendente al pessimismo e, di conseguenza, i numeri sono decrescenti. – Sulla comunità di Roma, cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.

[22] Per una maggiore trattazione dell’espressione proverbiale, cfr. il commento al v.15 del cap.11 della presente opera.

[23] Cfr. Dt 29,3; 2Cr 7,15; Sal 114,6; Sir 3,28; 6,33; 17,5.11; Is 6,10; 42,20; 43,8; 50,4-5; 55,3; Ger 5,21; 7,24.26; 11,8; 17,23; 25,4; 44,5; Bar 2,31;3,9; Ne 9,30; Prv 15,31.

[24] Nel linguaggio biblico il verbo al passivo ha come soggetto Dio e tecnicamente viene definito “passivo teologico o divino”.

[25] Cfr. Mt 11,25; 16,17; Lc 10,21; Gv 6,44.65;

[26] Cfr. Lc 7,30; At 2,23; Rm 8,28; 9,11; 1Cor 1,21; Ef 1,4.10.11; 3,11; 1Tm 1,4.

[27] Cfr. Gv 4,34; 5,30; 6,38; Rm 16,25-26.

[28] Quando Paolo parla di predestinazione, questa non va intesa nei drammatici termini luterani di chi, al di là del bene o del male, ha il suo destino di salvezza o di dannazione già preconfezionato da una imperscrutabile volontà divina, contro la quale l’uomo non può fare nulla se non subirla suo malgrado. Una simile prospettiva dequalifica l’uomo e lo rende sostanzialmente non responsabile delle sue azioni. La predestinazione paolina, invece, si riferisce ad un piano salvifico divino predeterminato da Dio e a lui coeterno (Ef 1,4), attuato per mezzo di Cristo (Ef 1,10), e destinato a ricondurre tutti gli uomini in seno a Dio, per condividere con Lui la sua vita. Il piano salvifico di Dio, dunque, non è discriminante, ma onnicomprensivo, poiché per sua natura Dio è Amore (1Gv 4,8.16), cioè totalmente accogliente. È la risposta esistenziale che l’uomo dà a questo piano salvifico, pensato da Dio fin dall’eternità, che lo discrimina. Non Dio, quindi, discrimina l’uomo, ma questi si autoesclude dal disegno salvifico, che gli viene offerto. La volontà di Dio, infatti, è che tutti gli uomini siano salvi (Rm 5,15.18; 1Tm 2,3-4; 4,10; Tt 2,11) e a tutti, indipendentemente dalla loro condizione di vita, ha offerto gratuitamente il perdono, così che “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). In tal senso cfr. la voce”Elezione e predestinazione” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), seconda edizione 2000.

[29] Cfr. R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo, opp. citt.

[30] Cfr. Gv 3,18; 5,24.27; 9,39;12,31.

[31] Le parabole che parlano esplicitamente del Regno dei cieli nel vangelo di Matteo sono dieci: Il grano e la zizzania (13,24-30); il granello di senape (13,31-32); il lievito (13,33); il tesoro nel campo (13,44); la perla preziosa (13,45-46); la rete gettata nel mare (13,47-50); il servo malvagio (18,23-34); i lavoratori nella vigna (20,1-15); il banchetto di nozze (22,2-13); le dieci vergini (25,1-12).

[32] Il termine mistero deriva dal verbo greco mÚw, che significa “mi chiudo, sto chiuso, chiudo”. Quindi il mistero è ciò che è chiuso e, pertanto, nascosto.

[33] Sovente in Matteo ricorre, esplicitamente o implicitamente, l’elemento del giudizio divino che Dio pone sull’invincibile incredulità dei giudei. Questa forte insistenza sul giudizio divino lascia trasparire in qualche modo il clima di polemica che pervade profondamente il vangelo di Matteo.

[34] Cfr. Col 1,28; 1Ts 5,23; 2Ts 1,11; Ef 3,18-19; Eb 10,14; 12,2a.23; 13,21.

[35] Cfr. Gen 12,2-3.7; 22,17; 26,4.

[36] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, pag. 157, op. cit.

[37] Cfr. anche Rm 11,15a.17-18.28

[38] Cfr. il commento al v.9 del presente capitolo e la relativa nota 22.

[39] Cfr. il termine “cuore” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[40] Il verbo conoscere o il termine conoscenza acquistano spesso nel linguaggio biblico un significato concreto, diventando sinonimi di esperienza o esperimentare (Gen 19,8; Es 23,9; Nm 14,34; Dt 7,15; Gdc 11,39; 1Sam 3,7; 17,28; Sal 89,11; 90,14; Mt 1,25; Lc 1,34.77).

[41] Cfr. Gv 4,14; 6,63.68; 8,30

[42] L’avverbio Amen significa certamente, sicuramente, veramente, sì; esso deriva dalla radice ebraica ‘mn che dice fermezza, solidità, sicurezza. Pronunciare l’Amen significa proclamare con tono di solennità e, quindi, impegnativo per chi lo dice, che quanto si è detto è vero. Nei Vangeli compare 75 volte e si accompagna sempre al verbo dire (lšgw, légo), rafforzando in tal modo la veridicità di quanto si dice e su questo impegnando la persona stessa. Esso, quindi, è paragonabile ad una sorta di formula di giuramento, benché non impegni come questo. In Giovanni, unico tra gli evangelisti, la formula ricorre 25 volte ed è sempre raddoppiata: “'Am¾n ¢m¾n lšgw” (Amèn, amèn légo, In verità, in verità dico). In tal senso cfr. la voce “Amen” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[43] Questa concretezza del vedere, dell’udire e del toccare la pienezza della vita, manifestatasi in Gesù, viene testimoniata e mirabilmente evidenziata da 1Gv 1,1-4.

[44] Cfr. O. da Spinetoli, Matteo; A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico, opp. citt.

[45] Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit. – pag. 388

[46] Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, nota 17

[47] Cfr. la voce “la comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[48] Una testimonianza in tal senso ci viene da Paolo, che, nell’ambito della sua missione, dovette soffrire moltissimo per l’insistente e invadente azione di giudeocristiani giudaizzanti, i quali si infiltravano nelle comunità da lui evangelizzate e le reivangelizzavano, insegnando un cristianesimo filtrato attraverso la Legge mosaica, riconducendo i nuovi credenti, di fatto, sotto il giudaismo e vanificando in tal modo l’azione salvifica di Cristo e la novità dell’annuncio cristiano. In tal senso cfr. Gal 1,6-7; 3,1-2; 4,21; 5,1-4; 2Cor 11,3-5; 11,13. Gli esegeti hanno dedicato notevoli studi sul fenomeno sia per individuare l’identità di questi oppositori sia per meglio comprendere le dinamiche degli inizi. È probabile, quindi, che anche la comunità di Matteo non facesse eccezioni e fosse in qualche modo vittima di queste incursioni di giudaizzanti. Cfr. anche la voce “Oppositori di Paolo” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), Seconda edizione 2000.

[49] Su Papia vedi nota 5 della Parte Introduttiva della presente opera.

[50] Sul commento a questa espressione, riportata da Eusebio di Cesare nella sua Storia Ecclesiastica, cfr. la voce “Autore” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[51] Circa la composizione della comunità di Matteo e i suoi problemi, cfr. la voce “la comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[52] Il termine sondergut, nel campo dell’esegesi, indica il materiale proprio di un evangelista, che ha come fonte primaria  una fonte di sua personale conoscenza, o comunque non utilizzata da altri,  per cui quel particolare racconto si trova solo nel suo vangelo e non negli altri. Letteralmente potremmo tradurlo con “materiale proprio”.

[53] In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. – pag.314.

[54] In tal senso cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico; R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo. Tutte opere citate.

[55] Spesso il termine ™cqrÕj (ectzròs) viene interpretato come il diavolo o satana. A nostro avviso una simile interpretazione non è molto attendibile. Infatti, al v.28 questo nemico viene definito con “'EcqrÕj ¥nqrwpoj” (Ectzròs ántzopros), letteralmente “uomo nemico”. Il nemico, quindi, non va ricercata in una realtà soprannaturale, ma in un contesto umano, nel nostro caso quello giudaico e pagano.

[56] La zizzania o loglio è una graminacea che infesta i campi di grano ed è difficile da distinguere dal grano finché questo non ha messo la spiga. La sua radicazione è molto profonda e lo strapparla rischia di compromettere anche la pianta del grano stesso. Nella tradizione rabbinica essa, chiamata zunim, che rimanda al verbo zunâh (prostituirsi), è il simbolo del disordine morale. Non è, dunque, escluso che qui Matteo, rifacendosi al pensiero profetico, usi questo termine quale atto di accusa verso un Israele che si dimostrò infedele e adultero e tale da respingere le novità portate da Gesù. (L’elaborazione della presente nota è stata liberamente tratta da R. Fabris, Matteo, nota 4 do pag. 316 – op. cit.)

[57] Cfr. Gen 12,3; 18,18; 22,18; Es 19,4-6; Tb 13,3-4.

[58] Sulla questione cfr. il commento a 12,43-45 e relativa nota 157 della presente opera.

[59] Cfr. Mt 15,9; 16,12; Mc 7,7

[60] Cfr. Mt 13,15; 15,8; Mc 7,6; At 28,27.

[61] Cfr. Ez 36,24-29;

[62] Sulla questione cfr. il commento a 12,7 della presente opera.

[63] Cfr. Gv 3,15.36; 5,24; 6,33.47.51; 10,10.28; 17,2; 20,31

[64] Sul tema dell’elezione di Israele nell’ambito della salvezza e del suo tradimento cfr. Rm 9-11.

[65] Nel linguaggio profetico, che ha trovato una certa risonanza anche negli scrittori neotestamentari, sovente la mietitura allude al giudizio di Dio e alla sua azione punitrice. In tal senso cfr. Is 17,5; Ger 8,13; 51,33; Os 6,11; Mt 13,30.39; 25,24; Mc 4,29; Lc 19,21; Ap 14,15-16.

[66] Cfr. nota 24 del commento ai capp. 11-12 della presente opera.

[67] Cfr. la voce “Piante” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e R. Fabris, Matteo – opp. citt.

[68] Cfr. Ez 17,23; 31,5-6; Dn 4,9.18. – In tal senso cfr. anche R. Fabris, Matteo, nota 4 di pag. 319 – op. cit.

[69] Nell’antichità il lievito altro non era che un po’ di pasta vecchia, precedentemente fermentata e conservata in acqua. Esso era usato nella panificazione e veniva impastato con della pasta fresca così da farla fermentare, rendendola soffice e di più facile cottura. A sua volta, un po’ di questa nuova pasta fermentata veniva conservata in acqua per l’impasto successivo. Quanto al culto, il lievito era proibito per tutte le oblazioni bruciate sull’altare (Lv 2,11) e per le offerte del sacrificio di comunione (Lv 7,12), così come era proibito offrire pane lievitato insieme ai sacrifici cruenti (Es 23,18; 34,25); mentre per il sacrificio di ringraziamento era consentito il pane lievitato (Lv 7,13). Il lievito è anche legato alla liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto. A motivo della sua fuga precipitosa, il popolo non ebbe il tempo di far fermentare il pane, mangiandolo azzimo, cioè non fermentato (Es 12,34). In ricordo di ciò venne istituita la festa degli Azzimi, della durata di una settimana (Es 12,15.19.20; Lv 23,6; Dt 16,3-4). Durante tutto il tempo, era fatto divieto di mangiare pane lievitato con la vecchia pasta fermentata. Pertanto, alla vigilia si compivano scrupolose e profonde pulizie della casa, perché non rimanessero resti di cibi fermentati, né alcuna briciola spersa in qualche cassetto o nelle tasche dei pantaloni. Terminate le pulizie, il padrone di casa, recitata una preghiera di benedizione, ispezionava attentamente la casa per controllare se queste fossero state compiute diligentemente. Le stoviglie, che avevano contenuto cibi fermentati venivano rese kosher, cioè nuovamente idonee ad essere usate. Nel N.T. il lievito assume significati simbolici ed è prevalentemente la metafora della corruzione e del peccato, il simbolo di un mondo vecchio al quale il nuovo credente non appartiene più. In tal senso cfr. Mt 16,6.11-12; Mc 8,15; Lc 12,1; 1Cor 5,7-8. Tuttavia, proprio per la sua azione di fermentazione, che gonfia e trasforma l’intera pasta in cui viene inserito, il lievito acquista nel passo in esame (13,33), e soltanto qui, un significato positivo.

[70] Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

[71] Il testo del Sal 78,2 recita: “Aprirò la mia bocca in parabole, farò risuonare gli enigmi che erano dal principio”. Traduzione personale dal testo greco della LXX.

[72] In tal senso cfr. il commento ai vv.1-2 del presente capitolo (pagg. 6-7)

[73] Cfr. il commento introduttivo ai vv.24-30 (pag.21) del presente cap.13.

[74] Da una analisi interna al vangelo di Matteo, appare come la sua comunità, a cui è indirizzato il racconto, sia molto evoluta ed istituzionalizzata, con un forte senso della missionarietà ed una teologia e liturgia già sufficientemente elaborate. Un simile tipo di comunità può ben essere stata una sorta di esempio e di guida per altre realtà. Per una migliore comprensione della comunità di Matteo cfr. la voce “la comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[75] Cfr. Il termine “Scandalo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[76] Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. – pagg. 323-324.    

[77] Cfr. Rm 1,18-32; 14,13-16; 1Cor 1,10-12; 5,1-6; 8,9-13; 10,32; 2Cor 11,4-5.13-15; Gal 1,6-7; 1Ts 4,3-7; 1Gv 2,18-19; 4,1; 2Gv 1,7.

[78] Il termine “dikaiosÚnh” e il suo aggettivo “d…kaioj” ricorrono 190 volte nel N.T. Nel linguaggio paolino esprimono, per quanto concerne Dio, la fedeltà al suo progetto salvifico a favore dell’uomo; per ciò che concerne l’uomo, il suo fedele conformarsi esistenzialmente al disegno salvifico di Dio, rivelatosi nel suo Figlio. In quest’ultimo caso la giustizia dell’uomo ha sempre il suo fondamento nella natura e nell’azione di Dio stesso. Per un maggior approfondimento cfr. il lemma “Giustizia, Giustizia di Dio” in Dizionario di Paolo e delle sue Lettere, a cura di G.F. Hawthorne, R.P. Martin, D.G. Reid; - Edizione Italiana a cura di Romano Penna – Ed. San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), Seconda Edizione 2000.

[79] Non deve destare stupore la cosa, poiché all’epoca non c’erano né banche, né caveaux, né casseforti. I pericoli di continue guerre, rappresaglie, scorribande di banditi o soldataglia non erano infrequenti. Chi possedeva dei beni preziosi li nascondeva in qualche luogo sicuro, sotto terra. In tal senso cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico, op. cit.; O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

[80] Il greco possiede due termini per indicare l’uomo: an»r, che significa un uomo particolare, uomo valoroso, nobile, eccellente; e ¥nqrwpoj, che si riferisce alla generalità degli uomini, come nel nostro caso.

[81] Matteo usa qui l’imperfetto indicativo del verbo œcw (eŒcen, eîchen, aveva) per indicare il possesso persistente di un bene proveniente dal passato (Legge mosaica), ma che ora non si ha più. Su questo gioco dell’avere avuto prima e del non avere più ora si fonda il sollecito ad abbandonare un passato che non esiste più, poiché Cristo, ora, è la nuova realtà (Rm 7,6; 1Cor 5,7; 2Cor 5,17; Gal 5,1-6; Ap 21,1).

[82] L’inclusione rilevata è doppia: la prima per somiglianza di immagini e di temi (v.41 e v.49); la seconda per identicità di espressioni (v.42 e v.50).

[83] Tecnicamente il verbo al passivo è definito come passivo teologico o divino.

[84] Cfr. Gv 3,17; Rm 1,16; 10,13; 1Tm 2,4;4,10; Tt 2,11.

[85] Il verbo plhrÒw (pleróo) oltre che riempire significa anche portare a compimento.

[86] Cfr. la voce “L’Autore” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[87] Cfr. la Parte Introduttiva, pagg. 14 e 15, della presente opera.

[88] Sul tema delle conclusioni dei cinque grandi discorsi di Gesù cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag. 14.

[89] Secondo il racconto matteano, dopo la morte di Erode il Grande (4 a.C.) la famiglia di Gesù ritornò in patria dall’Egitto (Mt 2,19-21). Ma governando la Giudea Archelao (Mt 2,22), succeduto al padre e noto per la sua crudeltà, a causa della quale fu destituito nel 6 d.C. da Cesare Augusto ed esiliato a Vienne (Francia), Giuseppe, deviò da Betlemme e si trasferì a Nazareth in Galilea (Mt 2,23). Qui Gesù visse fino al momento della sua attività pubblica. Da qui partì e prese dimora a Cafarnao, sulle rive del lago (Mt 4,13), dove stabilì il suo quartier generale. Il ritorno di Gesù a Nazareth, dove egli ha vissuto per circa trent’anni, pertanto, è una sorta rimpatriata.

[90] Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit.

[91] Contrariamente a Matteo, gli altri due Sinottici circoscrivono l’insegnamento di Gesù in giorno di sabato e i verbi che gli si riferiscono sono posti tutti all’aoristo: “½rxato did£skein” (Mc 6,2); “¢nšsth ¢nagnînai” (Lc 416). L’idea che qui se ne ricava è quella di un fatto episodico.

[92] Così i Sinottici indicano i miracoli compiuti di Gesù, poiché in essi vi leggono l’agire potente e salvifico di Dio a favore dell’uomo. Diversamente Giovanni definisce i miracoli come “segni” (shme‹a, semeîa), che, in quanto tali, spingono l’ascoltatore a non fermarsi davanti all’apparenza del numinoso o dello strabiliante, ma ad andare oltre, cogliendo la realtà divina che vi si nasconde e in essi vi è significata.

[93] Cfr. Mt 4,23; 9,35; 10,17; 12,9; 13,54; 23,34

[94] Lo stato attuale della ricerca circa i fratelli e le sorelle di Gesù è sostanzialmente riassumibile in tre posizioni: 1) sono veri fratelli carnali di Gesù, nati da Giuseppe e Maria; 2) sono figli di Giuseppe, che gli sono nati da un precedente matrimonio e, quindi, più che fratelli o sorelle si dovrebbe parlare di fratellastri e sorellastre; 3) si tratta non di fratelli o sorelle in senso stretto, ma di parenti di Gesù. Il termine ebraico ‘ah, infatti, estende il suo significato ben oltre a quello di fratello carnale, abbracciando l’intera parentela. In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo, nota 2 di pag.297, op. cit.

La questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù è una questione tutta interna alla Chiesa cattolica, a motivo del dogma sulla verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. Circa i sopra menzionati punti 2) e 3) non c’è nulla che li sostenga in modo serio. Infatti, quanto ai figli di Giuseppe, ereditati da Maria e da Gesù, ne parla il Protovangelo di Giacomo, un apocrifo del II sec. Una soluzione questa che troverà numerosi sostenitori nel mondo dell’antica patristica greca e siriaca, ma scarsa risonanza in quella latina. Una soluzione questa che S.Girolamo squalifica come “espressione delirante degli apocrifi”. Da parte sua il Padre della Chiesa suggerisce, invece, un’altra soluzione: egli si rifà all’ebraico ‘ah il cui significato, come abbiamo visto sopra, ha un senso più ampio del semplice fratello carnale, estendendosi, a motivo della povertà linguistica dell’ebraico, anche alla parentela. Tuttavia va precisato che, nonostante i nomi ¢delfÒj/¢delf» (adelfós/adelfé) che ricorrono circa 833 nell’A.T., vengano estesi talvolta anche alla parentela, questi, di fatto, sono usati quasi sempre per indicare i fratelli/sorelle di tipo carnale o in senso metaforico; soltanto poche volte assumono anche il significato esteso di parente. Questa soluzione, tuttavia, è ancor oggi il cavallo di battaglia del mondo cattolico. Sennonché i vangeli e gli scritti neotestamentari in genere sono stati stesi in lingua greca e non in quella ebraica. Questa, la lingua greca, possiede una vastissima gamma di termini per indicare i vari gradi di parentela (i termini da me rilevati sono 21), per cui gli autori avrebbero potuto ricorrere tranquillamente al ricco vocabolario greco, che definisce la parentela in tutte le sue sfumature. Va poi sottolineato come gli autori neotestamentari dimostrino di saper distinguere i fratelli o le sorelle dai parenti o dalla parentela, per i quali usano il termine appropriato di “suggen…j” (singhenís, parente) o “suggene…a” (singheneía, parentela), termine questo che ricorre 16 volte negli scritti neotestamentari. Luca, inoltre, sa accostare e distinguere i fratelli dai parenti, usando termini greci appropriati per l’una e per l’altra categoria (Lc 14,12; 21,16). Da ultimo, va detto che il termine fratello e sorella ricorre nel N.T. circa 334 volte ed è sempre usato o in senso proprio di fratello e sorella carnali o in senso metaforico di correligionario, appartenente alla stessa fede, o di connazionale. Non si capisce, quindi, perché gli evangelisti, parlando di fratelli o sorelle di Gesù, avrebbero dovuto intenderli nel senso di cugini o parenti in senso lato, quando per questi termini avevano a disposizione un’ampia scelta di vocaboli, che, all’occorrenza, hanno sempre usato in modo appropriato. Lo stesso Paolo parla in senso generale di “fratelli del Signore” (1Cor 9,5) e di “Giacomo, fratello del Signore” (Gal 1,19). Del resto, lo stesso Tertulliano, nell’ambito della difesa dell’umanità di Gesù, nel commentare il passo evangelico della madre e dei fratelli di Gesù venuti a trovarlo (Mt 12,46-50), parla apertamente in Adversus Marcionem 4,19 di vera madre e di veri fratelli di Gesù (“et vere mater et frates eius”).

Qui non si vuole sostenere una tesi piuttosto che un’altra, né prendere una posizione contro qualcuno o contro qualcosa, ma si vuol rilevare, necessariamente in modo sintetico, soltanto i dati che ci provengono da un’analisi degli Scritti neotestamentari. Sul tema ci sentiamo di poter condividere pienamente la tesi del Barbaglio. Questi, al termine della sua riflessione circa la questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù, afferma: “In conclusione, condivido quanto scrisse molti anni or sono M. Goguel: <<Per la storia non esiste affatto il problema dei fratelli di Gesù: esiste solo per la dogmatica cattolica>> (La Vie de Jésus, Paris 1932, 243). I due piani devono essere tenuti rigorosamente separati: il dato storico assai probabile, per non dire certo, dei fratelli uterini di Gesù non ha alcuna legittimità di proporsi come eversore di un dogma di fede; […]. Da parte sua la credenza di fede non può ergersi a giudice inappellabile in una questione storica”. (Cfr. G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea – Indagine storica, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2005).

[95] Cfr. anche Mc 14,36 e Rm 8,15

[96] In tal senso cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Ed Città Nuova Editrice, Roma, III edizione 2001.