IL VANGELO DI MATTEO

 

 

 

 

IL SECONDO  GRANDE DISCORSO DI GESù

 

 

 

 

DA DISCEPOLI AD APOSTOLI:  LA MISSIONE

 

 

 

 

 

Introduzione, analisi e commento

 

al cap. 10

 

 

 

 

 

 

 Introduzione

 

 

Se il primo grande discorso di Gesù (5,1-7,29) si presentava come un ammaestramento ai membri che compongono la nuova comunità messianica, caratterizzandoli nella loro nuova identità di credenti, il cap. 10 configura questa comunità come missionaria, concetto questo che implica quello di possedere la coscienza della propria identità e del proprio ruolo nei confronti della società e un mandato autoritativo da spendere in funzione e a favore degli altri.

 

Il tema del discepolato non è nuovo e, in qualche modo, già era stato preannunciato in 8,19-21, in cui l’autore evidenziava le impegnative e radicali esigenze del seguire Gesù; una scelta che comportava l’entrare nella stessa barca con Gesù, cioè condividere la sua sorte e l’accettare le difficili e spesso sofferte conseguenze di tale scelta radicale (8,23-26). Un discepolato che ha la sua radice profonda nella chiamata di Gesù (9,9).

 

L’apostolato, che ha la sua premessa nel discepolato, trova i suoi riferimenti nella persona stessa di Gesù, indicato, già in 9,35, come il parametro di raffronto dell’autentica apostolicità, mentre la motivazione, che la anima e la sostiene, attinge alla compassione misericordiosa di Dio nei confronti degli uomini e della quale il discepolo inviato è costituito testimone e araldo in mezzo ad essi (9,36). Potremmo, quindi, definire i vv. 9,35-38 una sorta di preambolo fondativo e introduttivo al cap.10 in quanto, da un lato, indicano nell’attività missionaria di Gesù il fondamento di ogni apostolato; dall’altro ne forniscono le motivazioni.

 

La struttura del cap. 10

 

Il cap. 10 costituisce il secondo grande discorso di Gesù ed è una sorta di contenitore di suoi numerosi detti, organizzati redazionalmente in sei parti, ognuna qualificata tematicamente. Nel loro insieme esse formano, in modo logico e coerente, una sorta di vademecum, di magna charta dell’apostolato, a cui l’inviato deve riferirsi. L’intero discorso è delimitato significativamente dall’espressione “i suoi dodici discepoli”, collocata in 10,1 e 11,1, formando in tal modo inclusione, una sorta di parentesi letteraria e tematica, che dà senso e significato all’intero discorso, quasi a dire che in esso si parlerà di loro e della loro missione, dando in tal modo compattezza e organicità all’intero capitolo.

 

È significativo, infine, notare come Matteo, a differenza degli altri Sinottici, inglobi in un unico grande capitolo l’intero tema missionario. Ciò lascia intendere il particolare interesse della comunità matteana, in cui si sente viva e operante la presenza del Risorto (28,20b), al tema dell’apostolato, maturato all’interno di una coscienza fortemente missionaria e aperta all’evangelizzazione delle genti (28,18-20).

 

 

La struttura

 

 

A) Identità e investitura dell’inviato (vv.1-4) definisce l’identità dell’inviato: esso è un discepolo, chiamato e rivestito di autorità, qualificato da un numero, dodici, che, come vedremo, più che definire una quantità indica una qualità e un’appartenenza.

B)  Prima Parte (vv.5-15): le norme circa lo svolgimento della missione. Vengono definiti il contenuto della missione (vv. 7-8) e le modalità della sua esecuzione in rapporto a se stessi (vv. 5-6.9-10) e agli altri (vv. 11-14). La prima parte si chiude con un richiamo al giudizio escatologico, posto sul comportamento di chi, rifiutando l’inviato, non ne accoglie l’annuncio (v.15).

C)  Seconda Parte (vv.16-25): i pericoli e le difficoltà a cui va incontro l’inviato. Il v.16, che funge da cornice introduttiva a questa parte, descrive, da un lato, il contesto avverso entro cui gli inviati si muoveranno (v.16a.17-18.21-22); dall’altro, delinea l’atteggiamento che essi dovranno tenere nell’affrontarlo (vv.16b.19-20.23). Nel suo insieme il contenuto è una messa in guardia (v.17a) di fronte alle difficoltà e alle sofferenze, che la missione in mezzo agli uomini comporta e che in qualche modo erano state anticipate nei vv.14-15. Questa seconda parte si conclude con una riflessione che rimanda il discepolo al suo maestro, parimenti incompreso e perseguitato (vv.24-25). Come dire: non aspettatevi un trattamento diverso.

D) Terza Parte (vv.26-31): un’esortazione ad affrontare le difficoltà senza timore. Questa parte è caratterizzata dal verbo “non temere”, ripetuto quattro volte (vv. 26.28.31) e posto sempre all’imperativo esortativo. Esso forma da struttura portante dell’intera pericope, definita, per inclusione, dallo stesso verbo posto in 26a e 31a. Il numero quattro, che nel linguaggio simbolico e metaforico indica la totalità, dice come il timore degli uomini e delle difficoltà che accompagnano la missione non devono mai costituire un impedimento o un ostacolo alla missione stessa.

E) Quarta Parte (vv.32-39): i motivi delle difficoltà della missione e le conseguenze di un comportamento timoroso. Questa pericope raccoglie alcuni detti di Gesù, giustapposti l’uno accanto all’altro, apparentemente senza ordine logico, ma tutti finalizzati, da un lato, a sanzionare l’inviato che si lascia sopraffare dalla paura, rinnegando l’annuncio di cui è portatore (vv.32-33.38-39); dall’altro, ad evidenziare i motivi che rendono difficile l’annuncio in se stesso, portatore di divisioni e di contrasti all’interno della società e della stessa famiglia (vv.34-37).

F) Quinta Parte (vv.40-42): la ricompensa per chi aiuta l’inviato. La ricompensa, legata alla figura della persona demandata all’annuncio, coinvolge colui che si presta a sostenere l’inviato, con il quale condivide il merito. Annunciatore, infatti, non è soltanto chi è preposto a tale incarico, ma anche colui che in vario modo lo sostiene.

 

 

 

Commento al cap. 10

 

 

 

 

vv. 1-4: questa breve pericope è costituita da due parti: a) la convocazione e l’investitura dell’autorità necessaria a compiere la missione (v.1); b) l’elenco dei nomi dei dodici apostoli, che Matteo presenta accoppiati, due a due (vv.2-4).

 

Il v.1 si apre con un verbo al participio aoristo (proskales£menoj, proskalesàmenos), che indica un’azione puntuale nel tempo, da cui è sgorgata la chiamata. Il riferimento, quindi, è storico e allude all’evento Gesù, soggetto del verbo, quale origine originante, da cui defluisce ogni attività salvifica. Ogni  atto salvifico inizia sempre con una chiamata, che nasce da Dio stesso[1]; e ogni chiamata è strettamente legata ad una missione, che ha per finalità il compimento storico della salvezza, che Dio genera da se stesso e affida all’uomo. La missione, quindi, frutto della chiamata, è il punto d’incontro tra la volontà salvifica divina e la disponibilità dell’uomo a farsi portatore, per conto e in nome di Dio, di tale salvezza; ma essa è anche il luogo dell’attuazione stessa della salvezza.

La chiamata, tuttavia, possiede in sé anche un potere trasformante, che assegna una nuova identità al chiamato. È significativo come nella creazione genesiaca Dio, dopo aver creato con la potenza della sua Parola[2], chiami la sua creatura per nome. L’atto creativo, infatti, chiama all’essere le cose, ma è soltanto con il definirle per nome che si dà loro sostanza e identità[3]. Solo in tal modo la creazione si compie pienamente. Similmente, il popolo d’Israele ai piedi del Sinai viene definito da Jhwh come sua proprietà, popolo di sacerdoti e nazione santa. Non era sufficiente, quindi, la sua liberazione dall’Egitto per costituirlo popolo di Dio, ma fu necessario che Dio ne definisse l’essenza, perché il popolo fosse chiamato a piena esistenza e si ponesse di fronte a Dio e alle genti con una sua precisa identità e, quindi, quale valido interlocutore di Dio tra gli uomini. La chiamata, dunque, ha anche attinenza con la creazione e con la costituzione di una nuova realtà. In definitiva essa dice appartenenza a Colui che chiama. In tal senso è significativa l’espressione con cui Isaia si rivolge a Israele: “Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele: <<Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni>>” (Is 43,1). Un ‘espressione questa molto densa perché contiene in se stessa tutto il cammino salvifico di Israele, creatura plasmata da Jhwh e da Lui riscattata, ma che ha la sua centralità in quel “ti ho chiamato per nome”, per questo Israele appartiene al Signore. L’essere nominati da Dio fa parte di un processo creativo di salvezza, che porta l’uomo ad essere proprietà stessa di Dio. Paolo nella sua lettera ai Romani ricorda questo importante passaggio, al centro del quale pone la chiamata: “Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8,29-30). Ogni chiamata, quindi, ha alla sua origine un progetto salvifico, che si attua storicamente proprio attraverso la chiamata stessa, che si fa missione, perché il chiamato diventi proprietà di Dio.

 

Il verbo chiamare in greco è “kalšw” (kaléo), ma qui l’autore, per esprimere la chiamata dei dodici, usa un verbo particolarmente significativo: “proskalšw” (proskaléo); esso è composto dalla preposizione “pros” + “kalšw”, che letteralmente significa “chiamare verso di sé”, “avocare a sé”, dando al verbo stesso un senso di moto. Non è, quindi, una chiamata per attirare l’attenzione del chiamato, ma indica una convocazione, che implica, a sua volta, un riorientamento esistenziale, che attrae e colloca il chiamato nell’area di Dio, facendolo di fatto sua proprietà. Non a caso i discepoli chiamati sono definiti con l’aggettivo possessivo “suoi”, per indicare come tale chiamata diviene una sorta di appropriazione del chiamato da parte di Dio, una sua elezione consacratoria. Similmente lo fu anche ai piedi del Sinai, dove Dio definisce il suo popolo come “sua proprietà” e, soltanto di conseguenza, anche popolo di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6). Una chiamata che affonda le sue radici ancor prima della creazione del mondo e che si manifesta e si attua in Cristo: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, …” (Ef 1,4-5).

 

Un secondo termine, che qualifica i discepoli, è il numero dodici, ripetuto tre volte consecutive (vv. 1.2.5), e una quarta volta in 8,1, a conclusione di questo secondo grande discorso. Il numero è chiaramente simbolico e allude ai dodici capostipiti delle dodici tribù d’Israele, indicando nei chiamati la nuova comunità messianica, destinata a dar vita ad un nuovo popolo, il nuovo Israele, generato non più secondo la carne, ma nella fede, per mezzo dell’acqua  nello Spirito Santo (Gv 3,3-7). Si tratta, dunque, di una nuova creazione, nella quale i chiamati siederanno su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele (Mt 19,28), per indicare la sostituzione del vecchio Israele, secondo la carne, che ha rifiutato il messaggio di Gesù, con quello nuovo generato dallo Spirito, perché “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,6). Una posizione teologica questa, che Matteo riprenderà, con toni duri e polemici nei confronti dei capi del popolo: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43).

 

La chiamata, intesa quale nuova creazione che incorpora il credente in Cristo in vista della generazione di una nuova umanità, che si esprimerà e si attuerà attraverso la missione, viene perfezionata attraverso la necessaria investitura del potere proprio, che viene da Gesù: “diede a loro autorità”. Dare autorità o potere[4] significa estendere se stessi in un altro, così che questi diventi espressione viva di chi dona l’autorità. Si viene a formare, in tal modo, una sorta di identificazione tra chi dona e chi riceve l’autorità. Secondo una legge rabbinica antica, infatti, “l’inviato di un uomo è come l’uomo stesso”[5]. Gesù, dunque, prolunga se stesso nei discepoli, divenendo, egli stesso, operativo in loro. La missione dei discepoli, pertanto, è la missione stessa di Gesù, il cui potere, tuttavia, non risiede in se stesso, ma nel Padre (Gv 5,19.30), che glielo ha conferito in quanto suo Inviato (Gv 5,36-37; 20,21) e nel quale rispecchia se stesso, così che l’operare di Gesù è l’operare stesso del Padre e tra i due si viene a creare una sorta di identificazione (Gv 10,30; 14,9-11; 17,11.22). A lui il Padre ha sottomesso ogni cosa e gli ha concesso ogni potere (Mt 28,18; 1Cor 15,27; Ef 1,10). Di conseguenza l’operare dei discepoli è l’operare stesso del Padre, che in loro attua il suo progetto salvifico. L’autorità trasferita nei discepoli, tuttavia, non è discrezionale o assoluta, ma è sempre finalizzata all’attuazione di un progetto salvifico, che si manifesta nel cacciare gli spiriti immondi e nel guarire ogni sorta di malattia e di debolezza (Mt 10,1; Lc 9,1). In altri termini, l’operare dei discepoli, rivestiti di autorità divina dal Padre per mezzo del suo Cristo nello Spirito Santo, è finalizzata alla costituzione del Regno di Dio in mezzo agli uomini, rigenerandoli alla vita stessa di Dio (Mt 11,4-6; Lc 7,20-23), che trova il suo esatto opposto nella soggezione dell’uomo al potere degli spiriti immondi, che generano nell’uomo malattia e debolezza, cioè incapacità di rapportarsi a Dio e di aprirsi alla sua volontà salvifica.

 

I vv. 2-4 riportano i nomi dei dodici apostoli, che Matteo, a differenza degli altri due Sinottici, i quali invece si limitano all’espressione di un invio di “due a due” (Mc 6,7; Lc 10,1), accoppia tra loro per nome. Il nominare i dodici e l’insistere sui loro nomi diventa una sorta di esplicitazione e di concretizzazione della chiamata stessa. Essa, si è detto, è una creazione che chiama all’esistenza, mentre il nome definisce la creatura nel suo essere, dandole significato, consistenza e sostanza, che la conforma alla volontà del chiamante. Il gruppo, quindi, diventa un contenitore ben individuato, in cui Gesù ripone la sua autorità e si rende presente in essi, costituendo in tal modo una pietra monolitica, fondamento miliare e storico di una salvezza in atto, che non si disperde, ma che si compatta in loro e attorno a loro e da loro si irradia per tutta la terra[6]. Non a caso l’autore inizia il v.2 con un’indicazione significativa: “Questi sono i nomi dei dodici apostoli”, quasi a voler dare solidità storica all’azione di Dio in mezzo agli uomini, indicando concretamente il luogo del suo operare.

 

Matteo inizia il cap. 10 definendo i dodici come discepoli, mentre nel v.2 i dodici sono chiamati apostoli. Questo passaggio da discepolo ad apostolo se, da un lato, indica il cammino storico che si è sviluppato nel tempo successivo a Gesù[7], dall’altro, da un punto di vista teologico, evidenzia il potere trasformante della chiamata operata sul discepolo, investito dell’autorità del proprio maestro[8], capace di renderlo un autorevole testimone di Cristo in mezzo alle genti e nel quale si prolunga l’azione salvifica di Gesù stesso lungo il cammino della storia.

 

Il contesto entro cui viene inserito e nominato il gruppo dei Dodici differisce notevolmente tra i Sinottici. Marco e Luca, infatti, creano una cornice costitutiva, elettiva e sacrale, che non si trova in Matteo. Marco fa precedere l’elezione dei Dodici dalla salita di Gesù sul monte (Mc 3,13), sottolineando in tal modo la separazione del gruppo dalle folle che accorrevano a lui e la loro conseguente speciale elezione (Mc 3,7-12). Un secondo aspetto in Marco è l’insistenza sul verbo costitutivo del gruppo, ripetuto due volte di seguito (Mc 3,14.16): ™po…hsen (epoìesen, fece, costituì), preceduto dall’espressione in 3,13 “Chiamò a sé quelli che voleva” evidenziando come la costituzione del gruppo nacque da una precisa e insindacabile volontà di Gesù e per sua diretta iniziativa. Marco, nel delineare tale contesto, entro cui collocherà l’elenco dei nomi, tradisce la sua preoccupazione di legare strettamente il gruppo alla persona stessa di Gesù, fornendolo in tal modo di piena autorità e riconoscimento presso le comunità credenti di Roma, a cui il suo vangelo era rivolto.

Similmente Luca fa precedere l’elezione e la costituzione del gruppo da un Gesù che sale sul monte per passare la notte in preghiera e soltanto al mattino egli convoca i discepoli, creando in tal modo attorno all’elezione una sorta di contesto liturgico-sacrale, molto caro all’autore (At 1,23-25; 6,5-6). Luca, diversamente dai due altri Sinottici, accentra l’attenzione del suo lettore sull’elezione. Infatti Gesù chiama a sé i discepoli (Lc 6,13). Il verbo usato per chiamare, qui, non è proskalšw (proskaléo) come in Marco (Mc 3,13; 6,7) e in Matteo (Mt 10,1), ma “prosefènhsen” (prosefònesen), che letteralmente significa “volgere la parola, parlare, dire, chiamare”. Il senso del chiamare, quindi, perde, con questo verbo, molto del suo valore elettivo, poiché il senso etimologico significa semplicemente “lanciare una voce verso qualcuno” per attirarne l’attenzione (pros + fwnšw). Tuttavia, il mancato uso del verbo proskalšw viene sostituito da altri due verbi specifici e molto densi nel loro significato, creando in tal modo una specifica area di attenzione, che l’uso del solo verbo proskalšw non sarebbe stato in grado di fare: “™klex£menoj” (eklexaménos, togliere da, eleggere, scelgo tra) e “çnÒmasen” (onòmasen, chiamare, nominare, dare il nome), indicando in tal modo una scelta che non solo separa, instaurando una sorta di consacrazione del gruppo, ma anche crea una nuova realtà con l’attribuzione di un nuovo titolo: “li denominò apostoli”.

Il contesto creato da Matteo, entro il quale egli collocherà la lista dei nomi, è invece molto più arido, molto più istituzionale, direi quasi più burocratico: da un lato vi è una chiamata e la consegna di un certo potere (10,1); dall’altro un elenco di nomi (10,2-4), fatto precedere da una semplice indicazione: “Questi sono i nomi dei dodici apostoli”, un’espressione meramente formale, di tipo indicativo, senza voli teologici, quasi un linguaggio notarile. La comunità matteana[9], del resto, è già molto evoluta da un punto di vista istituzionale: essa ha già le sue regole interne (Mt 18,15-22), un primato apostolico a cui obbedire (Mt 16,17-19) e che verrà evidenziato, unico Matteo tra gli evangelisti, anche in apertura dell’elenco, definendo Pietro con l’aggettivo numerale “prîtoj” (pròtos), il primo; ha già maturato una sua identità missionaria, rivolta alle genti (Mt 28,19-20); le sue celebrazioni sono già in qualche modo consolidate in formule liturgiche prestabilite (Mt 26,26-28; 28,19b).

 

L’elenco dei nomi rispecchia sostanzialmente quello degli altri due Sinottici[10] (Mc 3,16-19; Lc 6,14-16) e quello riportato negli Atti degli Apostoli (At 1,13): le parti comuni a tutti sono i primi quattro nomi, con cui si apre l’elenco: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, benché posti in ordine diverso, probabilmente dovuto, più che a liste diverse, a diverse disposizioni redazionali. Matteo, infatti, privilegiando l’accoppiamento binario, che va a sostituire l’espressione “a due a due” presente in Mc 6,7 e in Lc 10,1, lega tra loro, con una certa logica, i fratelli: Pietro con Andrea, Giacomo con Giovanni. Tutte le liste, ad eccezione di quella degli Atti, per ovvi motivi, si chiudono con il nome di Giuda l’Iscariota o Iscariota, da tutti definito come il traditore.

 

La binarietà si lega molto probabilmente al tema della testimonianza[11] del Regno e degli eventi salvifici, a fronte dei quali l’uomo è chiamato a prendere posizione esistenzialmente e a dare la sua personale risposta, a cui è legata la sua salvezza. Di tale testimonianza gli apostoli, per loro natura, sono portatori. E proprio per la gravità delle conseguenze, si rende necessaria la presenza legale di due testimoni, in quanto tale testimonianza è legata al giudizio divino, posto in essere nel momento stesso dell’annuncio.

 

L’elenco si apre con “Primo Simone, detto Pietro”. L’aggettivo numerale “prîtoj”, riportato solo da Matteo, non definisce certo l’ordine di elencazione, bensì allude al primato di Pietro, che nell’autore occupa un interesse particolare (16,17-19). Significativo è il verbo che Matteo usa per indicare il soprannome di Pietro: “Ð legÒmenoj Pštroj” (o legòmenos Pétros) a differenza degli altri tre evangelisti. Mentre questi ultimi utilizzano verbi come ™pit…qhmi (epìtitzemi, colloco sopra, impongo) in Mc 6,16; Ñnom£zw (onòmazo, chiamare, nominare) in Lc 6,14 e kalšw (kaléo, nominare, chiamare, convocare) in Gv 1,42, verbi, che nel linguaggio biblico, hanno a che vedere con l’elezione, con la creazione di una nuova identità e con l’affidamento, in qualche modo, di una nuova missione, Matteo usa semplicemente il verbo lšgw, al participio presente medio-passivo[12], che si riferisce ad un dire generico, senza alcun riferimento ad un contesto elettivo specifico. Si tratta, quindi, di una mera indicazione, priva di valenze teologiche o elettive. La stessa espressione, infatti, Matteo la usa in 4,18 (S…mwna tÕn legÒmenon Pštron, Sìmona tòn legòmenon Pétron), dove presenta Simone già con il suo soprannome di Pietro, intento a pescare con il fratello Andrea, ancor prima che Gesù lo chiamasse e gli cambiasse il nome in Pietro, particolare quest’ultimo che, a differenza degli altri evangelisti (Mc 3,16; Lc 6,14; Gv 1,42), non si trova in Matteo. In questo evangelista, infatti, Simone è già conosciuto, ancor prima della chiamata, con il nome di Pietro. Uno dei molteplici segni questo, che indica come ormai la comunità matteana si è conformata alla tradizione apostolica, riportando semplicemente dei dati trasmessi, ma che non sente più come una realtà viva e pulsante al proprio interno. Il contesto elettivo primitivo è andato perduto o quanto meno risuona come un’eco ormai molto lontana. È, quindi, una comunità che ricorda e riporta quello che altri le hanno trasmesso[13]. La primarietà di Pietro, tuttavia, verrà sottolineata in forma solenne dall’autore in 16,17-19, e, in qualche modo, già fin d’ora anticipata con il numerale “prîtoj”, segno di un contesto in cui l’istituzione e l’organizzazione istitutiva prevale sui rapporti familiari propri delle comunità del I sec.

 

Della persona di Pietro[14] e del suo passato si conosce il nome e la paternità, Simone (in ebr. Shime’on, “Dio ha esaudito”), nome molto in uso nel mondo semitico come in quello greco[15], ed è figlio di Giovanni (Gv 1,42). La sua  provenienza era Betsàida (Gv 1,44), una cittadina posta sul lato nord orientale del lago di Genezaret, ma abitava assieme alla moglie, alla suocera e a suo fratello Andrea, anch’egli originario di Betsàida (Gv 1,44; 6,8), a Cafarnao (Mc 1,21.29-30), in riva al lago. La sua professione era quella di pescatore (Mt 4,18) ed era proprietario di una barca (Lc 5,3) e di reti (Mc 1,16). Era certamente sposato, in quanto che aveva una suocera (Mt 8,14; Mc 1,30; Lc 4,38). Il suo livello culturale non doveva essere particolarmente brillante se in At 4,13, assieme a Giovanni, viene definito “¥nqrwpoi ¢gr£mmato… e„sin kaˆ „diîtai”, cioè “uomini che sono analfabeti e ignoranti”, anche se l’espressione indica, da un lato, come erano considerati dal Sinedrio, che li stava interrogando (At 4,5-7); e, dall’altro, per mettere in rilievo come, nonostante i loro limiti culturali, sapessero far fronte con destrezza alle insidie del Sinedrio, evidenziando la superiorità morale di questi primi testimoni apostolici. Si attuava in tal modo la raccomandazione e la predizione di Gesù: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,19-20)

Da alcuni racconti evangelici Pietro risulta avere un carattere irruento e passionale (Mt 26,31-35.51; Mc 14,47, Gv 18,10). La data del suo martirio a Roma è incerta (64/67) e, secondo lo scritto apocrifo Atti di Pietro, ritenendosi egli indegno di essere assimilato nella morte al suo Maestro, che aveva tradito, volle essere crocifisso a testa in giù.  

In tutto il N.T. il suo nome si riscontra 155 volte come Pietro; 56 volte come Simone; 9 volte come Cefa, quantità queste significative, poiché lasciano intendere la primarietà del suo ruolo all’interno della chiesa primitiva. Significative sono anche le immagini con cui egli è raffigurato nella letteratura neotestamentaria canonica: il pescatore missionario (Mc 4,18-19; Lc 5,10b), beneficiario di una rivelazione particolare (Mt 16,16-17) e di particolari visioni (At 10,10-16), colui che parla con autorità (At 1,15; 2,14; 5,1-11) e compie miracoli con potenza (At 3,2-10; 5,14-15), l’attestatore della messianicità e della divinità di Gesù (Mt 16,16; Mc 8,30; Lc 9,20), il difensore della fede e della corretta interpretazione delle Scritture (2Pt 1,20-21), nonché annunciatore kerigmatico del Regno e testimone della risurrezione (At 2,22-36), il pastore (Gv 21,15-17; 1Pt 5,1-14), il martire (Gv 21,18-19; 1Pt 5,1), il peccatore pentito (Mt 26,75; Mc 14,72; Lc 22,62), l’uomo fragile (Gal 2,11-14). A lui, infine, sono attribuite due lettere (1Pt e 2Pt), benché la critica esegetica ponga dei fondati dubbi sulla loro autenticità petrina, dubbi che condividiamo.

 

A Pietro, Matteo fa seguire il nome di Andrea, presentato, fin dal suo primo apparire, come fratello di Pietro (Mt 4,18; Mc 1,16; Lc 6,14), anch’egli originario di Betsàida (Gv 1,44) e pescatore assieme a suo fratello (Mt 4,18). Egli era anche un discepolo di Giovanni e lo seguiva nella sua predicazione (Gv 1,40). Sull’indicazione del suo maestro (Gv 1,35-36) si presentò a Gesù e con lui si recò nella sua abitazione (Gv 1,39). Fu lui ad annunciare a suo fratello Simone di aver incontrato Gesù, presentandoglielo come il messia, e a farglielo conoscere (Gv 1,40-42). Secondo la narrazione sinottica, invece, Andrea e suo fratello vennero incontrati da Gesù durante la loro attività di pesca e, qui, vennero scelti da Gesù per la sua futura attività missionaria (Mt 4,18-20; Mc 1,16-18). In Luca viene nominato una sola volta, nell’elenco degli apostoli (Lc 6,14; At 1,13) e non viene narrata la sua chiamata al discepolato. Il suo nome, Andrea, significa l’uomo valoroso, il virtuoso, l’uomo per eccellenza ed è di derivazione greca, lasciando trasparire in tal modo l’ellenizzazione della Palestina di quel tempo. Egli abitava a Cafarnao insieme a suo fratello sposato e con la suocera di lui (Mc 1,21.29-30), mentre egli non sembra che avesse moglie. Fu colui che, in una situazione di particolare criticità, indicò a Gesù il ragazzo con cinque pani e due pesci (Gv 6,8-9), da cui poi scaturì il miracolo che sfamò cinquemila persone e dette a Gesù l’occasione di fare il discorso sul pane di vita eterna (Gv 6,26-35). Fu lui, assieme a Filippo, che fece da tramite tra alcuni Greci, che volevano vedere Gesù, e Gesù stesso (Gv 12,20-22). Significativo è che siano proprio due discepoli con nomi greci a fare da tramite a dei Greci, forse perché ne parlavano la lingua o ne comprendevano la cultura o, forse, perché ne erano culturalmente vicini. Proprio questo discepolo, infatti, viene presentato da Giovanni dapprima come missionario e testimone presso gli ebrei (Gv 1,40.42) e poi, qui, come missionario tra i gentili. Forse non a caso la tradizione su questo apostolo lo vede morire martire (crocifisso) in Acaia, una regione della Grecia, sulla costa meridionale del golfo di Corinto.

 

Segue nell’elenco Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. La coppia dei fratelli viene sempre citata assieme nell’ordine menzionato, con eccezione di Luca, che in alcuni casi inverte l’ordine tradizionale (Giovanni, Giacomo: Lc 8,51; 9,28; At 1,13). Essi erano pescatori e svolgevano la loro attività assieme al padre Zebedeo ed erano soci di Pietro e Andrea (Lc 5,10). Dovevano essere anche benestanti se si potevano permettere dei garzoni, che li aiutavano nella pesca (Mc 1,20) e, inoltre, dovevano godere di un certo rilievo sociale se la madre tenta di forzare la mano a Gesù perché i suoi due figli primeggiassero nell’ambito del gruppo dei discepoli (Mt 20,20), tra l’indignazione degli altri (Mc 10,41). Essi, insieme a Pietro e ad Andrea furono i primi ad essere chiamati da Gesù nella sequela e Gesù mostrerà sempre nei loro confronti una particolare attenzione di privilegio. Infatti, sia nel caso della trasfigurazione (Mt 17,1; Mc 9,2; Lc 9,28) che in quello della guarigione della figlia del capo sinagoga (Mc 5,37; Lc 8,51), Gesù li prenderà con sé quali testimoni privilegiati del suo potere e della sua vera natura divina. E, ancora, saranno sempre e soltanto loro che Gesù sceglierà, tra tutti i discepoli, perché lo accompagnino nel Getsemani e veglino con lui in preghiera (Mt 26,37; Mc 14,33). Così pure in occasione della guarigione della suocera di Pietro, essi saranno presenti (Mc 1,29). Saranno loro, infine, assieme a Pietro e Andrea che provocheranno il discorso escatologico di Gesù (Mc 13,3). In tutti questi frangenti i due sono sempre associati a Pietro, segno che essi godevano, forse, di una certa preminenza in mezzo al gruppo, sia perché furono i primi seguaci, sia perché forse godevano di un certo rilievo sociale e, forse anche, per il loro carattere focoso e impetuoso, che certo non prediligeva gli ultimi posti (Mc 10,35) o indulgeva molto alla comprensione e alla misericordia. Saranno, infatti proprio loro che inviteranno Gesù a fulminare un villaggio di Samaritani, che lo avevano rifiutato, ottenendone un rimprovero da parte di Gesù (Lc 9,52b-55). Non a caso Marco rileva che Gesù li soprannominò Boanèrghes, cioè figli del tuono (Mc 3,17), benché forse sarebbe stato meglio tradurre con “brontoloni” o “agitatori”[16].

 

Giacomo morì di spada per mano di Erode Agrippa tra il 39 e il 44 d.C.[17] (At 12,2). Sua madre, menzionata sempre come madre dei figli di Zebedeo (Mt ), fu una seguace di Gesù e si pose al suo servizio. Essa, assieme ad altre donne, presenziò alla morte di Gesù sulla croce (Mt 27,55-56).

 

Dopo la morte di Giacomo, Giovanni farà coppia fissa con Pietro nella predicazione e nella vita della comunità di Gerusalemme (At 1,3; 3,3-4.11; 4,13.19; 8,14) e divenne, assieme a lui e a Giacomo, il fratello di Gesù, una figura di grande rilievo all’interno della stessa comunità (Gal 2,9).

 

In quinta e sesta posizione degli elenchi sinottici compaiono i nomi di Filippo e Bartolomeo[18]. Di Bartolomeo, il cui nome significa “figlio di Tolomeo”[19], conosciamo soltanto il nome, riportatoci nei quattro elenchi neotestamentari. Simile sorte sarebbe toccata a Filippo se non fosse stato per Giovanni, il quale ci fornisce un qualche ragguaglio storico. Filippo, il cui nome greco, parimenti a quello di Andrea, significa “l’amico dei cavalli”, era originario, come Pietro e Andrea, di Betsàida (Gv 1,44). Egli incontra Gesù il giorno dopo che questi aveva già incontrato Andrea e Pietro (Gv 1,43a). Dall’incontro con Gesù scaturisce la sua chiamata, a cui Giovanni dedica soltanto mezzo versetto (Gv 1,43b), utilizzando, però, un verbo molto denso nel suo significato “ 'AkoloÚqei moi” (akolùtzei moi, seguimi). Tale verbo, infatti, significa, oltre che seguire, anche “accompagnare, andare insieme, tener dietro”, mentre nella sua forma transitiva dice “lasciarsi guidare, aderire”. È in buona sostanza un verbo che indica una chiamata, destinata a plasmare la persona nella profondità del suo cuore per farne una nuova creatura.

Egli si farà immediatamente, presso Natanaele, entusiasta portatore e testimone di Gesù, che definisce come la realizzazione delle attese e delle Scritture (Gv 1,45-46).

In occasione della seconda pasqua[20], egli è messo alla prova da Gesù sul come sfamare le migliaia di persone che lo stavano seguendo. Filippo, smarrito per l’enormità della folla, circa cinquemila persone (Gv 6,10b), tenterà di dare una improbabile soluzione economica al problema: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (Gv 6,5-7). Sarà Andrea a dare la risposta giusta, rivolgendosi soltanto a Gesù, indicandogli un ragazzino, che aveva per sé cinque pani e due pesci (Gv 6,8-9).

Sarà sempre lui, assieme ad Andrea, che si farà intermediario e interprete presso Gesù della richiesta di alcuni Greci (Gv 12,21-22). I loro nomi greci e questo episodio di intermediazione tra il mondo greco e Gesù forse stanno ad indicare il destino missionario presso il mondo pagano di questi due discepoli[21].

È sempre Filippo, infine, che interpellerà Gesù sulla questione del Padre, dando a vedere di non aver ancora colto bene la figura di Gesù e il senso della sua missione. Nell’insieme, dai brevi racconti a nostra disposizione (Gv 6,5-7; Gv 14,8-9), sembra di poter arguire come Filippo, al di là dell’entusiastica e iniziale testimonianza su Gesù, data a Natanaele (Gv 1,45-46), abbia poi avuto non poca difficoltà a coglierne la vera natura.

 

Prosegue l’elenco con i nomi di Tommaso e Matteo il pubblicano. Per entrambi le notizie, provenienti da fonti neotestamentarie, sono molto scarne. Tommaso compare nelle liste sinottiche sempre associato al nome di Matteo, benché talvolta con ordine invertito; mentre in quella di At 1,13 i loro nomi sono intercalati da quello di Bartolomeo. Il suo nome è chiaramente ebraico e deriva dall’aramaico Te ‘ōmā, che significa “gemello”, di chi lo fosse non ci è dato di sapere. Nel vangelo di Giovanni il suo nome, Tommaso, viene grecizzato con Didimo (Gv 11,16; 20,24; 21,2), di pari significato. È probabile, quindi, che il suo nome, sia aramaico che greco, sia in realtà soltanto un soprannome. Infatti, secondo diverse tradizioni provenienti dalla Siria e dall’Egitto, il suo vero nome era Giuda. Egli è colui che è pronto ad associarsi al destino di Gesù, quando questi decide di recarsi in Giudea (Gv 11,7) alla notizia della grave malattia di Lazzaro (Gv 11,3), che lo porterà alla tomba (Gv 11,16). È sempre lui che obietta a Gesù di non conoscere la via dove egli vuole andare (Gv 14,5), ottenendo da Gesù la risposta che lui stesso è “ […] la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 11,6). Assente al momento della prima apparizione di Gesù ai suoi discepoli, esprimerà tutti i suoi dubbi sull’annuncio della risurrezione, ma avrà modo di constatarne la veridicità in un secondo momento (Gv 20,24-29). Per questo sua difficoltà a credere all’annuncio egli divenne il simbolo di tutte le generazioni future di credenti, chiamate a fondare la loro fede soltanto sulla parola a loro annunciata. L’ultima volta che il suo nome viene ricordato è nel cap. 21 del vangelo di Giovanni, un capitolo dal sapore tutto ecclesiologico, aggiunto al vangelo giovanneo in tempi successivi. Qui compare assieme ad altri sei discepoli, che associati a Pietro, lo seguono nella pesca (Gv 21,2-3).

 

Molto poco sappiamo su Matteo. Conosciamo la sua professione di piccolo esattore delle imposte e stigmatizzato con l’appellativo di pubblicano (Mt 9,9; 10,3), che lo qualificava come un pubblico peccatore, disprezzato da tutti e, per questo suo stato di vita, tagliato fuori dal ciclo della salvezza. Egli sarà chiamato alla sequela di Gesù (Mt 9,9) e farà parte del gruppo dei Dodici, nel quale compare sempre citato. Il suo nome, il cui significato è “Dono di Dio” (aramaico Mattaj), non va confuso con l’autore del primo vangelo[22], benché Papia[23] (70-150 circa), vescovo di Gerapoli, citato da Eusebio di Cesare nella sua opera Historia Ecclesiastica, lo presenti come l’autore di una raccolta di detti di Gesù.

In Mc 2,14 e in Lc 5,27, sempre nell’identico racconto della chiamata, ci viene presentato con il nome di Levi, figlio di Alfeo. Non v’è dubbio, quindi, che Matteo e Levi siano la stessa persona. Marco e Luca, unici a riportarci l’episodio, ricordano che Matteo-Levi, proprio in occasione della sua chiamata alla sequela, festeggiò l’avvenimento con un grande banchetto in onore di Gesù, al quale presero parte anche  “una folla di pubblicani e d'altra gente seduta con loro a tavola” (Mc 2,15; Lc 5,29). Probabilmente, letta da una certa prospettiva, una sorta di addio alla sua vita di gabelliere e di pubblicano. Un banchetto, comunque, che richiama il festeggiamento per l’inizio di una vita nuova, dedicata, ora, non più a vessare la gente, ma al loro servizio nel nome di Dio, che egli incontrò in Gesù.

 

Penultima coppia del Gruppo apostolico, secondo la citazione matteana, sono Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo. Dei due non sappiamo nulla al di là della semplice citazione. Giacomo, per essere distinto dal Giacomo figlio di Zebedeo, è chiamato figlio di Alfeo. Tuttavia non va imparentato, a nostro avviso, a Levi-Matteo, anch’egli figlio di Alfeo, per una probabile logica interna che muove l’elenco proprio di Matteo, che accoppia gli apostoli per affinità parentali, là dove queste si presentano. Così Pietro viene associato ad Andrea; Giacomo a Giovanni; mentre Giacomo di Alfeo non viene associato a Levi, figlio di Alfeo. Probabilmente Alfeo sono due persone diverse. Per i dati che abbiamo in mano, tentare delle identificazioni con i vari Giacomo che percorrono gli Scritti neotestamentari o gli imparentamenti con una qualche Maria ci sembra piuttosto azzardato e, comunque, non si riesce ad andare al di là di una qualche improbabile ipotesi, tutta da verificare. Meglio ragionare con i dati certi che abbiamo, ben sapendo che certi nomi nell’antichità neotestamentaria erano molto diffusi. Basti pensare al nome Simone, che nei soli Scritti neotestamentari compare 52 volte; e quello stesso di Giacomo, che viene riportato 38 volte. Con questi numeri, quasi mai supportati da ulteriori precisazioni storiche, ogni ragionamento può concludersi soltanto con delle discutibili ipotesi, riportandoci sempre, a giochi finiti, al punto di partenza.

 

Taddeo è un nome che compare soltanto nelle liste di Matteo (10,3) e di Marco (3,18). Al suo posto, nelle due liste lucane (Lc 6,16; At 1,13) viene nominato Giuda di Giacomo. Di Taddeo non conosciamo nulla. Alcuni manoscritti[24], in Mt 10,3, leggono Taddeo come “Lebbeo” o “Lebbeo, soprannominato Taddeo”. Il nome Lebbeo contiene la parola ebraica “lēb”, che significa cuore, amore; mentre il nome Taddeo sembra avere la sua radice nel termine aramaico “tad” che indica il seno della donna, alludendo quindi ad un carattere mite, dolce, generoso e disponibile. Due nomi questi, con particolare riferimento al soprannome di Taddeo, che sembrano definire il carattere buono e generoso di questo discepolo. Di lui altro non si può dire. Una certa agiografia, posteriore ai vangeli, tende a identificarlo con Giuda di Giacomo, che comunemente viene ritenuto lo stesso Giuda citato da Giovanni nel suo vangelo al v. 14,22. Secondo Raymond E. Brown si tratta di una semplice congettura, priva di un reale supporto scientifico e/o storico[25]. Posizione questa che ci trova pienamente consenzienti.

 

L’elenco apostolico si chiude con Simone il Cananeo[26] e Giuda l’Iscariota. Il nome Simone è una forma contratta e tardiva di Simeone[27] ed è soprannominato il Cananeo. Tale soprannome non indica la sua origine geografica, bensì la sua posizione politica e sociale. L’appellativo “Ð Kanana‹oj” (o Kananaîos), attribuito a Simone, è, infatti, la trascrizione greca del termine aramaico “qannaya”, che significa “zelota”. Con tale soprannome verrà identificato nelle due liste lucane (Lc 6,15; At 1,13). L’appellativo “zelota”[28] definiva gli estremisti nazionalisti della guerra giudaica (66-70 d.C.), che, come tali, ancora non esistevano ai tempi di Gesù. Esso, pertanto, può indicare, nel nostro caso, un simpatizzante del movimento nazionalista anti-romano, che poi sfocerà nel partito armato degli Zeloti. Questi innescheranno la prima grande guerra giudaica, di cui parla anche Giuseppe Flavio nella sua omonima opera[29].

 

Quanto a Giuda, il suo nome compare negli Scritti neotestamentari 23 volte ed è comunemente conosciuto con l’appellativo di “traditore”[30]. Egli era figlio di un certo Simone Iscariota (Gv 6,71; 13,2.26). Con tale soprannome Giuda verrà citato 10 volte nei vangeli. Iscariota è la forma grecizzata dell’ebraico “is Qeriyyot”, cioè “uomo di Kerioth[31]”.  Questa precisazione geografica è da preferirsi a quella che nel soprannome vede una grecizzazizone del termine latino sicarius, cioè “uomo della sica[32]”, che spinge a vedere in Giuda un seguace del movimento zelota. Altre interpretazioni recenti[33] vedono nel nome una grecizzazizone dell’aramaico sheqar (mentitore, falso, traditore). In ogni caso, rimane, a nostro avviso, sempre più appetibile la soluzione geografica, considerato che Giovanni nel suo vangelo applica, per la prima volta nella sua opera, il soprannome Iscariota non a Giuda, ma a suo padre, Simone (Gv 6,71a), probabilmente per indicarne la provenienza, più che per definirne qualità morali o tendenze politiche. Dal padre, quindi, Giuda erediterà tale soprannome, che indicherà anche per lui la sua origine.

 

La figura di Giuda, per ovvi motivi, non è ben vista dai vangeli, in particolar modo in quello di Giovanni. Infatti, mentre i Sinottici si limitano a citare il nome di Giuda soltanto negli elenchi apostolici e nei racconti della passione, riportando di lui soltanto la sua appartenenza al Gruppo e il suo misfatto, Giovanni, lungo lo svolgersi del suo racconto, ne traccia gradualmente l’identità. Dapprima lo cita in modo anonimo, precisandone soltanto la natura demoniaca: “Rispose Gesù: […] Eppure uno di voi è un diavolo!" (Gv 6,70). Nel versetto immediatamente seguente ne cita il nome, ne definisce la paternità, l’origine geografica e la sua appartenenza al gruppo dei Dodici, imprimendogli fin da subito il triste marchio di traditore: “Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici” (Gv 6,71); successivamente ne traccia l’identità morale e il ruolo che ricopriva all’interno del Gruppo: “Questo egli disse non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (Gv 12,6); precisa poi come il diavolo fosse il suo vero consigliere: “Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo” (Gv 13,2); e, infine, presenta Giuda come un vero e proprio posseduto dal demonio, uno strumento operativo nelle sue mani: “E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. […]” (Gv 13,27). Da questo momento Giuda uscirà dal Gruppo dei Dodici ed entrerà nella notte del tradimento e delle potenze del male, a cui egli appartiene per sua natura (Gv 6,70): Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). L’ultimo accenno Giovanni glielo riserva nel momento in cui Giuda compare davanti a Gesù, schierato con i suoi nemici: “Vi era là con loro anche Giuda, il traditore” (Gv 18,5b). Da questo momento in poi l’evangelista calerà una cortina di silenzio, lasciando Giuda al suo triste e drammatico destino, avvolto nelle tenebre della notte.

 

Giuda, presente in tutte le liste sinottiche, è sempre posto alla fine dell’elenco, contrariamente a Pietro, che invece è posto in cima a tutte le liste. Su di lui Matteo e Marco fanno pesare una sorta di maledizione divina, mettendo sulle labbra di Gesù la comune espressione: “Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo è tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!” (Mc 14,21; Mt 26,24). Quanto questa espressione sia vera o una mera inserzione redazionale non ci è dato di sapere. Va tuttavia ricordato che Gesù ebbe parole di perdono per tutti quelli che avevano contribuito alla sua morte (Lc 23,34). Lo stesso Giuda, che lo aveva tradito, di certo non si aspettava una simile conclusione del suo tradimento. In tal senso è significativo quanto riporta Matteo in proposito: “Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: "Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Ma quelli dissero: "Che ci riguarda? Veditela tu!". Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi” (Mt 27,3-5). Ci fu, dunque, da parte di Giuda un pentimento e un atroce e insopportabile rimorso per il suo gesto, che lo porterà al suicidio. Benché l’episodio si trovi soltanto in Matteo, tuttavia esso deve essere verosimile, se anche Luca nei suo Atti ne fa accenno: “Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere. La cosa è divenuta così nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, che quel terreno è stato chiamato nella loro lingua Akeldamà, cioè Campo di sangue” (At 1,18-19).

 

Se c’è stata una salvezza per gli uomini, di certo ci fu anche per Giuda, poiché in lui ci furono tutti i segni del pentimento e della conversione. Non fu da meno, su di un piano morale, Pietro che rinnegò ripetutamente il suo Maestro (Mt 26,34.75), a cui aveva giurato, poco prima, fedeltà fino alla morte assieme a quelli del Gruppo (Mt 26,33.35); non furono da meno gli altri discepoli, che non hanno saputo vegliare con il loro Maestro (Mt 26,40) e di fronte al pericolo lo hanno abbandonato a se stesso (Mt 26,56; Mc14,50); non lo furono da meno, ancora una volta, sempre loro, i  discepoli, che di fronte al Risorto, persistevano nella loro incredulità (Mt 28,17; Lc 24,25; Gv 20,25.27). Eppure Gesù era stato molto chiaro su questo punto, in tema di testimonianza: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,33-34; Lc 12,8-9; 2Tm 2,12). Giuda, in ultima analisi, si riscatta nel dare la sua testimonianza a favore di Gesù davanti ai sacerdoti: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Con ciò dichiara l’innocenza di Gesù e la pienezza della sua colpa. E la sincerità della sua testimonianza è confermata dallo spargimento del proprio sangue. Così, similmente, tutti i discepoli di Gesù avranno modo di riscattare la loro fragilità umana, di quella notte disgraziata e drammatica, con una testimonianza tale che li porterà a versare il loro sangue per Gesù. Tuttavia, ciò che inquieta molto e pone un grave punto interrogativo sul riscatto morale e spirituale di questo apostolo non è tanto il tradimento di Gesù, dettato dalla sua fragilità umana, ma l'aver scelto il suicidio quale fuga dalle sue responsabilità e quale forma di autopunizione, e soprattutto nel non aver creduto ad una possibilità di perdono e di riscatto per lui e, in ultima analisi, l'averlo di fatto rifiutato. 

 

vv. 5-15: l’intera pericope, introdotta dal breve prologo (v.5a) della formazione (“dopo aver loro ingiunto, dicendo”) e dell’invio (“inviò”), è scandita in quattro parti,: a) la destinazione (vv. 5-6); b) il contenuto della missione (vv. 7-8); c) le modalità dello svolgimento, con riferimento a se stessi (vv. 9-10) e nei confronti degli altri (vv. 11-13); d) gli esiti per chi non ascolta l’annuncio (vv. 14-15). Versetti questi ultimi che verranno ripresi e ampliati, sia in forma negativa (vv. 32-39) che positiva (vv. 40-42), dai vv. 32-42.

 

Il v.5 si apre con l’espressione “Questi dodici”, agganciandosi ai vv.1-2, quasi a voler definire e indicare nella sua concretezza il fondamento proprio di ogni missionarietà, verso i quali la comunità matteana deve rivolgersi e dei quali è erede. Per tre volte, nei primi tre versetti, viene ripetuto il numero dodici: nel v.1 i dodici sono discepoli; nel v.2 sono definiti apostoli; nel v.3 sono indicati con un pronome dimostrativo “questi”, che riassume in se stesso sia l’aspetto del discepolato (v.1) che quello dell’apostolato (v.2). L’inviato, quindi, ancor prima di esserlo, è innanzitutto un discepolo, come dire che prima dell’annuncio ci deve essere la sequela e l’apprendimento, che conforma il discepolo al suo maestro. Soltanto successivamente il discepolato acquisisce la sua forma matura di apostolato. Ecco perché Matteo nel v.3 presenta i Dodici con il solo pronome, poiché essi sono la forma definita e matura del vero rappresentante di Gesù in mezzo agli uomini: a lui conformato e da lui mandato.

 

L’insistenza sul numero dodici, da un  lato, indica alla comunità matteana il solido fondamento proprio di ogni comunità credente; dall’altro, richiama in quei Dodici l’origine del nuovo Israele, del quale ogni credente è costituito membro, in virtù della propria fede e dello Spirito.  Parallelamente a questo duplice aspetto di discepolo (v.1) costituito apostolo (v.2), che ha la sua forma storica e fondativa nei Dodici, il v.5 introduce il secondo grande discorso di Gesù, utilizzando due verbi che rispecchiano la dinamica originaria propria di ogni missionarietà: ingiungere (paragge…laj, parangheìlas) e inviare (¢pšsteilen, apésteilen). Non a caso Matteo sottolinea come l’invio avviene soltanto “dopo aver loro ingiunto”. La missionarietà, pertanto, trova il suo fondamento su di un insegnamento autorevole acquisito (discepolato), che qui assume la forma di un comandamento multiplo (vv.5-15); e su di un mandato (apostolato), che carica di autorità il dire e l’operare dell’inviato (v.1), il quale incarna in se stesso il mandante. È quella di Matteo una comunità dallo spirito missionario[34], che ha già maturato al proprio interno delle prime regole, sulle quali strutturare la propria azione missionaria, benché qui, come altrove (15,24), lasci intravvedere come questa non abbia ancora acquisito la maturità dell’universalità (vv.5-6), che invece apparirà soltanto in chiusura del vangelo (28,18-20), preannunciata in modo polemico dal v.21,43: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. Il primo comando, pertanto, è quello di non disperdersi verso il mondo pagano, né verso quello dei Samaritani[35], ma di incentrare la propria attenzione sul popolo d’Israele, a cui l’autore dà la sua primaria preferenza (de m©llon prÕj, de màllon pròs, ma piuttosto verso). Si noti come Matteo, per definire la destinazione dell’attività missionaria della sua comunità, usi un ordine inverso, a cerchi concentrici, che, partendo dall’esterno (mondo pagano), passando a quello più ristretto dei Samaritani, arriva al cuore dell’obiettivo proprio dell’azione missionaria: le perdute pecore d’Israele[36]. La questione non è di poco conto, ma investe il senso stesso della missione di Gesù e della stessa storia della salvezza. Il popolo d’Israele, infatti, riteneva, e a ragione, di essere il popolo eletto e prediletto di Jhwh, sua specifica proprietà[37]. Riteneva che Jhwh fosse il Dio d’Israele e che tale esclusività fosse stata sancita dall’Alleanza sinaitica, mentre la Torah, nel testimoniare tale Alleanza, regolamentava concretamente i termini dell’appartenenza a Jhwh. Il mondo, pertanto, per l’ebreo era diviso in due parti: gli ebrei, legati tra loro da un profondo vincolo di solidarietà, che nasceva dall’Alleanza; e i non ebrei, destinati alla perdizione e, pertanto, considerati impuri e iniqui per definizione[38]. Cani e porci, animali ad alto tasso di impurità, erano i termini con i quali l’ebreo definiva il mondo dei non ebrei[39], al quale guardava con disprezzo e distacco (Gv 18,28; At 11,2-3). Sarà soltanto il tardo profetismo (VI-V sec. a.C.) e il tardo giudaismo che incominceranno a far intuire come Israele sia in realtà lo strumento, di cui Dio si serve, per chiamare anche gli altri popoli alla salvezza[40]. Tuttavia, Israele rimarrà sempre convinto della sua superiorità nei confronti degli altri popoli[41], legata alla coscienza del suo stato di predilezione divina, una convinzione che risuonerà anche nella predicazione apostolica: “Voi siete i figli dei profeti e dell'alleanza che Dio stabilì con i vostri padri, quando disse ad Abramo: Nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra. Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l'ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità” (At 3,25-26). Prima, dunque, gli ebrei, poi i pagani. Sarà questo lo schema su cui si muoverà la missione apostolica[42] ed entro questa cornice va compresa anche l’ingiunzione di Gesù (vv. 5-6).

Lo stesso Paolo, indagando sul senso della storia della salvezza, ritiene che l’annuncio vada portato per primi agli ebrei (Rm 1,16; 2,9-10) e, soltanto successivamente, al rifiuto di questi, esteso ai pagani (Rm 11,11-12.15.17). Anzi è proprio grazie a tale rifiuto che il messaggio cristiano, e quindi la salvezza, verrà estesa anche ai pagani (Mt 21,43). Confrontando, pertanto, i vv. 10,5-6 e 15,24 con 20,18-20 si rileva la profonda e radicale evoluzione che la comunità matteana, composta da giudeocristiani, ha subito nella comprensione del senso della storia della salvezza e del loro specifico ruolo in questa.

 

vv. 7-8: dopo aver delineato i destinatari della propria azione missionaria (vv.5-6), Matteo definisce, ora, i contenuti propri di tale azione, scandendoli in due momenti: la proclamazione del Regno (v.7) e le guarigioni (v.8), segno visibile e didattico della presenza del Regno (v.8). Anche qui l’autore segue lo schema della sua opera[43]: l’annuncio della salvezza che si fa manifesta azione salvifica.

 

Il v.7 è dedicato al tema dell’annuncio del Regno, che avrà il suo sviluppo e il suo apogeo nel terzo grande discorso di Gesù (cap. 13), ed è fatto precedere da tre verbi, uno di movimento (poreuÒmenoi, poreuòmenoi) e due verbi dicendi (khrÚssete lšgontej, kerìssete légontes ); il quarto verbo, che precisa l’azione stessa del Regno, è anch’esso un verbo di movimento (”Hggiken, enchiken). La presenza di questi quattro verbi imprime al versetto stesso una forte dinamicità ed esprime tutta la forza irruente e salvifica del Regno. Anche qui l’autore calibra il dire con il fare: due sono, infatti, i verbi dicendi e due quelli movendi. I primi tre verbi sono posti al presente indicativo per indicare l’incisività nell’oggi di tale annuncio, mentre il quarto verbo, riferentesi al Regno è posto al perfetto indicativo, tempo verbale questo che esprime in stesso uno stato presente, che risulta come conseguenza di un’azione passata e, quindi, una realtà già in atto, ma che rimanda alla sua origine: Gesù stesso, inviato del Padre, fonte primaria del Regno. L’incisivo richiamo al presente, radicato fortemente alla missionarietà di Gesù, sollecita l’attenzione della comunità matteana al suo dovere missionario, inculcando come il Regno, il suo annuncio e il suo muoversi in mezzo alla gente è insito nel vivere stesso della comunità e a lei demandato. Si tratta, quindi, di un deciso richiamo alla sua identità missionaria e alla sua responsabilità nei confronti delle realtà divine e salvifiche, di cui essa è portatrice per la sua stessa natura.

 

Il v.7 si apre con il participio presente “poreuÒmenoi” che significa andando o mentre andate, esprimendo da un lato il movimento proprio del missionario, che per sua natura è itinerante, e, dall’altro, l’azione stessa della salvezza, intesa come l’azione salvifica di Dio che si attua in mezzo agli uomini. Di fatto il muoversi del missionario è il muoversi stesso del Dio salvante, che nella quotidianità chiama in  modo persistente gli uomini a raccolta intorno alla Parola e chiede loro di prendere posizione di fronte ad Essa.. Il presente espresso con il participio sottolinea, quindi, la persistenza di questo muoversi qui, nell’oggi dell’uomo, rimandando al dinamismo salvifico promanante da Dio stesso nella persona del suo inviato. Risuona qui, ancora una volta, quel “sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo” (Mt 28,20b), con cui si chiude il vangelo di Matteo, sottolineando la presenza viva di Gesù in mezzo alla sua comunità, itinerante nel tempo sulle strade dell’umanità.

 

Se il camminare costituisce il mezzo attraverso cui la salvezza si muove in mezzo agli uomini, la proclamazione pubblica del Regno dà consistenza e giustificazione a questo muoversi, così da farne un movimento salvifico. Il verbo usato per indicare l’annuncio è “khrÚssete, kerìssete”, un verbo tecnico che indica l’annuncio proprio del banditore[44], con cui viene proclamata la volontà del re, che in qualche modo si rende presente in tale annuncio, così che il banditore stesso diviene presenza viva del suo sovrano in mezzo al suo popolo. Un concetto questo che verrà ripreso da Matteo, in modo significativo, a conclusione di questo capitolo (v. 40), in cui l’autore crea una sorta di identificazione tra l’inviato, Gesù e lo stesso Padre, caricando in tal modo di grande autorità l’agire dell’inviato.

 

Se il verbo usato per indicare la proclamazione del Regno ha un suo aspetto di pubblica solennità (khrÚssete), il suo esplicitarsi nella concretezza della vita viene espresso con il verbo dai toni feriali “lšgontej, légontes, dicendo”. Benché questo verbo, da un punto di vista letterario, sia un semplice semitismo e normalmente nella traduzione viene correttamente ignorato, tuttavia, esso potrebbe assumere nel contesto una particolare valenza teologica: la solennità dell’annuncio (khrÚssete), in quanto pubblica proclamazione, deve trovare nella ferialità quotidiana della vita la sua incarnazione e la sua esplicitazione (lšgontej), così che la proclamazione deve diventare il dire stesso della vita.

 

Il v.7 si chiude con l’affermazione che il Regno dei cieli[45] si è fatto vicino (½ggiken, énchiken). Sette sono le volte che tale espressione ricorre nel N.T.[46] ed indica più che una realtà non ancora presente, ma che sta arrivando, un modo di essere di questa stessa realtà: essa esprime la vicinanza di Dio all’uomo. Non a caso, infatti, altrove si afferma che il Regno è già in mezzo agli uomini[47]. Il verbo ½ggiken, quindi, potremmo tradurlo più che con “si è avvicinato”, con “si è fatto vicino”, poiché meglio esprime la prossimità di Dio all’uomo e alle sue vicende.

L’essenza di tale Regno, afferma Paolo, non è una questione di parole, ma è potenza di Dio (Rm 1Cor 4,20). In altri termini, il Regno non può essere definito con parole, per la sua stessa natura trascendente e, quindi, ineffabile, che costringerà Gesù stesso a ricorrere a delle similitudini per poterne accennare alcuni aspetti (cap. 13); né può essere oggetto di chiacchiere o discussioni filosofiche, poiché esso è pura potenza divina che si è espressa e manifestata in Cristo, rendendosi in tal modo vicino e, quindi, presente in mezzo agli uomini. Soltanto gli uomini spirituali possono accostarsi ad esso e parteciparvi[48]. In buona sostanza è la stessa forza salvifica capace di rigenerare l’uomo a Dio e renderlo partecipe della sua stessa eternità divina; una potenza proveniente dal Padre, incarnata in Gesù e da lui sprigionantesi verso e a favore dell’uomo: “Allora udii una gran voce nel cielo che diceva: "Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte” (Ap 12,10).

 

Ciò che la comunità matteana e ogni credente sono chiamati ad annunciare e rendere presente nell’annuncio è proprio questa potenza salvifica divina in atto, che si è fatta vicina agli uomini e si è resa presente in mezzo a loro nella persona di Gesù. Marco porrà una identificazione tra Gesù e il Regno: “Quelli poi che andavano innanzi, e quelli che venivano dietro gridavano: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mc 11,9-10). In questo caso Marco crea una sovrapposizione tra “colui che viene”, espressione questa con cui si indicava il messia, e lo stesso Regno, colto, qui, come l’attuazione della promessa di Natan al re David (2Sam 7,8-17). Gesù, dunque, è, nel contempo, l’attuazione della promessa a Davide, il messia inviato e il Regno di Dio stesso in mezzo agli uomini, l’espressione concreta della vicinanza del Padre ad essi, luogo storico della presenza del Padre. Da lui promana la potenza rigeneratrice e rigenerante capace di rinnovare l’uomo, che lo accoglie, collocandolo nella stessa dimensione divina e donandogli la capacità di diventare suo figlio (Gv 1,12).

 

Questo è il Regno, espressione della riconquistata sovranità divina sull’intera creazione e sull’umanità (1Cor 15,22-28), le quali in Cristo sono state ricostituite e ricondotte in Dio (Ef 1,10; Ap 21,5), com’era nei loro primordi, così che Dio possa nuovamente e definitivamente riconoscere nel suo Cristo, che tutto è cosa molto buona (Gen 1,31). Di fronte all’annuncio del Regno e alla sua ricostituzione in seno all’intera creazione, l’uomo è chiamato a prendere posizione e a dare la sua risposta esistenziale: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). In tale prospettiva l’annuncio del Regno diventa l’indicativo di una salvezza in atto, mentre il perentorio invito ad aprirsi a Dio nella fede, accogliendolo nella propria vita, diventa l’imperativo di salvezza, investendo l’uomo in ogni aspetto e ad ogni livello del suo esistere e del suo relazionarsi.

 

Benché il Regno, per la sua natura squisitamente spirituale e ineffabile (Rm 14,17; 1Cor 4,20), non possa essere fisicamente percepito, tuttavia ha dei risvolti storici che rimandano ad esso. Non a caso, infatti, Matteo, come gli altri due Sinottici, si premura di associare ad ogni annuncio una sorta di litanie di guarigioni[49], così che all’ordine di annunciare il Regno (v.7), viene fatto seguire immediatamente, nel v.8, il comando: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni”. Le guarigioni diventano, pertanto, i segni storici della potenza salvifica divina in atto e, nel contempo, segni anticipatori degli effetti della risurrezione[50]. I miracoli di guarigione, quindi, unitamente alla parola dalla quale non sono mai disgiunti, anzi da questa defluiscono e traggono la loro forza rigenerante, vanno colti principalmente come l’irrompere della potenza di Dio in mezzo agli uomini e sono un segno visibile di una rigenerazione spirituale che ricolloca l’uomo in seno a Dio. La cosa diventa più evidente se pensiamo come le malattie nei vangeli sono la metafora dello stato degradato e degradante in cui l’uomo vive a causa del peccato.

 

Accanto all’ordine di annunciare e di guarire, Gesù accompagna anche il sollecito di dare gratuitamente. Il comando della gratuità ha una duplice motivazione, una esplicita: l’aver ricevuto gratuitamente da Dio; la seconda è implicita: la salvezza è un dono gratuito che Dio fa all’uomo, indipendentemente dai suoi meriti e dalla sua condizione spirituale ed esistenziale in cui esso si trova[51]. La gratuità, quindi, diventa, da un lato, il segno inconfondibile dell’azione divina in mezzo agli uomini; dall’altro, il segno dell’autentico credente e annunciatore del Vangelo, che si pone al servizio del progetto salvifico di Dio e con Lui collabora alla salvezza dell’umanità. In altri termini, la gratuità dell’amore salvifico del Padre, che si rispecchia nel dono di Gesù (Gv 3,16), deve riflettersi e risuonare anche nel vero credente, diventando il marchio inconfondibile dell’autenticità della salvezza che proviene da Dio. Ciò non significa, tuttavia, che colui il quale si pone a servizio di Dio a beneficio degli uomini non abbia diritto di trarre il suo sostentamento dall’opera che egli svolge[52], ma è l’atteggiamento di dono che deve animare il servitore della salvezza e non fare della salvezza un proprio business personale. In merito alla questione della gratuità dell’annuncio del Vangelo e il diritto di vivere con il sostentamento tratto da questo, Paolo dedica l’intero cap. 9 della sua 1Cor, in risposta a quanti lo accusavano di farsi mantenere : “Questa è la mia difesa contro quelli che mi accusano. Non abbiamo forse noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Ovvero solo io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? O chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. Sta scritto infatti nella legge di Mosè: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si dà pensiero dei buoi? Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara deve arare nella speranza di avere la sua parte, come il trebbiatore trebbiare nella stessa speranza. Se noi abbiamo seminato in voi le cose spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? Se gli altri hanno tale diritto su di voi, non l'avremmo noi di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non recare intralcio al vangelo di Cristo. Non sapete che coloro che celebrano il culto traggono il vitto dal culto, e coloro che attendono all'altare hanno parte dell'altare? Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo. Ma io non mi sono avvalso di nessuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché ci si regoli in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto! Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero” (1Cor 9,3-19).

 

vv. 9-15: se i versetti precedenti hanno stabilito i destinatari (vv.5-6) e i contenuti (vv.7-8) dell’azione missionaria, questa pericope incentra la sua attenzione sulle modalità di esecuzione della stessa, con riguardo alla persona del missionario (vv.9-10) e nei confronti degli altri (vv.11-15). L’ingiunzione dei vv. 9-10 riguarda in particolar modo l’abbigliamento del missionario itinerante. Chi si metteva in viaggio[53] portava con sé sia del denaro per acquistare o qualche prezioso da barattare, che teneva al sicuro dentro la cintura in cuoio, fornita di tasche interne ove riporre i propri valori. La bisaccia era un oggetto di trasporto importante e serviva sia per contenere del cibo, sia degli indumenti di ricambio, necessari se si considera lo stato delle strade e del terreno su cui si era costretti a camminare. Il bastone, se da un lato serviva per sostenersi lungo il cammino, dall’altro costituiva uno strumento di difesa contro gli animali selvatici e contro i briganti, la cui presenza infestava le strade di quel tempo. Quelli che Matteo elenca in questi versetti sono oggetti che costituivano il normale abbigliamento del viandante e che fornivano allo stesso il minimo indispensabile per la propria sussistenza lungo il viaggio. Il divieto di portarli con sé ha una immediata spiegazione nella seconda parte del v. 10: “perché l'operaio ha diritto al suo nutrimento”. Viene qui sancito un principio che doveva essere diffuso e conosciuto già ai tempi di Paolo, se proprio l’Apostolo ricorda ai Corinti, in netta polemica con chi lo accusava di farsi mantenere, che “[…] anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo” (1Cor 9,14). Vi è, dunque, un diritto dell’apostolo di trarre il proprio sostentamento dalla sua stessa attività apostolica[54].  La questione, tuttavia, non era nuova e certamente era ben nota alla comunità matteana, formata da cristiani provenienti dal mondo giudaico. La Torah, infatti, riservava ai leviti e ai sacerdoti, per il servizio sacro che essi rendevano, la decima parte dei beni prodotti dagli Israeliti: “Il Signore disse ad Aronne: "Tu non avrai alcun possesso nel loro paese e non ci sarà parte per te in mezzo a loro; io sono la tua parte e il tuo possesso in mezzo agli Israeliti. Ai figli di Levi io do in possesso tutte le decime in Israele per il servizio che fanno, il servizio della tenda del convegno. Gli Israeliti non si accosteranno più alla tenda del convegno per non caricarsi di un peccato che li farebbe morire. Ma il servizio nella tenda del convegno lo faranno soltanto i leviti; essi porteranno il peso della loro responsabilità; sarà una legge perenne, di generazione in generazione; non possiederanno nulla tra gli Israeliti; poiché io dò in possesso ai leviti le decime che gli Israeliti presenteranno al Signore come offerta fatta con il rito di elevazione; per questo dico di loro: Non possiederanno nulla tra gli Israeliti” (Nm 18,20-24)[55]. Il diritto del Levita di avere la decima parte dei beni, sancito dal Libro dei Numeri, si fonda su due motivazioni: a) nella ripartizione dei territori tra le tribù, i Leviti non dovevano possedere alcuna terra e nessun bene proveniente da questa (Nm 18,20a), poiché liberi dalle incombenze della quotidianità, potessero dedicarsi pienamente al servizio del culto; infatti, b) la vera parte di eredità e di possedimento dei Leviti era Jhwh stesso (Nm 18,20b). Vediamo come, similmente, il Gesù matteano, ricalcando lo schema di Nm 18,20-24, impone ai predicatori itineranti di spogliarsi da ogni sicurezza materiale per potersi dedicare esclusivamente all’annuncio del Regno. Significativo è, in tal senso, il numero delle cose che il predicatore itinerante non deve portare con sé: sette, un numero che indica, secondo la cultura ebraica, la pienezza. Totale, quindi, doveva essere la spogliazione dei missionari, perché in piena libertà potessero portare l’annuncio del Regno. Questa doveva essere per loro la vera preoccupazione e il loro lavoro preminente. Di conseguenza, essi maturavano il diritto proprio di essere sovvenuti.

 

I vv. 11-13 spostano ora l’attenzione dalle modalità che regolamentano la figura del predicatore itinerante a quelle che normano, invece, il suo rapporto con i destinatari dell’annuncio: le città, i villaggi e la casa. Si tratta di alcune regole di buona ospitalità, ma poste all’incontrario, cioè dalla parte dell’ospitato e non dell’ospitante, il quale già per l’accoglienza dell’annuncio maturava un dovere di ospitalità nei confronti del missionario, che ha, invece, a sua volta, diritto alla sua assistenza (v.10b).

 

Il v.11 stabilisce il primo atto che deve compiere l’inviato entrando in città o in un villaggio: chiedere se in essa vi sia uno degno. Nel mondo veterotestamentario era consuetudine del forestiero sostare alle porte della città o nella sua piazza principale o presso una fonte d’acqua, luoghi questi di incontri dove egli poteva trovare disponibilità alla sua accoglienza presso qualche abitante[56]La ricerca dell’ospitalità, pertanto, rientra nelle logiche della cultura propria di quel tempo. Matteo, tuttavia, aggiunge una precisazione, che deve fungere da elemento guida alla ricerca di ospitalità: “domandate se c’è qualcuno degno in essa”. Il verbo usato qui è “™xet£sate” (exetàsate) che significa esaminare, investigare, indagare, interrogare e, quindi, chiedere. Si tratta, quindi, di una attenta e scrupolosa ricerca che il missionario deve compiere all’interno della città o del villaggio in cui intende entrare, per scoprire la persona degna. Perché tanta premura? Una risposta a questo interrogativo Matteo l’aveva già data in 7,6: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”. Si tratta, dunque, di trovare chi è disposto ad accogliere non tanto la persona dell’apostolo, ma il messaggio di salvezza che egli porta in sé. Si delinea, quindi, la figura della persona portatrice di dignità, cioè di capacità di accoglienza dell’annuncio. Molto probabilmente l’autore indica ai missionari di informarsi se presso la città o il villaggio vi sia un qualche discepolo o una qualche comunità credente o un qualche simpatizzante del Maestro e a lui vicino, presso i quali l’inviato può dimorare per tutto il tempo del suo soggiorno. L’ospitalità tra i credenti era una consuetudine ed una sorta di obbligo morale, un segno distintivo della loro fede[57]. Era viva, infatti, la coscienza che accogliere il credente e in particolar modo l’apostolo o il profeta era un accogliere Gesù stesso. Per questo Matteo ricorderà alla fine di questo capitolo che “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa” (10,40-42); mentre, nella cornice del giudizio finale, Gesù ricorderà che “[....] ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,40.45).

 

Il v.12 scandisce la prescrizione del secondo movimento: dopo aver trovato la persona capace di accoglienza, va dato il saluto, qui non più alla persona, ma alla casa che è aperta all’accoglienza. Già abbiamo visto come il termine casa nei Sinottici è spesso metafora della comunità credente[58]. E l’intero contesto lascia intendere che Matteo si riferisca proprio ad essa e a quanti ruotano attorno ad essa per simpatia e ammirazione. L’esortazione al saluto, che segue immediatamente, non va letta come una norma di buona educazione, ma il verbo usato (¢sp£sasqe, aspàsaste) lascia intuire che si va ben oltre ad un semplice gesto di bon ton. Il verbo greco è molto denso nel suo significato: salutare, ma anche accogliere con affetto, con premura, dare il benvenuto, baciare, abbracciare. Si tratta, in buona sostanza, di una reciproca accoglienza di condivisione e di comunione dell’unica fede nell’unico Cristo, suggellata dal bacio della pace, che caratterizzava il saluto cristiano del primo secolo[59]. Vedremo subito come il saluto racchiuda in sé un dono di pace, che nel mondo cristiano del I sec. era caricato di una forte valenza messianica e  cristologica.

 

Il v.13 lo si può considerare di transizione, sia perché conclusivo dei vv. 11-12, sia perché introduttivo ai vv. 14-15, che formano il contesto del giudizio che pesa sul rifiuto. Anche qui tutto ruota sulla dignità/indegnità o capacità/incapacità della casa di accogliere l’annuncio presente nell’apostolo. Si vengono, quindi, a delineare due atteggiamenti fondamentali di risposta all’annuncio del Regno. Nel primo caso la pace scenderà su quella casa, nel secondo caso la pace non produrrà i suoi effetti sulla casa e non la preserverà, di conseguenza, dal giudizio divino che viene posto su di essa. Lo schema dei vv. 12-15 ricalca da vicino le disposizioni che Mosè aveva dato al suo popolo nell’ambito della conquista della Terra Promessa nei confronti di quei popoli che accolgono o rifiutano Israele: “Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l'assedierai. Quando il Signore tuo Dio l'avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici, che il Signore tuo Dio ti avrà dato. Così farai per tutte le città molto lontane da te e che non sono città di queste nazioni” (Dt 20,10-15).

 

Nel mondo sia veterotestamentario che neotestamentario il saluto di pace era una consuetudine[60] ed equivaleva ad un augurio di ogni bene, sia spirituale[61] che materiale. Tuttavia, il senso della pace nel N.T. cambia radicalmente prospettiva ed è strettamente legato alla figura del Risorto ed assume un significato profondo di riconciliazione dell’uomo con Dio e lo apre ai cieli nuovi e alla terra nuova. In tal senso la pace diviene la dimensione entro cui deve dimorare il credente, nell’attesa della realizzazione della promessa divina del nuovo mondo (2Pt3,13-14). La pace, quindi, ha anche una dimensione escatologica che lega il presente dell’uomo al suo futuro, in cui egli è già collocato anche se non ancora in modo pieno e definitivo. In questo contesto è significativo il saluto che il Risorto rivolge ai suoi discepoli: “La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: <<Pace a voi!>>. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: <<Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi>>. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi>>” (Gv 20,19-23). Dal dono della pace scaturiscono quattro elementi fondamentali: a) la pace è legata alla passione, morte e risurrezione di Gesù e da queste scaturisce[62] (Gesù risorto mostra le sue piaghe); b) genera una grande gioia per la presenza del Signore[63]; c) alla pace è legato il mandato, che proviene dal Padre per il tramite di Gesù, perché questa pace sia diffusa in mezzo agli uomini; d) da essa promana il dono dello Spirito per la riconciliazione definitiva dell’uomo con Dio[64].

 

Il saluto augurale di pace, pertanto, che l’inviato rivolge alla casa, diventa una sorta di sacramento, un segno efficace della presenza del Risorto, dimorante nello stesso inviato, depositario dell’annuncio. La pace donata con il saluto è, quindi, atto di condivisione e di comunione dell’unico Cristo, che l’autore della Lettera agli Efesini definisce “la nostra pace”, cioè l’elemento di riconciliazione in Cristo di ebrei e non ebrei, che diventano un solo uomo nuovo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia” (Ef 2,13-16).

 

Si comprende, dunque, il comando di Gesù di cercare attentamente delle persone degne, disposte ad accogliere l’annuncio; così come il saluto di pace sia in realtà il dono di condivisione e di comunione con Cristo e come il rifiuto di tale pace diventi motivo di giudizio e di condanna. La missione dell’inviato, pertanto, viene circonfusa di sacralità, poiché essa è dono di Cristo salvatore all’uomo, che viene collocato nella comunione con Dio e con i suoi simili, proiettandolo nelle nuove realtà escatologiche, inaugurate dal Risorto.

 

I vv.14-15, riprendendo il tema della dignità/indegnità (vv.11-13), lo portano a conclusione introducendo il giudizio che viene posto su chi si è mostrato indegno:

 

-  in 14a viene enunciata la colpa: “chi non vi accoglierà, né ascolterà i vostri discorsi”;

-  in 14b viene portato l’atto di accusa: “andandovene fuori dalla casa o da quella città, scuotete la polvere dai vostri piedi”;

-  nel v.15 viene enunciata la sentenza di condanna: “In verità vi dico che vi sarà una sorte più sopportabile per la terra di Sodoma e Gomorra che per quella città”.

 

Il rifiuto dell’apostolo, in quanto portatore di un annuncio di salvezza, equivale al rifiuto della salvezza stessa. Il tema del rifiuto e dell’abbandono percorre l’intera Bibbia[65] ed è una costante nelle dinamiche della storia della salvezza: l’uomo può opporsi liberamente a Dio, il quale non può fare nulla di fronte al rifiuto. Non deve stupire questa impotenza di Dio nei confronti dell’uomo, poiché nel suo libero atto creativo Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26; 2,15), dandogli, quindi, libera capacità discrezionale. In altri termini, Dio, creando l’uomo, sia pur a livello creaturale, ha creato un altro se stesso con il quale deve fare i conti, accettando anche l’imposizione del suo rifiuto. Ed è proprio qui che si annida il dramma della storia della salvezza: la salvezza gratuitamente offerta, nata da un puro atto di amore (Gv 3,16), può essere vanificata da un caparbio atto di arroganza da parte dell’uomo[66]. La venuta di Gesù se, da un lato, costituisce un’offerta di salvezza per tutti[67], indipendentemente da ogni condizione sociale, culturale o esistenziale, dall’altro, porta in se stessa un’immediata azione di giudizio[68], che può essere di salvezza o di condanna, in dipendenza  della risposta esistenziale che l’uomo dà a tale proposta. E Dio non può farci nulla, poiché ciò che doveva fare lo ha già pienamente compiuto nel suo Cristo. Ora spetta all’uomo dare la sua risposta e prendere posizione nei confronti dell’offerta di salvezza. Pensare ad un Dio che alla fine dei tempi fa un’amnistia universale, salvando l’uomo al di là della sua volontà e del suo orientamento esistenziale, è altamente ingannevole e, proprio per questo, altamente rischioso. Infatti se così fosse, c’è da chiedersi a che cosa è servito l’invio di Gesù, la sua morte, risurrezione, il dono della sua Parola, l’istituzione del suo Regno, il richiamo ai valori eterni, ecc. se poi, alla fine dei giochi, al di là del bene e del male, ci sarà sempre e comunque la salvezza per tutti. A tal proposito, S.Agostino ricorda che “Colui che ha creato te senza di te, non giustificherà te senza di te”[69].

 

Ecco, dunque, l’invito: “andandovene fuori dalla casa o da quella città, scuotete la polvere dai vostri piedi”. È un chiaro atto di accusa contro la chiusura a Dio e il rifiuto della sua proposta di salvezza. L’uscire dalla casa o dalla città significava l’abbandono al loro destino di perdizione, mentre lo scuotimento della povere dai calzari costituiva una presa di distanza e di rifiuto, che creava una contrapposizione insanabile tra le due parti. Era consuetudine dell’ebreo, rientrando in patria dopo un soggiorno in terre pagane, scuotere la polvere dai suoi calzari e dalle sue vesti, per non contaminare la Terra Santa, che Jhwh gli aveva donato, con la polvere del suolo pagano, considerato impuro[70]. Si rimarcava in tal modo la netta divisione tra il sacro e il profano e la propria appartenenza a Jhwh, che implicitamente denunciava l’esclusione del mondo pagano. Si creava in tal modo una sorta di spaccatura tra due realtà tra loro inconciliabili[71]. Lo stesso Paolo, nei confronti dei Giudei che gli si opponevano e rifiutavano il suo annuncio su Gesù, si scuoterà le vesti, prendendo una dura posizione nei loro confronti: “Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani” (At 18,6).

 

All’atto di accusa (v.14) segue immediatamente la sorte riservata agli increduli: “In verità vi dico, nel giorno del giudizio vi sarà una sorte più sopportabile per la terra di Sodoma e Gomorra[72] che per quella città”. Il v.15 si apre con l’espressione Amen[73], che dà solennità e ufficialità alla sentenza che segue. Essa possiede in sé un tono di definitività, che non ammette ricorsi: “Amen, vi dico”. La durezza del verdetto viene sottolineata dal raffronto del castigo subìto da Sodoma e Gomorra (Gen 19,23-26) con quello che aspetterà, ben più grave, alla città ribelle, che si chiude con il rifiuto alla proposta di salvezza. Il nome delle due città, distrutte con il fuoco e lo zolfo dell’ira divina per la loro profonda perversità (Gen 13,13; 18,20), ricorre 39 volte nell’A.T. e 8 volte nel N.T. Esse divennero, sia nel mondo veterotestamentario che in quello neotestamentario, da un lato il simbolo della perversità e, dall’altro, il parametro di raffronto su cui si modella il giudizio di Dio e il suo castigo sull’umanità pervicacemente peccatrice.

 

vv. 16-25: Che l’azione missionaria in mezzo agli uomini non fosse una scampagnata tra rose e fiori, già lo si era arguito dai versetti immediatamente precedenti (vv. 14-15), che, nel chiudere la loro pericope (vv.5-15), avevano introdotto il tema del rifiuto, associato ad una sentenza di condanna, peggiore di quella toccata in sorte a Sodoma e Gomorra. Cosa significhi rifiuto e i termini con cui questo si sarebbe manifestato e attuato lo illustrerà questa seconda pericope del cap.10 (vv.16-25).

Lo stretto legame e la stretta continuità tra le due pericopi, così che la seconda (vv. 16-25) va  a costituire il logico sviluppo della prima (vv.5-15), sono stabiliti dall’espressione introduttiva del v.16 “'IdoÝ ™gë ¢postšllw Øm©j” (Idù egò apostéllo imàs, “Ecco, io vi mando”). L’avverbio “ecco” apre un nuovo scenario, il cui aggancio con quanto precede è garantito dal verbo “mandare, inviare” (¢postšllw, apostéllo), che si richiama al tema della missione dei vv. 5-15.

 

La struttura della pericope (vv.16-25) si sviluppa su tre livelli:

 

a) v.16: costituisce il prologo introduttivo dell’intera pericope, il quale delinea, da un lato, la pericolosità della missione: pecore in mezzo ai lupi (v.16a), che rimanda ai seguenti vv.17-18; dall’altro, indica il comportamento da tenere, esortando all’accortezza e alla integrità d’animo e di fede: “accorti come serpenti e integri come colombe” (v.16b), che rimanda ai restanti vv. 19-25;

 

b) vv.17-18: presentano i “lupi” (uomini, principi, re, gentili) e le loro tane dove sbranano le pecore (sinedri e sinagoghe);

 

c) vv.19-25: si suddividono in tre parti che descrivono ciascuna delle particolari situazioni di persecuzione: la prima (vv.19-20) e la terza (vv.23-25) sono introdotte da un avverbio di tempo “quando” (Ótan, òtan), che delimita lo spazio temporale entro cui si verificheranno le persecuzioni. Al centro (vv. 21-22), nel cuore dell’unità letteraria (vv.19-25), viene posta la situazione di persecuzione, che colpisce i rapporti parentali, per indicare fino a quale livello arriva la spaccatura che provoca l’annuncio della Parola e l’adesione ad essa[74]: fin dentro all’intimità del rapporto più sacro che un uomo conosce: la famiglia, con i tutti i suoi legami di sangue, di sentimenti e di emozioni, che ogni uomo si porta dentro per naturale eredità.

 

Tutte le tre parti seguono un loro preciso schema ripetitivo, che le accomuna[75]:

 

1) il contesto di persecuzione: vv. 19a (“Quando vi perseguiteranno …”); 21 (“il fratello consegnerà alla morte …”); 23 (“Quando vi perseguiteranno …”);

 

2) l’esortazione: vv. 19b (“non preoccupatevi in che modo …”); [nei vv. 21-22 l’esortazione “non preoccupatevi” è implicita” e si aggancia a quella del v.19b]; 23b (“fuggite”);

 

3)  La promessa: vv. 19c-20 (“vi sarà dato in quel momento …”); 22b ("colui che resisterà sino alla fine");  23c (“non finirete le città d’Israele …”)

 

La pericope (vv. 16-25) si conclude con un detto di Gesù (vv.24-25), che costituisce la chiave di lettura dell’intera pericope: la persecuzione contro i discepoli e gli annunciatori del Regno accomuna questi alla triste sorte del loro Maestro.

 

Il v.16 si apre con l’espressione “'IdoÝ ™gë ¢postšllw Øm©j” (Idù egò apostéllo imàs, “Ecco, io vi mando”), molto densa di significati. Il versetto, con quel “Ecco” introduce un nuovo scenario narrativo, che, nell’espressione verbale “vi mando” (“¢postšllw Øm©j”), si aggancia al tema dell’invio, introdotto dal v.5a (¢pšsteilen) e trattato nel suo aspetto contenutistico e normativo dalla pericope vv.5b-15. Ora il tema dell’invio viene ripreso e sviluppato nel suo aspetto del rifiuto, che si fa persecuzione, quali risposte negative all’annuncio del Regno.

 

Il verbo dell’invio è qui posto al presente indicativo (¢postšllw, apostéllo), per indicare un’azione che si compie nell’oggi del discepolo inviato e della stessa comunità, portatrice di tale invio. Entrambi, quindi, sono qualificati dalla loro natura di inviati. L’oggi di Matteo è un tempo che travalica le dimensioni spazio-temporali, passate e future, agganciando in sé il presente di ogni tempo, in cui viene a collocarsi ogni credente, lungo il cammino della storia. Il messaggio che segue (vv.16-42), quindi, si estende dalla stretta cerchia dei Dodici (vv.1.2.5), con cui è iniziato questo secondo discorso di Gesù, ai discepoli di ogni tempo. Significativo, in tal senso, il contrapposto uso dei tempi dello stesso verbo ¢postšllw: qui, al v.16, usato al presente indicativo, per indicare un’azione che si compie nell’oggi di ogni tempo; mentre al v.5 è all’aoristo di tipo ingressivo (¢pšsteilen, apésteilen, inviò) per indicare un’azione che ha avuto la sua origine nel passato e che ha avuto come struttura fondante i Dodici, numero la cui importanza è data dal suo ripetersi tre volte in pochi versetti (vv. 1.2.5). Il verbo ¢postšllw, infine, è preceduto significativamente dal pronome personale “™gë, egò” (io), riferito allo stesso Gesù, che viene indicato, pertanto, come l’unico soggetto inviante in ogni tempo, l’unica matrice da cui ogni invio scaturisce e trova la sua giustificazione.

 

L’invio si riferisce ai discepoli, che qui sono qualificati come pecore contrapposte ai lupi. La contrapposizione di pecore e lupi serve a mettere in rilievo l’inevitabile e irriducibile contrasto che guiderà e caratterizzerà i rapporti dei nuovi credenti con il mondo a cui sono inviati. Sovente nel linguaggio profetico le pecore erano metafora del popolo d’Israele[76], una metafora che qui, e nel N.T. in genere, viene estesa al discepolo e alla nuova comunità credente, non più necessariamente appartenenti alla stretta cerchia del mondo giudaico, ma ad una realtà nuova, che attraversa e abbraccia l’intera umanità[77], e che ha come denominatore comune l’unica fede in Gesù, il vero pastore[78], di cui esse, le nuove pecore, riconoscono la voce e la seguono (Gv 10,3-4.14.27). Il loro invio in mezzo ai lupi delinea il mondo ostile, sia giudaico che pagano[79], al cui interno Gesù e i suoi discepoli si muovono e vivono (Gv 15,18-19; 16,33). L’avversità del mondo (i lupi) deve far maturare all’interno dei credenti atteggiamenti di prudenza e di accortezza (“accorti come serpenti[80]”), perché il mondo odia ciò che non è suo (Gv 15,9). Tuttavia la prudenza e l’accortezza non devono mai spingere all’equivoco, portare a confondersi e a conformarsi alla mentalità del mondo, per mimetizzarsi tra i lupi. La prudenza del vivere credente, pertanto, deve essere sempre accompagnata dall’integrità del candore della colomba[81] (“integri come colombe”), un candore che è testimonianza di una realtà nuova e sconosciuta: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-25). Lo stesso Paolo sollecita la comunità di Roma ad una vita di testimonianza integra, qualificata dalla costante ricerca della volontà divina, in cui continuamente rigenerarsi, trasformando la propria vita in un atto di culto a Dio: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,1-2).

 

Se il v.16 funge da prologo introduttivo all’intera pericope (vv.16-25), precisando, da un lato, le inevitabili difficoltà entro cui si muoveranno i discepoli (v.16a), dall’altro, l’atteggiamento da assumere in risposta all’ostilità (v.16b), i vv.17-18 precisano in che cosa consistono queste ostilità e chi siano concretamente i lupi con i quali i discepoli dovranno misurarsi. Il contesto è quello proprio della persecuzione, delineato sia dai verbi: a) vi consegneranno, b) vi percuoteranno, c) sarete condotti; che dalle motivazioni, che sottendono il compiersi preannunciato dai verbi: “per causa mia” e “per la testimonianza”. I verbi, posti al futuro, stanno ad indicare come questo stato di persecuzione non è destinato ad esaurirsi nel presente, ma costituirà una costante, che accompagnerà sempre il discepolo lungo il cammino della sua vita e della storia; mentre le cause, espresse, non a caso, con dei sostantivi, rimangono sempre le stesse. Al contesto di persecuzione l’autore, inoltre, ha voluto dare anche un tocco escatologico, anticipando qui alcuni temi propri del discorso escatologico, che tratterà nel cap.24[82]. La persecuzione a causa del nome di Gesù e la sua testimonianza non vanno lette, dunque, come un fatto accidentale e sfortunato, ma rientra in un preciso piano salvifico, che si inserisce in un contesto proprio degli ultimi tempi, che precedono la venuta finale di Cristo e l’impianto definitivo del suo Regno in mezzo agli uomini. I discepoli, pertanto, devono avere questo preciso stato di coscienza: persecuzioni e testimonianza sono eventi immediatamente precursori del compiersi della salvezza finale, di cui essi sono gli araldi, così come Giovanni, il Battista, lo fu nei confronti della venuta di Gesù (Lc 1,76-77).

 

Il v.17 si apre con un richiamo molto forte: “prosšcete” (proséchete), verbo composto dalla preposizione “pros” + il verbo “œcw” (pros + éco), che letteralmente significa “avere la propria mente, il proprio essere rivolto verso”. L’attenzione, quindi, deve essere posta al massimo livello non tanto per salvaguardare le proprie vite, che se perdute per causa del vangelo sono in realtà guadagnate (Mt 10,28.39b), ma in particolar modo perché queste vite racchiudono in se stesse l’annuncio del Regno. Questo deve essere salvaguardato, poiché in questo è racchiuso l’intero progetto salvifico di Dio, che deve essere manifestato e testimoniato a tutti gli uomini.

Il pericolo, tuttavia, non proviene dagli uomini in generale, ma da quelli la cui incredulità ha reso pervicacemente ciechi e ottusi ad ogni richiamo divino. Chi siano questi viene definito, ora, dai vv. 17b-18: “vi consegneranno ai sinedri[83] e nelle loro sinagoghe[84] vi percuoteranno” (v.17b). Il riferimento al mondo giudaico, con il quale la comunità matteana è in netto contrasto e in una fase di rottura ormai consumata, è inequivocabile. Da qui, infatti, scaturiranno le prime persecuzioni. La seconda fascia di uomini è molto più ampia e riguarda il mondo pagano: “E sarete condotti davanti ai principi e ai re” (v.18a).

 

Definite le fonti primarie che attentano al messaggio salvifico, giudei e pagani, ora Matteo indica il motivo scatenante la persecuzione: “›neken ™moà” (éneken emù, “a causa di me”). Viene messo, quindi, in evidenza il motivo più vero e più profondo, che sta all’origine della persecuzione e costituisce il suo obiettivo primario: non sono tanto i discepoli in se stessi, bensì il messaggio di cui essi sono portatori e quanto essi rappresentano. Lo stesso Gesù giovanneo, rivolto ai suoi discepoli, attesta: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7). Anche l’avverbio di causa “›neken”, che compare 17 volte in tutto il N.T. di cui 13 volte nei soli Sinottici[85], viene sempre ed esclusivamente riferito a Gesù, quale causa di persecuzioni e sofferenze, così come in At 28,20. “›neken” diventa, pertanto, nel linguaggio sinottico, un avverbio tecnico, che indica in Gesù la fonte primaria di ogni persecuzione, che da lui si estende a tutti i suoi discepoli (Gv 15,18-19).

 

L’espressione “›neken ™moà” è immediatamente seguita da un’altra molto significativa “e„j martÚrion” (eis martìrion, per la testimonianza). Questa espressione si trova 13 volte in tutto l’A.T.[86] e 11 volte nel N.T.[87]  Il suo uso compare esclusivamente in contesti giuridici come per la stipula di un contratto, per la conclusione di un’alleanza, nell’ambito di un giudizio non solo tra uomini, ma anche tra Jhwh e il suo popolo, caratteristica, quindi, del linguaggio profetico. Nel N.T. essa mantiene sempre il suo senso giuridico ed ha sempre attinenza o alla Legge o al giudizio che si compie nei tribunali o con riferimento al giudizio divino. Anche nel nostro caso, quindi, l’espressione in questione ha una valenza squisitamente giuridica, perché essa si compie nel contesto di un tribunale (v.17), ma acquista una duplice valenza: testimonianza di Gesù nei confronti dei giudei e dei pagani, verso i quali i discepoli sono chiamati a spiegare il loro comportamento, ma nel contempo, una testimonianza anche contro di loro. L’uso del dativo, che segue l’espressione, infatti, significa parimenti “per loro” come “contro di loro”. Questo doppio significato è rafforzato anche dal fatto che Matteo nel v.14, dove si parla di scuotere la polvere contro la casa e la città che non hanno accolto i discepoli, non fa seguire, come in Mc 6,11 e Lc 9,5, l’espressione “e„j martÚrion” ma al suo posto emette, in 10,15, la sentenza di condanna. Segno questo che, per l’autore, l’espressione acquisisce anche il valore di un giudizio contro chi, chiudendosi nelle sue certezze, rifiuta l’annuncio. Pertanto il tribunale degli uomini, di fronte al quale i discepoli sono chiamati a difendersi, diventa, ipso facto, anche il tribunale di Dio, che opera nella testimonianza dei discepoli un giudizio contro giudei e pagani, qui accomunati assieme, che pervicacemente si ostinano nella loro chiusura nei confronti di Dio.

 

I vv.19-23 descrivono tre diversi contesti entro cui si produrranno le persecuzioni: a) il contesto pubblico e generico dei tribunali (vv.19-20); b) quello ristretto familiare, delle amicizie e delle conoscenze, che vi gravitano attorno (vv.21-22); c) quello topografico dei luoghi propri di abitazione (v.23a). La presentazione di ogni contesto si conclude sempre con un’indicazione del come comportarsi nei vari frangenti e porta sempre con sé una promessa.

 

I vv.19-20, a motivo del loro contenuto, si agganciano ai vv.17-18 e ne costituiscono il loro sviluppo logico. Il frangente, quindi, è quello della cattura e del trascinamento dei discepoli davanti al tribunale degli uomini per rispondere del loro comportamento. Tre sono i verbi fondamentali che strutturano il v.19: “Quando vi consegneranno”, “non preoccupatevi”, “vi sarà dato”. Il verbo consegnare (parad…dwmi, paradìdomi) compare nel N.T. 69 volte e vi assume un duplice significato: consegnare nel senso generico di dare qualcosa a qualcuno; e consegnare nel senso costrittivo del consegnare ai tribunali, ai giudici, alle autorità e alle guardie. Il verbo compare nel N.T. con quest’ultimo significato 48 volte, quasi tutte riferite a due particolari categorie di persone: Gesù e i discepoli. Questa associazione fa assumere, nel nostro caso, un particolare significato alla consegna dei discepoli ai tribunali per essere giudicati: la loro assimilazione alla sorte di Gesù. Questo non deve essere motivo di turbamento e di preoccupazione, perché Gesù ha già vinto le pretese del mondo, su cui già pesa il giudizio divino di condanna per la sua incredulità (Gv 3,18-19; 14,1.27; 16,33). La preoccupazione, tuttavia, non va a cadere sul fatto dell’essere stati arrestati, ma sul cosa dire e come dirlo. In ultima analisi sulle modalità della difesa, da cui dipende poi la sorte stessa del discepolo. Ebbene, Matteo, ora, fa capire alla sua comunità che la difesa non è incentrata su se stessi, sul salvare la propria vita, ma sul come rendere testimonianza a Gesù, a motivo del quale (v.18) essi sono perseguitati e rischiano la propria vita. Per questo introduce un elemento nuovo: “vi sarà dato in quel momento che cosa direte”. Il verbo dare è posto al passivo (doq»setai, dotzésetai, sarà dato ), che nel linguaggio biblico indica l’intervento divino, segno che tale dono proviene direttamente da Dio e il loro parlare sarà il parlare stesso di Dio. Non si tratta, qui, pertanto, del trovare le parole giuste per uscire fuori da una situazione precaria, che può precipitare il discepolo verso una condanna di morte. In gioco qui non ci sono le vite dei discepoli, ma quella della testimonianza del Regno, per questo non servono parole di uomini, benché bene intenzionati come i discepoli, ma serve un intervento superiore: lo Spirito del Padre. È Lui, infatti, che sa rendere la testimonianza: “Infatti, non sarete voi che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro sarà il parlare in voi”; come dire che il discepolo chiamato a testimoniare in realtà è soltanto lo strumento della voce stessa di Dio, che si fa presente in mezzo agli uomini anche nell’occasione del giudizio presso i tribunali. Per questo la testimonianza costituirà un elemento di giudizio contro gli stessi giudici, che da giudicanti diventano giudicati, e contro coloro che hanno consegnato loro i discepoli. Il fulcro attorno al quale tutto ruota, pertanto, non sono le vite dei discepoli, bensì l’affermazione del Regno, di cui i discepoli sono servi inutili (Lc 17,10) e al quale Matteo dedicherà per intero il cap.13, il terzo grande discorso di Gesù, che l’autore colloca al centro dell’intera sua opera. Viene pertanto affermata la primarietà dell’azione salvifica di Dio sull’uomo, perché proprio da questa l’uomo verrà associato alla vita stessa di Dio, in cui trova la pienezza del suo vivere come del suo morire. Perdere la propria vita per il Regno in realtà è guadagnarla (Mt 10,38-39). Paolo, prigioniero ad Efeso, in attesa di giudizio, che potrebbe risolversi per lui in una condanna a morte, scrive, intorno all’anno 54, una toccante lettera ai Filippesi ai quali confessa: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,7-11).

 

Le difficoltà dei discepoli, tuttavia, non provengono soltanto dalle autorità, giudaiche o pagane che siano, ma si annidano anche all’interno della stretta cerchia parentale (vv.21-22), là dove ogni essere umano dovrebbe trovare la sua naturale sicurezza: fratello contro il fratello, padre contro figlio, figli contro il padre, fino al punto di dare loro la morte. L’essere credenti non fa sconti a nessuno e niente viene risparmiato al credente. Era questa la dura e difficile situazione in cui  venivano a trovarsi i neoconvertiti. Del resto Gesù stesso lo ricorderà proprio in questo contesto di persecuzioni (cap.10): “Non crediate che sia venuto a porre la pace sulla terra, ma la spada. Venni, infatti, a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora dalla suocera e nemici dell’uomo saranno i suoi familiari” (vv.34-36; Lc 12,51). Ciò non dovrebbe stupire, poiché già si è detto come il discepolo è assimilato al suo Maestro (v.25). Gesù, del resto, non ebbe una sorte migliore: egli non fu capito dai suoi genitori (Lc 2,19.48-50.51b); non fu capito e fu guardato con sospetto dai suoi stessi parenti, tra i quali era presente anche sua madre; questi lo seguivano, ma se ne stavano fuori dalla sua cerchia, prendendone le distanze, perché lo ritenevano fuori di testa (Mt 12,47; Mc 3,21.32; Gv 7,5); non fu capito né creduto dai suoi stessi compaesani di Nazareth, che cercavano di buttarlo fuori dalla sinagoga e tentavano di precipitarlo in un dirupo, scandalizzati dalle sue pretese e dal suo annuncio[88]; non fu capito neppure dai suoi discepoli[89], che a più riprese lo abbandonarono nella sequela (Gv 6,66) e di fronte al pericolo fuggirono, lasciando Gesù da solo (Mt 26,56; Mc 14,50) e pur di salvare la propria vita e i propri interessi lo tradirono[90] e lo rinnegarono[91]; non fu capito, né creduto e fu rinnegato dai suoi concittadini, che egli aveva beneficato[92] e la sua missione fu sostanzialmente un fallimento; Giovanni, infatti, amaramente constata, al termine della missione terrena di Gesù, che “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37). Invocò il Padre perché gli risparmiasse la morte di croce, ma non ottenne nessuna risposta (Mt 26,39.42; Mc 14,36); solo Luca attenua la durezza del silenzio del Padre affermando che “Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo” (Lc 22,43); ma sulla croce Gesù sperimentò l’abbandono assoluto, il vuoto di Dio, e lanciò contro il Padre la sua accusa di abbandono: “Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: <<Elì, Elì, lemà sabactàni?>>, che significa: <<Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?>>” (Mt 27,46; Mc 15,34) e morì lanciando un alto grido, che si avvicinava molto ad un urlo di disperazione (Mt 27,50). Ma neppure la sua risurrezione bastò a rafforzare la fede nei suoi discepoli, così che lo stesso Matteo commenta tristemente: “Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; questi però dubitavano” (Mt 28,17)[93].

 

Triste sorte quella di Gesù, e a questa i suoi discepoli sono stati associati!

 

Non stupisce, quindi, il v.22a: “E sarete disprezzati da tutti a causa del mio nome”. Il disprezzo, frutto dell’incomprensione, della chiusura e del rifiuto, in ultima analisi, frutto dell’incredulità, ha la sua origine proprio nella persona di Gesù e nel suo messaggio, che gli uomini carnali non possono comprendere, perché non sono permeati dello Spirito di Dio, l’unico in grado di condurre il credente alla verità tutta intera (Gv 16,13). Lo ricorderà lo stesso Gesù giovanneo a Nicodemo: “Gli rispose Gesù: "In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio". Gli disse Nicodemo: "Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?". Gli rispose Gesù: "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,3-6).

 

Ma all’origine del disprezzo non c’è soltanto una difficoltà di comprensione e di fede, ma anche un insanabile contrasto, che si radica nella natura stessa delle cose e che contrappone Gesù e i suoi discepoli al mondo; una contrapposizione che magistralmente Giovanni sintetizza nel suo prologo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta” (Gv 1,4-5), così che “… il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere” (Gv 3,19-20). C’è, quindi, un’inconciliabile malvagità di fondo, che impedisce qualsiasi rapporto.

 

Il seguire Gesù non è una marcia trionfalistica, che si conclude con l’apoteosi della risurrezione tra il plauso delle genti, ma è un duro e spietato cammino sul sentiero della croce, che richiede una scelta radicale (Mt 12,30; Lc 11,23; 14,26) e senza tentennamenti (Lc 9,62) e che porta a rinnegare se stessi, a cambiare radicalmente mentalità, prendere la propria croce, seguendo le orme insanguinate del proprio Maestro (Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23). Su questo modo di porsi di fronte a Gesù, Paolo svilupperà la sua riflessione teologica, rivolta alla comunità di Roma: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,3-5).

 

La fase più dura e più dissacrante della persecuzione, il tradimento dei propri familiari nei confronti di un loro membro, si conclude con una consolante promessa: “ma colui che ha resistito fino alla fine, costui sarà salvato”. Il verbo “Øpome…naj” (ipomeìnas, “colui che ha resistito”) possiede in sé una ricca sfumatura di significati, che identificano bene il senso di quel “resistere”. Innanzitutto il verbo “Øpomšnw” è composto dall’avverbio di luogo “ØpÒ” (ipò, “sotto”) + “mšnw” (méno, stare, rimanere), quindi, significa “stare di sotto; rimanere sotto, sottostare”, indicando una passività, un subire, che rimanda ad una prova, che si è chiamati ad affrontare e che per questo richiede al sottoposto di resistere, ma anche  di “rimanere a pié fermo; far fronte, tollerare, sopportare, sostenere”. Tutti aspetti questi che si appellano alla forza d’animo che, nel nostro caso, si radica nella fede viva nel Risorto, che ha vinto il mondo (Gv 16,33). Il soffrire la prova, pertanto, non è un ineluttabile destino a cui tutti gli uomini, in un modo o nell’altro, poco o tanto, o per ragioni diverse patiscono, ma per il credente acquista il suo senso più vero, quando i patimenti sono originati dal proprio stato di credente. Questo tipo di sofferenza richiede una scelta esistenziale di fondo: l’essere per Cristo e con Cristo. Nel contempo, il soffrire per Cristo e a causa del suo nome possiede in se stesso anche un dinamismo salvifico, che realizza nel discepolo fedele la sua stessa salvezza, che è partecipazione e condivisione della vita stessa di Dio: “costui sarà salvato” (oátoj swq»setai, ùtos sotzésetai). Ci troviamo di fronte ad un passivo teologico o divino, che rimanda all’agire stesso di Dio, che costituisce la risposta di Dio alla fedeltà sofferente del suo discepolo.

 

I due verbi, l’uno posto all’aoristo (colui che ha resistito) e l’altro al futuro (sarà salvato), intramezzati dall’espressione “fino alla fine” (e„j tšlojeis télos) collocano la sofferenza del discepolo in una prospettiva escatologica, ma nel contempo indicano anche la pienezza e la totalità della dedizione del discepolo a favore del suo Maestro.

 

Il cammino della testimonianza è disseminato di difficoltà, di sofferenza e rende inviso il discepolo agli occhi del mondo; ma se questi riuscirà a raggiungere la cima del Golgota (“fino alla fine”), egli entrerà allora anche nella luce del Risorto: “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21.23).

 

Il contesto escatologico del v.22b trova la sua risonanza e il suo completamento nel v.23, che è scandito in due parti tra loro complementari:

 

a) v.23a: la persecuzione causerà una continua fuga di città in città;

b) v.23b: la fine di questa fuga si avrà con la venuta del Figlio dell’uomo.

 

Il v.23a si aggancia al v.14b  e con lui forma una sorta di inclusione per identità di tema: l’uscire dalla città avversa e chiusa all’annuncio della salvezza. Nel contesto del cap.10 il termine “città” acquisisce un significato decisamente negativo, per l’atteggiamento di rifiuto che la qualifica. In 5b, infatti, si parla della “città dei Samaritani”, considerati dei traditori ed eretici, equiparati a dei pagani[94]; nel v.14b la città è oggetto di abbandono e di accusa da parte dei discepoli respinti; nel v.15 essa è oggetto di giudizio, che la vede in una posizione peggiore di Sodoma e Gomorra; e qui nel v.23 la città, perdendo il suo anonimato, appare come la metafora e il simbolo di tutte le città e i villaggi di Israele, accomunati dal loro essere restii ad aprirsi alla salvezza, divenendo le principali fautrici della persecuzione e le peggiori avversarie del Regno. Giovanni, proprio sui Giudei, che nel suo vangelo acquistano una valenza negativa per la loro incredulità[95], che li rende impermeabili a Cristo, ricorda nel suo prologo come proprio Gesù “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11). Le città d’Israele diventano, pertanto, una metonimia[96] degli stessi Giudei, sui quali già grava il giudizio divino (v.15). Il v.23a, pertanto, richiama in modo sintetico il contesto di incredulità, che si fa avversione e si traduce in persecuzione, entro cui i discepoli si muovono e di cui sono vittime.

Ora, Matteo, con la seconda parte del v.23 (23,b), definisce un tempo storico entro cui tale stato di cose terminerà per la venuta del Figlio dell’uomo: “In verità vi dico, non finirete le città d’Israele prima che venga il Figlio dell’uomo”. Due sono gli elementi che il v.23b evidenzia: a) stabilisce un tempo, anche se molto vago e impreciso circa la venuta del Figlio dell’uomo: questa si verificherà quando ancora i discepoli sono impegnati nell’annuncio presso il mondo giudaico, al quale sono stati mandati in esclusiva (vv.5-6) e a motivo del quale sono costretti ad una continua fuga da una città ad un’altra (v.23a); b) proprio in tale frangente storico verrà il Figlio dell’uomo, la cui venuta, in Matteo, è sempre strettamente legata al giudizio[97].

 

Che cosa Matteo vuol dire con il v.23? A che cosa allude? Innanzitutto l’autore pone in stretta relazione tra loro l’annuncio ad Israele (v.6) con la venuta del Figlio dell’uomo e questa venuta avverrà in un contesto storico preciso, individuato dallo stesso percorrere dei discepoli le città ribelli all’annuncio. Il significato del v.23 è molto profondo e allude, a nostro avviso, ad un duplice aspetto, teologico e storico. Quanto all’aspetto teologico l’annuncio dei discepoli in mezzo ad Israele rende presente, ipso facto, Gesù stesso che, proprio a motivo del rifiuto da parte dei Giudei, si costituisce come giudice escatologico su Israele. In altri termini, l’annuncio del Regno costringe i Giudei a prendere posizione, divenendo in tal modo un elemento di discriminazione e di giudizio tra chi accoglie e chi rifiuta. Nel caso di rifiuto, l’atto di accusa è dato dallo scuotersi di dosso la polvere da parte dei discepoli e dal loro lasciare la città (vv.14.23a); mentre la prova conclamata del rifiuto è il suo tradursi in persecuzione, che costringe i discepoli ad una continua fuga, di città in città (v.23a). L’annuncio del Regno, quindi, è sentito da Matteo come un atto di giudizio escatologico, che si compie già nell’oggi, contro chi lo rifiuta. Quanto all’aspetto storico,  l’autore risente, qui, in parte, della sua cultura ebraica, che tende a pensare in termini concreti e storici l’attuarsi della salvezza. Ecco, pertanto, che l’evangelista vede il compiersi di questo giudizio di condanna qui nella storia nel frangente drammatico della guerra giudaica (66-70 d.C.) con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio[98] e, con questo, la fine dell’antico culto giudaico, fine dei sacrifici e del sacerdozio, il quale era strettamente legato al Tempio e in funzione di questo[99]. Perso il tempio, anche il sacerdozio ha perso la sua stessa identità e la propria ministerialità. A tale distruzione farà riferimento Matteo in 23,37-38, con un richiamo indiretto, a nostro avviso, a questo cap.10: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta!”[100].

 

Se i vv.11-15 preannunciavano le difficoltà e le resistenze che il discepolo poteva trovare nella sua testimonianza, i vv.16-23 si sono incaricati di dare un volto e una identità a queste difficoltà, dettagliandone le circostanze e le modalità. Ora i vv.24-25 concludono il discorso sulle persecuzioni con una sorta di riflessione sapienziale, che se da un lato spiega le motivazioni di fondo di tali persecuzioni, per cui nessun discepolo o nessun servo può essere superiore al suo maestro o al suo padrone, dall’altro, proprio per questo,  rimandano alla causa prima ed unica di queste: Gesù[101].

 

I vv.24-25a stabiliscono una sorta di norma di fondo, che nasce dal raffronto tra il maestro o il padrone e il discepolo o il servo. Maestro e padrone, pertanto, sono i punti di confronto sui quali discepoli e servi sono riparametrati e, di conseguenza, qualificati nella loro identità. Matteo non si richiama a caso alla figura del Maestro e a quella del Padrone. Le due figure formano una sorta di reciproca endiadi[102], per cui si può dire che il Maestro è anche il Padrone, così come il Padrone è anche il Maestro; di conseguenza, il discepolo viene qualificato come servo del proprio Maestro, che gli è anche Padrone, così come il servo fedele diventa ad essere per ciò stesso anche discepolo del suo Maestro-Padrone. Viene, quindi, qui definita la natura del discepolo, che non è un semplice seguace di Gesù, ma ne è anche il servo, cioè colui che si mette a totale disposizione di Gesù, ma, nel suo nome, anche a disposizione degli uomini, in funzione del progetto salvifico del Padre, attuatosi e rivelatosi nella persona di Gesù stesso, di cui essi sono discepoli e servi. Proprio per questo le persecuzioni si scatenano anche su di loro, in quanto configurati al loro Maestro-Padrone, che per primo le ha subite fino alla morte.

 

Posta in questo contesto, ora è anche comprensibile la seconda parte del v.25 (v.25b): “Se chiamarono Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari”. Gesù, dunque, è il padrone di casa e i suoi discepoli sono i suoi familiari, cioè fanno parte del casato di Gesù, sia in qualità di servi che di discepoli o di figli stessi del padrone di casa. Il termine “familiari”, secondo lo schema della famiglia di quel tempo, indica tutti coloro che in qualche modo compongono e partecipano alla vita di quella famiglia e da questa loro appartenenza ne sono anche individuati e qualificati. Di conseguenza se Gesù è definito come Beelzebul, tale marchio sarà riversato anche sui suoi discepoli, che si sono posti alla sua sequela e al suo servizio. Tutti, quindi, in quanto appartenenti ad un’unica famiglia, porteranno tutti il medesimo cognome che individua il loro casato: Beelzebul

 

Tuttavia, questa espressione, all’apparenza semplice e di immediata comprensione, vista da un’altra prospettiva, tenendo conto della graffiante polemica che anima tutto il vangelo matteano, nasconde, a mio avviso, anche una sottile quanto feroce ironia di Matteo nei confronti del mondo giudaico. Tutto è giocato sul termine “Beelzebul[103]. Questo nome viene derivato da quello della divinità filistea patrona della città di Accaron o Eqron o Ekron, una delle cinque città filistee[104] dislocate a Sud della Palestina, lungo la zona costiera del mar Mediterraneo. Il nome di questa divinità era Baal-Zebul, alla quale era ricorso anche il re d’Israele Acazia (853-852 a.C.), caduto accidentalmente da una finestra del palazzo, per sapere se sarebbe guarito dalla sua infermità (2Re 1,2). Tale nome compare nell’A.T. quattro volte ed è storpiato dall’autore in Baal-Zebub[105], che letteralmente significa “Signore delle mosche”, per ironizzare sulla divinità pagana. Il nome venne recepito anche dal popolo ebreo, con il quale designava il Signore dei demoni (Mt 9,34), intendendo con questi ultimi le divinità pagane[106] e, successivamente, gli spiriti immondi. Il nome venne aramaicizzato in Beel-Zebul o più semplicemente Beelzebul. Con quest’ultima versione compare sette volte nel N.T.[107]. Il nome letteralmente significa Signore (Beel) della “casa divina” o della “dimora celeste” (zebul[108]). Ora, Matteo in 25b dice: “Se chiamarono Beelzebul il padrone della casa […]”; questa espressione compare soltanto in Matteo ed è significativa. Solo lui pone accanto al nome “Beelzebul” l’espressione “il signore della casa”, che di fatto altro non è che la traduzione stessa del nome “Beelzebul”. A tal punto Matteo equivoca sul termine: Gesù è stato definito dai suoi avversari come il Beelzebul, cioè il padrone della casa, termine quest’ultimo con cui sovente nell’A.T. così come anche nel N.T. veniva designato il popolo d’Israele[109], chiamato “casa d’Israele” in riferimento a Dio, che ne era il padrone. L’autore, qui, non precisa di quale casa si tratti, ma lascia sottintendere come questa sia la “casa d’Israele”, divenuta una casa di demoni, di cui Gesù è il Beelzebul, cioè il padrone della casa, riconosciuto tale dai suoi stessi avversari. In tal modo Matteo attribuisce a Gesù la stessa divinità di Jhwh, Signore e Padrone della casa di Israele, divenuta per la sua incredulità e il suo pervicace rifiuto, che si è trasformato in persecuzione, come una casa di demoni (“quanto più i suoi familiari”).

 

A partire dal v.26, ha ora inizio una serie di detti di Gesù, giustapposti l’uno accanto all’altro senza alcun legame logico o narrativo, ma tematicamente coesi tra loro e suddivisi in tre brevi pericopi[110].

 

La prima pericope (vv.26-31) forma un’unità letteraria a se stante, ben definita sia dall’inclusione, data dal verbo“non temete” (vv.26.31), che dalla presenza dello stesso verbo “temere”, ripetuto quattro volte, tre al negativo e una al positivo, che ne fornisce il tema. Essa costituisce una sorta di intervallo esortativo ad aver coraggio e a resistere fino in fondo, che si frappone tra i precedenti vv.16-25, dove si parla delle persecuzioni, e i successivi vv.32-39, con i quali si completa il tema delle persecuzioni, evidenziando, da un lato, il giudizio posto sui discepoli, dall’altro il carattere dirompente del messaggio stesso, di cui essi sono portatori, e che per sua natura è destinato a creare divisioni all’interno della stessa cerchia familiare, questione questa già anticipata dal v.21.

 

Questa pericope riprende in qualche modo, completandolo, il v.22b in cui si sentenziava che “chi resiste fino alla fine sarà salvato”. Ciò che anima il resistere del discepolo, infondendogli coraggio e portandolo alla salvezza è il “non temere”. L’esortazione a “non temere” o a “temere” è costantemente corredata da una motivazione che segue, di volta in volta, il verbo, dandogli in tal modo una ragionevole giustificazione. Tutte le sentenze di questa pericope, infine, si muovono attorno ad una contrapposizione di termini, che sottolineano sia la forte dinamicità del messaggio che il dirompente contrasto che lo anima: “temere/non temere”, “nascosto/rivelato”, “segreto/conosciuto”, “oscurità/luce”, “orecchio/tetti”, “corpo/anima”.

 

Il v.26 si apre con un avverbio “pertanto” (oân, ùn) che letterariamente lega questa pericope alla precedente (vv.16-25), dandone una continuità logica. Il primo motivo, che giustifica il “non temere” è la chiarezza con cui si paleserà tutto ciò che ora sembra incomprensibile: “non vi è nulla che sia nascosta che non sarà rivelato e di segreto che non sarà conosciuto”. Questa prima sentenza, dal tono generico e assoluto, costituisce la premessa e la motivazione di fondo di quanto verrà detto al successivo v.27. Il senso di questo v.26 è tutto racchiuso nella contrapposizione dei tempi verbali: presente/futuro: “non vi è nulla di nascosto o di segreto” che “non sarà rivelato o conosciuto”. Tutto viene giocato tra il tempo presente e quello futuro, tra il Gesù della storia, adombrato dalla sua umanità, e il Gesù risorto, in cui si rivela la sua signoria universale e la sua divinità (Mt 28,18), tra l’oggi dell’uomo e il domani di Dio, palesato nel Risorto. Si viene, quindi, a creare una forte tensione escatologica che spinge l’uomo a trovare il senso nascosto del suo esistere e della sua storia nel tempo compiuto di Dio, rivelatosi con potenza nel suo Cristo. In altri termini, il senso oscuro dell’oggi, in cui l’uomo è chiamato a vivere, trova la sua piena comprensione nella luce divina del Risorto. Solo questa è in grado di illuminare l’umanità e di rivelarle il senso nascosto della sua storia, incamminata verso la pienezza dell’eternità.

 

 

Se il v.26 afferma un principio generale, su cui fondare il proprio non temere, il v.27 gli dà concreta attuazione storica: “Ciò che vi dico nell’oscurità, ditelo nella luce; e ciò che udite nell’orecchio, proclamatelo sui tetti”. C’è, infatti, un parallelismo coincidente nei termini del v.26 e in quelli del v.27 così che i primi spiegano questi secondi, i quali, a loro volta, dànno forma concreta ai primi: il nascosto trova il suo corrispondente in oscurità; il rivelato si riflette nella luce; il segreto si aggancia a orecchio; il conosciuto si ritrova in tetti. I verbi del v.26, inoltre, da impersonali (“non vi è nulla”, “non sarà rivelato”, “non sarà conosciuto”), diventano nel v.27 personali e hanno soggetti ben determinati: io-voi, Gesù-discepoli. Si passa, quindi, dal principio alla sua storicizzazione.

Queste contrapposizioni, che si svolgono su di un piano storico, tra il dire nell’oscurità e nella luce, tra il sussurrare nell’orecchio e il proclamare apertamente sui tetti, denotano due stadi evolutivi della prima predicazione apostolica[111]. Se l’annuncio nato nell’ombra e sussurrato all’orecchio allude alla sorgente primaria dell’annuncio (Gesù)[112], il dire nella luce e il proclamare sui tetti designa chiaramente la seconda fase del cammino della Parola. Il dire nella luce richiama da vicino l’annuncio che si radica nella stessa risurrezione e che fa dei discepoli dei testimoni privilegiati della stessa[113]. La loro predicazione, pertanto, si collocherà nel contesto luminoso della risurrezione, mentre l’ammaestramento che Gesù ha fatto nei confronti dei suoi discepoli, diventa ora proclamazione alle genti. Il verbo usato qui, infatti, è proprio quello tipico del primo annuncio apostolico: “khrÚxate, kerìxate[114]. Uno schema questo che si rispecchia nella parte finale del vangelo matteano, là dove il Risorto, rivestito dell’onnipotenza divina, invita i suoi discepoli a proclamare alle genti quanto aveva detto loro nell’oscurità della sua dimensione storica: “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>” (Mt 28,18-20).

 

Se il primo motivo per non temere si radica nel senso stesso della missione dei discepoli, chiamati a proclamare, a rendere noto e svelare a tutte le genti il sacro tesoro della Parola, a loro manifestata e di cui essi sono i primi depositari e testimoni (vv. 26-27), qui, al v.28, l’esortazione a “non temere/temere” si incentra tutta sulla persona stessa del discepolo nel suo rapporto con il mondo e con Dio. Tutta la contrapposizione ruota attorno al confronto uomini-Dio, con i quali il discepolo deve rapportarsi nell’ambito dello svolgimento della sua missione. Alla radice di questo confronto ci sta l’implicita domanda se è meglio obbedire a Dio o agli uomini; una questione questa che Pietro, condotto davanti al Sinedrio, risolse senza tentennamenti: “Li condussero e li presentarono nel sinedrio; il sommo sacerdote cominciò a interrogarli dicendo: <<Vi avevamo espressamente ordinato di non insegnare più nel nome di costui, ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo>>. Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: <<Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini>>. […] All'udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte.” (At 5,27-29.33).  È questa la realtà quotidiana a cui sono posti di fronte i discepoli nello svolgimento della loro missione: essi sono chiamati ad annunciare e a testimoniare delle realtà che infastidiscono gli uomini al punto tale che questi non esitano a sopprimerli fisicamente. Il discepolo deve avere questa coscienza, ma la scelta radicale di fondo, che egli ha già operato nella sua vita e che lo qualifica come discepolo, gli deve essere guida e sostegno anche per altre scelte, benché difficili, portandolo in tal modo a non temere “quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima”. La contrapposizione di corpo e anima non va intesa secondo i nostri schemi mentali. Per noi il corpo è la parte materiale dell’uomo, destinata a perire e a corrompersi; mentre l’anima è la sua parte spirituale che, in quanto spirito, non è soggetta al divenire del corpo, né subisce il suo stesso destino, ma vive in eterno. Corpo e anima, quindi, sono per noi due realtà contrapposte, di diversa natura e di diverso destino. Qui, nel nostro caso (v.28), corpo (sîma, sòma) e anima (yuc», psiché) sono, invece, due sinonimi, poiché entrambi nel mondo semitico e in quello antico in genere indicavano l’uomo, la persona, colta nella sua totalità e integralità. Va precisato, tuttavia, come l’anima, pur definendo la persona alla stessa stregua del corpo, rimarca ciò che è vivo nell’uomo, la sua vita come realtà concreta, colta nella sua dinamicità esistenziale. Essa, tuttavia, non ha nulla a che vedere con il mondo dello spirito, ma attiene sempre e comunque alla sfera della naturalità umana ed era individuata nel respiro dell’uomo. Lo stesso termine greco yuc», infatti, che traduce l’ebraico néfesh, significa respiro, soffio, forza vitale. Corpo e anima, quindi, sono due termini che dipingono sempre l’uomo come persona, ma che nel contempo lo indicano con due sfumature diverse: il corpo definisce la persona che è immediatamente raggiungibile in modo tangibile, mentre l’anima esprime parimenti la persona, ma colta nella sua vitalità esistenziale, cioè come essere vivente, ma senza alcun aggancio al mondo del trascendente. Ebbene, Gesù sollecita i suoi a non temere chi può uccidere il corpo, ma non può uccidere l’anima. In altri termini, Gesù evidenzia come il potere dell’uomo si estende soltanto a ciò che è fisicamente raggiungibile, ma non può andare oltre, poiché la persona, come essere vivente, appartiene totalmente a Dio stesso. È Lui, infatti che dà la vita, soffiando nelle nari dell’uomo e facendolo essere vivente (Gen 2,7), cioè gli dona il respiro, che nella mentalità semitica nulla ha di trascendentale (néfesh, psiché). Infatti, il v.28b conclude il detto esortando, invece, a temere chi può mandare in rovina nella Geenna[115] sia l’anima che il corpo e costui è soltanto Dio. In altri termini, con il v.28 Matteo vuol semplicemente sottolineare come il potere degli uomini è molto limitato, mentre quello di Dio è supremo e assoluto, poiché può incidere significativamente e in modo totale sulla salvezza e sulla rovina dell’uomo. Conviene, dunque, “[…] obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29). Quindi, Matteo contrapponendo il corpo all’anima non si riferisce alla dicotomia platonica anima/corpo, fuori dai suoi schemi mentali e culturali di buon ebreo, ma vuole in realtà soltanto contrapporre il potere di Dio a quello degli uomini, esaltando il primo, disprezzando il secondo. E questo è il secondo motivo per cui i discepoli non devono temere.

 

Se le motivazioni dei primi due “non temete” si fondavano sul dovere dell’annuncio, che si radica nella luce della risurrezione (vv.26-27), e sul potere assoluto di Dio contrapposto a quello fragile e limitato dell’uomo (v.28), questa terza esortazione a non temere (vv.29-31) rimanda il discepolo alla cura provvidenziale del Padre. La breve pericope, formata soltanto da tre versetti (vv.29-31), costituisce una piccola unità letteraria a se stante molto curata: essa è delimitata dall’inclusione, data dal termine “passeri” (vv.29a.31b), ed è strutturata su di un parallelismo concentrico:

 

A)    Due passeri non si vendono per un soldo[116]?

 

B)    Nessuno di essi cade sulla terra

 

C)    Senza il Padre vostro

 

B1) Capelli del vostro capo sono contati

 

A1) Voi siete superiori a molti passeri

 

 Al centro di tutto ci sta la figura del Padre, che sovrasta ogni potere (v.28b) e regola l’intera vita del cosmo, qui richiamata dai suoi due estremi: i passeri, i più piccoli volatili conosciuti; e l’uomo, vertice ultimo della creazione (Gen 1,27-31). In altri termini, Matteo sottolinea come tutto è nelle mani del Padre e di tutto Egli ha cura, anche delle più piccole forme di vita; di conseguenza e a maggior ragione Egli si curerà dell’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza e, ancor di più, di chi ha posto la sua vita al suo servizio per la realizzazione del suo progetto di salvezza.

 

Il v.31a, si apre con l’avverbio “pertanto”, che si aggancia qui non solo alla breve pericope dei vv.29-31, a cui appartiene, ma anche all’intera pericope dei vv.26-31, estendendosi, a mio avviso, all’intero discorso sulle persecuzioni (vv.16-25). L’esortazione a “non temere” del v.31a acquista, pertanto, una valenza universale e assoluta, riassumendo in sé l’atteggiamento che ogni discepolo deve fare proprio e che deve caratterizzare il suo modo di compiere la missione, a cui è demandato per sua natura.

 

Dopo il benevolo e paterno incoraggiamento dei vv.26-31 a non temere, finalizzati a sostenere i nuovi credenti nel loro duro e difficile compito di testimonianza, segue subito la seconda pericope vv.32-39, che contiene una serie di otto sentenze-elettroshock, dal sapore sapienziale, molto dure nei toni e nei contenuti. Matteo le scarica addosso alla sua comunità per scuoterla dalle sue indecisioni e dai suoi tentennamenti circa il vivere e il testimoniare la nuova fede e, in particolare, nei confronti di coloro che sembrano volerla vivere in modo conciliante, adattandola alle situazioni, barcamenandosi alla meno peggio nei confronti di un ambiente dichiaratamente ostile.

 

I detti sono raggruppati tematicamente in tre parti:

 

a) vv.32-33: viene presentato il tema del giudizio posto sulla testimonianza a Gesù; tema questo già anticipato in qualche modo nei vv.14-15.18.23;

 

b) vv.34-37: viene trattato il difficile rapporto intrafamiliare, che si crea a motivo della nuova fede, la quale chiede una netta presa di posizione da parte del credente anche nei suoi rapporti di parentela più stretti. Anche qui la questione non è nuova e rimanda il lettore ai vv.21-22a.

 

c) vv.38-39: vengono indicate le dure esigenze della nuova fede, che vanno a sindacare sul personale modo di vivere la propria sequela da parte dei discepoli. Similmente, anche questi due versetti si richiamano in qualche modo ai precedenti vv.9-10.16-17.22b.24-25, che evidenziano il duro compito che aspetta ai testimoni di Gesù.

 

Le otto sentenze, pertanto, proprio per il loro richiamarsi continuo alla sezione precedente (vv.5-31), potremmo definirle come la parte conclusiva e riepilogativa dell’intero discorso riguardante la testimonianza pubblica su Gesù e le difficoltà che questa genera nel credente. La loro struttura letteraria, molto sintetica e particolarmente incisiva, dal tono sapienziale, le predispone ad essere facilmente memorizzabili. Esse costituiscono una sorta di vademecum del discepolo, che per sua natura è chiamato alla testimonianza.

 

I vv.32-33 sono disposti, secondo i canoni della retorica ebraica, uno al positivo e uno al negativo per rendere più incisivo il tema del giudizio sulla testimonianza, ma nel contempo delineano anche i due atteggiamenti di fondo, che caratterizzano gli uomini coinvolti dall’annuncio del Regno (annunciatori e annunciati).

 

Il v.32 si apre con l’avverbio “pertanto”, che si aggancia a tutto il discorso precedente, ad esso rimanda e ne trae le conclusioni, ponendo sia il credente, chiamato alla testimonianza, che il non credente, chiamato a prendere posizione di fronte all’annuncio del Regno, sul banco del giudizio divino. Qui vengono a delinearsi due atteggiamenti di fondo: chi riconosce Gesù e lo accoglie; chi, invece, lo ricusa davanti agli uomini. La questione, qui, non è posta sul piano del comportamento individuale, del discepolo e del non credente in rapporto a se stessi e a Dio, ma del loro manifesto atteggiamento davanti agli uomini, poiché la fede ha necessariamente una dimensione sociale e pubblica ineludibile. Un’antichissima formula di fede, che Paolo riporta nella sua lettera ai Romani, sottolinea questa necessità: “Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,8-10). Le primissime comunità credenti evidenziavano in tal modo come la fede, radicata nel cuore del credente, doveva essere necessariamente portata anche sulle labbra, cioè esternata e testimoniata pubblicamente. Solo in tal modo il credere del discepolo trova la sua pienezza e la sua completezza. Ogni fede nascosta o mimetizzata, coltivata solo nel proprio cuore, ma non manifestata apertamente davanti agli uomini si ritorce a condanna del credente stesso, proprio perché è una fede pronta al compromesso. In altri termini non esiste una fede privata, uno sbrogliarsela con Dio soltanto, ma la fede ha una sua fondamentale dimensione comunitaria e nella comunità essa si radica e si esplicita, poiché la fede è sempre un dono della comunità credente ad un suo membro.

 

I vv.32-33 creano una sorta di parallelismo tra il comportamento degli uomini nei confronti dell’annuncio e quello di Gesù nei loro confronti: il riconoscimento o la ricusa di Gesù nei confronti degli uomini equivalgono al riconoscimento o alla ricusa di Gesù davanti al Padre. Come dire che il comportamento degli uomini si riflette in quello di Gesù, che ripaga con la stessa moneta il pubblico comportamento degli uomini nei suoi confronti. C’è in questo detto una sorta di legge del taglione, a cui Matteo sembra rifarsi nello schema, non certo nella sostanza. Non si tratta, qui, di una vendetta personale di Gesù nei confronti degli uomini, ma di una logica conseguenza del comportamento di questi. La salvezza, infatti, ora, non dipende più da Gesù, poiché ciò che egli doveva fare (incarnazione, morte, risurrezione, dono della sua Parola e del suo Spirito) lo ha fatto. Ora spetta all’uomo prendere posizione di fronte all’evento Gesù e alla sua offerta di salvezza. Sull’uomo soltanto, ora, ricade la responsabilità della sua salvezza. Il riconoscimento o la ricusa da parte di Gesù di fronte al Padre significa soltanto mettere in evidenza la risposta che l’uomo ha dato all’annuncio del Regno, per cui lì apparirà chiaro la sua conformità o la sua difformità nei confronti di Gesù, a cui non rimane altro che riconoscere l’atteggiamento e lo stato esistenziale di quell’uomo.

 

La comunità matteana, ricca e benestante, ma nel contempo collocata in un contesto di forte tensione con la società civile e religiosa dell’epoca, giudaica e pagana, tende probabilmente ad affievolire la propria fede e a scendere a patti e a compromessi con il mondo circostante[117]. Matteo con i vv.34-37 richiama duramente la sua comunità, facendole capire che la scelta di fede, che essa ha operata, non ammette tentennamenti né cedimenti a compromessi di sorta. L’annuncio del Regno e l’adesione a questo porta inevitabilmente a dei contrasti non solo con il mondo circostante, ma anche all’interno di quello familiare. La nuova fede, pertanto, non è un’etichetta intellettuale di cui fregiarsi o una sorta di nuova filosofia su cui dibattere, ma una dura lotta quotidiana, che si origina già all’interno del mondo degli affetti e del proprio sangue.

 

La questione viene affrontata in tre passaggi strettamente concatenati:

 

a) Il v.34 esordisce con un’affermazione di principio: “Non crediate che io sia venuto a porre la pace sulla terra, ma la spada”;

b) I vv.35-36 riprendono il v.34 e lo dettagliano nei suoi aspetti concreti del vivere quotidiano, che vedono la famiglia come il luogo privilegiato in cui esplodono i contrasti a causa della nuova fede e in cui gli stessi familiari diventano dei nemici mortali per il credente;

c) Il v.37 chiude la breve pericope in tono sapienziale, che mette in rilievo la radicalità della scelta di fede, che va posta al di sopra anche degli affetti più stretti e più cari, come quelli parentali, padre e madre. È una dura sferzata che Matteo dà ai suoi, togliendo loro ogni illusione di una fede facile e adattabile alle circostanze.

 

Dopo il generale richiamo dei vv.32-33, che prospettavano un duro giudizio su chiunque avesse a che fare con l’annuncio del Regno (annunciatori e ascoltatori), il v.34 decreta un principio di fondo, che sintetizza in se stesso la contrastante e per niente conciliante figura di Gesù e del suo messaggio: “Non crediate che io sia venuto a porre la pace sulla terra, ma la spada”. Tre sono i passaggi che strutturano questo versetto: a)Non crediate” che punta a colpire le illusioni di chi riteneva semplicisticamente la nuova fede un messaggio di fraternità universale, adattabile ai propri interessi e alle proprie esigenze; b)che io sia venuto” espressione con cui Matteo sottolinea il senso della venuta stessa di Gesù e della sua missione. Egli, infatti, è l’ “™rcÒmenoj” (ercòmenos), “colui che viene”, termine questo che ricorre 22 volte nel N.T. e con il quale si indicava il Messia, l’inviato di Dio, in cui si dovevano realizzare le promesse, e la cui immagine fu sovente distorta dalle attese giudaiche, che sognavano un messia politico-militare e religioso, liberatore e restauratore di un nuovo regno d’Israele. A Pilato che gli chiedeva se lui era re, Gesù rispose: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37). La venuta di Gesù, quindi, ha come obiettivo primario la Verità del Padre, cioè la sua rivelazione al mondo e della quale egli è la manifestazione piena (Gv 14,16; 1Gv 1,2). Ma è proprio il rivelarsi di questa Verità che crea dissidio e discordia tra le genti (Lc 2,34-35) e si costituisce come giudizio divino in mezzo ad esse, poiché tale Verità è una realtà “[…] viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13)

La venuta di Gesù, quindi, ha degli obiettivi precisi ed è permeata di una valenza tale, che caricano di significato quanto segue; c) “ [non] a porre la pace sulla terra, ma la spada”. Di certo qui non si parla della pace messianica o caricata di una qualche valenza teologica, ma semplicemente della pace umana, fatta di compromessi, di sottintesi, di strette di mano, che tendono a pacificare gli animi per raggiungere i propri interessi; di quella pace che ha come fine primario quello di non disturbare il quieto vivere comune, in cui conservare i propri beni e far prosperare i propri affari, magari a spese degli altri e che, probabilmente, sognava la ricca e benestante comunità matteana. Ebbene, Matteo rompe l’incantesimo della sua comunità: a questa pace egli contrappone la spada dell’annuncio del Regno, incompatibile con ogni forma di pace umana e irriducibile a qualsiasi compromesso, con tutte le sue esigenze, che si impongono come primarie e devastanti all’interno della vita e delle relazioni sociali e intrafamiliari del credente. Non vi è spazio per compromessi e tentennamenti. Il lassismo nella fede doveva essere un male abbastanza diffuso all’epoca, se si pensa alla stessa comunità di Laodicèa[118], che si riteneva autosufficiente e viveva una vita di fede fatta di compromessi e di equilibrismi, contro la quale il Risorto sentenzia: “All'angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,14-16)

 

Il v.35 si apre riprendendo il verbo venire del precedente v.34, seguito dall’avverbio “infatti” (Ãlqon g¦r, éltzon gàr, venni infatti), che dà un senso dichiarativo ai vv.35-36, spiegando in concreto il senso del venire di Gesù: come la spada è fatta per penetrare in profondità e tagliare in due, separando ciò che prima era unito, così il messaggio della nuova fede penetra negli intimi e delicati meandri della famiglia, lacerandola e contrapponendo gli uni contro gli altri. Espressione questa che si richiama probabilmente alla reale situazione che si veniva a creare all’interno dei nuclei familiari[119], dove uno o più membri si convertivano al nuovo e sconcertante messaggio evangelico. Il testo dei vv.36-37 si richiamano a Michea, che denunciava il degrado morale di Israele, che colpiva la stessa cerchia degli amici e dei familiari, e sul quale era stato posto il giudizio divino, che condannerà il popolo all’esilio di Babilonia (597-538 a.C.): “L'uomo pio è scomparso dalla terra, non c'è più un giusto fra gli uomini: tutti stanno in agguato per spargere sangue; ognuno dà la caccia con la rete al fratello. Le loro mani son pronte per il male; il principe avanza pretese, il giudice si lascia comprare, il grande manifesta la cupidigia e così distorcono tutto. Il migliore di loro non è che un pruno, il più retto una siepe di spine. Il giorno predetto dalle tue sentinelle, il giorno del castigo è giunto, adesso è la loro rovina. Non credete all'amico, non fidatevi del compagno. Custodisci le porte della tua bocca davanti a colei che riposa vicino a te. Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell'uomo sono quelli di casa sua” (Mi 7,2-6). Il richiamo a Michea colloca, dunque, questi versetti (vv.36-37) in un contesto di giudizio divino dai toni escatologici. Non a caso, infatti, gli altri Sinottici inseriscono proprio questi versetti, che Matteo anticipa qui, nel discorso escatologico di Gesù, riguardante la fine dei tempi (Mc 13,12; Lc 21,16).

 

Il v.37, dall’incedere sapienziale, chiude questa breve pericope (vv.34-37) sentenziando che “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me”. Padre, madre, figlio e figlia costituiscono la struttura stessa della famiglia dentro la quale si incunea un terzo incomodo, Gesù, il quale avanza la pretesa di un amore e di una dedizione esclusivi, che sappiano superare gli stessi stretti vincoli di sangue. Qui non si tratta di rinnegare la parentela, verso la quale la stessa Torah impone ai figli di onorare il padre e la madre (Es 20,12; Dt 5,16), mentre la Lettera ai Colossesi sollecita moglie e marito ad amarsi e rispettarsi reciprocamente nel Signore (Col 3,18-19) e i padri a non esasperare i figli e questi a sottomettersi nell’obbedienza rispettosa ai genitori (Col 3,20-21). La famiglia non è una realtà opposta a Dio, ma si completa e trova il suo senso in Lui (Gen 1,26-28; 2,24). La questione è diversa e per comprenderla bisogna rifarsi ad Es 20,2-6, a cui Matteo probabilmente pensava: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi”. A Mosè Dio impone di adorare solo Lui e non altre divinità. Qui siamo ancora in una fase di enoteismo[120], in cui Dio non disconosce le altre divinità, ma non desidera essere posto in concorrenza con queste, poiché Egli è un Dio geloso e punisce ogni trasgressione. È, quindi, un Dio che ama l’esclusività e pretende che l’attenzione del suo popolo sia incentrata solamente su di Lui. È quanto intende dire Matteo al v.37: Gesù non vuole negare l’amore che salda e vincola la famiglia, benedetta da Dio fin dal suo nascere, rendendola un sacrario di vita (Gen 1,28), ma vuole che questo amore non sia d’inciampo a lui, poiché tutto deve convergere su di lui e in lui trovare il senso del proprio essere (Col 1,16).

 

Una nota di attenzione, infine, va riservata al verbo che Matteo usa per indicare l’amore: “filîn” (filòn). Il greco possiede tre verbi per esprimere l’amore: “™rwt£w” (erotào), che indica l’amore fisico e sensuale; ¢gap£w (agapào) che definisce l’amore spirituale o comunque dai toni elevati ed è un verbo che si applica all’amare di Dio; filšw (filéo) per indicare l’amore sentimentale, di amicizia che lega le persone tra loro. Ebbene, l’amore umano, espresso da questo verbo, deve essere sempre tale da lasciare uno spazio privilegiato a Gesù e al suo annuncio, così da non mortificare la propria fede in lui; anzi è proprio quest’ultima che deve misurare l’amore umano, dandogli una nuova configurazione.

 

Il v.38 è tematicamente legato al precedente e ne costituisce la conclusione logica, mentre, da un punto di vista letterario, il suo aggancio con questo, è garantito dall’aggettivo ¥xioj (àxios, degno), ripetuto due volte nel v.37. La pretesa esclusività dei sentimenti umani, anche quelli più sacri dei vincoli familiari, da parte di Gesù non è priva di conseguenze e comporta delle scelte radicali, tutt’altro che facili, proprio per la loro radicalità; scelte che non lasciano spazio ad incertezze o a compromessi (vv.32-33; 12,30), per questo la sequela è posta sotto il segno della croce.

 

Il v.38 è scandito in tre momenti: a) chi non prende la sua croce: non si tratta della croce di Gesù, ma quella del discepolo (“sua”), che lo assimila al maestro, ma attraverso strade e scelte che il discepolo deve operare all’interno dell’ambiente che gli è proprio e che lo spingerà ad operare una continua scelta, riparametrando di continuo il proprio vivere su quello del suo Maestro. La scelta esistenziale di fondo, che porta il credente alla sua cristificazione, dovrà riflettersi, dunque, nella quotidianità del suo vivere. Per questo egli deve assumere su di sé la propria croce, che gli impedisce di scendere a compromessi; b)e non mi segue”: è significativo come l’indicativo di prendere la croce preceda quello della sequela, divenendo in tal modo la croce la conditio sine qua non per seguire Gesù. Una sorta di test che certifica la veridicità della sequela. Non è tanto al soffrire del discepolo a cui Gesù punta, quanto piuttosto alla sua fedeltà all’annuncio, che produce di conseguenza il soffrire. Tuttavia non è sufficiente assumere su di sé la croce, cioè conformare il proprio vivere alle esigenze del Regno, senza cedimenti e compromessi, bisogna anche seguire Gesù, cioè far si che la propria vita subisca un processo di cristificazione tale che porti ad esclamare con Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). In altri termini, Matteo sottolinea che non è sufficiente osservare scrupolosamente l’annuncio del Regno fino alla sofferenza per essere dei veri discepoli di Gesù, ma è necessario anche seguire Gesù, cioè conformare il proprio vivere a tale annuncio. Soltanto in tal modo, croce e sequela formeranno il binomio che identifica l’autenticità del discepolo, rendendolo degno (“¥xioj”, àxios) di Gesù. Di particolare valenza in greco è l’aggettivo ¥xioj, il cui significato primario è “equivalente a”, “del valore di”. Quindi, quando Gesù afferma che  c) non è degno di me” non intende dire che il discepolo non lo merita, quasi che Gesù sia una sorta di premio messo in palio dal Padre per i più buoni o i più bravi, ma che Gesù non riconosce se stesso nel discepolo, per questo egli davanti al Padre lo rinnegherà (vv.32-33). L’essere degni o equivalenti a Gesù (Gal 2,20) è dato, pertanto, dalla contestuale presenza sia della croce che della sequela.

 

La particolare sottolineatura (croce + sequela) che Matteo fa, in riferimento alla sua comunità di convertiti dal giudaismo, serve ad evitare la tendenza propria dell’ebreo, ottimo esecutore della Torah, ma non sempre esistenzialmente fedele ad essa (Mt 23; Mc 7,6).

 

La sentenza del v.39, dal ritmo sapienziale a struttura chiasmica, chiude e sintetizza il tema sull’impegno dell’annuncio del Regno, che si fa testimonianza di vita, andando al nocciolo della questione: da una parte c’è la propria vita e le esigenze del proprio Io; dall’altra Cristo e le sue esigenze e le sue pretese. Il discepolo è chiamato a compiere la sua scelta fondamentale, sulla quale tutto poi verrà riparametrato e nella quale tutto troverà il suo senso compiuto.

I verbi principali sono due e si giocano sui tempi degli stessi verbi, che sottolineano il diverso destino, sotteso e prodotto da diverse scelte di fondo: c’è un participio aoristo[121] (“chi ha trovato” ha il suo contrapposto corrispettivo in “chi ha perduto”); e un indicativo futuro (“perderà” ha il suo contrapposto corrispettivo in “troverà”). La presenza di questi due tempi verbali tra loro diametralmente opposti (aoristo-futuro) collocano il lettore in un contesto di giudizio escatologico: ciò che uno ha elaborato (aoristo) costituirà oggetto di giudizio (futuro). La presenza di due partecipi aoristi sostantivati (colui che ha trovato - colui che ha perduto) delineano due atteggiamenti di fondo e costituiscono di fatto l’opzione fondamentale che sostanzia la propria vita e da cui tutto dipende. Essa definisce l’orientamento esistenziale. Al centro del gioco verbale ci sta il sostantivo “yuc»” (psiché), che nel contesto culturale neotestamentario indica la persona umana nel suo stato di piena coscienza, nonché la vita nel suo svolgersi concreto[122]. Matteo, dunque, incentra l’attenzione del suo lettore su come egli ha organizzato la sua vita e su che cosa egli ha puntato. Di conseguenza, colui che spende la propria vita alla ricerca (Ð eØrën) del proprio benessere e della propria affermazione, alla fine dei giochi, cioè al momento della fine della vita stessa, perderà tutto (¢polšsei), poiché ogni suo sforzo inteso a migliorarla verrà fatalmente vanificato dalla morte. Diversamente, chi ha speso la propria vita per Cristo e alla ricerca del soddisfacimento delle sue esigenze (›neken ™moà, éneken emù, “per causa mia”) in realtà egli l’avrà guadagnata, poiché tale vita, apparentemente perduta secondo logiche umane, troverà la sua pienezza in Cristo stesso, al quale egli si è dedicato e su cui tutto ha scommesso. C’è, dunque, una motivazione di fondo che muove l’intera quanto complessa dinamica della vita: l’affermazione del proprio IO o l’affermazione di Cristo nella propria vita. Queste due contrapposte motivazioni di fondo genereranno l’opzione fondamentale, che darà forma e sostanza al proprio orientamento esistenziale, creando uno stile di vita incentrato su se stessi o su Cristo. Le sorti finali saranno diametralmente opposte.

 

Con la terza ed ultima pericope (vv. 40-42) si chiude il cap.10, interamente dedicato al tema dell’annuncio del Regno, che, in qualche modo, funge da preambolo al cap.13 ed è colto nelle sue più complesse sfaccettature: l’elezione degli apostoli e l’affidamento dell’incarico (vv.1-8); le modalità di espletazione del mandato (vv.9-14); le difficoltà e le persecuzioni che nascono dal rifiuto dell’annuncio (vv.16-25); l’incoraggiamento a non demordere e a non temere le difficoltà e le sofferenze che accompagnano la missione (vv.26-31); le ultime precisazioni ed esortazioni (vv.32-39); infine, la ricompensa riservata a coloro che si pongono in un atteggiamento di accoglienza nei confronti degli annunciatori (vv.40-42). Su tutto aleggia, in modo più o meno  percettibile, il tema del giudizio[123], che colloca l’intero cap.10 in un contesto di annuncio escatologico, quasi una sorta di ultimo appello che il Padre lancia agli uomini.

 

Già con il v.14 si era introdotto, in forma negativa, il tema dell’accoglienza, immediatamente accompagnato da quello del giudizio (v.15). Ora, il tema dell’accoglienza viene ripreso e riproposto in forma positiva, ma sempre, come vedremo, in un contesto di giudizio escatologico. Per sei volte nei vv.40-41 ricorre il verbo accogliere, posto per quattro volte al participio presente in forma sostantivata, delineando in tal modo l’atteggiamento di fondo che deve caratterizzare chiunque si pone di fronte all’annuncio. L’ascolto accogliente è fondamentale perché si affermi il Regno, poiché questo non si impone all’uomo, ma si propone ad esso. L’affermazione del Regno e il suo successo, pertanto, dipendono dal grado di accoglienza che ciascuno sa creare in se stesso. Accogliere significa sapersi mettere da parte per creare dentro di sé uno spazio accogliente per l’altro e porre, quindi, l’altro al centro della propria attenzione e dei propri interessi. Per questo il Gesù sinottico sottolinea che chi vuol seguirlo deve rinnegare se stesso (Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23), cioè deve abbandonare un certo modo di pensare e di sentire, di vedere le cose, di valutarle, per porsi dalla prospettiva di Dio, facendo di Cristo la propria forma mentis. Solo così Dio e le sue esigenze possono trovare lo spazio adeguato e portare i loro frutti di salvezza. Scrivendo alla comunità di Roma Paolo, sottolineava, in un passo della sua Lettera, l’importanza e la centralità dell’annuncio e della sua accoglienza per la salvezza: “Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene! Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,13-17).

 

Com’è nel suo stile, Matteo apre la breve pericope sull’accoglienza con una sentenza, che assurge a valore di principio, da cui poi discendono le conseguenze pratiche, che da questo principio dipendono e sono sostanziate: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”. Il soggetto principale è anonimo ed è definito solo per il suo atteggiamento positivo verso l’annuncio, assumendo in tal modo una valenza di universalità. L’oggetto dell’accoglienza si pone a tre livelli: i discepoli, che si identificano con Gesù, il quale rimanda al Padre, definito come colui che lo ha inviato. Si crea in tal modo una catena a cascata che dai discepoli, attraverso Gesù, riconduce al Padre, che nel suo Figlio è l’inviante dei discepoli stessi (Gv 20,21). Questa stretta concatenazione crea una sorta di identificazione e di unione-comunione di soggetti che operano nell’annuncio, per cui dietro agli apostoli e a Gesù c’è la figura stessa del Padre, che sta all’origine di ogni invio e di ogni annuncio (Gv 8,28.38; 20,21). Vi è dunque nell’annuncio una profonda tendenza alla comunione: chi accoglie l’annuncio si pone in comunione con l’annunciatore, il quale è a sua volta posto in comunione con Gesù e, per suo mezzo, in comunione con il Padre, creandosi in tal modo un circolo virtuoso di salvezza circolante, che si attua proprio nell’annuncio accolto. Questa dinamica di annuncio, finalizzato alla comunione salvifica con il Padre, è stupendamente illustrata da Giovanni nella sua Prima Lettera: “[…] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3). In altri termini, l’accoglienza dell’annuncio mette in comunione i credenti tra di loro e loro con il Padre. Nell’annuncio accolto, quindi, c’è circolante la vita divina stessa (Gv 14,23).

 

I vv.41-42 sono l’attualizzazione del principio enunciato al v.40: l’annuncio qui assume il volto storico del profeta, del giusto e del discepolo. Il profeta, infatti, è colui che parla in nome e per conto di Dio, costituendosi quale sua voce in mezzo al popolo; il giusto si distingue per la sua fedeltà alla Parola, che annuncia incarnandola nella propria vita, divenendone segno vivente; mentre il discepolo è colui che si pone in ascolto della Parola e ne fa sequela di vita. Ebbene, l’atteggiamento di accoglienza di fronte a queste diverse forme di annuncio si tradurrà nella corrispondente ricompensa, alla quale sono strettamente legate. I verbi posti al presente (“chi accoglie”) e al futuro (“riceverà”) e la presenza del termine “ricompensa” creano il contesto di un giudizio favorevole in cui è posta la persona accogliente, assimilata, proprio per la sua accoglienza della Parola, agli annunciatori stessi. L’annuncio accolto, infatti, costituisce e genera un ciclo benefico di salvezza, che mette in comunione l’annunciante con chi l’accoglie, divenendo per questo, anch’egli (l’accogliente) germe di annuncio.

 

La particolare attenzione che Matteo pone sul tema dell’accoglienza dell’annuncio del Regno, a conclusione del secondo discorso di Gesù, non è casuale, ma diventa propedeutica al terzo grande discorso, tutto incentrato sul Regno dei cieli (cap.13), che costituisce il cuore dell’intera opera matteana. Anche questo particolare costituisce, a nostro avviso, un piccolo indizio che fa pensare come il primo vangelo di Matteo (circa 80 d.C.) fosse costituito da cinque grandi discorsi, solo successivamente e tardivamente (100 d.C. e forse oltre) sia stato intercalato dai racconti su Gesù[124].

 

Il v.11,1 costituisce la conclusione del secondo grande discorso ed è scandito in due parti: a) una conclusiva (v.11a) ed è strettamente legata al cap.10; e b) un sommario (v.11b), forse uno tra i più brevi, che sintetizza l’opera predicatoria di Gesù e che è legata, proprio per questo, al tema dell’annuncio. Il v.11b dice che Gesù “se ne andò via di là ad insegnare e a proclamare nelle loro città”. Gesù, dunque, parte da un luogo che non è ben precisato geograficamente, né il contesto lo lascia supporre. Il luogo in realtà è l’insieme dei suoi discepoli, che Gesù ha chiamato a sé e a cui ha dato autorità e ha inviato in missione (10,1-8). Ora questo gruppo è conformato a Gesù stesso e con lui si identifica; e da questo gruppo Gesù si proietta verso le genti, diventando una sorta di estensione e di anticipazione di quella che sarà l’attività propria della chiesa stessa.

 

Non manca qui una nota polemica, a cui Matteo non ha saputo rinunciare: l’ammaestramento e la predicazione è rivolta non ad Israele, a cui Gesù appartiene, ma “alle loro città”, espressione questa che denuncia tutta l’estraneità della comunità matteana, che pur vivendo in terra di Palestina e pur provenendo dal giudaismo, si sente ormai come un’esule, perseguitata dai propri fratelli e derisa dai pagani.

 

 

Verona, 17 giugno 2008

 

 

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           Giovanni Lonardi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

[1] Cfr. Gen 12,1; Es 3,4; Is 42,6; 49,1; 1Cor 1,1; Gal 15,1.

[2] Nella racconto genesiaco della creazione ogni atto creativo di Dio è fatto precedere con insistenza dall’espressione “E Dio disse” per esprimere l’efficace potenza della sua Parola (Eb 4,12), da cui ogni vita trae la sua origine. Proprio in una rilettura sapienziale della creazione, Salomone si rivolge a Dio definendolo come colui che ha creato con la sua parola (Sap 9,1). Lo stesso Giovanni, nel suo prologo, vede in Gesù, Verbo eterno del Padre (Gv 1,1-2), come colui per mezzo del quale “tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3).

[3] Il nome, nel mondo semita, esprime l’essere stesso della persona e ne indica l’essenza. Conoscere il nome significa in qualche modo possedere la persona, entrare nella sua intimità; mentre imporle il nome dice l’esprimere il proprio potere sulla stessa. Per questo Dio, dopo aver creato gli animali, li presenta all’uomo perché imponesse loro un nome, definendo in tal modo la sua superiorità sugli stessi e creando un ordine gerarchico tra le cose.

[4] Il termine “™xous…a” (exusìa ) trae la sua origine dal verbo œxesti (éxesti) che significa “è permesso, è concesso, è possibile”. Questi, a sua volta, è una forma impersonale del verbo œxeimi  (éxeimi) che significa “essere da, provenire da, discendere da”.  Nell’insieme dei significati si comprende, quindi, come l’autorità è la capacità reale a compiere delle azioni in modo efficace, una capacità che chi opera non possiede in se stesso, ma ottiene da altri, che tale autorità possiedono per loro natura.

[5] Cfr. la voce “Potere” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[6] Cfr: Mt 24,14; 28,19-20;  Mc 16,20; Lc 1,2; 24,48; Gv 15,27; At 1,8; 13,31

[7] Il termine apostolo in Matteo ricorre soltanto una volta, in questa occasione, e ciò fa pensare che Matteo abbia trovato in una propria fonte l’elenco apostolico, formatosi certamente nel periodo post-pasquale, e l’abbia inserito tout-court, presentandolo con l’espressione redazionale “Questi sono i nomi dei dodici apostoli”, senza con ciò voler caricare tale termine di un qualche significato teologico. Tale termine, infatti, per la densità del suo significato, che presuppone un’investitura autorevole e riconosciuta universalmente presso tutti i credenti, una sorta di alter ego di Gesù, non è pensabile che fosse nata mentre Gesù era ancora in vita. Nessun rabbi, infatti, aveva all’interno del suo gruppo suoi legali rappresentanti, ma tutti si qualificavano come suoi discepoli. È significativo, infatti, come tale vocabolo ricorra nei quattro vangeli soltanto nove volte (Mt 10,2; Mc 6,30; Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10; Gv 13,16) contro le 221 volte della parola “discepolo”. Come altrettanto significativo risulta essere l’uso dei due termini negli Atti degli Apostoli: il vocabolo apostolo sale a 29 volte, mentre quello di discepolo scende a 28. Segno questo che il tempo del discepolato era finito, mentre quello apostolico si andava affermando. Anche l’uso quantitativo dei termini orienta la comprensione di come si sia sviluppata l’organizzazione della chiesa primitiva. Il contesto, infatti, degli Atti è quello proprio della storia della chiesa primitiva post-pasquale, epoca in cui le comunità già incominciavano a darsi una loro struttura interna e incominciavano ad avere una loro propria comprensione. La figura di Gesù è, quindi, sostituita da quella dell’apostolo, la cui autorità è fatta risalire direttamente a Gesù. In questo senso va letta la presenza del termine apostolo all’interno dei vangeli.

[8] Sulla differenza tra discepolo e apostolo e sulla loro identità, cfr. la voce “Discepolo” nell’opera “Il racconto di Matteo” presente in questo sito.

[9] Sulla questione della comunità di Matteo, cfr. il titolo “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[10] È significativo come Giovanni, unico tra gli evangelisti, non riporti nessuna lista di nomi apostolici, ma si limita a citarne soltanto nove senza particolare ordine, se non quello degli eventi. Nell’ordine di citazione sono: Andrea, fratello di Simon Pietro (1,10); Simone, figlio di Giovanni, chiamato Pietro (1,42); Filippo, citato 12 volte nel vangelo giovanneo (1,43); Natanaele (1,45-49; 21,2), sconosciuto nei Sinottici; Giuda, figlio di Simone l’Iscariota, il traditore (6,71); Tommaso, chiamato Didimo (11,16); Giuda, non l’Iscariota (14,22), probabilmente è il Giuda di Giacomo citato da Luca in 6,16 e negli Atti 1,13; e, infine, due discepoli citati una sola volta in forma anonima con il solo appellativo di “figli di Zebedeo” (21,2), che sappiamo essere dai Sinottici Giacomo e Giovanni (Mt 10,2; Mc 3,17). Il primato di Pietro compare soltanto dal numero di volte con cui viene citato a differenza degli altri: 25 volte, escludendo il cap. 21, che è un’aggiunta postuma. Giovanni dimostra di conoscere il gruppo dei Dodici, che cita quattro volte in 6,67.70.71 e in 20,24. Lo scarso interesse che Giovanni mostra per l’istituzionalizzazione delle comunità dipende sia dal fatto che la comunità giovannea si era ritirata ad Efeso e, quindi, fuori dal giro delle comunità palestinesi; sia dal fatto, non trascurabile, che Giovanni fu l’ultimo apostolo a morire e, quindi, rimase a lungo tempo lui l’unico riferimento della sua comunità, che ruotava unicamente attorno a lui, mentre tutti gli altri apostoli e/o discepoli fondatori di comunità erano ormai da tempo scomparsi, accelerando in tal modo l’istituzionalizzazione delle loro comunità. (Cfr. R.E.Brown, Giovanni, Cittadella Editrice3, Assisi (PG), 1999; A.Marchadour, Vangelo di Giovanni, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1994.

[11] Cfr. Mt 18,18; 24,14; Lc 21,13; 24,48; Gv 3,11.28; 15,27; At 1,8; 2,32; 3,15; 4,33; 5,32. Secondo il diritto giudaico perchè la testimonianza fosse attendibile doveva essere prestata da almeno due testimoni: “Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni” (Dt 19,15). Cfr. anche il lemma “Testimone” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit. – A.Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.

[12] Benché il verbo lšgw, che nella lingua greca è utilizzato prevalentemente per esprimere un dire generico, contenga tra i suoi molteplici significati anche quello di “chiamare, designare, significare”, tuttavia è il contesto in cui viene posto e il tempo del verbo (participio presente, che indica la persistenza dell’azione nel presente, come dire si è sempre chiamato così), che toglie al verbo stesso un particolare significato elettivo e di nomina, che invece possiedono gli altri verbi.

[13] In proposito si legga il titolo “Luogo e data di composizione” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[14] Tutte le informazioni sui singoli nomi apostolici sono state tratte da mie ricerche bibliche e dai seguenti testi: Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, 1992; O. Spinetoli, Matteo, op. cit.; R. Fabris, Matteo, op. cit.

[15] Matteo cita quattro diverse persone che portano tale nome: Simone, detto Pietro (10,2), Simone il Cananeo (10,4), Simone il lebbroso (26,6) e Simone, il Cireneo (27,32); personaggi questi che sono riportati anche dagli altri due Sinottici. Mentre in Giovanni 6,71e 13,2.26 si conosce con tale nome anche il padre di Giuda: Simone Iscariota. In Atti 8,9 compare un altro Simone, dedito alla magia; in At 9,43 e 10,6 vi è Simone il conciatore.

[16] Il termine greco “Boanhrgšj” è un composto di due parole “BÒama” (grido) + “erg£thj” (autore, operatore). Quindi, letteralmente sarebbe “operatori o autori di grida”, che potremmo tradurre, pertanto, con il nostro “brontoloni” o anche “agitatori”. La traduzione “figli del tuono” è molto liberale e, a mio avviso, non rispetta l’etimologia. Tuono in greco è bront» (bronté), mentre figlio è Ù…oj tšknon (uìos - téknos) Siamo, quindi,  lontani, comunque la si voglia vedere, dall’etimologia del termine. Va rilevato, tuttavia, che Lorenzo Rocci nel suo “Vocabolario Greco - Italiano”, riportando il termine Boanhrgšj traduce, tout-court, con “figli del tuono”, conformandosi alla tradizionale traduzione e cita il N.T.

[17] Erode Agrippa fu figlio di Aristobulo e nipote di Erode il Grande. Da Caligola ricevette il titolo di re assieme ai territori nord occidentali della Palestina. Nel 41 d.C., divenuto imperatore Claudio, ricevette da questi anche i territori della Giudea e della Samaria, dopo diversi intrighi a Roma. La sua politica fu favorevole al giudaismo farisaico e fu ben visto dai giudei. Morì improvvisamente all’età di 54 anni (44 d.C.). La sua morte è menzionata dallo stesso Luca in At 12,20 e da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche, 19,343 ss. Egli lasciò un figlio, Agrippa II, e due figlie: Berenice, nata nel 28 d.C. e menzionata da Luca in At 25,13; e Drusilla, nata nel 38 d.C. e divenuta la terza moglie del procuratore romano Felice. Anche questo particolare è citato da Luca in At 24,24. – Cfr. la voce Erode in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[18] Nell’elenco degli Atti i nomi di Filippo e Bartolomeo sono inframmezzati da quello di Tommaso (At 1,13).

[19] Il nome Bartolomeo, per il suo significato, sembra essere soltanto un patronimico. Quale, dunque, il suo nome reale? Non ci è dato di conoscerlo, benché si sia avanzata l’ipotesi, a mio avviso alquanto disperata, che esso sia il Natanaele giovanneo (Gv 1,45-49; 21,2). Secondo Eusebio di Cesarea il vangelo di Matteo in India.

[20] A differenza dei Sinottici, che nei loro racconti citano una sola pasqua, quella fatale in cui Gesù morì, Giovanni narra di tre pasque vissute da Gesù durante la sua vita pubblica: la prima in 2,13, caratterizzata dall’episodio della purificazione del Tempio; la seconda in 6,4 predomina la moltiplicazione dei pani, che in Giovanni è fondativa dell’eucaristia; la terza in 11,55, nella quale viene narrata la risurrezione di Lazzaro, che nel racconto giovanneo prelude a quella di Gesù. È proprio questo particolare della triplice pasqua che spinge gli esegeti a ritenere che la missione pubblica di Gesù sia durata tre anni circa.

[21] Sulla questione, vedasi  il nome di Andrea.

[22] Sull’autore del vangelo di Matteo, vedasi il titolo “Autore” nella parte introduttiva della presente opera.

[23] Sulla figura di Papia si veda la nota 5 nella parte introduttiva della presente opera.

[24] Si tratta del codice D o Codice di Beza, detto anche Cantabrigense, proveniente dalla Francia meridionale e venuto in possesso di Teodoro di Beza, discepolo e amico di Calvino. Contiene i Vangeli e gli Atti degli Apostoli. Databile intorno al V sec. In merito cfr. Nestle-Aland, Nuovo Testamento, Greco - Italiano, XXVII edizione, Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma 1996

[25] Cfr. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1999 – pagg. 771-772

[26] Gli Scritti neotestamentari ricordano nove Simone, nell’ordine: Simone detto Pietro (Mt 10,2); Simone il Cananeo (Mt 10,4) o lo Zelota (Lc 6,15; At 1,13); Simone, uno dei fratelli di Gesù (Mt 13,55); Simone il lebbroso (Mt 26,6); Simone di Cirene, che aiutò Gesù a portare la croce (Mt 27,32); Simone, il fariseo che ospitò Gesù nella sua casa (Lc 7,44); Simone l’Iscariota, il padre di Giuda il traditore (Gv 6,41); Simone il mago (At 8,9); Simone il conciatore, di Giaffa. Questi aveva una casa in riva al mare (mar Mediterraneo) ed  ospitò Pietro (At 10,6).

[27] Il nome Simeone significa “colui che ascolta”. In ebraico è Shim’ ōn ed ha probabilmente la sua radice in shāma’, che significa “ascoltare”.  

[28] Dai dati storici a nostra disposizione e con la dovuta precauzione, possiamo dire che gli Zeloti furono fondati dal fariseo Zadok nell’anno 6 d.C. e da un certo Giuda il galileo, originario di Gamala, figlio di Ezechia. Questi scatenò una ribellione contro il censimento, a fine fiscali, voluto dal governatore romano Quirino (At 5,37). In tale occasione gli Zeloti vennero reclutati, in gran parte, dal gruppo dei Farisei, a cui rimasero sempre profondamente legati dottrinalmente. Essi svilupparono un atteggiamento ostile verso Roma, poiché ritenevano che non si dovesse aspettare passivamente il cambiamento messianico. Mossi da un ideale teocratico, ritenevano che solo Dio dovesse essere il vero re d’Israele e che la presenza di Roma impedisse la realizzazione di tale disegno divino. A tele ideale religioso essi associarono anche un impegno civile, denunciando apertamente lo sfruttamento della Palestina da parte dei romani. Un po’ alla volta riscossero sempre maggiori consensi, provocando numerosi disordini in un crescendo continuo fino alla rivolta che sfociò nel 66 d.C. nella prima guerra giudaica, che portò alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio. È probabile che Gesù con la sua predicazione del Regno di Dio e la sua attenzione verso i poveri e i sofferenti avesse esercitato una certa attrattiva sul movimento. La presenza di Simone e dello stesso Giuda, probabilmente anch’egli zelota, lo stanno a testimoniare.  La convinzione, infatti, da parte dei discepoli di Gesù che lui fosse il messia politico e militare che tutti attendevano ci è testimoniata anche dal racconto dei due figli di Zebedeo, che chiedono a Gesù posti di privilegio nella costituzione del suo Regno (Mt 20,20-21; Mc 10,35-36) e dall’interrogativo che i suoi discepoli gli posero sul quando egli lo avrebbe inaugurato ufficialmente (At 1,6). Gesù tuttavia ha sempre rifuggito una simile interpretazione del suo messianismo, presentandosi invece come il sofferente servo di Jhwh  (Mc 8,31-32; 9,31-32; 10,32-34; Gv 6,15). Sul tema degli Zeloti cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit..

[29] La seconda grande guerra giudaica si svolse tra il 132 e il 135 d.C. e portò alla definitiva distruzione di Gerusalemme, in parte ricostruita dai Romani con il nome di Aelia Capitolina, in onore a Giove Capitolino. Gli ebrei vennero espulsi dalla città e fu fatto divieto di entrarvi a tutti i circoncisi. La rivolta fu capeggiata da Shimo’ on ben Kossiba, che rabbi Aqiba, il più importante maestro del suo tempo, salutò come il messia liberatore e lo soprannominò Shim’on bar Kokhba, il figlio delle stelle. Altri, invece, denigrandolo lo definirono come “bar Koziba”, il figlio della menzogna. Fu una guerra sanguinosa che provocò circa 850.000 morti. Fonti: Luca Mazzinghi, Storia d’Israele, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato (AL),  1991; Hans Küng, Ebraismo, passato, presente, futuro, Editrice BUR – Roma 1999.

[30] Cfr. Mt 10,4; 26,5; 27,3; Mc 3,19; Lc 6,16; Gv 6,71; 12,4; 18,2.5.

[31] Keriot è una cittadina citata in tutto l’A.T. solo tre volte: in Gs 15,25 chiamata Keriot-Chezron o Cazor, posta verso il confine di Edom nel Negheb;  in Ger 48,24 e in Am 2,2, che la pongono nella regione di Moab.

[32] Il termine sicario deriva dal latino "sica", che indica un pugnale dalla lama ricurva, usato in genere dai Traci, considerati dai romani dei briganti. Era, quindi, un’arma privilegiata da assassini e rivoltosi, che usavano l’omicidio come azione di terrorismo.

[33] Cfr. O. Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1998; G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Città Nuova Editrice, Roma – 2001.

[34] Cfr. la voce “La comunità matteana” nella “Parte Introduttiva” della presente opera.

[35] I cattivi rapporti che intercorrevano tra Giudei e Samaritani ci sono testimoniati dallo stesso Giovanni nel suo vangelo (Gv 4,9). Le motivazioni sono esclusivamente storiche. I Samaritani, infatti, ebbero origine da una mescolanza di popolazioni straniere, importate in Samaria dal re assiro Sargon II dopo la caduta del Regno del Nord ad opera dello stesso nel 721 a.C. Le nuove popolazioni, mescolatesi insieme alle indigene, adottarono il culto a Jhwh, ma inquinandolo con le loro credenze. Quando i Giudei, dopo l’esilio di Babilonia (538 a.C.), tornarono in Palestina, mossi da un grande zelo per Jhwh, non vollero tenere nessun rapporto con i Samaritani, ritenuti dei traditori e semipaganizzati. Questi, risentiti per il rifiuto e per la scarsa considerazione da parte dei Giudei, ostacolarono in ogni modo la ricostruzione del tempio in Gerusalemme, comunque a fatica ricostruito tra il 520-515 a.C. In concorrenza con il nuovo tempio di Gerusalemme, costruirono sul monte Garizim un loro tempio, dando origine ad un proprio culto separato e in opposizione a quello ufficiale di Gerusalemme. L’astio aumentò a dismisura e la rottura divenne insanabile quando nel 128 a.C. il re giudeo Giovanni Ircano distrusse il loro tempio sul monte Garizim. La questione del vero culto e del vero tempio sarà posta a Gesù dalla donna Samaritana (Gv 4,19-20). È comprensibile, quindi, come nelle logiche matteane i Samaritani, considerati dai Giudei dei semipagani imbastarditi, non dovessero, alla pari dei pagani, essere considerati al fine dell’annuncio salvifico. Gesù, invece, mostrerà sempre una particolare attenzione e simpatia per questa gente.

[36] Nel mondo biblico veterotestamentario sovente gregge e pecore erano la metafora del popolo d’Israele (Sal 43,12.23; 73,1; 76,21; 77,70-71; 94,7; Is 40,11; Mi 2,12 ). Il richiamo qui alle “perdute pecore d’Israele” non è casuale, ma si aggancia strettamente al linguaggio proprio dei profeti, quando questi richiamavano duramente i capi d’Israele per la loro colpevole negligenza nei confronti del popolo (Ger 10,21; 23,1-2; 50,6; Ez 34,1-10 ), prospettando come Dio stesso si sarebbe fatto pastore per il suo popolo, ne avrebbe preso cura, radunandolo e conducendolo a grassi pascoli (Ger 23,3-4; Ez 34,11-17.23-25; Sir 18,13). Il richiamo alle “perdute pecore d’Israele”, quindi, lascia intravvedere da un lato una malcelata polemica di Matteo contro i capi religiosi del popolo; dall’altro, lascia intuire come la nuova comunità messianica, in cui viva è la presenza del Pastore promesso da Jhwh, è il nuovo gregge nel quale devono essere ricondotte tutte “le perdute pecore d’Israele”.

[37] L’elezione d’Israele, quale atto gratuito di Jhwh, è uno dei principi teologici fondamentali del giudaismo rabbinico, fortemente radicato nella tradizione biblica. Noè ed Abramo furono i prescelti, il primo per dare inizio ad una nuova umanità (Gen 6,8-9.18; 9,1), purificata dal peccato; il secondo come seme di  benedizione per tutte le genti (Gen 12,2-3). L’elezione divina dei Patriarchi si trasfonde sull’intero popolo d’Israele, che diviene proprietà di Jhwh (Es 19,5; Lv 20,26), regno di sacerdoti e sua nazione santa in mezzo a tutti i popoli (Es 19,4-6). Segno inconfondibile di tale elezione è la Torah, che definisce i termini dell’Alleanza e garantisce la presenza di Jhwh in mezzo al suo popolo (Es 19,5a). Il dono della Torah si è accompagnato a quello della Terra, che per Israele e terra santa, poiché realizzazione storica della promessa divina (Gen 12,1; Bar 2,34) in cui Israele poteva realizzarsi come popolo eletto e vivere la sua elezione, partecipando ritualmente alla stessa santità di Dio, divenuto comandamento in Israele (Lv 19,1-2). Sul tema cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e Teologia, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), 2005 –  pagg. 474 - 486.

[38] Cfr. Rm 3,30; Gal 2,7; Ef 2,11.14-16

[39] Cfr. Mt 7,6; 15,26-27; Fil 3,2; 2Pt 2,22; Ap 22,15.

[40] Cfr. Gen 18,18; 22,18; 26,4; Is 2,2-5; 60,1-22; Mi 4,1; Tb 13,3-4a; 14,5-6; Sal 66,1-8;71,9-11; 95,2-3; Sir 36,1-4; Lc 29,32.

[41] Cfr. Mt 3,9a; Gv 8,39a; Rm 2,1a.17-21.

[42] Cfr. At 2,39; 13,46; 18,5-6; 19,8-10; 28,23-28

[43] Cfr. la parte introduttiva dei capp. 8-9 della presente opera.

[44] Sul verbo khrÚssw cfr. la nota 14 del commento ai capp. 3 e 4 della presente opera.

[45] Circa la formazione del concetto di Regno di Dio o dei cieli si cfr. la nota 20 del commento ai capp. 3-4 della presente opera.

[46] Cfr. Mt 3,2; 4,17; 10,7; Mc 1,15; Lc 10,9.11; 21,31

[47] Cfr. Mt 12,28; Lc 11,20;

[48] Cfr. Rm 14,17; 1Cor 15,50; Gal 5,21;

[49] In tal senso cfr. Mt 4,23-24; capp. 5-7, primo grande discorso di Gesù, fatto seguire immediatamente dai capp. 8-9, sezione dei miracoli; Mt 10,7-8; 11,4-5; 15,30-31; 19,1-2; 21,11-14; Mc 1,27-32; Lc 7,22; 10,9.

[50] Sul significato dei miracoli di guarigione di Gesù cfr la voce "Gruppo degli ammalati e indemoniati", nell’opera “Il racconto di Matteo” nel presente sito. – Cfr. anche nota 55 del commento ai capp. 8-9 della presente opera.

[51] Cfr. Rm 3,21-22.28; 4,6-9

[52]  Cfr Mt 10,10; Lc 10,7; 2Cor 11,7-11

[53] Il viaggiare nel mondo antico comportava notevoli rischi, che aumentavano a dismisura se il viaggio era compiuto via mare, per la presenza di possibili e abbastanza frequenti naufragi e per le scorribande dei pirati, che infestavano le rotte mercantili. Per evitare i naufragi, conseguenti al cattivo tempo, la navigazione era limitata prevalentemente tra i mesi di maggio e ottobre, benché anche in questo periodo una qualche tempesta poteva costringere al naufragio. Tra metà novembre e metà febbraio la navigazione veniva sospesa per evitare di incorrere nelle bufere invernali (2Tm 4,21; Tt 3,12). I viaggi via terra si facevano in genere a piedi o, nei casi migliori, a cavallo di asini, muli e cammelli, utilizzati anche come animali da soma; sui carri viaggiavano i nobili o le persone ricche o venivano trasportati donne, bambini o vecchi. Ai tempi dei Romani, l’Impero era percorso da una rete di strade di grande comunicazione, che collegavano tutte le parti dell’Impero, così da poterle raggiungere rapidamente. La loro finalità preminente era quella di consentire il rapido spostamento dell’esercito e favorire, in seconda battuta, anche il commercio. Le strade più importanti erano in genere presidiate, ogni dieci miglia circa, da fortificazioni e da stazioni,  in cui i messi imperiali potevano rifocillarsi e avere cambi di cavalli sempre freschi. Anche i comuni viandanti potevano usufruirne, benché la precedenza venisse data ai corrieri in missione per il governo imperiale. Per motivi di sicurezza, là dove possibile, si viaggiava in carovane o in gruppo per far fronte ai pericoli di cui erano disseminate le strade. Quali fossero i pericoli che il viaggiare a quel tempo comportava ce ne dà testimonianza lo stesso Paolo nella sua Seconda Lettera ai Corinti: “[…] tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità” (2Cor 11,25b-27). Lo stesso Luca, nel raccontare la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,30-36), narra la triste sorte toccata al viandante che incappò nei briganti, che dopo averlo ridotto in fin di vita lo spogliarono di ogni suo avere. Come avveniva, infine, un viaggio in mare ce ne dà un assaggio il cap. 27 degli Atti degli Apostoli, che costituisce una sorta di diario di bordo di un comune viaggio via mare. - Sul tema del viaggiare nel mondo antico si cfr. James S. Feffers, Il Mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Testamento, Ed. San Paolo s.r.l. , Cinisello Balsamo (MI), 2004; e la voce “Viaggiare” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[54] Cfr. sopra circa il tema della gratuità dell’annuncio e le citazioni della nota 51.

[55] In tal senso si cfr. anche Lv 27,30-33 e Dt 14,22-29.

[56] Cfr. Gen 19,1; 24,13-14ss; Es 2,16-21; Gdc 19,13-21. – Cfr. Anche la voce “Ospitalità” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[57] Cfr. Mc 1,29; 2,14-25; Lc 7,36; 10,38-42; At 10,6; 16,14-15; 17,5-7; 21,16; 28,7; Rm 12,13;16,23;1Tm 5,10; 1Pt 4,9.

[58] Cfr. J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli, Cittadella editrice (Assisi), 1997; e la voce “Casa” in Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, op. cit.

[59] Cfr. Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor 3,12; 1Ts 5,26;1Pt 5,14 – Cfr. anche il vocabolo “Bacio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[60] Cfr. Gen 43,23; Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 25,6; 2Sam 15,9; 18,28; 2Re 5,19; 1Cr 12,19; Tb 10,12; 12,17; Gdt 8,35; Sal 121,6-7; 124,5; 127,6. – At 15,23; Rm 15,13.32; 1Cor 1,3; 2Cor 1,2; 13,11; Gal 1,3; Ef 1,2; 1Ts 1,1; 2Ts 1,2; Fil 1,2; 3Gv 1,15; Fm 1,3; 

[61] Nel caso della pace in senso spirituale, che si riflette, secondo le logiche veterotestamentarie, sulla prosperità materiale, essa aveva una stretta attinenza con l’Alleanza e con la qualità del rapporto che il popolo teneva con  Jhwh, dal quale proveniva ogni bene materiale e ogni prosperità (Ger 14,19; 33,9; 45,3; Lam 3,17; Bar 3,12-14; 6,2; Ez 7,20-25; 37,26; Ag 2,9)

[62] Cfr. anche Gv 14,27.

[63] Cfr anche Fil 4,7.9; 1Ts 5,23; 2Ts 3,16; Col 3,15; 2

[64] Cfr. anche Rm 5,1;

[65] Cfr. Gen 6,5-6.11-13; Dt 29,24; 31,16; Gdc 2,12-13.17; 10,6;  Ne 9,17.29; Is 1,4; 65,11; Ger 2,13; 5,7.19; 8,5; 9,5.12; 11,10; 13.10; 16,12; 19,15; 22,9; Ez 20,8; - N.T. Gv 6,64.66.71; At 7,52; 19,9; Rm 11,15; 2Tm 4,3-4; Tt 1,13-14.

[66] Cfr. Dt 1,43; 1Sam 2,3; Sal 16,10; 53,5; Os 5,5; 7,10; Rm 1,18-32; 3,12-18.23.

[67] Cfr. Gv 1,7.12; At 10,34-35; 17,30; Rm 5,15.18; 1Tm 2,4; 4,10; Tt 2,11.

[68] Cfr. Mt 12,30; Lc 11,23; Gv 3,16-21; 5,24; 6,47.

[69] Cfr. S.Agostino, Serm. 149,12

[70] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico, op. cit.; cfr. la voce “polvere” in Nuovo Dizionario Enciclopedico …, op. cit.

[71] La lettera agli Efesini sottolineerà, invece, come la fede nell’unico Cristo costituisce il momento di superamento di questa divisione e inconciliabilità tra ebrei e non ebrei: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,13-17).

[72] Sodoma e Gomorra sono due città poste a sud-ovest del mar Morto, rispettivamente a circa 7 e 22 Km in linea d’aria dal mare. Identico destino subirono le meno menzionate città di Adma e Zeboim, della cui sorte la Bibbia parla solo accidentalmente in Dt 29,22, assommandole a quella di Sodoma e Gomorra. Queste due città, quando sono citate, compaiono sempre accanto a Sodoma e Gomorra (Gen 10,19; 14,2; 14,8; Dt 29,22), mentre in Osea sono indicate da sole (Os 11,8). Geograficamente sono poste nella valle di Siddim nel deserto del Negheb, a sud-est del Mar morto, in parallelo a Sodoma e a Gomorra.

[73] Il termine ebraico Amen, che ricorre 24 volte nell’A.T. e ben 102 volte nel N.T., è un avverbio che significa sicuramente, certamente, veramente, si, e deriva dalla radice ‘mn che include in sé l’idea di fermezza, solidità, sicurezza. Pronunciare, pertanto, “ Amen” significa caricare di certezza quello che si dice. Viene posto dagli evangelisti sulla bocca di Gesù 78 volte per dare importanza ai suoi discorsi e alle sue affermazioni. Giovanni, unico tra gli evangelisti, fa precedere alcuni pronunciamenti solenni di Gesù dal doppio Amen, quasi a voler sottolineare la veridicità del discorso con  la certezza propria di un giuramento. In italiano, per ragioni di correttezza linguistica, il termine Amen viene tradotto con “In verità”. Nell’Apocalisse Gesù è definito l’Amen (Ap 3,14) per evidenziare come egli sia veramente e con certezza, in modo definitivo, la realizzazione di tutte le promesse di Dio. – Cfr. anche il termine “Amen” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato …, op. cit.

[74] Cfr Mt 10,34; Lc 12,51-53; Eb 4,12;

[75] Cfr. Rinaldo Fabris, Matteo, Ed. Borla srl, Roma -1996

[76] Cfr. Is 40,11; Ger 23,2-3; 50,6; Ez 34,4.6.8.10-12.15.19.22.31; Mi 2,12.

[77] Cfr. Mt 9,36; Mc 6,34; Lc 10,3; Gv 10,1.16; 21,15; 1Pt 2,25.

[78] Cfr. Gv 10,11; Eb 13,20; 1Pt 5,4; Ap 7,17.

[79] Che le ostilità contro il nascente cristianesimo e il suo diffondersi siano originate sia dal giudaismo che dal mondo pagano, si evince dai successivi vv. 17 e 18, in cui si parla, rispettivamente di “sinedri e sinagoghe” e di “principi e re”; così come i destinatari della testimonianza sono “a loro (giudei) e ai gentili (pagani)”. Sono queste due realtà con cui la comunità di Matteo è chiamata a confrontarsi e spesso a scontrarsi. In tutto il vangelo di Matteo, infatti, serpeggia palpabile, evidente e talvolta violenta la polemica con il mondo giudaico (cfr. cap.23) e contro i pagani, benché, con questi ultimi, in modo più morbido e quasi impercettibile. Per un maggiore approfondimento della questione si legga il commento ai capp. 6-7 e la voce “La comunità matteana” nella parte introduttiva della presente opera.

[80]Il serpente fa la sua prima comparsa nel mondo biblico in Gen 3,1 dove viene definito come “la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio”. Un’astuzia che qui viene spesa per trarre in inganno e spingere nel baratro di morte l’umanità ancora incandescente di Dio. La sua lingua biforcuta è il simbolo della sua doppiezza, che si fonda sull’equivoco e spinge ad equivocare (Gen 3,1-5). Il credente, quindi, è invitato a fare propria l’astuzia del serpente, ma a rifuggire la doppiezza di vita, equivocando sulle regole del vivere cristiano, adattandole alle esigenze del mondo avverso in cui vivono. Da qui il forte richiamo all’integrità della colomba, che nel racconto biblico torna all’arca perché non trova dove posare le zampe. (Sull’immagine della colomba cfr. la successiva nota 80). Cfr. la voce “Serpente” in Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici; e in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, opp. citt.

[81]La colomba fa la sua prima apparizione nei racconti biblici in Gen 8,8-9. Al termine del diluvio Noè invia una colomba per vedere se le acque si fossero ritirate, ma essa ritornò perché non aveva trovato dove posare “la pianta del piede”. Essa è ben diversa dal corvo, che l’aveva preceduta in una prima ispezione (Gen 8,6-7). Questi, infatti, andava avanti e indietro, perché non aveva trovato da nidificare, ma aveva trovato nutrimento sufficiente nei cadaveri trasportati dall’acqua. Il corvo, infatti, si ciba di carogne di animali, per questo è considerato un animale impuro (Lv 11,13.15; Dt 14,12.14). Il suo gracchiare e il piumaggio nero avevano nell’antichità un qualcosa di inquietante. L’accostamento con la colomba, simbolo della fecondità e dell’amore, mettono in risalto le qualità di questo animale, che la natura sembra spingere a difendere la delicatezza del suo biancore e che viene cantato con tocchi poetici dal Salmista: “Mentre voi dormite tra gli ovili, splendono d'argento le ali della colomba, le sue piume di riflessi d'oro” (Sal 67,14). Il riferimento di Gesù alla colomba, quindi, allude alla naturale e nota integrità di questo volatile, che deve riflettersi anche nel modo di vivere del credente, stemperando l’astuzia del serpente. - Cfr. la voce “Serpente” in Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici; e in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, opp. citt.

[82] I vv. 10,16-18.21-22 hanno i loro corrispondenti nei vv. 24,9.10.13 del discorso escatologico.

[83] Qui e in Mc 13,9 il sostantivo “sunšdria” (sinédria) compare al plurale e indica i sinedri, cioè i tribunali locali, variamente sparsi sul territorio, in particolar modo presenti nelle grandi città. A differenza del Sinedrio di Gerusalemme, organo di governo politico e religioso con funzioni anche di tribunale per l’area di competenza della Giudea, composto da 70 membri più il Sommo Sacerdote, quelli locali erano composti da 23, nominati dal Sinedrio di Gerusalemme, che si riunivano due volte la settimana, il lunedì e il giovedì. La sentenza di condanna comportava spesso la pena della fustigazione. Paolo ricorderà nella sua 2Cor 11,24 di aver ricevuto dai Giudei per cinque volte la condanna a 39 colpi – Cfr. la voce “Sinedrio in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico opp. citt.

[84] Tra le varie funzioni, che la sinagoga assolveva, vi  erano anche quelle di tribunali e di esecuzioni delle pene da questi inflitte. Al loro interno esisteva un apposito locale per le fustigazioni, che venivano eseguite dall’inserviente della sinagoga stessa, lo hazzan. – Cfr. la voce “Sinagoga” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[85] Le altre quattro volte l’avverbio “›neken” compare una volta in At 28,20 e in Rm 14,20; due volte in 2Cor 7,12. Nel numero sono state escluse le parole composte da “›neken”.

[86] Cfr. Gen 21,30; 31,44; Dt 31,19.26; Gs 24,27; 1Sam 9,24; Gb 16,8; Prv 29,14; Os 2,14; Am 1,11; Mic 1,2; 7,17; Sof 3,8.

[87] Cfr. Mt 8,4; 10,18; 24,14; Mc 1,44; 6,11; 13,9; Lc 5,14; 9,5; 21,13; Eb 3,5; Gc 5,3.

[88] Cfr. Mt 13,54-58; Mc 6,1-6; Lc 4,16.28-29

[89] Cfr. Mt 16,9.11; Mc 7,18; 8,17.21; Gv 6,60 

[90] Cfr. Mt 26,14.25.47; Mc 14,10; Lc 22,48; Gv 18,2-3

[91] Cfr. Mt 26,75; Mc 14,72; Lc 22,61-62; Gv 13,38.

[92] Cfr. Mt 13,58; 17,17; Mc 9,19; 16,14; Lc 9,41; Lc 22,67; Gv 1,11; 3,12; 4,48; 5,38; 6,64; 8,45; 10,25-26; At 3,13-14; 

[93] Cfr. anche Lc 24,41; Gv 20,9-10.25.27

[94] Cfr. nota 35 del presente commento.

[95] Cfr. Raymond  E. Brown, Giovanni, pagg. LXXX-LXXXVII della parte Introduttiva dell’opera, Ed. Cittadella, Assisi, V edizione settembre 1999.

[96] La metonimia è una figura retorica che sostituisce un termine con un altro con cui è in stretto rapporto, come in questo caso, dove si parla di città ribelli per indicarne, in realtà, i suoi abitanti.

[97] Cfr. Mt 13,38-42; 16,27; 19,28; 24,26-28; 24,30.36-42; 25,31; 26,64.

[98] Cfr. O. Spinetoli, Matteo, pagg. 316-317, op. cit.

[99] Il Giudaismo, un movimento religioso e politico, nato a seguito del ritorno dei deportati da Babilonia (538 a.C.), si incentrava tutto attorno al Tempio, al suo culto, ai sacrifici e al sacerdozio. La perdita del Tempio decretò la fine di tutto questo e l’avviarsi, già nel 70 d.C., di un nuovo tipo di giudaismo: quello rabbinico, sorto a Iamnia (gr.) o Iabne (eb.) ad opera di Rabbi Yohanan ben Zakkai, dopo una fuga rocambolesca da Gerusalemme, posta sottoassedio da parte delle truppe romane. Si rifugiò ad Iamnia dove chiese autorizzazione alle autorità romane di aprire una scuola, in cui si incominciò ad insegnare la tradizione orale e sotto la sua presidenza si formò un tribunale (Bet Din), una sorta di prolungamento del Sinedrio, dove si decisero questioni importanti quali quelle riguardanti l’ordinamento del calendario, elemento fondamentale a cui era legata la validità stessa delle celebrazioni delle festività, nonché le questioni inerenti alla cessazione del culto nel Tempio.

[100] La sintetica espressione matteana “Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta!”, che allude alla distruzione di Gerusalemme a seguito della tragica guerra giudaica, trova in Luca un più chiaro riferimento a questa: “Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia. Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti. Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con potenza e gloria grande. Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina".” (Lc 21,20-28)

[101] Nel vangelo di Matteo ricorre dieci volte l’espressione “a causa di”  (di¦) o “per causa di” (›neken) con riferimento alla persona stessa di Gesù. Cfr. Mt 5,11; 10,18.22.39; 13,21.57; 16,25; 24,9; 26,31; 27,19.

[102] L’endiadi è una figura retorica che si serve di due o più parole per esprime un unico concetto. Nel nostro caso Gesù è Maestro e Padrone, così che il Maestro è anche Padrone, come il Padrone è Maestro.

[103] Sul nome “Beelzebul” cfr. la voce “Baal-Zebul” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; G. Rossé, Il Vangelo di Luca; R. Fabris, Matteo; O. Spinetoli, Matteo; J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli; A.Poppi, I Quattro Vangeli – commento esegetico. Tutte opere citate.

[104] Le altre quattro città filistee sono Gaza, Ascalon, Asdod e Gat.

[105] Cfr. 2Re 1,2.3.6.16

[106] Cfr. Dt 32,17; 2Cr 11,15; Bar 4,35. Qui in Baruc I demoni sono identificati con i pagani, adoratori di divinità che non sono il vero Dio.

[107] Cfr. Mt 10,25; 12,24.27; Mc 3,22; Lc 11,15.18.19

[108] Per il significato della parola “zebul” si cfr. 1Re 8,13 e Is 63,15

[109] L’espressione “casa d’Israele” compare 31 volte nell’A.T. e 7 volte nel N.T.

[110] Cfr. la parte introduttiva del presente capitolo (pag.2).

[111] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico, op. cit.

[112] Cfr. Mt 13,36; 17,1.19; Mt 20,17; 24,3; Mc 4,10-11; 6,31-32; 9,33; 10,32; 13,3; Lc 10,23.  

[113] Cfr. Mt 28,19-20; Lc 24,46-48; At 1,8.22; 2,32; 3,15; 5,30-32; 10,39.41; 13,31.

[114] Sul verbo kerìsso (proclamare , annunciare) si cfr. la nota 15 del commento ai capp.3-4 della presente opera.

[115] La Geenna, dall’ebraico “ghe-Hinnom” (valle del fiume Innom), è una sorta di precipizio posto a sud-ovest di Gerusalemme. In questa valle anticamente si erano eretti dei templi al dio Moloch, al quale venivano sacrificati dei bambini, secondo riti pagani cananei, a cui partecipavano anche gli ebrei. Il re Giosia (640-609 a.C.), nel riformare e nel ristabilire il vero culto a Jhwh, fece abbattere questi templi e ridusse la valle ad un deposito di immondizie e di cadaveri, che non potevano avere sepoltura e dove il tutto veniva bruciato. Il fuoco qui dunque era perenne. Da qui, per similitudine, la Geenna divenne la rappresentazione del luogo di ogni impurità sottoposto ad un fuoco eterno, cioè l’Inferno. Questo concetto è stato ripreso nel N.T. in cui il termine Geenna ricorre 12 volte, di cui sette solo in Matteo, e indica il luogo della perdizione eterna e del giudizio divino.

[116] Il termine greco, qui tradotto con “soldo”, è “¢ssar…ou” (assarìu) che significa un asse, una moneta romana in rame, all’epoca molto diffusa, e che in termini di valore corrisponde all’incirca a 1/16 del denaro, l’equivalente di una giornata di lavoro di un operaio (Mt 20,2). – Cfr. anche G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, op. cit. – pag. 486.

[117] Cfr. il titolo “la comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.

[118] Laodicèa, posta all’estremo sud-ovest dell’Asia minore, attuale Turchia, si trovava nella fertile valle del Lico, affluente del fiume Menandro, nelle vicinanze di Gerapoli e di Colossi. Fu fondata dal re seleucide Antioco II nel III sec. a.C. e chiamata Laodicèa dal nome di sua moglie. Si trovava presso un importante snodo stradale che la collegava con i porti e le città principale dell’Asia minore. Grazie alla sua favorevole posizione geografica, Laodicèa divenne un fiorente centro commerciale, soprattutto in epoca romana. Alla città venne portato molto presto l’annuncio del vangelo probabilmente da Epafra, stretto collaboratore di Paolo. Cfr. la voce “Laodicèa” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[119] Cfr. A. Poppi, I quattro Vangeli, commento esegetico, pag.143, op. cit.

[120] A differenza del monoteismo, in cui si riconosce l’esistenza di un solo Dio, mentre le altre divinità non sono che vacue immagini prodotte dalla fantasia umana e, quindi, prive di ogni consistenza, l’enoteismo riconosce, invece, l’esistenza reale di altre divinità tra le quali primeggia su tutte una divinità, a cui si accorda e si attribuisce un culto privilegiato, benché non esclusivo, rispetto a tutte le altre.

[121] L’aoristo è un tempo verbale greco che corrisponde al nostro passato remoto.

[122] Per un maggior approfondimento sul significato di anima  cfr. pagg. 36-37 del presente commento al cap.10. – Cfr. anche J: Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli, op. cit.

[123] Cfr. Mt 10,14-15.22.23b.28b.32-33.39

[124] Cfr. la voce “Luogo e data di composizione” nella Parte Introduttiva della presente opera.