IL VANGELO DI MATTEO
Secondo intermezzo narrativo
La figura di Gesù crea dissensi, dubbi e assensi
Introduzione, analisi e commento ai capp. 11- 12
Introduzione
Tra il cap. 10, che presentava la missione, al cui centro c’era l’annuncio del Regno, e il cap.13 che parla del Regno, si collocano i due capp. 11-12, che formano una sorta di pausa di riflessione. Questi costituiscono il secondo intermezzo narrativo[1], che vede al centro la complessa e problematica figura di Gesù; essa raccoglie attorno a sé dubbi, incertezze (11,3; 12,23), molti dissensi (11,16-24; 12,1-14.22-45) e dei consensi (11,25-30; 12,15.46-50). Gesù, dunque, diviene una sorta di spartiacque tra coloro che credono e coloro che non credono, ma nel contempo si costituisce, proprio per questo, come elemento di discriminazione e di giudizio su tutti. L’espressione più significativa, che meglio esprime il contenuto dei due capitoli e che in qualche modo li sintetizza, è data dal v.12,30: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”.
Il cap. 11 si apre con la domanda posta su Gesù e che dà il la ai due capitoli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”. L’attenzione, quindi, viene incentrata fin dall’inizio su Gesù, su chi veramente esso sia e quale grado di attendibilità abbia la sua parola e se essa sia veramente salvifica; o se, invece, l’attenzione debba essere spostata altrove. L’importanza della questione è data dall’ampia e diffusa risposta, che si ricava all’interno del processo narrativo dei capp. 11-12 e che delinea la complessa e non sempre immediatamente raggiungibile identità di Gesù. Matteo crea con questi due capitoli una vera e propria cristologia, sviscerando a fondo, quasi in modo impercettibile, ma incalzante la figura di Gesù.
Il primo titolo che viene assegnato a Gesù è quello di “Cristo” (11,2), cioè l’unto, il consacrato di Dio, che rimanda direttamente alla figura del messia[2]. Non a caso la seconda espressione, che troviamo immediatamente dopo, in 11,3, è “Ð ™rcÒmenoj”[3] (o ercòmenos, colui che viene), un titolo messianico con cui si designava la figura dell’inviato di Jhwh. In 11,5 la figura messianica di Gesù viene individuata anche nella sua attività: “I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella”. Con questa espressione, infatti, liberamente tratta da Isaia[4], veniva indicata l’attività del messia. I titoli messianici di Gesù, pertanto, trovano la loro conferma nell’attività stessa di Gesù. In 11,7 e 12,38 è il Maestro che ammannisce l’insegnamento alle folle ed è riconosciuto tale anche dai suoi nemici. In 11,10, nel definire la figura del Battista come “colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”, citazione che Matteo mutua dal profeta Malachia[5] 3,1 e riferisce a Giovanni, viene messa in evidenza come la missione stessa del Battista è posta in funzione a Gesù. In 11,19a Gesù è definito come il Figlio dell’uomo[6], figura dai contorni misteriosi e apocalittici, tratta dal Libro di Daniele (7,13-14). Tale espressione è riferita a Gesù 81 volte nel N.T. In 11,27 Gesù si pone in relazione al Padre come suo figlio e suo rivelatore. In 11,28-30 egli è colui che, attraendo a sé gli affaticati e gli oppressi, si fa loro ristoro. In 12,8 egli si qualifica come il signore del sabato, con un’allusione al settimo giorno della creazione, che Dio benedisse e riservò a se stesso (Gen 2,3). Gesù, poi, viene definito da Matteo come colui che è “ben più del tempio” (12,6), “più di Giona” (12,41b), “più di Salomone” (12,42b), indicando in tal modo come tutte queste realtà veterotestamentarie siano state superate nella sua persona, nella quale esse confluiscono e trovano il loro compimento (5,17). In 12,18 Gesù viene definito come il Servo di Jhwh, definizione che Matteo mutua da Is 42,1-4. In 12,23 egli è definito come il Figlio di David, titolo messianico che qualifica Gesù come la realizzazione piena della profezia di Natan al re David (2Sam 7,8-17). In 12,28 Gesù è indicato come il Regno di Dio posto in mezzo agli uomini. Segno della sua presenza è la stessa potenza esorcistica di Gesù, azione liberatrice e liberante del Padre, che in lui opera (Gv 14,10-11). In 12,49 viene qualificato come figlio e fratello dei veri credenti, che con lui hanno il comune denominatore di fare la volontà del Padre.
Una particolare attenzione va riservata ad una espressione che si ripete quattro volte e che già, in parte, abbiamo rilevato nell’analisi dei titoli, che qualificano l’identità di Gesù: “molto più di” o “più di”. Con riferimento al Battista si dice “molto di più di un profeta” (11,9); con riferimento a Gesù si evidenzia come qui “vi è ben più del tempio” (12,6); “[…] vi è più di Giona” (12,41b); “[…] vi è più di Salomone” (12,42b). Con queste espressioni si viene a creare un confronto tra alcune significative figure veterotestamentarie e quelle di Giovanni e di Gesù. Queste ultime sono poste in una posizione vincente rispetto alle altre (“ben più di”) per esprimere un’evoluzione dal meno al più, che si è operata all’interno della storia della salvezza, così che il V.T. diventa propedeutico al N.T., mentre le sue immagini e i suoi simboli diventano metafora delle future realtà inaugurate da Cristo; l’autore della Lettera ai Colossesi le definirà come ombra delle cose future (Col 2,17).
Giovanni era considerato dalla gente un profeta (Mt 14,5), una semplice voce umana, di cui Dio si serviva per far riflettere il suo popolo e ricondurlo a sé. Ma Gesù corregge il tiro e indica nel Battista lo stesso messaggero di Dio, inviato al suo popolo per preparare l’avvento di suo Figlio; e lo fa citando Ml 3,1. Il contesto è, pertanto, escatologico e annuncia il compiersi del tempo di Dio in mezzo agli uomini (Mt 3,2; Mc 1,15). In tale contesto si colloca l’incalzante e sferzante predicazione del Battista (Mt 3,1-12). Ma vi è ben di più: egli è l’Elia che doveva venire. Una figura di profeta, quest’ultima, che, secondo la tradizione apocalittica giudaica, doveva ritornare alla fine dei tempi per preparare Israele al ritorno di Jhwh. Giovanni, quindi, va oltre al semplice ruolo di profeta per qualificarsi come il compimento delle attese veterotestamentarie (messaggero di Dio che annunzia la sua venuta ed Elia, suo precursore). Quel “molto di più di un profeta” significa che i tempi dell’A.T. si sono ormai compiuti per lasciare spazio ad una nuova realtà che già palpita impaziente nella persona del Battista, che Luca saluterà cantandolo nel suo vangelo: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace” (Lc 1,76-79).
Similmente a Giovanni, Gesù è definito come “ben più del tempio, più di Giona, più di Salomone”. Tutte figure veterotestamentarie, che se da un lato indicano delle realtà storiche ben conosciute dai Giudei, dall’altro divengono figure di altre future. Il Tempio è il luogo della presenza gloriosa di Jhwh (Ez 10,4; Ap 15,8); Giona è il ricalcitrante profeta (Gio 1,3), che dopo tre giorni e tre notti nel ventre di un cetaceo (Gio 2,1), diverrà strumento di conversione e di salvezza per gli abitanti di Ninive (Gio 3,1-10); mentre Salomone, re d’Israele, è cantato per la sua irresistibile sapienza, dono divino, alla quale la pagana regina di Saba tributerà grandi onori e riconoscimenti (1Re 5,9-11; 10,1-12). Ebbene, ciò che Israele e i popoli limitrofi celebrarono, ora, ha trovato la sua piena e definitiva verità in Gesù, tempio della gloriosa presenza di Dio (Gv 2,21; Ap 21,22), annunciatore e datore di salvezza nella sua morte e risurrezione, sapienza di Dio e luce di tutte le genti[7].
A differenza del primo intermezzo (capp. 8-9), che presentò un Gesù taciturno, ma molto attivo nell’operare miracoli e chiamare a sequela, così che lo intitolammo “La Parola si fa azione”, questo secondo intermezzo (capp.11-12) si presenta esattamente all’opposto: Gesù parla moltissimo, ma non opera, fatto salvo il miracolo di guarigione, appena accennato in 12,22 e soltanto funzionale alla diatriba sul potere esorcistico di Gesù. Matteo in questa sezione fa una sorta di pausa riflessiva e di approfondimento sulla figura di Gesù, mettendone in luce numerose sfaccettature. La parola, infatti, fornisce il contenuto per la riflessione, mentre l’assenza di azione induce a riflettere sulla parola. Ne esce, come abbiamo visto sopra, una ricca cristologia, che definisce l’identità di Gesù, attorno alla quale si addensano avversità, dubbi-incertezze e sequele. Tre, infatti, sono le categorie di persone che si raggruppano attorno a Gesù: a) gli increduli, di cui Gesù si lamenta (11,20-24; 12,34.39) e che arrivano a congiurare contro di lui (12,14); b) i piccoli, ai quali è destinata la comprensione del mistero di Gesù (11,25-30) e ai quali Gesù si sente profondamente legato, considerandoli la sua nuova famiglia (12,46-50); c) gli incerti e i dubbiosi, che, chiusi nell’anonimato delle folle, ascoltano e seguono Gesù (11,7; 12,15), ma sono pieni di contraddizioni (11,16-19). Tra questi Matteo colloca anche il titubante Battista (11,3).
Da un punto di vista strutturale questo secondo intermezzo si suddivide in due grandi sezioni:
a) il cap.11 è costituito da un grande discorso di Gesù, formato da un assemblaggio di quattro discorsi (11,7-15.16-19.20-24.25-30). Esso è introdotto dal breve episodio dell’interpellanza dei discepoli di Giovanni (11,2-5), che serve a dare, da un lato, l’intonazione all’intero intermezzo (capp. 11-12), ponendo in rilievo, fin da subito, la questione sulla figura di Gesù, che percorrerà i due capitoli; dall’altro, come escamotage narrativo, che consente poi il panegirico di Gesù sulla figura di Giovanni. Il cap.11 è inteso a mettere in rilevo sia la centralità della persona di Gesù; sia il lamento per l’incredulità della gente, che si manifesta nei dubbi (11,3), nelle contraddizioni (11,16-19) e nell’avversione alla sua persona, nonostante i segni che egli ha compiuto in mezzo a loro (11,20-24);
b) Il cap.12, dall’impronta squisitamente narrativa, si struttura su quattro racconti, che costituiscono di fatto lo sviluppo narrativo del cap.11, al quale sono agganciati perché drammatizzano il tema dell’incredulità e dell’avversione lamentate nel cap.11 (11,16-24). I primi due racconti si incentrano sulla questione del sabato (12,1-14); il terzo dibatte sul potere esorcistico di Gesù (12,22-37); e il quarto verte sul segno, una prova che Gesù dovrebbe dare per rendere attendibile la sua persona e la sua predicazione (12,38-45). Tutti quattro racconti ruotano attorno alla citazione di Is 42,1-4, che Matteo applica alla persona di Gesù e costituisce, di fatto, la risposta all’enigma della sua identità: Gesù è il Servo di Jhwh.
Le pericopi 11,2-6 e 12,38-45 formano tra loro inclusione per identità di tema: la richiesta di un segno che chiarisca la figura di Gesù. Là, infatti, in 11,2-6, abbiamo i discepoli di Giovanni, i quali chiedono una prova su chi è lui e Gesù la fornisce loro, rimandandoli a Isaia, che dà loro la chiave di lettura del suo operare (11,5-6); qui, in 12,38-45, abbiamo gli Scribi e i Farisei, che, parimenti a Giovanni, chiedono un segno da Gesù. La questione che questi due capitoli pongono, quindi, è la ricerca di una risposta sull’enigmatica identità di Gesù e le divisioni che essa crea in seno alla comunità giudaica.
Ciò premesso, vediamo ora come si snoda la struttura narrativa di questo secondo intermezzo (capp.11-12):
1) vv. 11,2-6: l’interpellanza dei discepoli di Giovanni sull’identità di Gesù. Giovanni esprime le sue titubanze nei confronti di Gesù: “Sei tu colui che viene o ne aspettiamo un altro?”. Gesù risponde rimandando i discepoli del Battista ad una citazione di Isaia, che Gesù applica a se stesso. Viene definita l’identità di Gesù: lui è il Cristo, il messia atteso, che nell’economia della narrazione è la prima definizione su Gesù. Il vero senso di questa identità, però, troverà il suo completamento in 12,18-19.
2) vv.11,7-15: Gesù fa il panegirico di Giovanni, che trova il suo culmine nella citazione di Ml 3,1; essa indica la vera natura del Battista e il senso della sua missione, che lo ha reso più grande di un profeta e di ogni altro figlio di donna: “Ecco io mando il mio messaggero davanti alla tua presenza, il quale preparerà la tua strada davanti a te”. Tuttavia, la figura di Giovanni converge verso Cristo, del quale egli è soltanto il precursore, mentre la sua importanza è strettamente dipendente da Gesù.
3) vv.11,16-24: Gesù stigmatizza le contraddizioni (vv.16-19) e la pervicace incredulità dei Giudei (vv.20-24). La pericope mette in luce due aspetti dell’incredulità: a) il contradditorio atteggiamento tenuto dalla gente nei confronti di Giovanni e di Gesù; b) la sua perversa resistenza anche di fronte ai miracoli.
4) vv.11,25-30: Gesù conoscitore e rivelatore del Padre, dal quale ha ricevuto tutte le cose. In mezzo alle forti tensioni generate dall’incredulità, questa inaspettata preghiera di Gesù costituisce un’oasi di ristoro e di serenità, ma rivela anche nel contempo, da un lato, la vera natura di Gesù e i suoi rapporti con il Padre; dall’altro, vengono presentati i criteri che regolano il dono della rivelazione.
5) vv. 12,1-14.22-45: l’incredulità lamentata nel cap.11 trova ora corpo nel racconto di quattro diatribe: due sul sabato (vv.1-14); la terza sulla questione degli esorcismi (vv.22-37); la quarta sulla pretesa di un segno (vv.38-45).
6) vv.12,15-21: La vera identità di Gesù: egli è il Servo di Jhwh. Questo sesto punto dovrebbe essere inserito nel punto 5), costituendo il perno centrale attorno al quale ruotano le quattro diatribe, che vengono illuminate da questa pericope, dando loro la risposta sulla vera natura dell’operare di Gesù e sulla sua persona.
7) vv.12,46-50: la vera parentela di Gesù. Questi versetti definiscono la vera parentela di Gesù, fondata non più sulla carne, ma sul fare la volontà del Padre. I vv.12,46-50 riprendono in qualche modo 11,25-30 e li portano a compimento. Viene in tal modo completata l’identità di coloro ai quali è riservata la rivelazione: i piccoli, a cui è riservata la comprensione della vera identità di Gesù. Essi sono i suoi veri familiari.
COMMENTO AL CAP. 11
I dubbi, le incertezze, le contraddizioni e l’incredulità
nei confronti della persona di Gesù
vv. 2-6: Contrariamente alla nostra consuetudine, che apre le analisi dei testi partendo dal rilevamento della loro struttura narrativa, posticiperemo tale analisi alla fine del commento di questa pericope, poiché è necessario prima comprendere il senso del messaggio, che l’evangelista vuole trasmettere al suo lettore attraverso questo racconto, che fornisce il tema generale, sviluppato nei capp.11-12.
Nel v.4,12 avevamo lasciato Giovanni rinchiuso nel carcere di Erode. Ora esso ricompare nuovamente, ma in una veste completamente nuova e inaspettata: quella del precursore incredulo e scandalizzato dall’operare di colui che aveva indicato a tutti, con fermezza, come il messia atteso (4,11-12.14).
Per comprendere meglio la posizione del Battista dobbiamo rifarci alla sua figura. Giovanni era un uomo duro, tutto d’un pezzo, che non si piegava a compromessi di sorta (Mt 11,7-8), per questo venne incarcerato (Lc 3,19-20). Egli è un predicatore escatologico (Mt 4,2), probabilmente membro della stessa setta di Qumran (Mt 4,4; Lc 1,80b), una comunità dai forti toni escatologici e tutta protesa verso la venuta del messia. Egli, quindi, attendeva il messia, che concepiva come una sorta di giustiziere, il quale doveva fare piazza pulita di tutti gli increduli e gli infedeli (4,10-12) e ne stava preparando la venuta. Annunciava, quindi, l’imminenza di un giudizio divino, che si stava rovesciando sugli uomini. Una sorta di un nuovo diluvio universale. Ed ecco che sulla scena compare Gesù, che egli riconosce come “più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali” (Mt 4,11b) e a lui si rivolge dichiarando tutta la sua indegnità: “Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?” (Mt 4,14). Ora egli dal carcere segue, per mezzo dei suoi discepoli (Mt 11,2b), l’operare di colui che sa essere il messia atteso, ma le sue opere e la sua predicazione non corrispondono all’idea che egli aveva del messia. Gesù, infatti, si mette a tavola con i peccatori e mangia con loro (Mt 9,10); li chiama alla sua sequela (Mt 9,9); elargisce gratuitamente il perdono a tutti indipendentemente dal loro pentimento[8]; si fa vicino ai miseri, li sostiene e li apre alla speranza (Mt 5,3-11). Non è questo il messia che Giovanni si attendeva e che aveva predicato con un’irruenza devastante. Nascono, quindi, in lui incertezze, dubbi, titubanze; probabilmente elabora anche un atteggiamento critico verso questo tipo di messianismo. Insomma, ne rimane totalmente scandalizzato e la sua fede diventa incredulità, così che Gesù proclama beato chi non si scandalizza di lui (Mt 11,6). Questo è il dramma di Giovanni, chiuso nel carcere. I vv. 2-6 vanno compresi in tale contesto e vedremo come tutto diventa metafora di questo dramma, che Matteo prende a modello di una incredulità, che nasce dallo scandalo provocato dalla figura di Gesù; uno scandalo che scaturisce dallo scontro tra le attese degli uomini e il disegno di Dio e dall’incapacità dei primi di sapersi superare e rinnovarsi.
Il v.2 si apre con la scena di un Giovanni in carcere, metafora di un altro carcere di cui Giovanni è vittima: quello del dubbio, che lo attanaglia e non gli consente di aprirsi a colui che aveva indicato a tutti come il vero messia, l’atteso dalle genti, l’inviato speciale di Jhwh. Egli sente (¢koÚsaj, akùsas), ma non vede. Qui, infatti, non c’è il verbo vedere, che nei racconti evangelici è metafora della fede e dice la capacità superiore di cogliere il divino nel suo manifestarsi nell’umano; per questo egli non riesce a cogliere la verità vera delle “opere del Cristo”. Egli le segue nella sua incredulità, ma non le capisce. Si crea in tal modo uno scollamento e una incomunicabilità tra lui e Gesù, per questo tra i due si inseriscono le figure dei discepoli di Giovanni, che fanno da trait-d’union, poiché Giovanni nella sua incredulità non riesce a raggiungere Gesù. Ed essi esprimono il dubbio del loro maestro: “Sei tu colui che viene o aspettiamo un altro?”. Con l’espressione “Sei ti colui che viene” (Ð ™rcÒmenoj, ‘o ercómenos) si indicava la figura del messia[9]. In altri termini, il Battista chiede a Gesù la sua vera identità, sulla quale egli ha molti dubbi e che non riesce più a decifrare. Il dilemma “sei tu l’ercómenos o aspettiamo un altro?” dice tutto il buio che c’è in Giovanni, scandalizzato dall’operare di Gesù, un operare che non rientrava nelle sue logiche, fuori dai suoi schemi. Il Battista diventa la metafora dell’uomo prigioniero di se stesso e delle sue logiche umane, incapace, proprio per questo, di aprirsi alla novità sconvolgente del Cristo. Proprio per questo egli è presentato da Matteo rinchiuso nel carcere, dove sente, ma non vede.
Compaiono ora le figure dei discepoli di Giovanni. Essi sono una sorta di emanazione del loro maestro, poiché provengono da lui e sono con lui portatori del suo dubbio: “Sei tu l’ercómenos, il messia?”. Ma l’incontro diretto con Gesù, il parlare con lui, l’esperienza di lui, li trasforma. Lo si percepisce dalla risposta che Gesù dà a loro: “Voi che siete inviati, annunciate a Giovanni ciò che udite e vedete”. Tutto parla di un profondo cambiamento nei discepoli di Giovanni, che sono trasformati da portatori di un dubbio in apostoli annunciatori delle opere dell’ercómenos: a) il verbo “Poreuqšntej” (poreutzéntes, inviati), che qualifica quei discepoli come apostoli, cioè inviati. Il verbo è posto all’aoristo passivo di tipo ingressivo, che nel linguaggio biblico indica l’intervento operante e trasformante da parte di Dio; un invio che ha il suo inizio nell’incontro con Gesù: loro, gli inviati di Giovanni sono ora trasformati in inviati di Gesù a Giovanni: Poreuqšntej; b) il verbo “¢pagge…late” (apangheílate, annunciate, portate la notizia). Il verbo è lo stesso che compone la parola vangelo (eÙaggšlion, euanhghélion), il lieto annuncio. I discepoli del Battista e apostoli, ora, di Gesù sono caricati di un annuncio da portare al loro maestro; c) i verbi “¢koÚete kaˆ blšpete” (akúete kai blépete, udite e vedete). Sono i verbi propri della testimonianza e della fede. Numerosi, infatti, sono i miracoli di guarigione operati da Gesù su sordi e ciechi, categoria di ammalati che sono metafora dell’incredulità, dell’incapacità di aprirsi al messaggio di salvezza. I discepoli, divenuti apostoli, sono costituiti pertanto testimoni delle “opere del Cristo”. Certo, il verbo greco usato per indicare il vedere è “blšpete”, un verbo che indica ancora un vedere acerbo, un semplice vedere fisico, ma che aggancia la fede incipiente all’evento storico Gesù: “ciò che udite e vedete”.
Ecco, dunque, che le “opere del Cristo” cominciano a prendere corpo: “i ciechi riacquistano la vista e gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi sentono, i morti si rialzano e ai poveri è annunciata una lieta notizia”. Sono parole variamente tratte dal profeta Isaia, a cui Gesù rimanda i discepoli del Battista, perché in esse c’è la chiave di lettura e di comprensione dell’operare del Cristo. Solo la Parola, quindi, è in grado di far vedere e comprendere, di disvelare il mistero di Gesù.
La guarigione di ciechi e sordi dice l’apertura dell’uomo alla luce della fede e alla capacità di accogliere la Parola; i lebbrosi, metafora di un’umanità degradata dal peccato, sono risanati dall’annuncio accolto; gli zoppi, con il loro camminare claudicante e incerto sono la metafora dei dubbiosi, degli incerti, dei deboli nella fede, che vengono ricostituiti nella saldezza del loro credere; così come i morti, simbolo del mondo pagano e dei peccatori, lontani da Dio, sono chiamati anch’essi alla sequela, ricongiunti a Dio e resi anch’essi partecipi della vita divina. A tutti i poveri, infine, è elargito il dono del lieto annuncio: Dio è tornato in mezzo agli uomini e tende loro amichevolmente la mano, attraendoli a Sé. Una nuova creazione si sta compiendo, cieli nuovi e terra nuova: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose">>” (Ap 21,3-5a) …
“Ed è beato chi non si scandalizza di me” (Mt 11,6). Con questa sentenza si chiude l’episodio dei discepoli di Giovanni. Essa costituisce una sorta di giudizio in positivo posto sull’atteggiamento di fede, di chi crede al di là di ogni difficoltà e riesce a superare i limiti umani della propria sensibilità e della propria ragione. Ma nel contempo è implicitamente una sentenza di condanna per chi si è lasciato vincere dai propri dubbi e dalle proprie titubanze, rimanendo chiuso nel carcere della sua incredulità.
Giunti al termine dell’analisi e del commento di questa pericope (vv.11,2-6), passiamo, ora, come sopra promesso, a rilevarne la struttura. Essa si sviluppa su di un triplice parallelismo a cerchi concentrici, al cui centro si collocano i vv. 3.4:
A) Nel primo cerchio troviamo il termine “carcere” (v.2a), metafora del dubbio e dell’incredulità in cui è rinchiuso Giovanni. Esso (carcere) trova il suo corrispettivo contrario nella sentenza finale, che dichiara beato chi non si scandalizza di Gesù (v.6);
B) Nel secondo cerchio vi è l’espressione “opere di Cristo” (v.2a); questa ha il suo dispiegamento nel v.5, che riconduce l’incredulo alle Scritture, quale chiave di lettura e di comprensione dell’operare di Gesù[10];
C) Nel terzo cerchio, quello più interno di tutti e quindi al centro di tutto, si colloca l’interrogativo e, quindi, il dubbio su Gesù (v.3). Esso trova il suo scioglimento nel v.4, dove, attraverso la constatazione di ciò che si ode e si vede, si arriva ad una elaborazione del dato di fede, che trasforma il discepolo dubbioso in un testimone ed infine in apostolo.
vv.7-15: da un’analisi superficiale la pericope sembra mettere in rilievo la figura di Giovanni, di cui Gesù tesse gli elogi. In realtà essa punta su tre aspetti, che ruotano attorno alla figura del Battista. Da un lato (vv.7-9), essa costituisce un atto di accusa contro i giudei per la loro inintelligenza dei tempi messianici, che già incominciavano a dispiegarsi con Giovanni; dall’altro (v.10), la figura di Giovanni viene letta in funzione di Gesù, del quale viene messa in rilievo la sua messianicità; infine, il Battezzatore costituisce lo spartiacque tra l’A.T. e il N.T.; infatti, da un lato (v.11), come appartenente ancora all’A.T., Giovanni è posto in una posizione perdente nei confronti del N.T.; dall’altro, viene letto da Matteo come colui che segna l’alba del N.T., del quale egli, per il suo annuncio e per la sua missione (v.14), già fa parte in qualche modo (v.13).
Il v.7, con riferimento ai discepoli di Giovanni, si apre con l’espressione “Mentre questi se ne andavano”, che narrativamente crea una continuità logica e temporale con l’episodio precedente, dando compattezza all’intera pericope 11,2-15.
Il precedente interrogativo, posto sulla figura di Gesù da parte dei discepoli del Battista e finalizzato a sondarne il mistero (v.3), trova ora una sua eco nei vv.7-9, che se da un lato fanno emergere nella sua interezza la figura del Battista, dall’altra costituiscono un atto di accusa per l’incapacità da parte dei Giudei di coglierne la reale portata[11]. In tal modo vengono a delinearsi due atteggiamenti di fondo nei confronti del Battista, che ricalcano sostanzialmente quelli posti in essere nei confronti di Gesù; in tal modo Giovanni non è solo il precursore di Gesù in quanto lo annuncia, ma lo è anche in quanto lo anticipa, divenendone una sorta di sua prefigurazione: a) vi è, dunque, chi accorre a vedere e ad ascoltare Giovanni, spinto prevalentemente dalla curiosità, ma senza coglierne la grandezza e il senso della sua predicazione e della sua missione (vv.7-8); b) c’è chi, ancora, ha avuto di lui una comprensione vera (profeta), ma limitata e incompleta (v.9). Nessuno, comunque, è riuscito a coglierla nella sua pienezza.
Le prime due domande che vengono poste sul Battista (vv.7-8) non sono, a nostro avviso, di tipo retorico, non in modo prevalente almeno, ma ironiche e finalizzate a stigmatizzare un comportamento superficiale e, proprio per questo, incapace di cogliere il mistero che si celava in quell’uomo, che appare tutto d’un pezzo e ben lontano da compromessi e intrallazzi di palazzo, schivo delle comodità e tutto incentrato sull’ercómenos[12]. Il terzo interrogativo (v.9a), posto sulla natura di profeta di Giovanni, va a stigmatizzare la diffusa, ma ancor superficiale comprensione della gente[13], che riteneva il Battista un profeta (Mt 14,5; 21,26.45), in tal modo banalizzandola. Gesù non nega che il Battezzatore fosse un profeta, ma indica in lui il superamento dell’antico profetismo: “Si, vi dico, anche molto di più di un profeta”, disvelandone la vera natura, strettamente legata alla venuta del messia e, quindi, al compimento dei tempi attesi e delle promesse. Il v.10, pertanto, rimanda ancora una volta alle Scritture, le uniche in grado di dare la vera comprensione sia della figura di Gesù (v.5) che quella di Giovanni (v.10): “Ecco io mando il mio messaggero davanti alla tua presenza, il quale preparerà la tua strada davanti a te”. Una citazione questa tratta dal profeta Malachia (Ml 3,1), in cui risuona Es 23,20.
È interessante osservare, a questo punto, come il cap.3 di Malachia si apra con la citazione soprastante e si chiuda con quest’altra: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23). Le due citazioni formano tra loro un’inclusione, collocando l’intero cap.3 sotto il segno dell’escatologia, in cui spicca la venuta del Signore, finalizzata a purificare il culto a Jhwh, invitando il popolo a conformare la propria vita alla celebrazione del culto stesso. Un culto che doveva partire dal cuore e radicarsi nella vita. Solo così esso poteva essere accetto a Dio. Similmente, anche qui, nel suo cap.11, Matteo definisce la vera natura di Giovanni riprendendo queste due espressione di Malachia: la prima, riportata in 11,10, ha il suo corrispondente in Ml 3,1; la seconda, riportata in 11,14, si richiama a Ml 3,23 e con il quale l’evangelista chiude il capitolo sul Battista, definendolo come l’Elia che deve venire (v.14). Si viene in tal modo a creare una sorta di parallelismo tra il cap.3 di Malachia e la pericope matteana 11,10-14, non tanto per il contenuto, quanto per il contesto escatologico in cui è posto il Battista. Giovanni, pertanto, è da un lato l’immediato precursore della venuta di Jhwh in mezzo al suo popolo, che Matteo vede realizzata in Gesù; dall’altro egli è l’Elia escatologico[14] (11,14), che secondo la tradizione giudaica, maturata proprio da Ml 3,23, sarebbe tornato per preannunciare l’imminente venuta del Messia negli ultimi tempi[15]. Con questa doppia definizione di Giovanni, così strettamente legato a Ml 3,1.23, viene posta in rilievo e rivelata sia la grandezza di quest’uomo di Dio, preannunciato nelle Scritture, sia la sua figura e la sua missione, finalizzate esclusivamente a preparare il popolo ad accogliere il Messia, l’ercómenos, indicando, quindi, in Gesù il vertice di tutte le attese veterotestamentarie e il compimento di ogni promessa. Il Battista, pertanto, è grande non in se stesso e per se stesso, ma in quanto egli è posto in funzione e in stretta relazione a Gesù. La sua grandezza, pertanto, è relativa e posta in subordine a quella dell’ercómenos (Mt 3,11). Ed è proprio il v.11 a precisare il senso della grandezza di Giovanni: “In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Un versetto, questo che crea una forte tensione e una sorta di contrapposizione[16] tra l’A.T. e il N.T., così che se Giovanni non ha uguali tra gli uomini, per la missione che gli è stata affidata e preannunciata scritturisticamente (Ml 3.1.23), il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui. Con il termine “piccolo”, espressione che ricorre 12 volte nel vangelo matteano, l’evangelista indica i nuovi credenti, che si sono aperti e hanno accolto nella propria vita l’annuncio del Regno. Vi è, quindi, una relativizzazione della figura del Battista, che, pur posto al vertice dei tempi veterotestamentarii, viene indicato come perdente nei confronti del nuovo credente. Infatti, se Giovanni ha preannunciato l’avvento del Regno, ma rimanendone di fatto fuori[17], il nuovo credente ne fa parte a pieno titolo, in quanto incorporato a Cristo in virtù della sua fede. Egli fa parte, quindi, di quelle nuove realtà, delle quali, quelle passate erano soltanto un’ombra[18], così che egli può chiamarsi a pieno titolo “concittadino dei santi e familiare di Dio” (Ef 2,19). In ultima analisi, Matteo, pur riconoscendo la grandezza del Primo Testamento, vede soltanto nel Secondo Testamento la pienezza e il compimento del Primo (Mt 5,17).
Nel contesto della pericope 11,7-15, incentrata sulla figura del Battista, presentato quale precursore del Regno (v.10), i vv.12-13 lasciano perplessi. Che cosa voleva dire Matteo con l’espressione “Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il regno dei cieli produce violenza e i violenti se ne impadroniscono”? Quale era il contesto storico in cui è sorto questo versetto o, comunque, a quale contesto storico allude? Quale senso ha, poi, il v.13: “Infatti, tutti i profeti e la Legge fino a Giovanni profetarono” e come si mette in rapporto con i versetti precedenti? E perché Matteo inverte l’ordine dell’ormai consolidata e tradizionale espressione “La Legge e i Profeti” e parla, invece, di Profeti e di Legge? Una semplice svista o è un fatto intenzionale?
Di seguito riportiamo l’attenta analisi del Rossé, che sintetizza nella sua opera, le diverse posizioni esegetiche.
Per quanto ci riguarda, riteniamo, per poter comprendere il senso del v.12, di dover partire da un’analisi interna al versetto stesso. Innanzitutto esso stabilisce un tempo: “Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora”; l’epoca di riferimento, quindi, è il tratto di tempo che intercorre dalla comparsa del Regno con l’annuncio di Giovanni fino ad “ora” (›wj ¥rti, éos árti). L’espressione “ora” non è limitativa, ma estensiva proprio per la sua indeterminatezza. Infatti, se da un lato essa indica l’oggi della comunità matteana, inserita in un contesto di dura persecuzione e di isolamento sociale e religioso, dall’altro l’›wj ¥rti (fino ad ora) indica un tempo presente, ma indeterminato, in cui è racchiuso il presente di ogni tempo e di quello di ogni comunità credente. Questo tratto di tempo è segnato dalla violenza. Tre sono, infatti, i termini che caratterizzano il v.12: “bi£zetai” (biázetai, irrompe, produce violenza), “biastaˆ” (Biastaì, i violenti) e “¡rp£zousin” (arpázusin, si impossessano); tutti e tre parlano di violenza e di azioni di forza.
Il Regno dei cieli è, dunque, una realtà che irrompe, producendo violenza. L’espressione “¹ basile…a tîn oÙranîn bi£zetai” (e basileía tôv uranôn biázetai) viene tradotta in genere con “Il Regno dei cieli subisce violenza”. In realtà il verbo “bi£zw” (Biázo) nella sua forma Media, Bi£zwmai (Biázomai) significa “violentare, fare violenza, irrompere” e non “subire violenza”[19]. Già questa precisazione indica come l’avvento del Regno, il suo incunearsi nella storia provoca un’azione travolgente, che produce scontri e divisioni all’interno della comunità umana. Insomma, il Regno dei cieli non è un idealistico Regno di pace, di amore e di giustizia, ma una forza irruente, che irrompe nella storia dell’uomo, si scontra con le sue logiche e provoca violenza. Non è una novità questa, né tanto meno deve scandalizzare se pensiamo al precedente cap.10 dove, proprio a causa del Regno (10,7), si parla di discepoli trascinati davanti ai tribunali e incarcerati (10,17-18); dove l’intimità delle stesse famiglie è violentata e distrutta dall’insinuarsi al loro interno di familiari che hanno aderito alla nuova fede (10,21.35); la stessa realtà sociale è vissuta in termini conflittuali di pecore-lupi (10,16) e di odio (10,22.36). Gesù stesso, del resto, avverte che non è venuto a portare la pace, ma la spada e a creare divisioni all’interno delle famiglie (10,34-35). Tutta questa violenza nasce dall’imporsi della presenza del Regno dei cieli in mezzo agli uomini con le sue pretese, con le sue esigenze e le sue intransigenze. Un Regno a cui non si accede se non attraverso un’azione di forza (¡rp£zousin, arpázusin) e, pertanto, i suoi abitanti sono posti sotto il segno della violenza: “kaˆ biastaˆ ¡rp£zousin aÙt»n” (kaì biastaì arpázusin autén, e i violenti se ne impadroniscono); essi sono definiti “violenti” (biastaˆ) e come tali si comportano nei confronti del Regno, che è caratterizzato da tratti tutt’altro che accomodanti. Che cosa significa essere violenti? Non è certo la violenza armata quella che suggerisce Gesù (Mt 5,3-11; 26,52), bensì una violenza che si basa sulla determinazione degli abitanti di questo strano Regno e si esprime nella loro fedeltà ad ogni costo nei confronti di tale Regno. Il senso di tale violenza, che definisce e qualifica l’atteggiamento del discepolo nei confronti dell’offerta di salvezza proveniente dal Padre per mezzo del suo Figlio, viene definito da Gesù stesso: “E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (Mt 10,22; 24,13). All’odio del mondo, provocato dalla presenza del Regno, il discepolo deve opporsi con la sua perseveranza, che in ultima analisi altro non è che una forma di violenza passiva, un’opposizione che si fa resistenza fino all’ultimo sangue (“sino alla fine”). Una perseveranza che è sostenuta da una determinazione che non conosce compromessi o debolezze di sorta (Mt 12,30; Lc 9,59-62; 11,23).
Il contesto, quindi, in cui si colloca questo versetto o a cui fa riferimento, è chiaramente caratterizzato dalle persecuzioni e dai dissidi sociali e familiari per la presenza di una nuova realtà che si sta imponendo in modo inconciliabile e irriducibile, per questo è conflittuale. Matteo, pertanto, prendendo lo spunto dalla indomabile e dilagante figura del Battista, colto nel suo rapporto con il Regno (vv.10-14), sollecita la sua comunità, forse titubante e pronta al compromesso[20], ad avere uno spirito guerriero, pronto alla lotta e al confronto, poiché l’essere seguaci del Regno comporta avere una mentalità combattente, pronta allo scontro, irriducibile ad ogni compromesso. Solo con questa mentalità aggressiva e violenta si può continuare a tenere salda la posizione conquistata[21].
Il v.13 conclude il tema del Battista colto nel suo rapporto con il Regno: “Infatti, tutti i profeti e la Legge fino a Giovanni profetarono”. L’avverbio “infatti” (g¦r, gàr) si aggancia ai precedenti vv. 12 e 10, contrapponendo tra loro i due Testamenti. I vv.12-13, per rispettare una certa logica, dovrebbero essere invertiti, così da avere: “Infatti, tutti i profeti e la Legge fino a Giovanni profetarono (v.13). Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il Regno dei cieli produce violenza e i violenti se ne impadroniscono (v.12)”. Sviluppato in questo modo risalta immediatamente il confronto tra i due Testamenti: nel Primo prevale il tempo verbale aoristo (“™prof»teusan”, eproféteusan, profetarono), che indica un tempo ormai passato; mentre nel Secondo i tempi verbali sono posti al presente indicativo, per indicare l’attualità di una presenza sognata e annunciata nel passato, ma solo ora, nell’oggi, essa trova la sua attualizzazione, mettendo in tal modo in rilievo la grandezza dei tempi che la comunità matteana, e con lei ogni credente, è chiamata a vivere. Il punto cruciale di divisione tra i due tempi della salvezza è dato dall’espressione “[…] fino a Giovanni profetarono. Dai giorni di Giovanni Battista […]” in cui si vede come Giovanni è il punto di convergenza dei due Testamenti: punto di arrivo del Primo Testamento e punto di partenza del Secondo Testamento, per questo tra i nati di donna non vi è uno più grande di lui (v.11a). I parametri qui posti sono tutti storici, nessuna teologia. La storia della salvezza, in quanto storia, ha qui il suo punto discriminante, che, tuttavia, più che dividere fa confluire e unisce, completandolo nella sua pienezza, il Primo nel Secondo, facendo della storia della salvezza un unico atto salvifico di Dio.
Un’ultima osservazione va posta sul v.13, già precedentemente accennata. In tutto il N.T l’espressione “La Legge e i Profeti”, con la quale si indicano le Scritture veterotestamentarie, ricorre undici volte, di cui quattro nel solo vangelo matteano. Di queste quattro soltanto qui, in Mt 11,13, le parole vengono invertite: “Profeti e Legge”. Personalmente ritengo che non si sia trattato di una svista da parte dell’autore, un ebreo, probabilmente scriba[22], bene addentro alle questioni scritturistiche. L’espressione in sé è uno standard ripetitivo, una sorta di ritornello che si è sedimentato nella tradizione e trasmesso nel tempo in questa forma, che possiede, peraltro, in se stessa una certa logica storica: dapprima vi è la Legge, frutto dell’Alleanza, e solo successivamente compaiono i profeti, che alla Legge e all’Alleanza continuamente si rifanno e rimandano. Perché allora Matteo qui ha invertito i termini? Ritengo che il motivo sia sottilmente polemico. Il profetismo, al tempo in cui Matteo scriveva la sua opera, era ormai storicamente finito da secoli; la Legge, invece, era ancora presente con tutto il suo peso e la sua influenza. Essa era ancora incidente nella vita di ogni pio ebreo, una realtà con cui lo stesso Gesù ebbe modo di incontrarsi e di scontrarsi ripetutamente, in particolar modo sulle questioni della purità, del digiuno e del sabato. Ebbene, invertendo le parole, Matteo afferma che i profeti, figure del passato, profetarono; ma anche la Legge, ancora oggi presente, profetò. Il verbo posto all’aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, colloca la Legge sullo stesso piano temporale dei profeti e ad essi viene legata e relegata proprio attraverso il verbo aoristo. In altri termini, essa, la Legge, benché ancora vigente (questo dice la collocazione del termine dopo quello di Profeti), è di fatto una realtà già superata con l’avvento di Giovanni (questo dice il verbo profetarono, posto all’aoristo). Infatti, Matteo sottolinea come Profeti e Legge profetarono fino a Giovanni, trovando in lui un limite invalicabile e perdendo, quindi, ogni loro validità con il suo avvento. Similmente l’autore della Lettera ai Colossesi, richiamando i suoi al superamento degli obblighi imposti dalla Torah, sottolinea: “Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo!” (Col 2,16-17). Cristo, dunque, è la nuova realtà che si impone sui Profeti e sulla Legge, una nuova realtà che, secondo Matteo, ha avuto inizio con la comparsa di Giovanni.
Il v.15 chiude l’intera pericope con un detto proverbiale, che si ripete 14 volte in tutto il N.T., sia pur con qualche variante: “Chi ha orecchi ascolti”. Spesso nell’A.T. gli organi di senso, in particolare gli occhi e gli orecchi, sono metafora di facoltà superiori, come quelle dell’intelletto o della capacità di comprendere, e delineano atteggiamenti spirituali di disponibilità o di chiusura a Dio[23]. Con questa espressione, pertanto, Gesù si rivolge a coloro che hanno capacità di ascolto, cioè di apertura a Dio, ma soprattutto di comprensione, poiché l’ascoltare e il comprendere il senso della sua Parola e del suo mistero non dipende dall’uomo, ma è un dono del Padre, che Gesù ringrazierà per aver nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e averle rivelate ai piccoli (Mt 11,25). E similmente Gesù ricorderà a Pietro come la comprensione, che egli ha avuto del mistero della sua persona, non proveniva dalle sue naturali capacità intellettive (“carne e sangue”), ma dallo stesso Padre (Mt 16,17). Del resto, già Dt 29,3 evidenziava come la comprensione delle cose di Dio non andava ascritta alla bravura e all’intelligenza dell’uomo, ma era dono divino: “Ma fino ad oggi il Signore non vi ha dato una mente per comprendere, né occhi per vedere, né orecchi per udire”. Un dono che spesso il popolo vanificava per la durezza del suo cuore, che lo rendeva incapace di comprendere ed accogliere la Parola del Signore: “Questo dunque ascoltate, o popolo stolto e privo di senno, che ha occhi ma non vede, che ha orecchi ma non ode.” (Ger 5,21). Per questo Gesù rivolto alle folle, a chiusura del suo discorso, pone su di esso il sigillo del dono del Padre: “Chi ha orecchi ascolti”, poiché non a tutti è dato di conoscere il Mistero: “<< Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato>>” (Mt 13,11).
vv. 16-19: questa pericope è stata preceduta da altre due, che formano la prima parte di questo cap.11. La prima (vv.2-6) riguardava l’interrogativo posto sulla natura di Gesù e sul senso della sua missione; la seconda (vv. 7-15) si riferiva alla figura di Giovanni e alla centralità della sua missione, colta come l’alba dei tempi nuovi, dei quali il Battista, secondo la prospettiva matteana, già faceva parte. Ora, questa terza pericope in esame (vv.16-19) si richiama in qualche modo alle due precedenti e si trasforma in un atto di accusa nei confronti di quei giudei che, chiusi nella loro incredulità, si sono rifiutati, per motivi opposti (vv.18-19), di aprirsi e di accogliere sia Giovanni che Gesù, denunciando in tal modo tutta la loro contraddittorietà.
La pericope, che si ritrova sostanzialmente identica in Lc 7,31-35, probabilmente fa parte della fonte Q[24], a cui i due sinottici hanno attinto. Lo schema si svolge in forma parallela: da un lato abbiamo l’allegoria dei bambini (vv.16-17), dall’altro la sua applicazione sul comportamento contradditorio di “questa generazione” (vv.18-19a) e si conclude con una sentenza (v.19b), la quale contrappone all’incredulità del popolo la sapienza di Dio, che si manifesta nelle opere stesse di Gesù, colto qui come la sapienza del Padre.
Il v.16 si apre con un’esclamazione rivolta alle folle, alle quali Gesù sta parlando (v.7): “Ma a chi paragonerò questa generazione?”. L’espressione “questa generazione” o “quella generazione” o semplicemente “generazione” si trova negli scritti neotestamentari 27 volte e assume sempre connotati decisamente negativi per l’incredulità che la contraddistingueva. Essa viene ripresa, a sua volta, dall’A.T., in cui compare 11 volte sempre con un senso negativo e sempre in riferimento all’incredulità e all’infedeltà dell’Alleanza tradita. Tale espressione, quindi, ha, dunque, una sua continuità tra i due Testamenti ed esprime un giudizio negativo che, prima Jhwh, e ora Gesù pone sul popolo.
Preceduto da questa espressione, che contiene già in se stessa un’implicita condanna, formando in tal modo una sorta di cornice negativa, viene ora denunciato il comportamento equivoco e contradditorio dei giudei: “è simile ai fanciulli seduti nelle piazze, dicono cose che sono rivolte agli altri: <<Vi abbiamo suonato il flauto e non avete danzato; abbiamo elevato un canto di dolore e non avete pianto>>”. L’allegoria è presa da un gioco di bambini, probabilmente molto diffuso all’epoca, considerato che qui viene riportato senza alcuna spiegazione. Si trattava, probabilmente, di una sorta di mimo, mutuato dalla realtà e riguardante, da un lato, i matrimoni o le feste, in cui al suono del flauto si danzava; dall’altro, i funerali in cui si elevavano pianti e grida di dolore. Pertanto, un gruppo di bambini si divideva in due parti[25], la prima mimava il suono dei flauti o il canto funebre; la seconda parte doveva indovinare che cosa stessero interpretando i primi e, quindi, a loro volta, dovevano rispondere mimando le danze o il pianto funebre. Non sempre veniva indovinata la recita mimata dai primi, per cui questi si prendevano gioco dei secondi dicendo loro che avevano suonato il flauto, ma loro non avevano danzato; oppure, avevano cantato un canto funebre, ma loro non avevano risposto piangendo. Ed ecco ora il riferimento alla realtà: Giovanni e Gesù fanno parte del primo gruppo dei bambini che cantano, ora, il canto funebre, in cui si ravvisa il comportamento ascetico del Battista, ma i giudei, facenti parte del secondo gruppo di bambini, anziché conformarsi ad una vita di penitenza, hanno preferito definire Giovanni come uno fuori di testa[26] (“indemoniato”); ora, suonano il flauto, in cui viene raffigurato Gesù, che mangia e beve (Mt 9,9-11), espressioni queste che raffigurano la gioia messianica del banchetto, ma i giudei anziché associarsi a tale gioia, hanno preferito definire Gesù un crapulone, frequentatore di gente di bassa lega, quali erano i peccatori e i pubblicani. In entrambi i casi il secondo gruppo di bambini, i giudei, hanno sempre dato delle risposte sbagliate.
I vv.18 e 19 parlano l’uno della venuta di Giovanni, l’altro di quella del Figlio dell’uomo. Il verbo “venne” (Ãlqen, êltzen) seguito dalle rispettive figure di Giovanni e del Figlio dell’uomo, ci introducono in un contesto di giudizio escatologico, che viene posto sull’incredulità dei giudei. Giovanni, infatti, fa la sua prima entrata nel vangelo matteano al v.3,1 e la sua comparsa richiama da vicino l’irrompere nella storia di una forza divina, che nei versetti successivi si rivelerà come forza escatologica, che richiama, con fare sferzante, l’uomo alla conversione per l’imminente venuta di Dio. L’immagine di Giovanni, pertanto, è strettamente legata alla sua missione di precursore dell’imminente compiersi del tempo di Dio, colto come tempo del giudizio e del rendimento dei conti (vv.3,10-12). Similmente dicasi per la venuta del Figlio dell’uomo[27] (Ãlqen Ð uƒÕj toà ¢nqrèpou, êltzen o uiòs tu antzrópu). L’espressione, che trova la sua origine in Dn 7,13-14[28], presenta Gesù in veste di giudice escatologico. Pertanto se i vv. 18b e 19b presentano Giovanni e Gesù nella loro dimensione storica (non mangia e non beve; mangia e beve), i vv. 18a e 19a (venne Giovanni; venne il Figlio dell’uomo) li presentano nelle loro vesti di attori escatologici. Di conseguenza, anche il loro agire storico e il relazionarsi degli uomini con loro acquisiscono una netta coloratura di giudizio escatologico, tempo in cui Israele e gli uomini sono chiamati a prendere posizione, spaccandoli nettamente in due contrapposte fazioni: i credenti e i non credenti.
La contraddittorietà del comportamento dei giudei increduli, chiusi sia nei confronti di Giovanni che di Gesù per ragioni contrapposte (vv.18-19), trova la sua risposta definitiva, e nel contempo la sua condanna, nelle opere stesse di Gesù, definito da Matteo come sapienza di Dio: “E la sapienza fu giustificata dalle sue opere”. In altri termini, sono proprio le opere di Gesù, che rivelano il senso della sua missione e, ancor prima, il mistero della sua natura e del suo esserci. Proprio attraverso le opere del suo Cristo (Mt 11,2), alle quali Gesù rimanda i discepoli di Giovanni (vv.4-5), il Padre rivela e attua il suo progetto di salvezza: “Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato” (Gv 5,36)[29]. È quindi sull’operare di Gesù che deve incentrarsi l’attenzione del credente e da qui egli deve partire per poter comprenderne il mistero, poiché l’agire di Gesù è squisitamente rivelativo del Padre: “Gesù riprese a parlare e disse: "In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati” (Gv 5,19-20). Tutto l’operare di Gesù, quindi, è azione stessa del Padre, per questo è rivelativo; e tutto l’operare punta a smuovere la fede, colta come atto di apertura accogliente verso l’azione rivelatrice di Gesù stesso: “Gli dissero allora: <<Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?>>. Gesù rispose: <<Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato>> (Gv 6,28-29). Il credere è, pertanto, ciò che deve operare l’uomo nella propria vita; una fede intesa come adesione esistenziale al progetto salvifico del Padre, manifestatosi nell’operare di Gesù. Ma è proprio su questa identità di Gesù e sul mistero della sua persona, manifestatisi nel suo agire, che ancora una volta i Giudei rimangono prigionieri della loro invincibile cecità: “Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: <<Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente>>. Gesù rispose loro: <<Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza;>>” (Gv 10,24-25). A Filippo che gli chiedeva di mostrargli il Padre (Gv 14,8), Gesù risponde: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.” (Gv 14,10-11). Ma proprio questa sapienza divina, che si manifesta attraverso le opere, parlando con lo stesso linguaggio umano, diventa irraggiungibile per la mancanza di un’intelligenza superiore, vanificando la stessa opera salvifica del Padre. Giovanni, l’evangelista, chiuderà l’avventura terrena di Gesù con una triste e quasi rassegnata considerazione sulla sua fallimentare missione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui;” (Gv 12,37); mentre Matteo sottolinea come gli stessi discepoli, prostrati davanti al Risorto, ancora dubitavano di lui (Mt 28,17); e Giovanni di rincalzo ricorda l’abbandono di Gesù da parte di numerosi discepoli, per la difficoltà del credere (Gv 6,60.66).
Di fronte a tanta resistenza nei confronti dell’opera sapiente di Dio, manifestatasi in modo scandaloso, incomprensibile e inaccettabile nella fragile e insignificante umanità di Gesù, Paolo, rivolto alla comunità dei Corinti, evidenzia le due opposte e contrastanti sapienze, quella umana e quella divina: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25). In altri termini, soltanto la fede, cioè il porsi in modo incondizionato dalla parte di Dio, può leggere nella cocente sconfitta di un Cristo crocifisso la sfolgorante vittoria di Dio. Questo paradosso, tutto paolino, trova la sua giustificazione nelle stesse parole del deutero Isaia: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9).
E Paolo, proprio nel contemplare questa grandezza e questa profondità incoglibile e insondabile della sapienza divina, dedicherà alla Sapienza stessa di Dio uno stupendo inno dossologico: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen” (Rm 11,33-36).
vv.20-24: il rimprovero mosso ai Giudei per il loro contraddittorio comportamento nei confronti di Giovanni e di Gesù (vv.16-19), che di fatto denunciava la loro sostanziale chiusura a qualsiasi messaggio di salvezza, esplode ora, in questa pericope (vv.20-24), in una dura requisitoria giudiziaria, formulata secondo lo schema proprio di un processo: 1) capo d’accusa (v.20); 2) requisitoria in cui si formulano in modo specifico le accuse contro le città di Corazin, Betsàida (v.21) e Cafarnao (v.23); 3) l’implicita sentenza di condanna, che viene rinviata al giorno del giudizio finale, ma che ha già fin d’ora il suo parametro di raffronto, in termini peggiorativi, nelle città di Tiro, Sidone e Sodoma (vv.22.24). I toni di accusa e di condanna sono netti e molto duri e tolgono ogni possibilità di appello.
La struttura di questa pericope è molto accurata e, secondo la consuetudine di Matteo, si snoda su tre livelli tra loro paralleli:
a) Il primo livello (v.20) formula il capo di accusa generale, che viene poi riversato sulle tre città, ree di aver respinto il messaggio di salvezza, manifestatosi attraverso i miracoli;
b) Il secondo livello (vv.21-22) costituisce una sorta di requisitoria, in cui il capo di accusa generale (v.20) si traduce in uno specifico atto di accusa contro le città di Corazin e di Betsàida, parimenti colpevoli;
c) Il terzo livello (vv.23-24) riproduce in modo identico lo schema dei vv.21-22 e vede l’atto di accusa (v.20) rivolgersi contro la città di Cafarnao.
Il v.20 si apre con “Allora incominciò a rimproverare”. L’avverbio di tempo “TÒte” (tóte, allora) inserisce la presente pericope (vv.20-24) nel medesimo contesto accusatorio di quella precedente (vv.16-19) e di fatto ne costituisce un aggancio e una sua prosecuzione, una sorta di suo scioglimento specificativo, i cui termini di accusa appaiono molto più duri ed assumono risvolti di condanna, destinati a travolgere inesorabilmente i territori già evangelizzati da Gesù, al quale essi hanno opposto la durezza del loro cuore. L’irruenza e la durezza dell’intervento di Gesù sono date rispettivamente dai verbi ½rxato (érxato, incominciò) e Ñneid…zein (oneidízein, rimproverare). Il primo verbo si presenta come una molla caricata e pronta a scattare: incominciò, un inizio da cui si sprigionerà con veemenza la condanna. Il secondo verbo, che normalmente si traduce con “rimproverare”, in realtà non esprime in italiano tutta la carica violenta di accusa e di condanna, che invece possiede in greco. Il verbo Ñneid…zw (oneidizo) in greco assume una particolare veemenza, molto vicina alla violenza verbale, per cui oltre che a rimproverare, esso significa ingiuriare, oltraggiare, schernire, inveire, biasimare, rinfacciare, accusare. È questo il contesto in cui i vv.20b-24 vanno inseriti. Non si tratta, dunque, di un rimprovero paterno o di un benevolo richiamo alla conversione; ma quel “Allora incominciò a rimproverare” è una scarica violenta e aggressiva che va a fulminare la durezza dei concittadini di Gesù. Il contesto di veemenza e di giudizio richiama da vicino l’episodio di cui si resero protagonisti Giacomo e Giovanni di fronte al rifiuto opposto a Gesù dai Samaritani: “Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: "Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (Lc 9,54). E benché il Gesù lucano rimproveri i due per la loro inopportuna uscita, quello matteano, proprio per la carica polemica che anima il racconto di Matteo, acquista toni inequivocabili di vendetta divina.
Il veemente rimprovero va a cadere su tre città Corazin, Betsàida e Cafarnao[30], poste tutte a nord del lago di Genezaret, luoghi dove Gesù svolse la sua prima attività missionaria e dove subì le prime grandi delusioni per il rifiuto avuto dalle città stesse. Il rimprovero e l’accusa qui, infatti, presuppongono che Gesù abbia già operato e già conclusa la sua missione, ma senza esito favorevole. Pertanto, non ci sarà per loro una seconda chance; per questo esse sono già sottoposte a giudizio fin d’ora.
Nella dinamica del racconto Corazin e Betsàida trovano il loro parallelo in Tiro e Sidone, mentre Cafarnao, in termini peggiorativi, ha la sua referenza in Sidone e in Sodoma[31]. Nel richiamare qui Tiro e Sidone, il Gesù matteano richiama implicitamente il contesto storico e profetico veterotestamentario in cui operarono il proto Isaia (740-700 a.C.), Geremia (627-586 a.C.), Ezechiele (593-571 a.C.), Amos (760-740 a.C.), Gioele (circa 750 a.C.) e Zaccaria (520-515 a.C. circa)[32], profeti che, in vario modo, si scagliarono contro le due città. Queste nella tradizione biblica hanno sempre rappresentato l’opulenza, le immoralità e le ingiustizie sociali del mondo pagano dell’epoca. Il paragone con queste città pagane viene fatto per eccesso, apparendo le tre città della Galilea maggiormente colpevoli. La motivazione dell’aggravio di colpa risiede nel fatto che Corazin, Betsàida e Cafarnao per prime videro il compiersi dei miracoli, che Matteo chiama “dun£meij” (dinaméis), cioè segni della potenza di Dio, che irruppe in mezzo a loro. Per tre volte viene rilevato il fatto del compiersi dei miracoli disattesi (vv.20.21.23), fondando in tal modo l’atto di accusa principale: Dio si è mostrato con potenza (dun£meij) in mezzo al suo popolo, ma esso non l’ha né riconosciuto né accolto. La deludente e fallimentare missione di Gesù in mezzo ad Israele viene più volte sottolineata da Giovanni nel suo vangelo. Innanzitutto il nome Giudei, che nel vangelo di Giovanni ricorre 64 volte, acquista un significato decisamente negativo, diventando una sorta di sinonimo di incredulità invincibile; una incredulità che viene rilevata fin dalle prime battute del prologo: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,9-11); e similmente l’attività pubblica di Gesù si chiuderà con un’amara considerazione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni[33] davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37). Le due espressioni poste all’inizio del racconto giovanneo e alla fine dell’attività pubblica di Gesù costituiscono una sorta di inclusione tematica, che mette sotto il segno dell’incredulità l’intera missione di Gesù. In tale contesto i miracoli costituiranno un pesante atto di accusa e l’elemento di differenza tra Israele e il mondo pagano. Lo stesso Giovanni, a conclusione del suo vangelo[34], rileverà l’importanza dei segni (miracoli), finalizzati a suscitare la fede: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31). Il chiudersi di fronte a questi segni costituisce l’origine dell’invettiva di Gesù.
Il v.21, infatti, si apre con una duplice esclamazione minacciosa: “Guai a te”, che va a colpire individualmente Corazin e Betsàida. L’esclamazione compare 62 volte nell’A.T. delle quali 48 negli oracoli dei profeti. Il tono in questo ambito assume tutta la pesantezza del giudizio di Dio, che per mezzo dei profeti viene scagliato contro i popoli pagani, contro Israele, i suoi capi e i suoi pastori, contro Gerusalemme e contro singole categorie di persone. Il tono profetico, che si richiama al giudizio divino, prosegue nel N.T., dove la minacciosa esclamazione compare 45 volte di cui 29 messe sulle labbra di Gesù, riconosciuto come profeta dalla gente (Mt 16,14; 21,11.45), venuto ad introdurre nel mondo il giudizio divino (Gv 3,19; 5,22.24.27; 9,39). La sua persona, infatti costituisce il punto di discriminazione tra chi crede e chi non crede, ponendo ogni uomo di fronte ad una scelta esistenziale radicale: o con Gesù o contro di lui (Mt 12,30; Lc 11,23). Ed è proprio questo aut aut che innesca una dinamica giudiziale già fin d’ora, poiché Gesù si pone in mezzo agli uomini come il profeta escatologico, l’ultimo discorso e l’ultimo appello che il Padre rivolge agli uomini, l’ultima offerta di salvezza. Per questo la venuta di Gesù è discriminante e innesca già qui, nel presente, il giudizio escatologico (Gv 3,16-21). In altri termini, la fine dei tempi e il relativo giudizio divino posto sugli uomini sono già incominciati con la venuta di Gesù, la cui presenza spinge ogni uomo a compiere la sua scelta esistenziale.
Un’attenzione particolare viene riservata da Matteo alla cittadina di Cafarnao (v.23), la cui immagine è legata a Sidone e a Sodoma, che la definiscono come una città inospitale e avversa (Sodoma, Gen 18,1-11) e paragonabile al mondo pagano per la sua opulenza[35] e, probabilmente, per il suo lassismo di vita, che a questa in genere si accompagna (Sidone, definita la Grande in Gs 11,8).
A differenza di Corazin e di Betsàida, colpite da un generico “Guai a te”, che esprime una minaccia imprecisata, quella rivolta a Cafarnao assume contorni inequivocabili: “E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!”. In questa espressione, dai toni sentenziali, risuona Is 14,13-15 nel suo scagliarsi contro l’orgoglio del re di Babilonia; versetti questi di Isaia che in epoca neotestamentaria, probabilmente, erano già stati sintetizzati ed elaborati in una sorta proverbio, che Matteo mette in bocca a Gesù[36]. Tutta la minaccia viene giocata sul contrasto di alto-basso, cielo-inferi, che rispecchia in qualche modo la situazione di Cafarnao. Cosa ci sta, infatti, dietro l’espressione interrogativa: “E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo?”. L’innalzamento fino al cielo di Cafarnao allude, probabilmente, sia alla situazione di questa prestigiosa cittadina, all’epoca economicamente molto ricca e florida, posta sull’importante via maris[37], sia al fatto che Gesù ne aveva fatto la sua sede operativa, da cui era partita la sua attività missionaria, e punto di riferimento del suo itinerare. E proprio su Cafarnao Matteo vedeva, inoltre, il realizzarsi di una profezia di Isaia (Mt 4,14-16). Per l’insieme di questi motivi, Matteo vede l’innalzamento di Cafarnao, ma, proprio per la sua pervicace incredulità, tanto privilegio non le servirà a nulla, anzi tornerà a sua condanna; per questo verrà precipitata agli inferi.
vv. 25-30: nella pericope vv.2-6 si era posto un interrogativo sull’identità di Gesù, mentre in quella successiva (vv.7-15), stigmatizzando la superficialità e l’incredulità della gente, veniva messa in rilievo la figura di Giovanni, colta in funzione di Gesù (v.10). Nella terza (vv.16-19) e quarta pericope (vv.20-24) veniva sviluppato, in un crescendo continuo, un rimprovero, che si faceva minaccia per l’atteggiamento di rifiuto da parte dei Giudei. Tutto ciò trova ora (vv.25-30) la sua risposta, che spiega, da un lato, la natura e l’identità di Gesù, dall’altro la motivazione profonda che anima la chiusura dei Giudei nei confronti di Gesù. Matteo lo fa mettendo sulle labbra di Gesù una stupenda quanto teologicamente ricca preghiera, unica nei Sinottici e, per certi aspetti, degna della teologia giovannea.
La struttura della pericope 11,25-30 è piuttosto complessa ed elaborata; essa potrebbe essere divisa in due parti, tra loro strettamente concatenate:
Prima parte, a struttura parallela convergente:
A) v.25: il Padre, nella sua veste di onnipotenza (“Signore del cielo e della terra”), ha stabilito quali siano i destinatari della sua rivelazione: non i sapienti-intelligenti, ma i piccoli;
B) v.26 mette in rilievo come il decreto divino, di cui al v.25, si sia di fatto attuato; la centralità del versetto è dovuta al fatto che Matteo vede nella chiusura e nel rifiuto di Gesù l’attuazione di un prestabilito piano divino; una convinzione che verrà confermata in 13,10-17
A1) v.27: l’onnipotenza del Padre è stata donata al Figlio (“Tutte le cose mi sono state date”), al quale è stata demandata l’attuazione del suo decreto (“e colui al quale il Figlio lo ha voluto rivelare”). Il v.25, pertanto, forma inclusione per tema e per complementarietà nel v.27.
Seconda parte, a struttura discendente. Questa seconda parte si presenta come esplicativa della prima, perché spiega chi sono questi piccoli e come di fatto Gesù attui il decreto del Padre:
A) v.28: chi sono i piccoli e coloro ai quali Gesù intende rivelare il mistero del Regno è detto in questo versetto: sono gli affaticati e gli oppressi, già annunciati al v.5 (poveri). Prima indicazione di come Gesù attua il decreto divino circa la rivelazione: la chiamata: “Orsù a me”
B) v.29: Seconda indicazione di come Gesù attua la volontà del Padre circa la rivelazione del mistero: Gesù si pone al centro dell’attenzione dei piccoli, chiamati a sé, e diventa il loro luogo di raccolta e di incontro, facendosi per loro ristoro;
C) v.30: considerazione finale: l’adesione esistenziale a Gesù da parte dei piccoli costituisce un giogo ed un peso, che tuttavia non aggravano, perché possiedono in loro stessi una promessa: la rivelazione e la partecipazione del Mistero, che in Gesù si fa condivisione.
Il v.25a introduce il breve, ma intenso discorso di Gesù e possiede due elementi che lo inquadrano: l’espressione temporale: “'En ™ke…nJ tù kairù” (En ekeíno tô kairô, in quel tempo) e il verbo “¢pokriqeˆj”(apokritzeìs), un participio aoristo passivo. Quanto al termine “tempo” è reso in greco con kairÒj (kairós), che indica un tempo propizio o particolare, un tempo adatto e opportuno. Non si tratta, dunque, di un tempo qualsiasi, né di un tempo di tipo fisico o cronologico, per il quale il greco usa il termine “crÒnoj” (crónos). Il termine kairÒj fa riferimento ad un tempo specifico, che trova il suo contesto naturale in quanto è stato fin qui detto (11,1-24) e a questo si aggancia. Abbiamo visto, infatti, come i vv.25-30 costituiscono la risposta alle questioni poste dal cap.11. A supportare quanto espresso dalla parola “kairÒj” vi è il verbo “¢pokriqeˆj” che letteralmente significa[38] separare, secernere, distinguere, ma anche rigettare, escludere, disapprovare, biasimare. Il verbo “¢pokriqeˆj”, pertanto, può indicare da un lato che “Gesù fu separato, fu appartato” dalla folla, alla quale stava rivolgendosi (v.7), per conferire in raccoglimento con il Padre. Attore sottinteso del verbo, che vede Gesù come soggetto passivo, è lo Spirito Santo. È Lui, infatti, l’Azione divina che opera su Gesù e con Gesù nell’ambito della storia della salvezza[39]. Similmente Luca, nel passo parallelo, afferma espressamente l’azione di Gesù nello Spirito Santo: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: <<Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto […]>>” (Lc 10,21). Il secondo significato di “¢pokriqeˆj” può anche essere riferito all’isolamento di Gesù, conseguente al rifiuto dei Giudei, per cui si potrebbe tradurre “dopo che Gesù fu respinto”. Tale traduzione, senza voler rigettare la precedente, forse è la più corretta sia perché si inserisce bene nel contesto del cap.11, in cui si parla di superficialità, di incomprensioni, di inintelligenza e di rifiuto nei confronti di Gesù; sia perché la preghiera che segue parla espressamente del tema del rifiuto di Gesù. In questo caso il verbo “¢pokriqeˆj” introdurrebbe in qualche modo il tema stesso della preghiera.
Il v.25b apre il dialogo di Gesù con il Padre, un dialogo che supera di molto il semplice parlare per farsi vera e propria azione liturgica. Il verbo “'Exomologoàma… soi” (exomologûmaí soi), infatti, oltre che ringraziare significa anche celebrare, inneggiare. L’atteggiamento di Gesù nei confronti del Padre, dunque, è essenzialmente celebrativo e si contestualizza all’interno di una liturgia di lode e di ringraziamento, che apre Gesù nei confronti del Padre e dice il tipo di rapporto che intercorre tra i due. Risuona qui Gv 1,1b: “kaˆ Ð lÒgoj Ãn prÕj tÕn qeÒn” (kai o logos en pros ton tzeon), espressione questa che viene tradotta con “… e il Verbo era presso Dio …”. In realtà la preposizione “prÕj” (pros) è seguita non da un dativo (tù qeù, to tzeo), nel quale caso sarebbe giustificata la traduzione “presso Dio”, bensì da un accusativo (tÕn qeÒn, ton tzeon); in questo caso la particella “prÕj” assume un significato di moto per luogo, per cui l’espressione “kaˆ Ð lÒgoj Ãn prÕj tÕn qeÒn” va correttamente tradotta con “… e il Verbo era rivolto verso Dio …”, definendo in tal modo l’atteggiamento più vero e più profondo che animava Gesù nei confronti del Padre: un atteggiamento di totale apertura, di totale accoglienza in sé e di dipendenza nei confronti del Padre, tale che tra i due scorre un unico flusso di vita, che fa dei due una cosa sola[40].
Il Padre viene definito da Gesù “Signore del cielo e della terra”. Questa espressione compare 40 volte nella Bibbia (35 nell’A.T.; 5 nel N.T.) nella sua molteplice forma di “Signore del cielo e della terra”, “Signore del cielo”, “Dio del cielo” o “Dio del cielo e Dio della terra”, “creatore del cielo e della terra”. Tutte le espressioni sono diverse elaborazioni della primitiva e primaria formula di fede con cui si apre il racconto della salvezza: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1), che stabilisce all’origine dell’esistente Dio, da cui tutto discende (“In principio Dio”). L’espressione “Dio del cielo” evidenzia la grandezza sublime ed assoluta di Dio, la sua indiscutibile onnipotenza, in quanto relega Dio nel cielo, un luogo che sovrasta la terra e che lo rende irraggiungibile e imperscrutabile dall’uomo (Is 55,9), che viene invece relegato alla terra, la quale definisce tutta la sua fragilità (Gen 2,7; 3,19). L’espressione “Dio del cielo e della terra” è sinonimo di “creatore del cielo e della terra” (Gen 14,19.22; Sal 145,6), ma nel contempo sottolinea la sovranità e la signoria di Dio su tutto il creato, che meglio appare nell’altra espressione “Signore del cielo e della terra”; mentre l’espressione simile “Signore del cielo” indica l’assoluto potere di Dio e l’assoluta signoria divina, che ha la sua origine nel cielo, luogo della sublimità di Dio. Matteo, pertanto, si allinea alla tradizione della fede ebraica, definendo il Padre “Signore del cielo e della terra”, sottolineandone non solo l’assoluta e indiscussa signoria, ma indicandolo anche come l’origine di ogni cosa creata; per questo Egli è il Signore. Jhwh, quindi, perde in Matteo il suo anonimato, mentre il misterioso e impronunciabile tetragramma, che definisce il nome di Dio, si traduce in quello più accessibile e familiare di Padre, termine con il quale Matteo sottolinea il particolare rapporto filiale di Gesù con Dio; ma nel contempo, evidenziando l’onnipotenza e la signoria del Padre, Signore del cielo e della terra, l’autore prepara il suo lettore ad una nuova comprensione della figura di Gesù, là dove egli afferma di aver ricevuto tutte le cose dal Padre (v.27a), anticipando in qualche modo la signoria divina di Gesù, che gli proviene dalla sua risurrezione: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18).
Il motivo di questa liturgia di lode e di ringraziamento, che Gesù celebra davanti al Padre, è l’oscuramento del suo piano salvifico ai sapienti e agli intelligenti e il suo disvelamento ai piccoli. Tutto si gioca sul contrasto: oscuramento e disvelamento, sapienti-intelligenti e piccoli. Tutto si gioca all’interno di un triangolo, che vede al vertice il “Padre, Signore del cielo e della terra”, designato e avvolto nella sua onnipotenza e nella sua signoria, che sovrasta gli altri due angoli, posti sullo stesso piano, ma tra loro contrapposti: “i sapienti e gli intelligenti” e “i piccoli”. Tutti fanno parte di un’unica figura geometrica, il piano salvifico pensato dal Padre e attuato nel suo Figlio (Ef 1,4-5.9-10). Ed proprio in questo contesto che si gioca la partita tra Dio e l’uomo, qualificato nel suo duplice atteggiamento di autosufficienza (sapienti-intelligenti) e di fiduciosa disponibilità (i piccoli).
Il binomio sapienti-intelligenti o sapienza-intelligenza compare 30 volte nell’A.T. Nei libri sapienziali il binomio è riferito sia a Dio che all’uomo saggio e non vi è mai contrapposizione tra sapienza o intelligenza divina e quella umana[41]. Le prime contrapposizioni compaiono, invece, nei profeti, che stigmatizzano certi comportamenti umani, minati dall’orgoglio, che si discostano da Dio o a Lui si oppongono[42]. Similmente, il N.T. si cimenta in un continuo raffronto tra la sapienza umana e quella divina, castigando la prima ed esaltando la seconda. La cosa è comprensibile se si pensa che il cristianesimo nasce all’interno del giudaismo e del paganesimo, i quali nell’ambito delle rispettive culture, ebraica e greca, oppongono una dura resistenza alla predicazione del Dio incarnato e del Cristo crocifisso e risorto per il riscatto di un’umanità, profondamente segnata dal peccato e incapace di rapportarsi a Dio. Proprio perché queste realtà, generate da Dio, sfuggono alla sapienza e intelligenza umane, richiedono per la loro comprensione una diversa sapienza e una diversa intelligenza, superiori, che solo Dio è in grado di dare. Questo conflitto tra il sapere umano e quello divino, tra l’intelligenza dell’uomo e quella di Dio esplode evidente in Paolo che definisce stolta e depravata l’intelligenza dell’uomo (Rm 1,22.28), mentre la presunta superiorità dell’uomo nei confronti del Mistero della Salvezza viene ridicolizzata con fine quanto irruente ironia, che punta ad evidenziare l’incapacità dell’uomo, chiuso nel suo riluttante orgoglio, di raggiungere il senso del disegno di salvezza, che si attua attraverso lo scandalo della croce: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (Rm 1,18-25).
Similmente Matteo contrappone la Sapienza divina, che si manifesta nelle opere (v.19a), a quella dei sapienti-intelligenti, incapaci di leggere in queste opere il Dio che agisce e li interpella; e lo fa opponendo loro “i piccoli”, termine che in greco è reso con “nhp…oij” (nepíois), che letteralmente significa “di tenera età, piccolo, bambino, fanciullo”. Il termine, pertanto, delinea più che una categoria di persone un atteggiamento di fondo, l’unico atteggiamento che rende l’uomo capace di rapportarsi a Dio e di comprenderne il Mistero, svelato nelle opere del suo Cristo.
Con la contrapposizione “sapienti-intelligenti” e “piccoli”, pertanto, Matteo delinea un duplice atteggiamento che si è venuto a creare all’interno dell’umanità di fronte all’annuncio del Regno: chi si oppone ad esso con il proprio fare saccente, ma che rende cechi (scribi e farisei) e chi, invece, in tutta semplicità lo accoglie in modo acritico, aderendovi esistenzialmente (i discepoli). Viene, quindi, preannunciata qui la dura decisione discriminatoria, che Gesù prenderà all’inizio del suo terzo grande discorso (13,10-15), che costituisce il cuore del racconto matteano: le parabole del Regno (cap.13).
Se il v.25 spiega la motivazione che sottende la difficile la comprensione della figura di Gesù e del suo operare (vv.2-24), riconducendola ad una imperscrutabile volontà divina, che chiude ai sapienti-intelligenti, ma apre ai piccoli, il v.26 annuncia come il desiderio del Padre si sia di fatto compiuto proprio nel rifiuto del suo Cristo. In altri termini, se Gesù non è compreso nel suo operare e nel suo annuncio, creandosi tutt’intorno un’alea di incomprensioni e di nemici, ciò non è imputabile ad una serie sfortunata di eventi, ma rientra in un preciso piano del Padre, che proprio attraverso questo stato di cose tende a salvaguardare l’attuazione del Mistero di salvezza nel suo Cristo. La logica che sottende questo disegno è sempre la medesima che Matteo ha già enunciato in 7,6: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.
L’espressione centrale del v.11,25 è “eÙdok…a ™gšneto” (eudokía eghéneto), cioè l’accadere, il compiersi (™gšneto) qui nella storia di un evento che Matteo definisce come una “eÙdok…a”, cioè come un desiderio, ma che possiede in sé il senso di un vero e proprio atto deliberativo, una sorta di decreto esecutivo. Il sostantivo, infatti, ha la sua radice nel verbo eÙdokšw, che, tra altri significati, dice anche stabilisco, voglio, delibero. Non si tratta, dunque, soltanto di un semplice compiacimento per ciò che è accaduto, ma di una precisa volontà attuativa (™gšneto), che si è compiuta “œmprosqšn sou” (émprostén su), cioè “davanti a te”; un’espressione, quest’ultima, che indica la conformità di ciò che è accaduto alla volontà divina, ad un suo prestabilito disegno. L’oscurare ai sapienti-intelligenti e il rivelare, invece, ai piccoli fa parte, dunque, di un preciso piano divino, la cui logica è quella del non vanificare l’azione salvifica divina, disperdendola in vani ragionamenti umani, come di fatto era accaduto presso la chiesa di Corinto, dove l’annuncio del Vangelo si era ridotto ad una diatriba filosofica, che aveva diviso la comunità in vari gruppi, gli uni contrapposti agli altri, come erano le diverse scuole di filosofia del tempo (1Cor 1,11-13). E proprio qui a Corinto Paolo cercherà di far capire a questa turbolenta comunità come il giusto approccio al Vangelo non è quello del ragionamento e della diatriba, che porta alla divisione e alla superbia della mente, ma quello dell’umile accettazione nella fede di un disegno, che si pone fuori dalle logiche umane (1Cor 1,18-2,16).
Il v.25 enuncia, dunque, il decreto del Padre, inserito nel piano di attuazione della salvezza e posto a salvaguardia del piano stesso: rendere impenetrabile il Mistero da parte dell’orgoglio umano, ma disvelarlo ai piccoli; il v.26, che potremmo definire di transizione tra il v.25 e il v.27, constata che tale decreto è stato attuato, in conformità al desiderio-volere del Padre. Il v.27 diventa l’attuazione esplicativa e rivelativa del v.25 e, a sua volta, la conferma del v.26. Per fare questo Matteo opera quattro passaggi, che creano una sorta di concatenazione logica, gradualmente esplicativa tra il v.25 e il v.27:
a) Primo passaggio v.27a: “Tutte le cose mi sono state date dal Padre mio”. Questa espressione forma da aggancio al v.25 dove troviamo il “Padre, Signore del cielo e della terra”. In altri termini, l’onnipotenza divina del Padre (P£nta, pánta, tutte le cose), riconosciuto quale indiscusso Signore del creato, sia celeste che cosmico, viene trasferita (paredÒqh, paredótze, sono state date) a Gesù (moi, moi, a me) da parte del Padre (ØpÕ toà patrÒj, ipò tû patrós, dal Padre). In tal modo viene a crearsi una sorta di identificazione tra il Padre e il Figlio, che in virtù di questo trasferimento, si compenetrano reciprocamente. Il v.27a costituisce una sorta di premessa che introduce alla comprensione del restante v.27.
b) Secondo passaggio v.27b: “nessuno conosce il Figlio se non il Padre”. Il passaggio dei poteri dal Padre al Figlio non va intesa come una semplice autorizzazione giuridica ad agire in nome e per conto del Padre, così che Gesù è una sorta di procuratore legale del Padre. Quando parliamo di Dio non si può più porre delle distinzioni tra le qualità proprie del Padre e il Padre stesso, poiché tali qualità del Padre sono il Padre stesso. Per questo il potere del Padre dato al Figlio è in realtà il Padre stesso che si consegna al Figlio, così che i due diventano una cosa sola. Per questo il Gesù giovanneo può dire a Filippo che chi vede lui vede il Padre, poiché “io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,9-11). Ed è proprio questa reciproca compenetrazione che fa dei due una cosa (Gv 10,30; 17,11.21). L’onnipotenza del Padre è il Padre stesso che si consegna al Figlio e in lui opera (Gv 14,10), così che Gesù non dice e non compie nulla da se stesso, ma soltanto ciò che ha visto fare e sentito dire dal Padre (Gv 5,19.30; 8,28.42).
c) Terzo passaggio v.27c: “né qualcuno consoce il Padre se non il Figlio”. Questa proposizione è posta in forma chiasmica con la precedente e la rafforza nei suoi contenuti. Ne consegue che tale espediente letterario è finalizzato a sottolineare la profonda relazione reciprocamente compenetrante che intercorre tra il Padre e il Figlio e che fa dei due una cosa sola, pur nella distinzione rispettiva dei ruoli propri (Gv 10,38; 14,10.11.20), per cui il Padre non è il Figlio, né il Figlio è il Padre. L’identità tra i due è nella comune ed unica natura divina, che dice la vita stessa di Dio. Per questo il Padre vive nel Figlio e il Figlio nel Padre; per questo il rivelare del Figlio è il rivelarsi stesso del Padre e l’operare di Gesù è l’operare del Padre, così che Gesù diventa il volto storico del Padre, il luogo storico della sua manifestazione.
d) Quarto passaggio v.27d: “e colui al quale il Figlio lo ha voluto rivelare”. Questo è l’assioma conclusivo, la meta finale a cui Matteo tendeva e che spiega in quale modo il decreto del Padre (v.25) ha potuto attuarsi: la rivelazione che il Padre ha riservato ai piccoli, precludendola ai sapienti-intelligenti, viene operata in Gesù attraverso un processo selettivo, che troverà la sua piena manifestazione nel cap.13, il cui contesto Matteo sta preparando fin d’ora: “Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: "Perché parli loro in parabole?". Egli rispose: "Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (Mt 13,10-11). In altri termini, la rivelazione che il Padre opera nel Figlio è un dono d’amore, che è riservato soltanto a coloro che sono in grado di riceverla. Significativo in questo ultimo passaggio è il verbo “boÚlhtai” (búletai, vuole), che si richiama, sintetizzandolo in sé, al decreto divino del Padre (v.25) espresso in Gesù attraverso una sua precisa volontà di discriminazione. Questa contiene in se stessa anche un giudizio divino già posto in essere sui sapienti-intelligenti e sui piccoli.
Posta questa ampia premessa (vv.25-27), teologicamente molto densa e unica nei Sinottici, si tratta ora di capire chi sono questi “piccoli”. Anche qui Matteo procede per gradi. Nel v.25 si parla genericamente di piccoli; nel v.27d si spiega come questi siano il frutto di una selezione divina (“colui al quale il Figlio lo ha voluto rivelare”); infine, i piccoli (v.25), scelti per la rivelazione (v.27d), acquistano nel v.28 una loro precisa identità storica: sono gli affaticati e gli oppressi. A loro è destinato l’annuncio del Regno. Lo si era detto all’inizio di questo capitolo, nel v.5: “[…] ai poveri è annunciata una lieta notizia”; lo aveva raccomandato esplicitamente Gesù nell’invio dei dodici: “rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele” (10,6), richiamando da vicino il profeta Zaccaria, che vede nelle perdute pecore senza pastore gli oppressi di Israele (Zc 10,2), gente allo sbando. Una particolare attenzione, poi, era stata rivolta verso di loro nell’apertura del primo grande discorso fondativo del regno, definendo beata tutta la categoria dei poveri, degli afflitti, dei miti, degli assetati di giustizia, dei perseguitati per la giustizia (5,3-12). A tutta questa gente è stato promesso il Regno dei cieli.
I vv.28-30, che si trovano soltanto in Matteo, si muovono su di uno sfondo polemico e sono animati da un tono fortemente sapienziale. Questo richiama da vicino Sir 51,23-27 e sembra essere una sua libera rielaborazione o quanto meno l’evangelista sembra essersi ispirato ad esso. La figura di Gesù, inserita dentro questa forte cornice sapienziale, viene presentata come la nuova Sapienza del Padre, posta in opposizione e in concorrenza alla vecchia e opprimente Sapienza, frutto di capziose elaborazioni umane, pressoché impossibile da applicare.
Entro questa cornice vanno letti e compresi i vv.28-30.
Il v.28 dà l’intonazione generale all’intera pericope (vv.28-30) e ne costituisce il tema. Tutti i termini che compongono questo versetto sono molto significativi. Esso si apre con l’avverbio “Deàte” (Deûte, Orsù) un’esortazione che contiene in se stessa un senso fortemente dinamico[43].
Segue l’espressione “prÒj me” (prós me, a me). L’avverbio di moto a luogo prÒj indica l’indirizzo della la meta, verso la quale sospinge l’esortazione: “me”, cioè Gesù. Già da queste prime due battute si evince la centralità della figura di Gesù verso la quale Matteo sospinge “gli affaticati e gli oppressi”. Una centralità che l’evangelista esprime anche letterariamente, ponendo la figura di Gesù nel suo rapporto con gli oppressi al v.29, posto in mezzo ai vv. 28 e 30.
Il terzo elemento è costituito dall’aggettivo quantitativo “p£ntej”, che esprime una quantità indefinita e, per questo, onnicomprensiva, che abbraccia l’intera categoria degli oppressi di ogni tempo e di ogni luogo, indistintamente dal motivo della loro oppressione, anche se, come vedremo, l’autore allude ad una particolare oppressione. Quel p£ntej sembra quasi sintetizzare in sé, in un abbraccio che li accumuna, gli attori stessi delle beatitudini (Mt 5,3-12), caratterizzati da un unico comune denominatore: una sofferenza che li opprime e li affatica nel loro difficile ruolo di testimoni del Regno.
Il quarto elemento sono i due participi sostantivati espressi in tempi verbali opposti: il primo, oi kopiôntes, al presente indicativo; il secondo, pefortisménoi, al perfetto medio passivo: “oƒ kopiîntej kaˆ pefortismšnoi” (oi kopiôntes kaì pefortisménoi, affaticati ed oppressi). Il primo verbo, posto al presente, indica un’azione in atto e si riferisce, quindi, ad una precisa categoria di persone, lì presenti, impegnate a vivere con fedeltà e con fatica l’osservanza della propria fede. Il secondo verbo è posto al perfetto medio passivo e rimanda ad un’azione compiuta nel passato, ma i cui effetti si producono sul presente. Di conseguenza il verbo pefortismšnoi è esplicativo del verbo kopiîntej. In altri termini, quelli che ora stanno faticando per vivere con fedeltà la loro fede (kopiîntej), stanno faticando perché sono stati gravati (pefortismšnoi) da pesi insopportabili. Sono questi pesi che li affaticano e creano in loro l’affanno del vivere. Questa loro oppressione contiene in se stessa un implicito giudizio di condanna verso coloro che hanno causato l’aggravamento del loro già precario stato di vita. Esso apparirà evidente nell’ultima parte del v.28.
Il termine kopiîntej, infatti, esprime uno stato di vita che va ben oltre il semplice affaticamento. Esso possiede in sé un senso dinamico e indica un affaticamento che nasce dal darsi da fare incessantemente e, quindi, significa spossarsi. Il termine kopiîntej, quindi, parla di persone che non sono soltanto affaticate, ma spossate, una spossatezza che si origina da un impegno costante, persistente, inesauribile, che porta al logoramento della persona.
Anche l’altro verbo, pefortismšnoi, dice ben di più del blando “oppressi”. Esso significa caricati di pesi, coloro a cui è stato posto addosso un peso. Di conseguenza si traduce oppressi.
Il quinto e ultimo elemento di questo denso versetto è l’espressione conclusiva: “k¢gë ¢napaÚsw Øm©j” (kagò anapaúso imâs, e io vi ristorerò). Il verbo è qui posto al futuro in netto contrasto con gli altri due verbi (presente e passato). Passato, presente e futuro creano, qui, un arco di tempo completo entro il quale è contenuta la vita dei kopiîntej, cioè di quelli che nel presente di Matteo, erano spossati da pesi che erano stati loro imposti, provenienti da realtà del passato. Questi oppressi, tuttavia, non sono rinchiusi nella ristretta gabbia del presente, perseguitati da un passato che non dà loro scampo, ma vengono proiettati in un consolante e inatteso futuro di riscatto. Il futuro, quindi, proietta gli oppressi in una dimensione escatologica, che funge da riscatto del loro stesso presente, aprendoli ad una speranza inattesa, ma che contiene in sé anche un elemento di giudizio di premio per loro e, implicitamente, di condanna per coloro che li hanno gravati di pesi. Il verbo ¢napÚw significa far cessare, fermare, far riposare. Contiene in sé l’idea della cessazione e del compimento e, quindi, conseguentemente del riposo dalle fatiche. È un verbo particolarmente significativo e che, simile, ritroviamo in Gen 2,2-3, nella sua forma di katapaÚw, il cui significato sostanzialmente non cambia da ¢napÚw. Il contesto di Gen 2,2-3 è quello del compimento della creazione, che Dio portò a termine nel settimo giorno, nel quale cessò tutta la sua attività creativa e, quindi, si riposò. Il settimo giorno, pertanto, è lo spazio di Dio, lo spazio del compimento creativo, l’ultimo tempo, che Dio si è riservato, benedicendolo e consacrandolo. Similmente, il verbo ¢napaÚw richiama il settimo giorno della creazione, questo spazio del riposo divino, l’ultimo tempo dove il credente, fatto nuova creatura in Cristo, viene introdotto e reso partecipe del riposo divino. Pertanto l’espressione “e io vi ristorerò” acquista una valenza tutta nuova, poiché qui non si tratta di un riposarsi dalla fatica, ma l’essere introdotti negli stessi spazi di Dio; dove Egli “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4) e dove “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5).
A che cosa alludeva Matteo con questa breve pericope (vv.28-30)? Per poterlo comprendere dobbiamo indirizzare la nostra attenzione su due termini fondamentali: il participio perfetto medio passivo “pefortismšnoi” (aggravati) e il sostantivo “zugÒn” (giogo). Con il termine giogo nell’A.T. si indicava il peso della Legge e dell’Alleanza, a cui era sottoposto Israele[44]; mentre il sostantivo verbale “aggravati” alludeva alla spessa coltre di regole e precetti che il giudaismo aveva sviluppato attorno alla Torah. Da questa, infatti, aveva fatto discendere una ridda di precetti che regolamentavano in modo scrupoloso e ossessivo ogni aspetto del vivere [45]. Un simile volume di regole costituiva un notevole gravame posto sulla gente. Il Gesù matteano, proprio in riferimento a questa massa insostenibile di regole, puntando il dito contro gli scribi e i farisei, accusava: “Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (23,4). Tali precetti, proprio per la loro quantità e la loro impressionante meticolosità, spesso oscuravano o annullavano la stessa Parola di Dio (Mt 15,6; Mc 7,13), così che Gesù muoverà la sua invettiva contro i dottori della Legge, accusandoli di insegnare “dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7). Alla base di questa forma legalistica di religiosità, che produceva norme su norme e infiniti dibattiti tra i vari rabbi e le varie scuole, ci sta la convinzione che la Torah è l’espressione concreta della volontà di Dio e in quanto tale essa va semplicemente eseguita. Significativamente, in tal senso, di fronte al Dio che parla, Israele compie il suo giuramento con una sorta di formula rituale, che rispecchia la mentalità religiosa del popolo: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7)[46]. Tutto lo sforzo, pertanto, del Giudaismo (395 a.C.) e successivamente delle scuole rabbiniche (70 d.C.), puntava soltanto sulla precisa comprensione dei comandamenti, espressi nella Torah, per poterli eseguire correttamente. Questo atteggiamento religioso portò a sviluppare una sorta di religione fondata su di uno scrupoloso quanto opprimente legalismo. A questo allude Matteo in 11,28 e, in concorrenza a questo modo di intendere e di vivere il rapporto con Dio (11,29a), propone una Legge, letta e reinterpretata da Gesù (Mt 5,17-48), che sposta il baricentro dalla lettera allo spirito della Legge, rendendo in tal modo dolce il giogo e soprattutto libero da ogni forma di condanna.
Il v.29 sviluppa quest’ultimo aspetto. La struttura del versetto è scandita in tre parti, al cui centro si pone la figura di Gesù, colto nell’ambito del suo magistero di misericordia e di compassione per l’uomo:
a) “Prendete il mio giogo su di voi”. È la prima esortazione che il Gesù matteano rivolge ai fedeli del giudaismo[47], oppressi da un pesantissimo legalismo senza fine, che di fatto rendeva impossibile un rapporto sincero sia con il prossimo che con Dio (23,13). Gesù invita a prendere “il mio giogo”, contrapponendolo implicitamente a quell’altro giogo, quello della Torah. Gesù, quindi, si pone come alternativa alla stessa Torah, che in lui trova il suo compimento (5,17). Vi è, dunque, una nuova Torah o meglio, una nuova edizione della Torah, rivista e corretta da Gesù, che viene ora riproposta al popolo. La prima Torah venne data da Jhwh ai piedi del Sinai; la seconda Torah, ricondotta al suo spirito originario e sfrondata dall’ammasso enorme di precetti, che Gesù liquida brevemente come “dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7), togliendo loro, in tal modo, ogni validità, viene emanata nuovamente da Gesù. Essa punta alla sincerità del cuore e in esso viene radicata. Si attua in tal modo la grande visione di Ezechiele: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ez 11,19-20[48]). Con l’espressione “il mio giogo” Matteo riconduce la nuova Legge a Gesù, che vede come un nuovo Mosè, ma nel contempo, con quel aggettivo possessivo “mio” lo pone sullo stesso piano di Jhwh, l’unica e vera fonte della Torah. L’invito a prendere il “mio giogo su di voi” si traduce, infine, in una forte esortazione a fare la propria scelta definitiva, abbandonando il vecchio e pesante giogo della Legge mosaica, per abbracciare definitivamente la nuova visione di Dio, le cui esigenze sono rivelate nella persona di Gesù. L’esortazione va compresa nell’ambito del contesto storico in cui si trovava Matteo: egli aveva davanti a sé una comunità di giudeocristiani, probabilmente ancora molto legati alla Legge mosaica, che cercavano di coniugare in qualche modo con la nuova proposta cristiana e ad essa si approcciavano con una mentalità ancora legalistica, propria del giudaismo[49]. Bisogna, quindi, operare un radicale cambio di casacca, poiché non si può seguire Gesù rimanendo fedeli al giudaismo (Mt 12,30; Lc 11,23).
b) “Imparate da me, poiché sono mite ed umile di cuore”. È questa il cuore dell’intera pericope: Gesù viene posto al centro dell’attenzione dei nuovi credenti e viene letto qui come il nuovo Mosè, la nuova Torah. La parola Torah viene impropriamente tradotta, sull’onda dei LXX, con il termine “Legge” (in gr. Nomos). La sua origine ebraica, tuttavia, sembra derivare dal verbo yārāh, che significa “insegnare, indicare, istruire”, verbo tipico della didattica e della catechetica sapienziale[50]. Il termine Torah potremmo, quindi, tradurlo con “Insegnamento”. Pertanto, l’espressione esortativa “imparate da me” non intende porre Gesù come modello di mitezza e di compassione misericordiosa da imitare, bensì come la Nuova Torah, cioè il Nuovo Insegnamento (da me) a cui conformare la propria vita (imparate). Gesù, dunque, è la Nuova Torah, il nuovo Insegnamento, che il Padre impartisce al suo popolo[51]. Un insegnamento che non è più basato sulla punizione e sul terrore di un “[…] Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano” (Es 20,5). Un Dio che, magari, perdona i peccati, “[…] ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 34,7). Un Dio che, certamente, è lento all’ira e grande nell’amore e che per questo perdona le ribellioni del suo popolo, ma, ancora una volta “non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Nm 14,18). La Torah antica, quella dei padri, contiene, dunque, sempre in sé una minaccia per i trasgressori. All’interno della Torah mosaica il rapporto con Dio non è filiale, ma pedagogico, mentre con la venuta di Gesù le cose cambiano radicalmente. Paolo nella sua lettera ai Galati analizza proprio questo passaggio dalla Torah a Gesù, in cui si sostituisce l’esecuzione dei precetti con la fede: “Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è per noi come un pedagogo[52] che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo” (Gal 3,23-25). È proprio ciò che intende dire Matteo con questa seconda parte del v.29 alla sua comunità di giudeocristiani. La Nuova Torah, infatti, è basata esclusivamente sulla misericordia compassionevole di Dio, che nel suo Figlio ha abbracciato definitivamente l’intera umanità (Gv 12,32) così che “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1).
c) “E troverete ristoro per le vostre anime. Infatti il mio giogo è dolce e il mio peso leggero”. Quest’ultima espressione (vv.29c-30) riprende il tema dei vv.28b-29b e li riformula da promessa in azione compiuta, conseguente alla decisione del nuovo credente di abbracciare in via definitiva l’annuncio del Regno. Infatti, l’espressione “io vi farò riposare” (v.28b) si traduce in “voi troverete ristoro” (v.29c); mentre il “prendete il mio giogo su di voi e imparate da me, poiché sono mite e umile di cuore” (v.29ab) si traduce in “il mio giogo è dolce e il mio peso leggero” (v.30). La scelta, dunque, di aderire alla nuova proposta di fede e di conformare (imparate) la propria vita ad essa introduce il nuovo credente nel riposo eterno di Dio fin da subito, poiché appaga pienamente la sua necessità di sentirsi accolto da Dio, sempre e comunque, indipendentemente dalle sue fragilità, senza più la minaccia di una condanna che lo escluda dall’Alleanza; senza più dover vivere un rapporto di ossessiva e irraggiungibile perfezione con Dio. La nuova fede, infatti, non si basa più su di un’esecuzione ossessionate e oppressiva di precetti, impossibili da praticare perfettamente per la fragilità umana, ma su di una sincera apertura della propria vita a Dio e da una accoglienza della sua proposta di salvezza nella propria vita, offerta all’uomo indipendentemente dal suo stato di peccatore (Mt 9,9-10). Cosa questa inconcepibile per il giudaismo, che relegava, invece, i pubblicani, le prostitute e i peccatori ai margini della società, escludendoli dal ciclo della salvezza (Mt 9,11;Lc 7,39). Il nuovo credente, pertanto, è già riconciliato con Dio, indipendentemente dalla sua fragilità, e su di lui non pesa più alcuna condanna, perché egli, in Cristo, è già stato ampiamente perdonato per sempre (Rm 8,1). La nuova proposta di salvezza, infatti, non si basa più sulle opere della legge, ma sull’adesione incondizionata a Cristo per mezzo della fede, indipendentemente dalla fragilità della propria vita[53]; una salvezza in cui il nuovo credente è già introdotto per mezzo di Cristo, anche se non ancora in modo pieno e definitivo (Gv 3,16.18). Per questo “il mio giogo è dolce e il mio peso leggero”. Matteo gioca qui sul contrasto dei termini (giogo dolce; peso leggero) per mettere in rilievo come la Nuova Torah promulgata da Gesù è totalmente esente dalla fitta rete di precetti, che rendono difficile e pregiudicano il rapporto del credente con il suo Dio e, quindi, la sua salvezza. Paolo, in tal proposito, afferma che la finalità della Legge non è quello di salvare l’uomo, ma di fargli conoscere il peccato e il suo stato di peccatore, incapace di un’auto-salvezza per la sua innata fragilità (Rm 7,7-25). Ma con Gesù la salvezza non è più legata alle pesanti opere della legge, aggravate da una ragnatela di precetti che imprigionavano l’uomo, togliendogli ogni speranza di salvezza, come per i peccatori; o chiudendolo nel suo orgoglioso sentirsi santo e perfetto per la propria pignolesca esecuzione di precetti (Lc 18,10-14), privi di valore poiché sono dottrine di uomini (Mt 15,9; Mc 7,7), come invece accadeva ai farisei. In Gesù c’è soltanto un perdono incondizionato e un’accoglienza piena e perfetta, indipendentemente dalle opere dell’uomo e dalla sua scrupolosa osservanza della Legge: “Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti;” (Rm 3.20-21). La Legge in Gesù è stata ricondotta nel suo alveo originale. La sua funzione era quella di interpellare l’uomo nel suo operare quotidiano per spingerlo a conformare il suo cuore alle esigenze di Dio. Ma l’intento originale fu tradito e la Legge divenne per l’uomo un opprimente strumento di potere umano, che lo ha di fatto schiavizzato impedendogli ogni slancio verso il suo Creatore. Gesù farà capire come la Legge è in funzione dell’uomo e non l’uomo in funzione della Legge (Mc 2,27). Sarà questo il tema del cap.12 1-14.
COMMENTO AL CAP. 12
La risposta ai dubbi e alle incertezze sul mistero di Gesù,
ma l’incredulità rimane invincibile
Premessa
Si è visto come il cap.11 è una sorta di introduzione al mistero di Gesù, che divide e crea incertezze tra la gente. In 11,2-6 il Battista si interroga se Gesù sia veramente il messia atteso; in 11,7-15, parlando della figura di Giovanni, lo si coglie in funzione di Gesù (v.10), sottolineando, quindi, la centralità di Gesù nel piano di salvezza, del quale Giovanni era solo un annunciatore (Gv 1,6-8); in 11,16-19 si evidenzia l’incoerenza e la contraddittorietà del comportamento della gente nei confronti sia di Gesù che di Giovanni; in 11,20-24 viene denunciata l’incredulità dei concittadini di Gesù, nonostante essi abbiano viste le sue opere portentose; in 11,25-27 si scopre la motivazione di tanta incertezza, incoerenza e incredulità: essa rientra in un preciso piano del Padre (Rm 11,7-26); in 11,28-30, infine, Gesù è presentato come la Nuova Torah, sgravata da una precettistica, frutto di elaborazioni umane, che andava ad appesantire l’osservanza stessa dei comandamenti, divenuta opprimente e impossibile da osservare. E sono proprio questi ultimi tre versetti che costituiscono l’aggancio con il cap. 12,1-14, presentando un nuovo approccio con le prescrizioni della Torah, nella fattispecie quelle riguardanti il sabato, che caratterizzava e caratterizza la religione ebraica. Ai Farisei, scandalizzati per il comportamento tenuto dai discepoli (vv.12,1-7) e da Gesù stesso (vv.12,10-14) in giorno di sabato, Gesù evidenzierà, con quattro diverse argomentazioni (vv.3-4; 5-6; 7; 11-12) la fragilità e l’inconsistenza delle loro critiche.
L’intero capitolo svilupperà una solida cristologia, che costituirà anche una risposta alle incertezze, ai dubbi, alle contraddizioni e all’incredulità emerse attorno alla figura di Gesù nel cap.11.
Il commento
vv. 1-8 il racconto si sviluppa secondo lo schema della diatriba:
a) Tesi: nel caso di necessità naturali, come la fame, il sabato può essere violato (v.1);
b) Antitesi: non è lecito fare questo di sabato (v.2);
c) Argomentazioni a favore della Tesi: vv. 3-7;
d) Sintesi o sentenza finale: Il figlio dell’uomo è signore del sabato (v.8).
Il v.1 è scandito in due parti: la prima (v.1a) presenta Gesù che attraversa un campo seminato a grano; nella seconda (v.1b) i discepoli, presi dalla fame, prendono delle spighe in giorno di sabato, le stropicciano nelle mani e incominciano a mangiare. Una scenetta agreste, idilliaca se non fosse per alcuni particolari, che ci introducono in quadro squisitamente teologico e dottrinale. Innanzitutto l’espressione “'En ™ke…nJ tù kairù” (En ekeíno tô kairô, In quel tempo) essa indica un tempo particolare, un tempo opportuno, propizio, un tempo giusto, apposito. La lingua greca ha due modi per indicare il termine tempo: “crÒnoj” (cronos), che parla di un tempo fisico come l’anno, il mese, il tempo che passa, il passato, il presente, il futuro, ecc.; e “kairÒj”, termine che ricorre 80 volte nel N.T. e il cui significato già conosciamo, e che nel linguaggio biblico indica il tempo di Dio, il tempo del compiersi della salvezza[54]. Il quadro temporale in cui si muove Gesù, pertanto, è quello propriamente divino, in cui si sta manifestando e realizzando il progetto salvifico di Dio (Rm 16,25-26; Ef 1,9-10; Eb 1,1-3). Il verbo che segue l’espressione “In quel tempo”, infatti, è posto al passivo (™poreÚqh, eporeútze), che nel linguaggio biblico indica l’intervento di Dio. Il passare di Gesù tra le messi, pertanto, non è frutto di un caso, ma si muove all’interno di un tempo stabilito dal Padre e secondo un suo preciso piano di salvezza, pensato fin dall’eternità (Ef 1,4), che si sta realizzando in Gesù. Questa è la cornice temporale ampia; ma ve n’è anche un’altra immediata ed è il giorno di sabato, un tempo sacro (Es 16,23; 20,10), che Dio riservò per se stesso e nel quale portò a termine la creazione (Gen 2,2-3). In questo frangente Gesù è mosso (™poreÚqh) dal Padre. Il muoversi di Gesù in un tempo stabilito da Dio ('En ™ke…nJ tù kairù) e nel giorno a Lui consacrato (to‹j s£bbasin, tois sabba sin, in sabato), in cui Egli, Dio, portò a termine l’opera creativa, dice come il muoversi di Gesù è il muoversi stesso del Padre[55] che nel giorno di sabato, cioè l’ultimo tempo della creazione, sta portando a termine, in Gesù, la sua opera di salvezza (Gv 17,4). Questo inquadramento della figura di Gesù servirà a Matteo per dare forza, da un lato, alle critiche mosse sul sabato da Gesù stesso; dall’altro per giustificare la sua sentenza finale (v.8), con la quale chiude questa prima diatriba sul sabato, che l’autore colloca in un tempo completamente nuovo, inaugurato da Gesù e, pertanto, anche la questione del sabato va rivista e gli stessi limiti imposti dalla Torah, superati.
Il muoversi di Gesù, infine, è posto da Matteo in mezzo alle messi (di¦ tîn spor…mwn, dià tôn sporímon, attraverso le messi). Il termine spÒrimoj (spórimos) indica un campo da seminarsi o un campo coltivato e, conseguentemente, messe. Il termine, quindi, si presta ad un uso ambivalente, un’ambivalenza che Matteo usa, da un lato, per creare il contesto narrativo, che giustifica la raccolta delle spighe da parte dei discepoli; dall’altro in senso metaforico, indica il luogo della missione stessa di Gesù, che, mosso dal Padre (™poreÚqh), passa tra la gente seminando la parola di Dio. Viene qui anticipata in qualche modo la parabola del sminatore, che troveremo in 13,3-8 e che fungerà da cornice introduttiva al terzo grande discorso di Gesù, riguardante la questione del Regno, cuore dell’intera opera matteana.
Il v.1b presenta la seconda parte della scena: i discepoli sono colti in un frangente di necessità tutta umana: hanno fame. Tutto quello che segue, lo strappare le spighe, lo stropicciarle nelle mani per farne uscire i chicchi e il mangiarli, è conseguenza di un principio naturale e vitale, che appartiene all’uomo e con lui ad ogni essere vivente. La questione, quindi, che qui Matteo pone, è di tipo generico e riguarda la liceità di comportamenti, legati alle naturali esigenze umane, e posti in essere in un giorno di sabato. La generalità della questione, che va ben al di là, quindi, del caso specifico, è indicata anche dallo stesso termine sabato, che in greco è posto al plurale (to‹j s£bbasin, tois sabba sin, letteralmente nei giorni di sabato). Quindi il caso per Matteo è paradigmatico.
Il v.2 introduce l’antitesi (oƒ dš, oi dé, ma), mossa dai tradizionali avversari di Gesù, i Farisei, scrupolosi osservanti della Legge: “Ecco, i tuoi discepoli fanno ciò che non è lecito fare in sabato”. Il termine sabato, qui, contrariamente al v.1a, è posto al singolare “™n sabb£tJ, en sabbáto” poiché i Farisei riconducono il comportamento dei discepoli di Gesù non ad un sabato qualsiasi, ma a quanto la Torah dice circa il sabato e la sua osservanza. La questione, quindi, per i Farisei è giuridicamente e dottrinalmente ben definita e inquadrata.
Il raccogliere dell’uva o delle spighe, passando attraverso una vigna o in mezzo alle messi era tutelato dalla Torah, che nella fattispecie prevedeva: “Se entri nella vigna del tuo prossimo, potrai mangiare uva, secondo il tuo appetito, a sazietà, ma non potrai metterne in alcun tuo recipiente. Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne spighe con la mano, ma non mettere la falce nella messe del tuo prossimo” (Dt 23,25-26). Tuttavia, in giorno di sabato, era proibito non solo qualsiasi tipo di lavoro[56], ma anche il preparasi del cibo (Es 16,23), che veniva, pertanto, cucinato il giorno prima. Vi era, infatti, anche il divieto di accendere il fuoco nelle proprie abitazioni in giorno di sabato (Es 35,3). La violazione dei discepoli era quindi duplice. Infatti, lo strappare le spighe e lo stropicciarle per ricavarne il grano era un’attività assimilabile alla trebbiatura[57]; mentre il fare tale attività per mangiare era considerato un preparare il cibo.
La risposta di Gesù si articola su tre livelli di argomentazioni:
a) La naturale esigenza della fame giustifica la violazione anche delle cose sacre (vv.3-4);
b) Il sabato non è un valore assoluto e inviolabile, poiché gli stessi sacerdoti lo violano impunemente nell’espletamento del culto (vv.5-6);
c) L’osservanza della Legge deve essere primariamente sottesa dalla comprensione e dalla misericordia (v.7).
La prima argomentazione chiama in causa un episodio riportato da 1Sam 21,2-7. Davide era in fuga da Saul, che accecato dall’invidia e dall’ira nei suoi confronti, cercava di ucciderlo. Davide, affamato, lui e i suoi compagni di ventura, chiese al sacerdote Achimelec di soccorrerlo. Questi non aveva che i pani sacri, riservati ai soli sacerdoti[58], ma considerata la contingenza, li dette a Davide e ai suoi compagni, che, entrati nel sacro spazio del tempio, li mangiarono. Il primo esempio riportato chiama in causa, attraverso un parallelismo, Gesù e i suoi discepoli. Vi è, infatti, una corrispondenza di elementi: Davide-Gesù, compagni-discepoli, “casa di Dio”-“tempo di Dio”[59] ed entrambi i gruppi convergono su di un unico problema: la fame, uno stimolo naturale finalizzato alla stessa sopravvivenza dell’uomo e, pertanto, da ricondursi a Dio stesso. La violazione del sacro viene giustificata da prioritarie esigenze della natura propria dell’uomo, privilegiando, in tal modo, l’uomo sulle stesse esigenze del sacro, che qui viene visto in funzione dell’uomo. Nella Legge naturale, infatti, vi è impressa la volontà del Creatore[60], che mira a condurre al suo fine ogni creatura. Qualsiasi altra Legge, sia pur essa di provenienza divina, non può mai essere posta in opposizione a quella naturale, poiché quest’ultima è finalizzata all’affermazione dell’uomo. Ogni Legge che viola la sacralità dell’uomo e quella dei suoi diritti naturali e, quindi, intrinseci alla sua stessa natura, decade dalla sua autorità impositiva e potestativa[61], poiché la Legge è per l’uomo e non l’uomo per la Legge (Mc 2,27). Ogni vera religione e ogni autentica religiosità hanno come obiettivo primario l’affermazione dell’uomo e del creato, nei quali si riflette l’impronta divina (Rm 1,20).
Con questa prima argomentazione il Gesù matteano sottolinea la primarietà dell’uomo nei confronti della Torah.
Se la prima argomentazione puntava a relativizzare il sabato affermando la primarietà delle esigenze della natura umana, questa seconda argomentazione relativizza il sabato attraverso la sacralità del stesso culto divino. Il divieto assoluto di produrre un qualsiasi lavoro in giorno di sabato[62] viene di fatto infranto da Leviti e Sacerdoti, che in tale giorno sono chiamati a compiere sacrifici e atti di culto a Dio[63] eppure mai nessuno ha pensato di dichiararli sacrileghi. L’azione cultuale, pertanto, supera gli stessi divieti circa il sabato.
L’esigenza di relativizzare il sabato, per quanto riguarda le sue ingerenze nei confronti dell’uomo, colto in rapporto con se stesso (vv.3-4) e in rapporto con il suo Dio (v.5), nasce dall’eccessiva invasività delle sue prescrizioni. Gesù, dunque, cerca di ricondurre il sabato al suo senso originale, poiché soltanto dalla riscoperta del significato di tale giorno si può arrivare ad una vera liberazione dell’uomo dalla schiavitù di una Legge opprimente, così che il sabato diventa liberante e arricchente.
Il fondamento teologico del sabato e il suo significato per Israele si radicano in due passi fondamentali della Torah: Es 20,8-11 e Dt 5,12-15[64]. Il primo passo riconduce l’origine del sabato al settimo giorno della creazione, nel quale Dio portò a compimento la sua opera creatrice e cessò ogni sua attività, lo benedisse e lo consacrò (Gen 2,2-3). In questa prospettiva, il sabato divenne lo spazio che Dio aveva riservato per se stesso (“consacrò”), sottraendolo alla disponibilità dell’uomo, al quale, invece, aveva riservato gli altri sei giorni. Tale spazio, fecondato dalla presenza divina (“benedì”) divenne il luogo della compiutezza, il giorno ultimo verso il quale l’umanità di ogni tempo è in cammino. Era il settimo[65] giorno, quello della pienezza, nel quale l’intera opera dell’uomo, imperfetta perché prodotta nello spazio di sei[66] giorni a lui riservato, trova il suo senso e il suo pieno compimento. In questa prospettiva il vivere e l’operare dell’uomo veniva collocato nella stessa dimensione divina, di cui il sabato era figura, e acquisiva, pertanto, una valenza squisitamente realizzante e salvifica. Il sabato, pertanto, divenne per il pio israelita il luogo in cui egli ritrovava il senso del suo vivere e del suo operare, la propria santificazione.
Il secondo passo (Dt 5,12-15) lega il sabato alla liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto. L’accento qui cade sulle attività quotidiane dell’uomo, alle quali egli è legato in virtù della sua condizione umana, sulla quale grava una pesante sentenza divina (Gen 3,16-19.23b). L’attività dell’uomo, quindi, è equiparata ad una sorta di schiavitù che il sabato interrompe temporaneamente, aprendo l’uomo alla speranza di un riscatto definitivo.
Il sabato, collocato entro questa cornice teologica, diventava il giorno del riscatto e della liberazione per il pio israelita, che veniva ricondotto negli stessi spazi di Dio, promessi e prefigurati nel sabato. Ma l’eccessiva attenzione dedicata alla lettera della Legge ha portato gli Scribi e i Farisei a trascurare e ad oscurare il senso più vero e genuino della prescrizione divina, riducendola ad un pesante fardello (Mt 23,4), che umiliava l’uomo, precludendogli la strada verso il suo Dio (Mt 15,14; 23,13), attraverso una pesante formulazione dottrinale, che Gesù non esita a definire “dottrine che sono precetti di uomini”[67].
La sentenza del v.6 (“Ma io vi dico che qui vi è ben più del tempio”) è posta a conclusione delle prime due argomentazioni e introduce un confronto tra il vecchio (vv.4.5) e il nuovo tempio (v.6), che viene visto vincente su quello antico (“vi è qui ben più”). Tale confronto costituisce il presupposto e la giustificazione per una radicale revisione sia del culto che della Torah, la quale definiva i tempi e le modalità di svolgimento del culto, incidendo, inoltre, profondamente sulla vita del popolo.
Il termine tempio o casa di Dio ricorre in tutti tre i versetti (vv.4.5.6) e li accomuna tra loro. Vi è, tuttavia, una sostanziale differenza: infatti, mentre l’espressione “casa di Dio” e “tempio” dei vv.4.5 sono riferiti all’A.T., poiché legati a Davide e al servizio sacerdotale in sabato, quello del v.6 è legato ad una realtà presente (“qui vi è”). Si viene a stabilire, pertanto, un confronto diretto tra due diversi templi: quello veterotestamentario (vv.4.5) e quello attuale (“vi è qui” v.6). Il confronto tra i due templi è accentuato, inoltre, dall’avverbio di moto a luogo “ïde” (ôde, qui), che indirizza e sospinge il primo tempio, quello antico, verso il secondo, in cui è significato Gesù stesso, così che il tempio veterotestamentario diventa prefigurazione di Gesù (Gv 2,21), nuovo tempio costruito non da mano d’uomo (Eb 8,1-2). Il confronto tra l’antico e il nuovo tempio, definito dal Gesù matteano come superiore a quello antico (“ben più di un tempio”), costituisce il fondamento sia per un radicale cambiamento del culto che per una nuova visione della stessa Torah, che alla luce di questo nuovo tempio non fatto da mani d’uomo, va reinterpretata e ricondotta al suo senso originale. Essa, infatti, contiene in se stessa delle realtà che sono soltanto un’ombra di quelle future (Eb 10,1), ma la realtà nuova, verso la quale l’antico converge e confluisce (“ïde”,ôde, qui) è Gesù stesso (Col 2,16-17), la cui presenza è percepita dalla nuova comunità credente come il nuovo tempio (Gv 2,19-21) e il nuovo luogo di culto a Dio[68]. Di conseguenza, i discepoli, che di questo nuovo tempio fanno parte e vi sono entrati in virtù della loro fede e della loro stessa sequela, sono configurati ai tempi nuovi, i quali sono sottratti agli antichi schemi della Torah; pertanto, i nuovi credenti non sono più soggetti alle osservanze antiche. Fuori luogo, di conseguenza, sono le critiche loro rivolte dai Farisei.
Il v.7 riporta la terza argomentazione, del tutto innovativa poiché non si rifà più alle prescrizioni della Torah, ma all’uomo, che a motivo della sua connaturata fragilità richiede un diverso approccio al mondo divino, che gli eviti la rigidità di una Legge appesantita da dottrine, che sono precetti di uomini (Mt 15,9) e pertanto estranei alle pretese divine: “Se conosceste che cos’è: compassione voglio, non sacrificio, non avreste condannato gli incolpevoli”. Il punto di partenza, pertanto, non è più la Torah, bensì l’uomo, da comprendere e da accogliere nella sua fragilità. Vi è, quindi, uno spostamento di prospettiva: si passa da un teocentrismo, incentrato sulla Torah, ad un antropocentrismo. Come dire che non è l’uomo in funzione di Dio, bensì Dio in funzione dell’uomo. Questa affermazione non deve scandalizzare, poiché tutta la storia della salvezza, dalla creazione fino alla venuta di Gesù e da qui alla fine dei tempi, quando la storia confluirà nell’eternità di Dio, è incentrata sull’uomo. Tutta la storia della salvezza è la storia di un dono divino fatto all’uomo e che ha il suo vertice nella venuta di Gesù: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Se non si parte da questa prospettiva antropocentrica, cioè l’uomo in funzione di se stesso e della propria affermazione, intese qui come piena realizzazione di sé, si rischia di coartarlo con leggi e regole che gli sono estranee. La natura umana non è divina, né è contraria od opposta a quella divina, ma soltanto diversa. Essa non deve essere regolamentata con norme divine, che la violenterebbero, ma umane; norme che l’aiutino e la sostengano nel suo cammino verso la sua piena realizzazione, che troverà la pienezza del suo compimento soltanto nell’eternità divina, così come la creazione trovò il suo compimento soltanto nel settimo giorno. La funzione di ogni teologia è sostanzialmente duplice: a) favorire la comprensione della rivelazione divina, che ha avuto il suo vertice in Gesù; b) aiutare l’uomo a scoprire da dove proviene, il senso del suo esistere e del suo destino e, di conseguenza, quale rapporto tutto ciò abbia nei confronti di Dio. Fornirlo, dunque, di una chiave di lettura teologica di se stesso e del proprio vivere. Tutto ciò non significa finalizzare l’uomo a Dio, ma fargli capire come Dio si è speso con tutto se stesso per lui e come lui sia al centro degli interessi divini. Questo non è indifferente per l’uomo, che è chiamato a dare una risposta esistenziale a tale interesse che Dio mostra nei suoi confronti. Le regole, illuminate dalla rivelazione divina, devono aiutare l’uomo nella comprensione di se stesso e sostenerlo nel suo naturale cammino verso Dio, dove troverà la risposta piena e definitiva di sé e di tutte le sue esigenze; dove troverà la pienezza di se stesso. Tale piena realizzazione dell’uomo decreta il successo di Dio, realizza i suoi sogni e le sue attese. In questa prospettiva antropocentrica ben si comprende allora l’affermazione del Gesù marciano, che vede il sabato in funzione dell’uomo e non viceversa (Mc 2,27).
Il rapporto con Dio e la risonanza che questo ha sul comportamento dell’uomo ha come fondamento primario la “compassione” (”Eleoj, éleos), che viene contrapposta allo stesso culto divino. Quest’ultimo, infatti, deve costituirsi come espressione del proprio atteggiamento interiore; o meglio, il proprio atteggiamento interiore deve trovare la sua manifestazione nel culto. Sia, comunque, in un caso che nell’altro è fondamentale che il culto si radichi nel cuore dell’uomo e da qui si esterni secondo la ritualità prescritta. Solo così la vita diviene una celebrazione liturgica gradita a Dio, un atto di culto gradito a Dio (Rm 12,1). Per contro, un culto che si svolga anche in modo perfetto secondo le prescrizioni liturgiche, ma non diventi celebrazione della vita e del cuore, è soltanto un’arida ritualità, che portò Gesù a lamentarsi di un popolo che lo onorava con le labbra, ma il suo cuore era ben lontano da lui (Mt 15,8; Mc 7,6).
Il termine compassione nei vangeli ricorre 31 volte e soltanto nei Sinottici e delinea quasi sempre l’atteggiamento di Gesù. I verbi o i sostantivi usati per descrivere tale atteggiamento in Gesù sono due: “œleoj, ™lešw” (éleos, eleéo) e “Splagcn…zomai” (Splancnízomai); il primo indica una compassione in senso generale e descrive un atteggiamento. È questo un sostantivo che meglio si addice a Dio; il secondo, invece, indica una compassione viscerale, che parte dalle profondità della persona stessa ed esprime un coinvolgimento emotivo, sentimentale molto profondo, una sorta di compartecipazione. Questo termine, invece, meglio si addice ad una compassione divina incarnata, poiché sente tutta la fragilità dell’uomo e se ne fa carico. Ed è, in genere, con quest’ultimo significato che Gesù si pone di fronte alle folle o agli ammalati, per esprime tutta la compartecipazione del Dio-Uomo alla triste sorte dell’umanità. Nel nostro caso, Mt 12,7, il termine usato è “œleoj” perché finalizzato a descrivere l’atteggiamento di fondo, che deve sempre e comunque animare la comprensione e l’interpretazione della Torah e di qualsiasi altra regola morale. Lo stesso Giacomo ricorda come “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2,13). Anche qui il sostantivo usato è “œleoj”. Tale espressione, pertanto, descrive un atteggiamento che rimanda direttamente a Dio e che Gesù sollecita a far riflettere e a far risplendere nella propria vita. In altri termini, sia l’interpretazione della Torah che la formulazione di regole morali devono sempre attuarsi dalla prospettiva di Dio, che è a tutto favore dell’uomo.
La sentenza del v.8 chiude questa prima diatriba sul sabato e sottolinea la signoria di Gesù, che rimanda direttamente a Dio: “Infatti, il figlio dell’uomo è signore del sabato”. La prima volta che compare il sabato nel grande racconto biblico è in Gen 2,2-3: “Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto”. Questa è la prima fondazione del sabato, definito come “settimo giorno”, il giorno della pienezza e della completezza, la cui importanza è data dal ripetersi quattro volte. Esso è il giorno oltre il quale non vi è più alcun tempo, poiché tutto il tempo è contenuto in questo settimo giorno. Tale spazio temporale è caratterizzato da tre elementi: a) è il luogo del compimento e della definitiva compiutezza; b) è il luogo reso fecondo dalla benedizione divina; c) è uno spazio temporale che Dio riservò per se stesso (“lo consacrò”). Queste tre caratteristiche fanno del sabato il luogo della signoria divina, uno spazio invalicabile per l’uomo e sul quale Dio ha stabilito la sua piena e inviolabile sovranità. La sentenza del v.8 colloca, pertanto, Gesù sullo stesso piano di Dio, indicando come in lui e con lui sia iniziata e portata a compimento una nuova creazione e come il suo tempo si costituisce come il nuovo settimo giorno, lo spazio escatologico in cui l’uomo è chiamato ad entrare. Le espressioni, infatti, “figlio dell’uomo” e “signore del sabato”, cioè del settimo giorno, ci conducono all’interno di un quadro apocalittico-escatologico, del quale Gesù è costituito il nuovo Signore. Con tale espressione Matteo intende ricondurre il sabato, divenuto monopolio dell’uomo, appesantito da dottrine umane, alla primordiale sovranità divina, che l’autore vede ristabilita in Gesù.
vv.9-15a lo scenario entro cui è stata collocata la prima diatriba (vv.1-8) favorisce i toni smorzati, quasi impercettibili, che spingono alla riflessione. L’ambiente è quello agreste, la scenetta idilliaca, la presenza degli avversari di Gesù è soltanto funzionale alla questione sul sabato ed essi non controbattono le argomentazioni di Gesù e scompaiono completamente dalla scena. Lo schema stesso del racconto è impostato su quello proprio della diatriba e si muove su di uno sfondo squisitamente magisteriale e dottrinale. Non c’è scontro, ma solo insegnamento. Matteo qui sembra più che altro preoccupato a fondare dottrinalmente una nuova visione del sabato, che gira attorno a Gesù, suo nuovo signore. Lo sfondo in cui si è mossa la prima diatriba è scolastico e la trattazione della questione sul sabato sistematica.
Il clima della seconda diatriba sul sabato (vv.9-15a) è completamente cambiato e il tempo volge decisamente al brutto. In questo secondo quadro prevale il pessimismo e la diatriba esce dai tranquilli schemi scolastici per farsi vero e proprio scontro violento. L’accento qui non è più posto sulla questione dottrinale, ma sull’inaccettabilità, da parte del giudaismo, delle novità portate da Gesù. Per Matteo, qui, la questione del sabato passa in secondo ordine e diviene occasione per presentare le cause prime che portarono alla persecuzione e alla morte Gesù. I segnali sono numerosi: nel v.9 Gesù si allontana dai Farisei, quasi abbandonandoli a loro stessi ed entra nella “loro sinagoga”. Quel “loro” dice tutto il senso del distacco da una realtà che la comunità matteana non sente più come sua. Il tono è polemico. Al v.10 lo scenario è molto simile a quello di un tribunale: compare il verbo “interrogare” (™phrèthsan, eperótesan, interrogarono); è lo stesso verbo che troviamo in 27,11 dove Gesù di fronte a Pilato viene interrogato (™phrèthsen). Gli intenti di tale interrogatorio, condotto dai Farisei, sono “per accusarlo”. Il v.14 è carico di minacce: i Farisei, dopo la risposta di Gesù, se ne vanno senza ribattere; è un silenzio minaccioso che contiene in sé una promessa di morte. Tengono, infatti, un consiglio tra loro “contro di lui” e “per farlo morire”. Lo stesso identico v.14b lo troviamo, dopo l’arresto di Gesù, in 27,1 dove “[…] tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire” e similmente in 26,59 dove “I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a morte;”. Il clima, quindi, è quello persecutorio e giudiziario, proprio di un tribunale, dove però non si fa giustizia, ma si emette solo un verdetto di condanna. E, infine, nel v.15a in cui “Gesù, saputolo, si allontanò di là”. Il verbo usato qui è “¢necèrhsen” (anecóresen). Prima di qui Matteo usa questo verbo soltanto altre 4 volte e tutte in situazioni di grave pericolo e di persecuzione. Le prime tre volte compaiono nei racconti dell’infanzia dove i magi, sapute le intenzioni omicide di Erode, fuggono di notte (2,12); in 2,14 dove Giuseppe fugge di notte in Egitto con Maria e il bambino; in 2,22, di ritorno dall’Egitto, Giuseppe si rifugia a Nazaret con la famiglia per timore della crudeltà di Archelao[69], succeduto nel frattempo a suo padre Erode il Grande; e, infine in 4,12, quando Gesù, saputo dell’arresto del Battista, fugge in Galilea. L’andarsene di Gesù, quindi, richiama qui le summenzionate situazioni di pericolo e di persecuzione. Si tratta, quindi, di una fuga da un pericolo imminente: le trame dei Farisei, che in un crescendo continuo porteranno alla cattura e alla condanna di Gesù.
Il v.9 narrativamente funge da transizione tra il precedente racconto a quello successivo. Vi è un cambio di scena: dai campi alla sinagoga. Cambia la cornice spaziale, ma anche il clima, come abbiamo visto. L’allontanarsi di Gesù dal luogo della prima diatriba dice l’abbandono del mondo giudaico, chiuso nelle sue sicurezze e indisponibile ad una nuova visione della Torah, simboleggiata qui nella questione sul sabato. Ma anche l’uso dell’aggettivo possessivo “la loro sinagoga” evidenzia, da un lato, tutta la grande distanza che intercorre tra il vecchio e il nuovo culto e, dall’altro, l’estraneità ad un mondo, quello giudaico, che non viene più sentito come il proprio. Il v.9, quindi, se da un lato chiude una scena, dall’altro ci introduce in qualche modo in una situazione che si preannuncia molto difficile e ad alta tensione, legata ad una visione completamente nuova e rivoluzionaria della Torah: al centro non ci sta più Dio, ma l’uomo. Inaccettabile per il giudaismo.
La terza argomentazione, con la quale si chiudeva la prima diatriba sul sabato, richiamava la priorità della compassione sul culto e sull’osservanza delle prescrizioni della stessa Torah, appesantite da precetti, che Gesù declassa a dottrine umane (Mt 15,9). Ora, in questa seconda diatriba, viene ripresa la questione della compassione per la triste condizione dell’uomo. Ancora una volta viene fatta prevalere sulle disposizioni della Torah l’attenzione verso l’uomo e le sue esigenze. Là (v.1) vi era un’esigenza dettata dalla natura (fame); qui (v.10) una sfortunata e drammatica condizione di vita (mano arida). L’oggetto principale delle attenzioni, quindi, è e rimane, comunque, in entrambi i casi, l’uomo.
Il v.10 introduce la questione con la sinteticità che caratterizza la narrazione matteana: da una parte c’è un uomo colpito da una paralisi ad una mano (v.10a), dall’altra la questione sulla liceità o meno di guarire in giorno di sabato (v.10b). Una questione che era molto dibattuta nelle scuole rabbiniche e sulla quale abbondava la casistica sul tipo di cure somministrabili in giorno di sabato. In linea di massima si ritenevano lecite le cure all’ammalato solo in caso di pericolo di vita. Il principio era sancito dallo Yoma VIII, 6: “Se uno ha male in gola gli si può mettere in bocca l’opportuna medicina in giorno di sabato, perché vi può essere pericolo di vita e per qualunque dubbio di pericolo di vita si può profanare il sabato”[70]. Manca in questa seconda diatriba una onestà intellettuale da parte dei Farisei, che non cercano la verità sulla questione del sabato, ma solo un’occasione per poter imbastire formalmente un atto di accusa contro Gesù. Non si tratta, quindi, di una vera e propria diatriba, ma di una sorta di processo che si instaura nei suoi confronti. Abbiamo visto, infatti, come i verbi “interrogare” e “accusare” collocano la diatriba in una cornice giudiziale, che preannuncia, in qualche modo, i tribunali del Sinedrio e di Pilato davanti ai quali Gesù sarà chiamato a rispondere del suo operato. Ma nel contempo la diatriba, collocata in questa cornice, fa comprendere come la motivazione di fondo della persecuzione in atto contro Gesù sia dovuta alla sua visione innovativa della Torah, che colloca l’uomo al centro della storia della salvezza e, di conseguenza, delle attenzioni religiose e cultuali. Una centralità e un’attenzione che sono evidenziate anche dal termine “¥nqrwpoj” (ántzropos), che in questa seconda diatriba ricorre quattro volte (vv.10.11.12.13).
I vv.11-12 riportano la risposta di Gesù, piuttosto singolare in quanto compare soltanto in Matteo. Marco e Luca (Mc 3,1-6; Lc 6,6-11), infatti, nel passo parallelo non citano nessun animale, mentre Luca in un analogo racconto, quello dell’idropico (Lc 14,1-6), seguirà Matteo, citando però un figlio e un bue. La risposta del Gesù matteano si rifà alla normativa rabbinica (‘eruv, mescolanza) che prevedeva una serie di casi, in cui si poteva violare l’osservanza sabbatica[71]: “Quale uomo vi è tra di voi, che ha una pecora e questa, qualora cadesse in una fossa in un giorno di sabato, non l’afferra e la tirerà su?”. È interessante soffermarci sul paragone (la pecora), che Matteo mette in bocca a Gesù, poiché questa piccola parabola della pecora caduta in un fosso e salvata dal pastore in un giorno di sabato, a nostro avviso, contiene in sé il senso stesso della missione di Gesù. Matteo, infatti, è l’unico tra i Sinottici che concepisce la missione di Gesù come rivolta alle pecore d’Israele[72]. La pecora caduta nel fosso richiama da vicino l’invettiva, tutta matteana, contro i farisei, che si lamentavano perché i discepoli di Gesù non osservavano le Tradizioni dei padri (Mt 15,2). In questo frangente Gesù li definisce come guide cieche, per cui “[…] quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!” (Mt 15,14b). In altri termini l’insegnamento dei Farisei, che con le loro dottrine avevano appesantito ed oscurato la Torah (Mt 15,3-9), avevano deviato i pii ebrei (Mt 23,13-15), impedendo loro di coglierne il vero senso, che li avrebbe aperti alla Verità e a dei corretti rapporti con Dio, con il prossimo e con se stessi. La caduta della pecora nel fosso dice proprio questo stallo religioso e spirituale in cui Israele era caduto. La parabola del fico, lussureggiante di foglie, ma privo di frutti (Mt 21,19), così come la parabola dei vignaioli perfidi (Mt 21,33-41) denunciano l’insensibilità religiosa e spirituale di Israele, che si prodigava in un culto e in un’osservanza della Torah appariscenti, ma privi di opere buone; una insensibilità che li rendeva sordi a qualsiasi richiamo (Mt 13,15; 15,8). Ebbene, Gesù era venuto proprio per rovesciare questa situazione di insensibilità religiosa e spirituale, che rendeva incapace Israele di relazionarsi correttamente al suo Dio e Dio di salvare il suo popolo. Il racconto della purificazione del Tempio, in cui Gesù rovesciò i banchi dei venditori e dei cambiavalute, richiamando la funzione essenziale e fondamentale del Tempio, dice proprio il senso della missione di Gesù: ricondurre il culto a Dio nella sincerità della vita, sfrondandolo da tutti gli orpelli che lo offuscavano e lo appesantivano e che Gesù definisce ironicamente come dottrine nate dalle fantasie dell’uomo (Mt 15,9); un culto nuovo, che non si radica né nel Tempio né nella Torah, ma nel cuore e nella vita stessa dell’uomo[73]. Questa la condizione spirituale di Israele (pecora caduta nel fosso), questo il senso della missione di Gesù (tirar fuori dal fossato la pecora) e il tempo in cui tutto ciò avviene è il sabato, cioè il tempo che Dio riservò a se stesso per portare a compimento la sua opera creatrice (Gen 2,2-3). Non a caso il Gesù marciano esordisce nella sua missione annunciando che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15), mentre Paolo gli fa eco nella sua lettera ai Galati: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge” (Gal 4,4) e similmente in Ef 1,10 e in Eb 9,26. L’operare di Gesù si colloca, dunque, nel tempo di Dio e la sua missione è quella di portare a compimento, a pienezza, l’opera di salvezza del Padre iniziata con Israele. Il Gesù matteano, infatti, precisa come egli non sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento e pienezza (Mt 5,17). Gesù, dunque, è il settimo giorno di una nuova creazione, in cui il Padre porta a compimento il suo progetto salvifico.
Riteniamo, pertanto, che in questo richiamo allo ‘eruv, che soltanto Matteo incentra sulla pecora caduta nel fosso e salvata dal pastore in giorno di sabato, non vi sia soltanto un paragone (pecora-uomo), che secondo le logiche rabbiniche si muove “a minore ad maius”, ma anche una allusione alla missione stessa di Gesù, venuto a ristabilire il culto nella sincerità del cuore. La questione del sabato, quindi, viene ricondotta nell’alveo più ampio e più complesso della missione rinnovatrice di Gesù, che, da un lato, si costituisce come la nuova chiave di lettura della Torah e, dall’altro, inaugura i nuovi tempi, quelli in cui Dio è ritornato in mezzo agli uomini e li invita ad entrare, attraverso il sacramento dell’amore, negli infiniti spazi divini, ponendosi, in Cristo, dalla parte di Dio.
Il v.12b conclude tutto il ragionamento sul sabato e ne costituisce il punto di forza in senso assoluto, poiché riporta l’intera questione, sfrondata dalle pesanti elucubrazioni dottrinali di merito, al suo senso più vero e profondo: “Così è lecito fare bene nel giorno di sabato”, che è giorno del Signore, spazio divino che l’uomo è chiamato a condividere. L’avverbio “bene”, (kalîj, kalôs, bene) qualifica il modo di operare, ne dice la natura e l’orientamento. Non si parla, dunque, della liceità di fare delle buone azioni in un giorno di sabato o di compiere del bene in un giorno di sabato, ma qualsiasi operare, supportato da un orientamento esistenziale volto al bene, cioè a Dio, e da questo qualificato e contraddistinto, è ammesso. Di conseguenza, qualsiasi “agire bene”, svolto di sabato, abilita l’uomo a compierlo, poiché tale orientamento esistenziale rivolto al Bene, cioè a Dio, è un agire sacro e santo e pertanto partecipe dell’agire stesso di Dio, di cui l’uomo è partner nella creazione fin dagli inizi. È proprio questo “bene operare” che diventa consacratorio e santificante, poiché in qualche modo riflette in sé l’operare di Dio stesso, collocando così l’uomo nel settimo giorno, che Dio ha riservato a se stesso, portando a compimento la creazione. Ma è proprio in questo “portare a compimento” la creazione che subentra il bene operare dell’uomo, che in questo bene operare prosegue il compimento dell’azione creatrice divina, decretato da Dio nel settimo giorno.
Tale termine (kalîj), infatti, compare quindici volte nell’intero racconto genesiaco della creazione (capp.1-3) dove qualifica l’operare di Dio, un’operare che troverà il suo completamento e la sua compiutezza soltanto nel settimo giorno (Gen 2,2-3). Con quel kalôs l’operare dell’uomo non solo viene assimilato a quello di Dio, ma lo configura a Lui (Gen 1,27). L’uomo infatti non solo è partner di Dio nella creazione (Gen 2,15) e con Lui condivide il potere su questa (Gen 1,26.29), ma è chiamato a portare a compimento la stessa opera creatrice di Dio, compimento che avviene soltanto nel settimo giorno. All’interno di questo spazio il “bene operare” è ciò che accomuna Dio e l’uomo e crea tra di loro una consonanza convergente nel “bene fare” (“kalîj poie‹n”, kalôs poieîn), che attrae l’uomo negli stessi spazi divini, prefigurati nel sabato. Per questo è lecito all’uomo operare bene in giorno di sabato, poiché questo suo operare è una sorta di prolungamento di quello divino, finalizzato a portare a compimento l’opera stessa di Dio, condividendone l’atto creativo. Ma vi è di più, con la venuta di Gesù il settimo giorno è diventato anche lo spazio dell’uomo; un uomo che da Gesù non è più chiamato servo, ma amico del Padrone di casa e con il quale condivide ogni suo segreto (Gv 15,15); un uomo che in Gesù è diventato concittadino dei santi e familiare stesso di Dio (Ef 2,19) e che porta Gesù ad esclamare: “[..] và dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.” (Gv 20,17). Tutto Gesù ha condiviso con l’uomo, anche lo spazio del settimo giorno, non più esclusivo di Dio, ma nuova dimensione dell’agire dell’uomo. Di fatto, a nostro avviso, il Gesù matteano con la sentenza del v.12,12b ha voluto non precisare ciò che si può fare o meno in giorno di sabato, ma lo ha voluto semplicemente abolire.
Il v.13 diventa la logica conseguenza della sentenza del v.12b, che getta una luce particolare sull’operare di Gesù, ma nel contempo dice in che cosa consista il bene operare e quale ne sia il significato. Vi è un comando (“Stendi la tua mano”), vi è un’obbedienza (“la stese”), vi è il risanamento (“la ristabilì sana come l’altra”). Sono i tre passaggi fondamentali che designano la storia della salvezza, che si riflettono in questo miracolo di guarigione. All’origine di tutto ci sta una volontà salvifica divina (il comando), che viene attuata nel Cristo e per Cristo (l’obbedienza) e che porta alla rigenerazione dell’uomo (il risanamento). Il rapporto Dio-Cristo-Salvezza costituisce la struttura portante e la dinamica stessa della salvezza, che si riflettono ed agiscono parallelamente sul rapporto Dio-uomo-salvezza. Tale rapporto, posto all’interno della stessa storia della salvezza, si traduce dinamicamente in Rivelazione-accettazione-rigenerazione. Nell’ambito di tale trittico vediamo come Cristo si pone come l’attuatore della volontà del Padre e, di conseguenza, tale attuazione si traduce in salvezza per l’uomo. Tuttavia ciò non è sufficiente perché l’uomo sia salvo: serve indispensabilmente la sua adesione esistenziale alla proposta salvifica del Padre, rivelatasi e attuatasi nel suo Cristo. Solo in tal modo il progetto del Padre trova il suo pieno e definitivo compimento. Soltanto in questo gioco di Volontà salvifica e di accettazione l’uomo viene rigenerato alla sua santità originale, quando egli era ancora immagine somigliante a Dio; quando tutta la creazione, incandescente di Dio, risplendeva della stessa luce divina in cui era stata posta e in cui era nata (Gen 1,3). Non a caso, infatti, Matteo sottolinea come quella mano rattrappita fu risanata come l’altra, cioè venne riportata nella stessa condizione di quella che fu sempre sana, ricostituendola nel suo stato di integrità originale. Questo miracolo di guarigione, come ogni altro di tale specie, dice la rigenerazione dell’uomo al suo primordiale stato di santità, la sua ricostituzione all’antico splendore divino, in cui si riflette anticipatamente l’azione propria della risurrezione.
I vv.14-15a chiudono le due diatribe del sabato e presentano due movimenti divergenti, che dicono l’inconciliabilità delle due contrapposte posizioni: quello dei Farisei che, andandosene di là, si allontanano di fatto da Gesù; e quello di Gesù che, a sua volta, si allontana da loro. Ma se l’allontanamento dei Farisei produce progetti di morte (“[…] contro di lui sul come farlo perire”), l’allontanamento di Gesù dalla morte (v.15a) produce sequela e salvezza (v.15b). Ma a ben guardare, morte, allontanamento dalla morte di Gesù, sequela, salvezza costituiscono i quattro elementi chiave su cui ruota il progetto salvifico del Padre. I progetti di morte dei Farisei preludono alla morte di Gesù; l’allontanamento di Gesù dal luogo di morte (“si allontanò di là”) allude alla sua risurrezione, che di fatto è un allontanamento dalla morte per dare spazio ad una vita nuova; da questa morte-risurrezione nasce la chiesa, discepola del suo Maestro (molte folle lo seguirono), e in essa si trova la rigenerazione alla vita stessa di Dio (“le guarì tutte”). Questi ultimi due versetti dicono i due diversi concetti di sabato: quello mosaico e farisaico, che asservono l’uomo a Dio così da schiavizzarlo; quello reinterpretato da Gesù, che diviene uno spazio divino liberante e accogliente, in cui l’uomo, vertice della creazione, trova il suo pieno e definitivo compimento. Due concetti e due visioni alla cui base stanno due diversi modi di intendere la salvezza: quello mosaico, che imponendo e sottoponendo l’uomo alla Legge lo rende di fatto pretenzioso davanti a Dio, in quanto che con l’osservare la Legge l’uomo acquisisce un diritto soggettivo alla salvezza in virtù della sua osservanza (Rm 2,17-20; 4,2-5); quello di Gesù, che indipendentemente dalla santità dell’uomo (Rm 5,8-10), gli dona la salvezza, introducendolo di fatto nella stessa dimensione divina (Col 1,12-14), e attende da lui una libera risposta di adesione esistenziale (Mc 1,15). Tutti in lui sono ampiamente perdonati (Rm 3,23-24; Col 2,11-14) e nessuno in lui trova più alcuna condanna (Rm 8,1), proprio perché la salvezza non dipende da sforzi umani (Rm 3,20), ma dall’Amore di Dio (Gv 3,16), che per sua natura è totalmente accogliente. Le regole opprimenti della Legge sono state sostituite dalle logiche della grazia e del dono della misericordia in Cristo (Rm 3,21-24).
Con queste due diatribe sul sabato l’autore ne ha dato una nuova visione: nella prima controversia la trattazione è, potremmo dire, sistematica e finalizzata a relativizzare il sabato di fronte alle esigenze naturali proprie dell’uomo; nella seconda diatriba Matteo inquadra la questione del sabato da un punto di vista teologico e dottrinale, ancorandolo a Cristo e ai nuovi tempi che egli ha inaugurato con la sua predicazione e con la sua morte e risurrezione.
vv. 15b-21 con questa pericope si entra ne cuore della questione: l’identità di Gesù. Il cap.11 si era aperto ponendo un interrogativo su Gesù: “Sei tu colui che viene o ne aspettiamo un altro?” (11,3). In altri termini: “Sei tu il messia atteso?”. A tale domanda Gesù aveva dato una prima risposta, rimandando al profeta Isaia (11,5). La risposta, benché affermativa, tuttavia nulla diceva sulla reale natura di Gesù e sul senso più vero e profondo della sua missione. A questo provvede, ora, la presente pericope, che riporta un secondo passo di Isaia, tratto dal primo canto del Servo di Jhwh[74]. La struttura della pericope si snoda in due parti: a) un’introduzione, che costituisce la cornice di mistero e di riservatezza entro la quale verrà collocata la rivelazione della vera natura di Gesù, affidata ai credenti (12,15b-17); b) il testo isaiano, 42,1-4, che Matteo applica alla persona di Gesù e alla sua missione, posta in relazione alle genti. La citazione di Isaia, qui riportata dall’evangelista, non corrisponde esattamente al testo della LXX, ma viene adattata dall’autore per proprie finalità redazionali e teologiche.
Al movimento di allontanamento di Gesù da quel luogo, dove si stavano formulando progetti di morte, che anticipavano in qualche modo il suo destino, corrisponde, nel v.15b, la sequela di molte folle, che Gesù guarisce. è singolare come l’autore non parli di ammalati presenti in mezzo alle folle, né si parla di richieste di guarigione da parte di qualcuno. Eppure l’evangelista sottolinea come Gesù le guarì tutte (“™qer£peusen aÙtoÝj p£ntaj”, etzerápeusen autùs pántas). Che cosa e chi, allora, guarisce Gesù? La motivazione risiede nel verbo “ºkoloÚqhsan” (ekolútzesan, seguirono). Tale verbo in greco non significa semplicemente seguire, ma parla di una sequela molto intensa: tener dietro, accompagnare, andare insieme, aderire, lasciarsi guidare e contiene in sé anche il senso di mettersi al servizio di qualcuno. Sono folle queste che hanno già compiuto una loro scelta di vita e alludono in qualche modo ai futuri credenti, postisi alla sequela del Risorto. Ed è proprio da questo tipo di sequela, la quale le coinvolge esistenzialmente, che le folle sono guarite. Non si tratta certo di una guarigione fisica, bensì spirituale; una guarigione che le apre al mistero divino presente in Gesù, riconosciuto e adorato come il messia, come l’inviato da Dio e lui stesso vero Dio. Ed è per questa loro comprensione della natura di Gesù e del senso della sua missione, che Gesù impone loro di non renderlo noto agli altri. Ciò che le folle qui non devono rendere noto non è tanto il fatto di essere state guarite, bensì la persona stessa di Gesù. Il pronome, infatti, è posto al genere maschile (aÙtÕn) e non al neutro (aÙtÒ), come andrebbe se si facesse riferimento al fatto dell’essere stati guariti. Tuttavia, non si tratta qui di un atteggiamento di umiltà da parte di Gesù, che non ama la pubblicità. Non ha senso questo, poiché se l’evangelista afferma che “molte folle lo seguirono” ciò significa che la notorietà di Gesù era ampiamente affermata e la sua persona aveva già sforato da tempo ogni indice di gradimento popolare. Il divieto, dunque, non riguarda la virtù dell’umiltà, bensì il mistero della persona stessa di Gesù, la cui sublimità spirituale e il senso della sua missione non sarebbero stati compresi da chi non era alla sua sequela (ºkoloÚqhsan). Il silenzio imposto alle folle sul mistero della natura di Gesù rispecchia in realtà una preoccupazione di Matteo, il quale non desidera che le sue comunità parlino apertamente dei misteri in cui esse sono introdotte, perché questi non siano denigrati, derisi e banalizzati dai non credenti[75]. Il silenzio imposto, quindi, è per salvaguardare la sacralità del mistero e del suo culto. Tale preoccupazione, infatti, riaffiora di tanto in tanto nel racconto matteano[76] ed è comprensibile se si pensa all’ambiente ostile in cui tali comunità vivevano[77].
Il v.17 si apre con una preposizione finale “†na” (ína, affinché), che è dipendente da un’azione precedente, finalizzata a realizzare qualche cosa. Tale azione, a nostro avviso, è data dall’espressione del v.15b: “E molte folle lo seguirono e le guarì tutte”. Infatti, Matteo vede nella grande sequela dei nuovi credenti, introdotti nel mistero della persona di Gesù, il realizzarsi della profezia di Isaia. Non a caso l’intera citazione isaiana è posta all’interno di un’inclusione data dalla parola “genti”, che dà un senso di universalità non solo alla persona di Gesù, ma alla sua stessa missione. Quindi è proprio questa guarigione di tutte le folle, che si sono poste alla sequela di Gesù, (v.15b) a realizzare la profezia di Isaia.
I vv.18-21 riportano, benché leggermente modificato da Matteo e adattato alla sua teologia[78], il primo cantico del Servo di Jhwh, tratto da Is 42,1-4. La pericope delinea sia il mistero della persona di Gesù che la sua missione. Il testo è scandito in quattro parti[79] ed è definito da una doppia inclusione, data dalle parole “diritto” (vv.18b e 20b) e “genti” (vv.18b e 21).
La prima parte (Mt 12,18a) delinea la dimensione spirituale e ontologica della persona di Gesù, che Matteo vede come il servo scelto dal Padre per compiere una missione (Gv 6,39-40). Gesù, dunque, è definito servo del Padre, cioè colui che ha messo a disposizione tutta la sua vita e tutto il proprio essere per la realizzazione della volontà del Padre e del suo progetto salvifico a tutto favore dell’uomo[80], così che Gesù è dono del Padre per l’uomo (Gv 3,16) e risposta ai suoi problemi. In che cosa consista l’essere servo e che cosa abbia comportato per Gesù il porsi a servizio del Padre, viene posto in rilievo dallo stupendo inno cristologico, che Paolo riporta nella sua Lettera ai Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso[81], assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,5-8). Questa totale dedizione al Padre e all’uomo fa sì che Gesù sia l’amato del Padre in cui Egli si è compiaciuto. Due qui sono i termini rilevanti, che definiscono la natura di Gesù e il rapporto che intercorre tra lui e il Padre: “Ð ¢gaphtÒj” (o agapetós, l’amato) e “eÙdÒkhsen” (eudókesen, si è compiaciuta). Gesù, dunque, è l’amato del Padre. L’amore, che definisce la stessa natura di Dio (1Gv 4,8.16), non è un sentimento o un’emozione, poiché Dio non ha corpo, bensì delinea un atteggiamento e un comportamento, che fa parte dell’essere stesso di Dio e che potremmo definire come la totale e reciproca apertura di Padre e Figlio; la totale e reciproca donazione di Padre e Figlio; la totale e reciproca accoglienza dell’amato in se stesso. Posto in questi termini vediamo come l’amore in Dio definisca una profonda compenetrazione del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, così che i due sono una cosa sola[82], pur nella perfetta distinzione delle persone e dei rispettivi ruoli, che fanno si che il Padre sia Padre e il Figlio sia Figlio. Chiarito il concetto di amore, quale relazione che intercorre tra il Padre e il Figlio, vediamo, ora, come Gesù sia, qui, l’oggetto dell’amore del Padre, in quanto è “l’amato”. Questo significa che il Padre si ritrova nel Figlio, poiché a lui si è totalmente donato e il Figlio è totalmente accolto nel Padre. Questo significa, infatti, il verbo eudókesen. Il compiacimento del Padre nei confronti del Figlio non dice la soddisfazione dell’uno nei confronti dell’altro, né tantomeno esprime l’orgoglio del Padre per cotanto Figlio. Il compiacimento del Padre, quindi, ben lungi dall’esprimere un sentimento, manifesta essenzialmente una realtà propria di Dio: il Padre si riflette nel Figlio e in lui si ritrova pienamente, poiché il Figlio è la perfetta attuazione del Padre[83]. L’atteggiamento di tale compiacimento nei confronti del Figlio è precisato anche dall’espressione “e„j Ön” (eis on, verso il quale). La particella eis in greco dice moto a luogo ed esprime l’atteggiamento dinamico e donativo del Padre nei confronti del Figlio, nel quale il Padre opera, così che Gesù diventa il luogo dell’azione del Padre. Ma il verbo eudókesen contiene in sé anche un significato decretativo, per cui il compiacersi significa anche “voglio, stabilisco, delibero”, dando un valore di comando a tale compiacimento. Non a caso, infatti, nel racconto sinottico della trasfigurazione[84] il Padre, indicando in Gesù il Figlio in cui si è compiaciuto, fa seguire la dichiarazione di compiacimento da un comando perentorio: ascoltatelo! (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35). L’imperatività posta sull’annuncio di Gesù, che in quel “ascoltatelo” viene qualificato come lo stesso Verbo del Padre, vincola l’uomo all’ascolto e ad una conseguente presa di posizione esistenziale (Mc 1,15). Nessuno di fronte all’annuncio può rimanere indifferente, poiché la stessa indifferenza è una risposta negativa (Ap 3,16). La venuta di Gesù, pertanto, diventa lo spartiacque dell’umanità (Mt 12,30; Lc 11,23) e stabilisce di fatto un giudizio, che si attua fin d’ora (Gv 3,16-18) e che viene posto, oggi, sull’uomo.
Ciò che garantisce l’uniformità e la conformità del Padre nel Figlio e di questi nel Padre, creando una dinamica relazione di amore vivificante, che si fa salvezza per l’uomo, è lo Spirito, che procede dal Padre (Gv 15,26), quello Spirito che il Padre ha posto su Gesù, perché l’azione di Gesù diventi santificante, forza redentrice e creatrice, che porta l’uomo alla pienezza della verità (Gv 16,13; 1Cor 2,12). Esso, infatti, è la potenza stessa di Dio che opera in mezzo agli uomini e che dà efficacia alla stessa azione di Gesù (Mt 12,28; Lc 11,20), qualificando e consacrando i suoi seguaci come appartenenti a Dio stesso (Rm 8,9.14; 1Gv 4,2). Lo Spirito di Dio è costantemente presente nella vita di Gesù fin dal suo nascere e tutta la sua vita ne è imbevuta e intessuta[85]. Nulla egli compie se non mosso dallo Spirito.
Questo breve e necessariamente sintetico quadro cristologico e trinitario ci fa comprendere come l’essere di Gesù e di conseguenza il suo agire sono squisitamente trinitari, poiché nel Figlio opera il Padre per mezzo dello Spirito; così che potremmo definire Gesù come il volto storico di Dio stesso, che è Padre, Figlio e Spirito Santo.
La seconda parte della pericope (Mt 12,18b) definisce la missione di Gesù: “il diritto annuncia alle genti”. Il termine greco kr…sij (krísis) ricorre in tutto il N.T. 46 volte, di queste 30 assumono una connotazione negativa di condanna, di castigo o di giudizio finalizzato alla condanna. In tutti i casi il termine ha un’accezione giuridica o a questa riconducibile. Il termine deriva dal verbo ”kr…nw” (kríno) che significa “distinguere, separare, scegliere, decidere, giudicare, far entrare in fase critica o decisiva, dichiarare, stimare, valutare”; di conseguenza il sostantivo derivante (krísis) assume significati necessariamente forti: “capacità e forza di distinzione e di separazione, contestazione, lotta, contesa, lite, esito finale, risoluzione, spiegazione, giudizio, diritto”. Il verbo che accompagna il termine “krísis” è “¢paggšllw”[86] (apanghéllo), che significa “portare la notizia, la risposta, far conoscere, scoprire, annunciare, avvisare, rivelare, narrare, esporre”. L’insieme di questi significati ci proietta in una prospettiva decisamente escatologica, in cui viene evidenziato l’ultimo appello, che Dio lancia all’uomo per mezzo del suo Cristo. La finalità, dunque, di questo servo di Jhwh non è quello di annunciare una sorta di pace messianica, che coinvolgerà l’intera umanità, facendola entrare in una specie di beatitudine di giustizia, bensì quello di ristabilire il diritto divino in mezzo alle genti. Tale diritto (krísis) contiene in sé anche elementi di discriminazione e di giudizio, poiché il suo ristabilimento in seno agli uomini comporta per questi il dover prendere posizione nei confronti di Gesù. Non va dimenticato, infatti, che in tutto l’A.T. il rapporto tra Jhwh e il suo popolo è regolamentato dall’Alleanza, che trova nella Torah lo strumento della sua attuazione. Tutto il diritto di Israele, infatti, è fondato sulla Torah o a questa riconducibile[87]. Tale diritto, nel tempo, ha subito continue rielaborazioni, interpretazioni, adattamenti alle sempre nuove esigenze sociali e religiose di Israele. Questo mastodontico lavoro interpretativo[88], durato secoli, ha portato ad appesantire notevolmente l’osservanza della Torah (Mt 23,4) e non di rado ad oscurarla, violandone di fatto gli intenti originali (Mt 15,9; 23,16-23) e impedendo un rapporto sincero con Jhwh (Mt 23,13). Il racconto della purificazione del Tempio, presente in tutti quattro gli evangelisti[89], dice proprio questo rovesciamento e rinnovamento del culto che Gesù è venuto a portare, liberandolo dalle pastoie di continue ed ossessive interpretazioni e appesantimenti legislativi, riconducendolo alla sincerità del cuore[90]. Un’azione di rinnovamento e di rigenerazione che in qualche modo era stata prefigurata da Ezechiele: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ez 11,19-20[91]).
La terza parte della pericope (12,19-20) illustra le modalità dell’attuazione di questa azione di rinnovamento che Gesù è venuto a portare in mezzo agli uomini: “Non contenderà, né griderà, né alcuno udrà nelle piazze la sua voce. La canna rotta non spezzerà e il lucignolo fumigante non spegnerà finché la vittoria uscirà nel diritto”. Contrariamente alle attese messianiche del popolo, che si prefigurava un messia regale e sacerdotale, conquistatore, dominatore e giustiziere (Mt 3,7-10), che doveva ricondurre Israele agli antichi splendori, Gesù si presentava in una veste del tutto dimessa e improntata alla compassione, alla misericordia e all’accoglienza del peccatore[92]. Tutti i verbi sono posti al negativo per sottolineare come la sua azione non punta a distruggere o a contrapporsi polemicamente, ma a salvare tutti indistintamente con quella bontà e quell’amore accoglienti che sono propri di Dio: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). Un atteggiamento del tutto inatteso e sconvolgente e tale che ne renderà difficile la comprensione non solo da parte della gente (Gv 12,37), ma anche da parte dei suoi discepoli, che non hanno mai smesso di dubitare di lui[93] fino a tradirlo[94].
La quarta parte della pericope (12,21) mette in evidenza gli effetti della missione: “E nel suo nome spereranno le genti”. Quando il deutero Isaia[95], esiliato con il suo popolo in terra babilonese (597-538 a.C.), scrisse il primo canto del Servo di Jhwh, stava pensando a Israele, alla sua elezione e alla sua missione tra le genti, in mezzo alle quali era stato disperso e presso le quali ora si trovava in esilio. Già in terra d’Egitto, infatti, Dio individuò e scelse il suo popolo attraverso il sangue dell’agnello (Es 12,7.13), lo condusse ai piedi del Sinai dove stabilì con lui un’Alleanza, lo consacrò a Sé, gli dette una sua nuova identità e gli assegnò una missione in mezzo alle genti: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Israele ebbe sempre il senso dell’universalità della propria missione e se la sua dispersione in mezzo alle genti era considerata una sorta di punizione per le sue infedeltà[96], ciò non gli impedì di ricomprendere tale dispersione come una sorta di missione, che gli era stata affidata da Jhwh, perché in mezzo alle nazioni straniere facesse conoscere il suo nome e la su Legge[97]. Matteo vede nella figura del popolo d’Israele, nella sua consacrazione a Dio e nella sua missione annunciatrice e mediatrice tra Dio e gli uomini la figura stessa di Gesù, l’ultimo resto fedele di Israele[98], in cui si sono compiute definitivamente le promesse che Dio fece ad Abramo: “Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2-3); mentre l’inno cristologico della lettera ai Filippesi esalta il nome di Gesù e la sua cosmica universalità: “Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,9-11). Proprio per questa universalità annunciata e promessa in Abramo, attuata in Israele, costituito proprietà di Dio, a Lui consacrato, reso santo con un sacerdozio di mediazione e chiamato, per mezzo della sua dispersione tra i popoli, a renderne testimonianza, proprio per tutto questo Matteo vede in Gesù il compiersi di tutte le promesse (5,17) e conseguentemente può pensare, quindi, che nel suo nome spereranno tutte le genti. In altri termini Gesù è colto come il punto terminale di un plurimillenario disegno di salvezza, che iniziatosi ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4), trova in lui la sua piena attuazione (Ef 1,9-10; Col 1,16); una centralità quella di Gesù che è cosmica e che in modo stupendo viene celebrata nell’inno cristologico della Lettera agli Efesini (Ef 1,3-14). Lo sperare nel nome di Gesù dice come Gesù sia il polo catalizzatore dell’intera umanità, che egli ha attratto a sé e ha inglobato in se stesso (Gv 12,32), cristificandola, ed evidenzia la forte tensione spirituale (questo dice lo sperare) che si è venuta a creare nei credenti e tale da orientarli esistenzialmente verso di lui per perdersi in lui.
vv. 22-37
Introduzione alla pericope 12,22-37
L’incontenibile vis polemica di Matteo esplode in questa seconda parte del cap.12, dall’impronta tutta redazionale, costruita ad hoc. Ne è prova l’ampio spazio dato ad un Gesù dilagante e sferzante, che, su un totale di 29 versetti (12,22-50), da solo ne occupa 26 contro i soli due dei Farisei (vv.24 e 38). Le figure dei farisei, infatti, sono del tutto irrilevanti e meramente funzionali alla polemica. In altri termini, da un punto di vista narrativo, fungono da stimolo scatenante e da polo catalizzatore delle ire di Gesù; ma è ben evidente che a Matteo non interessavano in questo frangente i Farisei, ma solo a dare delle risposte vigorose a delle dicerie diffamanti su Gesù[99]. La pericope è un impasto redazionale di numerose sentenze, sottese da una invadente polemica e a questa finalizzata.
Il contesto storico immediato, che ha prodotto le due pericopi (vv.22-37 e vv.38-45) di questa seconda parte del cap.12, è da ricercarsi nell’accusa che le autorità religiose muovevano a Gesù: quella di agire in nome e per conto del diavolo e, quindi, di essere lui stesso un indemoniato[100]. A questa questione darà risposta la prima pericope (12,22-37). La seconda pericope (12,38-45), invece, risponde ad un cruccio che tormentava non poco le autorità civili e religiose del popolo e che, in qualche modo, è legata alla prima questione: con quale autorità Gesù operava in quel modo e, di conseguenza, se qualche autorità ci fosse stata, quale segno concreto dava per giustificare il proprio comportamento blasfemo nei confronti della Legge e delle Tradizioni dei Padri[101]. Come giustificare, infatti, le sistematiche violazioni del sabato operate da Gesù e dai suoi seguaci[102]? Come giustificare le violazioni sulla legge della purità[103] e su quelle del digiuno[104]? Come giustificare le dure sferzate contro il sistema religioso e cultuale, che veniva sistematicamente demolito e del quale Gesù metteva in evidenza le contraddizioni e le incongruenze[105]? Come giustificare il continuo discredito che Gesù gettava pubblicamente su di loro[106]? Poteva un sedicente rabbi dal comportamento così blasfemo provenire da Dio (Gv 9,16)? Certamente no. Ma allora come giustificare i suoi miracoli così eclatanti, la sua autorevolezza e la sua autorità riconosciute pubblicamente dalla gente? C’era solo una risposta: Gesù è un indemoniato e con le sue magie seduce la gente e la trae in inganno[107]. Egli opera in nome e per conto di Satana. Un’accusa questa dalla logica stringente e che non era nuova, visto che Matteo l’aveva già ricordata in 10,25b: “Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!”. Gesù e i suoi discepoli, quindi, sono di stirpe satanica perché operano contro ogni regola religiosa, opponendosi alla stessa autorità mosaica.
La pericope in analisi (12,22-37) è strutturata in tre parti:
a) La cornice introduttiva: l’accusa: Gesù opera in nome e per conto di Satana (vv.22-24);
b) Il contradditorio: la difesa di Gesù si sviluppa su tre livelli tra loro strettamente concatenati: 1) dimostrazione dell’assurdità dell’accusa (vv.25-26); 2) viene denunciata la contraddittorietà dell’accusa (v.27); 3) la verità dell’operare di Gesù (vv.28-29);
c) Il contrattacco che Gesù porta è costituito dal giudizio che emette sulla durezza di cuore e sulla cecità dei farisei. Anche questa breve pericope (vv.30-37) è scandita in tre parti: 1) Gesù è il principio discriminante (v.30). Questo versetto mette in evidenza l’autorità di Gesù ed è finalizzato a dare autorevolezza a quanto segue; 2) la sentenza (vv.31-32); 3) il giudizio e le motivazioni della sentenza (vv.33-37).
Il commento alla pericope 12,22-37
I vv.22-24 costituiscono la parte narrativa dell’intera pericope e ne sono l’introduzione. Lo stile è tutto matteano: essenziale, preciso, chiaro, elegante e molto incisivo. Essi forniscono il contesto storico alla diatriba e sono funzionali a questa. Infatti, l’essenzialità scheletrica della narrazione (soltanto 3 versetti su 28, di cui è composta l’intera pericope), l’assenza di un contesto storico più preciso, il non soffermarsi sui personaggi e sulla dinamica della guarigione sono tutti segnali che portano a concludere come questo breve racconto di guarigione, solo appena accennato, è redazionale, creato appositamente per introdurre la diatriba, verso la quale, invece, deve volgersi l’attenzione del lettore.
La struttura della sintetica narrazione si sviluppa su tre livelli: a) il racconto della guarigione (v.22); b) la reazione positiva della gente, che riconosce Gesù con un titolo messianico, indicandone la vera natura (v.23); c) la reazione critica e negativa dei Farisei che vedono in Gesù un operatore di Satana, evidenziandone la natura perversa (v.24).
Il racconto è emblematico ed evidenzia come Gesù fosse una presenza inquietante, poiché si comportava in modo equivoco: da un lato, infatti, egli si rifaceva a Dio[108], ne rivendicava l’origine[109], lasciando intendere che lui stesso era Dio[110]; dall’altro, invece, violava sistematicamente le prescrizioni della Torah[111], che è l’espressione concreta della stessa volontà divina. Ciò doveva suscitare all’interno della società civile e religiosa di quel tempo sconcerto e divisioni. Lo stesso Giovanni evidenzia nel suo vangelo questa contrapposizione: “Allora alcuni dei farisei dicevano: "Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato". Altri dicevano: "Come può un peccatore compiere tali prodigi?". E c'era dissenso tra di loro” (Gv 9,16). Così, similmente, anche Luca, per bocca del vecchio Simeone, sottolinea la contrastante figura di Gesù, destinata a portare divisioni all’interno di Israele: “Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione” (Lc 2,34).
Strutturalmente il v.22 si snoda su tre momenti paralleli, al cui centro è posta l’azione salvifica e rigenerante della guarigione:
a) la presentazione di un indemoniato: cieco e muto
b) un accenno alla sua guarigione: lo guarì
c) gli effetti della guarigione: il muto parlava e vedeva
la contrapposizione di a) e c), che mette in rilievo la potenza liberatrice di Gesù, posta in b), è resa letterariamente con la forma chiasmica dei termini “cieco-muto” e “parlava-vedeva”
L’evento miracoloso, che trasforma un indemoniato, muto e cieco, in un uomo libero e capace di esprimersi liberamente, viene collocato in un contesto temporale imprecisato (In quel tempo). Proprio per l’indeterminatezza delle dimensioni spazio-temporali e della stessa identità dell’uomo (non si sa da dove venga, né chi sia), il racconto assume connotazioni paradigmatiche e metaforiche. Tra il prima e il dopo dell’indemoniato è posto un filtro redentivo (lo guarì) che ha per soggetto Gesù. Come dire che soltanto chi passa attraverso Gesù, accogliendone il messaggio, viene liberato dalla sua cecità che lo rendeva muto, incapace di dare la giusta risposta e la dovuta lode a Dio e di rapportarsi a Lui correttamente. Gesù, dunque, è la porta attraverso la quale passa la rigenerazione a nuova vita dell’uomo.
La struttura del breve racconto di guarigione nasconde in sé, tuttavia, una pesante accusa contro il mondo giudaico. Abbiamo detto, infatti, che l’indemoniato è muto e cieco e solo passando attraverso Gesù egli si trasforma in un uomo capace di cogliere la realtà divina presente in Gesù e di annunciarlo e di testimoniarlo con la propria vita. Come dire, viceversa, che chi non passa attraverso Gesù, rifiutandolo, rimane nella sua cecità e nella sua mutezza. Ebbene, Matteo nel proseguire il racconto mette in evidenza proprio questi due momenti: chi, accogliendo nella semplicità del proprio cuore il messaggio di Gesù, riesce a riconoscerne la natura del Messia davidico e ne dà testimonianza (v.23); chi, invece, intestardendosi sulle proprie posizioni, rifiutando in tal modo ogni accesso alla comprensione e non mettendosi, di conseguenza, in discussione, rimane cieco e muto, cioè incapace di cogliere le nuove realtà, che si stanno compiendo nella persona di Gesù (v.24). Gesù, quindi, viene presentato da Matteo come l’elemento discriminante tra il prima e il dopo e il luogo di passaggio obbligatorio per la rigenerazione della propria umanità e del proprio spirito. In altri termini, l’autore, ancora una volta, fa leva sulla propria vis polemica per stigmatizzare la chiusura dei capi dei Giudei e, in ultima analisi, li accusa di essere proprio loro quegli indemoniati muti e ciechi, di cui si sta parlando.
Il v.23 riporta la prima reazione delle folle. Due sono gli elementi rilevanti che la caratterizzano: lo stupore, che pervade la folle, e l’interrogativo che queste si pongono circa la vera natura di Gesù: “Non è questo il figlio di Davide?”. Il primo elemento, lo stupore, come la paura, lo sgomento, il tremore, ma anche la gioia e l’esultanza, qualifica la reazione dell’uomo di fronte all’irrompere del mondo divino in quello umano[112]. Le folle, pertanto, percepiscono nell’azione di Gesù una realtà superiore, una presenza divina che sta operando in mezzo a loro. Una reazione questa che accompagna spesso le azioni miracolose di Gesù[113]. Precisato questo primo elemento, ora diventa comprensibile anche la strana domanda che le folle si pongono: “Non è questo il Figlio di Davide?”. La domanda, infatti, presuppone che il titolo di Figlio di Davide, attribuito a Gesù, sia ormai un dato acquisito, per cui tutti sanno che Gesù è il Figlio di Davide, un titolo messianico[114]. Un titolo che compare spesso nell’ambito dei racconti di miracoli di guarigione[115] e con cui la gente si rivolge normalmente a Gesù. Quindi Gesù è pacificamente riconosciuto tra la gente come il Figlio di Davide, cioè il Messia (Mt 21,9.15). Ma se così è perché allora ha operato come Dio? Lo stupore, infatti, secondo il linguaggio biblico, dice come la gente abbia percepito nell’operare di Gesù l’agire stesso di Dio, rilevando in Gesù la presenza stessa di Dio. Di conseguenza, Gesù non è soltanto il Messia, l’inviato di Dio, ma egli stesso è Dio. Questo è il senso della domanda. C’è, quindi, nel rilevare lo stupore, un superamento della precedente comprensione di Gesù come Messia, che viene scoperto e ricompreso, ora, come il Dio che opera (Gv 14,10-11).
Precisato con il v.23 la vera natura di Gesù (egli è ben più di un messia, è Dio stesso), ora, con il v.24, viene rilevata la comprensione distorta che invece ne hanno i Farisei, quelli che Matteo sottilmente ed ironicamente assimila all’indemoniato cieco e muto, incapaci di comprendere e di cogliere la novità del messaggio e dell’operare di Gesù. Le considerazioni, che Matteo pone sulle labbra dei Farisei, hanno una duplice finalità: testimoniare la loro totale cecità nei confronti di Gesù e introdurre la questione sulla diceria, probabilmente molto diffusa tra gli avversari di Gesù, che egli fosse un indemoniato o, comunque, operasse in nome e per conto di satana. L’intento dell’autore, quindi, è apologetico e punta a controbattere l’accusa con il metodo della polemica e dell’ironia.
vv.25-29 Questi cinque versetti costituiscono la risposta alla diceria su Gesù. Si tratta di una serrata difesa, che si sviluppa in quattro parti, la cui finalità non è soltanto quella di aggredire e di demolire l’accusa infamante, ma dimostrare anche la vera natura di Gesù e il senso della sua attività di esorcista:
a) vv.25-26: dimostrazione dell’assurdità dell’accusa, che si sviluppa su due livelli. Questi richiamano da vicino la dinamica del sillogismo greco[116]: 1) l’affermazione di un principio indiscutibile, che non è neppure necessario dimostrare tanta è l’evidenza: tutto ciò che è interiormente diviso è instabile e destinato a perire; 2) l’applicazione del principio al regno di satana: se satana è contro se stesso il suo regno è parimenti destinato a perire.
b) v. 27: dimostrazione della contraddittorietà dell’accusa mossa a Gesù. Gesù non è il solo a compiere gli esorcismi, ma anche gli stessi discepoli dei Farisei sono esorcisti. È dunque opera demoniaca anche la loro?
c) v. 28: il vero autore dell’esorcismo: non satana, ma lo Spirito Santo che annuncia, proprio attraverso l’esorcismo, l’installarsi del Regno di Dio in mezzo agli uomini.
d) v. 29: che cos’è l’esorcismo: esso è un’azione di forza e una manifestazione di potenza divine liberatrici e liberanti, che annunciano e rivelano, da un lato, l’entrata di Dio nel mondo e l’instaurarsi del suo Regno; dall’altro il retrocedere di un satana sconfitto.
I vv.25-26 non sembrano abbisognare di particolari attenzioni esegetiche. Si tratta semplicemente di un dato di logica, atto a dimostrare l’assurdità dell’accusa. Tuttavia va rilevato, a nostro avviso, come tale dimostrazione contenga in se stessa un intrinseco annuncio di distruzione del regno di satana[117], racchiuso nella domanda finale: “[…]; come dunque sarà reso stabile il suo regno?”. C’è in questa domanda un’allusione all’instabilità del regno di satana, destinato a perire per la potenza di Dio in atto presso Gesù e che troverà di fatto conferma al v.29. Lo stesso Marco, infatti, nel riportare la medesima diatriba (Mc 3,22-27), da cui Matteo ha attinto la sua, afferma l’imminente distruzione del regno di satana: “Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire” (Mc 3,26). Pertanto, potremmo così riformulare la domanda di Mt 12,26b: in quale modo dunque sarà reso stabile il regno di satana ora che la potenza di Dio si sta muovendo in mezzo agli uomini? La risposta è affidata ai vv.28-29.
Se i vv.25-26 hanno dimostrato con un semplice sillogismo l’assurdità dell’accusa, il v.27 punta a dimostrarne la contraddittorietà. Nel mondo giudaico l’esorcismo era normalmente praticato[118] nel nome di Dio ed era riconosciuto ufficialmente dalle autorità religiose; anzi, si riteneva la pratica dell’esorcismo un segno di superiorità della religione ebraica[119]. Gli esorcisti giudei erano molto famosi nel mondo antico[120]. Matteo, qui, parla dei “figli” dei Farisei, cioè dei discepoli dei Farisei che praticavano l’esorcismo. Posto in questo contesto, ben si comprende come il cacciare i demoni non fosse un qualcosa di sorprendente o di blasfemo, poiché esercitato nel nome di Dio. Chiarito questo punto, si pone ora un confronto diretto tra Gesù è gli esorcisti, discepoli dei Farisei, che tende ad equiparare Gesù a questi ultimi. Anche qui viene applicato una sorta di sillogismo implicito:
a) Gesù caccia i demoni in nome di Beelzebul (v.24)
b) I discepoli dei farisei cacciano i demoni (v.27b)
c) Ergo, i discepoli dei farisei cacciano i demoni nel nome di Beelzebul
In altri termini, se è vero che, secondo l’accusa dei Farisei (v.24), Gesù esorcizza nel nome di Beelzebul allora è consequenziale che anche i discepoli dei Farisei caccino i demoni in nome di Beelzebul, considerato che entrambi esorcizzano. Se è accettabile questa tesi, allora saranno proprio i loro discepoli che si rivolteranno contro i propri maestri e li giudicheranno per la loro blasfemia[121] (v.27c). Nell’accusa, quindi, mossa a Gesù vi è una contraddizione in terminis.
Tuttavia il confronto non pone alla pari gli esorcisti giudei con Gesù. Infatti, se i primi usavano una loro ritualità, come l’imporre le mani, il leggere la Torah, il soffiare sull’indemoniato, l’invocare il nome di Jhwh o cose simili[122], benché il risultato non sempre fosse positivo (At 19,13-16), Gesù non usa se non la sua semplice parola, in modo conciso ed essenziale, dando semplicemente dei brevi comandi[123], che andavano sempre a buon fine, evidenziando in tal modo tutta l’invincibile potenza racchiusa nella sua parola.
Dopo le dimostrazioni di assurdità (vv.25-26) e di contraddizione (v.27) della tesi accusatoria, avanzata nei confronti di Gesù, i vv.28-29 puntano a rivelare la vera forza che anima la sua azione esorcistica: lo Spirito Santo. La dinamica dell’apologia dei vv.25-29, quindi, è demolire l’accusa attraverso due sillogismi dimostrativi, sgombrando il campo dagli equivoci, per concentrare l’attenzione sulla verità vera.
Il v.28 si contrappone al v.24: in quest’ultimo si evidenzia come Gesù attinga la sua potenza da Beelzebul; nell’altro si indica la vera forza che si muove in Gesù e lo muove: lo Spirito Santo. Beelzebul e Spirito Santo sono i veri contendenti che si muovono e si contrappongono all’interno della storia della salvezza. La contrapposizione, tuttavia, non è posta alla pari, poiché diversa è la natura dei contendenti: l’uno è creatura, l’altro il Creatore; il primo è il ribelle sconfitto (Lc 10,18), il secondo il Signore Dominatore, la cui indiscutibile supremazia è affermata fin da principio, quando ancora lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque (Gen 1,2b) e l’intera creazione fu posta nella luce di Dio (Gen 1,3). Ed è proprio questo primordiale e originario potere divino dominatore, che è presente ed opera in Gesù, quando egli cammina sulle acque (Mt 14,25-27) e comanda ai venti e placca il tumulto delle onde (Mt 8,26; Mc 4,39; Lc 8,24). È l’indiscutibile supremazia divina sulle forze del male, che spinge Gesù a dire ai suoi discepoli di non temere il mondo perché lui lo ha vinto (Gv 16,33) e con il mondo, regno del maligno fino alla venuta di Gesù (1Gv 5,19), ha vinto e cacciato fuori anche il maligno[124], sottomettendo ogni cosa a sé e se stesso al Padre (1Cor 15,25-27), perché tutto venga ricostituito e ricondotto, in Cristo e per Cristo (Ef 1,4.10), in seno al Padre, così come era nei primordi. Ma se Gesù è colui che attua la volontà del Padre, ciò che consente tale attuazione è lo Spirito Santo. Gesù, infatti, è originato dallo Spirito Santo (Mt 1,10) ed è nato per sua opera (1,18; Lc 1,35); ma ancor prima del suo nascere, l’azione dello Spirito già operava in preparazione e in vista della sua venuta (Lc 1,15.17). Poi, prima della sua missione, Gesù viene investito dallo Spirito di Dio[125], che opera in lui[126], e docilmente egli si lascia condurre dallo Spirito nel compimento della volontà del Padre[127], fondamento stesso dell’essere di Gesù e motivo del suo essere qui nella storia[128]. E al termine del suo cammino terreno restituisce lo Spirito al Padre (Lc 23,46; Gv 19,30b[129]), promettendolo ai suoi seguaci[130], perché nello Spirito progrediscano nella verità (Gv 16,13), ne siano testimoni e continuino nel tempo la sua opera[131].
Gesù, pertanto, può ben dire che se egli esorcizza per opera dello Spirito, questo è il segno inequivocabile che il Regno di Dio si è reso presente in mezzo agli uomini. Infatti, la guarigione dell’uomo perseguitato e afflitto da numerose malattie che, secondo la cultura del tempo, erano il segno della possessione del maligno, dice la rigenerazione dello stesso alla vita di Dio; una rigenerazione che Gesù opera attraverso la potenza dello Spirito Santo. Questi, presente in Gesù e per mezzo suo, anticipa nelle guarigioni l’azione rigenerante che Egli, lo Spirito, opererà su Gesù stesso nel momento della risurrezione, restituendolo alla vita del Padre (Rm 1,4; 8,11). La liberazione dell’uomo dal maligno e dalle malattie, quali espressioni del potere demoniaco sull’uomo, sono dunque il segno inequivocabile che Dio è tornato in mezzo agli uomini, aprendoli alla speranza (Mt 11,4-6; Lc 7,22). Gesù lega, dunque, l’avvento del Regno di Dio all’operare dello Spirito Santo, poiché ciò che caratterizza tale Regno è proprio lo Spirito stesso di Dio[132], quello Spirito che Dio effonderà negli ultimi tempi[133].
Il v.29 enuncia l’azione di forza che Gesù è venuto a compiere contro Satana, lasciando leggere tra le righe il senso e la durezza della missione di Gesù. Sullo sfondo di questo versetto traspare come in filigrana Is 49,25: “Eppure dice il Signore: Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno. Io avverserò i tuoi avversari; io salverò i tuoi figli”; mentre la durezza dello scontro e le modalità del riscatto operate da Gesù a favore dell’uomo risuonano in qualche modo in Is 53,7-12, tratto dal quarto carme del Servo di Jhwh: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Un movimento discendente e ascendente quello ricordato da Isaia nel quarto cantico del Servo di Jhwh[134], che richiama da vicino l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11) dove appare la rinuncia di Dio alle sue prerogative divine per assumere una natura di servo, facendosi obbediente fino alla morte di croce. Ma a fronte di tanto abbassamento e umiliazione corrisponde l’esaltazione di un nome che è al di sopra di ogni altro nome, di fronte al quale ogni essere vivente si inchina, asservito alla potenza del Risorto[135]. Incarnazione, morte e risurrezione sono, dunque, i tre pilastri su cui poggia l’intero impianto salvifico e attraverso i quali Dio ha condotto la sua dura lotta contro satana per il riscatto dell’uomo. Pertanto, l’accusa mossa a Gesù (v.24), la quale insinuava come egli fosse in combutta con il principe dei demoni e come egli operasse per suo conto e nel suo nome, è destituita di ogni fondamento. Nessun accordo con Satana, ma una lotta dura per la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del demonio; una lotta in cui Gesù è assimilato al ladro, che di prepotenza entra nella casa dell’uomo forte, il quale domina e spadroneggia il proprio habitat, ma viene reso inoffensivo da uno più forte di lui. Solo in tal modo il più forte potrà saccheggiare la casa e recuperare il bottino, del quale l’uomo forte si era indebitamente appropriato. L’azione di forza di Gesù, dunque, è finalizzata a recuperare l’uomo alla sua dimensione primordiale, restituendolo al Padre. Similmente alla piccola parabola del v.29, anche l’evangelista Giovanni dà la sua testimonianza sul significato della presenza di Gesù nel mondo e come questa segnasse la fine del regno di Satana, definito come il principe di questo mondo, ma che non ha alcun potere su Gesù (Gv 14,30), rivelando in tal modo la netta e indiscutibile superiorità di Gesù sulle forze del male, abbarbicate e compenetrate profondamente nel mondo; un principe che la venuta di Gesù ha sottoposto a giudizio (Gv 16,11) e ha iniziato a cacciare dal mondo (Gv 12,31). Un mondo che ora, per mezzo della morte e risurrezione, viene riconquistato da Gesù per essere restituito al Padre (1Cor 15,28). La lotta che Gesù è venuto ad ingaggiare con le forze del male è testimoniata, da un lato, dagli stessi indemoniati che gli rimproverano di essere venuto a cacciarli e a tormentarli anzitempo[136]; dall’altro, dalla sua stessa passione, morte e risurrezione. Furono proprio questi gli strumenti pensati dal Padre per cacciare Satana dal mondo, riconquistarlo a se stesso, ristabilendo la sua signoria sul creato in Cristo e per Cristo, morto-risorto[137].
vv.30-37: questi versetti costituiscono la terza parte della pericope in esame (12,22-37), che potremmo definire come il contrattacco che Gesù porta contro la pervicace incredulità del mondo giudaico e alludono al giudizio che è posto su di esso. Il contesto è quello propriamente escatologico. I vv.28-29, infatti, parlavano dell’avvento del Regno di Dio e come la liberazione degli indemoniati per opera potente dello Spirito Santo ne sia un segno inequivocabile. Si parla, quindi, di una lotta innescata da Dio contro Satana, la cui natura è escatologica, poiché annuncia che Dio si è mosso in prima persona nel suo Figlio: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12,31) e ciò è possibile “[…], perché il principe di questo mondo è stato giudicato” (Gv 16,11). Il v.30 si richiama proprio a questo contesto escatologico di lotta e di giudizio finale e presenta Gesù come l’elemento discriminante che divide i due campi in contesa tra loro: “Chi non è con me è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde”. La divisione è netta e spinge gli uomini a prendere posizione. Essi si trovano di fronte ad un aut aut, che richiede una scelta radicale, totalmente coinvolgente e senza mezze misure. Non c’è spazio per le incertezze, i dubbi e tantomeno per l’indifferenza, che in quanto tale colloca automaticamente l’uomo nella parte avversa a Dio: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). Tale radicalità, che spinge il credente a riorientare la propria vita verso Dio, svolge anche una funzione discriminante e, proprio per questo, di giudizio, un giudizio che si attua hinc et nunc. E benché il Padre abbia inviato suo Figlio non per giudicare o condannare il mondo, ma soltanto per salvarlo (Gv 3,17), tuttavia la mancata risposta dell’uomo alla proposta salvifica del Padre comporta, ipso facto, la condanna dell’uomo: “Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18). La venuta di Gesù, pertanto, è il punto discriminante tra Dio e il mondo e la sua presenza indica come il giudizio escatologico sia già incominciato nella sua persona, perché l’uomo, di fronte all’evento Gesù, è chiamato comunque, suo malgrado, a dare la sua risposta esistenziale. Da questa dipenderà la sua salvezza o meno (v.37).
I vv.31-32, nell’ambito del giudizio, che la venuta di Gesù ha portato inevitabilmente con sé, costituiscono la sentenza, la quale, implicitamente, contiene in se stessa anche la motivazione. Come è nello stile di Matteo, vi è l’enunciazione del principio generale (v.31), fatto seguire immediatamente dalla sua concreta applicazione (v.32).
Il v.31 si apre con l’espressione “Per questo” (Di¦ toàto, dià tûto) che aggancia i versetti in esame ai vv.22-30 e ne costituisce la conseguenza. Ciò che viene messo in discussione, e quindi sentenziato, è il comportamento tenuto di fronte all’operare di Gesù (vv.23-24). Tuttavia, la questione di fondo, che qui viene affrontata, non è esattamente l’operare di Gesù, benché questo ne sia la causa immediata, bensì ciò che sta dietro l’operare di Gesù e lo sostanzia: lo Spirito Santo, della cui vitale e insostituibile importanza nella vita di Gesù e nell’ambito della sua missione già si è accennato sopra nel commento al v.28.
L’enunciazione del principio lascia interdetti: tutto viene perdonato all’uomo, bestemmia compresa (kaˆ blasfhm…a, kaì blasfemía), che per sua natura va a colpire direttamente Dio in quanto tale, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà mai perdonata. Il verbo “¢feq»setai” (afetzésetai, sarà perdonato) è posto al futuro passivo. In quanto passivo esso chiama in causa direttamente Dio[138]; in quanto futuro indica sia il perdurare di tale sentenza nel tempo a venire, sia come questa faccia parte di un giudizio escatologico, che è già in atto. Quanto viene qui detto, pertanto, assume per l’uomo, già fin d’ora, una valenza molto pesante e determinante per la sua salvezza.
Per poter comprendere questa apparente assurdità è necessario contestualizzare la sentenza, mettendola in collegamento ai vv.24-30: si tratta, da un lato, dell’accusa di operare in nome di Beelzebul, rivolta a Gesù da parte dei Farisei, dimostrata assurda (vv.25-26) e contraddittoria (v.27); dall’altro, della dimostrazione di come l’operare di Gesù sia, invece, il segno rivelatore che Dio è tornato in mezzo agli uomini con la potenza del suo Spirito (v.28). Ora, è proprio questa pervicace incapacità di leggere l’operare di Gesù come l’operare dello Spirito di Dio in lui e, quindi, la persistente chiusura nei suoi confronti, che vanifica l’azione salvifica di Dio nei riguardi del popolo, rendendola inutile. Lo Spirito Santo, infatti, opera nelle stesse parole di Gesù, che Giovanni definisce come parole di Spirito e di Vita (Gv 3,63b); Esso è colui che insegna e aiuta a comprendere la verità portata da Gesù, conducendo l’uomo alla sua piena comprensione (Gv 14,26; 15,26; 16,13), per cui i veri adoratori di Dio lo adorano in Spirito e verità (Gv 4,23-24) e da questi saranno qualificati e sorretti nel loro cammino verso Dio (Rm 8,5b). La bestemmia a cui Matteo allude, quindi, non è tanto un epiteto offensivo rivolto a Dio, questo, infatti, è comunque perdonato (v31a); bensì si riferisce ad un atteggiamento e ad un orientamento esistenziali di chiusura e di rifiuto invincibili nei confronti dell’azione dello Spirito, l’unico capace di trasformare l’uomo, realizzando in lui la salvezza compiuta da Cristo e in lui rivelata. L’imperdonabilità, pertanto, della bestemmia contro lo Spirito Santo non dipende dalla grettezza vendicativa di Dio, bensì dal persistente rifiuto e dalla pervicace chiusura, a livello esistenziale, dell’uomo nei confronti di Gesù, manifestazione storica del Padre, in cui opera l’azione rigenerante dello Spirito, che fa si che le Parole di Gesù, ripiene di Spirito Santo e di Vita stessa di Dio (Gv 6,63b), operino la rigenerazione dell’uomo al mondo stesso di Dio. In altri termini, non Dio, ma l’uomo determina la sua stessa imperdonabilità, intesa come incapacità di accogliere il perdono di Dio, operante in Gesù per mezzo dello Spirito Santo (Gv 20,22-23).
Il v.32 segna il passaggio dalla teoria (v.31) alla pratica. La sentenza del v.31 viene ora applicata nella concretezza del caso: qualsiasi parola pronunciata contro “il figlio dell’uomo” è perdonata; non quella contro lo Spirito Santo. Questo secondo passaggio sembra venire in soccorso alla fragilità umana: si parla, infatti, di “figlio dell’uomo”, un’espressione che Gesù riferisce a se stesso e che qui non riteniamo abbia lo specifico significato di messia, ma semplicemente vuole definire l’umanità di Gesù, inserito in un determinato contesto storico-culturale; il Gesù che percorre le strade della Palestina annunciando il Regno di Dio e la necessità di convertirsi ad esso (Mt 4,17.23; Mc 3,14-15); un Gesù che spesso fu incompreso, tradito, abbandonato e messo in dubbio, fino alla fine dei suoi giorni terreni, dai suoi stessi amici e discepoli[139] e questo per la difficoltà di cogliere in lui la manifestazione e la rivelazione di Dio stesso, sia per la sublimità del concetto di Dio, che avevano gli ebrei, sia per il contesto storico e culturale condizionante la loro comprensione[140]. Tutto questo, tuttavia, non è determinante ai fini della salvezza, poiché il cogliere Dio nell’uomo Gesù era un passo arduo quanto impossibile prima della risurrezione[141]. Non è quindi la difficoltà di comprensione dell’uomo Gesù e il dubitare di lui che preclude alla salvezza, ma il rifiutarsi di andare oltre alle apparenze, il rifiutarsi di capire il suo messaggio eloquente, che si manifestava attraverso segni raggiungibili dall’uomo (Gv 20,30-31); il chiudersi in se stessi e nelle proprie sicurezze (Gv 7,5; 12,37); il non dar credito a chi è già stato illuminato (Gv 1,45-46; 20,25); è in ultima analisi questo atteggiamento di chiusura e di rifiuto che rende l’uomo irraggiungibile da Dio. Tale comportamento, che Matteo definisce bestemmia contro lo Spirito, rende l’uomo imperdonabile “in questo secolo e in quello venturo”. Tale espressione decreta la definitiva condanna dell’incredulo già nell’oggi (Gv 3,18), una condanna che si trasformerà in sua perdizione eterna. La sua perdizione, dunque, si origina già in questo secolo e si protrarrà anche in quello futuro dell’eternità, divenendo definitiva. Nell’aldilà, infatti, saremo pienamente e definitivamente ciò che siamo stati qui, nel nostro oggi.
La pesantezza della sentenza trova ora la sua giustificazione nei vv.33-37. Questa pericope è composta da cinque versetti paralleli e intrecciati tra loro, e si conclude con una sentenza finale riepilogativa (v.33). Per cui si avrà questa associazione:
A) vv.33 + v.35: “Se avete piantato l'albero buono, anche il suo frutto è buono; se avete piantato l'albero cattivo, anche il suo frutto è cattivo; infatti, dal frutto si riconosce l'albero” + “L'uomo buono dal buon tesoro trae fuori cose buone; e l'uomo malvagio dal tesoro malvagio trae fuori cose malvagie”. Le associazioni dei due versetti sono date, da un lato, dai termini “kalÕn” e “¢gaqÕj” (buono); “saprÕn” e “ponhrÕj” (cattivo, malvagio); “dšndron” e “¥nqrwpoj” (albero, metafora di uomo); dall’altro, dal senso logico-metaforico che lega i contenuti dei due versetti, per cui il v.33 presenta la metafora dell’albero buono e cattivo da cui escono i rispettivi frutti; mentre il v.35 riprende la metafora e la scioglie applicandola all’uomo. Vi è quindi affinità logica e contenutistica tra i due versetti, che vanno letti assieme.
B) vv.34 + 36: “Generazione di vipere, come potete dire cose buone, essendo malvagi? Infatti dalla pienezza del cuore parla la bocca” + “Ma io vi dico che ogni parola vacua che gli uomini diranno, daranno in contraccambio su questa un rendiconto nel giorno del giudizio”. L’associazione di questi due versetti è data, da un lato, dall’espressione finale del v.34 “parla la bocca” alla quale si richiamano e si agganciano le parole iniziali del v.36 “ogni parola vacua”, per cui il parlare della bocca si rivela una emissione di vacue parole; dall’altro, è costituito dal contenuto stesso: la malvagità dei Farisei che produce soltanto parole vacue, come vacua è l’accusa mossa a Gesù.
C) v.37: costituisce la sentenza finale, che riepiloga in se tutto il procedimento dimostrativo contenuto nei vv.33-36.
L’impianto logico-accusatorio dei vv.33-37 si snoda su tre livelli:
Il primo livello è formato dai vv.33+35, che fungono da impianto dell’accusa mossa ai Farisei: l’albero buono o l’albero cattivo lo si riconosce dai suoi frutti, che saranno conformi alla sua stessa natura. Il passaggio logico successivo, scioglie la metafora dell’albero e spiega come qui si stia parlando di uomini buoni e di uomini cattivi, i quali, similmente agli alberi, attingono alla loro natura (cuore), che può essere buona o malvagia; di conseguenza anche il loro manifestarsi sarà conforme alla propria natura. Questo primo livello vuole attirare l’attenzione sulla natura propria dell’albero-uomo ed evidenziare come i suoi frutti-azioni siano rivelativi di questa natura, in quanto ne sono manifestazioni proprie.
Il secondo livello è dato dai vv.34+36, che applicano le premesse dei vv.33+35. Ora, infatti, Matteo evidenzia come la natura dei farisei è malvagia (“essendo malvagi”), di conseguenza anche il loro manifestarsi non può essere che malvagio, poiché proprio a motivo della malvagità radicata profondamente nella loro natura (“dalla pienezza del cuore”) essi non possono produrre azioni buone. La logica è stringente, poiché, secondo una massima della Scolastica: “Nihil datur quod non habetur”, non si può dare ciò che non si ha. La conseguenza è (v.36) che anche il loro parlare riflette la malvagità di cui sono pregni, una malvagità che produce soltanto il vuoto (“parola vacua”), che nella cultura ebraica era considerato il regno del male. Ancora una volta Matteo sprigiona la sua vis polemica, lasciando intravvedere come il cuore di questi Farisei e di questi capi religiosi siano il vero regno di Beelzebul, rilanciando contro di loro, ma in termini peggiorativi, la stessa accusa che essi riversarono contro Gesù.
Il terzo livello è costituito dal v.37 che forma la sentenza finale ed è la logica conclusione delle due precedenti premesse (vv.33+35 e vv.34+36): “dalle tue argomentazioni sarai giustificato, e dalle tue argomentazioni sarai condannato”. In altri termini, poiché tutto ciò che l’uomo manifesta è rivelativo della sua vera natura, le sue stesse parole si ritorceranno pro o contro di lui. I due verbi giustificare e condannare sono posti al futuro passivo, che rimanda direttamente all’azione divina (verbi passivi) nel giorno stesso del giudizio (futuro). Ciò significa che già fin d’ora è in atto un giudizio che è posto sull’uomo e lo giudica e lo discrimina in virtù della risposta esistenziale, che egli dà alla proposta salvifica offerta e rivelata in Gesù.
vv.38-50 Questa pericope completa e conclude la lunga diatriba del cap.12 e mette definitivamente in chiaro i rapporti tra Gesù e i giudei, che vengono stigmatizzati come una “generazione perversa e adultera” (v.39), pervasa interamente da una potenza demoniaca, che la rende cieca e incapace di aprirsi ai nuovi eventi, che si stanno inaugurando nella persona di Gesù (vv.43-45); mentre ad essi vengono contrapposti i seguaci di Gesù, considerati come la sua vera e autentica famiglia (vv.46-50). Già da questi brevi cenni introduttivi si comprende come questa pericope si sviluppa su tre livelli tra loro strettamente concatenati:
A) vv.38-42: Questo primo livello si sviluppa, a sua volta, in due parti: la prima (vv.38-40) introduce la richiesta di un segno che giustifichi le pretese di Gesù; dalla richiesta scaturirà una nuova diatriba che porrà Scribi e Farisei su banco degli imputati. La seconda (vv.41-42) riporta la diatriba in un contesto di giudizio finale.
B) vv.43-45: a motivo della persistente e invincibile cecità, che impedisce ad Israele di cogliere i nuovi eventi manifestatisi in Gesù, precludendogli ogni possibilità di salvezza, il popolo è paragonato ad una dimora demoniaca, ricaduta nelle mani dell’antico padrone: satana.
C) vv.46-50: Con questo terzo livello si chiude definitivamente la lunga e amara polemica, che accompagna la missione di Gesù e la sua persona, e si apre una nuova prospettiva chiarificatrice: la vera famiglia di Gesù, che si contrappone ad Israele, sono i suoi discepoli. Tuttavia, anche questa terza parte è segnata da un velo di tristezza: la madre di Gesù e i suoi fratelli cercano un contatto con lui, ma non all’interno del gruppo dei seguaci, ma “stando di fuori”, per cui essi non fanno parte del gruppo, che Gesù indica come la sua vera famiglia.
Il v.38 introduce l’ultima diatriba del cap.12 e, con l’avverbio di tempo “TÒte” (allora) e il verbo “gli risposero” (¢pekr…qhsan aÙtù, apekrítzesan autô), aggancia questa alla precedente diatriba (vv.22-37), dandole in tal modo una sorta di continuità logica. Compare qui, per la prima volta nel cap.12, la figura degli scribi[142] accanto a quella dei farisei. Lo scriba era un esperto della Legge e in quanto tale esercitava anche funzioni giudiziarie. La sua presenza, qui, dice il peso della domanda posta a Gesù e le possibili gravi conseguenze della sua risposta, che poteva ritorcersi contro di lui, aprendogli le porte del tribunale[143]. La questione posta, quindi, era insidiosa e puntava, da un lato, a spingere Gesù a chiarire la sua posizione, dall’altro, a tendergli un tranello; per questo nel v.39 Gesù userà parole dure, per la doppiezza e l’insincerità dei suoi avversari. A Gesù viene chiesto un segno, un qualcosa che dia certezza alla sua identità. In altre parole, vengono chieste le sue credenziali. La richiesta di un segno se da un lato dice la ricerca di una certezza, dall’altro rivela tutta la diffidenza e l’insofferenza per un personaggio molto equivoco e dal comportamento spesso inaccettabile e lesivo della stessa Torah[144]. Il segno, dunque, doveva essere una sorta di giustificazione del suo modo di operare; un segno che rivelasse e rimandasse alla verità della sua persona. Ma quella del chiedere dei segni doveva anche essere una particolare conformazione mentale propria dell’ebreo se, lo stesso Paolo, si lamenta del fatto: “E mentre i Giudei chiedono dei segni e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,22-23). La richiesta di segni, pertanto, è rivelativa dell’insussistenza della fede. Il vangelo di Giovanni, infatti, ne dà buona testimonianza. Egli riporta nel suo racconto soltanto sette segni[145], benché in 20,30 precisi che Gesù ne fece molti altri, rivelatisi, tuttavia, del tutto insufficienti a smuovere la fede dei Giudei; così che, nel chiudere il racconto dell’attività pubblica di Gesù, commenterà amaramente: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37). Non è il segno, dunque, che dà certezza alla fede, né tantomeno questa nasce dal segno, ma da un’adesione incondizionata a Gesù e alla sua Parola. La fede, ben lungi dall’essere la conclusione di un bel ragionamento, comporta un salto di qualità esistenziale, ragionevole, ma che supera la stessa ragione e si origina da Dio stesso, costituendosi un suo dono. Geremia rivolto a Jhwh chiedeva: “[…]. Fammi tornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore mio Dio” (Ger 31,18). Ogni ritorno dell’uomo a Dio, così come ogni sua apertura nei suoi confronti è dono di grazia, che trova la sua origine in Dio stesso.
I vv.39-42 riportano la risposta di Gesù, che si articola in tre movimenti:
a) v.39: Gesù indica il segno chiamando in causa il profeta Giona;
b) v.40: viene spiegato in che cosa consiste questo segno e in quale modo Gesù si agganci a Giona;
c) vv.41-42: si chiamano in causa due figure veterotestamentarie, Giona e Salomone, destinate ad evidenziare tutta la superiorità di Gesù: “qui, più di Giona”; “qui, più di Salomone”.
Il v.39 introduce la risposta di Gesù che definisce i suoi interlocutori come una “generazione malvagia e adultera”; un’espressione che Matteo riferisce agli Scribi e ai Farisei non a caso. Innanzitutto li definisce “generazione”, cioè figli, discendenti dei loro padri. Ma sono proprio questi loro padri, che Jhwh aveva definito ripetutamente come “generazione malvagia” perché continuamente mormoravano contro di Lui (Nm 14,27), cioè si ribellavano e lo contestavano, e si riunivano non per incontrare il Signore, ma per andargli contro (Nm 14,35). Su questa generazione perversa Jhwh emise la sua sentenza: “Nessuno degli uomini di questa malvagia generazione vedrà il buon paese che ho giurato di dare ai vostri padri” (Nm 14,35b; Dt 1,35). Un popolo malvagio perché non solo si rivolta contro il suo Dio, ma neppure ascolta la sua parola, chiudendosi nella durezza del suo cuore (Ger 13,10; 16,12). Tale generazione viene definita anche adultera, cioè discendenti e appartenenti ad una generazione di adulteri. I profeti, infatti, concepivano il rapporto tra Jhwh e il suo popolo come una rapporto sponsale: Jhwh era lo sposo, Israele la sposa[146]. Sennonché Israele spesso inquinava e adulterava la sua fede e la sua religione e, quindi, il suo rapporto con Jhwh, con culti a divinità pagane, che mutuava dai popoli limitrofi. Questo comportamento dissacratorio era vissuto e stigmatizzato dai profeti come una prostituzione e un adulterio nei confronti di Jhwh[147]. In altri termini, il popolo con questi suoi comportamenti tradiva l’Alleanza. Di fronte al Gesù matteano si pongono ora gli Scribi e i Farisei, che per il loro comportamento, si qualificano come i degni discendenti dei loro padri, dai quali hanno ereditato la loro stessa condotta perversa (Mt 23,30-32). Sono malvagi perché si sono chiusi di fronte all’evento divino Gesù e si rifiutano di coglierne il messaggio, impedendo anche ad altri di accedere alla novità del Cristo[148]; ma sono anche degli adulteri perché con il loro comportamento hanno tradito la purezza della Torah, sostituendo i precetti divini con dottrine di uomini e trasformando la Torah in un semplice strumento di potere umano[149].
Nonostante la loro ottusità e la loro pervicace incredulità di fronte al manifestarsi del divino con segni (Gv 12,37), Gesù indica in Giona il segno per eccellenza, la prova della sua provenienza divina. Il motivo della scelta di questo profeta, vissuto nell’ VIII sec. a.C., ai tempi del re Geroboamo II, re d’Israele (787-747 a.C.), viene spiegato nel successivo v.40. Giona venne comandato dal Signore a predicare la conversione alla città di Ninive, ma egli si rifiutò e fuggì in nave verso Tarsis, la parte opposta a dove doveva andare. Sorse una tempesta a causa sua, così che l’equipaggio gettò il profeta in mare, che subito si placò. Un grande pesce inghiottì Giona, che rimase nel suo ventre tre giorni e tre notti, finché non fu rigettato sulla spiaggia, da dove si diresse verso Ninive. Qui, per quaranta giorni, predicò la penitenza ai niniviti, che si convertirono, così che la città fu risparmiata dalle ire divine (Gn 1-4).
Il v.40 spiega il senso del segno di Giona ed è strettamente agganciato al successivo v.41. Il versetto si apre con la particella “ésper” (ósper, come), che ha il suo corrispondente in “oÛtwj” (útos, così). Si forma in tal modo un paragone, in cui l’esperienza di Giona costituisce il parametro di confronto con quella di Gesù. Il confronto ruota attorno a due elementi essenziali, il primo esplicito, i tre giorni, che formano il tema principale; il secondo implicito, ma reso più evidente nel successivo v.41, il richiamo alla conversione. In questo caso Giona è preso come figura di Gesù; e come il profeta fu un segno divino per i niniviti e per la loro conversione, così lo è Gesù per i giudei (Lc 11,30). Benché, quindi, Matteo accentri l’attenzione sui tre giorni, che nel linguaggio biblico alludono ad una breve prova a cui fa seguito la liberazione[150], tuttavia lascia intendere come il discorso sia più ampio. La prova subita da Giona è, pertanto, figura di quella che dovrà subire Gesù e allude, quindi, al suo doloroso destino di morte, a cui seguirà il ritorno alla luce, come lo fu per Giona, rigettato sulla spiaggia.
I vv.41-42 sono strettamente legati al v.40 e ne costituiscono una sorta di sviluppo, finalizzato ad approfondire la figura stessa di Gesù, ma nel contempo profilano anche il destino del popolo. Essi sono formati da due sentenze costruite in parallelo tra loro ed hanno come tema di fondo il giudizio, che viene posto contro gli increduli giudei. Gli attori sono, da un lato, Giona e i niniviti; dall’altro la regina di Saba e Salomone e hanno come unico vertice convergente Gesù. Matteo, quindi, prende delle figure veterotestamentarie e le fa convergere tutte su Gesù, percepito dall’autore come il compimento delle Scritture e di ogni attesa (Mt 5,17). In Gesù, quindi, vi è ben più di Giona e ben più di Salomone, poiché se questi personaggi veterotestamentarii sono stati colti in qualche modo dall’autore come prefigurazione di Gesù, quest’ultimo è l’attuazione di quanto prefigurato. Giona prefigura, infatti, Gesù non solo nella sua morte e risurrezione, ma anche nel richiamo alla conversione, che mosse Gesù per le strade della Palestina[151]; mentre Salomone nella sua sapienza, dono divino, è prefigurazione di un’altra Sapienza, anche questa dono divino dato agli uomini[152]. Sia Giona che Salomone sono qui colti in relazione con il mondo pagano (niniviti e la Regina di Saba), che ha riconosciuto in loro una presenza divina e le hanno reso onore e l’hanno accolta con stupore nella loro vita. Al contrario, i giudei pur avendo in mezzo a loro non una prefigurazione, ma la stessa realtà prefigurata, si ostinano nella loro incredulità (Gv 1,11), che è tale da provocare la stessa meraviglia di Gesù (Mc 6,6). La conversione dei popoli pagani al Dio di Israele sarà per i Giudei motivo di maggior condanna, poiché questi popoli hanno saputo leggere nei profeti di Israele e in Salomone l’opera di Dio. La stessa sorte ora tocca a Gesù, sapienza del Padre e suo rivelatore; per questo con durezza il Gesù matteano sentenzierà contro il popolo: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43).
vv.43-45: questa pericope giunge inattesa e sembra quasi forzosamente inserita nel contesto dei vv.38-50. Molto probabilmente questa breve parabola circolava tra le comunità cristiane in modo autonomo e con finalità parenetiche[153]. Doveva essere una sorta di ammonimento rivolto ai credenti che, liberati da satana attraverso la loro scelta di fede e per mezzo del battesimo, potevano rischiare delle ricadute rovinose. Matteo, invece, estrapolandola dal suo contesto naturale, la riferisce ai Giudei. L’incredulità d’Israele, infatti, e la sua impermeabile chiusura a qualsiasi annuncio di salvezza, provoca nuovamente l’indignazione dell’evangelista. Questi, memore delle accuse mosse a Gesù di essere un indemoniato[154] e un collaboratore di Beelzebul[155], non sa resistere ad una nuova polemica, con la quale chiude le diatribe del cap.12, e presenta la condizione spirituale di Israele conseguente il suo rifiuto: Israele è divenuto una stabile dimora di demoni, privo di ogni prospettiva di salvezza[156].
La breve pericope è composta da tre passaggi:
a) lo spirito immondo, cacciato dal posseduto, vaga per luoghi aridi in cerca di pace, che non trova (v.43);
b) si ripropone di riconquistare la persona liberata; ma la bellezza e l’ordine che la caratterizza come una nuova creazione, gli impedisce di compiere lo scempio (v.44);
c) con rinnovata forza, potenziata da una maggiore cattiveria e aggressività (sette spiriti), entra di prepotenza nel poveretto, portando una devastazione maggiore della precedente (v.45).
è la breve metafora della storia del popolo d’Israele:
a) Israele, schiavo del faraone, privato della libertà di culto, viene eletto per mezzo del sangue dell’agnello e liberato dalla schiavitù, dopo una dura lotta con il faraone. Uscito dall’Egitto, inizia attraverso il deserto un cammino di liberazione e di maturazione spirituale. Giunto ai piedi del Sinai riceve dai Jhwh una nuova identità e una missione; stabilisce un’Alleanza con il suo Dio. Sarà proprio questa esperienza del passaggio dalla schiavitù egiziana alla Terra promessa, attraverso l’asperità del deserto, che farà di Israele un popolo e una nazione forte, raccolta attorno alla Torah.
b) Il passaggio alla vita seminomade e sedentaria, che colloca Israele in mezzo ad altri popoli, fa sì che il popolo ebreo subisca il forte fascino dei culti pagani e più volte tradisca Jhwh o inquini il suo culto con quello dei popoli limitrofi. Ma la forza della voce dei profeti, sorti a difesa dell’Alleanza, e la vigorosa presenza della Torah difendevano la purezza dei costumi e del culto a Jhwh, spingendo il popolo alla conversione e a riconoscere il proprio peccato, così che gli assalti dell’idolatria non riuscirono mai a sconfiggere il popolo, che rimase sempre fedele a Jhwh.
c) Ma se gli assalti esterni dei popoli pagani furono sempre respinti e nulla poterono di fatto contro Israele, gli attacchi interni, invece, lo fecero crollare. L’eccessiva proliferazione di precetti, infatti, il cui intento era quello di proteggere, come con una siepe[157], la Torah da qualsiasi violazione, un po’ alla volta oscurarono la stessa Torah e il culto a Jhwh. La loro meticolosa osservanza e la loro celebrazione divennero soltanto una formale esecuzione di precetti, che inaridirono il cuore e lo resero insensibile alla voce di Dio[158]. Quando questi venne nel suo Figlio, il popolo e i suoi capi, chiusi in modo ermetico in precetti, che Gesù definì come dottrine di uomini[159], e incapsulati in un legalismo senza fine, si resero ciechi e insensibili all’avvento di Dio[160], che attraverso segni e parole stava manifestandosi al suo popolo[161]. Dio, pertanto, venne tra la sua gente, ma i suoi non lo accolsero (Gv 1,11), rimanendo abbarbicati ad un culto ormai sterile e privo di frutti[162], appesantito da una insopportabile e ingestibile precettistica[163], che si moltiplicava quotidianamente. E la rovina di Israele fu grande, poiché gli fu tolto il Regno e dato a dei popoli che lo hanno saputo far fruttificare (Mt 21,43). Paolo nella sua Lettera ai Romani rifletterà proprio questa chiusura di Israele, che ricercava la giustizia e la giustificazione nella Legge, moltiplicando inutilmente i precetti: “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d'inciampo, …” (Rm 9,30-32). In altri termini, Israele si chiuse in una ossessiva e ossessionante ricerca di giustificazione all’interno di una Legge che, a lungo andare, aveva creato lui stesso con una abnorme proliferazione di precetti (Mt 15,9; 7,7), ma dimenticando il senso originale della Torah, la quale esigeva una pratica, che si radicasse nel cuore dell’uomo e che da qui partisse[164]. Per questo essi hanno urtato una pietra d’inciampo posta in Sion, il Cristo, e sono caduti[165].
vv.46-50 Già nel cap.11 Gesù ha avuto modo di lamentarsi per l’incredulità della sua gente (11,16-27), mentre in quello successivo ha innescato delle diatribe circa la questione del sabato (12,1-14), sul suo potere esorcistico (12,22-37) e, infine, sulla sua identità e sull’origine della sua autorità (12,38-45). Da questo sintetico quadro emerge tutta la sfiducia che circonda Gesù da parte del popolo e dei suoi capi. Vien da chiedersi quali caratteristiche deve avere, allora, il vero discepolo di un maestro così pretenzioso, tanto contestato e contrastato non solo dai suoi discepoli (Gv 6,60.66), ma anche dai suoi stessi familiari (Mc 3,21; Gv 7,5). A tale questione rispondono questi versetti, che definiscono la vera famiglia di Gesù, coloro che gli appartengono non per affinità sanguinea, ma per fede. Alla generazione perversa e adultera (12,39) e all’incredulità del suo popolo, Matteo, ora, contrappone la nuova generazione, quella pensata da Dio fin dall’eternità, ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e che ha come suo fondamento Cristo stesso (1Cor 3,11; Ef 2,20). Il passaggio dalla relazione carnale a quella spirituale, che qui vene sottolineato, segna un momento essenziale e fondamentale su cui si basa l’universalità della nuova fede, che rende uno in Cristo tutti i credenti (Gal 3,28), tutti appartenenti ad un’unica famiglia in Cristo e per Cristo (Gal 3,26), stabilendo una nuova relazione con Dio (Ef 2,18-20), che nel suo Figlio ci riconosce suoi figli adottivi[166]. Figli nel Figlio.
L’importanza e la centralità dei vv.46-50 e del tema in esso trattato vengono evidenziate dal ripetersi in modo ossessivo (cinque volte in cinque versetti) dell’espressione “madre e fratelli”. Si tratta, infatti, di definire, in contrapposizione alla generazione malvagia e adultera, la nuova comunità messianica, che ha come caratteristica fondamentale quella di creare dei vincoli di solidarietà spirituale tra Dio e i nuovi credenti, che vengono in tal modo accorpati alla vita stessa di Dio. In altri termini, la nuova comunità messianica costituisce la nuova famiglia umana che si riconosce in Dio come Padre, avendo tutti lo stesso DNA spirituale di Dio, che li assimila e li accorpa a Lui: lo Spirito, che grida Abbà, Padre (Rm 8,15; Gal 4,6). È, a nostro avviso, questa, una pericope di transizione che, da un lato, stabilisce l’identità del vero discepolo; dall’altro, getta le basi per meglio comprendere il senso del Regno di Dio, di cui questa nuova comunità credente costituisce la dimensione storica visibile.
I vv.46-47 formano la cornice narrativa, entro la quale viene inquadrata la sentenza finale (vv.49-50)[167]. Al v.46 Gesù è colto mentre sta parlando alle folle, siamo, quindi, in un ambiente aperto, l’unico in grado di contenere una quantità considerevole di persone. La sottolineatura della presenza di folle serve, probabilmente, per indirizzare il lettore ad una corretta interpretazione di quanto segue: “la madre e i suoi fratelli stanno di fuori, cercando di parlargli”. Lo “stare di fuori”[168], in questo contesto, non fa certo riferimento ad un luogo chiuso, ma va letto in relazione a due elementi fondamentali: le folle e il gruppo di discepoli, che Gesù indicherà al v.49. Le folle[169], citate 130 volte nei racconti evangelici, formano al loro interno una sorta di sfondo anonimo, che si muove attorno a Gesù, lo segue, e come nei cori delle tragedie greche, ne commenta le parole, i gesti e i miracoli, formando una cassa di risonanza. Esse costituiscono una sorta di discepolato anonimo, persone che simpatizzano per Gesù, ma che non amano uscire allo scoperto e impegnarsi esistenzialmente nella nuova dottrina, mettendo in discussione e a repentaglio la propria vita. Potremmo dire che questo è un discepolato di comodo, ancora acerbo e in attesa di una maggiore maturazione spirituale, che lo spinga ad uscire allo scoperto per una testimonianza più aperta e diretta. Ebbene, la madre[170] e i fratelli di Gesù non solo sono posti al di fuori del gruppo dei discepoli di Gesù, coloro che usciti dall’anonimato della folla hanno accettato di mettere in discussione la propria vita e di rischiarla; ma essi non fanno parte neppure di queste folle, poiché non sono seguaci di Gesù e neppure lo seguono da lontano, avvolti nell’anonimato delle folle. Sono completamente fuori dal suo giro perché, in realtà, non credono in lui (Gv 7,5) e lo ritengono fuori di testa (Mc 3,21). Essi, quindi, “stando di fuori” cercano di parlare con Gesù. La durezza di Marco, che presenta la madre e i fratelli di Gesù, i quali lo mandano a chiamare (Mc 3,31), evidenziando in questo tutta la distanza che intercorre tra loro e Gesù, si ammorbidisce in Matteo, che sottolinea come essi cercano di parlargli. Qui non c’è ancora una vera e propria sequela, ma una sorta di riavvicinamento a Gesù, che si esprime in quel loro tentativo di entrare in comunione con lui. In Luca, sempre nel medesimo racconto, le cose cambiano ancora e vediamo come il terzo evangelista sottolinei il desiderio che essi hanno di vedere Gesù: “Gli fu annunziato: "Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti” (Lc 8,20). Si denota in questo desiderio di vedere una profonda evoluzione spirituale, che li spinge a compiere una scelta di fede radicale, ma che, tuttavia, ancora non ha raggiunto la piena maturità di una pubblica testimonianza, perché la presenza della folla li blocca: “Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla” (Lc 8,19). La perfetta evoluzione spirituale di Maria, divenuta discepola di suo Figlio e madre della nuova comunità credente, si avrà soltanto nel quarto Vangelo, nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), là dove Maria, definita “la madre” per eccellenza, indica ai nuovi credenti di fare ciò che Gesù dirà loro: “La madre dice ai servi: <<Fate quello che vi dirà>>” (Gv 2,5). Quell’indicativo presente “dice ai servi” mette in evidenza come il ruolo di Maria all’interno della comunità messianica sia quello di indirizzarla in ogni momento verso suo Figlio: per Mariam ad Iesum.
Il v.48 costituisce il momento del passaggio evolutivo, grazie al quale Gesù opererà una trasformazione nei rapporti con i suoi discepoli, dando un respiro universale alla sua sequela e ai rapporti che egli intratterrà con tutti i futuri credenti: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Una domanda che mette in discussione i rapporti della sua parentela carnale, poiché questi sono limitanti e individuali. Questo tipo di rapporto è destinato a scomparire e a e perdersi nel nulla. Paolo, scrivendo ai Corinti, sottolineerà proprio questo passaggio: “Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità” (1Cor 15,50). È, dunque, necessaria una evoluzione dal meno al più, dal particolare all’universale, dalla carne allo spirito. Rivolto a Nicodemo Gesù ricorda come “[…] Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,6), per questo è necessaria una evoluzione verso l’incorruttibilità e l’universalità dello spirituale, poiché “[…] se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3). Gesù stesso è dovuto sottostare a tale logica: attraverso la sua morte ha distrutto la carne adamitica, segnata dal peccato, per ricomporla in novità di vita nello Spirito, dando al suo insegnamento e alla sua azione un valore universale e redentivo per tutti gli uomini, poiché proprio nella risurrezione la sua storia, superando la sua contingenza, fu radicata in Dio stesso. Gesù, dunque, non rinnega i suoi legami carnali, ai quali è naturalmente legato, ma li ritiene irrilevanti nei confronti delle nuove realtà, che egli è venuto ad inaugurare. Soltanto ponendosi in tale prospettiva spirituale, che è la stessa prospettiva di Dio, si potrà comprendere il significato del Regno di Dio e la sua consistenza storica e spirituale.
Il v.49 riporta la costituzione della nuova comunità messianica. Tre sono i passaggi fondamentali:
a) Gesù stende la mano verso i suoi discepoli (v.49a);
b) Proferisce le parole costitutive della nuova comunità messianica, che per la sua natura è legata a Dio stesso (v 49b);
c) L’elemento qualificante e costitutivo della nuova comunità (v.50).
Nel primo passaggio Gesù stende la mano verso i suoi discepoli (a). Il gesto va ben oltre ad una mera indicazione. Nelle lingue semitiche il termine che indica la mano significa anche “potenza”[171], mentre troviamo spesso nella Bibbia la mano come il simbolo dell’agire[172] e del donare[173]. Stendere la mano, dunque, significa far defluire la potenza e il potere da sé alla persona o alle cose verso le quali la mano è stesa; significa esercitare un potere benefico o distruttivo su qualcuno[174]. L’azione, dunque, dello stendere la mano non è mai priva di conseguenze, ma esprime sempre lo sprigionarsi di una potenza in atto. Gesù spesso guarisce attraverso l’imposizione delle mani o toccando l’ammalato[175].
Il secondo passaggio formula le parole costitutive della nuova comunità: “Ecco mia madre, ecco i miei fratelli”. Se il semplice gesto della mano non dice in sé e per sé nulla, le parole che l’accompagnano ne indicano il significato, dandone forma sacramentaria. “Madre e fratelli” è il primo elemento costitutivo della nuova comunità messianica, che ritroviamo subito dopo l’assunzione in cielo di Gesù (At 1,9-14), raccolta nel cenacolo: “Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14). Tale formula, però, esprime anche la sostituzione della famiglia carnale di Gesù e la costituzione di una nuova famiglia, che pone le sue origini e il suo fondamento non nella carne o nel sangue, ma in Dio stesso, dal quale, in Cristo e per Cristo, essa origina e del quale possiede in se stessa il suo DNA spirituale (Ef 1,4; 2,18-22). In altri termini, con tale gesto e tali parole Gesù crea una nuova comunità, che per mezzo della fede e di Cristo, è impiantata in Dio, a Lui ricondotta (1Cor 15,28), perché possa condividerne la stessa vita (Col 1,12-14). Tutta la vita di questa nuova comunità credente, nuovo ceppo di una nuova umanità, viene completamente trasformata e reindirizzata in Cristo verso il Padre, per divenire un segno tangibile dei nuovi tempi inaugurati dal Risorto; per essere segno vivente e storicamente raggiungibile del Regno di Dio. L’autore della Lettera ai Colossesi, rivolto alla sua comunità, la sollecita a prendere coscienza delle nuove realtà che sono state impiantate in essa dal Risorto e di operare, quindi, una trasformazione esistenziale, che li riorienti decisamente a Dio, ma nel contempo traccia il profilo della nuova famiglia di Dio, generata e costituita tale non dalla carne e dal sangue, ma dallo Spirito del Risorto: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e eletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3,1-17).
Il terzo ed ultimo passaggio definisce la natura caratterizzante della nuova comunità credente: “Infatti, chi fa la volontà del Padre mio nei cieli, costui è mio fratello e sorella e madre”. Costituita la nuova famiglia, ora viene definito il profilo identificativo di chi può ritenersi suo membro.
Il v.50 si apre con “infatti” (g¦r, gàr) di tipo causale, poiché riporta la motivazione che supporta e giustifica la dichiarazione di Gesù nei confronti dei suoi discepoli (v.49). Quanto viene qui sentenziato, dunque, diviene vincolante per ogni componente della nuova famiglia e ne traccia la vera natura: un ricercatore e un attuatore della volontà del Padre. Il membro di questa nuova comunità credente è indicato nella sentenza con un pronome “Óstij” (ótis), chiunque. Tale pronome non fa riferimento a persone o a gruppi particolari, ma è anonimo e proprio per il suo anonimato esso possiede in sé una dimensione universale. Tale famiglia, quindi, proprio perché svincolata dalla carne e dal sangue, è aperta all’intero genere umano e lo abbraccia interamente. Tutti, quindi, sono coinvolti in questo progetto divino, che tende a ricondurre in seno a Dio l’intera umanità.
In questa sentenza l’accento cade sul verbo “fare” per indicare tutta la concretezza dell’impegno esistenziale a cui è chiamato il nuovo credente. Fare la volontà non significa eseguire degli ordini e tantomeno osservare i dieci comandamenti, benché questi non vadano trascurati, ma conformare il proprio vivere alle esigenze di Dio, in primis la nostra santificazione (Lv 19,2; 2Cor 7,1; 1Ts 4,3), lasciandoci permeare, per mezzo della Parola e della fede, dalla vita stessa di Dio, che per mezzo di esse si comunica a noi e ci trasforma in Lui. Solo in tal modo viene a crearsi una sorta di osmosi tra noi e Dio, così da essere in Lui e con Lui una cosa sola[176]. Paolo definisce i nuovi credenti come i santi[177] e tali per vocazione” (Rm 1,7). La santità, ottenuta attraverso la santificazione in Cristo (Eb 13,20-21), che ci ha resi santi, diventa il segno distintivo del vivere credente e si qualifica in un continuo rinnovamento della propria mente e del proprio cuore alla ricerca della volontà di Dio: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). In tal modo viene a crearsi una comunità di santi, cioè di persone conformate a Dio e da Lui permeate, così da diventare il luogo della dimora divina in mezzo agli uomini. Tale comunità, così conformata, diviene anche il luogo della celebrazione cultuale a Dio, dove ogni membro esercita, in virtù della sua conformazione a Cristo e da lui santificata, il proprio sacerdozio. In tal senso Paolo esorta la comunità di Roma: “[…] ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Ogni credente, pertanto, divenuto membro di questa famiglia, che ha come fondamento Cristo stesso, è chiamato a vivere la propria vita come un’azione consacratoria e di offerta dell’intera realtà a Dio Padre, perché tutto sia ricondotto a Lui e in tutto si compia la sua volontà salvifica, così che Dio torni ad essere nuovamente tutto in tutti com’era nei primordi della creazione, quando Dio, contemplando lo splendore della sua opera, in cui si rifletteva la sua luce divina (Gen 1,3), vide che tutto ciò che era stato fatto era cosa molto buona (Gen 1,31).
La sentenza del v.50 termina in modo curioso: “costui è mio fratello e sorella e madre”. L’elenco dei componenti del nucleo familiare, se da un lato viene allargato anche alla sorella, che ricomprende in sé tutte le donne discepole del Cristo, dall’altro, manca della figura paterna. Tuttavia la sua assenza è solo apparente. Infatti, Matteo per ben quattordici volte nel suo racconto indica in Dio il vero padre della comunità credente, definendolo come “Padre vostro”, un Padre che Gesù condivide con noi (Gv 20,17b) in virtù della nostra adozione a figli[178].
Questa ultima pericope, se da un lato chiude le diatribe del cap.12, dall’altro introduce al grande tema, che forma il cuore del racconto matteano: il Regno di Dio, che occuperà l’intero cap.13. Il Regno, infatti, ben lungi dall’essere un qualcosa di impalpabile e di impercettibile, trova anche una sua dimensione storicamente raggiungibile nella comunità credente, che Matteo vede in qualche modo imparentata con Gesù, in quanto entrambi, benché su livelli sostanzialmente diversi, possiedono un unico Padre e un unico DNA spirituale, che è la vita stessa di Dio (Gv 20,17b).
Giovanni Lonardi
[1] Il primo intermezzo narrativo è dato dai capp. 8-9.
[2] Il termine Cristo (unto) è la traduzione letterale che il greco fa del termine aramaico meshiah, da cui messia, che significa “unto”, con riferimento alle unzioni consacratorie riservate ai re e ai sacerdoti. Nel tempo, in particolar modo nel tardo giudaismo e nel N.T. la parola assunse il significato di inviato di Jhwh e di atteso dalle genti.
[3] Sul termine Ð ™rcÒmenoj vedi nota 35 del commento ai capp. 3-4
[4] Cfr. Is 26,19 per quanto riguarda i morti; 29,18 per i sordi; 35,5-6 per ciechi, sordi e zoppi; 61,1 per il lieto annuncio ai poveri.
[5] Il nome Malachia è, in realtà, un nome costruito ad hoc per indicare l’anonimo autore del libretto, 3 capitoli in tutto per 55 versetti complessivamente. Il suo nome, Mal’ aki, significa “mio messaggero” ed è stato desunto prendendo lo spunto dal v.3,1, a cui si rifà lo stesso Matteo: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l'angelo dell'alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli Eserciti”. Cfr. la voce “Malachia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico della Bibbia, op. cit.
[6] Sull’espressione Figlio dell’uomo cfr. nota 23 del commento ai capp. 8-9 della presente opera.
[7] Cfr. Lc 1,69.77; 2,30.32; 3,6; Gv 1,16; 1Cor 1,24.
[8] Cfr. Mt 9,2; 21,31; Lc 7,47-48; 19,2-10; Gv 8,10-11.
[9] Sul termine Ð ™rcÒmenoj vedasi nota 35 del commento ai capp. 3-4 della presente opera.
[10] Circa le Scritture, intese come momento illuminante sulla figura di Cristo e sul suo mistero, è significativo quanto, sia Luca che Giovanni, dicono in merito. Luca, nel suo racconto dei discepoli di Emmaus, sottolinea come Gesù, per far comprendere il senso della sua morte e risurrezione ai due discepoli, smarriti dopo gli eventi del Golgota, si riferisca alle Scritture: “Ed egli disse loro: <<Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?>>. E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Similmente in Giovanni, a conclusione del racconto della scoperta della tomba vuota da parte di Pietro e del “discepolo che Gesù amava”, l’autore commenta come essi “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa” (Gv 20,9-10). I due episodi sono significativi, poiché evidenziano l’importanza delle Scritture nella comprensione del mistero di Gesù presso le prime comunità credenti.
[11] La questione dell’incapacità degli Scribi e Farisei di leggere la figura del Battista tornerà verso la fine del racconto matteano, all’interno di una diatriba tra Gesù e i Farisei (Mt 21.25-26.32)
[12] Cfr. O. Spinetoli, Matteo, op. cit. – pag. 333
[13] Cfr. O. Spinetoli, Matteo, op. cit. – pag. 333-334
[14] Cfr. la voce “Elia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e, alla voce “Elia/Eliseo” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.
[15] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico, op. cit. – pag.147
[16] Cfr. Gnilka J., Teologia del Nuovo Testamento, Editrice Queriniana, Brescia – 1992.
[17] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico, op. cit. – pag.146
[18] Cfr. Col 2,16-17; Eb 8,5; 10,1.
[19] Il verbo Bi£zwmai può avere due forme: una transitiva, in cui l’azione passa dal soggetto (il Regno) ad un complemento oggetto, che subisce l’azione; nel caso della forma intransitiva, l’azione prodotta dal soggetto rimane al suo interno, così da essere qualificato dalla sua stessa azione. Nel nostro caso il verbo bi£zetai esprime soltanto l’azione del soggetto, non essendo specificato, in alcun modo, nessun complemento oggetto. Il Regno, pertanto, viene qualificato dalla sua stessa azione come fonte generatrice di violenza.
[20] Cfr. il titolo “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.
[21] La nuova fede, vissuta come una lotta e come una battaglia in cui il credente è un soldato in armi, è un’immagine ricorrente nel N.T. In tal senso cfr. Ef 6,11-17; 1Ts 5,8; 2Cor 10,3-5; 1Tm 1,18; 6,12; 2Tm 2,3; 4,7; Fil 1,30; 2,25; Col 2,1; Eb 12,4.
[22] Cfr. la voce “L’autore” nella Parte Introduttiva della presente opera.
[23] Cfr. Dt 29,3; 2Cr 7,15; Sal 114,6; Sir 3,28; 6,33; 17,5.11; Is 6,10; 42,20; 43,8; 50,4-5; 55,3; Ger 5,21; 7,24.26; 11,8; 17,23; 25,4; 44,5; Bar 2,31;3,9; Ne 9,30; Prv 15,31;
[24] La fonte Q, iniziale della parola tedesca “Quelle”, che significa “Fonte”, è un’ipotesi formulata dagli studiosi per spiegare le parti comuni che si trovano in Matteo e in Luca, ma non in Marco. Il materiale che compone la fonte “Q” è formato da numerosi detti e parabole attribuite a Gesù. Tale fonte, come si è accennato, è soltanto un’ipotesi letteraria e non un documento reale, ipotesi che fu avanzata per la prima volta dal tedesco P. Wernle nel 1899. – Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, Introduzione Generale, op. cit.
[25] Che si tratti di un gruppo di bambini divisi in due gruppetti, lo si può arguire dal pronome “to‹j ˜tšroij” (toîs etérois), che si significa “agli altri”, ma non in senso generale, ma con riferimento “agli altri” di due gruppi. Corrisponde al pronome latino alter, che significa l’altro di due. La Vulgata traduce “coaequalibus”, che significa “ai loro simili” o “ai loro coetanei”.
[26] L’espressione “DaimÒnion œcei” (Daimónion échei, ha un demonio), riferita a Giovanni, non va intesa in termini di possessione demoniaca, ma corrisponde al nostro “essere fuori di sé”, con riferimento ad un comportamento che si distacca dalla normalità o dalle nostre attese.
[27] Sul tema del Figlio dell’uomo, v. nota 23 del commento ai capp.8-9 della presente opera.
[28] “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14).
[29] Cfr. anche Gv 5,17; 10,25.37-38;
[30] In tutta la Bibbia la città di Corazin, sempre associata a Betsàida, compare soltanto due volte: qui in Mt 11,21 e nel passo parallelo di Lc 10,13. Essa faceva parte di quelle località, poste sulla riva settentrionale del lago di Genezaret, da dove partì l’attività missionaria di Gesù e in cui Gesù reclutò i suoi primi discepoli. Di questa città ci sono rimasti pochissimi resti, tra questi quelli di una sinagoga in basalto nero, risalente al IV sec. d.C. Nei suoi pressi venne trovata una vasca per le abluzioni rituali. Tra i suoi reperti più importanti si sono trovati un pilastro, che reggeva la nicchia della Torah e un sedile in pietra, la cosiddetta “cattedra di Mosè”, citata anche da Mt in 23,2 (per questo particolare cfr. nota 104 del commento ai capp.8-9). Secondo Eusebio di Cesarea Corazin era già distrutta nel IV, mentre tra i secoli XIII-XV e XIX-XX vi sorsero dei villaggi arabi.
Betsàida ricorre in tutta la Bibbia sette volte. Anche questa città è posta a Nord-Ovest del Lago di Genezaret e fu teatro della prima attività missionaria di Gesù. Essa fu patria di Filippo, Pietro e Andrea (Gv 1,44). Qui Gesù guarì un cieco (Mc 8,22-26); qui Filippo, il cui nome greco significa amico dei cavalli, originario di Betsàida, si fa interprete presso Gesù di alcuni Greci, che desideravano parlare con il Maestro (Gv 12,20-22). Segni questi che Betsàida era ormai fortemente ellenizzata. Sempre nelle vicinanze di questa città Gesù compì il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Lc 9,10-17). Significativo questo particolare della moltiplicazione dei pani che sfamò, secondo il racconto lucano, “cinquemila uomini”. Il nome di Betsàida, infatti, deriva dall’aramaico Bēt ṣaydā (casa della caccia) o Bēt ṣayyādāh (casa dei pescatori), nomi questi che indicano una regione ricca di selvaggina e di pesci. Ma se leggermente modificato in Bēt ṣaydāh (casa delle provvigioni) il nome ci riporta al miracolo lucano della moltiplicazione dei pani e dei pesci sopra menzionato (Lc 9,10-17). Il luogo era già noto ai pellegrini cristiani ed era ritenuto anche la patria dei figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Betsàida fu ricostruita ed elevata al rango di città dal tetrarca Filippo (4 a.C. – 34 d.C.), che impose il nome di Iulia, in onore della figlia dell’imperatore Augusto, dal quale egli aveva ricevuto l’investitura di tetrarca. Scavi archeologici riportarono alla luce importanti tracce di insediamenti risalenti certamente all’epoca neotestamentaria.
Il nome della città di Cafarnao, deriva dall’aramaico Kěfar nāhūm, che significa “paese di Naum”, ma che nulla ha a che vedere con il profeta Naum (627-612 a.C. circa), citato nell’A.T. Il nome della città ricorre 16 volte in tutta la Bibbia. La sua importanza è data sia dalla sua posizione geografica che dagli eventi raccontatici dai vangeli. Quanto alla sua posizione geografica, Cafarnao, industriosa cittadina, situata nel territorio di Neftali, si collocava a Nord-Ovest del Lago di Genezaret, lungo la via maris, la celebre arteria che collegava Damasco con l’Egitto. Si trattava, quindi, di un nodo strategico di notevole importanza, luogo di dogana, presidiato da una guarnigione militare. La sua prospera economia era basata sul commercio, l’agricoltura, la pesca e l’artigianato per la produzione di articoli in vetro. Secondo i racconti evangelici, Gesù da Nazaret, sperduto e oscuro villaggio della Galilea, totalmente a margine della vita sociale, si trasferì Cafarnao, che elesse a sua città e sua dimora (Mt 9,1), punto di riferimento nell’ambito della sua missione itinerante, una sorta di quartier generale da dove partì ufficialmente la sua missione per diffondere la predicazione del Regno in tutta la Galilea (Mt 4,13.17). Proprio qui trovò, però, notevole resistenza e ciò lo portò a pronunciare il discorso di condanna su di essa (Mt 11,23; Lc 10,15).
Le note su Corazin, Betsàida e Cafarnao sono state rilevate da Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico; James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Testamento, opp. citt.
[31] Cfr nota 72 del commento al cap.10 della presente opera.
[32] Circa le invettive dei profeti citati contro Tiro e Sidone cfr. Is 23,1-18; Ger 25,22-38; 27,3-4;47,4; Ez 26,2-21; 27,1-36; 28,1-26; Gl 4,4-10; Am 1,9-10; Zc 9,3-4. -
[33] Circa la diversa denominazione del termine miracoli tra i Sinottici e Giovanni cfr. nota 55 del commento ai capp. 8-9.
[34] Il vangelo di Giovanni si chiude con il cap.20,31. Il cap.21 è stato aggiunto successivamente, probabilmente dai suoi stessi discepoli.
[35] Cfr. nota 27
[36] In tal senso cfr. il passo parallelo di Lc 10,15 in Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, nota 79 di pag.386; op. cit.
[37] Su Cafarnao cfr. nota 27
[38] Tra i vari significati proposti, tratti dal Vocabolario Greco-Italiano di Lorenzo Rocci, vi è anche quello di rispondere, dare una risposta o proporre, fare una scelta. Abbiamo escluso tali soluzioni, perché sia la forma passiva del verbo che tali significati non si adattano in alcun modo al testo.
[39] Cfr. Mt 1,18.20; 3,16; 4,1; 10,20; 12,18.28; Mc 1,12; 12,36; 13,11; Lc 1,35.67; 3,22; 4,1; 4,14; 10,21; Gv 14,26; 20,22; At 1,2.8; Rm 5,5; 9,1; 15,6; 1Cor 12,3; 2Cor 1,22; 1Ts 1,5; 2Tm 1,14; Tt 3,5; Eb 2,4; 10,15; 2Pt 1,21; Gc 1,20.
[40] Cfr. Gv 5,17.19-20.26.43a; 6,37.57; 8,28.38a; 10,30.38; 12,49-50; 14,9-11.28.31. -.
[41] Cfr. Gb 28,12.20.28; 38,36; Prv 3,19; 4,5.7; 5,1; 7,4; 9,10; 16,16; 23,23; Qo 9,11; Sir 1,17; 10,25; 14,20; 15,3; 39,6; 44,4.
[42] Cfr. Is 5,21; 10,12-13; 29,14; Bar 3,20-23;
[43] L’avverbio Deàte ha la sua derivazione da “deàro + ‡te” (deûro + íte), che letteralmente significa “venite qua”. Cfr. i vocaboli deàte e deàro in L.Rocci, Vocabolario Greco Italiano, op. cit.
[44] Cfr. Ne 9,29; Sir 51,26; Ger 2,20; 5,5; Ez 20,37; Sof 3,9; At 15,10; Gal 5,1.
[45] Il Giudaismo si muoveva all’interno di una fitta rete di precetti, dedotti dalla Torah, che regolamentavano scrupolosamente il vivere quotidiano in ogni suo momento e in ogni sua espressione. Nulla era lasciato al caso e tutto era oggetto di un preciso precetto. Nulla esisteva che sfuggisse ad un precetto. La meticolosità ossessiva ci è testimoniata da un detto rabbinico, che affermava: “Prima che finisca di mangiare un pezzo di pane, una persona ha osservato dieci precetti”. Marco in 7,3-4 ce ne dà testimonianza diretta circa le quotidiane pratiche giudaiche.
[46] Cfr. anche Es 19,8; 24,3; Nm 32,31; Dt 5,27; Ger 42,20.
[47] Ma è molto probabile che questa esortazione, tutta matteana, sia rivolta dall’evangelista alla sua comunità di giudeocristiani, per esortarli ad abbandonare definitivamente le regole della Legge mosaica ed abbracciare il messaggio cristiano.
[48] Cfr. anche Ez 36,24-28.
[49] Cfr. il titolo “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.
[50] Cfr. la voce “Legge (AT)”, il significato del termine, in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[51] Non a caso il primo grande discorso di Gesù (5,1-7,29) viene introdotto da un Gesù che Matteo presenta come il Dio, che sul monte impartisce un nuovo insegnamento al suo popolo. In tal senso cfr. il commento ai capp. 5-7 della presente opera.
[52] Il pedagogo, al tempo di Paolo, era uno schiavo, che teneva in custodia il figlio minorenne del padrone, vigilando su di lui e imponendosi alla sua volontà con le buone o con le cattive maniere. Quindi più che un pedagogo educatore o istruttore, così come oggi lo intendiamo noi, era un semplice guardiano, che vigilava fisicamente sui ragazzi affidatigli e li conduceva dal maestro per la loro istruzione.
[53] Cfr. Rm 3,20.22.25.28.30; Gal 2,16; 3,2.5.10; 2Tm 3,15.
[54] Cfr. (Mc 1,15; Lc 12,56; Gv 7,6.8; At 1,7; 3,20; Rm 3,26; 5,6; 13,11;1Cor 4,5; 7,29; 2Cor 6,2; Ef 1,10; 1Ts 5,1; 1Tm 2,6; 4,1; 6,1; 2Tm 3,1; 1Pt 1,5; 4,17; 5,6; Ap 1,3; 11,18; 22,10. Cfr. anche la voce “Tempo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[55] Cfr. Gv 4,34; 5,36; 14,10-11; 17,4.
[56] Cfr. Es 20,10 Es 31,14-15; 35,2; Lv 16,31; 23,3; Dt 5,12.14-15. Circa i lavori proibiti di sabato i Dottori della Legge classificarono trentanove casi di divieti: “Seminare, Arare, Mietere, Legare i covoni, Trebbiare, Vagliare, Scegliere, Macinare, Ventilare, Impastare, Cuocere; Tosare la lana, Imbiancarla, Cardarla,Tingerla, Tessere, Ordire, Fare due fili, Intrecciare due fili, Separare due fili, Separare due fili (di una corda), Annodare, Sciogliere, Cucire due punti, Strappare (il filo) per cucire due punti; Cacciare il cervo, Ucciderlo, scuoiarlo, Salare (la carne), Conciare la pelle, Raschiare (il pelo), Tagliarlo a pezzi; Scrivere due lettere dell’alfabeto, Cancellare per scrivere due lettere; Costruire, Demolire; Accendere un fuoco, Spegnerlo; Battere col martello; Portare un oggetto da un dominio ad un altro” (Shabbat, VII, 2). La classificazione, tuttavia, non pacificava la questione circa le proibizioni in giorno di sabato, ma su ogni caso specificato si accendeva un ampio e infinito dibattito su ciò che rientrava o meno nelle proibizioni elencate. Tutto ciò generava nuove regole e nuove limitazioni, che andavano ad aggiungersi ad altre ancora, formando in tal modo pesi insostenibili e ingestibili, che gravavano sul vivere quotidiano della gente. - Per l’elenco dei lavori proibiti e le considerazioni su questi cfr. Abraham Cohen, Il Talmud, traduzione di Alfredo Toaff, Edizioni Laterza, Bari 1999 – pagg. 193-198.
[57] Cfr. O. Spinetoli, Matteo, Cittadella editrice, Assisi 1998 – pag. 358
[58] La prescrizione circa questi pani sacri proviene dal Libro del Levitico, che stabilisce: “Prenderai anche fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce; ogni focaccia sarà di due decimi di efa (ndr. un’efa corrisponde a circa 45 litri) . Le disporrai su due pile, sei per pila, sulla tavola d'oro puro davanti al Signore. Porrai incenso puro sopra ogni pila e sarà sul pane come memoriale, come sacrificio espiatorio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sabato si disporranno i pani davanti al Signore sempre; saranno forniti dagli Israeliti; è alleanza. I pani saranno riservati ad Aronne e ai suoi figli: essi li mangeranno in luogo santo; perché saranno per loro cosa santissima tra i sacrifici in onore del Signore. E' una legge perenne" (Lv 24,5-9).
[59] Il confronto “casa di Dio”-“tempo di Dio” si giustifica se concepiamo il tempo come uno spazio temporale, che Dio si riserva all’interno della storia degli uomini, divenendo luogo d’incontro e di esperienza del divino.
[60] Nel racconto della creazione l’autore sacro ad ogni atto creativo di Dio fa seguire una disposizione divina del creato stesso, così che ogni creatura abbia la sua funzione all’interno della creazione. Se nel mondo inanimato le disposizioni sono essenzialmente strutturali e tali da costituire l’architettura stessa del cosmo, con finalità proprie, nel mondo vivente tali disposizioni riguardano principalmente la vita stessa e le sue funzioni primarie (Gen 1,1-2,4), che nell’uomo giungono fino alla collaborazione divina (Gen 2,15) e alla condivisione del potere divino sul creato stesso (Gen 1,26).
[61] In merito, S.Tommaso afferma che “quando un precetto nella sua applicazione, cessa di essere ragionevole e di servire il bene dell’uomo, sia individualmente che socialmente, cessa pure di essere un precetto morale”. Tale avvertenza dell’Aquinate viene giustificata dal fatto che “Nell’applicazione della legge universale, più si scende al particolare e più difetti si trovano”. La Legge e la sua applicazione, quindi, devono essere poste al servizio dell’uomo e al suo bene, ma non devono schiavizzarlo né tanto meno umiliarlo nella sua dignità, poiché questo rende inutile anche il culto e l’osservanza stessa della Torah. – Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica I-II, q. 90, a.1 e q.94, a. 4.
[62] Cfr. Es 20,10; Lv 16,31
[63] Cfr. Lv 24,8; Nm 28,9-10; 2Cr 23,4.8
[64] Testo di Es 20,8-11: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro”.
Testo di Dt 5,12-15: “Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato”.
[65] Il numero “sette” nel linguaggio biblico indica la compiutezza, la perfezione e, quindi, la pienezza.
[66] Il numero “sei”, secondo la cultura semitica, era dato da 7-1 e, quindi, indicava l’imperfezione. Il “sei”, pertanto, è lo spazio dell’incompiuto e dell’imperfetto, la dimensione propria dell’uomo, che trova la sua compiutezza e la sua perfezione soltanto entrando nel settimo giorno, lo spazio proprio di Dio.
[67] Cfr. Mt 15,9; Mc 7,7; Tt 1,13-14.
[68] Cfr. Eb 3,1; 5,5-7; 6,19-20; 9,11-12; 10,5-10; 13,15
[69] Archelao, figlio di Maltace, la moglie samaritana di Erode, succedette nel 4 a.C. al padre Erode il Grande con il titolo di etnarca. Governò sulla Giudea, sulla Samaria e sull’Idumea. Per la sua crudeltà e le continue lamentele da parte dei giudei, Augusto, nel 6 d.C., lo depose e lo esiliò a Vienne, in Francia e il suo territorio fu affidato ad un prefetto romano alle dipendenze del governatore della Siria. – Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico; e la voce “Erode” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, opp. citt.
[70] Sulla questione cfr. R. Fabris, Matteo; O. Spinetoli, Matteo, opp. citt.
[71] Il rigore e la rigidità che si riscontrano nell’osservanza del sabato risalgono probabilmente ai tempi dell’esilio (598-538 a.C.). A motivo dell’assenza del tempio, le festività non potevano essere celebrate cultualmente, pertanto il sabato divenne una sorta di distintivo del popolo ebreo in esilio e nel quale il pio ebreo riconosceva la propria identità. Ma sarà soprattutto nel periodo postesilico che l’importanza del sabato si trasformerà in rigida osservanza, a motivo della debolezza politica e religiosa in cui il giudaismo veniva a trovarsi. Tuttavia, tale rigidità non era assoluta, e il buon senso popolare ammetteva di fatto delle trasgressioni del sabato in caso di particolari necessità. Un adagio rabbinico, infatti, recitava: “Se venisse osservato anche un solo sabato, giungerebbe il messia”. Le stesse scuole rabbiniche formularono, poi, una casistica, che costituiva una serie di eccezioni all’obbligo del riposo assoluto in giorno di sabato. Nacque in tal modo lo ‘eruv (mescolanza), una normativa che consentiva lavori proibiti anche in giorno di sabato. Tra questi, a titolo esemplificativo, si consentiva di intervenire quando si trattava di salvare la vita ad un uomo o ad un animale o evitargli delle sofferenze. Ed è proprio allo ‘eruv che Gesù si rifà in questo caso. – Sulla questione dell’osservanza del sabato cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia; R. De Vaux, Le Istituzioni dell’Antico Testamento; la voce “Sabato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; tutte le opere citate.
[72] Cfr. Mt 9,36; 10,6; 15,24; 18,12. In merito alla metafora delle pecore concepite come il popolo di Israele, cfr. nota 36 del commento al cap.10 della presente opera.
[73] Cfr. Mt 15,8.17-20; At 10,34-35; Rm 2,25-29; 12,1-2.
[74] Già nel 1892 Bernhard Duhm aveva isolato nel Libro di Isaia quattro testi che si riferivano ad un misterioso Servo di Jhwh. Esso compare come una figura isolata, che adempie ad un particolare compito divino, affidato ad Israele e ai popoli. Soffre, ma non si ribella, muore per i nostri peccati, ma infine viene glorificato da Dio. Il Duhm e altri studiosi dopo di lui ritennero questi testi delle inserzioni da parte di un qualche sconosciuto poeta. La ricerca recente, invece, tende a considerare Isaia come il vero autore dei quattro cantici, che riportiamo, in citazione, di seguito: Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12. – Cfr. la voce “Servo di Jhwh” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.
[75] Non va mai dimenticato che i vangeli non sono stati scritti per noi, ma per le comunità, di cui gli evangelisti erano responsabili, e rispecchiano, di conseguenza, i problemi propri di quelle comunità.
[76] Cfr. Mt 7,6; 10,11.16; 16,20; 17,9.
[77] Cfr. la voce “La comunità matteana” nella Parte Introduttiva della presente opera.
[78] Il testo di Is 42,1-4, letteralmente tradotto dalla LXX, dice: “Giacobbe, il mio servo, mi impossesserò di lui; Israele, il mio eletto, la mia anima lo accoglierà; ho effuso su di lui il mio spirito, farà conoscere il diritto ai popoli. Non griderà né alzerà il tono della voce, né la sua voce sarà udita fuori. Non spezzerà la canna infranta e non spegnerà il lucignolo fumigante, ma porterà alla luce della verità il diritto. Si solleverà e non sarà spezzato, finché non ponga sulla terra il diritto; e nel suo nome spereranno le genti”. – Cfr. anche R. Fabris, Matteo, op. cit. – pag.284
[79] R. Fabris, nella sua opera Matteo, suddivide il testo di Isaia (42,1-4) in tre parti, che coincidono con la nostra suddivisione. Tuttavia egli ricomprende nella prima parte la figura di Gesù posto in funzione della sua missione. Noi abbiamo preferito tenere distinti i due momenti, così che la nostra suddivisione si struttura su quattro parti.
[80] Cfr. Gv 3,16-18; 4,34; 5,30; 6,38; 8,28.42; 10,18; 12,49; 14,10.
[81] L’espressione “spogliò se stesso” è reso in greco con “˜autÕn ™kšnwsen” (eautón ekénosen), che letteralmente significa “svuotò se stesso”, per indicare la totale rinuncia a tutte le prerogative divine, che erano proprie di Gesù, quando era presso il Padre (Gv 1,1-2), e che Gesù, nell’ora stabilita per la sua glorificazione, chiede che il Padre gli restituisca: “E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,5).
[82] Cfr. Gv 10,30; 14,9-11; 17,11.21.22
[83] Cfr. Gv 5,19; 8,38a; 14,9-11; 15,15b
[84] Cfr. Mt 17,1-9; Mc 9,2-9; Lc 9,28-36
[85] Cfr. Mt 1,18.20; 3,11.16; 4,1;12,28; Mc 1,8.10.12; Lc 1,15.35; 3,16.22; 4,1.14.18; 10,21; Gv 1,32-33; 3,6.34; 6,63; 14,26; 20,22; At 2,33; 10,38; Rm 1,4; 8,11a; 2Cor 3,17; Eb 9,14.
[86] Tutti i significati dei termini greci sono stati rilevati da L. Rocci, Vocabolario Greco – Italiano, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1993.
[87] Nel Pentateuco si riscontrano cinque raccolte legislative: a) il Decalogo (Es 20,2-17; Dt 5,6-21). Sono le dieci parole di Jhwh e costituiscono gli imperativi essenziali della morale e della religione ebraica; b) il Codice dell’Alleanza (Es 20,22-23,33) è una raccolta composita di leggi, in cui si evidenzia una parte centrale (Es 21,1-22,16), che raggruppa sentenze e giudizi (mišpaṭim) di diritto civile e penale; c) il Codice Deuteronomico (Dt 12-26) riunisce piccole raccolte di leggi. Alcune di queste riprendono quelle del Codice dell’Alleanza, altre le modificano. Questo Codice sembra destinato a sostituire quello antico, tenendo conto dell’evoluzione sociale e religiosa di Israele. Il tono, più che imperativo, è squisitamente esortativo con continui richiami al cuore; d) la Legge di Santità (Lev 17-26) così chiamata per i continui richiami alla santità da parte di Jhwh e per la rilevante preoccupazione dei riti, del sacerdozio e del culto in genere; e) il Codice Sacerdotale (Lv 1-16) si colloca nella prima parte del Libro del Levitico ed è suddiviso in tre raccolte: la prima (Lv 1-7) riguarda le leggi sui sacrifici; la seconda (Lv 8-10) riporta il rituale della consacrazione ed elezione del sacerdote; la terza (Lv 11-16) riguarda la legge della purità. – Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell’Antico testamento, Ed. Marietti, Genova – III edizione 1977, ristampa 2002 .
[88] Torah, Mishnah, Gemarah, Talmud sono i quattro pilastri fondamentali su cui si regge tutto l'ebraismo. All'origine di tutto ci sta la Torah scritta, quell'insegnamento scritto sulla pietra, per indicarne l'inalterabilità nel tempo e la sua eternità, che Dio diede a Mosé sul Sinai. Ma questa Torah, per la generalità del suo esprimersi, risultava inapplicabile nella vita quotidiana del popolo. Si rese pertanto necessaria una sua decodificazione, che la rendesse accessibile nel vivere quotidiano. Ecco, allora, nascere accanto a questa Torah scritta un suo commentario, la cui dignità e il cui valore è pari alla stessa Torah, in quanto, secondo una posizione ortodossa, rivelato e consegnato a Mosé sul Sinai assieme a quella scritta. In realtà tale commentario è frutto del pensiero di generazioni di commentatori e si può far risalire a partire da Esdra in poi. Esso venne chiamato Torah sheb' al pe, letteralmente l'Insegnamento sulla bocca, cioè la Torah orale. Il suo valore è tale che un adagio talmudico afferma che Dio non concluse la sua alleanza con Israele se non grazie a questa Legge orale, che consentiva di comprendere, ma soprattutto di applicare nella quotidianità del vivere la Torah scritta. Solo grazie a questo commentario la Torah scritta rimase una legge viva, sempre attuale, capace di far fronte alle situazioni sempre nuove, rispondendo a problemi imprevisti. Ma questa Torah orale dovette cedere necessariamente ad una sua codificazione scritta. Troppi e complessi erano i commenti perché questi potessero essere conservati integri nei secoli. Ecco, pertanto, che essa confluì verso il 200 d.C. nella Mishnah (ripetizione, perché soltanto nel ripetere continuamente l'insegnamento si poteva imprimerlo bene nella memoria). Essa fu un punto di confluenza sia delle leggi e delle tradizioni orali che dei midrash, un sistema di ricerca del significato profondo della Torah scritta, sviluppato da Esdra e dagli scribi e farisei. Il termine midrash deriva, infatti, dal verbo ebraico "darash" che significa "cercare". Uno dei maggiori maestri di questo sistema midrashico fu rabbi Aqiba, a cui si rivolgevano tutti i tannaim, cioè i dottori della Mishnah. La Mishnah, che trovò la sua forma scritta grazie a rabbi Giuda, chiamato il Principe o più semplicemente il Rabbi, è una sorta di enciclopedia del sapere ebraico. Essa è composta da 63 trattati suddivisi in sei ordini (sedarim): Zeraim che insegna il modo con cui santificare il lavoro; Moed tratta del sabato e delle festività; Nashim, tratta del diritto del matrimonio; Nezikin o del diritto civile e penale; Kodashim dedicato al culto sacrificale; Taharoth parla di purità e impurità rituali. Accanto alla Mishnah esistevano analoghe raccolte, lasciate "al di fuori", le beraitoth, perché non avevano il placet di Rabbi Giuda. I suoi discepoli, per rispetto al loro maestro, ritenuto unico nel suo genere, non assunsero più il titolo di tannaim, ma quello più modesto di amoraim, cioè di semplici commentatori della Mishnah. La loro attività consisteva nel ricercare, spiegare, confrontare e risolvere eventuali difficoltà. Un lavoro, come si vede, di appoggio alla Mishnah, rendendola più agevole e completa. Tale lavoro, durato secoli, finisce con il cristallizzarsi nella Gemara (commentario, completamento). L'insieme della Mishnah e della Gemara costituiscono il Talmud (Studio), di cui esistono due versioni: quella di Gerusalemme, elaborata in Palestina; e quella elaborata a Babilonia. Il primo, quello Palestinese, meno ampio e particolareggiato del babilonese, si concluse intorno al 400 d.C. - Il secondo, quello Babilonese, decisamente più ampio, più completo e profondo si concluse alla fine del 500 d.C.,ma venne perfezionato nel corso del VI secolo. Esso si compone di ben 8.744 fogli ed è quello che ha avuto il maggiore successo e costituisce, ancor oggi, il punto di riferimento di tutto il giudaismo. Benché il Talmud, per la sua natura, abbia un carattere prevalentemente halakhico, tuttavia in esso si trovano agevolmente anche aspetti haggadici. Halakha (la via, il cammino) e Haggada (racconto, narrazione) vi sono parimenti presenti, si intrecciano tra loro così che l'uno (le haggadah) diventa la spiegazione agevole e piacevole dell'altro (le halakha). Le prime hanno carattere imperativo di legge; le seconde hanno il compito di consolare e di edificare ed esortare spiritualmente una nazione che soffriva le pene dell'esilio e della diaspora.
Bibbia e Talmud, pertanto, rappresentano i due classici dell'ebraismo, ma il Talmud, più che la Bibbia, costituisce per gli ebrei della diaspora la grande forza di coesione che imprime in loro una grande forza di coesione morale e spirituale e che ne fanno, ovunque si trovino, un unico popolo compatto in mezzo agli altri popoli. – Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia; “Talmud e Midrash” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; opere citate; Paolo De Benedetti, Introduzione al Giudaismo, Editrice Morcellania, Brescia, seconda edizione 2001.
[89] Cfr. Mt 21,12-13; Mc 11,15-17; Lc 19,45-46; Gv 2,14-17.
[90] Cfr. Mt 13,14-15; 15,8.18-19; 19,8; Mc 7,7-9.18-23; 10,5; 12,30; Lc 6,45; 8,15; 10,27.
[91] Cfr. anche Ez 36,24-28; 37,11-14.
[92] Cfr. Mt 9,9-13.36; 11,29; 12,7; 14,14; 15,32; 21,5; Lc 10,33-37; 15,11-24; Gv 8,10-11.
[93] Cfr. Mt 16,20-23; 28,17; Mc 8,29-32; Gv 6,60.64.66.
[94] Cfr. Mt 10,4; 26,47; Mc 3,19; 14,10.43; Lc 6,16; 22,3; Gv 6,71; 12,4; 13,2; 18,3.5
[95] Il Libro di Isaia è costituito da un insieme di tre libri, che la critica ha individuato nei seguenti capitoli: Proto o Primo Isaia, riferibile al vero Isaia e scritto intorno agli anni 740-700 a.C. : capp. 1-39; Deutero o Secondo Isaia, profeta ignoto, ispiratosi al primo Isaia. I suoi scritti sono databili nell’epoca dell’esilio babilonese (597-538 a.C.): capp. 40-55; Trito o Terzo Isaia, altro profeta sconosciuto, anch’egli ispiratosi al primo Isaia, i cui scritti sono riconducibili nel periodo postesilico tra il 537-520 a.C. circa: capp. 56-66.
[96] Dt 4,25-27; Ne 1,8; Bar 2,29; 4,6; Ez 5,14; 6,8-9; Sal 43,12.
[97] Dt 4,6; 1Cr 16,8.24.31; Tb 13,3-4; Sal 9,12; 56,10; 95,3.10; 104,1; 107,4; 125,2; Ez 12,16.
[98] Tutta la storia della salvezza procede per elezione e per selezione. Il “resto” è ciò che rimane da questa scrematura, che Dio operò sul popolo d’Israele nel corso dei secoli. Criterio fondamentale della selezione fu la fedeltà all’Alleanza. Non tutti i liberati dalla schiavitù egiziana, infatti, entrarono nella Terra Promessa, ma soltanto quelli che furono fedeli a Jhwh. Neppure Mosè vi entrò per un manco di fede, ma morì sul monte Nebo (Dt 32,49), mentre guardava da lontano la Palestina (Dt 32,50-52). Successivamente, l’infedeltà del Regno del Nord o Regno di Israele portò alla sua distruzione e alla sua dispersione nel 722 per opera di Sargon II. Rimase, come resto, il Regno del Sud o Regno di Giuda, che venne a sua volta distrutto e i suoi abitanti deportati in esilio a Babilonia tra 597-582 a.C. con tre deportazioni successive (597, 587, 582 a.C.). Di quei deportati soltanto un resto del 10% ritornò in patria e qui ricostruirono e ricostituirono la purezza del culto (Esd 9,8). Ma ancor prima, ai tempi del diluvio, Dio si scelse tra tutti gli uomini un resto fedele: Noè e la sua famiglia (Sir 44,17), da cui uscì una nuova umanità, una sorta di nuova creazione. Tutto nella storia della salvezza avviene secondo le logiche di una continua e costante scrematura, destinata a creare sempre un nuovo resto, sempre più ristretto, ma sempre più qualificato e sempre più fedele a Jhwh: “Il resto della casa di Giuda, che scamperà, continuerà a mettere radici di sotto e a dar frutto in alto. Poiché da Gerusalemme uscirà il resto, dal monte Sion il residuo. Lo zelo del Signore farà ciò” (2Re 19,30-31). Sul tema del “resto” cfr. Sir 44,17; 47,22; Is 1,9; 10,20-22; 11,11.16; 28,5; 37,32; Ger 23,3; 31,7; Bar 4,5; Mi 2,12; 5,6-7; Sof 3,11-13.
[99] Matteo riporta alla fine del suo racconto una malevola diceria sulla risurrezione di Gesù, al fine di screditarla (Mt 28, 11-15).
[100] Cfr. Mt 10,25; 12,24; Mc 3,22; Lc 11,15; Gv 7,20; 8,48.52; 10,20-21.
[101] Cfr. Mt 21,23-24.27; Mc 11,28.33b; Lc 20,2.8
[102] Cfr. Mt 12,1-2; 12,10-12.13; Mc 2,23-24; 3,1-5; Lc 6,1-2; 6,6-10; 13,10-14; 14,1-4; Gv 5,5-10.16.18; 7,22-23; 9,14.16;
[103] Cfr. Mt 15,2; Mc 7,2-5; Lc 11,37-38.
[104] Cfr. Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33.
[105] Cfr. Mt 15,3-6;19,3-9; 21,12-13; 22,29-32; 23,16-22; Mc 7,8-13; 11,15-17; Lc 19,45-46; Gv 2,15-16.
[106] Cfr. Mt 5,20; 15,14; 16,6; 23,1-7.13-15.23-36; Lc 11,39-54; 12,1.
[107] Nel Talmud babilonese, o Babli, si legge come Gesù fu accusato di magia e di seduzione del popolo, per la quale ragione fu condannato a morte: «Ci viene raccontato che, alla vigilia della Pasqua, venne appeso Gesù di Nazareth. Un messaggero andò per le strade e le piazze, per 40 giorni, gridando: — Gesù sta per essere lapidato perché ha praticate le arti magiche, ha sobillato e fatto deviare il popolo di Israele. Chiunque conosca qualcosa a sua discolpa si presenti e lo difenda in tribunale! — Non venne trovata per lui nessuna discolpa. Per questo lo appesero alla vigilia della Pasqua. Il grande maestro Ulla dice: — Credi tu che Gesù sia stato uno da difendere? No, fu uno che conduceva il popolo ad adorare gli idoli. Di lui Dio misericordioso ha detto: — Tu non devi avere misericordia e giustificare la sua colpa! — » (Sanhedrin, 107b; Sota, 47a).
[108] Cfr. Gv 5,19.36; 6,57; 14,9-11
[109] Cfr. Gv 8,42; 16,28.30; 17,8.
[110] Cfr. Gv 5,18; 10,30.33; 17,11
[111] Cfr. note 98, 99, 100,101,102.
[112] Cfr. Gen 28,16-17; Es 20,18; 34,18; Lv 9,24; Dt 5,5; 1Re 19,12-13; Mt,17,6; 27,54; 28,1-5.8; Mc 16,5-8; Lc 1,11-12; 9,34; 24,4-5.
[113] Cfr. Mt 8,27; 9,8.33; 15,31; Mc 1,27; 4,41; 5,42;7,37; Lc 4,36; 5,9.26; 7,16;
[114] Cfr. Mc 12,35; Lc 20,41
[115] Cfr. Mt 9,27; 12,23; 15,22; 20,30.31; Mc 10,47.48; Lc 18,38.39;
[116] Il sillogismo, come dice il termine stesso, è un insieme di ragionamenti tra loro strettamente concatenati per fini dimostrativi. Il primo ad utilizzarlo fu Aristotele (384-322 a.C.). Esso si compone di tre parti: a) Premessa maggiore; b) Premessa minore; c) Conclusione. Nel nostro caso, pertanto: si avrà: A) Tutto ciò che è interiormente diviso è instabile e destinato a perire (v.25); B) Satana è contro se stesso e diviso in se stesso (v.26a); C) Ergo, Satana è destinato a perire (v.26b).
[117] Cfr. O. Spinetoli, Matteo, op. cit. – Pag. 364
[118] Una qualche traccia di questa diffusione dell’esorcismo nel mondo giudaico la possiamo riscontrare in Mc 9,38; Lc 9,49; At 19,13-16
[119] Cfr. Teodor Costin, Il Perdono di Dio nel Vangelo di Matteo, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 2006
[120] Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. - pag 289, nota 3
[121] La blasfemia consiste nel fatto di attribuire a potenze maligne e non a Dio la liberazione dell’uomo dal Male. Similmente si era comportato il popolo, liberato dalla schiavitù egiziana, nell’attribuire al vitello d’oro la propria liberazione (Es 32,4).
[122] Il racconto di Tobia ricorda come il cuore e il fegato del pesce fossero utili per preparare dei suffumigi utili per liberare gli indemoniati (Tb 6,7-9) o luoghi infestati dalla presenza del maligno (Tb 6,17; 8,3).
[123] Cfr. Mt 8,16.32a; 15,28; 17,18; Mc 7,29; Lc 4,35; 8,32; 9,42.
[124] Cfr. Gv 12,31; 14,30; 16,11
[125] Cfr. Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22; Gv 1,32-33
[126] Cfr. Mt 3,11b; 12,18; Mc 1,8; Lc 4,18-21
[127] Cfr. Mt 4,1; Mc 1,21; Lc 2,27; 4,1.14; 10,21; At 1,2
[128] Cfr. Gv 4,34; 5,30; 6,38.
[129] Il testo greco al v.19,30b letteralmente dice “Restituì lo spirito” (paršdwken tÕ pneàma, parédochen to pneûma). È questa, infatti, la condizione perché lo Spirito Santo, di cui Gesù era ripieno, permeato e intessuto, fosse donato ai suoi seguaci. Giovanni, infatti, ricorda che “Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv 7,39). Soltanto dopo la sua morte e la sua risurrezione lo Spirito può essere trasfuso nei credenti e Gesù, quindi, ritornare ad essere presente in mezzo ai suoi (Mt 28,20; Gv 14,16-18; 16,7).
[130] Cfr. Gv 3,34; 7,39; 14,26; 15,26; At 2,33
[131] Cfr. Mt 28,18-20; Gv 20,22-23; At 1,8
[132] Cfr. Gv 3,3-6; Rm 14,17-19; 1Cor 4,20
[133] Cfr. Prv 1,23; Gl 3,1-2; At 2,17-18
[134] Cfr. Nota 71
[135] Cfr. Anche 1Cor 15,23-28
[136] Cfr. Mt 8,29; Mc 1,24; 5,7; Lc 8,28; At 8,7.
[137] Cfr. Rm 4,25; 5,1.9-10.15; 6,3-8; 8,1-2.11; 14,9; 1Cor 1,18.23-24; Ef 1,4-7.10; Col 2,12.
[138] Nel linguaggio biblico il verbo al passivo è sempre riferito all’agire di Dio e lo chiama in causa come agente primo. Tecnicamente tale passivo è chiamato divino o teologico.
[139] Cfr. note 90 e 91 del presente commento
[140] Cfr. Gv 5,18; 8,40-42; 10,33; 19,7
[141] Cfr. Lc 24,13-32; Gv 20,9-10.25
[142] Con tale nome si indicava nell’antichità il notaio del re o dei governanti d’oriente. Modello dello scriba ebraico fu Esdra (Esd 7,6), appassionato studioso della Legge del Signore e maestro in Israele (Esd 7,10). Esso curò anche la formazione e l’insediamento di giudici (Esd 7,25). Grazie a lui e dopo di lui i leviti continuarono in mezzo al popolo l’insegnamento della Torah (Ne 8,1-9). Nel tempo, le funzioni dello scriba e quelle del sapiente si fusero insieme (Sir 38,24). In questo periodo la Scrittura e la sua interpretazione era ancora un’esclusiva della classe sacerdotale. Sarà soltanto con il II sec. a.C., sotto l’influsso ellenistico, che il sommo sacerdote favorirà l’apertura anche ai laici. Sarà proprio questa l’epoca del sorgere dei primi scribi laici. Intorno alla metà del II sec. a.C., fra gli scribi si formarono tre correnti: Farisei, Sadducei, Esseni, benché vi fossero anche scribi non inquadrati. Delle tre categorie di scribi, quella che ebbe una maggiore influenza sul popolo fu la corrente farisaica. È probabile, quindi, che quando si citano nel N.T. gli scribi assieme ai farisei, si intenda gli scribi della corrente farisaica. Le funzioni primarie deglie scribi furono: 1) lo studio della Torah, integrata dalla tradizione degli antichi (Torah orale); 2) gli scribi più quotati svolgevano gratuitamente funzioni di maestri presso il loro seguito di discepoli, guadagnandosi da vivere come artigiani. Essi insegnavano anche presso le sinagoghe e nelle “scuole elementari”, iniziate nel I sec. d.C. ad opera del rabbino Simeon ben Shetach, che ne fece obbligo ai bambini; 3) in quanto esperti della Legge, esercitarono la loro funzione anche in campo giudiziario e alcuni di questi fecero parte del Sinedrio, l’organo di governo politico e religioso, con funzioni anche giudiziarie. La loro formazione avveniva presso un qualche maestro famoso, del quale ripetevano mnemonicamente la dottrina e gli insegnamenti. – Cfr. la voce “Scriba” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; - Günter Stemberger, La religione ebraica, Ed. Centro editoriale dehoniano, 1996 – Bologna.
[143] Cfr. O. Spinetoli, Matteo, pag. 370 – op. cit.
[144] In merito si pensi alle numerose violazioni che Gesù fece circa l’osservanza del sabato o nei confronti delle disposizioni circa la purità e il digiuno.
[145] Nel linguaggio giovanneo, i miracoli vengono definiti “segni” (semeia) perché, per sua natura propria, il segno spinge ad andare oltre alle apparenze, per cogliere la verità che nel segno stesso era contenuta e significata: la divinità stessa di Gesù.
[146] Cfr. Is 54,5; 61,10; 62,4.5; Ger 2,32; 3,1; Os 1,2; 2,4-6.21;
[147] Cfr. Is 57,3; Ger 3,9; Ez 16,31-35; 23,37; Os 2,4; 3,1;
[148] Cfr. Mt 15,14; 21,33-39.45; 23,13.15; Mc 12,1-8.12
[149] Cfr. Mt 15,8.9; 23,16-19; Mc 7,6.7
[150] Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. – pag. 293 – Cfr. Anche Os. 6,2
[151] Cfr. Mt 4,23-25; Mc 1,14-15
[152] Cfr. Mt 11,19; 13,54; Mc 6,2; Lc 2,40.52; 7,35; 1Cor 1,24.30; Col 2,2-3.
[153] Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit. – pag. 153.
[154] Cfr. Mt 10,25; Mc 3,22; Gv 7,20; 8,48.52; 10,20.
[155] Cfr. Mt 12,24; Mc 3,22; Lc 11,15.
[156] Il problema della salvezza del popolo ebreo, prescelto da Dio per la realizzazione del suo piano salvifico, tormentava non poco Paolo, che alla questione dedicherà i capp. 9-11 della lettera ai Romani.
[157] All'inizio del trattato rabbinico Pirqè Avòt ("Capitoli dei Padri"), la tradizione orale è così presentata: "Mosè ricevette la Torà dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea. Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe intorno alla Torà" (Avòt I,1). “Il concetto di siepe, che deve proteggere la Torah, consiste nel circondare il precetto divino di osservanze supplementari, per impedirne meglio la violazione”. Per questa nota cfr. Paolo De Benedetti, Introduzione al Giudaismo, Editrice Morcellania, Brescia, 2001.
[158] Cfr. Mt 15,8; Mc 7,6.
[159] Cfr. Mt 15,9; Mc 7,7.
[160] Cfr. Mt 15,14; 23,17.19.26.
[161] Cfr. Mt 16,3; Gv 11,47; 12,37; 20,30-31; At 2,22.
[162] Cfr. Mt 21,19; Mc 11,13.
[163] Cfr. Mt 23,4; Lc 11,46.
[164] Cfr. Dt 6,5; Ez 11,19; 36,26-27; Gl 2,12-13.
[165] Cfr. Mt 21,42-45; Rm 9,32.
[166] Cfr. Rm 8,14-17; Gal 4,4-7; Ef 1,5; 1Gv 3,1-2.
[167] Il v.47 è una ripetizione del v.46 e narrativamente serve per giustificare il fatto che Gesù si rivolge all’interlocutore del v.47. Tale versetto (v.47), infatti, è assente nei migliori codici, come quello vaticano e sinaitico, nonché dalle versioni antiche latine. La sua assenza avrebbe resa incongruente la risposta di Gesù che al v.48 si rivolge a uno che gli sta parlando della presenza dei suoi parenti. – In tal senso cfr. Cfr. R. Fabris, Matteo, op. cit. – nota 1 di pag. 296 – Cfr. anche il testo critico di Nestle-Aland, Nuovo Testamento Greco-Italiano, XXVII edizione.
[168] Il senso dello “star fuori” inteso come contrapposizione a quelli che “stanno dentro” al gruppo di Gesù, viene meglio evidenziato in Marco: “Quando poi fu solo, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro: "A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato" (Mc 4,10-12 ).
[169] Cfr. la voce “Le Folle” nell’opera “Il racconto di Matteo” presente su questo sito.
[170] Sul tema di Maria nei suoi rapporti con Gesù cfr. la voce “Maria, donna di fede?” nell’opera “Il racconto di Matteo” presente su questo sito.
[171] Cfr. il termine “mano” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, op. cit.
[172] Cfr. Es 6,1.6; 13,3; 14,31; 32,11; Dt 4,34; 7,8.19;
[173] Cfr. Dt 15,8.11;Sal 103,28; 144,6; Prv 31,20.
[174] Cfr. Es 3,20; 7,4.5.19; 8,1; 14,6; 29,10; Lv 16,21; Nm 27,23; Sal 9,33; 137,7; 143,7; Is 1,25; 11,15; 23,11; 31,3; Ger 15,6; 51,25; Ez 6,14; 14,9.13; 16,27; Sof 1,4; 2,13; Zc 2,13. – Cfr. Anche la voce “Imposizione delle mani” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, op. cit. e in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit.
[175] Cfr. Mt 8,3.15; 9,18.25; 19,13.15; Mc 1,41; 5,23.41; 6,2.5; 7,32; 8,23.25; 9,27; 10,6;16,18; Lc 4,40; 5,13; 8,54; 13,13; 14,3; At 4,30; 9,12.
[176] Cfr. Gv 6,56; 14,17.23; Ef 2,22; 1Gv 4,15.16.
[177] Cfr. 1Cor 6,1.2; 7,14; 2Cor 1,1; 8,4; 9,1.12; 13,12; Ef 1,1.15; 3,8.18; Fil 1,1; 4,21.22; Col 1,2.4.26; 3,12; 2Ts 1,10; 1Tm 5,10; Eb 3,1; 6,10; 13,24.
[178] Cfr. Rm 8,15; Gal 4,4-6; Ef 1,5