IL VANGELO SECONDO GIOVANNI


Commento esegetico e teologico


a cura di Giovanni Lonardi




Questioni Introduttive





Affrontare il Vangelo di Giovanni senza passare attraverso un previo chiarimento su alcuni suoi aspetti principali significa precludersi la possibilità di una seria esegesi, rendendo difficile al lettore un'adeguata comprensione della stessa, costringendo il suo autore a continue note chiarificatrici, che certamente non agevolano la lettura, interrompendola di continuo. Ci si impone, dunque, l'obbligo di affrontare in un capitolo a parte alcune questioni preliminari, che aiutino sia l'esegeta che il suo paziente lettore a comprendere correttamente un vangelo molto complesso e difficile sia per la sua particolare natura meditativa, dai ritmi molto lenti e ripetitivi, espressi in uno stile che si distacca dall'intero patrimonio letterario neotestamentario; sia per la sua lunghissima gestazione, che certamente ha complicato non poco la sua formazione, dando alla luce, da un lato, una stupenda e irripetibile contemplazione del Verbo incarnato; ma dall'altro, da un punto di vista meramente letterario, si presenta come un guazzabuglio talvolta indistricabile, che non ha paragoni in tutto il N.T.

Le questioni, che sinteticamente affronteremo in questa Parte Introduttiva, hanno il compito di orientare il lettore all'interno del complesso mondo giovanneo, cercando di rendergli più agevole l'approccio a questa stupenda lirica intonata al Verbo incarnato, che affascina il credente di ogni tempo. Affronteremo le questioni in ordine concentrico, dall'esterno verso l'interno, cercando di capire in quale modo il Verbo incarnato si sia reso storicamente raggiungibile anche da noi attraverso la testimonianza scritta di Giovanni e della sua comunità.

I temi che affronteremo, pertanto, in questo capitolo sono così raggruppati:


Il contesto storico e culturale in cui si è formato il vangelo


Gli elementi essenziali, sui quali accentreremo la nostra attenzione e che incorniciano storicamente, socialmente e culturalmente il Quarto Vangelo (QV), sono i seguenti:

  1. il periodo storico entro cui si colloca la gestazione e la nascita del QV è quello delimitato dalle due grandi guerre giudaiche: 66-73 e 132-135; periodo in cui il giudaismo cambia radicalmente volto: dal culto al Tempio a quello della Torah; mentre al sacerdozio si sostituisce una nuova classe dirigente: i rabbini, provenienti dalle fila degli scribi e farisei;

  1. Il giudaismo nella sua formazione, nella sua evoluzione e nel suo riflettersi all'interno del QV. Il pensiero della comunità di Qumran nel QV;

  1. l'ellenismo e i suoi influssi sulla formazione del QV;

  1. lo gnosticismo e i suoi riflessi nel QV;


Il periodo storico1

Il vangelo di Giovanni storicamente si forma tra il 60 e il 100/110 d.C.2, in un periodo, quindi, che si pone tra la prima guerra giudaica (66-73) e la seconda (132-135). L'importanza del suo collocarsi in questo periodo sta nel fatto che esso risente delle forti tensioni spirituali, delle attese messianiche ed escatologiche, che animarono questo periodo. Le due guerre, infatti, non vanno lette semplicemente come una lotta di liberazione contro l'invasore romano, anche se questo elemento politico e sociale non era assente. Esse furono prevalentemente guerre sante, finalizzate ad aprire la strada al Regno di Dio, che aveva in Israele il suo caposaldo3. Il clima in cui esse maturarono e in cui vissero gli autori del QV fu di forti tensioni politico-sociali, le cui motivazioni furono essenzialmente religiose, dominate tutte da attese messianiche, da visioni escatologiche ed apocalittiche, che permeavano il vivere religioso e civile del giudaismo. Lo spirito che scatenò e animò le rivolte maccabaiche (167-164 a.C.), innescate da una sconsiderata e offensiva ellenizzazione del mondo giudaico da parte di Antioco IV Epifane4 (175-164 a.C.), era ancora molto vivo in mezzo al radicalismo giudaico. La riconquistata libertà religiosa, il ritorno alla religione dei Padri e la riconsacrazione del Tempio profanato venivano annualmente celebrati con la festa dell'Hannukah o della Dedicazione, cadente nel mese di dicembre; una festività questa che Giovanni ricorderà nel suo vangelo (Gv 10,22). Le rivolte che si susseguirono nel tempo erano sostenute tutte dall'idea che il potere avverso, nel nostro caso quello romano, succeduto nel 63 a.C. a quello greco, era in definitiva un potere contro Dio. Queste rivolte erano sostanzialmente dei movimenti popolari spontanei, capeggiati da sedicenti profeti o sedicenti messia, che, non di rado si autoproclamavano re di Israele, sfidando le ire dell'impero romano, che non poco temeva e mal tollerava queste rivolte, che si risolvevano normalmente in un bagno di sangue. La facilità, tuttavia, con cui questi personaggi trovavano ampio seguito all'interno del popolo dice come le attese messianiche fossero vivamente presenti in mezzo ad esso e come questo viveva escatologicamente i suoi tempi, tutto proteso verso l'avvento del Regno di Dio, che riteneva ormai imminente. Significativi, in proposito, gli interventi di Luca, che lasciano intravvedere lo spirito di attesa che albergava nell'animo di ogni israelita: “Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele” (Lc 2,25); così similmente, parlando di Anna, la profetessa, sottolinea come essa “Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). Anche Giovanni, da parte sua, lascia trapelare dalla bocca della Samaritana questa attesa del Messia: “So che deve venire il Messia [cioè il Cristo]: quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa” (Gv 4,25). I discepoli di Giovanni si rivolgono a Gesù chiedendogli se fosse lui colui che doveva venire o se dovevano aspettarne un altro (Mt 11,3). In quest'ottica escatologica ed apocalittica viveva la comunità di Qumran5, tutta protesa a preparare l'avvento del Regno di Dio, che sarebbe stato preceduto da una grande guerra tra le forze del bene e quelle del male. Il contenuto di questa conflagrazione finale era stato minuziosamente codificato nel testo qumranico convenzionalmente denominato “Regola della Guerra”6.

Alcuni episodi, che sinteticamente riportiamo di seguito, sono emblematici di questa forte tensione messianica ed escatologica, che pervadeva la comunità giudaica dell'epoca. Essi danno l'idea del clima in cui la comunità giovannea visse ed elaborò la sua riflessione sul Verbo Incarnato.
Nel 47 a.C per volere di Cesare, venne nominato viceré della Giudea l'idumeo7 Antipatro, feroce ministro di Ircano II8, e padre di Erode il Grande, contro il quale si sviluppò il movimento nazionalistico di resistenza guidato dal galileo Ezechia. Nello stesso anno, questi venne ucciso da un corpo di spedizione agli ordini di uno dei figli di Antipatro, Erode. Il processo per la morte di Ezechia venne insabbiato grazie all'intervento di Giulio Cesare9.

In Perea, un certo Simone, uno schiavo del re, che forte della sua avvenenza e del suo ascendente, si pose a capo a dei rivoltosi e, cintosi di un diadema regale, si proclamò re e incendiò la reggia di Gerico10. Anche un pastore, un certo Antrongeo, emulò le gesta di Simone11, proclamandosi re e portando distruzioni e saccheggi per la Palestina. Questa insistente autoproclamazione regale da parte dei rivoltosi, la quale cosa accadrà anche per la guerra del 132-135 d.C. con Bar Kochbah, proclamato messia da rabbi Aqibah, dà un'idea di questo clima di attesa di un imminente avvento messianico-regale e quanto questa idea fosse radicata e persistente in mezzo al popolo, sempre pronto a seguire il nuovo messia o il nuovo re di turno, nonostante i massacri che puntualmente ne seguivano12. Si pensi in tal senso alla rivolta di un certo Teuda, sedicente profeta, che ai tempi del procuratore romano della Giudea, Fado, convinse molti Giudei a prendere i propri beni e a seguirlo fino al Giordano, che, a un suo comando, si sarebbe aperto al loro passaggio13. Teuda, tuttavia, non fu l'unico personaggio che si dichiarò profeta, ma altri lo seguirono proclamandosi, di volta in volta, o messia o re o profeta, in particolar modo sotto il governo di Felice (52-60 d.C.), procuratore della Giudea. Qui, un tale, conosciuto con il nome de “L'Egiziano”, raccolse attorno a sé un foltissimo gruppo di seguaci, li condusse sul monte degli Ulivi e da lì egli, a un suo comando, avrebbe fatto cadere le mura di Gerusalemme. Ma anche questo assurdo tentativo di autoproclamazione regale, messianica o profetica finì, come tutti gli altri, in un massacro: quattrocento morti e duecento dispersi14. Questo clima di attesa messianica, la pronta creduloneria del popolo e la sua facile predisposizione alla rivolta fanno capire anche le preoccupazioni del sommo sacerdote Caifa, preoccupazioni ricordate proprio da Giovanni: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “<<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: <<Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera>>” (Gv 11,47-50); parole a cui l'evangelista attribuirà un valore profetico (Gv 11,51-52).

Ad arroventare ulteriormente il clima di insofferenza religiosa nei confronti dei Romani, che porterà sia alla prima che alla seconda guerra giudaica, fu la costituzione religiosa e politica del gruppo degli Zeloti, fondato da un certo Giuda il Galileo, dottore della Legge, assieme al fariseo Sadduk o Zadok, in occasione di un censimento da parte del governatore Quirinio nel 6 d.C., ricordato anche da Luca nel suo Vangelo (Lc 2,2). Gli Zeloti vennero reclutati prevalentemente tra i Farisei, alla cui dottrina rimasero saldamente radicati. Essi furono degli attivisti, una sorta di colonna armata del gruppo dei Farisei. Essi sostenevano che non si dovesse aspettare passivamente il cambiamento messianico, ma che si dovesse intervenire attivamente nella storia. Essi erano mossi da un ideale teocratico: solo Dio doveva essere il vero re d'Israele, mentre i Romani, dominatori stranieri e pagani, erano di ostacolo al governo di Dio su Israele. Questa formazione politico-religiosa si diffuse notevolmente tra la popolazione, provocando continue sommosse, e la preparò, suo malgrado, alla grande rivolta, che sfocerà nella prima guerra giudaica, che vide la distruzione di Gerusalemme e del Tempio (70 d.C.) e il nascere di un nuovo giudaismo, quello rabbinico15.

In questo periodo, tra il 70 e il 135 d.C., sorsero numerosi scritti apocalittici. Questi, al di là delle singole visioni della storia, sottolineavano unanimemente come ormai si era giunti agli ultimi tempi e tutti si attendevano un intervento di Dio nella storia attraverso un messia, variamente inteso, il cui compito era capovolgere la situazione di grande sofferenza, da cui il mondo era travolto e instaurare un regno messianico, una sorta di grande sabato cosmico, dopo il quale sarebbe venuto in modo definitivo il Regno di Dio. La distruzione del Tempio (70 d.C.), poi, era letta come l'inizio della fine dei tempi.

Questo fu il clima storico in cui il QV si andò lentamente formando per quaranta/quarantacinque anni, assorbendo, ma anche meglio filtrando, più di ogni altro scritto neotestamentario, questo clima apocalittico dai toni escatologici, dando una nuova e più approfondita lettura della figura di Cristo, del suo operare e della sua stessa predicazione, rivelatrice della sua natura divina, rettificando le attese messianiche e dando una nuova lettura sia dell'escatologia che dell'apocalittica. Già in apertura del suo vangelo, Giovanni presenta Gesù come “Figlio di Dio” e come l'autentico “re d'Israele” (Gv 1,49). Sono questi i due titoli fondamentali, che per l'evangelista sostanziano la natura di Gesù. Il tema della regalità di Gesù percorre l'intero racconto giovanneo, ma sarà soltanto alla fine, nel racconto della passione e in quel intenso dialogo con Pilato, che ne svelerà l'autentico significato: “Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: <<Tu sei il re dei Giudei?>>. Gesù rispose: <<Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?>>. Pilato rispose: <<Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?>>. Rispose Gesù: <<Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù>>. Allora Pilato gli disse: <<Dunque tu sei re?>>. Rispose Gesù: <<Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce>> (Gv 18,33-37). Una regalità, dunque, che si contrappone nettamente a quella pensata dagli uomini, che erano venuti a prenderlo per farlo re, e dalla quale Gesù rifugge (Gv 6,15). Non è questo il modo di pensare la regalità di Gesù. Una sorta di monito che Giovanni rivolge alla sua comunità. La regalità di Gesù va cercata altrove e va ricompresa ponendosi dalla prospettiva di Dio e non da quella degli uomini. Per questo è necessario rinascere dall'alto16.

Anche attorno alle attese messianiche, che infiammavano il giudaismo dell'epoca, Giovanni cercherà di stemperare le forti tensioni, che dovevano agitare anche la sua comunità. Egli precisa, con un'annotazione non priva di polemica, che il Cristo, cioè il messia atteso, non è il Battista (1,20; 3,27); sa deridere con fine ironia i detrattori della messianicità di Gesù e le loro dotti dissertazioni sul messia, che di fatto li rendono ciechi (7,25-27.41-43; 12,34); stigmatizza quell'ossessiva quanto polemica ed inutile ricerca sulla vera natura messianica di Gesù da parte delle autorità giudaiche. Esse non riusciranno mai a coglierla, sia per la loro preclusione mentale sia per la loro ostinata incredulità, che le escludono di fatto dalla comunità credente (10,24-27); lascia capire, invece, come la vera messianicità in Gesù può essere colta soltanto nell'umile quanto entusiastica sequela di Gesù (1,37-42); una comprensione, che è sostenuta dallo stesso buon senso (7,31) e dalla stessa Tradizione (4,25); ma soprattutto una comprensione che si raggiunge soltanto attraverso un sublime e incondizionato atto di fede, fondato su di un'onestà intellettuale e scevro, quindi, da ogni sospetto, da ogni forzatura intellettuale, da ogni dibattito e che ha il suo vertice nella professione di fede di Marta: “Gesù le disse: <<Tuo fratello risusciterà>>. Gli rispose Marta: <<So che risusciterà nell'ultimo giorno>>. Gesù le disse: <<Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?>>. Gli rispose: <<Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo>>” (Gv 11,23-27), a cui fa eco quella di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28) o quella, simile del cieco nato (Gv 9,38). Ancora una volta, quindi, è necessario rinascere dall'alto, mettendosi nella prospettiva di Dio, una prospettiva che solo una fede autentica, radicata nella semplicità del cuore, è in grado di raggiungere e fare propria. Giovanni, dunque, tende a stemperare e a rettificare le comprensioni e le attese del proprio tempo circa il messianismo e la regalità, reindirizzandole verso Gesù in modo corretto, attraverso la fede, scevra da ogni fanatismo e da ogni paura, ma fondata soltanto sul buon senso, sulla ragionevolezza e sull'onestà intellettuale, che formano il preambolo accogliente di una comprensione superiore. E similmente, in un clima di forte tensione escatologica e di attese messianiche, in cui, come si è visto sopra, non pochi personaggi si autoproclamavano re, messia o profeti, Giovanni riprenderà questi titoli e li applicherà in modo corretto alla persona di Gesù; titoli che lasciano trasparire tutti un fondo comune: la divinità stessa di Gesù, colta in chiave salvifica (Gv 4,42) e scevra da contorni politici e di potere (Gv 19,36-37). E a ben pensarci è proprio questa la finalità primaria del racconto giovanneo (Gv 20,31).

Così pure le ansie e le attese di una imminente quanto improvvisa fine dei tempi17, che tanto agitavano le comunità credenti della prima ora, creando talvolta dei disordini al loro interno (2Ts 3,6-15), vengono stemperate da Giovanni con la sua escatologia, che egli vede già attuata in Gesù: egli è l'autentico evento escatologico. Non vi è dunque da attendere nessun'altra fine del mondo, poiché la venuta di Gesù costituisce già di per se stessa un atto di giudizio, posto da Dio sull'umanità18. Essa, già da subito, viene interpellata dalla presenza di Gesù ed è chiamata a dare una sua risposta esistenziale, così che chi crede in lui e lo accoglie nella sua vita, è salvo19, cioè appartiene già fin d'ora al mondo di Dio, da cui Gesù proviene; chi, invece, non crede, è già condannato fin d'ora per la sua incredulità (Gv 3,18; 12,48). Per Giovanni, infatti, Gesù è l'ultima chance che Dio offre all'umanità. Per l'autore del QV, quindi, l'escatologia, con il suo bagaglio apocalittico appresso, non è un tempo posto al futuro, ma è una realtà già in atto. Non a caso, infatti, egli usa i verbi, che riguardano la salvezza, al presente indicativo, per indicare in tal modo l'agire di Dio già in atto; mentre Gesù è letto come l'agire di Dio in mezzo agli uomini. Dio nel suo Figlio è già venuto e con la sua presenza interpella gli uomini, spingendoli a dare, ora, la loro risposta e a prendere esistenzialmente posizione nei suoi confronti. Gli effetti di questa escatologia presenziale portano, da un lato, a legare la comunità giovannea ad un concreto impegno nel presente, evitando fanatiche attese; dall'altro, la svincola di fatto dalle altre comunità, tutte protese verso un futuro regno di Dio, che per Giovanni, invece, è già presente e va cercato nella persona stessa di Gesù, che con la sua figliolanza divina e la sua regalità, fonda di fatto il Regno di Dio, hinc et nunc. Dal futuro, dunque, non c'è da aspettarsi più niente, poiché ciò che Dio doveva fare e doveva dire lo ha già fatto e lo ha già detto nel suo Figlio, che ha donato al mondo, quale dono di salvezza (Gv 3,16). Una posizione questa condivisa in qualche modo anche da Luca, che vede la salvezza dell'uomo attuarsi nel suo “oggi” (s»meron, sémeron), un termine questo, che ricorre insistentemente nel suo vangelo e che è sempre esplicitamente o indirettamente collegato con la dinamica salvifica, che Luca vede attuarsi in Gesù20.


Il Giudaismo


Un secondo elemento, storicamente rilevante da un punto di vista sociale, culturale e religioso, entro cui si collocò il racconto giovanneo e di cui risentì in modo particolare, fu il Giudaismo. Giovanni intesserà, di fatto, il suo vangelo su racconti della Torah, sulle festività proprie dei Giudei, dandone, tuttavia, una sua lettura personale e originale, reinterpretandoli alla luce dell'evento Gesù, concepito come Verbo eterno del Padre incarnatosi. Come vedremo, fu un lavoro che rivela un grande ibridismo culturale e una elevatezza spirituale, che non trovano eguali nella letteratura neotestamentaria21

Il Giudaismo ha sue origini lontane e delinea uno stile di vita, un modo nuovo di pensare e di organizzare la propria fede e la propria vita, che ha il suo epicentro nel culto della Torah e in quello del Tempio. Si tratta di una nuova evoluzione dell'ebraismo, iniziatasi con l'esilio babilonese (597-538 a.C.) e affermatasi nel tempo successivo (450 a.C.).

Dall'epoca patriarcale e nomadica (1800 a.C.), si passò a quella dei giudici e sedentaria (1200 a.C.), dopo la quale Israele raggiunse la sua configurazione di nazione e di stato con l'inaugurazione della monarchia (1030 a.C.), dapprima unitaria (1030-933 a.C.) e poi divisa (933 a.C.). L'unità nazionale, infatti, venne meno alla morte di Salomone (933 a.C.) e il Regno di Israele si divise in due: il Regno del Nord o di Israele e il Regno del Sud o di Giudea. Il primo, caduto sotto i colpi dell'assiro Tiglat Pileser III (747-727) e, successivamente, di Sargon II (722-705), non si riebbe più e scomparve dalla storia. Il Regno del Sud o Giudea sopravvisse fino al 597 a.C., anno in cui le armate babilonesi lo spazzarono via in tre ondate successive (597, 587, 582 a.C.). Tuttavia, ben diverso futuro la storia riservò al piccolo Regno di Giuda. Fu proprio in questo sessantennio di esilio (597-538 a.C.), che venne concepito il Giudaismo. Privati della propria terra santa, distrutto il Tempio e Gerusalemme, sotto l'influsso del profetismo (Geremia, Ezechiele e Deuteroisaia) e del sacerdozio in esilio, la fede, precedentemente fondata sul culto al Tempio, si accentrò sempre più attorno alla Torah, all'Alleanza e all'osservanza delle tradizioni dei Padri; mentre il Tempio, inteso quale luogo di ritrovo per il culto, ormai distrutto e lontano, venne sostituito gradualmente dalla sinagoga. La circoncisione, l'osservanza del sabato, la purità rituale, le prescrizioni sugli alimenti, le celebrazioni delle festività diventano in terra straniera segni importanti della propria identità, segni dell'appartenenza al popolo di Jhwh. Gli scritti, portati con sé dalla patria in rovina, vengono ricopiati e reinterpretati alla luce del nuovo drammatico evento: l'esilio, che sembra aver posto fine a tutte le promesse. Si forma in questo periodo la classe degli scribi e dei dottori della Legge, che acquista sempre più vitale importanza presso i deportati. L'osservanza della Legge e il culto a Jhwh furono i due elementi che preservarono l'identità del popolo e di ogni singolo israelita e ne conservarono l'unità spirituale. L'ebraico, sempre più relegato al ruolo di lingua sacra, venne sostituito dall'aramaico, lingua sempre più diffusa nell'antico oriente. Nel 538 a.C., con proprio editto, Ciro dà la possibilità agli ebrei di ritornare in patria, sollecitando una rapida ripresa e ricostituzione della Palestina, una regione questa strategicamente molto delicata, terra di passaggio e di comunicazione geografica tra l'oriente e l'occidente, tra le culture e le popolazioni della Mezzaluna fertile e dell'Egitto. Tra il 538 e il 450 a.C. furono diversi, ma scarsamente efficaci, i tentativi di far ripartire la regione della Palestina, riportandola ad una condizione di normalità. Soltanto il 10% degli esiliati ritornarono in patria e ciò che essi trovarono fu una grande desolazione: il Tempio, cuore della vita sociale, culturale e religiosa, non c'era più; il culto, pertanto, era inesistente, così come lo era quello della Torah; la terra promessa, dono di Jhwh, ora era popolata dai goim, cioè dai pagani o dai coloni esportati dagli stessi babilonesi. La convivenza tra pagani ed ebrei, rimasti in patria portò ai matrimoni misti e venne perduta la purezza della religione dei Padri, ormai scaduta in un inquinante e blasfemo sincretismo religioso. L'identità politica e religiosa di Israele era sostanzialmente perduta. Si imponeva, quindi, un energico e radicale recupero delle Tradizioni dei Padri, la ricostruzione del Tempio, che avverrà solo tra il 520 e il 515 a.C., la restaurazione della purezza del culto all'unico Dio, la scrupolosa osservanza della Torah, nonché la separazione degli ebrei dai pagani. In altri termini, si trattava di ricostruire l'identità del popolo, andata ormai perduta, poiché a tale identità erano strettamente legate la Promessa e l'Alleanza. Saranno le due fondamentali figure di Neemia e di Esdra a rifondare, di fatto, la Giudea, dando una nuova identità ai suoi abitanti, che andrà sotto il nome di giudaismo, un caratteristico nuovo modo di vivere la propria vita, la religione e le proprie relazioni sociali, accentrato attorno a due elementi essenziali: l'osservanza scrupolosa della Legge divina e il culto del Tempio, diventato luogo identitario del proprio essere ebrei.

Neemia, giunto in Giudea nel 445 a.C. su mandato di Artaserse I, operò prevalentemente in senso amministrativo e politico: ricostruì le mura di Gerusalemme, condonò i debiti dei cittadini impoveriti dall'usura praticata dall'aristocrazia terriera giudaica, riordinò le proprietà terriere, impose l'osservanza del sabato e agì contro i matrimoni misti, che costituivano un pericolo sia religioso che demografico, indebolendosi, in tal modo sempre più, l'identità ebraica. Lo seguì nel 39822 a.C., a capo di un nuovo gruppo di rimpatriati, Esdra, che si occupò prevalentemente degli aspetti religiosi e cultuali. Egli ebbe come incarico quello di ristabilire la Legge di Dio in mezzo al popolo, legge che lo stesso Artaserse, poi, convertì in legge di stato (Esd 7,25-26). Sotto le due figure politco-religiose vennero repressi gli abusi circa il culto (Ne 13,1ss), vengono esclusi i non appartenenti a Israele (Ne 13,1-3), si organizzano contributi a favore del culto del Tempio (Ne 13,10-13.31), viene ripristinata una rigorosa osservanza del sabato (Ne 13,15-23), si operò contro i matrimoni misti (Ne 13,23-28). In questo contesto di restaurazione venne convocata un'assemblea di tutti i golah, i rimpatriati, che ne decise una drastica abolizione, separando le mogli dai loro mariti e i figli dai loro padri e rimandando tutti ai loro paesi di origine (Esd 10). Nell'ambito di questa frenetica e radicale riforma sociale e religiosa, che puntava al purismo ebraico e alla ricostituzione dell'identità ebraica, legandola alla tradizione dei padri, avvenne un episodio fondamentale per la vita futura del popolo, che potremmo definire come il momento fondante il Giudaismo: all'interno di una grande cornice liturgica fu proclamata solennemente da Esdra la Legge (Ne 8,1-9). Per più giorni il popolo ne ascoltava la lettura in un clima di grande commozione e gioia. Venne in tal modo ristabilita l'Alleanza con Jhwh, che avrà da questo momento in poi come fondamento essenziale la rigorosa osservanza della Torah. Da questo momento il popolo ha ritrovato la propria unità e la propria identità spirituale, culturale e sociale attorno al Libro, che regolamenterà, sotto la spinta interpretativa dei dottori della Legge, ogni passo della vita dell'israelita. Ha così origine il giudaismo. Tuttavia, questa riforma portava al proprio interno un tarlo, che roderà l'anima di ogni pio israelita, sterilizzando e svuotando il suo rapporto con Dio. Infatti, se da un lato vi fu una sincera adesione esistenziale alla Legge di Jhwh, dall'altro tale adesione si ridusse ad una mera esecuzione di ciò che la Legge ordinava. Questo portò ad un modo legalistico di vivere la propria vita e il proprio rapporto con Dio, mentre giusto e pio era colui che eseguiva alla lettera quanto disposto dalla Legge (Lc 18,10-14 ). Lo spirito dei profeti, che auspicavano il ritorno a Dio con il cuore, era così definitivamente perduto23. Gesù avrà, quindi, modo di lamentarsi proprio di questo24. La religione ebraica non fu una religione del cuore, ma della Legge, concepita come volontà divina, che chiedeva solo di essere eseguita non nello spirito, bensì nella lettera25.
Con la riforma di Neemia ed Esdra e la ricostruzione del secondo Tempio
26 cambia radicalmente il modello del vivere sociale: si passa da una monarchia, ormai definitivamente scomparsa, se si eccettua il breve periodo del regno asmoneo (140-37 a.C.), nato a seguito della lotta maccabaica contro Antioco IV Epifane (167-164 a.C.), a quello del sacerdozio di Gerusalemme, che diviene il luogo religioso per eccellenza, caratterizzato dal culto del Tempio e della Torah. Si costituisce, quindi, un governo teocratico, che ha la sua massima espressione nel Sinedrio, formato da sacerdoti, scribi e farisei; in buona sostanza dalle tre classi che costituiscono il potere civile e religioso dell'Israele postesilico, cioè del Giudaismo.

All'interno di questa cornice storica e culturale si colloca il Vangelo di Giovanni, che si muove essenzialmente sui due filoni propri, che costituiscono l'anima del giudaismo: il Tempio, culto e sacerdozio; e la Legge. È significativo il fatto che Giovanni apra il suo racconto con la purificazione del Tempio (Gv 2,13-19), che nei Sinottici, al contrario, è posta alla conclusione dell'attività pubblica di Gesù. Segno questo che il Tempio e il suo culto costituiranno un elemento centrale dell'operare di Gesù, che lo accompagnerà per la sua intera missione, animata da uno zelo divorante per il Padre, che lo consumerà sulla croce (Gv 2,17). Tutto l'operare di Gesù, dunque, sembra legato al Tempio, ma non per rinnovarlo, né per rinnovarne il culto, bensì per sostituirlo, facendo di se stesso l'autentico culto definitivo. Giovanni, dunque, prospetta una sostituzione del Tempio e del suo antico culto con la persona stessa di Gesù, che opera per il Padre. Il Tempio, pertanto, va letto come figura del suo corpo ricostituito nella potenza dello Spirito; mentre il suo operare per il Padre come l'autentico culto. Vi è, dunque, una sorta di identificazione tra la persona di Gesù e il Tempio; tra il suo operare per il Padre e il culto. Probabilmente non è un caso che il termine Tempio compaia nel vangelo di Giovanni quattordici volte e ogni volta esso è strettamente e direttamente legato alla presenza e all'azione di Gesù. Giovanni, quindi, crea un forte legame tra Gesù e il Tempio, lasciando trasparire come egli sia il nuovo Tempio, venuto per sostituire quello antico e come il suo ricercare la volontà del Padre e il suo operare per il Padre sia l'autentico culto desiderato da questi. È significativo, infatti, quanto risponde Gesù alla Samaritana, che gli chiede dov'è il luogo dove celebrare l'autentico culto: “[..] è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23). Dunque, l'autentico culto non è più geograficamente localizzato, né esso è più motivo di contesa e nessuno se ne può appropriare, poiché esso è stato espropriato agli uomini e collocato nel presente escatologico di Dio, significato dal momento presente (“è giunto il momento, ed è questo”). È un momento che assume l'identità di Gesù stesso. Gesù, dunque, è il nuovo luogo di culto, in cui si celebra il culto gradito al Padre: compiere la sua volontà. In Gesù, dunque, il Tempio e il suo culto assumono una nuova configurazione, non più legati a parametri umani, ma alla dimensione stessa di Dio. Un concetto questo che troverà il suo perfezionamento nell'Apocalisse: “Non vidi alcun tempio in essa (Gerusalemme) perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio” (21,22).

Il secondo elemento, che costituisce il proprio del giudaismo, è la Torah. E sui racconti della Torah, ma non solo, Giovanni costruirà il suo Vangelo. Si tratta, come vedremo, di una rilettura degli stessi in chiave cristologica, che richiama da vicino il principio lucano enunciato nel racconto dei due discepoli di Emmaus e che caratterizzò la chiesa primitiva: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). La Scrittura e in particolare Mosè, cioè la Torah, costituiscono il fondamento per la comprensione del mistero di Cristo. Giovanni ricorderà, al termine del suo vangelo, l'importanza delle Scritture nella comprensione della risurrezione e in quale modo Gesù ne fosse stato coinvolto: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9), per questo “I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa” (Gv 20,10). Le Scritture, dunque, saranno l'elemento determinante nella chiesa primitiva per la comprensione dell'evento Gesù. E Giovanni ripercorre gli antichi racconti scritturistici, in cui vede prefigurato Gesù e li rilegge ricomprendendoli alla luce del Risorto. Il tema principale, che percorre l'intero vangelo giovanneo, è il lamento di Isaia: “Dice il Signore: "Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13)27. E sarà proprio il formalismo cultuale e il vivere la lettera della Legge, trascurandone la sostanza, che impedirà al Giudaismo di comprendere le nuove realtà portate dall'evento Gesù e di leggerne i segni, impedendone una qualificante evoluzione spirituale, così che il termine Giudeo assume in Giovanni una connotazione negativa, diventando sinonimo di incredulità invincibile.

E ancora, il tema della settimana creativa riecheggia in 1,1-18 e forma la struttura dei cap. 1,19-2,1, indicando come una una nuova creazione avesse preso inizio con l'apparire dell'evento Gesù, suggerendo quasi come la prima creazione fosse il preannuncio di quest'altra. Vi è, infatti, un forte richiamo a Gen 1,1 in apertura del vangelo giovanneo, che crea un forte parallelismo tra Gen 1,1 e Gv 1,1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”; “In principio era la Parola”, che, alla pari di quella, era una Parola creatrice (Gv 1,3). Anche il tema della contrapposizione della luce alle tenebre (Gv 1,5) richiama da vicino il tema genesiaco della creazione: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre” (Gen 1,2-4), mentre lo scandirsi dei singoli giorni della creazione genesiaca risuonano in qualche modo in 1,19-2,11.

Il primo giorno si apre con la presentazione della figura del Battista (1,19-28); il secondo giorno è dedicato all'identità di Gesù e al senso della sua missione (1,29-34); il terzo giorno vede il primo costituirsi della comunità messianica, mentre altri titoli definiscono ulteriormente la figura di Gesù (1,35-42); il quarto giorno vede il completarsi del primo gruppo di discepoli, mentre altri titoli rivelano la vera natura di Gesù, quasi in un crescendo continuo (1,43-51); la settimana creativa vede, quindi, nascere la struttura fondante della nuova umanità, frutto di una nuova creazione, che ha il suo vertice nella risurrezione. Non a caso il cap.2 inizia con l'espressione significativa che al terzo giorno vi fu una festa nuziale, che richiama la festa del banchetto messianico, a cui Gesù e sua Madre, il nuovo Adamo con la nuova Eva, partecipano assieme ai discepoli, principio di una nuova umanità. Ma è la finale del racconto delle nozze di Cana che lascia intravvedere sullo sfondo la risurrezione, quale punto da cui si diparte la nuova creazione: “Gesù […] manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11b), ma questo accadde “al terzo giorno (2,1a). L'allusione alla risurrezione, quale atto creativo, è, quindi, evidente.

I grandi racconti dell'Esodo percorrono l'intero vangelo giovanneo. Si pensi al cap. 6 sul tema del pane, che si muove e si radica sullo sfondo della manna nel deserto, pane disceso dal cielo, in cui Giovanni riconosce Gesù (6,31-35); così come il tema dell'acqua, che segue il tema della manna nel deserto, richiama da vicino l'acqua che sgorgava dalla roccia (Es 17,5-7), diventando figura e preannuncio di un'altra acqua (4,13-14; 7,37-39). Anche il tema della salvezza, emanata dal serpente di rame, innalzato in mezzo al deserto (Nm 21,6-9), diventa la figura del Figlio dell'uomo innalzato sulla croce (3,14). Compare nel racconto della samaritana anche uno scandaloso confronto tra Gesù e Giacobbe (4,12), tra il pozzo della vecchia Torah e l'acqua viva che sgorga dal profeta e dal salvatore del mondo (4,19.42). Così che se Giacobbe fu il capostipite dell'antico Israele, Gesù viene qui pensato come quello del nuovo Israele. Torna il concetto di Israele quale proprietà di Dio in Gv 1,11: “Egli venne nella sua proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero”, in cui riecheggia Es 19,528. Così il tema della Tenda, in cui Jhwh si accampa in mezzo al suo popolo, riempiendola della sua gloria (Es 40,30-34), risuona in Gv 1,14: “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi e contemplammo la sua gloria, gloria come di Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità”. Anche il tema del Buon Pastore (10) trova una profonda eco in tutto l'A.T.29, in cui l'immagine del pastore diviene metafora, talvolta, della cattiva condotta delle autorità nei confronti del popolo; talvolta essa diviene l'immagine stessa di Jhwh, che si fa Pastore per il suo popolo e promette di inviarne uno di discendenza regale e che come tale verrà riconosciuto (Gv 1,31; 12,13). Significativo in tal senso è Ez 34. Anche l'espressione “'Egè e„mi” (Egò eimi, Io sono), che compare 24 volte in Giovanni, allude al nome di Dio e viene mutuata dalla Torah30 e dal Deuteroisaia31. Presente, inoltre, in Giovanni è il tema dell'acqua, un termine questo che ricorre circa 24 volte, acquisendo un significato salvifico e vivificante, che ha a che fare con la vita stessa di Dio32. Anche per questo tema Giovanni è debitore all'A.T., in cui il termine acqua, nelle sue diverse accezioni e usi, ricorre circa seicento volte, testimoniando l'importanza di questo elemento nella vita di quelle popolazioni. Ma è soprattutto nel linguaggio sapienziale e profetico che essa diventa il segno della vita, della purificazione e della benedizione divina33.

Le stesse festività giudaiche della Pasqua (2,13; 6,4; 11,55), delle Settimane (5,1), delle Capanne (7,2), della Dedicazione (10,22) formano una grande cornice entro cui Giovanni scandisce il suo racconto. Tutte festività34 che hanno la loro radice profonda nell'esperienza del deserto, raccontata nella Torah.

Il nome di Mosè ricorre 13 volte e sovente è posto a confronto con Gesù35 sia in termini di contrapposizione che di relazione. Similmente il termine “Legge” (nomos) ricorre 15 volte ed è talvolta accompagnata da aggettivi possessivi (vostra, loro) che indicano il distacco se non la contrapposizione tra la Legge stessa e Gesù; una Legge che non risponde più alle nuove esigenze divine rivelate in Gesù e che non appartiene più al nuovo credente.
Non mancano, infine, numerose citazioni scritturistiche36, per indicare come la persona di Gesù sia il compimento di queste Scritture; o forse è meglio dire come queste siano state rilette e reinterpretate in funzione di Gesù e come proprio attraverso queste il mistero della sua persona viene illuminato e compreso. Le Scritture, dunque, contengono in nuce, preannunciandolo, l'evento Gesù37 (Lc 24,27).

Giovanni, dunque, a differenza dei Sinottici, fa un largo uso delle Scritture veterotestamentarie, quasi le riprende pedissequamente, rileggendole in chiave cristologica. Un lavoro enorme, il suo, che testimonia la sua profonda conoscenza e competenza scritturistiche e come egli sappia manipolare in modo molto fine e acuto le Scritture, utilizzando tutte le tecniche interpretative del tempo.


L'Ellenismo


Il terzo elemento, che forgerà il vangelo giovanneo, distaccandolo completamente dal linguaggio dei Sinottici, è l'ellenismo. Esso darà forma, potenza e profondità al pensiero di Giovanni, parlando non più attraverso il linguaggio della metafora, del simbolismo e del racconto, che caratterizza, invece, i vangeli sinottici, ma attraverso il linguaggio potente della filosofia, che informerà la riflessione teologica giovannea, aprendole la strada alla contemplazione dell'evento Gesù, di fronte al quale il lettore è sospinto a superarne le sembianze storiche, per cogliere ciò che vi sta dietro. Per questo i miracoli sono definiti da Giovanni “t¦ shme‹a” (tà semeîa), i segni, cioè delle realtà storiche, che, nel loro manifestarsi, invitano lo spettatore a trascenderne le apparenze, per coglierne la sostanza, della quale essi sono appunto dei segni. Per questo i segni sono sempre accompagnati da lunghi discorsi meditativi, la cui finalità è aiutare il lettore a cogliere le realtà nascoste in quei segni e, quindi, a comprendere la vera natura di colui che li compie. Questo modo di procedere, dal ritmo molto lento e laborioso, ma molto efficace, qualifica la natura del vangelo giovanneo come un racconto apocalittico, cioè rivelativo.

È necessario a questo punto fare un passo indietro per comprendere bene che cos'è l'ellenismo, come è nato, le sue caratteristiche e in quale modo questo ha influito sul vangelo giovanneo.

L'ellenismo38 ha radici molto lontane e trova la sua causa prima nella profonda crisi della polis greca, questa città-stato, autonoma e perfetta in sè, un piccolo mondo a se stante e chiuso, ma proprio per questo in perenne conflitto con altre città-stato. In questo scenario di guerre continue si intromise la figura di Filippo II, re di Macedonia, che impose il suo potere alle città greche. Con il figlio Alessandro Magno, succeduto al padre, le città-stato persero ogni loro autonomia, mentre egli, mosso da una smisurata ambizione e dalla coscienza di adempiere ad una sorta di missione divina, inaugurò, a partire dal 333 a.C. una campagna militare volta a conquistare il mondo, creando un impero coeso sotto l'egida della cultura e della lingua greca. La campagna fu interrotta dalla sua morte, avvenuta nel 323 e il suo vasto impero, che dalla Macedonia arrivava fino al fiume Indo, venne ereditato dai suoi generali, i Diadochi39. È durante questo ampio periodo di dominio greco (323-31 a.C.40), che la cultura e la lingua greca si imposero in tutto il mondo allora conosciuto41. Nasce così l'ellenismo, ossia l'universalizzazione della cultura e della lingua greca, che caratterizzò l'intero mondo antico fino ad allora conosciuto e fu talmente vasta e profonda che esercitò e tuttora esercita la sua influenza anche sulla nostra cultura occidentale, di cui è figlia.

L'ellenizzazione del mondo antico portò un cambiamento a livello sociale e politico: dalle piccole monarchie delle città stato a quelle delle grandi monarchie, in cui si divinizzò la figura del re, mentre la vastità dell'impero portò a rinforzare gli apparati e la burocrazia statale. Cambiano di conseguenza i rapporti tra cittadino e stato e il modo di pensare e di relazionarsi tra gli stessi cittadini, ora divenuti sudditi di un unico grande impero, dove tutti parlavano il greco e dove il potente pensiero della filosofia unificò il modo di pensare e di intendere le cose, creando un unico modo di sentire. Rifiorì il commercio, l'artigianato e fiorirono grandi centri urbani come Alessandria d'Egitto, Antiochia di Siria, Pergamo, Laodicea, Rodi, Corinto e numerose altre città, che furono centri di grande cultura e diffusori di cultura greca. La lingua greca, venendo a contatto con le numerose altre culture, perse la sua purezza, ma acquistò in universalità. Nacque così la koiné, cioè il greco comune a tutti, quello universale, parlato e compreso in tutto il mondo antico. Similmente la cultura e il pensiero greco, facilitati dalla comune lingua, vennero assimilati dalle altre culture e ad esse adattati, creando una nuova forma universale di cultura, quella ellenica. È proprio in quest'epoca di grande fioritura culturale, che ad Alessandria, in Egitto, con i favori di Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.), la Scrittura ebraica venne tradotta in greco, dando origine alla LXX42.

In questo contesto di universalizzazione del pensiero e della cultura greca, che dà omogeneità e plasma i popoli, gioca un ruolo importante la filosofia, il cui compito è conoscere la vera natura di tutte le cose attraverso un'opera di svelamento e la ricerca del Principio ultimo, che le muove e sostiene tutte. Essa, da metodo di ricerca e di studio scientifico della natura delle cose, durante il periodo ellenistico, assume una dimensione più personalistica, diventando una sorta di rifugio dai grandi stravolgimenti politici, militari, sociali, economici, provocati dall'ellenizzazione del mondo antico. La vita della polis, che coinvolgeva socialmente e politicamente i cittadini, è ora sostituita dai grandi regni, dove le cose sono decise altrove e imposte al cittadino. Di conseguenza, prevale la rinuncia all'azione, l'atarassia, la rassegnazione, l'introversione, il ritorno al passato. Tutte cose che favoriscono la contemplazione e la riflessione. In questo nuovo contesto sociale e politico, la filosofia è chiamata a dare risposte concrete al vivere dell'uomo, indicandogli la strada migliore su cui condurre la propria vita. Essa si fa, quindi, più introspettiva e più contemplativa, più attenta alle esigenze dell'uomo, con particolare interesse a quelle spirituali e morali43. Centro della sua speculazione e della sua ricerca, quindi, è l'uomo. Cinismo, epicureismo, stoicismo, medioplatonismo e scetticismo si muovono tutti su questa linea. Quanto alla cultura, si profila un suo nuovo modo di essere: il sincretismo, ossia la fusione di elementi della cultura greca con quella orientale, romana e cristiana. Un modo di essere che si riflette inevitabilmente anche nella filosofia. Un esempio di questo modo di procedere, sincretico ed eclettico nello stesso tempo, è dato da Filone di Alessandria (30 a.C.- 45 d.C.)44, che rilesse, usando i parametri della cultura greca, le Scritture. Egli fu probabilmente l'espressione massima della cultura del suo tempo e si ingegnò per coniugare le verità della filosofia greca con la tradizione biblica, senza tradire quest'ultima, a cui rimase sempre fedele. Al centro del pensiero di Filone ci sta il riconoscimento di un Dio del tutto trascendente e decisamente superiore al mondo, a cui Egli si manifesta attraverso il suo Logos, suo figlio primogenito. È indubbio che, alla stessa stregua di Filone, anche Giovanni, quale figlio del suo tempo, abbia risentito di questo ambiente culturale, impregnato di filosofia greca, in cui egli compose il suo vangelo. Non si può escludere, inoltre, che anche Giovanni, similmente a Filone, abbia voluto affrontare il mistero della persona di Gesù usando la stessa strumentazione usata da Filone, cioè i parametri della filosofia greca, adattandola all'evento Gesù. Non si può escludere che come Filone tentò di coniugare l'interpretazione della Torah, a cui rimase sempre fedele, con la cultura greca e la sua filosofia, così anche Giovanni, similmente, abbia intrapreso la sua opera di lettura della figura di Gesù usando la strumentazione della cultura e della filosofia greca. Ritengo importante la figura di Filone, perché egli è l'esempio di come il giudaismo potesse essere riletto e ricompreso attraverso lo schema culturale greco. In altri termini se lui, Filone, lo ha fatto, questo significa che ciò era possibile e che Filone, probabilmente non fu un caso isolato nel suo tempo. Non è, quindi, da escludersi che anche Giovanni rientri in questa scia di una cultura sincretica ellenistica, che egli sa sapientemente e intelligentemente applicare al mistero di Gesù. E probabilmente non è un caso che soltanto Giovanni tra gli evangelisti dia spazio e attenzione al mondo greco45, a cui egli fu debitore quanto a cultura e filosofia.


Lo Gnosticismo


Un quarto elemento, che caratterizza l'intero vangelo di Giovanni, è l'uso della gnosi, che l'autore fa e che permea, più o meno velatamente, l'intera opera dell'evangelista. Tuttavia, non è sufficiente questo per definire gnostico il racconto giovanneo, così come non si può definire di nazionalità francese una persona che ne parli, sia pur correttamente, la lingua. Similmente Giovanni si presenta come un profondo conoscitore della gnosi e del suo pensiero, ma egli non ne rimane plagiato, non ne dipende ideologicamente, ma, al contrario, lo usa come un linguaggio proprio per farsi intendere dalla sua comunità, che, come vedremo, è una comunità elitaria chiusa, formata prevalentemente da ebrei ellenizzati, che dovevano indulgere allo gnosticismo, considerata la massiccia presenza di questo elemento nell'opera giovannea. Persone queste di grande levatura culturale e cosmopolita. A queste persone egli indica l'uso corretto della gnosi nell'approcciarsi al mistero del Verbo trascendente incarnato. Giovanni, dunque, non combatte, né condanna la gnosi, non demonizza il pensiero delle filosofie ellenistiche, ma si appropria della cultura del suo tempo, ne parla la lingua, adattandola alla contemplazione del mistero divino manifestatosi in Gesù, facendone potenti strumenti di lettura della figura del Verbo Incarnato. Ma perché Giovanni ha scelto il linguaggio della gnosi per rivolgersi alla sua comunità? Il motivo è duplice: da un lato, per i motivi appena citati e che attengono alla sua comunità; dall'altro, perché lo gnosticismo ha una sua caratteristica particolare, quella di considerare gli eventi, che noi conosciamo, come una specie di ombra, di superficie, di una verità teologica eterna, a cui essi alludono e con cui sono in qualche modo in diretta relazione. Certo Giovanni non poteva applicare lo gnosticismo, pari pari, all'evento Gesù, poiché esso non è una semplice ombra, che richiama una realtà divina, ma è Dio stesso, presente, rivelantesi e operante nell'uomo Gesù46. Tuttavia, ciò che deve aver affascinato Giovanni nello gnosticismo è il poter sondare attraverso il suo potente linguaggio il mistero, non che Gesù richiamava e ad esso rimandava, ma presente in lui stesso. Giovanni, quindi, ha operato una trasposizione rispetto allo gnosticismo, spostando le realtà divine che l'evento Gesù, secondo la gnosi richiamava, in Gesù stesso. In altri termini, per la gnosi Gesù richiama il mistero divino a cui egli è collegato; per Giovanni, Gesù non richiama il mistero divino, ma egli è il mistero di Dio, che opera storicamente in lui in mezzo agli uomini. Tuttavia, l'uso della gnosi ha consentito a Giovanni la scelta e l'analisi di sette miracoli (Gv 20,30-31), che egli chiama, in modo significativo, segni, cioè realtà che interpellano l'uomo e che lo rimandano alle realtà divine che essi significano e in qualche modo rappresentano. In questo, Giovanni, segue le logiche tipiche della gnosi.

Per poter comprendere l'influsso della gnosi nel vangelo di Giovanni e l'uso che egli ne fa, è indispensabile capirne le linee fondamentali. La gnosi potremmo definirla, in linea di massima, come un complesso di dottrine, dalle molteplici origini, da cui si genera lo gnosticismo, un sistema di pensiero e di modo di vivere molto poliedrico e per questo difficilmente restringibile entro gli angusti spazi di una definizione. Si tratta, in realtà, di un gruppo di correnti filosofico-religioso, dai contenuti sincretici, venutosi a formare, probabilmente, tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., in cui sono confluiti e si sono, poi, amalgamati insieme elementi dell'antico dualismo iranico, della filosofia greca, con particolare riguardo al platonismo e neoplatonismo, del giudaismo apocalittico e dello stesso cristianesimo. Lo gnosticismo, quindi, non si può più pensare come una specifica eresia cristiana, combattuta dai Padri della chiesa47. La gnosi ha un respiro più ampio e più complesso, affondando le proprie radici, come si è detto sopra, in una pluralità e diversità di ambienti culturali e religiosi, da cui ha tratto il suo humus, che poi ha rielaborato a modo proprio, dando origine ad un sistema sincretico di pensiero filosofico-religioso, che ha come fondamento, che li accomuna tutti, la gnosis, cioè la conoscenza del divino presente nell'uomo, il cui possesso apre il possessore alla salvezza. La conoscenza, dunque, come strumento di salvezza.

Tra la fine del I sec. a.C. e il I sec. d.C. il mondo antico venne coinvolto da una profonda crisi spirituale, che favorì anche il rapido diffondersi del cristianesimo. In particolar modo il mondo del giudaismo, come si è visto sopra, fu scosso da movimenti escatologici e da un profondo senso dell'imminente fine dei tempi. In questo contesto di profonda crisi spirituale la gnosi trovò il suo humus ideale48. Essa, pur frammentata in numerose e multiformi espressioni, era tuttavia sottesa da un comune denominatore che le accomunava tutte: a) tutte avevano una natura religiosa; b) tutte erano poste in relazione alla salvezza, concepita come una realtà trascendente, ottenibile attraverso la conoscenza; c) tutte concepivano Dio come un essere ultraterreno; d) tutte, infine, erano sostanzialmente costruite attorno ad un dualismo radicale, contrapposto e inconciliabile: Dio-mondo, spirito-materia, anima-corpo, luce-tenebre, bene-male, vita-morte.

Un primo elemento caratterizzante, come si è appena accennato, è il radicale dualismo che contrappone Dio al mondo, il suo regno di luce, in se stesso perfetto, a quello delle tenebre. In questa profonda antitesi, Dio è totalmente estraneo al mondo, le cui potenze (gli Arconti), dominatrici, in opposizione a Dio, tentano di nasconderlo agli uomini e di renderlo loro inconoscibile. Ma non solo, anche lo stesso Dio, a motivo della sua trascendenza, si rende inconoscibile e irraggiungibile all'uomo. La sua conoscenza, sia pur in modo limitato, può essere raggiunta soltanto attraverso una rivelazione soprannaturale illuminante.

Il secondo elemento caratterizzante è il cosmo, dominato dagli Arconti e concepito come una prigione al cui centro si colloca la terra, il palcoscenico dove si svolge la vita dell'uomo. Attorno ad essa ruotano sette sfere cosmiche, governate ciascuna da un Arconte e il cui fine è isolare e separare l'uomo da Dio. Il cosmo, quindi, è concepito in termini negativi e la sua vastità e la sua complessità stabiliscono il grado di separazione tra Dio e l'uomo. Gli Arconti governano collettivamente il mondo in modo tirannico; un governo che si manifesta fisicamente attraverso le leggi della natura e moralmente attraverso la legge mosaica. Tutte tendono ad asservire l'uomo, che alla sua morte viene impedito da questi Arconti di ascendere verso Dio.

Il terzo elemento è l'uomo, l'oggetto principale della riflessione gnostica. Egli è composto da una scintilla divina, lo spirito o pneuma, che è racchiuso, come in una prigione, in un corpo e in un'anima o psiche, l'origine dei quali è mondana e, pertanto, fanno parte del mondo. Quest'ultimo, per sua natura, è organizzato in modo tale da tenere prigioniero l'uomo, isolandolo da Dio e impedendogli un qualsiasi approccio. Corpo e anima costituiscono, infatti, un solido involucro impenetrabile e impermeabile ad ogni trascendenza divina, rendendo impossibile allo spirito la conoscenza di Dio e del suo mondo. L'uomo, quindi, è chiuso nella sua ignoranza del divino e della sua origine divina. Il suo risveglio e la sua liberazione possono essere attuati solo attraverso una conoscenza, che non può essere raggiunta per vie naturali. Il fine ultimo della gnosi, quindi, è aiutare l'uomo a prendere consapevolezza della propria origine divina, liberandolo, attraverso la conoscenza, dalla sua prigionia mondana. La conoscenza in sé, quindi, è già salvifica per se stessa. Significativa è la frase dello gnostico Valentino49, riportata da Clemente Alessandrino50, in cui è racchiuso, a mio avviso, tutto il senso e il significato della gnosi: “Ciò che libera è la conoscenza di quello che eravamo, di ciò che siamo diventati; di dove eravamo, dove siamo stati gettati; verso dove ci affrettiamo, da dove siamo redenti; che cosa è nascita, che cosa è rinascita» (Exc. Theod. 78, 2)”51. L'ignoranza, quindi, tiene l'uomo schiavo dei signori di questo mondo, gli Arconti, mentre la trascendenza di Dio rende l'uomo incapace di raggiungerlo con le sue sole forze. Da qui la necessità di una rivelazione, proveniente dal mondo trascendente stesso. Essa è affidata al messaggero divino, che vince le potenze del mondo, giungendo fino all'uomo e lo risveglia dal suo torpore terreno, impartendogli la conoscenza illuminante, che vince le tenebre, di cui è schiavo. Questa conoscenza è essenzialmente conoscenza di Dio, delle sue esigenze nei confronti dell'uomo e indica la via per raggiungerlo, anche attraverso vie sacramentali, formule magiche e nomi segreti, che servono a vincere le resistenze degli Arconti. Fornito di questa gnosi e da essa permeato e sostenuto, lo spirito, al momento della morte dell'uomo, riesce a oltrepassare le sette sfere dominate dagli avversi Arconti, lasciando ad ogni passaggio una parte del suo rivestimento psichico fino a raggiungere, purificato, Dio, unendosi alla sua sostanza divina, di cui lo spirito è una scintilla. È a causa di queste scintille, originariamente perdute, che la Divinità è coinvolta nella storia del mondo e vi manda il suo messaggero per recuperarle a Sé. Soltanto al termine di questa raccolta e recuperate tutte le scintille divine, ricomposte finalmente nella loro unica Origine divina, il mondo avrà fine.

Il quarto elemento è la morale, cioè il comportamento che deve qualificare i “pneumatici”, i possessori della gnosi. Per la loro particolare illuminazione divina essi vivono appartati dal mondo. La conoscenza da essi ricevuta li spinge ad adeguare anche il loro modo di vivere secondo le esigenze di questa illuminazione. L'elemento fondamentale, che caratterizza la morale dei pneumatici, è la loro avversità al mondo e, di conseguenza, il disprezzo dei legami con questo. Da questo principio, tuttavia, gli gnostici trassero due contrapposte conclusioni. La prima, l'ascetismo, come fuga da ogni contaminazione mondana; la seconda, uno sfrenato libertinaggio, che ha alla sua base la convinzione che il pneumatico, in quanto liberato dal mondo e dal suo potere, fosse anche liberato da ogni costrizione di legge. Per questo, tutto era consentito al pneumatico e niente lo avrebbe contaminato per la sua condizione di naturalmente puro.

Da quanto fin qui esposto possiamo sintetizzare i punti chiave della gnosi, che percorrono e caratterizzano l'intero vangelo giovanneo, facendone un vangelo essenzialmente gnostico, non tanto nei contenuti, bensì nella forma, nel suo modo di esprimersi. In altri termini, è gnostico il linguaggio, non i contenuti dell'opera; anzi, al contrario, la gnosi è asservita e piegata al messaggio evangelico. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla genesi della creazione, che, secondo la gnosi nacque da un errore divino e, quindi, intrinsecamente cattiva; ed è questo errore divino che ha causato la cecità e l'ignoranza dell'uomo. L'uomo, quindi, secondo la gnosi, è una vittima. Giovanni, invece, non teme di affermare che “tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3); anzi, rimarca l'autore della Lettera ai Colossesi, “poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16). La creazione, dunque, non fu un errore divino, ma rientrava in un progetto di salvezza. Infatti, ricorda l'autore sacerdotale di Gen 1,3 come la creazione fu collocata nella Luce divina fin dal suo nascere. Non è, dunque, l'oscurità del mondo che ha travolto l'uomo racchiudendolo nell'ignoranza, ma è l'uomo stesso il fautore della propria rovina. Anzi, al contrario, è l'uomo che ha trascinato nelle sue tenebre l'intera creazione e non viceversa52. È lui, infatti, che non riconosce il Logos creatore, la vera luce (Gv 1,10), e là, dove egli aveva conosciuto il vero Dio, ora non lo accoglie (Gv 1,11)53. E', dunque, la pervicace e perversa cecità connaturata all'uomo, che Giovanni stigmatizza con il termine di incredulità, il vero peccato del mondo, che lo rende incapace di accogliere la luce della rivelazione. L'uomo, pertanto, non è vittima di forze oscure, nate da un errore divino, ma il fautore dei propri destini di salvezza o di perdizione. Prova ne è che “A quanti [...] l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). Viene, dunque, ribaltato completamente il concetto gnostico della creazione e della conseguente responsabilità dell'uomo. Similmente, a partire proprio da questa ultima citazione (Gv 1,12-13), rileviamo come la salvezza, qui, non è offerta soltanto ad alcuni predestinati, che la gnosi limitava a dei prescelti, i pneumatici, ma essa è aperta indifferentemente a tutti ed ha come fondamento unico non conoscenze segrete, riservate ad élite di eletti, ma soltanto il credere “nel suo nome”, delineando in tal modo un atteggiamento di vita. Ancora una volta viene sottolineata l'esclusiva responsabilità dell'uomo nel suo processo di salvezza. Viene meno, quindi, il fatalismo gnostico, che vede l'uomo vittima predestinata di forze avverse.

Sono questi soltanto due piccoli esempi di come Giovanni, pur utilizzando il potente linguaggio proprio della gnosi, ne sovverte, di fatto, i contenuti.
Di seguito mettiamo in rilievo i punti salienti della gnosi a cui associamo, in nota, le citazioni del vangelo giovanneo, che vi si riferiscono, a dimostrazione dell'uso che l'evangelista fa del linguaggio gnostico per rivelare il mistero del Verbo Incarnato:

  1. La trascendenza assoluta di Dio, reso irraggiungibile e inconoscibile proprio da questa54;

  2. il suo messaggero e mediatore, il Logos, anch'egli di natura divina e da Dio proveniente55, è l'unico in grado di conoscere Dio e di indicarne la via per raggiungerlo.56 Attraverso questi Dio raggiunge gli uomini e si rivela ad essi; nessuno può raggiungere Dio per vie naturali, ma questo gli è concesso per elezione57;

  3. l'uomo, racchiuso nelle tenebre dell'ignoranza, è incapace di conoscere Dio e incapace di prendere coscienza della sua vera identità divina e della sua origine divina58;

  4. la conoscenza, il conoscere e il sapere, di natura squisitamente divina e rivelativa, offerti dal Logos mediatore all'uomo, sono gli strumenti essenziali per uscire dall'ignoranza e intraprendere il cammino di salvezza, entrando nel regno della Luce59;

  5. la venuta del Logos rivelatore e portatore di conoscenza illuminante e salvifica, sconfigge l'ignoranza, con cui l'uomo era soggiogato al potere degli Arconti e, pertanto, lo stesso regno di questi dominatori della terra viene sconfitto60;

  6. a fronte di questa conoscenza-rivelazione, che investe gli uomini, portandoli alla coscienza delle realtà divine, di cui sono partecipi, essi sono chiamati a prendere posizione, aderendo esistenzialmente a questa conoscenza-rivelazione salvifica61.

Ma non è tutto. Il parallelismo che intercorre tra il vangelo giovanneo e la gnosi, che spero di aver dimostrato con le numerose citazioni, è rafforzato anche dal massiccio ricorso di termini ed espressioni che indicano il conoscere, il sapere, il rivelare e il manifestare62, legati in qualche modo al manifestarsi del divino o attinenti a questa realtà, pervadono l'intero vangelo giovanneo in modo così vistoso da poterlo caratterizzare come il vangelo della conoscenza e della rivelazione. Significativo, inoltre, il v.17,3 dove, in modo emblematico, la conoscenza diviene lo strumento specifico della salvezza, anzi, proprio come voleva la gnosi, è essa stessa fonte di salvezza: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. La conoscenza, dunque, con tutti i suoi corollari e le conseguenze che essa comporta, costituisce il nucleo fondamentale non solo della gnosi, ma dello stesso vangelo di Giovanni.


L L' Autore


Il contesto storico, sociale e culturale, che abbiamo fin qui analizzato, è l'identico contesto in cui si sono formati anche i vangeli sinottici. Tuttavia, essi si presentano in modo completamente diverso, tanto da non potersi accostare neppure lontanamente al racconto giovanneo. Perché, dunque? È evidente che il contesto in cui sono sorti i vangeli non è stato così determinante da uniformarli tutti e ciò va ascritto a favore dell'autonomia degli autori dei vangeli. Ciò che li ha differenziati, invece, in modo così decisivo sono stati essenzialmente due elementi: l'autore e la sua comunità, a cui l'opera era destinata. L'autore, in quanto persona capace di esprimersi con il linguaggio proprio del suo tempo e secondo la cultura e la sensibilità, che gli erano proprie; e la comunità, formata da soggetti caratterizzati dal loro proprio modo di essere. L'autore, dunque, ha usato un determinato tipo di linguaggio non solo perché lo conosceva bene e gli apparteneva, ma anche per farsi intendere dalla sua comunità, che diversamente lo avrebbe seguito con difficoltà, se non rifiutato. È, dunque, la comunità, destinataria del messaggio, che impone all'autore l'obbligo di parlare e di esprimersi in un certo modo; mentre l'autore, parlando in quel modo, manifesta il suo profilo culturale e il suo modo di essere. Si crea così un'intesa tra comunità e autore, che li accomuna e li caratterizza entrambi. In tal modo anche i vangeli ne rimangono caratterizzati.

Chi è, dunque, l'autore del Quarto Vangelo? Potremmo a tal punto sciorinare tutto il nostro sapere sulla questione di merito, dissertando sulle numerose ipotesi o sulle quasi certezze, citando e richiamandoci a fonti esterne e interne al vangelo, ma alla fine del lungo e controverso cammino, ci troveremmo al punto di partenza: nessuna certezza di chi sia l'autore, al di là di qualche ipotesi. Del resto non ritengo rilevante conoscere il nome dell'autore, quanto, invece, chi egli sia come persona, poiché da questa dipende la credibilità e la chiave di lettura del suo scritto. Al momento il materiale a nostra disposizione, mi riferisco qui alle fonti esterne, non ci consente di andare oltre a qualche mera ipotesi, comunque sempre discutibile. Sulla questione si sono versati fiumi d'inchiostro e si è speso il meglio degli esegeti, ma siamo sostanzialmente al punto di partenza. Preferisco, quindi, concentrarmi sulle fonti interne, le uniche che abbiano un elevato grado di attendibilità, facendo esse parte dello scritto stesso. Comprendo che questo mio rinunciare alle fonti esterne non è scientificamente corretto e certamente criticabile, ma è sicuramente molto pratico. Qualora mi cimentassi sulle fonti esterne, infatti, non farei altro che ripetere quello che inevitabilmente tutti dicono, poiché il materiale a nostra disposizione è sempre lo stesso e non ci offre niente di più di ciò che esso può offrire e che tutti, ormai, hanno saputo egregiamente cogliere. Rimando, quindi, il mio lettore a testi come “Giovanni” di R.E. Brown o “il Vangelo di Giovanni” di Santi Grasso o “La questione giovannea” di M. Engel e ad altra bibliografia simile, che in merito abbonda in modo notevole. Perché, dunque, questa mia decisione di soprassedere alle fonti esterne? Perché le uniche fonti esterne a nostra disposizione sono i Padri della chiesa, in particolar modo Ireneo, vescovo di Lione, nel suo Adversus haereses (180-190 d.C.); Papia, vescovo di Gerapoli (130-140 d.C.); il pluricitato Eusebio da Cesare con la sua Historia ecclesiastica, che riporta numerose citazioni di Padri della chiesa, anche se non sempre ben verificate e attendibili o quantomeno non ben circostanziate; il vescovo Policrate nella sua lettera scritta a papa Vittore I (circa 190 d.C.); Clemente alessandrino (150-225 d.C.) e, infine, lo stesso canone muratoriano, che riporta la più antica lista dei libri neotestamentari63 (170 d.C.). Non sono tutti, ma quelli che meglio e più di altri ci informano circa l'autore del Quarto Vangelo. Tuttavia, va rilevato che i Padri della Chiesa non sono degli storici e la loro testimonianza è fondata sul “si dice” o sul loro presunto “aver sentito”. Essi sono dei teologi, ma soprattutto degli apologeti, il cui intento è difendere la veridicità della fede cristiana dagli attacchi dei numerosi nemici, che tendevano a screditarla. Inoltre questi Padri si trovano in un'epoca, il II sec., in cui si stava formando il canone neotestamentario, che contava tra i criteri di affidabilità dei testi la loro paternità apostolica64. Da qui la necessità di far risalire, direttamente o indirettamente, la paternità degli scritti agli apostoli, per darne garanzia di autenticità. La loro testimonianza, quindi, circa la dipendenza dei vangeli dagli apostoli ha finalità apologetiche non certo storiche; tenendo presente, poi, che il concetto di storia degli antichi era esattamente l'opposto del nostro65.

Su questa linea si attesta anche la Tradizione, che affida a Giovanni, uno dei due figli di Zebedeo e uno dei Dodici, la paternità del vangelo. L'unico Giovanni, facente parte del gruppo dei Dodici e pertanto un'ottima fonte di testimonianza, a cui affidare la paternità del Quarto Vangelo. Così deve aver pensato la Tradizione. Tuttavia, questa attribuzione lascia alquanto perplessi poiché dai vangeli sappiamo66 che questo Giovanni era un pescatore ed esercitava la sua attività assieme al padre e al fratello Giacomo, un piccolo gruppo familiare, che si era associato nell'attività a Pietro (Lc 5,1). La loro attività, così come la loro vita, si svolgeva sul lago di Tiberiade. Tutto ciò fa sorgere molti dubbi sulla paternità del vangelo. Come poteva un pescatore della Galilea conoscere bene il greco e possedere una cultura cosmopolita, un'ottima conoscenza della filosofia greca con particolare riguardo al neoplatonismo o conoscere molto bene lo gnosticismo così da usarne il linguaggio senza lasciare spazi ai suoi errori? Come poteva avere una così profonda conoscenza delle Scritture, che invece l'autore del Quarto Vangelo sa dimostrare? Come poteva sviluppare una profondità e una complessità di pensiero che non ha uguali negli scritti neotestamentari? Come poteva usare tecniche narrative e retoriche proprie della letteratura ebraica? Come poteva avere conoscenze altolocate come quella del sommo sacerdote Caifa (Gv 18,15-16)? La posizione di Giovanni, figlio di Zebedeo, si potrebbe ancora salvare se si ponesse una distinzione tra autore e scrittore, distinzione incomprensibile ai nostri giorni, che vede autore e scrittore come due sinonimi, ma che all'epoca aveva una sua giustificazione. Autore e scrittore potevano nell'antichità coincidere, ma non necessariamente, poiché si considerava autore il padre del pensiero e dei contenuti del libro, mentre lo scrittore era colui che stendeva per iscritto tale pensiero. Esisteva, infatti, una specifica categoria di persone, gli scribi, la cui funzione era proprio quella di scrivere sotto dettatura o di accomodare al meglio il pensiero dell'autore. Era questa una tecnica talvolta usata anche da Paolo (Rm 16,22) e dall'autore della Prima Lettera di Pietro (1Pt 6,12). Similmente potrebbe essere successo con il nostro Giovanni, figlio di Zebedeo, che avrebbe potuto affidare la sua testimonianza ad un gruppetto di persone esperte e ben acculturate. Sennonché al v.21,24a si attesta che “Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti;”. Qui, chi parla è l'ultimo anonimo redattore del vangelo giovanneo, al quale egli ha aggiunto il cap.21, in un tempo in cui l'autore-scrittore originario era già morto. La testimonianza prodotta dal Vangelo giovanneo, dunque, non è stata soltanto resa verbalmente, ma è stata anche scritta dallo stesso testimone. In questo caso l'autore ha coinciso con lo scrittore, la quale cosa evidenzia che ci si trova di fronte ad una persona di elevata cultura. Pertanto, a Giovanni di Zebedeo, il pescatore di Galilea, definito, insieme a Pietro, in At 4,13a, come un analfabeta e un ignorante67, non può essere attribuita, in alcun modo, la paternità del Quarto Vangelo. Non ci resta che rivolgerci alle fonti interne del vangelo, a nostro avviso le più attendibili e le più qualificate, cercando di tracciare l'identità dell'autore dell'opera. La nostra non sarà la ricerca di un nome, scientificamente impossibile da raggiungere con il materiale oggi a nostra disposizione, ma di una identità, di un profilo di personalità, che ci aiuti a comprendere meglio il contenuto della sua opera.
Era una caratteristica di Alfred
Hitchcock firmare i suoi film con un cameo68, che lo ritraeva riprodotto, talvolta, in un quadro appeso ad una parete, altre volte in un anonimo personaggio confuso tra la folla. Similmente, troviamo nel vangelo di Matteo un probabile cammeo, che lo ritrae come uno scriba, dapprima aspirante discepolo (Mt 8,19), poi come accorto e saggio responsabile di comunità (Mt 13,52)69. Così anche Paolo, trovandosi costretto a rivelare i suoi privilegi spirituali per controbattere le vanterie dei suoi avversari, parla in terza persona e in modo anonimo di “un uomo” (2Cor 12,1-5). Anche il racconto giovanneo presenta ripetutamente la figura di un personaggio anonimo variamente qualificato con espressioni come “il discepolo che Gesù amava” o “l'altro discepolo” o “un altro discepolo” oppure semplicemente sottaciuto come in 1,40. Sarà su questa figura che noi incentreremo la nostra attenzione, cercando di trarne le maggiori informazioni possibili, consentite da un'indagine scientifica.

Di seguito riportiamo le pericopi, che formano da contesto all'anonima figura del discepolo. Al loro interno essa acquisirà i suoi diversi e complementari significati:

Gv 1, 35-42

Il giorno dopo, di nuovo Giovanni stava (là) con due dei suoi discepoli ed avendo osservato Gesù che stava passeggiando, dice: <<Ecco l'agnello di Dio>>. E i due discepoli l'udirono mentre parlava e seguirono Gesù. Ma Gesù, voltatosi, e avendo osservato quelli che (lo) seguivano, dice a loro: <<Che cosa cercate?>>; quelli gli dissero: <<Rabbi, che tradotto significa maestro, dove stai?>>. Dice a loro: <<Venite e vedrete>>. Andarono, pertanto, e videro dove sta e rimasero presso di lui quel giorno; era circa l'ora decima. Era Andrea, il fratello di Simon Pietro, uno dei due che avevano udito da Giovanni e lo avevano seguito. Questi trova per primo il proprio fratello Simone e gli dice: <<Abbiamo trovato il Messia>>, che tradotto è Cristo. Lo condusse da Gesù. Osservatolo, Gesù disse: <<Tu sei Simone, il figlio di Giovanni, tu sarai chiamato Cefa>>, che tradotto significa Pietro.”

Da questo passo si rileva subito come questo discepolo, assieme ad altri, proveniva dalle fila del Battista. Egli inizia la sua avventura ascoltando la predicazione del suo primo maestro. Il “Che cosa cercate”, rivoltogli da Gesù, dice come questa sequela non fu un naturale travaso dal Battista a Gesù, ma una ricerca, che troverà la sua risposta illuminante nella sequela di Gesù, che non può essere spiegato a parole, ma soltanto conosciuto attraverso un intenso rapporto di vita. Da qui si comprende il senso dell'invito di Gesù: “Venite e vedrete”. Il verbo al presente “Venite” inerisce all'incontro, mentre il “Vedrete”70, al futuro, proietta l'anonimo discepolo alla fine di un lungo cammino di esperienza e di conoscenza, in cui egli ha avuto modo di approfondire il suo rapporto con Gesù. Soltanto verso la fine di questo cammino egli “Vedrà”, cioè avrà la piena comprensione della natura di Gesù, della sua provenienza e della sua missione. Non a caso si dice che egli stette con Gesù tutto il giorno, un tempo che indica quello della sua sequela di Gesù. La nota “era l'ora decima”, corrispondente alle nostre ore 16,00 pomeridiane71, è posta lì nel racconto come un inciso molto significativo e svolge una duplice funzione: da un lato esprime un tempo di piena luce, che metaforicamente indica la comprensione piena di Gesù, che si pone, però, verso il termine della giornata, verso la fine del tempo terreno di Gesù. Ma l'ora decima diventa anche il luogo di appuntamento in cui questo discepolo comparirà nuovamente; questa volta, però, riqualificato nella sua nuova identità, che acquisirà significato e valore per il suo particolare rapporto con Gesù. Non a caso, infatti, la sua nuova comparsa, dopo un silenzio di ben dodici capitoli, lo coglie in un particolare atteggiamento con Gesù, ben lontano da quell'interlocutorio “Dove stai?” iniziale (1,38b): “Vi era uno dei suoi discepoli appoggiato sul seno di Gesù, che Gesù amava” (13,23). Egli ricomparirà sulla scena a partire dal cap. 13 e fino a tutto il cap.21, gli ultimi nove capitoli (13-21), che costituiscono il Libro della Gloria. Questo sarà il tempo dell'undicesima e della dodicesima ora. Dopo incomincerà un nuovo giorno.

Gv 13, 21-25

Dopo aver detto queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e testimoniò e disse: <<In verità, in verità vi dico che uno di voi mi consegnerà>>. I discepoli si guardavano gli uni gli altri, essendo incerti di chi parlasse. Vi era uno dei suoi discepoli appoggiato sul seno di Gesù, che Gesù amava; Simon Pietro, dunque, fa cenno a questo e gli dice: <<Di(gli) chi è colui di cui parla>>. Adagiandosi dunque quello sul petto di Gesù così gli dice: <<Signore, chi è?>>.

Ricompare qui per la prima volta, dopo la pericope iniziale 1,35-42, il discepolo, che là quasi sfumava impercettibilmente, svanendo nel suo anonimato (1,40). Ricompare qui prepotentemente e la sua presenza si imporrà fino alla fine del vangelo in ben nove contesti diversi. Tre sono i tratti che qui lo caratterizzano: a) egli appare sulla scena appoggiato sul seno di Gesù72, in una posizione di totale abbandono a Gesù e di totale dipendenza da lui73. Egli si appoggia su Gesù, quasi ad indicare che egli è il fondamento della sua vita; b) questo discepolo funge da filtro a Pietro nei confronti di Gesù. Il Pietro dei Sinottici, impulsivo, spavaldo e sempre pronto a prendere la parola a nome degli altri, il Pietro del primato qui scompare completamente. Egli per arrivare a Gesù ha bisogno del filtro di questo discepolo, indicando con ciò, probabilmente, una sorta di superiorità del discepolo amato nei confronti di Pietro; c) il discepolo si ricompone nuovamente sul petto di Gesù, quasi ad indicare qual'è la sua posizione nei confronti di Gesù; una posizione di particolare e intima predilezione, che lo qualifica come il discepolo che Gesù amava. Il verbo qui usato è “ºg£pa” (egápa, amava), posto all'imperfetto indicativo, che indica una persistenza dell'azione espressa dal verbo. Giovanni, inoltre, per esprimere la qualità di questo tipo di amore, che intercorreva tra i due, usa qui e altrove non il verbo r£w (eráo), che esprime l'amore fisico, bensì ¢gap£w (agapáo), che esprime un amore profondo e squisitamente spirituale; è lo stesso verbo, infatti, che Giovanni usa per indicare il rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre. Quindi il particolare feeling, che intercorreva tra il discepolo anonimo e Gesù era da quest'ultimo contraccambiato. Questo discepolo, dunque, godeva di una particolare posizione di privilegio presso Gesù, nota a tutti e che i due non nascondevano, visto che Gesù accettava che questo discepolo si collocasse nelle due posizioni sopra descritte. Una posizione di privilegio a cui anche Pietro, che nel racconto giovanneo non brilla particolarmente, soggiace nei confronti di questo discepolo.

vv 18, 14-16

Ora, Caifa era colui che aveva dato consiglio ai Giudei che conviene che un uomo solo muoia a favore del popolo. Ora, Simon Pietro seguiva Gesù e un altro discepolo. Ora, quel discepolo era noto al sommo sacerdote, ed entrò nel cortile del sommo sacerdote assieme a Gesù, Pietro, invece, stava fuori presso la porta. Uscì dunque l'altro discepolo, quello noto al sommo sacerdote, e parlò alla portinaia e condusse dentro Pietro.

In questo terzo quadro compare al seguito di Gesù Pietro e “un altro discepolo”. Benché questo altro discepolo sia introdotto da un articolo indeterminativo, in realtà fa sempre riferimento al discepolo amato, noto per il suo anonimato, che qui brilla più che altrove, per un gioco ottico che l'autore compie74. Precisato questo aspetto, il discepolo amato compare nuovamente in compagnia di Pietro, ma ancora una volta egli interviene a favore di Pietro, che deve servirsi della sua notorietà presso il sommo sacerdote per poter accedere a Gesù. Pietro, dunque, è posto ancora una volta in una posizione di subordine rispetto al discepolo amato. Il fatto, poi, che il discepolo fosse conosciuto (gnwstÕj, gnostòs) dal sommo sacerdote significa che egli occupava socialmente una posizione piuttosto elevata e tale che gli consentiva di frequentare spesso l'abitazione di Caifa, considerato che egli era ben conosciuto anche dalla portinaia. Questo particolare lascia intuire come il discepolo amato appartenesse alla classe sacerdotale nobile. Del resto nella sua opera egli mostra un particolare interesse per il tempio, che coglie come la prefigurazione del corpo di Gesù (2,19-21), e per le festività ebraiche principali, su cui struttura il corpo centrale del suo vangelo; mentre la sua attenzione è incentrata su Gerusalemme, che sembra conoscere perfettamente, citando luoghi con precisione, la cui attendibilità è stata, poi, confermata dalla nostra archeologia. È uno, inoltre che conosce molto bene la Palestina e tutte le località citate sono geograficamente precise e citate secondo una logica narrativa molto attendibile e corretta, che crea uno sfondo storico-geografico preciso.

Gv 19, 25-27

Ora stavano presso la croce di Gesù sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa e Maria Maddalena. Vedendo dunque Gesù la madre e il discepolo che amava, che era a suo fianco, dice alla madre: <<Donna, ecco tuo figlio>>. Poi dice al discepolo: <<Ecco la tua madre>>. E da quel momento il discepolo la prese con sé.


Il v.19,25 ci presenta un piccolo quadro: attorno alla croce di un Gesù morente sono nominate tre donne; due parenti strette di Gesù, sua madre e sua zia, e Maria di Magdala, che da Luca sappiamo essere stata liberata da sette demoni (Lc 8,2b); tutte certamente sue discepole75 e tutte definite nella loro dimensione umana: Maria è individuata come “sua madre”, Maria di Cleopa come “la sorella di sua madre” e, infine, Maria la Maddalena, definita con il suo soprannome, che ne indica la provenienza geografica. Con il v.19,26 le cose cambiano radicalmente: Gesù vede “la madre” e il discepolo che amava, che stava al suo fianco”. Gesù vede. Il verbo qui usato è oraw, che indica un vedere qualificato e superiore, un vedere che qui opera una selezione e una scelta. La madre di Gesù, al v.25 indicata come “sua madre”, perde al v.26 i suoi connotati umani e di parentela con Gesù e diventa soltanto “la madre”. Essa, dunque, è evidenziata per la sua funzione primaria, che sarà anche il senso della sua missione: quella di essere genitrice. Al suo fianco viene collocato “il discepolo che egli amava”, qualificato in duplice modo: per il suo titolo di predilezione e per la sua particolare posizione rispetto alla “madre”: egli sta a suo fianco, per indicare la sua funzione di collaborazione e di supporto. Entrambi sono accomunati nella medesima missione. Definiti i prescelti, ora, Gesù indica la loro funzione: Maria, madre di Gesù, divenuta soltanto “la madre”, ora è rigenerata con il nome di “Donna”, dal sapore messianico. Per il semita il nome indicava l'essenza di una persona. Imporre un nome nuovo significava, dunque, compiere una nuova creazione, rigenerare quella persona ad un nuovo senso della sua vita, ridisegnare la sua identità. La designazione della loro missione e della loro identità è parallela e si muove su di uno sfondo rivelativo: “ecco tuo figlio”, “ecco tua madre”. Quel “‡de76 da un punto di vista narrativo è di grande efficacia e introduce il lettore in un nuovo scenario, aprendolo ad una sorta di rivelazione. Maria, la madre, diventa il simbolo della nuova comunità credente, chiamata a generare nuovi figli; mentre il discepolo amato, è il prototipo dei figli generati alla nuova vita. Un connubio perfetto che aggancia l'uno nell'altra e fa dei due una cosa sola. Per questo il figlio prende con sé la madre, poiché madre e figlio sono coinvolti in un unico atto generativo, che sgorga dai piedi della croce. Ancora una volta, l'accento cade sul discepolo prediletto a scapito di Pietro, lasciando intravvedere la preminenza della comunità giovannea sulle altre comunità, probabilmente per la particolare predilezione che Gesù ha mostrato all'anonimo discepolo amato, ma forse anche per la particolare levatura sociale e culturale di questo discepolo. Ci vorrà l'aggiunta postuma del cap.21 per dare rilevanza a Pietro.

Gv 19, 33-37

Ora, giunti da Gesù, quando lo videro già morto, non spezzarono le sue gambe, ma uno dei soldati trafisse il fianco con la sua lancia, e uscì subito sangue ed acqua. E chi ha visto ha testimoniato, e la sua testimonianza è vera, ed egli sa che dice (il) vero, affinché anche voi crediate. Infatti, questo avvenne affinché si compisse la Scrittura: “Non sarà spezzato (nessun) suo osso”. E di nuovo un'altra Scrittura dice: “Guarderanno verso colui che hanno trafitto”.

Una frase, un inciso, che sospende il racconto per rimarcare la veridicità dello stesso. Torna nuovamente il discepolo amato in veste di testimone, imprimendo al racconto stesso il marchio della verità e della cosciente correttezza intellettuale, perché la fede della sua comunità poggi saldamente sulla sua sincera e autentica parola di testimone. È un atto di autorità con cui l'autore qui si impone di fronte al credente.

Gv 20, 1-10

Ora, il primo giorno della settimana, Maria Maddalena va alla tomba di mattino, quando c'era ancora buio, e vede la pietra tolta dalla tomba. Corre dunque e va da Simon Pietro e dall'altro discepolo che Gesù amava e dice loro: <<Hanno portato via il Signore dalla tomba e non sappiamo dove lo hanno posto>>. Uscì dunque Pietro e l'altro discepolo e andavano alla tomba. Ora i due correvano insieme; e l'altro discepolo corse davanti più veloce di Pietro e giunse per primo alla tomba e chinatosi vede le bende che stavano a terra, tuttavia non entrò. Arriva dunque anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nella tomba e osserva le bende che stavano a terra, e il sudario, che era sulla sua testa, il quale non stava a terra con le bende, ma riavvolto in un luogo in disparte. Allora dunque entrò anche l'altro discepolo, che giunse per primo alla tomba, e vide e credette; infatti non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti. I discepoli dunque se ne tornarono di nuovo presso di loro.”

Pietro e il discepolo prediletto a confronto su di una questione cruciale: come spiegare la tomba vuota? Innanzitutto vediamo come Pietro e il discepolo prediletto sono entrambi parimenti il punto di convergenza della comunità credente. Entrambi, in pari modo, sono da essa interpellati (20,2). Essi corrono entrambi verso il sepolcro (20,3), ma soltanto il discepolo prediletto corre più veloce e giunge per primo alla tomba e per primo rileva i panni a terra. Entrambi, dunque, si interpellano su quei panni vuoti, ma soltanto il discepolo amato giunge a capire per primo quanto è successo. Per questo egli “vide e credette”. Ma attenderà che anche Pietro giunga alla stessa conclusione del discepolo amato ed entri così in quei panni vuoti. Saranno, comunque, soltanto le Scritture a convincerli dell'evento: “infatti non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti”. Ancora una volta il discepolo amato esce vincente dal confronto con Pietro, anzi è proprio lui a raggiungere la fede nel Risorto.

Gv 20,30-31

Dunque Gesù in presenza dei [suoi] discepoli fece certamente molti e altri segni, che non sono stati scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome.

Con questa nota, propria dello stesso autore, ci vengono forniti gli intenti fondamentali del suo racconto: egli non ha inteso scrivere una biografia, ma ha operato una selezione tra i segni più significativi, affiancandoli a lunghi discorsi, il cui intento è quello di far emergere la vera natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio. L'intento, dunque, è rivelativo, perché ciò infonda la fede nel credente, radicandola nella certezza della testimonianza, di cui garante è l'autore stesso. Un inciso, questo, che si richiama e si aggancia a quello in 19,35. Anche questi sono piccoli cammei, con cui l'autore si rende presente nel corso del racconto per rassicurare i suoi ascoltatori, imprimendo una sorta di firma di autenticità al racconto stesso.

Gv 21, 5-7

Dice dunque loro Gesù: <<Ragazzi, avete qualcosa da mangiare?>>. Gli risposero: <<No>>. Ma egli disse loro: <<Gettate sul lato destro della barca la rete, e troverete>>. Gettarono dunque, e non erano più capaci di trarla per la moltitudine dei pesci. Dice dunque il discepolo, quello che Gesù amava, a Pietro: << È il Signore>>. Simon Pietro dunque, avendo udito che è il Signore, si cinse la sopravveste, era infatti nudo, e si gettò nel mare;

Ancora una volta il discepolo amato è affiancato a Pietro all'interno di un racconto dalle finalità squisitamente ecclesiali. Un confronto in cui viene evidenziata, come nel racconto della tomba vuota, la capacità intuitiva del discepolo prediletto nel riconoscere nelle varie circostanze il Risorto. Un segno questo della sua capacità penetrativa del mistero di Gesù e della sua particolare vicinanza al Signore, a cui è legato da un particolare affetto. È, infatti, il discepolo prediletto che indica a Pietro, e non viceversa, il Gesù risorto. Vi è, dunque, ancora una volta la preminenza del discepolo prediletto su Pietro, al quale Gesù affida il suo gregge, ma soltanto dopo una triplice dichiarazione di fedeltà e di amore, quasi che l'autore volesse sottolineare una certa diffidenza nei suoi confronti.

Gv 21, 18-23

In verità, in verità ti dico, quando eri più giovane, cingevi te stesso e andavi dove volevi; ma allorché sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà e (ti) porterà dove non vuoi>>. Ora questo disse, annunciando con quale morte avrebbe glorificato Dio. E dopo aver detto questo, gli dice: <<Seguimi>>. Voltatosi, Pietro vede il discepolo, che Gesù amava, che seguiva, colui che a cena si stese anche sul suo petto e disse: “Signore, chi è colui che ti consegna?”. Avendo dunque visto costui, Pietro dice a Gesù: <<Signore, ma costui che (destino avrà)?>>. Gli dice Gesù: <<Se voglio che costui rimanga finché vengo, che cosa ti (importa)? Tu seguimi>>. Uscì dunque questa diceria tra i fratelli, che quel discepolo non sarebbe morto; ma Gesù non gli disse che non sarebbe morto, ma “se voglio che quello rimanga finché vengo, che cosa ti (importa)?”.

È l'ennesimo e ultimo confronto tra Pietro e il discepolo amato. Questi è individuato con i tratti che lo hanno contraddistinto nell'ultima cena: egli è l'amato da Gesù e che gode della particolare unione e comunione con lui. È l'ultima citazione che viene fatta del discepolo ed è una sorta di sua apoteosi, che viene, per l'ultima volta, accostata ad una piccola figura di Pietro, che, dopo aver subito per tre volte la richiesta di amore fedele, con cui l'autore si richiama al triplice rinnegamento (13,38), si sente sollecitare da Gesù una sequela fedele (21,19), che, invece, il discepolo amato aveva già fatto propria. Pietro, infatti, si gira e si accorge che il discepolo prediletto “seguiva”. Il verbo posto all'imperfetto dice la continuità e la persistenza dell'azione espressa dal verbo stesso, sottolineando la fedeltà alla sequela da parte del discepolo prediletto. Ora, Pietro, dopo aver conosciuto da Gesù i propri destini (21,18-19) chiede quali siano i destini del discepolo amato. Forse una sorta di invidia, forse una gelosia, poiché era diffusa la voce che il discepolo amato non sarebbe morto (21,23). Gesù redarguisce Pietro per questa sua curiosità, avocando a sé ogni discrezionalità e ogni potere decisionale: “Se voglio che costui rimanga finché vengo, che cosa t'importa? Tu seguimi”. L'attenzione di Pietro deve essere incentrata sulla sequela (“Tu seguimi”), lasciando perdere ogni altra curiosità, che forse nascondeva una certa rivalità, vista la dura risposta che Gesù gli ha riservato.

Gv 21, 24-25

Questi è il discepolo che dà testimonianza su queste cose e che ha scritto queste cose, e sappiamo che la sua testimonianza è vera. Ma ci sono anche molte altre cose che Gesù fece, se queste fossero scritte una per una, credo che lo stesso mondo non conterrebbe i libri scritti.”.

È la seconda firma di chiusura che viene posta al racconto di Giovanni, quella del suo ultimo redattore, di scuola giovannea, considerato la particolare attenzione che riserva a Giovanni e la mal celata rivalità con Pietro. Egli attesta che il discepolo amato è l'autore del vangelo e testimone di quanto esso contiene. Ma è soprattutto sulla testimonianza, che egli accentra la sua attenzione, citando per ben due volte nel breve v.24 il termine testimonianza, su cui egli pone il suo imprimatur di veridicità: “sappiamo che la sua testimonianza è vera”. Quel “sappiamo” lascia intendere come dietro al cap.21 e all'ultima redazione ci stia la comunità giovannea.

Dalla lettura del vangelo abbiamo rilevato dieci pericopi in cui compare un personaggio, che, seppur caratterizzato in vario modo, è tuttavia qualificato persistentemente da un ostinato e invincibile anonimato. Soltanto riferimenti vaghi, accenni o silenzi sulla sua persona, che comunque si impone proprio per questo suo silenzio e per il ruolo che essa ricopre all'interno del racconto giovanneo. Ed è proprio questa maschera di anonimato, che lo qualifica e lo individua. Un anonimato che forma come una sorta di minimo comune denominatore e che lega tra loro, inscindibilmente, tutte le pericopi che lo ospitano. Anonimo in quanto non ne conosciamo il nome, ma un anonimato che viene sciolto dalla descrizione delle varie posizioni, che questo personaggio occupa, di volta in volta, all'interno delle dieci pericopi indicate. Proprio per questa profonda unità dettata dall'anonimato, le singole pericopi vanno colte unitariamente, come portatrici dei tratti che individuano questo personaggio, togliendolo di fatto dall'ombra in cui esso si era nascosto.

Dopo aver commentato brevemente le singole pericopi77, le quali formano un corpo unico, che gira attorno alla figura del discepolo anonimo, identificandolo per il suo rapporto con Gesù, con Pietro, con i Dodici e con la sua stessa comunità, possiamo ora sintetizzarne i tratti fondamentali, che, in quanto segnalati nel vangelo, devono essere anche quelli più significativi, che l'autore e i redattori hanno voluto evidenziare per i loro lettori:

a) L'anonimo discepolo proveniva dalle fila del Battista. Il cambio di sequela, operato successivamente, non fu un naturale e pacifico travaso dal Battista a Gesù, considerata la successiva polemica con i gruppi battisti, ma una ricerca (1,38a), che troverà la sua risposta illuminante nella nuova sequela. Da questo momento, fino a tutto il cap.12, il discepolo anonimo scompare completamente per riapparire negli ultimi 9 capitoli (13-21), completamente trasformato, in un'intima relazione di comunione con Gesù. È la realizzazione di quel iniziale “Venite e vedrete” (1,39). Il “venite” indica la sequela; il “vedrete” la trasformazione, che la sequela ha operato nel discepolo prediletto. Un “vedrete”, che ha aperto il discepolo prediletto ad una comprensione superiore dell'evento e del mistero Gesù.

b) Il discepolo amato appare in un'intima, profonda e privilegiata comunione di amore con Gesù, simile a quella che Gesù aveva con il Padre. Il verbo usato, infatti, è identico (¢gap£w, agapáo). Probabilmente, questa sua posizione di privilegio lo pone in concorrenza con lo stesso Pietro, che sovente ne esce in un confronto perdente e di dipendenza; ma nel contempo lo qualifica anche come un testimone altamente attendibile.

c) E' un discepolo che occupa una posizione sociale rilevante. Egli, infatti, è noto al sommo sacerdote e doveva frequentarne spesso l'abitazione, considerato che era ben conosciuto anche dalla portinaia. Non è, poi, da escludersi che egli appartenesse alla classe sacerdotale nobile non solo per le sue frequentazioni, ma anche per lo spiccato interesse che egli mostra per il Tempio, le festività, il culto e la sua particolare e precisa conoscenza di Gerusalemme. La particolare attenzione, poi, che egli riserva alla Torah, su cui costruisce buona parte del suo racconto, apre all'ipotesi che egli appartenga alla classe sacerdotale dei sadducei. Questi, infatti, a differenza del giudaismo tradizionale, riconoscevano, come testo sacro, esclusivamente la Torah scritta.

d) In quanto in posizione socialmente rilevante e di privilegio presso Gesù, ne è considerato dalla sua comunità il fiduciario e, di conseguenza, lui e non Pietro è ritenuto l'erede e il continuatore del movimento religioso iniziato da Gesù. Per questo ai piedi della croce riceve in affidamento la nuova comunità messianica, simboleggiata nella madre e ne diviene responsabile. Si tratta, in buona sostanza, di una sorta di investitura, che trova il suo imprimatur ai piedi della croce.

e) Egli, dunque, è il testimone per eccellenza, colui che ha visto, sentito, toccato e meditato. Lui ha capito per primo il perché della tomba vuota. Lui per primo vide e credette. È lui il prediletto di Gesù e gode della sua intima comunione ed è in stretta relazione con lui. È lui che riconosce per primo il Signore e lo indica a Pietro. È lui che ha una posizione socialmente rilevante. Per questo insieme di cose egli gode di un primato spirituale che lo pone a capo della sua comunità, che lo ritiene l'erede naturale di Gesù e non Pietro. Infatti, se è vero che Pietro e il discepolo prediletto compaiono spesso affiancati l'uno all'altro78, vero è anche che Pietro ne esce sempre perdente in questo confronto. Questo primato spirituale del discepolo prediletto, fondato sulla sua esperienza del Verbo della vita, viene testimoniato in 1Gv 1,1-479: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta”. La comunione con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo si ottiene, dunque, solo se si accoglie l'annuncio e la testimonianza del discepolo prediletto, solo se si è in comunione con lui. È la conferma di un primato spirituale che contrappone la comunità giovannea alle comunità palestinesi, che, invece, si riconoscevano in Pietro. Forse proprio per questa contrapposizione e per la composizione elitaria della chiusa comunità giovannea, questa lascia la Palestina e si rifugia ad Efeso, dove, raccolta attorno al suo maestro e fondatore, raccoglie la sua predicazione e il suo pensiero, rielaborandolo e aggiornandolo continuamente, dando l'avvio ad una lunga gestazione e, infine, alla redazione finale del Quarto Vangelo.

In sintesi, di questo Discepolo Prediletto (DP) possiamo dire che appartiene alla classe sacerdotale nobile, probabilmente quella dei sadducei, ed occupa anche una posizione sociale elevata. Possiede un'ottima cultura cosmopolita. Conosce il greco e le filosofie ellenistiche, in particolar modo quella neoplatonica; sa destreggiarsi bene nei meandri dello gnosticismo, usandone con destrezza il linguaggio, ma senza indulgere ai suoi contenuti. Conosce molto bene le Scritture e le tecniche della retorica ebraica. La sua elevata cultura, la sua intelligenza e la sua perspicacia, acuite da una spiccata sensibilità, gli consentono di affrontare il mistero della persona di Gesù con una profondità ineguagliabile e irripetibile. Sensibile alle attese messianiche del suo popolo, aderisce alla predicazione del Battista, divenendone discepolo80; ma l'incontro con Gesù e la sua proposta salvifica lo affascinano, e dopo un'attenta ricerca e riflessione, aderisce a Gesù e lascia il suo primo Maestro, con cui entrerà successivamente in conflitto. Proprio per la sua spiccata personalità, per la sua preparazione culturale, per la sua posizione socialmente elevata e la sua squisita sensibilità, diventa un intimo amico di Gesù. Un'amicizia particolare e profonda lega i due su di un piano spirituale e umano e consente al DP di avere un rapporto privilegiato con Gesù, divenendone un intimo amico e una sorta di fiduciario e confidente. Tutto questo fa si che i suoi ammiratori e i suoi discepoli lo considerino come il naturale erede di Gesù, nonché un attendibile testimone di prima mano, colui che ha visto, ascoltato e toccato con mano il Verbo della vita. Sarà proprio questo aspetto che contrapporrà il DP a Pietro, la sua comunità a quelle palestinesi, che in Pietro, invece, si riconoscevano.


La comunità giovannea


E' indubbio che i vangeli siano stati scritti principalmente per soddisfare le esigenze della comunità a cui erano destinati. Essi, pertanto, vanno letti in questa prospettiva e una loro attenta analisi lascia trasparire i tratti fondamentali della comunità stessa. I vangeli, quindi, sono opere essenzialmente kerigmatiche e pastorali, finalizzate a dare delle risposte a quelle comunità, di cui erano responsabili gli evangelisti, sostenendo i credenti nella fede, rassicurandoli nei loro dubbi, rafforzandoli nelle loro debolezze, fornendo loro delle risposte contro gli assalti esterni, stigmatizzando, invece, quelle correnti interne che rischiavano di deviare e di far deviare dalla retta via o che seminavano dubbi e titubanze tra i più fragili nella fede81. Intenti catechetici, kerigmatici, apologetici, polemici, liturgici e cultuali costituivano, dunque, lo Sitz im leben82 in cui si sono formati i vangeli. Il loro contesto fondamentale e naturale, in cui essi devono essere inquadrati, pertanto, è la comunità, per la quale sono nati e nella quale sono cresciuti e si sono affermati. Similmente, anche il Quarto Vangelo lascia trasparire chiaramente il suo intento: “Dunque Gesù in presenza dei [suoi] discepoli fece certamente molti e altri segni, che non sono stati scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome.” (Gv 20,20-31). Il motivo per cui il QV è stato scritto, dunque, è il rafforzare nella fede la comunità dell'autore stesso, identificato con il Discepolo Prediletto, che non solo viene qualificato come attendibile testimone diretto degli eventi scritti, la quale cosa non può essere detta per i Sinottici, ma anche come l'autore materiale del vangelo stesso (Gv 19,35; 21,24-25). La comunità che abbiamo di fronte, pertanto, è quella che si è andata aggregando attorno al Discepolo Prediletto e da lui dipendente.

La comunità giovannea, nella sua formazione finale, così come appare dal vangelo, presenta una composizione mista, formata essenzialmente da tre o forse quattro strati di credenti: quelli provenienti dal giudaismo, un gruppo probabilmente consistente di Samaritani, forse anche un gruppo di aderenti alla setta di Qumran e, infine, quelli provenienti dal paganesimo ellenico, a cui forse allude l'autore in 7,35 e 12,20-22. In merito è da rilevare come Giovanni sia l'unico tra gli evangelisti a sottolineare come il titulus crucis83 fosse scritto “in ebraico, in latino e in greco” (19,20c). Non è da escludersi, infatti, che se, da un lato, la triplice scritta rispecchiava la configurazione sociale della Palestina, dall'altro, in essa venisse in qualche modo ravvisata la variegata composizione della stessa comunità giovannea, dalla dimensione cosmopolita, allusa probabilmente in quel cartiglio. Da quella croce, infatti, partì l'investitura del Discepolo Prediletto, costituito erede spirituale di Gesù e come proprio da quella croce egli si assunse la responsabilità della prima comunità messianica, simboleggiata in Maria, e di cui egli stesso era figlio (19,25-27). Un altro segnale di come il mondo greco, presente in Palestina, seguisse a modo suo Gesù ci viene dallo stesso Marco: “Ora, quella donna, che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia, era greca, di origine sirofenicia” (Mc 7,26). La presenza di greci, infatti, era consistente in Palestina, basti pensare alla regione della Decapoli84; così anche la loro cultura doveva aver pesato non poco tra gli abitanti della stessa Palestina, se alcuni discepoli, come Andrea e Filippo, pescatori di Galilea, avevano nomi greci. Un mondo, quello greco, che si rispecchia abbondantemente anche negli Atti degli Apostoli e in alcune lettere di Paolo. Del resto l'uso di un certo modo di ragionare proprio della filosofia greca e l'uso del linguaggio della gnosi all'interno dell'opera giovannea dicono quanto peso il mondo greco e la sua cultura abbiano avuto nella piccola comunità. Il fatto, poi, che il redattore, si soffermi a spiegare il significato di termini ebraici o di situazioni o di luoghi propriamente ebraici85, lascia supporre che la sua platea di ascoltatori non avesse dimestichezza con la cultura e la lingua ebraiche. Si tratta di interpolazioni successive disseminate un po' in tutto il racconto giovanneo, destinate ai convertiti provenienti dall'ellenismo. Tutto ciò lascia intendere come questi si siano aggregati alla comunità giovannea soltanto in tempi successivi, probabilmente all'epoca in cui la comunità si trasferì ad Efeso e allorché la prima stesura del vangelo era già formata e pensata per i convertiti dal giudaismo.

L'altra parte della comunità giovannea, come si è sopra accennato, era formata, invece, da giudeocristiani di diversa estrazione. Da un lato, infatti, Giovanni mostra una particolare attenzione al Tempio, alle festività ebraiche, riporta numerosi episodi della Torah, su cui struttura la parte centrale del suo racconto, mentre imposta l'introduzione del suo vangelo sullo schema della creazione genesiaca. Parla, quindi, con un linguaggio ben noto ai giudeocristiani. L'insistenza, poi, sulla Torah86 e il superamento del culto legato al Tempio (4,19-24) nel racconto della Samaritana (4,4-42), che termina con l'adesione degli abitanti della Samaria all'annuncio di Gesù (4,28-29.39-41), lascia intuire come nella comunità giovannea vi fosse anche un numero consistente di Samaritani87. In tal senso è significativa la sottolineatura, posta all'inizio del cap.4, con cui si attesta come “Gesù doveva attraversare la Samaria” (4,4), lasciando intendere con quel “doveva” come anche il mondo dei Samaritani, considerati dai Giudei degli eretici e alla stregua dei pagani, rientrassero, invece, nel progetto salvifico divino, a cui i Samaritani hanno aderito (4,39-41).

Benché la comunità giovannea fosse composita, le mancava, tuttavia, quel respiro universalistico a favore del mondo dei gentili, come invece traspare in Matteo, la cui comunità è protesa missionariamente verso il mondo dei pagani (Mt 10,1-42; 28,18-20), e in modo più evidente in Luca, che scrive la sua opera espressamente per i gentili, ai quali non solo viene annunciata la salvezza, ma lascia intendere come essi siano espressamente chiamati a questa. La sua è una visione universalistica della salvezza88. In Giovanni niente di tutto questo. Infatti, se è vero che in Giovanni non manca la coscienza di una salvezza universale dell'azione redentrice di Gesù, tuttavia, alla sua comunità mancano la spinta e l'afflato missionari, che, invece, si riscontrano molto forti nelle comunità sinottiche. Il concetto di salvezza universale in Giovanni è più che altro un concetto teologico, a cui non fa riscontro una coscienza missionaria propria della comunità89, anzi, vi è nei confronti del mondo e degli uomini in genere un atteggiamento di sfiducia90. Vedremo subito come con l'autore del QV ci troviamo di fronte ad una comunità chiusa, selezionata, elitaria, persone che si sentono scelte, con una forte coscienza della propria identità, una sorta di club esclusivo91, che mal si coniugava con le altre comunità palestinesi, al punto tale da lasciare la Palestina per Efeso.

Essa, infatti, doveva essere una comunità altamente qualificata, sia da un punto di vista sociale che culturale, se l'autore, del resto lui stesso proveniente da una posizione sociale e culturale molto elevate, le si rivolge in greco, usando il linguaggio proprio della gnosi, se adotta schemi di pensiero propri del platonismo, se si sofferma in lunghi discorsi ragionativi, se alla immediatezza eclatante di un miracolo egli preferisce il ragionare sul miracolo stesso, definendolo “segno”, che spinge il suo ascoltatore a non soffermarsi su quanto ha udito, ma ad andare oltre, scoprendo in esso il significato nascosto. Il miracolo in Giovanni, quindi, non è fatto per stupire, ma per riflettere, cercando di cogliere ciò che ci sta dietro. Il ritmo del suo racconto, inoltre, è lento e riflessivo, richiede impegno e capacità di comprensione e di penetrazione. Non è immediatamente raggiungibile e decifrabile. Usa schemi narrativi, che presuppongono una notevole capacità di lettura. Sviluppa una cristologia complessa, che non trova eguali neanche in Paolo. La comunità che gli sta davanti, dunque, doveva essere composta da persone di una certa levatura culturale e anche di notevole disponibilità finanziaria, se, come vedremo, è in grado di lasciare le proprie abitazioni e trasferirsi con il proprio maestro ad Efeso, dove si stabilisce e si ricostruisce una vita propria. E se una comunità si trasferisce in massa, seguendo il proprio Maestro, significa che non doveva essere molto numerosa. Una comunità, dunque, formata da gente con buona cultura e benestante, ma di piccole dimensioni. Del resto nel QV non si parla mai di ricchezza o di povertà o di attenzione ai poveri o alle necessità della gente92. La questione sociale è completamente assente. Questo lascia intendere che è una comunità chiusa in se stessa.

La comunità giovannea sembra essere bastante a se stessa, una comunità elitaria e consapevole delle sue potenzialità culturali e sociali; cosciente di avere come maestro e capo l'ultimo dei grandi testimoni diretti di Gesù, quel discepolo che lei definisce il prediletto di Gesù93. Anche questo aspetto costituisce un punto di forza e di autosufficienza per questa comunità, che pende e dipende esclusivamente dal Discepolo Prediletto e, per questo, non sente il bisogno di istituzionalizzarsi come le altre comunità, che ormai già lo sono da tempo, e tanto meno sente il bisogno di confrontarsi con queste. Essa, infatti, sembra essere una comunità carismatica e autosufficiente, che mal si relaziona con le comunità sinottiche. Un rapporto teso, che si percepisce nel continuo confronto tra Pietro e il Discepolo Prediletto, dal quale il primo ne esce sempre perdente. Il vero maestro e la vera guida è per questa comunità lo Spirito Santo, che sarà sempre con lei e la guiderà alla verità tutta intera94. Non c'è, dunque, bisogno di un magistero, poiché il Discepolo Prediletto e lo Spirito sono le loro guide. In nessuno dei vangeli sinottici viene dedicato tanto spazio allo Spirito Santo come nel QV, che sembra essere, assieme a Gesù, il vero protagonista dell'opera giovannea; mentre nei Sinottici lo Spirito Santo è visto soltanto in stretta relazione all'operare di Gesù, ma mai in relazione alla comunità sinottica. Il rapporto tra i membri della comunità giovannea, del resto, è improntato alla disponibilità e al servizio reciproco; una particolarità questa che si riscontra nelle comunità carismatiche, i cui membri, secondo i carismi propri, si pongono a disposizione gli uni degli altri per il bene della comunità, prediligendo quei carismi che la fanno crescere. Proprio sul tema dei carismi, colti come doni individuali dello Spirito e sua manifestazione e azione a favore della comunità, Paolo dedicherà l'intero cap.12 della sua Prima Lettera ai Corinti, indicando poi, quale migliore carisma, che tutti li riassume, la carità, a cui dedicherà tutto il seguente cap.13. La carità, l'amore che si fa servizio e attenzione per gli altri, dunque, è il vero carisma che deve informare tutti; e l'amore è anche il tema di fondo che sottende il QV, al punto da farne un elemento distintivo del discepolo (13,35).

Le ristrette dimensioni della comunità giovannea traspaiono da quell'aria di intimità e di familiarità che pervade l'intero vangelo e, in particolar modo, nei capp.13-21. I membri della comunità si ravvisano nell'intimistico rapporto che il Buon Pastore ha con le sue pecore, che vengono più volte definite “mie pecore” (10,14.26.27), che riconoscono la voce del loro pastore, dal quale vengono nutrite con amore e per le quali egli è pronto a dare la sua vita (10,1-18). Un rapporto intimo e particolare, che viene esaltato per ben cinque capitoli (13-17), che si aprono all'insegna dell'intimità e della totale dedizione di Gesù per i suoi: “Ora, prima della festa della pasqua, sapendo Gesù che venne la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi nel mondo, li amò fino alla fine” (13,1). Un particolare rapporto di affetto, che vede il discepolo prediletto dolcemente reclinato sul petto di Gesù, in intima comunione con lui (13,23.25) e che spinge Gesù a rivolgersi ai suoi, chiamandoli “Figlioletti” (13,33) e ripetutamente “amici” (15,13-15), mentre dopo la risurrezione essi sono diventati suoi “fratelli” (20,17b) con i quali condivide il suo unico Padre e unico Dio (20,17b). Tuttavia, si tratta di una intimità, che non si fonda sulla sdolcinatura sentimentale o sulle calde emozioni del momento, ma su di un profondo legame spirituale, che unisce la comunità giovannea, stretta attorno al Discepolo Prediletto, a Gesù e al Padre, a cui essa si sente di appartenere da sempre e del quale sentono di condividere la vita: “Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi, gli hai dati a me, e hanno custodito la tua parola. Ora hanno conosciuto che tutto quanto mi hai dato è da te; poiché le parole che mi hai dato ho dato a loro, ed essi (le) accolsero e hanno conosciuto veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro, non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai dato, poiché sono tuoi, e tutte le cose mie sono tue e le tue mie, e sono glorificato in loro.” (17,6-10). Un'intimità, che si fa comunione con Gesù e con il Padre e fondata sulla testimonianza accolta, si rileva in 1Gv 1,3-4: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta”. In questi capitoli, 13-21, il verbo, che maggiormente ricorre, 36 volte sulle complessive 44 dell'intero vangelo, e che qualifica il rapporto intracomunitario, ma che nel contempo anche lo sollecita con premura, è ¢gap£w (agapáo), che parla di un legame profondo e spirituale, lo stesso che intercorre tra Gesù e il Padre95

Vi è in questa comunità una spiccata coscienza elitaria, coscienza di essere degli eletti e dei privilegiati, persone scelte e selezionate, addentro alla conoscenza del mistero e partecipi di un grande piano salvifico, di cui Gesù è la porta di accesso, con cui intrattengono un rapporto particolare96 e con il quale condividono la comune paternità (20,17b).

Benché si tratti di una piccola comunità di benestanti, socialmente in evidenza e di elevata cultura97, tuttavia non mancano i problemi al suo interno. L'insistenza sull'amore, che come un filo conduttore intesse l'intero QV e l'accorata preghiera di Gesù al Padre (Gv 17), che invoca l'unità dei suoi, lasciano intendere che in questa comunità vi fossero dei dissensi tali da provocare delle divisioni. Un accenno in tal senso lo si può cogliere in 6,60-61.64.66.67-68, così come la nota di 10,16 lascia intuire una divisione già avvenuta e la necessità di ricomporla: “E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. Ma è soprattutto l'insistenza sull'amore che fa pensare alla situazione descritta dalla Prima Lettera di Giovanni. Vi erano nella comunità alcuni che, sull'onda di una escatologia già attuata, si ritenevano degli illuminati, dei perfetti, senza peccato (1Gv 1,6-10) e tali da non essere più soggetti a nessun comandamento (1Gv 2,3-6), in particolare quello dell'amore fraterno98.

L'uso del linguaggio gnostico, poi, per sviluppare la riflessione sul mistero di Gesù, induce a pensare che all'interno della comunità vi fosse un consistente gruppo, che leggeva la figura di Gesù e la sua opera in prospettiva gnostica. Giovanni, invece, usando il linguaggio della gnosi, senza tuttavia cadere nei suoi errori, sembra insegnare ai membri della sua comunità ad usare correttamente il potente pensiero della gnosi per approfondire il mistero dell'evento Gesù.

Ma vi era anche una parte della sua comunità, che forse mal accettava l'incarnazione di un Dio, pensato troppo trascendente e irraggiungibile così da negargli una reale umanità, per questo l'autore sviluppa una teologia incarnazionistica, senza negare la trascendenza del Verbo incarnato (1,1-2.14). In questo senso va la testimonianza della reale morte di Gesù, colpito da una lancia al fianco, da cui sgorga sangue ed acqua (19,34-35). Similmente, con un linguaggio molto crudo e duro, si sollecita a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue per ottenere la vita eterna. Un discorso che scandalizza molti dei suoi discepoli che lo lasciano, mentre il nucleo più intimo gli rimane fedele (6,52-69), probabilmente quello stesso gruppo che lo ha assistito nella stesura del vangelo e lo ha anche redatto. Abbiamo qui, forse, un accenno alla durezza di uno scontro avvenuto all'interno della comunità, che proprio su questo punto, si era divisa. Una corporeità reale, che viene affermata anche nel Risorto, certo non come quella storica, ma pur sempre corpo reale e non apparente, che Tommaso, simbolo della difficoltà a credere di una parte della comunità, è chiamato a constatare di persona, mettendo le sue mani nelle ferite del crocifisso risorto (20,27-28). Un corpo, quindi, che si lascia vedere e toccare anche dopo la risurrezione. Un corpo reale, dunque, un corpo vero99. Sulla questione doceta e sulle sue conseguenze sono molto più esplicite sia la prima che la seconda lettera di Giovanni, che parlano di un gruppo interno alla comunità, probabilmente piuttosto consistente, che negava l'umanità di Gesù (1Gv4,2; 2Gv 1,7). Significativa, in tal senso, è l'apertura della prima lettera di Giovanni, che sembra essere una sorta di proclama antidocetista, sottolineando in modo quasi ossessivo non solo l'autentica storicità di Gesù, ma anche la tangibilità storica della sua umanità e della sua persona, così che la fede della comunità si radichi in un concreto evento storico: “Ciò che era fin da principio100, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4). Lo scontro fu tale che i negazionisti lasciarono la comunità (1Gv 2,19).

I rapporti della comunità giovannea con il mondo giudaico, da cui proveniva, sono sostanzialmente conflittuali. Ci troviamo di fronte ad una comunità che ha già ampiamente consumato la sua rottura con il giudaismo e ne sta pagando le conseguenze. Il termine Giudei, che ricorre nel vangelo giovanneo 65 volte, ha un'accezione prevalentemente negativa e polemica e spesso esso diventa sinonimo di incredulità invincibile e colpevole. In buona sostanza, una sorta di atto di accusa contro il giudaismo e il suo culto. È significativo, infatti, come le festività ebraiche vengano associate al nome “Giudei”101. Questo abbinamento raggiunge due scopi: il primo, una presa di distanza dal culto giudaico, che la comunità giovannea non sente più proprio, forse anche per la presenza nelle sue fila di credenti provenienti dal gruppo degli esseni, che, come si sa, erano in rottura con il tempio e il suo culto; il secondo, per la negatività con cui è stato caricato il termine, viene svalutata la festività stessa e il culto che vi si celebra. Vi è sottesa in questo anche una malcelata polemica con il Tempio, la cui sacralità viene progressivamente svalutata e sostituita, pari pari, dalla persona di Gesù, dal suo stesso corpo (2,21); mentre il vero culto, quello gradito al Padre e che il Padre cerca, si celebra “in spirito e verità” (4,23-24), la quale cosa richiede una rinascita dall'alto (3,3), l'essere rigenerati da Dio (1,13). Tutte tensioni queste che vengono confermate in 9,22 e 12,42, dove si attesta il provvedimento dell'autorità giudaica contro i giudeocristiani, considerati apostati e, pertanto, espulsi dalla sinagoga102. Un'espulsione che aveva delle pesanti ripercussioni sociali ed equivaleva ad una sorta di morte civile; ma soprattutto, sottraeva il nuovo credente alle tutele e ai privilegi, che Roma aveva concesso ai Giudei, esentati dalla partecipazione alle cerimonie religiose pubbliche del culto romano.

Si percepisce, inoltre, una situazione di forte tensione con il gruppo dei battisti, facente capo a Giovanni. Questi, molto probabilmente, ritenevano Giovanni il vero Messia, il profeta escatologico atteso103, la cui superiorità su Gesù era confortata anche dal fatto che Gesù, per un breve periodo della sua missione, fu discepolo di Giovanni e militò anch'egli nelle sue fila (3,22), finché non se ne distaccò per una rivalità sorta tra il suo gruppo e quello del Battista104. Per superare questo handicap di dipendenza di Gesù dal Battista, il redattore giovanneo precisa “sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli” (4,2). L'autonomia di Gesù è salva, benché con questo inciso redazionale, l'autore non si è accorto di contraddire 3,22 o, forse, non si tratta di una vera e propria contraddizione, ma di una precisazione, finalizzata a limitare quell'affermazione così compromettente. E proprio sulla pretesa superiorità del Battista su Gesù, vi sono affermazioni che, invece, tendono a sminuire la figura di Giovanni rispetto a quella di Gesù. In tal senso si pensi ai vv. 1,8-9, dove si afferma che Gesù e non Giovanni era la vera luce e come Gesù fosse venuto prima del Battista (1,15.30); mentre in 1,20 si rileva che Giovanni non appartiene a nessuna tradizione: egli, infatti, non è il Cristo, non Elia e neppure il profeta atteso, ma soltanto una voce sperduta nel deserto, senza alcuna nomea. Concetto questo che viene ripreso e ribadito in 3,28. Gli si contesta addirittura la validità del suo battezzare (1,25). La superiorità di Gesù, invece, viene sottolineata in 10,41 dove si attesta che “Giovanni non ha fatto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero”. Si noti come il miracolo appartiene soltanto a Gesù, poiché esso è “segno” che rimanda alla sua divinità, mentre il ruolo del Battista è relegato soltanto a suo testimone. Un particolare quest'ultimo che caratterizza la figura del Battista in tutto il racconto giovanneo. Non vi è in esso nessuna esaltazione del Battista, nessuna assimilazione con la figura di Gesù, nessun panegirico che ne rilevi le qualità e le virtù, come, invece, si trova in Matteo105. Il Battista, che giganteggia nei Sinottici, in Giovanni è spogliato di ogni sua grandezza ed è relazionato in subordine a Gesù; egli è soltanto un testimone, che deve diminuire di fronte a Gesù, mentre Gesù deve crescere (3,30).

Uno stato di forte tensione si avverte anche nel rapporto tra la comunità e il mondo in genere, che non ha riconosciuto la luce vera venuta in mezzo ad esso ed ha preferito, invece, le tenebre106.

Un'altra forte tensione si percepisce tra la comunità giovannea e le altre comunità credenti della Palestina. Lo si avverte ogniqualvolta Pietro viene affiancato al Discepolo Prediletto; un confronto da cui Pietro esce sempre perdente. Si tratta di una tensione che si muove, a nostro avviso, sulla questione del primato e sul chi è l'erede spirituale di Gesù. Fondamentale per comprendere che cosa ci stia alla base di questa tensione è quanto avviene ai piedi della croce, dove sono presenti la madre di Gesù, sua sorella e Maria di Magdala, oltre al Discepolo Prediletto (18,25-28). Ora Gesù, nella solennità del Golgota, alla presenza di due testimoni, la sorella di Maria e la Maddalena, investe ufficialmente ed esclusivamente il Discepolo amato. Pietro, infatti, qui non c'è, come dire che ne è stato escluso. L'opera di Gesù, dunque, continuerà in Giovanni e non in Pietro. Il cap.21, un appendice del vangelo giovanneo, aggiunto successivamente alla morte del Discepolo amato, in cui si riconosce il primato petrino (21,15-19), potrebbe essere letto come un atto di rappacificazione tra la comunità giovannea e quelle palestinesi, anche se in quest'ultimo capitolo continua a giganteggiare la figura del Discepolo amato. È lui, infatti, che riconosce il Signore per primo e lo indica a Pietro, incapace di riconoscerlo; così, come, lui per primo, ha compreso il perché della tomba vuota. È sempre lui, infine, che è rivestito di un alone di immortalità (21,21-23) e che ha sempre seguito fedelmente Gesù (21,20), contrariamente a Pietro, che qui deve fare pubblica ammenda (21,15-17). In questo contesto di tensione tra la comunità giovannea e le palestinesi va tenuta presente anche la diversa organizzazione: quella giovannea era di tipo carismatico, a lungo raccolta attorno al Discepolo Prediletto e in lui si riconosceva; mentre le altre comunità, a seguito della naturale scomparsa degli apostoli, avevano incominciato a istituzionalizzarsi e a darsi una diversa organizzazione, più razionale, dovendo anche far fronte alle aggressioni e alle persecuzioni giudaiche in un ambiente ostile.

Questo insieme di tensioni, che caratterizzavano la comunità giovannea nel suo rapportarsi con il giudaismo, con il gruppo Battista, con il mondo e con le stesse comunità credenti palestinesi, danno l'idea dello stato di isolamento in cui essa doveva trovarsi; un isolamento che era accentuato e in buona parte creato dalla sua forte coscienza elitaria, dalla sua organizzazione di tipo carismatico, che la contrapponeva alle altre comunità e dalla sua pretesa di essere lei l'erede del patrimonio spirituale di Gesù, in virtù del Discepolo Prediletto, a cui essa si riferiva esclusivamente, subendone l'impronta. È anche una comunità matura, che ha già elaborato una forte coscienza della sua identità e si esprime attraverso numerose immagini, che non troviamo nei Sinottici. Essa si percepisce come la sposa posseduta dal suo sposo (3,29); come il gregge, che ha in Gesù la sua guida sicura (10,1-18); come popolo di Dio disperso e radunato nel sangue e per il sangue di Gesù (11,50-52); come tralci che sono legati all'unica vite (15,1-12); come tunica indivisa di Gesù (19,23-24); e, infine, come una rete, che gettata nel mare compie una pesca abbondante senza strapparsi (21,5-6). L'insieme di questo stato di cose deve aver spinto la comunità giovannea ad abbandonare la Palestina, peraltro segnata profondamente da una sanguinosissima guerra con Roma (66-73 d.C.), e a rifugiarsi nella più tranquilla e florida Efeso, ambiente dall'ampio respiro culturale cosmopolita, che più le si addiceva.

La sua venuta ad Efeso non fu probabilmente un viaggio diretto, una sorta di esodo Palestina-Efeso, ma seguendo lo sviluppo del QV, fu forse un graduale andare della comunità verso Efeso e le varie tappe del cammino sembrano rispecchiarsi nel vangelo stesso. Nata in Palestina, attorno a Gerusalemme, città che ha una grande risonanza nel vangelo giovanneo, la comunità, probabilmente per una grave persecuzione ad opera dei Giudei contro gli Ellenisti107 (circa 32 d.C.), in cui rimase vittima anche Stefano (At 6,9-7,60), si rifugia in Samaria (At 8,1), dove compie l'annuncio accolto dai Samaritani (At 8,4-5.14.25), con i quali condivide la Torah scritta108. Un ricordo di questo rimane probabilmente nel cap. 4 e, forse, nella struttura stessa del vangelo, imperniato su racconti dell'Esodo. Essa, poi, prosegue per la Galilea, una regione aperta alla cultura ellenistica, basti pensare ai nomi dei due discepoli Andrea e Filippo, entrambi di Betsaida di Galilea (Gv 1,44), i cui nomi sono di derivazione greca. Il nome stesso, Galilea, significa “territorio dei pagani” (gelil ha goym); mentre il suo respiro cosmopolita si fa sentire in Matteo, che la definisce “Galilea delle Genti” (Mt 4,15). La comunità doveva, poi, aver ripreso il suo cammino spostandosi ad Antiochia di Siria, un passaggio obbligato per chi doveva raggiungere l'Asia Minore. Secondo Eusebio essa fu la patria di Luca e questo particolare può forse spiegare il contatto del vangelo giovanneo con quello lucano, che utilizza negli Atti una fonte antiochena (At 11,19-30; 13,1). La comunità, infine, giunge ad Efeso, probabilmente intorno al 33 d.C., dove raccoglie le tradizioni con cui è venuta a contatto, rielabora le proprie esperienze fatte lungo il suo cammino, tenendo conto del contesto storico e culturale in cui si è venuta a trovare, ben diverso da quello proprio di origine, e qui inizia ad elaborare una prima stesura di quell'opera che sarà definita dalla Tradizione come il Vangelo secondo Giovanni109.


LLuogo e data di composizione


Il Luogo di composizione


Conoscere il luogo della composizione del vangelo giovanneo può aiutare a comprendere il contesto storico-sociale immediato in cui esso si è andato formando e, quindi, l'influenza che esso può aver avuto, ma non necessariamente, sulla comunità. Tuttavia, ciò che determina l'interesse dello studioso non è l'ambiente in se stesso, che può rimanere anche sconosciuto, bensì la reazione della comunità a questo, quella reazione che si riflette nel vangelo e dal quale si risale, poi, all'ambiente. Il metodo di ricerca, dunque, è induttivo e molto raramente, quasi mai, deduttivo: dal vangelo al contesto sociale, che nel vangelo si rispecchia. Non va, poi, dimenticato che il mondo antico era sostanzialmente uniformato e i cambiamenti avevano movimenti secolari o plurisecolari. Il mondo antico, che traspare nel N.T., era profondamente segnato dalla presenza dell'ellenismo e del giudaismo e, marginalmente, da quello romano. I problemi delle comunità, pertanto, erano sostanzialmente simili. Per questo il conoscere il luogo della formazione di un vangelo o di una lettera è abbastanza irrilevante110. Importante è, invece, conoscere i tratti fondamentali della cultura, della religione, della politica e della società di quel tempo, che costituivano la struttura portante del vivere proprio di quell'epoca e, quindi, i problemi che si sottendono negli scritti neotestamentari.

Tuttavia, ripercorrendo il tradizionale percorso degli studi, tre sono i luoghi maggiormente indicati: Alessandria d'Egitto, Antiochia di Siria ed Efeso. Quanto alla prima, perché in Egitto furono trovate numerose copie del vangelo di Giovanni. Il consistente ritrovamento, tuttavia, fu dovuto alle condizioni climatiche, favorevoli alla conservazione dei papiri e non solo del QV, ma di molte altre opere, che qui si ritrovarono in maggior numero che altrove. Il fatto, poi, che questa città fosse stata la patria di Filone, che parla del Logos, così come quella di Valentino, esponente di rilievo della gnosi, che si rifà al QV o il ritrovamento nella biblioteca gnostica di Nag Hammadi di numerose copie del vangelo giovanneo, sono tutti elementi questi interessanti, ma non rilevanti né determinanti al fine di stabilire Alessandria come la città natale del QV. Non va dimenticato, infatti, che Alessandria fu un grande centro culturale e intellettuale del tempo, punto di convergenza di grandi opere letterarie; un polo, quindi, di cultura cosmopolita. Quanto ad Antiochia di Siria, questa venne presa in considerazione per i supposti rapporti tra Ignazio, vescovo di questa città, e Giovanni, che la tradizione fa addirittura suo discepolo. Tali rapporti, tuttavia, sono molto problematici da stabilire. Anche una certa somiglianza della teologia igniaziea con quella giovannea non prova che Antiochia abbia visto i natali del QV. Vi è poi una certa somiglianza tra Giovanni e le Odi di Salomone, un'opera del II sec. Ma l'influenza di un'opera su di un'altra non è prova che queste opere abbiano avuto lo stesso luogo di origine. Nell'insieme non sembra esserci qui niente di convincente.

Diverso, invece, è il caso di Efeso, verso cui convergono prevalentemente gli studiosi. Ireneo, nel suo Adversus haereses (III, 1,1) afferma che Giovanni pubblicò il suo vangelo quando risiedeva ad Efeso, mentre Eusebio da Cesarea, nella sua Historia ecclesiastica (III, 20,9; 23,6; 31,3), testimonia della presenza di Giovanni in questa città. Il combinato di queste due affermazioni danno buone probabilità che Efeso sia stata il luogo di nascita del vangelo giovanneo111. Altri riferimenti più attendibili non sembrano esserci. Non mi sembrano, infatti, importanti le citazione di Ap 2,9 e 3,9 per provare o giustificare lo scontro con la sinagoga, presente nel vangelo giovanneo; così come la citazione di At 19,1-7 per provare o giustificare lo scontro con i discepoli del Battista. Infatti, se Ap 2,9 e 3,9 parlano di uno scontro con il giudaismo nella regione dell'Asia Minore, questo non può costituire una prova o un indizio probante, poiché lo scontro con il giudaismo era presente in tutto il mondo antico e non era certo locale. Ovunque, infatti, a motivo della diaspora, vi era la presenza della sinagoga. Quanto ad At 19,1-7 provano soltanto che ad Efeso vi erano dei discepoli o semplici seguaci di Giovanni, ma forse è meglio parlare più semplicemente di persone che si sono fatte battezzare da lui e che erano ignare di un diverso battesimo, a cui hanno aderito senza problemi. Il tono di questi versetti non è polemico e non è tale da giustificare il vivace scontro con i battisti presente nel vangelo. Del resto, il cristianesimo, ovunque si andasse affermando, si trovava a dover regolare i conti sia con il mondo giudaico, espresso in tutte le sue forme, sia con il mondo pagano. Più interessante, invece, trovo Ap 2,1-5: “All'angelo della Chiesa di Efeso scrivi: Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro: Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova - quelli che si dicono apostoli e non lo sono - e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di un tempo. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto”. I tratti qui sottolineati sembrano in qualche modo richiamare la situazione di 1Gv e quella che si muove sullo sfondo stesso del vangelo giovanneo: lo scontro con il giudaismo, con i battisti, la presenza del docetismo e dello gnosticismo possono essere in qualche modo richiamati nella fatica, nella costanza e nella lotta contro i falsi profeti, che la comunità giovannea ha profuso per rimanere salda nella retta via fino allo scisma della comunità stessa (1Gv 2,19); mentre le gravi difficoltà circa l'unità e l'amore fraterno presenti nella comunità giovannea sono ravvisabili nell'accusa di aver “abbandonato il tuo amore di un tempo”. Ed è in particolar modo con il richiamo sull'originario amore venuto meno, che Dio va a colpire la comunità di Efeso. Un richiamo che viene rivolto, tra le sette chiese dell'Asia minore, soltanto a quella di Efeso. La comunità di Efeso, di cui si parla in Ap 2,1-5 potrebbe essere, dunque, con una discreta probabilità, quella giovannea.


La data di composizione del vangelo


L'aria che si respira nel racconto giovanneo è quella di un lucido ricordo di eventi raccontati in famiglia o all'interno di una ristretta cerchia di amici; eventi sui quali si sviluppano delle riflessioni e degli approfondimenti. Il clima, favorito dal ritmo lento della riflessione, è sostanzialmente tranquillo e sereno e il tutto si svolge tra due banchetti, che per loro natura parlano di gioia, di festa e della bellezza del ritrovarsi assieme; banchetti che richiamano antiche visioni messianiche e promesse di un nuovo regno (Is 25,6-9), in cui la comunità giovannea si sente posseduta dallo sposo (3,29) e legata a lui come un tralcio alla sua vite (15,5). Due banchetti che includono l'attività pubblica di Gesù: quello delle nozze di Cana (2,1-11) e quello svoltosi presso la casa di Lazzaro, dove Gesù è cosparso di fragrante nardo (12,1-3). Il primo apre l'attività pubblica di Gesù, annunciando che non è ancora giunta l'ora (2,4); il secondo la conclude, preannunciando in qualche modo112 che è giunta l'ora (12,23). Tutto ciò che è ricompreso tra i due banchetti è privo di ogni tensione escatologica; non vi sono minacce di giudizi imminenti, nessun albero sta per essere abbattuto, né vi sono pressanti richiami a conversioni radicali, nessuna esortazione alla vigilanza, nessuna scure è posta alla radice, nessun fuoco eterno minaccia chi rifiuta di credere e di accogliere, ma esso è promesso soltanto a chi abbandona la fede abbracciata (15,6)113. La stessa attività del Battista, che nei Sinottici è caratterizzata da una predicazione escatologica e da un forte richiamo alla conversione per evitare l'imminente e incombente ira divina114, qui, in Giovanni, si riduce ad una semplice e tranquilla testimonianza, spesa tutta a favore di Gesù, di cui egli è il precursore. Non c'è nulla di drammatico, nulla di imminente che sta per accadere, nessuno sta per essere travolto, poiché la presenza di Gesù è colta come un evento compiuto, oltre il quale non c'è da attendere più nulla. Nessuna escatologia, dunque, poiché l'evento Gesù è già escatologico in se stesso. Per Giovanni, dunque, l'escatologia non è nel futuro, ma è radicata qui nel presente ed è qui nel presente che l'uomo è chiamato a dare la sua adesione, poiché salvezza e dannazione si operano già qui115, hinc et nunc. Il Tempio, il suo culto, le festività, il salire a Gerusalemme per celebrare le feste, il ritrovarsi al loro interno sa molto da sagra paesana, spesso disturbata dall'incredulità della gente o dall'invadente presenza delle autorità religiose, che con il loro puntiglioso imporsi preannunciano, come nuvole nere che si addensano all'orizzonte, un forte temporale che rovinerà la festa. Quanto ci viene raccontato da Giovanni sono scene di pace, paesaggi di vita normale, che si ripetono ogni anno, almeno per tre pasque116. Nel racconto giovanneo non vi sono tracce della guerra giudaica (66-73 d.C.), che, distruggendo l'intera Palestina, ha lasciato dietro di sé un insanabile cumulo di macerie e montagne di morti dissacrati117, distruggendo ogni forma di vita sociale e religiosa: Gerusalemme e il tempio distrutti, fine del sacerdozio, fine di ogni culto. Il giudaismo per sopravvivere dovrà reinventarsi completamente, ripartendo da Iamnia (70 d.C.). Nei vangeli sinottici, infatti, si respira questa aria pesante da periodo postbellico, del tutto assente in Giovanni; un periodo fatto di forti tensioni, persecuzioni e tradimenti118, che culmina nei discorsi escatologici, messi sulla bocca di Gesù, accompagnati da forti richiami alla vigilanza, su cui pesa l'imminente venuta del giudice supremo (Mt 24-25; Mc 13; Lc 21). Il confronto tra i due quadri, quello sinottico e quello giovanneo, lascia trasparire il diverso contesto storico in cui sono nati i vangeli e lasciano intuire come il racconto giovanneo si collochi in un'epoca lontana dal conflitto giudaico-romano e dalle forti tensioni, che lo hanno preceduto e generato.

Come sopra accennato (pag. 37), la comunità giovannea giunse ad Efeso probabilmente nel 33 d.C., dove visse fino alla morte del Discepolo Prediletto, avvenuta, secondo Ireneo e Girolamo119, all'inizio dell'impero di Traiano (98-117 d.C.). E' da supporre che la comunità, una volta giunta ad Efeso, vivesse raccolta attorno al suo Maestro, in ascolto e in meditazione delle sue dirette testimonianze su Gesù e il suo messaggio, sempre isolata dalle altre realtà ecclesiali presenti certamente in Efeso. Ma fu probabilmente l'avanzare dell'età del Discepolo Prediletto e il timore che egli potesse venir meno, che spinse la comunità giovannea a registrare le sue testimonianze e le sue riflessioni, perché non andassero perdute e perché fossero un solido e saldo punto di riferimento per l'intera comunità anche dopo la sua morte. Se questa ipotesi risultasse vera, allora è da pensare che la prima stesura del vangelo giovanneo si aggiri intorno alla prima metà degli anni 60, forse tra il 60-65 d.C., epoca questa in cui il Discepolo Prediletto poteva avere tra i 55 e i 60 anni; da questo momento in poi il vangelo ebbe continui ritocchi e integrazioni, man mano che la testimonianza e il pensiero del Discepolo Prediletto si andava via via sempre più sviluppando nel tempo, adattandosi alle varie e diverse situazioni, che nel corso del tempo si andavano presentando e impegnavano la stessa comunità, esponendola a rischi interni o esterni. Il vangelo giovanneo, dunque, fu un'opera in continua costruzione ed elaborazione, che durò per tutto il tempo in cui visse il Discepolo Prediletto, l'unica fonte diretta ancora vivente, e si concluse con una revisione generale e definitiva alcuni anni dopo la sua morte, avvenuta all'incirca intorno all'anno 100. Con l'aggiunta del cap.21 da parte del gruppo, che collaborò con il proprio Maestro alla stesura del vangelo, si chiuse definitivamente, probabilmente tra il 105-110 d.C., un'opera, che per la sua lunga gestazione e il suo lungo travaglio, ha lasciato al proprio interno, come vedremo, numerose smagliature letterarie. La datazione così tardiva mi è suggerita dallo stesso contenuto del cap.21, in cui si nota una sorta di riconciliazione tra la comunità giovannea, costituzionalmente carismatica e in forte tensione con le altre chiese, invece già istituzionalizzate, e le chiese stesse, riconoscendo in Pietro il capo supremo di tutta la chiesa, con cui la comunità giovannea, sembra ora aperta al dialogo e pronta ad accettare anche lei una sua istituzionalizzazione, ora che il suo Maestro non c'è più. Si trattava di operare, tuttavia, una profonda rielaborazione della propria identità per riavvicinarsi alle altre chiese, uscendo dal proprio isolamento. Tutto ciò non è pensabile che sia avvenuto senza traumi, conflitti interni e in breve tempo. Per cui se il Discepolo Prediletto è morto intorno al 100 d.C. è ragionevole pensare che la comunità giovannea abbia incominciato ad integrarsi, entrando nel comune alveo ecclesiale, verso l'anno 110 d.C., epoca in cui ci viene testimoniata dal cap.21 la riconciliazione della comunità con le altre chiese, che riconoscevano in Pietro il vero erede di Gesù.


LLa formazione del Vangelo e la sua unità letteraria120


Edotti dalla formgeschichte121, che si proponeva lo studio della formazione dei vangeli a partire dall'analisi delle singole unità letterarie, siamo spinti ad affrontare la formazione del vangelo di Giovanni allo stesso modo. Isoliamo, quindi, le varie unità narrative o le varie sezioni, che lo compongono e ci interroghiamo sulla natura e sulle finalità di queste unità o sezioni letterarie e sulla loro fonte. È così che Bultmann individua in Giovanni tre fonti: quella dei segni, quella dei discorsi e quella della passione e morte di Gesù, che rimescolate assieme, originano il vangelo finale; o il Brown, che vede in Giovanni del materiale sinottico, elaborato secondo la prospettiva giovannea, e del materiale proprio della tradizione giovannea; il tutto, poi, rimescolato assieme e integrato ad altre inserzioni in edizioni successive. Secondo il Brown il vangelo giovanneo si è formato in cinque fasi: 1) al primo stadio vi è del materiale sinottico, ma riletto secondo la tradizione giovannea; 2) il secondo stadio è formato dalla predicazione e dall'insegnamento dei discepoli, che rielaborano il materiale, proveniente dal loro Maestro, attraverso un lento lavorio, durato alcuni decenni; 3) alla fine di questo processo, il materiale viene messo per iscritto. Alla stesura del testo collaborano diversi autori sotto la supervisione di un responsabile. Nasce così la prima edizione, scritta in greco, frutto di un'accurata selezione del materiale. Questa prima edizione precede lo scontro con la sinagoga; 4) una seconda edizione segue il tempo dello scontro con la sinagoga, ed ha lo scopo di sostenere i credenti nelle loro difficoltà con il giudaismo; 5) il quinto e ultimo stadio vede il redattore finale riprendere la predicazione e le elaborazioni teologiche della comunità giovannea e inserirle nel vangelo, con l'aggiunta del cap.21. A questo redattore finale appartengono il prologo (1,1-18), l'epilogo (21,24-25) e i testi 3,31-36; 6,49-58; 12,44-50; 16,4-33. Di questo redattore finale appartengono, forse, anche i capp.11-12, in cui il termine “Giudei” acquista un significato diverso dal resto del vangelo. Ma altri, come il Boismard e il Lamouille pensano al vangelo di Giovanni come il punto di convergenza di quattro documenti: il documento C, di origine palestinese, considerato il più antico e che è alla base del vangelo giovanneo, seguito da altri tre successivi documenti, che altro non sono che la ripresa del primo documento, integrato, riveduto e rielaborato più volte in una nuova sintesi fino a giungere all'edizione finale in nostro possesso. Il Segalla, similmente, vede quattro tappe nella formazione del vangelo: a) la predicazione del discepolo amato, che sta all'origine; b) sulla scia di questa predicazione si forma la tradizione giovannea; c) vi è quindi una prima edizione del vangelo, che si muove in un contesto fortemente ellenizzato e chiamata a difendere la fede dagli attacchi del giudaismo; d) seconda edizione con l'aggiunta del cap. 21, in cui si presenta una comunità orfana del Discepolo Prediletto, in atteso della seconda venuta di Cristo e sotto la guida di Pietro.

Il vangelo giovanneo, a nostro avviso, segue una logica tutta sua propria, molto diversa da quella dei Sinottici, poiché diversi sono i contesti primari (autore e comunità), che hanno generato i Sinottici e il QV. Innanzitutto all'origine dei Sinottici ci stanno degli autori, che non sono testimoni diretti, ma discepoli di seconda generazione122. Non hanno conosciuto Gesù, ma ne hanno sentito parlare, per questo hanno bisogno di testimonianze su di lui, che raccolgono tra le varie comunità sparse in Palestina o in territori limitrofi. Testimonianze che poi elaborano secondo comprensioni e schemi teologici propri, tenendo conto delle esigenze della comunità, a cui queste opere erano destinate. Giovanni, al contrario, è testimone diretto dell'evento Gesù, con cui ha intrattenuto un rapporto tutto particolare e molto intimo, di reciproca confidenza. Egli non ha bisogno di testimonianze altrui, perché egli è il testimone per eccellenza: lui ha visto, lui ha sentito, lui ha toccato, lui ha conosciuto “ciò che era fin da principio” (1Gv 1,1-4), lui, pertanto, sa. Non ha bisogno di cercare altre fonti al di fuori di se stesso, poiché egli è la fonte. Non ha bisogno di tradizioni elaborate da altri, perché lui è la fonte fondatrice di una tradizione e ne ha l'autorità e l'autorevolezza, perché lui è percepito dalla sua comunità come l'erede spirituale di Gesù (Gv 19,25-27). Va tenuto presente, poi, che la comunità giovannea fu una comunità chiusa, isolata ed elitaria, con uno spiccato senso della propria identità. Finché visse il suo maestro, il Discepolo Prediletto, quindi, essa non sentiva probabilmente il bisogno di cercare altre fonti alternative o diverse testimonianze. Tutto, quindi, fu prodotto in casa sotto l'egida del Discepolo Prediletto. La fonte, dunque, fu unica, anche se, come vedremo, essa non ignorava la presenza dei Sinottici, ai quali ha dato una certa attenzione, ma non tale da lasciarsi influenzare da essi, se non in modo marginale. In tal senso le finali dei capp. 20,30-31 e 21,24-25 ci aiutano a comprendere qualcosa circa la formazione del vangelo giovanneo:


a) il vangelo è il frutto di una selezione operata all'interno della testimonianza del Discepolo Prediletto, il cui intento era quello di rafforzare la fede della comunità in Gesù, in quanto Cristo e in quanto Figlio di Dio; non aveva, quindi, finalità kerigmatiche.


 b) chi attesta queste cose è certamente l'autore, ma dietro di lui c'è anche uno staff, che al suo fianco ha composto l'opera. Il vangelo, infatti, lascia intravvedere  al suo interno la presenza della comunità in quel “noi” più volte ripetuto e intercalato nel corso del racconto123;

 c) la comunità giovannea attesta che l'autore e scrittore delle cose raccontate è il Discepolo Prediletto. La fonte primaria, dunque, è lui e non ve ne sono altre.


Dall'insieme di quanto siamo venuti fin qui considerando (pagg. 37.40.41), ipotizziamo verosimilmente che il vangelo di Giovanni si sia formato attraverso lo sviluppo graduale di cinque stadi:

a) La comunità giovannea, profuga da Gerusalemme, per una persecuzione esplosa contro gli Ellenisti (circa 32-33 d.C.), si rifugia ad Efeso, ricca e fiorente capitale portuale della provincia romana dell'Asia Minore, crocevia di popoli e di cultura, citata nelle iscrizioni come “la metropoli dell'Asia”124.

b) Qui la comunità, stretta attorno al proprio maestro, il Discepolo Prediletto, ascolta la sua predicazione, segue attentamente le sue testimonianze dirette, i suoi commenti e le sue riflessioni, che acquistano un grande peso per la sua posizione di discepolo diretto di Gesù, con cui ha intrattenuto un rapporto particolarmente intimo e confidenziale, al punto di ritenerlo suo erede spirituale (19,25-27). Durante questo periodo, durato alcuni decenni, i suoi più intimi collaboratori, in modo spontaneo, raccolgono il pensiero e le testimonianze del loro Maestro. Lentamente, con l'andar del tempo, si forma una voluminosa quantità di appunti e di scritti, su cui forse si sviluppano ulteriori riflessioni e annotazioni da parte di questi solerti discepoli. Si va, in tal modo, formando quella che diverrà la tradizione giovannea.

c) Con l'andar del tempo, probabilmente intorno agli anni 60-65, per l'avanzata età del Discepolo Prediletto o temendone la scomparsa per una possibile improvvisa persecuzione, i suoi fedeli collaboratori, ritengono ormai giunto il tempo di dare forma stabile e coerente al pensiero e alla testimonianza del loro Maestro, da loro raccolta e rielaborata nel corso di un trentennio circa. Sotto la sua diretta direzione, pertanto, valutano, selezionano e riordinano tutto il materiale scritto, venutosi a formare in questo lungo lasso di tempo. Esso viene steso per iscritto, seguendo la visione teologica del loro maestro, con l'intento anche di rispondere ai numerosi problemi, che nel frattempo erano sorti all'interno della comunità, per il suo contatto con il mondo ellenistico e per l'entrata in essa di convertiti dal mondo greco. Nasce così la prima edizione del vangelo giovanneo, punto solido di riferimento per l'intera comunità. Un lavoro, che probabilmente, ha impegnato la comunità dai due ai quattro anni. Un tempo, questo, ragionevolmente sufficiente per produrre un testo impegnativo, quasi certamente dalle dimensioni ridotte e di certo non con gli attuali ventuno capitoli.

d) Tuttavia il vangelo non può dirsi ultimato, poiché il Discepolo Prediletto prolunga la sua permanenza nella sua comunità ancora per almeno un altro trentennio dalla prima stesura, giungendo alle soglie dell'anno 100. Durante questo lungo lasso di tempo il Maestro continua la sua predicazione e la sua testimonianza, tenendo conto in essa dei nuovi problemi e delle nuove questioni, sorte sia all'interno che all'esterno della comunità. In particolar modo i rapporti di questa con un giudaismo sempre più tenacemente incredulo e sempre più aggressivo nei confronti della comunità stessa. Ma forse altri problemi erano sorti con le comunità credenti nate nel frattempo ad Efeso; comunità probabilmente istituzionalizzate, che mal si accordavano con la carismatica comunità giovannea, elitaria e chiusa attorno al proprio Maestro, divenuto nel frattempo l'unico testimone diretto superstite e, pertanto, ritenuto come l'unica vera e genuina fonte ancora esistente. Questo può aver generato un atteggiamento di superiorità e di supremazia sulle altre comunità. Altre annotazioni, altre osservazioni, altre riflessioni e appunti, quindi, si vanno formando e vengono aggiunti alla prima stesura del vangelo. Queste operazioni di interpolazione sono durate fino alla morte del Discepolo Prediletto. Un'interpolazione fatta probabilmente in modo bonario, di volta in volta, quando si riteneva opportuno correggere o aggiungere del nuovo materiale venutosi a formare. Questo modo di procedere, senza una rigorosa analisi critica del testo letterario, o senza una sua supervisione, deve aver provocato tutte quelle incongruenze, che la critica moderna ha riscontrato e che accenneremo qui di seguito. Esse sono apparse evidenti solo ai nostri tempi, mentre, per quasi due millenni, esse erano passate inosservate. E come sono passate inosservate a noi per circa venti secoli è da pensare ragionevolmente, che altrettanto sia successo ai redattori occasionali del vangelo giovanneo.

e) Intorno all'anno 100 muore il Discepolo Prediletto, leader unico ed esclusivo di una comunità elitaria. La perdita del suo Maestro e la sua scarsa e pressoché inesistente istituzionalizzazione rendevano la comunità fragile contro le incipienti eresie, fomentatrici di divisioni e di contrasti dottrinali; contro i nemici di sempre, giudaismo e cultura ellenistica e pagana. Deve, quindi, essere maturata in essa la necessità di darsi una struttura, un capo comune assieme alle altre comunità, uscendo in tal modo dal proprio isolazionismo. Inizia, quindi, un processo di apertura e di evoluzione, in cui Pietro e non più Giovanni è riconosciuto come il vero capo. Un processo che non deve essere stato immediato, né semplice né indolore, ma dev'essere durato circa un decennio, durante il quale, il vangelo, alla luce dei nuovi eventi e delle nuove condizioni di vita della comunità, viene riveduto in profondità con l'aggiunta del cap.21, che sancisce la pace fatta tra la comunità giovannea e le altre comunità credenti. Si forma, così, la seconda e ultima edizione del vangelo di Giovanni, terminato definitivamente intorno agli anni 105-110 d.C.

Già da questa sintetica ipotesi di formazione del vangelo giovanneo, caratterizzato da una lunga e complessa gestazione, si possono comprendere, come accennato alla lettera d), le numerose incongruenze variamente sparse in tutto il vangelo, che qui accenniamo soltanto a titolo di constatazione e di mera informazione per il nostro paziente lettore, senza addentrarci in laboriose critiche testuali. Le incongruenze qui di seguito non sono tutte, ma le più evidenti:


  1. Nel prologo la riflessione sul Logos viene interrotta due volte con due inserzioni sulla figura del Battista in 1,6-8 e in 1,15;

  1. Il v.3,11 con quel “noi”, che nulla ha che vedere con il discorso che Gesù sta rivolgendo a Nicodemo, sembra più che altro un'interpolazione della comunità giovannea, una nota polemica, che essa muove contro l'incredulità del giudaismo, che vuol sapere, ma è chiuso alla vera comprensione.

  1. Un'altra interpolazione, riguardante sempre la figura del Battista, si trova in 3,22-30. L'inserzione, infatti, interrompe il dialogo di Gesù con Nicodemo in 3,21, che sembra, poi, riprendere in 3,31-36;

  1. In 3,22 leggiamo che Gesù battezzava, mentre in 4,2 si afferma che non era Gesù a battezzare, bensì i suoi discepoli. È da chiedersi, tuttavia, se questa fu veramente una svista o, invece, una correzione di tiro per evitare che Gesù, battezzando, fosse considerato parte del movimento battista e, quindi, discepolo di Giovanni e, pertanto, a lui inferiore. In questo caso la precisazione si inserisce nell'ambito della polemica con il gruppo dei discepoli del Battista;

  1. Il v.4,44, richiamandosi ad un detto di Gesù, circa il rifiuto che il profeta riceve nella sua patria125, sembra essere una chiara interpolazione, posta tra due episodi che attestano l'esatto contrario di quanto afferma il detto: l'episodio della Samaritana, che si conclude con la conversione dei samaritani (4,39-42) e il racconto immediatamente successivo, in cui si narra, da un lato, la gioia dei Galilei per i miracoli compiuti da Gesù a Gerusalemme (4,45) e l'episodio della guarigione del figlio del funzionario del re, a Cana di Galilea, che si conclude con la conversione della sua famiglia (4,46-53). Quale valutazione dare a questa interpolazione? Forse un detto vagante, che il redattore si è trovato tra le mani e non sapeva dove interpolarlo e lo ha fatto qui in modo maldestro? O forse volutamente lo ha inserito tra due episodi, che narrano i successi di Gesù tra i Samaritani e i Galilei, certamente di non rigorosa tradizione giudaica, per creare uno stridente contrasto con la durezza di cuore e l'incredulità del mondo giudaico e gerosolimitano in particolare, evidenziati in 2,12-25 e nel racconto della guarigione del paralitico in 5,1-18.42-43, che segue immediatamente dopo l'interpolazione?

  1. Si attesta ripetutamente che Gesù è originario di Nazareth126, ma con il v.4,44, interpolato così come descritto qui sopra al punto 5), sembra essere invece la Giudea. Il versetto, infatti, si scaglia contro i Giudei e Gerusalemme, che rifiutano Gesù, mentre Samaritani e Galilei lo accolgono. Forse un versetto questo in cui la comunità giovannea, sorta in Gerusalemme, ravvisa se stessa e applica a sé.

  1. Alcuni autori rilevano come doppioni le pericopi 5,25-27 e 5,28-29. A nostro avviso qui si potrebbe ravvisare un modo di procedere caratteristico di Giovanni, quello a spirale. Infatti, nella prima pericope si parla che è giunta l'ora ed è adesso, in cui i morti udranno la voce voce del Figlio dell'uomo. Il contesto qui lascia chiaramente intendere che questi morti che vivranno ascoltando la voce di Gesù altro non sono che i pagani. Quindi, qui, si parla degli effetti dell'annuncio di Gesù sul mondo dei gentili. La seconda pericope, riprendendo il linguaggio della prima, sposta l'attenzione sul giudizio finale, in cui ad ognuno sarà dato secondo le sue opere. Non si tratta, dunque, a nostro avviso, di un doppione, bensì di uno sviluppo di pensiero. Entrambe le pericopi, comunque, intendono sottolineare che i tempi escatologici sono giunti nella persona di Gesù.

  1. La successione dei capp. 5 e 6 non sembra rispettare un ordine logico sia geografico che religioso, ed anche psicologico, riguardante quest'ultimo la reazione di timore di Gesù (7,7-9). Al cap. 5,1, infatti, Gesù si trova a Gerusalemme per un'anonima festa giudaica, che in seguito dimostreremo essere la festa della Pentecoste, l'unica rimasta anonima in una sequenza temporale logica di festività citate127. Al cap.6 si dice che Gesù, “dopo queste cose”, cioè dopo quanto è successo al cap.5, va al di là del mare di Galilea, sulle cui acque egli cammina (6,16-21). Tutto il cap.6, dedicato quasi esclusivamente alla moltiplicazione dei pani, si svolge attorno al lago di Tiberiade, a Cafarnao (6,17.24.59) e, quindi, in Galilea. Il contesto religioso è quello proprio della seconda Pasqua (6,4). Manca quindi la sequenza logica religiosa: non Pentecoste (5) e Pasqua (6), bensì Pasqua e Pentecoste. Manca ancora la sequenza logica geografica: il cap.5 presenta Gesù a Gerusalemme per la festa della Pentecoste; il cap.6, che l'autore fa dipendere narrativamente dal cap.5 con l'espressione di apertura capitolo “dopo queste cose”, si apre con Gesù che, invece, sta attraversando il mare di Galilea, nelle vicinanze della Pasqua. Vi è qui una frattura sequenziale sia per un salto geografico enorme, se si pensa che Gerusalemme dista dal lago di Tiberiade circa 150 Km; sia per un salto temporale di cinquanta giorni, che separano la Pasqua dalla Pentecoste e che qui l'autore legge in modo inverso: prima la Pentecoste poi la Pasqua. Questa sequenza, 5-6, non rispetta, inoltre, la logica narrativa del cap.4, che si chiude con Gesù che dalla Giudea, passando per la Samaria (4,3-4), arriva a Cana di Galilea (4,46), dove guarisce il figlio del funzionario regio (4,47-53). Più logico, dunque, legare il cap.6 al cap.4, che si apre dicendo “Dopo questi fatti, Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade” (6,1) e qui rimane per tutto il cap.6, contestualizzato nella seconda Pasqua. Nessuna incongruenza logica, invece, presenta il cap.7, che colloca Gesù in Galilea e da qui va in Giudea nascostamente per la festa delle Capanne, festività che cade circa tre mesi dopo la Pentecoste. Il cap.7 è quindi meglio piazzabile dopo il cap.5 anche perché in quest'ultimo capitolo Gesù ha subito delle minacce di morte (5,18), per questo egli teme di recarsi nuovamente a Gerusalemme e protesta presso i propri fratelli che non è ancora giunta la sua ora (7,6); ma alla fine decide comunque di andarci nascostamente (7,10). La sequenza corretta dei capitoli 4-7, sotto ogni profilo logico, geografico, religioso e psicologico è, dunque, la seguente: 4, 6, 5, 7.

  1. Altra incongruenza si trova al cap.6,2-3.15. Gesù, seguito da una grande folla sale su di una montagna (6,2-3), dove sembra compiere la moltiplicazione dei pani (6,4-14). Tuttavia, sapendo che la folla voleva farlo re, “si ritirò di nuovo sulla montagna” (6,15). Ma dal racconto non risulta che Gesù sia mai sceso a valle per compiere la moltiplicazione dei pani, per poi risalire “di nuovo” (p£lin, pálin) sulla montagna da solo. L'incongruenza è data dall'interpolazione del racconto della moltiplicazione dei pani in un testo, che originariamente era 6,1-3.16-17. Infatti, Gesù in 6,1-3 sale sulla montagna con i suoi discepoli, mentre in 6,16-17, verso sera, i discepoli scendono verso il mare, lasciando Gesù solo sulla montagna. Questa ipotesi è avvallata anche dalla frattura che si nota tra il v.6,3 e il v.6,4.

  1. I movimenti di Gesù, discepoli e folle nei vv.6,22-25 risultano scoordinati e di difficile comprensione;

  1. Un notevole quanto incomprensibile scoordinamento si riscontra nell'intero cap.10, che non sembra avere né capo né coda. Non ci addentriamo nei particolari, che ci porterebbero a lunghe e laboriose disquisizioni, ma diamo quella che ci sembra la sequenza narrativa più corretta e più logica, riservandoci un approfondimento con il commento del cap.10. Per il momento, il lettore, seguendo la sequenza propostagli e confrontando questa con il testo pervenutoci, comprenderà da solo quanto è successo. I vv.10,19-21 vanno posti a logica conclusione del cap.9, e, quindi, vanno aggiunti e spostati alla fine del cap.9, che, pertanto, si chiude con 9,44 e non con 9,41. Il cap.10 inizia, invece, con la pericope 10,22-30, seguita da 10,1-18.31, per terminare con 10,32-42. Letto con questa sequenza l'intero capitolo acquista senso e coerenza narrativa interna.

  1. La nota su Maria, sorella di Lazzaro, al v.11,2 suppone già la conoscenza dell'episodio, che, invece, è raccontato in 12,1-8;

  1. In 12,36b l'evangelista afferma che Gesù, dopo aver detto queste cose, se ne andò via e si nascose da loro. Seguono, poi i vv.12,37-43, che contengono le riflessioni conclusive sulla missione pubblica di Gesù. Tutto sembra concluso, ma inaspettatamente e inopinatamente ricompare sulla scena narrativa Gesù, che fa il suo ultimo discorso, che riassume i punti salienti della sua predicazione. Un discorso che di fatto non ha alcun pubblico, ma sembra soltanto un grido solitario.

  2. Con 14,31b Gesù termina il suo lungo discorso, iniziatosi con 14,1, invitando i suoi ad alzarsi e ad andare via. Ma in 15,1 Gesù riprende a parlare, mentre il comando di 14,31b viene eseguito soltanto tre capitoli più tardi, in 18,1. Sembra evidente che qui vi fu un inserimento successivo di blocchi narrativi composti da ben 6 discorsi posti in sequenza: 15,1-17; 15,18-16,4; 16,5-15; 16,16-22; 16,23-33; 17,1-26.

  1. In 13,36 Pietro chiede a Gesù dove egli vada, ottenendone una risposta sibillina. Ma ecco che in 16,5 Gesù si lamenta perché nessuno gli chiede dove va.


     Le finalità del Vangelo giovanneo


Tre furono, a nostro avviso, i motivi che spinsero la comunità del Discepolo Prediletto a scrivere il vangelo:


a) una motivazione storico-contingente, che già abbiamo accennato sopra nel trattare la formazione del vangelo (v. lettera c): il timore che il Discepolo Prediletto potesse venire a mancare o per l'età, che stava ormai avanzando, o per il pericolo di improvvise persecuzioni, provenienti prevalentemente dal mondo giudaico, che potevano avere esiti imprevedibili come la carcerazione o la morte;

b) una motivazione dichiarata ai v.20,30-31: “Dunque Gesù in presenza dei [suoi] discepoli fece certamente molti e altri segni, che non sono stati scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate vita nel suo nome”. Il vangelo, dunque, non è un libro di memorie su Gesù, una sorta di sua sintetica biografia. L'affermazione che molti segni sono stati compiuti, ma soltanto alcuni sono stati segnalati, dice che vi fu un'attenta cernita, guidata dall'esclusivo intento di dare solidità ai contenuti di fede della comunità giovannea: l'uomo Gesù è l'atteso Messia e nel contempo Figlio di Dio. Gesù, quindi, è il luogo storico del manifestarsi di Dio; anzi, egli è azione di Dio in mezzo agli uomini, che inaugura i tempi messianici. L'intero Scritto gira attorno a questa affermazione di fede e, con i suoi sette segni, accompagnati da lunghe riflessioni, è finalizzato a dimostrarne la veridicità. È significativo, infatti, come l'autore non definisce i miracoli con l'espressione, propria dei Sinottici, “dun£meij” (dinámeis), i quali, con tale termine, indicano l'irrompere della potenza salvifica di Dio in mezzo agli uomini. Giovanni definisce i miracoli con un termine tutto suo: “shme‹a” (semeîa), che significa segni, e il segno, per sua natura, non si esaurisce in se stesso, ma accompagna il credente verso quelle realtà che sono in esso significate. Il segno, quindi, invita a trascendere le apparenze storiche, per cogliere le realtà che si pongono al di là di ciò che è significato. Essi, dunque, fungono da stimolo nei confronti della comunità giovannea, perché non si lasci trarre in inganno dall'uomo Gesù; sotto le sue apparenze umane, infatti, rifulge la gloria di Dio, che non si può cogliere con i sensi, ma va contemplata nella fede: “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (1,14). Si noti come questa finalità dichiarata del vangelo giovanneo abbia un risvolto squisitamente dottrinale. Non si tratta di un kerigma finalizzato a fare proseliti, ma di un'azione pastorale, destinata a rafforzare i contenuti di fede della comunità giovannea. È significativo, infatti, come il verbo “pisteÚw” (pisteúo), qui, sia seguito dalla particella dichiarativa“Óti” (pisteÚ(s)hte Óti), che esprime l'oggetto della fede. Si tratta, dunque, della fides quae creditur128. Il secondo “pisteÚw”, invece, esprime gli effetti del primo “pisteÚw”: “affinché credendo abbiate vita nel suo nome”. È evidente che questo secondo “pisteÚw” presuppone un'adesione esistenziale tale da poter ereditare la vita stessa di Dio. Non si tratta, dunque, più di un'adesione intellettuale a delle verità rivelate (fides quae, primo pisteÚw), bensì un'accoglienza e una conformazione esistenziale ad esse (secondo pisteÚw). Questo secondo aspetto della fede viene definito da S.Agostino come “fides qua creditur”, cioè una fede che aderisce con la vita a ciò che è creduto con l'intelletto.

Questa seconda motivazione dichiarata in 20,30-31, dai toni e contenuti dottrinali circa la figura dell'uomo Gesù, che va creduto Cristo e Figlio di Dio, lascia intendere come all'interno della comunità giovannea, formata anche da un consistente numero di giudei convertiti, vi fosse una grande difficoltà a credere al messianismo e alla figliolanza divina di Gesù. Un problema questo che si presenterà anche all'interno della comunità matteana129, formata quasi esclusivamente di giudeocristiani. Una questione che ha trovato forti resistenze, tanto che Matteo dedicherà al problema i capp. 14-16, lasciando, tuttavia intendere, alla fine del suo vangelo, come la questione, di fatto non si era ancora risolta: “ed avendolo visto, si prostrarono, ma essi dubitarono” (Mt 28,17). Il contesto, qui, è quello dell'apparizione del Cristo risorto.

c) diverse motivazioni contingenti, di cui si è già sopra accennato, parlando di problemi di gnosticismo, docetismo, atteggiamento ostile del giudaismo e del mondo pagano, problemi di relazione con le chiese sorelle e con i gruppi battisti. Il vangelo diviene, quindi, risposta a questi problemi, che assillano la comunità giovannea.


LLingua e stile letterario


Trovare nel vangelo di Giovanni degli aramaismi, dei semitismi130, parole ebraiche o aramaiche tradotte in greco131, o costruzioni sintattiche che risentono fortemente del sostrato semitico; o l'uso abbondante della paratassi o dell'asindeto132 non costituiscono la prova certa che il vangelo di Giovanni sia stato scritto in aramaico o in ebraico e, poi, tradotto in greco. Al più si può pensare, verosimilmente e più credibilmente, che chi ha scritto il testo, autore o comunità che sia, fosse un giudeo e che scrivesse in greco, ma pensando secondo schemi culturali ebraici. Più credibile, invece, è l'ipotesi che il vangelo giovanneo sia stato scritto in greco, sia perché scritto ad Efeso, capitale metropolitana della provincia romana dell'Asia minore, dove si parlava greco; sia perché la comunità giovannea, come si è visto sopra, era formata anche da ellenisti e da greci133; sia perché il greco era una lingua molto diffusa e parlata, sia pur con adattamenti locali, da tutti. Questo greco, così addomesticato, venne definito koiné, cioè lingua comune. L'universalità di questa lingua è testimoniata anche dal cartiglio posto sulla croce di Gesù (Gv 19,20). Se il vangelo, poi, doveva essere anche un annuncio di salvezza, questo doveva avere una dimensione universale e, quindi, comprensibile a tutti. Le comunità, a cui erano indirizzati i vangeli, poi, erano formate da persone di diversa provenienza culturale. Il greco, quindi, risolveva il problema della lingua. Una testimonianza della composita società di quel tempo in Palestina ci viene dagli Atti degli Apostoli: “Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: <<Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio>>” (At 2,5-11).

Lo stesso Flavio Giuseppe (36-100 d.C. circa), un sacerdote giudeo del I sec., contemporaneo degli evangelisti, scrisse le sue opere in greco, per renderle raggiungibili da tutti134. Ma al di là di queste considerazioni di buon senso, che cercano di creare attorno al vangelo di Giovanni un contesto sociale e culturale verosimile, la maggior parte degli studiosi oggi ritengono che il greco sia la lingua in cui fu composto il vangelo giovanneo135. Si tratta di un greco semplice e povero, basti pensare che soltanto 1011 sono i vocaboli diversi su un totale di 15.416 parole, che compongono il vangelo giovanneo; già Marco, noto per la sua stringatezza ed essenzialità di espressione, fa meglio, presentando 1345 vocaboli diversi su 11.078 parole; Matteo ne ha 1691 su 18.298 e Luca 2055 su 19.430. Il vocabolario di Giovanni è molto affine a quello della LXX; molto vicino anche al lessico di Giuseppe Flavio (85%), di Filone e degli Hermetica (65%). Numerose espressioni giovannee trovano riscontro anche nei testi di Qumran, senza che ciò provi la dipendenza del QV da Qumran136, mentre l'autore presenta come suoi esclusivi soltanto 24 vocaboli137. Dall'insieme di queste considerazioni si può trarre la conclusione che chi ha scritto il vangelo è sicuramente un giudeo, certamente non un ellenista, che pur conoscendo il greco non lo conosceva a sufficienza per produrre un'opera letterariamente elegante e sciolta nel suo esprimersi. La stessa lunga gestazione, a cui è stato sottoposto il racconto giovanneo, ha certamente influito sulla sua eleganza e scioltezza narrativa. Ma un altro elemento deve aver giocato sul limitato valore letterario del Quarto Vangelo: la sua natura riflessiva, che gli impone dei ritmi lenti, meditativi, talvolta macchinosi, che si esprimono attraverso un linguaggio, che tende a ripetersi e che non rincorre termini ed espressioni sgargianti o di effetto. In tal modo la lettura del testo non diventa affatto scorrevole e impone al lettore di adeguarvisi. Espressione significativa di questo modo di procedere è l'organizzazione a spirale del pensiero giovanneo, in cui le parole che si ripetono acquisiscono significati nuovi e diversi, ma mano che il pensiero procede138. Ma al di là di questa sua veste letteraria modesta, l'autore del QV raggiunge profondità di pensiero uniche in tutto il NT e tali da sondare nella sua vastità il mistero di Cristo, colto come Verbo incarnato, di cui egli contempla la sua gloria (1,14). Ci troviamo, pertanto, di fronte non ad un kerigma, che si impone per il suo annuncio secco e dinamico139, talvolta aggressivo, ma ad una pacata contemplazione di un Mistero, che sorpassa ogni sapere umano. Il QV ha l'indiscutibile merito di farci avvicinare e percepire la grandezza e la grandiosità di questo Mistero.

Il vangelo di Giovanni si caratterizza, inoltre, non solo per i contenuti di pensiero, ma anche per le modalità letterarie con cui questo viene espresso e reso più incisivo. Modalità che sono proprie ed esclusive dell'autore o che, comunque, ricorrono in modo rilevante nella sua opera. Alcune di queste modalità espressive sono:

- l'inclusione. Essa consiste nel racchiudere una determina unità narrativa tra due parole o due espressioni uguali, poste all'inizio e alla fine dell'unità stessa. La finalità di questa inclusione è duplice: da un lato, aiutare l'ascoltatore a definire l'unità narrativa di interesse; dall'altro mettere in rilievo la tematica propria di quell'unità e di cui le due parole o le due espressioni includenti sono tematicamente significative. Tra le numerosissime inclusioni, che popolano il racconto giovanneo, ne rileviamo, qui di seguito, soltanto alcune maggiormente significative, che incidono sulla struttura del racconto, delimitandola: a) i vv. 2,11 e 12,37, abbracciando la prima parte del vangelo, formano tra loro inclusione sia per il termine “segni”, che ricorre in entrambi, sia per contrapposizione di contesti: in 2,11 abbiamo l'inizio dei segni, con cui si apre l'attività pubblica di Gesù e grazie ai quali i suoi discepoli credono in lui; in 12,37 si chiude l'attività pubblica di Gesù rivolta alle folle, che nonostante i numerosi segni operati non credono in lui. Questa inclusione qualifica questa ampia sezione come la Sezione dei Segni, sottolineando il duplice effetto che essi hanno prodotto negli uomini: c'è chi vi ha creduto, aderendo alla sequela (2,11); c'è chi non ha creduto e ha rifiutato Gesù (12,37). Su questo schema si muove l'intero Libro dei Segni; b) i vv.1,19-2,12 e i vv.12,1-20,25 formano tra loro inclusione. I primi, infatti, parlano della prima settimana inaugurale, con cui si apre l'attività pubblica di Gesù e la costituzione del primo nucleo dei discepoli. Essa ricalca, in qualche modo, i ritmi della prima settimana genesiaca della creazione e termina con il racconto delle nozze di Cana, che, in apertura e chiusura, preannuncia una nuova creazione: “E al terzo giorno …. manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,1.11b); i secondi, invece, parlano dell'ultima settimana di vita di Gesù, che si conclude con la risurrezione e la ricostituita fede nel Risorto; il tutto già preannunciato nel segno di Cana in 2,1.11b. In quest'ultima settimana si inaugura il tempo della nuova creazione, indicando nella fede la nuova modalità di accesso. c) i vv.1,45-46 e il v.6,41-42 formano un'altra inclusione, che ha come tema di fondo l'identità dell'uomo Gesù e l'opposta reazione della gente. In 1,45 vi è la presentazione di Gesù, “figlio di Giuseppe di Nazareth”, quale uomo preannunciato da Mosè e dai Profeti; in 6,41 Gesù, anche qui definito “figlio di Giuseppe” per indicarne l'umanità e la provenienza storica, è presentato come il pane disceso dal cielo. Quindi, l'uomo Gesù, preannunciato dalle Scritture, è il vero pane disceso dal cielo. Questa è l'identità di Gesù e su questa identità si pronuncerà con solennità Pietro, nella cui proclamazione si riconosce la dichiarazione di fede della stessa comunità giovannea (6,68-69). I vv. 1,46 e 6,42 presentano la reazione della gente, inizialmente convergente per tutti, ma poi divergente: in Natanaele l'interrogativo posto ha la natura di una ricerca (“Vieni e vedi”), che sfocia in un atto di fede (1,49); nei Giudei l'interrogativo sull'identità Gesù è soltanto una “mormorazione” (6,41.43), cioè un atto di rivolta contro di lui, che si conclude con un netto rifiuto. d) altra inclusione, per contrapposizione di comportamenti, si ha nei vv. 7,1-10 e 12,20; nei primi si sottolinea l'incredulità degli stessi familiari di Gesù; anche l'ambiente più vicino a lui, quindi, non gli crede. Un passaggio questo che viene sottolineato anche in Mc 3,21, in cui i suoi fratelli e la sua stessa madre lo ritengono fuori di sé140. In 12,20, invece, il mondo dei gentili, qui, impersonati dai Greci, cerca Gesù. La questione che si affronta in questa ampia sezione, inclusa dai vv.7,1-10 e 12,20, è la messianicità di Gesù, secondo titolo dibattuto. L'espressione Cristo o Messia in questa sezione ricorre ben dodici volte141 ed è oggetto di dibattito e di scontro tra i Giudei142 e motivo di fede per altri143. e) Altro blocco narrativo che include l'intero racconto della passione è il termine includente “giardino” che si ripete nei vv. 18,1-19,41. Un'altra inclusione significativa, che abbraccia di fatto l'intero vangelo giovanneo, sono le espressioni “Che cosa cercate” e “chi cerchi”, entrambe riferite a dei discepoli e che si trovano rispettivamente in apertura del vangelo in 1,38 e in sua chiusura in 20,15. Esse fanno del racconto giovanneo il vangelo della ricerca della vera identità di Gesù e del mistero della sua persona e, di conseguenza, il vangelo del disvelamento del Verbo divino Incarnato; ma nel contempo qualifica il vero discepolo come colui che cerca Gesù. A questi esempi più significativi, ma certamente non unici, possiamo ricordare l'altra inclusione data dal nome “Cana”, presente in 2,11 e 4,46 e che delimita la cosiddetta sezione “da Cana a Cana”, che comprende i primi due segni di Gesù; così anche il termine “acqua” in 4,7 e 4,15 include la sezione narrativa del racconto della Samaritana, riguardante il tema dell'acqua. Similmente l'espressione “I nostri padri mangiarono la manna nel deserto”, presente nei vv.6,31 e 6,49, include il confronto che l'autore pone tra Gesù, vero pane disceso dal cielo, e la manna veterotestamentaria, che fu soltanto una figura, che preannunciava un altro pane.

- Il fraintendimento o malinteso è un modo di narrare caratteristico in Giovanni. Esso nasce sempre da una contrapposizione tra il dire di Gesù e il comprendere del suo interlocutore. Un raffronto che narrativamente è finalizzato a mettere meglio in rilievo il reale significato del discorso di Gesù; ma nel contempo esso diviene anche un atto di accusa contro l'inintelligenza dei suoi interlocutori, incapaci di andare oltre a quello che sentono o vedono; incapaci di staccarsi dalla loro mentalità materialistica, che impedisce loro di accedere alle realtà spirituali, di cui Gesù è portatore. Ma la tecnica del fraintendimento è ben di più di un semplice escamotage letterario, poiché in essa si sente risuonare l'accusa, che Isaia rivolge alla durezza di cuore di Israele, richiamandolo alla conversione per aprirsi alle esigenze di Dio: “L'empio abbandoni la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,7-9). Il vero motivo, dunque, del fraintendimento sta nella grande distanza che intercorre tra Dio e l'uomo. Un motivo che Gesù ricorderà ai suoi interlocutori: “E diceva loro: <<Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo.>>” (8,23) Il fraintendimento, quindi, acquista anche risvolti teologici profondi; esso, infatti, pone a confronto e in contrapposizione tra loro due modi di pensare e di intendere le cose: quello di Dio e quello dell'uomo, mettendo quest'ultimo in una netta e insanabile posizione perdente nei confronti di Dio. Per poter accedere, quindi, al mistero della persona di Gesù è necessario un processo di conversione profondo, che, solo, consente di accedere alle realtà spirituali nascoste, ma significate nella persona di Gesù. Motivazioni letterarie, accusatorie e teologiche, finalizzate a mettere in rilievo l'autentico contenuto del pensiero di Gesù, dunque, sottendono la formula del fraintendimento. Su questo sfondo si muove il segno che Gesù offre ai Farisei per affermare la sua autorità: “Rispose Gesù e disse loro: <<Rompete questo tempio e in tre giorni lo innalzerò>>. Dissero pertanto i Giudei: <<In quarantasei (anni) fu costruito questo tempio, e tu in tre giorni lo innalzerai?>>. Ma quello parlava del tempio del suo corpo” (2,19-21). Sarà, quindi, la voce esterna dell'autore che chiarirà il fraintendimento. Un altro malinteso sorge nel dialogo tra Nicodemo e Gesù (3,1-12). Gesù sottolinea la necessità di rinascere dall'alto secondo i criteri dello Spirito, ma Nicodemo intende il rinascere fisico dell'uomo. Similmente il dialogo sull'acqua, che si svolge con la Samaritana (4,10-15). Sembra un dialogo tra sordi. Gesù dice una cosa e la Samaritana ne capisce un'altra . Sempre in questo contesto della Samaritana si colloca un altro malinteso circa il cibo sconosciuto di Gesù (4,31-34): i discepoli invitano Gesù a mangiare, ma Gesù rifiuta il loro cibo perché ne ha un altro, che loro non conoscono, tra lo stupore dei discepoli, che credono che Gesù abbia già mangiato in loro assenza. In realtà si tratta della volontà del Padre, di cui Gesù si nutre avidamente. Altro malinteso sorge tra la gente e Gesù, dopo la moltiplicazione dei pani. Gesù parla del vero pane disceso dal cielo (6,32-34), quel Pane che proviene dal Padre per la vita del mondo; ma i suoi interlocutori lo sollecitano a dare quel pane, che essi ritengono una sorta di super-pane, un pane magico, che risolve tutti i loro problemi di sostentamento fisico a buon mercato. Altro malinteso sorge tra Gesù e i Giudei. Il primo annuncia loro il suo ritorno al Padre (7,33-36), che essi ancora non possono raggiungere; ma i Giudei pensano che egli voglia andare presso il mondo pagano dei Greci, che essi, per questioni di purità, non possono frequentare. Un discorso questo che, similmente, tornerà in 8,21-22, ma questa volta i Giudei pensano che Gesù voglia suicidarsi. Gesù, invece, intendeva dire che a motivo della loro incredulità non potevano accedere al Padre e che, pertanto, su di loro era stato posto un giudizio di condanna, che li escludeva dalla vita divina. Sempre in questo contesto Gesù afferma che i Giudei rimarranno nei loro peccati perché non credono che egli sia l' “Io Sono”144, cioè Dio. Ma i Giudei non colgono la l'autodichiarazione di divinità di Gesù e ritengono che quel “Io Sono” sia una dichiarazione incompleta della sua identità, per cui gli chiedono: “Tu sei chi?” e Gesù di rimando, risponde loro ironicamente e in modo sibillino: “Ciò che vi dico fin dall'inizio” (8,24-25). Ancora, in 8,31-33, Gesù afferma che la verità li renderà liberi, intendendo dire che aderendo alla sua parola sarebbero stati liberati dalla schiavitù della Legge mosaica per accedere alla libertà di figli di Dio. Ma i Giudei, fraintendendo le sue parole, controbattono che essi, in quanto stirpe di Abramo non sono mai stati schiavi di nessuno. Ancora altri malintesi nel racconto di Lazzaro. Gesù parla della morte di Lazzaro come di un sonno (11,11-13), da cui egli ridesterà l'amico; ma i discepoli credono che egli parli del sonno naturale e, quindi, commentano che Lazzaro si trova in via di guarigione. Dovrà intervenire da fuori campo la voce dell'autore per sottolineare la gaffe dei discepoli. E, subito di seguito, ecco un'altra incomprensione: Gesù afferma chiaramente che Lazzaro è morto (11,14-16), dirigendosi in modo deciso da lui, ma Tommaso commenta il gesto di Gesù come un atto inconsulto, e rivolto agli altri li invita a seguirlo nella morte. E, infine, all'affermazione di Gesù che Lazzaro risusciterà, Marta gli risponde che lo sa, ma che ciò avverrà soltanto alla fine dei tempi (11,23-26). Non aveva, dunque, capito che cosa stava per accadere; una inintelligenza che continuerà fino al momento prima della risuscitazione di Lazzaro (11,39-40). Altri casi minori si trovano nel racconto della lavanda dei piedi, dove Pietro, non comprendendo il gesto di Gesù, gli si rifiuta, costringendo Gesù alle minacce (13,5-9). Durante il discorso di addio Pietro si intromette cercando di capirne il senso, cioè dove Gesù stesse andando e si dichiara pronto a seguirlo ovunque, anche a dare la sua vita (13,35-38). Alla dichiarazione di Gesù, che i discepoli sanno dove egli sta andando, Tommaso risponde che loro non sanno dove egli stia andando e che, pertanto, non conoscono la strada (14,4-5). Ma Gesù stava parlando del suo ritorno al Padre e che la strada per raggiungerlo è egli stesso (14,6).

- L'ironia è un'altra tecnica letteraria che Giovanni usa nel suo racconto sia per stigmatizzare certi comportamenti, mettendoli alla berlina, sia per allentare la tensione del racconto stesso, sdrammatizzandolo o, ancor più, per mettere in evidenza l'assurdità dell'incredulità dei Giudei. L'ironia, per certi aspetti, diviene il prodotto naturale o comunque sottinteso del fraintendimento145. Ogni fraintendimento, infatti, possiede in se stesso una certa carica di comicità e punta a mettere in ridicolo l'interlocutore poco avveduto, che capisce fischi per fiaschi, dimostrando un'intelligenza e una capacità di comprensione molto limitate. Se con il fraintendimento la comicità appare un po' sottovoce, con l'ironia essa diventa più scoperta e più graffiante. Essa la potremmo definire come una presa in giro, che può essere diretta, qualora vada a colpire scopertamente l'interlocutore, come nel caso del cieco nato, che rivolto ai Farisei, che lo stavano interrogando su Gesù, vista la loro insistenza, chiede loro se per caso sono intenzionati a farsi suoi discepoli, provocando la loro risentita reazione (9,27-28). E così, similmente, quando il cieco muove l'appunto ai Farisei, i quali affermavano come Gesù fosse un peccatore per aver violato il sabato (9,16a): “In questo, infatti, sta lo stupendo che voi non sapete da dov'è e aprì i miei occhi. Sappiamo che Dio non ascolta dei peccatori, ma se uno è pio e fa la sua volontà, questo (lo) ascolta. Da sempre non fu (mai) udito che qualcuno aprisse gli occhi di un cieco nato. Se questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare niente” (9,30-33). Tuttavia, l'ironia può essere anche soffusa e permeare un intero racconto, come nel caso del racconto del cieco nato, dove si rileva il forte imbarazzo e il notevole disagio dei Farisei, che di fronte alla incontestabile guarigione del cieco non sanno più che pesce pigliare e continuano in un ossessivo quanto inutile interrogatorio di questo cieco e dei suoi genitori, cercando un qualche appiglio per condannare Gesù, ma non riescono altro che a farsi prendere in giro proprio dal cieco, che parla loro con toni magisteriali, e dai suoi stessi genitori, che non forniscono nessuna spalla ai Farisei, rispedendoli al mittente. Ma l'ironia più fine, la stoccata finale, giunge al termine del racconto, quando i Farisei, che si ritenevano la vera luce degli uomini, scoprono che i veri ciechi sono proprio loro; una cecità alla quale sono condannati per la loro durezza di cuore (9,39-41). Un racconto pieno di ironia, ma che lascia molto amaro in bocca. Su questo stile è l'incontro di Natanaele con Gesù. All'entusiasmo di Filippo, che gli comunica di aver trovato il Messia, addirittura colui di cui lo stesso Mosè e le Scritture hanno parlato, egli risponde con scetticismo, prendendo in giro la creduloneria di Filippo. Ma l'incontro con Gesù lo sconvolgerà e proprio lui, che aveva ironizzato sulla fede del suo amico, farà la sua professione di fede, dichiarando Gesù Figlio di Dio e re d'Israele (1,45-50). Parallelo a questo passo è quello di Tommaso, in cui viene stigmatizzata la sua incredulità (20,25-28). All'annuncio degli stupefatti discepoli di aver visto il Signore, Tommaso dà loro dei visionari, contrapponendo loro la sua visione concreta delle cose: prima vedere e toccare, poi credere. Ma ecco, che otto giorni dopo Gesù riappare e Tommaso diventa il protagonista principale di questa terza apparizione; e all'invito di toccare quel corpo segnato ancora dalle ferite, egli risponde con un atto di fede, proprio quella fede che egli prima aveva deriso. Anche il suo invincibile razionalismo del vedere e del toccare, da cui traeva forza la sua incredulità, che si faceva beffe dei compagni creduloni, crolla davanti al Risorto e si trasforma in un fervente atto di fede. Un'ironia benevola, una sorta di amichevole presa in giro, avvolge la figura di Nicodemo146; quest'uomo buono, disponibile a seguire Gesù, voglioso di conoscere il pensiero di questo Rabbi, che in qualche modo lo affascina. Di certo egli non era un cuor di leone se si recò di notte da Gesù, nei cui confronti non brillò per acutezza, tanto da farsi richiamare benevolmente da lui “Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose?” (3,10). Una figura che non brillava neppure di fronte ai suoi colleghi, che lo redarguirono: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea” (7,52). Un personaggio timido, ma buono, che riscuote la simpatia dei lettori, facendoli sorridere, ma che alla fine del racconto si riscatterà, apparendo pubblicamente per quello che egli era sempre stato di nascosto: un autentico discepolo di Gesù. Sarà lui, infatti, assieme a Giuseppe d'Arimatea, a procurare gli unguenti per la sepoltura di Gesù e a darne sepoltura dignitosa, mentre tutti gli altri, i discepoli fedeli, erano fuggiti e qualcun altro lo rinnegò apertamente, abbandonando il loro Maestro al proprio destino (18,8; 19,25-27). Altra fine ironia emerge nel comportamento delle guardie, inviate dai Farisei per arrestare Gesù (7,32). Queste tornano dai loro capi a mani vuote e a giustificazione del loro fallimento portano ciò che i Farisei non volevano proprio sentire: “Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!” (7,45-46), provocando le rimostranze dei loro mandanti: “Forse vi siete lasciati ingannare anche voi?” (7,47). Coloro, dunque, che dovevano arrestare, erano stati a loro volta arrestati dal fascino di Gesù. Tutti avevano capito la grandezza di Gesù, fuorché le autorità religiose. Altro inciso pregno di ironia, con una punta di sarcasmo, sono i vv. 7,25-26, in cui la gente si interroga sulla libertà di parola con cui Gesù esprime il suo pensiero, senza che le autorità religiose intervengano, e interrogandosi se per caso Gesù non fosse proprio quello che cercavano di uccidere, concludono ragionevolmente “Forse che i capi non abbiano riconosciuto per davvero che costui è il Cristo?”.

- Il doppio senso è un altro espediente letterario, che assegna ad una stessa parola un doppio significato. Esso è figlio dell'ironia, poiché mentre la parola attrae l'attenzione del lettore su di un determinato significato richiesto dal contesto, in cui il termine è inserito, tuttavia, furbescamente, lascia spazio anche per un altro significato, dando al pensiero, in cui è contenuto, una maggiore completezza e precisione. È il caso dell'avverbio greco “¥nwqen”, (ánotzen) che significa “dall'alto”, ma anche “da principio, nuovamente”. Un gioco di equivoci, che anima il dialogo tra Gesù e Nicodemo (3,1-11). Gesù parla al suo interlocutore della necessità di nascere dall'alto (¥nwqen), ma Nicodemo intende quel “¥nwqen” come un essere generato di nuovo, per cui risponde: “Come può un uomo essere generato quando è vecchio? Può forse entrare nell'utero di sua madre una seconda volta ed essere generato?” (3,4). Da questo equivoco sul doppio significato di “¥nwqen” viene chiarito il senso da dare all'avverbio, spianando in tal modo la strada alla conclusione del cap.3, in cui il Battista, riprendendo l'avverbio “¥nwqen”, il cui senso era stato chiarito nel dialogo tra Gesù e Nicodemo, indica l'origine divina di Gesù e la propria posizione nei suoi confronti: “Bisogna che quello aumenti, che io invece sia diminuito. Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; colui che è dalla terra è dalla terra e parla dalla terra. Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti;” (3,30-31). Similmente il verbo “ØyÒw147 (ipsóo, innalzare) assume in Giovanni un duplice significato: innalzare, elevare con riferimento alla croce; ma nel contempo esso significa anche glorificare, esaltare, celebrare, con chiara allusione alla risurrezione. In tal modo questo verbo sintetizza ed esprime in se stesso l'intero mistero della salvezza, che si attua nella morte e risurrezione di Gesù, le due facce di un unico atto salvifico.

- Le note esplicative sono un altro elemento caratteristico del racconto giovanneo. Esse sono la voce fuori campo dell'autore, che spiega ai suoi ascoltatori il significato di luoghi geografici o ne dà indicazione; indica eventi e fa delle precisazioni temporali148; dà spiegazioni circa i costumi nazionali e religiosi149; riporta riminiscenze dei discepoli su detti o discorsi di Gesù150 e commenti esplicativi riguardanti i personaggi della narrazione151, traduzioni di parole152, precisazioni circa l'attività di Gesù e le reazioni che essa provocava153. Viene sovente evidenziata l'onniscienza di Gesù, che conosce i pensieri segreti delle persone, non solo, ma anche i pensieri del Padre e la sua volontà, rivelando il suo potere sugli uomini e la sua divinità154. Sovente, quasi con puntigliosità storica, l'autore precisa l'identità dei suoi personaggi155. L'obiettivo di questi massicci interventi è duplice: a) rendere edotto il proprio lettore, illuminandolo su alcuni luoghi della narrazione, per renderglieli più facilmente accessibili; b) radicare il racconto alla storicità, talvolta quasi cronachistica, degli eventi qui descritti, quasi per dare concretezza e corporeità storiche alla persona di Gesù, ritenuta soltanto apparente dal nascente docetismo.


Il Il vocabolario giovanneo

Benché il greco di Giovanni sia povero156, tuttavia l'uso ripetuto di certi vocaboli, che l'autore fa, a motivo del suo spinto simbolismo, acquisiscono significati singolari, che si trovano soltanto o, quanto meno, prevalentemente in lui. Affrontare uno studio serio sul linguaggio giovanneo richiederebbe una trattazione apposita, che esula dagli scopi che ci siamo prefissati. Prenderemo pertanto brevemente in esame alcune parole, le più significative e le più ricorrenti e tali da caratterizzare il racconto giovanneo. Ci limiteremo ad evidenziarne i tratti essenziali per ognuna di esse, svelando la teologia da esse sottesa, nella piena coscienza che quanto qui scritto è soltanto meramente indicativo e non certo uno studio approfondito ed esaustivo. L'intento è quello di fornire al lettore un accesso immediato a quei termini maggiormente ricorrenti nel vangelo di Giovanni.

I vocaboli157

  1. Amare/Amore (¢gap£w / ¢g£ph; agápao/agápe)158

  2. Acqua (Ûdwr; ídor)

  3. Conoscere (gignèskw; ghighnósko)

  4. Comandamento (ntol»; entolé)

  5. Credere (pistšuw; pistéuo)

  6. Giudei ('Iouda‹oi; Iudaîoi)

  7. Giudicare (¢pokrnw; apokríno)

  8. Io sono” ('Egè e„mi; Egó eimi)

  9. Glorificare/gloria (dox£zw/dÒxa; doxázo/dóxa)

  10. Luce-tenebre (fîj-skot…a; fôs-skotía)

  11. Manifestare (fanerÒw/mfanw/deknumi; faneróo/emfaíno/deíknimi)

  12. Mondo (kÒsmoj; kósmos)

  13. Ora (éra; óra)

  14. Padre (Pat»r; Patér)

  15. Rimanere (mšnw; méno)

  16. Spirito Santo (Pneàma ¤gion; Pneûma ághion)

  17. Testimonianza (martur…a; martiría)

  18. Vedere (blšpw / qewršw / Ðr£w; blépo / tzeoréo / oráo)

  19. Verità (¢l»qeia; alétzeia)

  20. Vivere/vita (z£w / zw»;)


1) Amare/Amore (¢gap£w / ¢g£ph; agapáo/agápe)159


Il greco ha tre verbi per esprime il concetto di amore: eráo/erámai; filéo; agapáo. Il primo (eráo/erámai) esprime l'amore sensuale e passionale, da cui deriva il nostro termine “erotico, erotismo”; il secondo (filéo) riguarda prevalentemente gli aspetti affettivi dell'amore, che coinvolgono la persona su di un piano di amicizia, di legame o di rapporto affettuoso; esso esprime anche un interesse o il compiacimento per una cosa o per una persona. Si tratta di un amore depurato dalla passionalità dei sensi e che impegna la psiche e l'area dei propri interessi. Da qui il termine filosofia, che significa amore o interesse per la sapienza; o filantropia, l'amore per gli uomini; lo stesso nome Filippo indica la persona che ama i cavalli, ne ha la passione. Il terzo (agapáo) indica un amore sublimato, un amore spirituale o dettato da motivi spirituali. Esso nella Bibbia, in particolar modo nel N.T., viene usato per indicare il rapporto di amore che intercorre tra il Padre e il Figlio (Gv 3,35; 10,17; 14,31), tra Dio e gli uomini (Gv 3,16; 13,1.23; 14,21; 17,23.24; 1Gv 4,9); è un amore che gravita nell'area divina e che ha, quindi, radici e motivazioni prevalentemente spirituali e si muove al loro interno (1Gv 2,5; Rm 5,5; 8,39; 2Ts 3,5; Gd 1,1). L'amore, che unisce i membri di una comunità o con il quale questi sono sollecitati ad amarsi vicendevolmente, è espresso con questo verbo (Gv 13,34; 15,12.17; 1Gv 2,10; 3,10.11). Giovanni, rivolto ai membri della sua comunità, li definisce “'Agaphto…” (agapetoí, amatisssimi) (1Gv 2,7; 3,2), per esprimere il profondo legame spirituale che lo unisce a loro. Di questi tre verbi Giovanni usa preferibilmente il verbo e il sostantivo che esprimono l'amore spirituale (agapáo), che ricorre complessivamente 41 volte (7 volte il sostantivo, 34 volte il verbo); mentre il verbo “filéo” si presenta 12 volte. Fatta questa lettura di fondo sul significato dei verbi ¢gap£w, filšw ed r£w va evidenziato come, talvolta, i primi due verbi in alcuni casi si intercambiano, come in 3,35 e in 5,20, dove per la stessa espressione (“il Padre ama il Figlio”) vengono usati entrambi: “¢gap£w” nella prima e “filšw” nella seconda. E così similmente in altri casi, come in 14,23 dove per due volte si usa ¢gap£w, e due volte filšw in 16,27; così nel racconto della risurrezione di Lazzaro, in 11,5 ¢gap£w e filšw in 11,3; così la circonlocuzione “il discepolo che Gesù amava” compare ¢gap£w in 13,23 e filšw in 20,2. Se da un lato queste eccezioni lasciano intendere che non si può stabilire nell'uso dei due verbi una regola di rigida separazione, dall'altro si può pensare di ascrivere queste differenze alla lunga gestazione, che ha subito il vangelo giovanneo.


2) Acqua (Ûdwr; ídor)


Il termine “acqua” in tutto il N.T. ricorre 83, volte di cui ben 47 nei soli Scritti giovannei160. Già da questo appunto si rileva l'importanza che assume tale vocabolo in Giovanni. Esso presenta, di volta in volta, una diversità di significati, che si esplicitano man mano che il racconto procede; tutti o quasi tutti hanno una valenza prevalentemente simbolica. La nostra ricerca si limiterà al vangelo:


3) Conoscere (gignèskw; ghighnósko)


Nel vangelo di Giovanni il verbo conoscere ricorre complessivamente 69 volte, di cui per 19 volte acquista il significato corrente di sapere, di essere al corrente, di riconoscere, di essere conosciuto, talvolta anche di provare (8,52). Appartengono a questa prima area i seguenti versetti: 1,10.48; 3,10; 4,1; 4,53; 7,26.27.49; 7,51; 8,52; 11,57; 12,9; 13,28.35; 15,18; 18,15.16; 19,4.20. - La seconda area comprende le restanti 50 volte, in cui il verbo conoscere acquista un significato profondo e superiore; un conoscere che appartiene all'alea divina; un conoscere che acquista anche il significato di esperienza del divino, di accesso al mistero. Il verbo, talvolta, viene espresso al negativo per denunciare l'inintelligenza dei discepoli di Gesù (8,27.43; 10,6). Ma il versetto che meglio rappresenta questa seconda area e che personalmente ritengo il cuore stesso del vangelo giovanneo è il 17,3: “Ora, questa è la vita eterna, che conoscano te il solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Il conoscere, dunque, è vita eterna, cioè vita di Dio. Entriamo, qui, in una conoscenza che è sinonimo di introduzione nel Mistero, che consente l'esperienza del Divino, l'appropriazione e la condivisione esistenziale del Divino. Conoscenza che è compenetrazione Dio-uomo. È proprio questa seconda area, che attiene al linguaggio della gnosi, che apre il credente alla conoscenza, che è esperienza di Dio, esperienza del Mistero, senza mai cadere, però, negli eccessi della gnosi. Appartengono a questa seconda area i seguenti versetti: 2,24.25; 5,6.42; 6,15.69; 7,17; 8,27.28.32.43.55; 10,6.14.15.27.38; 12,16; 13,7.12; 14,7.9.17.20.31; 15,15; 16,3.19; 17,3.7.8.23.25.26; 21,17.


4) Comandamento/Comandare (ntol»/™ntšllomai, entolé/entéllomai)


Il termine comandamento ricorre nel vangelo di Giovanni 10 volte161, mentre l'espressione verbale corrispondente 4 volte162. Esso viene impiegato in riferimento a soggetti diversi, assumendo significati diversi:


A) Quattro volte con riferimento al Padre163. In questo caso ha sempre attinenza con il piano salvifico ideato dal Padre e affidato a Gesù. Egli, in virtù di questo comando, acquisisce potere salvifico e rivelativo (10,18; 12,50b), diventando l'immagine vivente del Padre (14,8-10) e qualificandolo come l'attuatore fedele della sua volontà (14,31), il suo rivelatore, al punto tale che non vi è più distinzione tra lui e il Padre, che formano una cosa sola164. Proprio in virtù del comandamento, Gesù diventa azione del Padre in mezzo agli uomini, lo spazio storico che il Padre si è ritagliato per agire salvificamente. Ma è il v.12,50a che illustra la natura stessa del comando: “E so che il suo comandamento è vita eterna”. Nel linguaggio giovanneo l'espressione “vita eterna” (zw¾ a„ènioj, zoè aiónios), che ricorre 17 volte, ha diretta attinenza con la vita stessa di Dio. Se, dunque, il comando del Padre “è vita eterna”, viene a crearsi una identificazione tra Dio stesso e la sua volontà incarnata ed espressa nel comando. Il comando del Padre, dunque, diventa azione salvifica e rivelativa del Padre, che si incarna, si esprime e si attua storicamente in Gesù, che si fa azione del Padre in mezzo agli uomini. Il comando del Padre, quindi, non esprime soltanto una volontà, ma accolto nel suo Cristo, diventa sua azione salvifica e rivelativa.

B) Tre volte con riferimento esclusivo a Gesù165. Il contenuto del comando è univoco: l'amore vicendevole, che ha come parametro di raffronto Gesù stesso (13,34). Questa insistenza sull'amore vicendevole, che Gesù lascia ai suoi come imperativo in un contesto di cena degli addii, costituisce da un lato la sua eredità spirituale; dall'altro denuncia le difficoltà in cui si doveva dibattere la comunità giovannea. Strutturalmente questi tre comandi vanno dal complesso al semplice. Il primo comando (13,34), definito nuovo, assume una struttura concentrica in B), mettendo in tal modo in rilievo la specifica tipologia dell'amore reciproco:

 A) comando all'amore reciproco;

    B) amore reciproco che ha il suo parametro di raffronto in Gesù;

A') comando all'amore reciproco sull'esempio di Gesù.


Il secondo comando (15,12) riprende di fatto il primo con una struttura di confronto parallelo identificativo: A = B, evidenziando in tal modo la natura stessa dell'amore reciproco:

A) l'amore reciproco deve essere ….

B) come quello di Gesù.

Il terzo comando (15,17) è conclusivo. Stabilita la necessità di un amore reciproco che abbia per esempio quello di Gesù (13,34); definita la natura dell'amore reciproco con il secondo comando (15,12); questo terzo comando punta all'amore reciproco, così come qualificato nei due precedenti comandi. Per questo il comandamento dell'amore reciproco è nuovo, perché ha come sfondo non sentimenti umani, né è lasciato alla volontà interpretativa del comandato, ma si impone ad esso nella sua stessa dimensione divina. Come dire che questo amore reciproco non ha radici umane, bensì divine, rimandando all'amore sacrificale e salvifico rivelatosi e attuatosi in Gesù. Lo sfondo, quindi, entro cui si muove questo comando è cristologico.

C) Cinque volte con riferimento esclusivo ai discepoli166. Questi quattro versetti, in cui compare per cinque volte il termine comando/comandare, si riferiscono agli effetti che ha sui discepoli l'ottemperanza del comando dato. Tre di questi versetti sono posti al condizionale (14,21; 15,10.14) con la formula “se … allora”, diventando, quindi, l'osservanza dei comandi di Gesù preliminare necessario perché si attui il resto. I vv. 14,15 e 14,21a sono, inoltre, tra loro paralleli in forma chiasmica, in cui il 14,21 è esplicativo di 14,15:

A) “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (14,15)

B)Chi possiede i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama (14,21a)

Con la soluzione A) si attesta che l'osservare i comandamenti è espressione di amore verso Gesù; con la soluzione B) si definisce il duplice contenuto dell'amore verso Gesù: possedere (Ð œcwn, o écon) e osservare (thrîn, terôn) i suoi comandamenti. Si noti come la semplice osservanza dei comandamenti del v.14,15 si sdoppia in possesso e in osservanza al v.14,21. Non è, quindi, sufficiente osservare, che qui diventa sinonimo di eseguire fisicamente il comando, ma è necessario che il comando eseguito e che dovrebbe, quindi, testimoniare l'amore verso Gesù (14,15), perché questo amore sia autentico, è necessario che tale comando sia anche posseduto, cioè fatto proprio, e quindi esistenzialmente metabolizzato e tale da informare la propria vita, diventandone sua espressione. Si evita, in tal modo, il pericolo, caratteristico dell'ebraismo, di ridurre l'osservanza dei comandamenti ad una mera esecuzione, cadendo in un deprecabile legalismo formale, che ha fatto esclamare sia Isaia (29,13) che Gesù, il quale ne riprende le parole (Mt 15,8; Mc 7,6): “Dice il Signore: "Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani”.

L'osservanza dei comandi, che Gesù ha dato, non solo testimonia (verbo al presente) l'amore del discepolo nei confronti del proprio Maestro, ma ha anche una risonanza, per la loro profonda comunione di vita, sia presso Gesù che presso il Padre, che contraccambieranno (verbo al futuro) in un doppio modo: coinvolgendo il discepolo, amante perché osservante, nel loro Amore, cioè nel loro stesso ciclo vitale, che per definizione è ciclo di Amore (1Gv 4,8.16); e manifestandosi a lui, cioè rendendo il loro mistero di amore comprensibile e raggiungibile allo stesso discepolo, nel quale esso è coinvolto. Si noti come il possedere e l'osservare dell'autentico discepolo sono espressi al participio presente (Ð œcwn, o écon; thrîn, terôn), per indicare l'impegno costante e continuativo nel tempo, che qualifica la natura stessa del discepolo; mentre l'amare di Dio e il suo rendersi visibile e raggiungibile dal suo discepolo sono espressi con verbi al futuro (¢gap»sw, ™mfan…sw, agapéso, emfaníso), lasciando intendere come questo discepolo viene già trasposto in un contesto escatologico di un già, ma non ancora, di un amore rivelativo, che è una rivelazione di amore (3,16; 1Gv 4,9).

Da ultimo, l'autentica osservanza dei comandamenti di Gesù colloca il discepolo nell'amore di Dio, cioè nella stessa vita divina, alla stessa stregua di Gesù nei confronti di suo Padre (15,10). Si viene dunque a creare un parallelismo tra il discepolo di Gesù e Gesù stesso: l'osservanza dei comandamenti di Gesù colloca il discepolo nella vita divina, che palpita in Gesù; così come Gesù, osservando i comandi del Padre, si pone nella sua vita stessa. Di conseguenza anche il discepolo, per mezzo di Gesù, si colloca, come Gesù, nella vita stessa del Padre. L'osservanza dei comandi, che hanno natura divina e sono vita eterna (12,50a), introducono, quindi, il discepolo in un ciclo vitale con Dio, che è comunione di vita divina.

D) L'espressione comando/comandare compare, infine, altre due volte con riferimento a Mosè e ai Farisei (8,5; 11,57). Il significato, qui, privo di ogni addentellato teologico, dice soltanto un dato storico e parla di un comando, attraverso cui si esprime un mero potere.


5) Credere (pistšuw; pistéuo)


L'intero vangelo giovanneo è sotteso da un elemento fondamentale, che lo caratterizza e lo giustifica nel suo esserci: la fede o, forse, è meglio dire il “credere”. La finalità, infatti, per cui questo vangelo è stato scritto è “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome.” (Gv 20,31). Il tema della fede in Giovanni, dunque, è essenziale. Basti pensare alla massiccia presenza del verbo credere, che è disseminato nel racconto 99 volte, mentre non ricorre mai, neppure una volta, il sostantivo fede. È significativa, in tal senso, la predilezione che Giovanni nutre per il verbo in luogo del sostantivo, poiché il sostantivo esprime un concetto, un'astrazione, mentre il verbo parla di azione, possiede in se stesso la dinamicità dell'azione e, in qualche modo, è legato al dinamismo proprio della vita. Similmente è avvenuto anche per il tema dell'amore, in cui i verbi ¢gap£w e filšw ricorrono complessivamente 46 volte contro le sole 7 volte del sostantivo ¢g£ph (agápe). Questo lascia intravvedere come l'autore percepisca le nuove realtà inaugurate da Gesù come realtà che sono incardinate e palpitanti nella vita stessa dell'uomo, la interpellano e lo sospingono verso una risposta esistenziale. Per cui i comandamenti non si osservano, ma si vivono. Infatti, il comandamento, come si è visto sopra, possiede in se stesso il dinamismo proprio della vita stessa di Dio (12,50)167. Tuttavia, l'importanza del verbo credere non è significata soltanto dal suo massiccio ricorrere, ma anche dal variegato uso che Giovanni fa del verbo, definito dalle particelle che lo accompagnano, assumendo diverse sfaccettature. Per cui si ha “pistšuw e„j” (pistéuo eis), che ricorre 36 volte ed imprime al verbo una forte dinamicità. La particella, infatti, esprime un moto a luogo, per cui il credere viene concepito come un cammino esistenziale, che va verso ad un suo compimento, che si trova in Gesù e nel Padre. Infatti, la meta verso cui conduce la particella “e„j”, ogniqualvolta compare, è immancabilmente la persona di Gesù espressa con il pronome “aÙtÕn” (autòn, in lui) o con l'espressione “nel suo nome” (tÕ Ônoma aÙtoà, ónoma autû) o “nel Figlio” (tÕn uƒÕn, uiòn) o il pronome “™mš” (emé, in me) o “in Gesù” o nel Padre, che compare una volta soltanto ed è espresso con una circonlocuzione “Ön ¢pšsteilen ™ke‹noj” (òn apésteilen ekeînos, colui che mi ha mandato). Contrapposta alla dinamicità della particella “e„j” vi è la staticità della particella “™n”, che esprime uno stato in luogo e che compare soltanto una volta in 3,15: “affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Questo stato in luogo dice il compimento raggiunto dal quel cammino indicato dalla particella “e„j”. Si parla, infatti, di ottenimento della vita eterna, che per antonomasia è la vita stessa di Dio. Per altre 6 volte il verbo credere è accompagnato dalla particella “di£”, che esprime una fede che si ottiene per mezzo di lui, per mezzo della sua parola o di una parola testimoniata, come nel caso della Samaritana (4,42) o dei futuri credenti (17,20) o per mezzo delle stesse opere di Gesù (14,11). Per 14 volte, poi, il verbo credere è seguito dalla particella “Óti”, che introduce una frase oggettiva ed esprime l'oggetto del credere, il suo contenuto. Questo acquista quasi sempre un peso dottrinale solenne come, in via esemplificativa, in Gv 6,69 in cui Pietro a nome del collegio apostolico dichiara solennemente: “e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio”; o in Gv 8,24b, in cui si attesta la divinità stessa di Gesù: “se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati”; o in Gv 11,27, in cui il cieco guarito fa la sua solenne professione di fede nel messianismo e nella divinità di Gesù: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”; o in Gv 14,10, in cui Gesù, rivolto a Filippo, dichiara: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere” e similmente in Gv 14,11: “Credetemi che io sono nel Padre e il Padre è in me”; o in Gv 16,30b, in cui si fa dichiarazione della divinità di Gesù: “Per questo crediamo che sei uscito da Dio”. Il verbo credere, infine, per 18 volte sorregge il dativo, per indicare il soggetto a cui è o deve essere consegnata la propria fede. In questo caso non sempre il destinatario è Gesù o il Padre, ma anche diversi soggetti; in questo caso, più che di fede vera e propria si deve parlare di fiducia e, quindi, il credere ha il senso di fidarsi. Il verbo credere, infine, compare altre 17 volte e acquista un senso generico e/o interlocutorio di credere o non credere, come, a titolo esemplificativo, in Gv 1,50a, in cui Gesù, rivolto a Natanaele, gli dice: “Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? ”; o in Gv 3,12: “Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?”; o in Gv 4,48: “Gesù gli disse: <<Se non vedete segni e prodigi, voi non credete>>” … e simili.


6) Giudei ('Iouda‹oi; Iudaîoi)


Il termine “Giudei” ricorre in Giovanni 70 volte, contro le complessive 16 volte dei Sinottici, in cui il titolo indica soltanto l'appartenenza al popolo, senza alcun tono polemico. L'uso così massiccio in Giovanni lascia perplessi e un'attenta analisi consente di intravvedere come il nome “Giudei” abbia un significato sempre polemico, indipendentemente dal contesto narrativo in cui esso viene impiegato, risentendo, quasi certamente, del tempo in cui il vangelo fu scritto; un tempo in cui si vedevano contrapposte le prime comunità cristiane con la sinagoga (9,22; 12,42). Lo sfondo, dunque, entro cui si muove il termine è polemico ed assume spesso il significato negativo di incredulità e di ostilità contro Gesù; non di rado esso indica le autorità religiose, contrarie a Gesù168. L'uso frequente, inoltre, evidenzia il netto distacco e la polemica estraneità al mondo giudaico da parte del nascente cristianesimo. Tuttavia, per Giovanni l'espressione “Giudei” non è soltanto una sorta di sinonimo di incredulità e di ostilità alla predicazione cristiana, ma anche l'essere divenuti religiosamente obsoleti. Il termine, infatti, affiancato alle festività religiose169, appare come una sorta di pleonasmo, poiché le festività proprie del culto ebraico erano necessariamente dei Giudei. Non era, quindi, necessario specificare che la Pasqua era la “Pasqua dei Giudei”. Tuttavia, lo specificare che quella determinata festa era dei Giudei significava due cose: a) l'estraneità di quella festività rispetto al neonato cristianesimo, in modo particolare del giudeocristianesimo; e b) lo stigmatizzare negativamente quella festività, quasi a denunciare in essa un culto ormai superato e privo di valore, a cui si contrapponeva quello nuovo del cristianesimo nascente. L'uso, quindi, del termine “Giudei” assume anche il significato di un giudizio negativo posto sulla stessa religione giudaica. Comunque, ovunque il termine compaia carica quel contesto narrativo di negatività, poiché la citazione del termine indica sempre il fronte avverso.


7) Giudicare/Giudizio (krnw/kr…sij , kríno/krísis)


Le espressioni “Giudicare/Giudizio” ricorrono 31 volte, mostrando le loro molteplici sfaccettature. È interessante rilevare come il Padre non giudica nessuno, ma affida tale capacità al Figlio (5,22.27); tuttavia, neppure il Figlio giudica, poiché la sua missione non è quella di giudicare, bensì di salvare il mondo (3,17; 8,15; 12,47). Chi è dunque il vero giudice? Il vero giudice è la Parola stessa di Gesù (12,48). Ciò che egli dice è vero, poiché ha come fonte primaria il Padre stesso; ed è proprio questa parola rivelatrice e di verità, che provengono dal Padre per mezzo di suo Figlio, che si pongono a giudizio sull'uomo (8,26); e sarà proprio questa parola di verità, che, rivelatasi autentica nella risurrezione, che si costituirà giudice sul mondo (8,50). Se l'elemento di discriminazione posto sull'uomo è la Parola stessa, si tratta, ora, di definire il contenuto di questo giudizio; in altri termini qual è l'oggetto del contendere tra Dio e gli uomini e tale da discriminarli nei suoi confronti? “Ora questo è il giudizio, che la luce è venuta nel mondo e gli uomini amarono più la tenebra che la luce; poiché le loro opere erano malvagie” (3,19). Oggetto del giudizio, della discriminazione, dunque, è il radicarsi degli uomini nelle tenebre, la cui malvagità traspare dalle loro opere e li rende incapaci di aprirsi alla luce. Di conseguenza la qualità delle stesse opere è rivelatrice della scelta di fondo operata da essi, qualificandoli come coloro che hanno accolto o respinto la luce (5,29). In ultima analisi, il giudizio è posto sul credere, cioè sull'aver aderito o meno con la propria vita alla Parola, conformandola ad essa (3,18; 5,24). I tempi del giudizio, tuttavia, sono posti hinc et nunc, qui e ora (12,31; 16,8.11). Non c'è, dunque, da attendere la venuta del tempo escatologico, in cui si attuerà il giudizio di Dio, poiché questo è già giunto nella persona e nella Parola di Gesù stesso. È proprio questa che attua il giudizio e crea una profonda discriminazione tra gli uomini. Non c'è dunque da attendere la venuta finale di Gesù, poiché il giudizio della sua Parola è già operante in mezzo agli uomini e li interpella, attendendo, nell'oggi, la loro risposta, in base alla quale essi saranno discriminati. Tuttavia, se Gesù non è venuto per giudicare, affidando questo atto discriminante, alla sua Parola, la sua venuta è, comunque, sovvertitrice di un certo ordine di cose e predispone il terreno al giudizio stesso: fare sì che quelli che non vedono vedano e quelli che vedono non vedano (9,39). Questo gioco di parole, definito da Gesù “un giudizio”, tuttavia ha prevalentemente valore di sentenza, che vuole mettere allo scoperto l'ipocrisia di chi si dice e si ritiene vero credente, ma in realtà ha di fatto rifiutato la sua Parola (il riferimento è al mondo giudaico); e chi, invece, non avendo mai avuto la luce della Parola, una volta conosciuta, l'ha accolta in sincerità di cuore (il riferimento, qui, è al mondo pagano). La venuta di Gesù, dunque, ha avuto anche il significato di scoprire i giochi delle parti, perché il giudizio fosse autentico, vero e giusto. E sono proprio queste ultime qualità, che caratterizzano il giudizio della Parola, poiché essa proviene da Dio stesso, lasciando trasparire la sua Verità, con la quale gli uomini sono chiamati a misurarsi (5,30; 8,16). Per questo il giudizio che si esprimerà sarà giusto, vero e autentico. Ma, in ultima analisi, si scopre come questo giudizio, posto sugli uomini dalla Parola, non è neppure qusta ad emetterlo, bensì soltanto il suo destinatario, poiché è l'uomo, e soltanto lui, che si attiva pro o contro tale Parola (3,16-18). Tutto, dunque, è lasciato nelle sue mani. Ecco, perché né il Padre, né il Figlio si costituiscono in giudizio contro l'uomo, né l'uomo sarà da loro giudicato, poiché sarà la sua risposta esistenziale alla Parola, che determinerà per lui la salvezza o la perdizione eterne.


8) “Io sono” ('Egè e„mi; Egó eimi)170


L'espressione “Io sono” ricorre in Giovanni 23 volte, di cui sette in senso assoluto171, cioè senza essere accompagnata da predicati nominali, per cui la sensazione che se ne ricava è che la frase rimanga in sospeso, come, a titolo esemplificativo, in Gv 8,28: “Disse allora Gesù: <<Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che io sono”; o in Gv 8,24: “Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”. Le restanti 16 volte l'espressione è accompagnata da predicati nominali o da brevi frasi relative172.

Se l'espressione “Io sono”, presa in senso assoluto, rimanda il lettore alle Scritture, in cui Jhwh si rivela a Mosè come l' “Io Sono” per eccellenza (Es 3,14b), diverso significato assumono le formule, in cui l'espressione è accompagnata da un predicato nominale o da una frase relativa. In questo caso la formula ha la funzione di specificare le qualità proprie di quel “Io sono”, così assoluto da essere inconoscibile. Infatti, se nell'A.T. il rapporto che il popolo aveva con Jhwh era del tutto disincarnato (Es 20,3-5; 34,14a.17), per cui Dio era conosciuto soltanto mediante la Torah o per il suo rapporto con gli antenati, un rapporto, quindi, di tipo storico, per cui Egli si qualificava come il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”173, ma comunque sempre mediato e mai diretto, con l'avvento del N.T. l' “Io Sono” comincia ad assumere significati personalistici, che lo definiscono e lo rendono storicamente raggiungibile dall'uomo. Dio non è più soltanto un “Io Sono”, arroccato sul monte Sinai, ma si qualifica anche come “il pane vivo, il pane della vita, disceso dal cielo” (6,35.41.48.51); come “luce del mondo” (8,12); come il rivelatore di se stesso (8,18); come il buon pastore (10,11.14) e porta delle sue pecore (10,9); come generatore e sorgente di vita (11,25); come via, verità e vita per ogni credente (14,6); come vite, da cui si diramano i tralci, quali prolungamento della vite stessa (15,1.5). Tutte queste espressioni circoscrivono in modo qualificante, rendendolo comprensibile da ogni uomo l'irraggiungibile “Io Sono”, che ora, a differenza dall'A.T., è disceso dal monte Oreb174 e si è fatto vicino ad ogni uomo (Gv 1,12.14), intrattenendo un rapporto strettamente personale con ogni singolo credente (1Gv 1,1-4).

Lo sfondo entro cui si muove l' “Io Sono ...” giovanneo è veterotestamentario. Giovanni, infatti, è un ebreo e appartiene alla classe sacerdotale; buon conoscitore, quindi, delle Scritture e già si è detto come il suo vangelo ha come sfondo le stesse Scritture e il culto del Tempio. Era, dunque, inevitabile che, nella sua convinzione e nella sua certezza che Gesù fosse la manifestazione visibile e tangibile di Jhwh (1Gv 1,1-4), attingesse ai titoli divini, che Jhwh stesso aveva riservato a Sé e con i quali egli si era reso conoscibile al suo popolo. Sono titoli che legano Dio alla stessa storia di Israele175, titoli che predicano la sua esclusività sugli altri dèi (Is 43,10.25; 45,18) o legano il suo nome, l' “Io sono”, alle sue qualità, che rivelano alcuni aspetti del suo Essere, quali la giustizia e la rettitudine (Is 45,19; Ger 9,23); il suo accompagnare e il suo proteggere (Ger 1,8.19); la sua misericordia (Ger 3,12); la sua assoluta signoria (Ez 38,23) santificatrice (Ez 37,28) e capace di rigenerare a vita nuova un popolo infedele (Ez 37,6.13). Tutte qualità divine, predicate dai profeti e tutte ruotanti attorno all'unica e identica matrice, da cui sono state tratte e poi variamente modulate, all'occorrenza, dall'agiografo: “Io sono colui che sono” (Es 3,14c; secondo il greco della LXX “'Egè e„mi Ð ên” (Egó eimi o ón), letteralmente “Io sono l'Ente”, in cui il participio presente del verbo essere (ên) può essere sciolto con “colui che è”. Giovanni privilegerà la prima parte del nome “'Egè e„mi” per 7 volte, mentre per le restanti 16 si accoderà alla logica dei profeti, che hanno voluto rendere più accessibile l'irraggiungibile “'Egè e„mi”, qualificandolo con diversi predicati nominali o espressioni relative. In tal modo l'espressione “Io sono ...” assume un significato rivelativo, in particolar modo in Giovanni.


9) Glorificare/gloria (dox£zw/dÒxa; doxázo/dóxa) – Associata all'ora.


L'espressione gloria o glorificare compare in Giovanni 42 volte. I suoi significati hanno un comune denominatore: essa è, innanzitutto, manifestazione, che assume, di volta in volta, valenze diverse. La gloria, in primis, è manifestazione della divinità di Gesù e del Padre e allude, quindi allo stato di vita divina, di cui titolare è il Padre e del quale Egli rivestirà il proprio Figlio nella risurrezione, restituendogli quella dignità divina, che aveva avuto fin dall'eternità presso di Lui176. La manifestazione della gloria di Gesù, della sua divinità, trova, quindi, il suo vertice nella morte e risurrezione, quale attuazione del piano salvifico del Padre177. Attuando, pertanto, tale piano, Gesù rende gloria al Padre, non solo perché lo onora, conformandosi alla sua volontà, ma anche perché manifesta la potenza della sua divinità, dalla quale Gesù è investito e rivestito pienamente nella risurrezione; per questo il Padre glorificherà il Figlio, cioè lo assocerà alla sua vita nella risurrezione, prevista dal suo piano salvifico e ciò avverrà subito, senza attendere gli ultimi tempi (13,32; 17,1.4). Ma questa gloria, questa manifestazione di divinità e di potenza, che permea, in una reciprocità di profonda unità e di comunione, il Padre nel Figlio e questi nel Padre, e che qualifica il dinamismo della loro vita divina, non è un loro affare privato, ma investe anche i credenti, che unitisi al Figlio, in virtù del loro credere, condividono questa gloria con il Figlio nel Padre, lasciandola trasparire dalla loro vita, conformata alla sua volontà178. Pertanto, Padre, Figlio e nel Figlio i credenti formano una comune comunione di amore, che è vita divina, di cui i credenti sono permeati e chiamati a lasciare trasparire dalle loro vite. Solo in tal modo essi testimoniano nelle loro vite la gloria del Padre e del Figlio, cioè la loro vita divina, rendendo loro gloria.

Un'annotazione a parte va fatta sui vv. 2,11 e 11,40, che formano tra loro inclusione, abbracciando quasi per intero la sezione del vangelo riguardante la vita pubblica di Gesù, ponendola sotto il segno della manifestazione della gloria di Gesù. Il primo versetto, infatti, (v.2,11) riguarda la conclusione del primo segno, le nozze di Cana, in cui l'evangelista commenta che in questo segno si manifestò la gloria di Gesù. Similmente, gli fa eco il secondo versetto (v.11,40), collocato anche questo verso la conclusione dell'ultimo segno, la risurrezione di Lazzaro, in cui Gesù, rivolto a Marta, la redarguisce per la sua poca fede: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Due versetti tra loro complementari, poiché nel primo si dice che Gesù manifestò la sua gloria, mentre nel secondo si sottolinea come il vero credente vedrà questa gloria. Il verbo al futuro allude al vedere la gloria che apparirà nella risurrezione. Significativa, infine, è la collocazione di questi due versetti all'interno del primo e dell'ultimo segno, includendo in tal modo tutti i segni, ponendoli tutti univocamente sotto l'egida della manifestazione della gloria di Gesù. I segni, dunque, per loro propria natura, sono la manifestazione della divinità di Gesù. Non è, tuttavia, una manifestazione accessibile a tutti, ma soltanto a color che hanno creduto a Gesù, per cui soltanto “se credi, vedrai la gloria di Dio” (v.11,40).

Similmente, altri due versetti formano tra loro inclusione, abbracciando quasi per intero il vangelo giovanneo, mettendone in rilievo la squisita natura contemplativa: v.1,14 e v.17,24. Nel primo versetto (v.1,14) l'autore di fronte al Verbo incarnato si pone in uno stato di contemplazione della gloria del Figlio, quale Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità; mentre il secondo (v.17,24) testimonia la preghiera di Gesù rivolta al Padre, perché i suoi discepoli “contemplino la sua gloria”. L'intero vangelo giovanneo, dunque, è una contemplazione della gloria (divinità) del Verbo incarnato. Anche qui, tuttavia, la vita divina che palpita in Gesù e che traspare nei segni, richiede per essere colta il “credere”. Il verbo usato, infatti, nei vv. 1,14 e 17,24 è “Ðr£w”, che in Giovanni, come vedremo, è il verbo proprio di una fede giunta alla sua pienezza.

Un'ultima annotazione va posta sul termine gloria nel vangelo giovanneo. Se essa da un lato attiene alla stessa vita divina, che si manifesta in Gesù e nel Padre, investendo i credenti, dall'altro, la gloria acquista un significato più modesto, più attinente al nostro linguaggio umano, per cui gloria può significare anche onore, onorabilità, dignità, approvazione, affermazione179.


10) Luce-tenebre (fîj-skot…a; fôs-skotía)


Il termine “Luce” ricorre in Giovanni 23 volte, mentre il suo contrapposto “Tenebre” soltanto 7 volte. Già questa sproporzione lascia intravedere l'importanza che l'autore assegna all'espressione “Luce”. La luce, infatti, emana chiarezza, lascia vedere bene le cose e le rivela per quelle che sono. Ha, quindi, una funzione rivelatrice. Essa, pertanto, è strettamente imparentata con il “manifestare”, con il “testimoniare”, con il “rivelare”, con la “verità”, con il “vedere” e con la “vita”. Tutte espressioni molto care a Giovanni e che qualificano, di fatto, il suo Vangelo come il Vangelo della rivelazione del Verbo Incarnato. Ma questa Luce non ha soltanto la funzione di illuminare e di rivelare, ma anche di giudicare. Essa, infatti, a motivo della sua capacità di mettere in chiaro tutte le cose e di rivelare la verità profonda del loro essere, possiede in se stessa una capacità discriminante, che mette in evidenza la loro bontà, ma ne denuncia anche malvagità.

La sproporzione, poi, tra Luce e Tenebre lascia intendere come, di fatto, tra queste due realtà non vi sia una vera e propria contrapposizione sistematica, come vorrebbe la logica propria della gnosi, che pensa alla Luce e alle Tenebre, similmente ai due principi del Bene e del Male, come a due divinità che si fronteggiano tra loro; certo, sono due realtà tra loro contrapposte, ma non di pari peso, poiché l'esserci delle Tenebre è marginale rispetto alla potenza della Luce, che per Giovanni è la vita stessa di Dio, che palpita e si manifesta in Gesù, il Verbo Incarnato, di cui egli contempla la gloria divina (Gv 1,14). È questa che domina il pensiero di Giovanni e forma l'oggetto principale della sua contemplazione. La contrapposizione Luce-tenebre, in realtà enuncia soltanto un giudizio, che viene posto dalla Luce sulle Tenebre (1,5; 3,19.20.21).

Ma vi è un'altra contrapposizione, che viene giocata polemicamente attorno al nome “Luce”, quella con il Battista. Polemica a cui l'autore dedica quattro distinti versetti: 1,7.8.9; 5,35. Una contrapposizione da cui emerge come il Battista sia soltanto una lampada che testimonia la luce, ma la Luce vera deve essere cercata altrove.
Il termine Luce, infatti, nel racconto giovanneo indica, in modo inequivocabile, la persona di Gesù180, la sua missione e il senso della stessa (8,12; 12,46), nonché il tempo di questa missione (11,9.10); una presenza quella di Gesù, che, come luce, diventa anche un forte richiamo ad aderire a questa luce, finché essa è disponibile (12,35.36); ma nel contempo diventa anche un approfondimento della natura divina di Gesù (1,4). Infatti, per Giovanni la Luce è sinonimo della vita stessa di Dio, ne indica la sua essenza, in quanto per definizione Dio è Luce (Gv 1,4). Questo suo modo di pensare non è una deduzione filosofica, ma inerisce al messaggio di Gesù stesso: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5).


11) Manifestare (fanerÒw/mfanw/deknumi; faneróo/emfaíno/deíknimi)


I verbi “manifestare” o “mostrare” ricorrono complessivamente nel racconto giovanneo 20 volte e coordinando adeguatamente i contesti in cui ricorrono ne esce un quadro significativo, che riguarda: a) i rapporti tra il Padre e Gesù; b) tra Gesù è il mondo; c) del mondo nei confronti di Gesù.


Il manifestare nei rapporti tra il Padre e Gesù

Innanzitutto il “manifestare” di Gesù, così come il suo contenuto, non dipende da una sua personale iniziativa, ma dal Padre: “Il Padre, infatti, vuole bene (file‹, fileî) al Figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa, e gli mostrerà opere maggiori di queste, affinché voi stupiate” (5,20). L'iniziativa, dunque, parte dal Padre, che “mostra al Figlio tutto ciò che Egli fa”, rendendolo partecipe del suo progetto di salvezza, finalizzato ai credenti, per rafforzare la loro fede: “affinché voi stupiate” (†na Øme‹j qaum£zhte, ína imeîs tzaumásate). Infatti, “Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò” (1,18). Gesù, dunque, riceve la rivelazione dal Padre e la condivide con i credenti, riflettendo in se stesso il Padre. In tal modo l'agire di Gesù manifesta l'agire stesso del Padre, che opera in lui (9,3; 10,32). Si viene così a costituire una sorta di identità tra il Padre e Gesù, che lascia intravvedere la profonda unità e comunione che vincola i Due. La cosa verrà sottolineata da Gesù, che, rivolto a Filippo, gli dice: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere.” (14,9-11).


Il manifestare nei rapporti tra Gesù e il mondo

Il manifestarsi di Gesù, la sua venuta, è percepito in 1,5 come una luce divina che appare nelle tenebre del mondo, lasciando intuire come la sua principale missione sia squisitamente rivelativa (17,6), perché quel Padre, di cui Gesù condivide la divinità (10,30; 17,11.22), sia reso manifesto in lui, così che gli uomini lo possano raggiungere per mezzo suo (14,6). Ma il contrasto tra luce e tenebre, posto fin dall'inizio del vangelo, fa capire come l'azione rivelativa sia fortemente contrastata. Di fronte alla sua rivelazione si stagliano, infatti, tre diversi comportamenti: quello del mondo, che avvolto nelle sue tenebre non ha saputo coglierne l'importanza (oÙ katšlaben, u katélaben) (1,10); vi è poi la posizione di Israele, che, chiuso nella sua invincibile incredulità, non lo ha accolto; ed è questo l'aspetto più doloroso (1,11); e, infine, vi sono coloro che, indipendentemente dalla loro appartenenza geografica, etnica o religiosa, hanno accolto la sua Parola nella loro vita e da questa furono rigenerati alla vita divina (1,12-13). A quest'ultima categoria di persone, i credenti, egli si manifesterà nella sua pienezza, così che essi possano percepirne la vita divina, che palpita in lui, già prima della creazione del mondo (17,5), e la loro fede ne venga rafforzata (2,11.21; 14,21-22). Ma il manifestarsi di Gesù non cessa con la fine della sua vita terrena, ma continua anche dopo, lasciandosi cogliere dai suoi nella pienezza della sua divinità (20,20; 21,1.14), e perché essi, accogliendo la sua eredità rivelativa, la continuino in mezzo al mondo.


Il manifestarsi nei rapporti del mondo con Gesù

Se l'agire di Gesù è squisitamente rivelativo del Padre e opera direttamente sugli uomini e in mezzo ad essi, vero è anche che questo rivelarsi provoca delle perplessità ai destinatari, che non soddisfatti della rivelazione proveniente da Gesù, gli chiedono di manifestarsi in modo più diretto e tangibile, in un modo che vada bene a loro. Richieste queste che hanno due diverse matrici: l'incredulità, che cerca continuamente segni, senza mai esserne pienamente soddisfatta (2,18; 7,4.10); e l'inintelligenza di chi si pone al seguito di Gesù, ma non è riuscito a fare quel salto di qualità, che è proprio di un credere maturo; per cui di fronte al manifestarsi di Gesù rimane sconcertato e cerca di capirne di più, ma senza avvedersi che ciò che cerca è a lui pienamente manifesto (14,8.9).


    12) Mondo (kÒsmoj; kósmos)


Il termine mondo compare 78 volte, ma a seconda del contesto in cui viene a trovarsi assume quattro diversi significati:


a) come luogo fisico, storico, abitato dagli uomini compare 34 volte, di cui 18 sono dislocate nell'area dei capp. 13-18. Una volta compare in modo neutro al v. 21,25; gli altri 15 sono equamente distribuiti nel corso dei capp. 1-12.

Dall'insieme di questi versetti si evince come questo mondo storico, habitat naturale dell'uomo, sia diventato il palcoscenico privilegiato dell'azione salvifica del Padre, che in esso ha inviato suo Figlio, la cui presenza è definita da Giovanni come luce, cioè fonte di rivelazione divina per un uomo, che si era ormai disabituato a Dio181. Il persistente richiamo a questa dimensione spazio-temporale, in cui si compie l'intervento divino, dà l'idea della concretezza di questa azione salvifica, che si è resa visibile e, quindi, concretamente raggiungibile da tutti gli uomini e dalla quale tutti, indistintamente, sono interpellati (1Gv 1,1-4). Forse questo persistente richiamo alla concretezza dell'intervento divino, che si impatta con questa dimensione spazio-temprale, può essere una stoccata, che l'autore indirizza all'incipiente docetismo, che assegnava a Gesù un'umanità apparente e che mal digeriva il connubio uomo-Dio; una questione questa che perdurerà nei secoli e che porterà ai concili di Efeso (431), Calcedonia (451) e Costantinopoli III (680). Nessuno scandalo, dunque, da questo connubio mondo-Dio, sia perché fu un connubio voluto da Dio stesso (Fil 2,6-8) e sia perché questo è un mondo che non è estraneo a Dio, poiché la sua origine è squisitamente divina (Gv 1,10b; Gen 1,31). Dai suoi tratti, infatti, traspaiono le stesse qualità divine, che rimandano al suo Creatore (Rm 1,20); anzi, questo mondo sembra essere stato pensato ad hoc, proprio in vista dell'incarnazione del Verbo (Col 1,16), così che Giovanni mette sulla bocca dei suoi personaggi come Gesù fosse colui che “doveva venire nel mondo”, in cui è colto sia come Profeta (6,14), cioè come l'uomo che per eccellenza è la voce di Dio qui nella storia; sia come Cristo, Figlio del Dio vivente (11,27). Gesù, dunque, è azione concreta del Padre qui nella storia; il suo spazio storico-divino, in cui egli dimora ed opera (14,10-11). Si tratta, comunque, di un mondo molto lontano da quello da cui proviene il Verbo Incarnato, permeato dalla sua divinità, infatti: “diceva loro: <<Voi siete da quaggiù, io sono da lassù; voi siete da questo mondo, io non sono da questo mondo>>” (8,23); un concetto che verrà ribadito anche a Pilato (18,36). Questa del mondo è una realtà che Giovanni vede come punto di arrivo e punto di partenza del Verbo, che uscito dal Padre entra nel mondo e, soltanto dopo averlo assimilato a sé nella sua morte e risurrezione (12,32), torna al Padre (16,28). Il mondo degli uomini è, dunque, il luogo del passaggio salvifico di Dio, che accorpandolo a sé nell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio, lo ha ricondotto in seno a se stesso, così com'era nei primordi (1Cor 15,21-28). Questo mondo, nonostante la dipartita di Gesù verso il Padre, da cui proviene, rimane sempre lo scenario salvifico in cui egli continuerà ad operare, con la potenza del suo Spirito182, attraverso i suoi, che sono rimasti nel mondo (17,11) per continuare la missione del loro Maestro (17,18).

b) nel senso di uomini, di umanità, il termine con questo significato ricorre 15 volte, di cui 12 volte tra i capp.1-12 e soltanto 3 volte tra i capp.17-18. Si tratta di una sorta di metonimìa, una figura retorica con cui si sostituisce una parola con un'altra, entrambe in stretto rapporto tra loro, come può essere, in questo caso, il contenente con il contenuto.

Giovanni usa il termine “mondo” anche per indicare gli uomini, che formano l'oggetto di amore del Padre; un amore che trova la sua concreta manifestazione nella persona stessa di Gesù, che l'autore vede come il dono del Padre, finalizzato alla salvezza degli uomini (3,16). Contrariamente alle attese del Battista183, la venuta del Figlio non comporta nessun giudizio per gli uomini, ma soltanto una mano tesa del Padre per la loro riconciliazione a sé (3,17), così che non vi è neppure alcuna condanna da parte sua anche nel caso in cui questi, pur ascoltando la proposta di salvezza, manifestatasi nel Figlio, non si conformino esistenzialmente ad essa (12,19). Tuttavia, sebbene da parte del Padre non giunga nessuna condanna, non v'è dubbio che questa è insita nell'atteggiamento stesso dell'uomo, che si autoesclude dalla proposta salvifica (3,17-19). La proposta rifiutata, quindi, diventerà, a motivo del rifiuto, discriminante. Ma l'amore del Padre per gli uomini, resosi visibile in Gesù, tocca il suo vertice nel dono che il Figlio fa di se stesso agli uomini, offrendosi a loro quale pane di vita (6,33.51), così che l'uomo mangiando di questo pane assimili in se stesso la vita di Dio. Tuttavia, Gesù non si limita ad essere alimento di vita divina, che trasfonde da sé, ma per il mondo è anche luce, che irradia questa vita ed è tale da illuminarne il mistero agli uomini che la accolgono in loro stessi184. In altri termini, rende gli uomini capaci di cogliere il mistero di Dio, che si manifesta in Gesù. Ma gli uomini sono anche i destinatari non soltanto del messaggio che Gesù porta con la sua persona, ma anche i destinatari del messaggio che traspare dalla comunione di amore che lega i discepoli tra di loro, in cui si riflette la relazione di amore che lega il Padre al Figlio (17,21.23).

c) nel senso di forza avversa a Dio il sostantivo si ripete 27 volte. Di queste, 4 sono le volte in cui il nome si presenta nella prima parte del racconto giovanneo e più precisamente in 1,10; 7,7 e in 12,31 (nello stesso versetto compare due volte). Le restanti 23 volte si concentrano significativamente tra i capp.14-17.

Il termine mondo assume anche dei contorni decisamente negativi di forza avversa a Dio. La sua prima caratteristica, che lo contraddistingue, è la sua inguaribile cecità, che lo rende totalmente inabile nei confronti delle realtà di Dio e incapace di coglierne la luce, che da esse promana; una luce che non è riuscita a squarciare le tenebre, che avvolgono, quasi come una corazza protettiva, il mondo. (1,5). Si tratta di un mondo incapace di relazionarsi con Dio, perché inidoneo ad accogliere il suo Spirito di Verità, rimanendo per sempre nel chiuso delle sue tenebre (1,10c; 14,17.19; 17,25). Questa totale e invincibile chiusura genera un rapporto di odio inguaribile verso tutto ciò che non gli appartiene e che, quindi, non riconosce come suo. Per questo respinge e perseguita la luce venuta in mezzo alle sue tenebre, poiché essa è una loro condanna (7,7; 15,18.19); così come odia tutti quelli che hanno accolto in loro stessi questa luce (17,4). Il rapporto, pertanto, che i discepoli della Luce avranno con queste realtà avverse a Dio, sarà conflittuale e genererà in loro sofferenza, di cui il mondo, invece, gioisce (16,20.33). Questi discepoli, infatti, sono stati oggetto di predilezione e di elezione da parte di Dio, che si è manifestato a loro nella sua Luce e che essi hanno accolto nella loro vita, lasciandosi da essa illuminare. Questi, dunque, appartengono a Dio e sono posti sotto tutela speciale di Dio da parte della Luce (17,6.9.16). L'invincibilità di questo mondo avverso a Dio e a tutto ciò che gli appartiene è soltanto apparente, poiché su di lui è stato già posto il giudizio divino e il suo principe, satana, è stato già sconfitto e nulla può contro la Luce, che metterà in rilievo quelle tenebre, che peseranno sul mondo come giudizio di condanna. Quanto ai discepoli, essi hanno la missione di continuare a far brillare questa Luce, di cui sono eredi, in mezzo al mondo, perché questo mondo deve sapere e conoscere fino in fondo, che cosa ha rifiutato, perché così la sua condanna sia piena e definitiva (14,31). Sarà, certo, come si è visto sopra, una missione segnata dalla conflittualità e dalla sofferenza, ma confortata dalla pace, che promana dalla Luce; una pace che sa vivere anche nella sofferenza, poiché essa non ha i tratti di quella offerta dal mondo, ma promana dalla vita stessa di Dio, sotto la cui tutela sono posti i discepoli della Luce (14,27).

d) in un senso onnicomprensivo di umanità e creazione, il termine compare soltanto 2 volte in 1,29 e 4,29. Soltanto in questi due versetti il termine mondo acquista, in modo significativo, il significato di universalità, evidenziando il senso della missione divina operata da Gesù. Egli, infatti, ha a che fare con due realtà tra loro contrapposte, che hanno segnato l'intera creazione e l'umanità: il peccato, il più grave dei peccati, che non hanno speranza di perdono: quello contro lo Spirito Santo (Mt 12,31.32; Mc 3,29), cioè l'incredulità, che rende inutile ogni sforzo di salvezza divina. Ma la venuta di Gesù, indicato da Giovanni come la Luce, tenta di squarciare le tenebre di questa incredulità, che oppone gli uomini a Dio, offrendo ad essi, indistintamente, la riconciliazione. Per questo messaggio di pace e di riconciliazione, offerto agli uomini da parte del Padre nel Figlio, Gesù si qualifica a pieno titolo il “salvatore del mondo”, sottolineando in tal modo l'universalità della sua azione salvifica e che verrà rimarcata in 12,32: “quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”.


13) L' Ora (éra; óra)


Il termine “Ora” è un'espressione temporale che ricorre in Giovanni 26 volte e assume connotazioni diverse a seconda del contesto in cui essa si colloca. Queste diversità, a nostro avviso, sono raggruppabili in tre diversi contenitori, dei quali due sono particolarmente significativi:


a) L'ora, come semplice indicazione temporale, si trova nei vv.5,35 e 11,9. Qui il termine esprime soltanto una quantità di tempo ed è teologicamente e cristologicamente irrilevante.

b) L'ora che allude alla manifestazione del Verbo. Il termine qui ricorre sette volte185. Si tratta di una indicazione temporale, che specifica il compiersi di un evento, che proprio per la sua collocazione in quell'ora determinata assume una connotazione rivelativa. Si parla, infatti, di “ora sesta” (4,6; 19,14), di “ora settima” (4,52), “di ora decima” (1,39), che, secondo il calcolo romano del giorno186, indicano un tempo che corrisponde rispettivamente alle nostre ore 12,00, 14,00 e 16,00. Sono ore, quindi, di luce piena; una luce che ha attinenza con la luce rivelativa propria del Verbo: “Era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che viene nel mondo” (1,9)187. L'ora, dunque, in questi casi, indica il tempo della rivelazione, in cui Gesù, attraverso gli eventi, che si compivano in quelle ore specifiche, manifestava la sua divinità. L'episodio della Samaritana, che si compie all'ora sesta, nella pienezza della luce del giorno, è il racconto del rivelarsi di Gesù al mondo dei Samaritani, che proclamarono la loro fede in lui: “e dicevano alla donna: «Non crediamo più per il tuo discorso; infatti noi stessi (lo) abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo»” (4,42). Ma la stessa Samaritana, gradualmente, giunse a comprendere il mistero, che si celava in Gesù: egli era l'acqua viva di vita eterna (4,); era un profeta (4,19); era il Cristo (4,24-25). Similmente, sempre nella pienezza della luce del giorno, Pilato proclama ai Giudei la regalità di Gesù: “Ora, era la preparazione della pasqua, era circa l'ora sesta. E dice ai Giudei: <<Ecco il vostro re>>” (19,14). Così anche il secondo segno, compiuto a Cana di Galilea, avviene nella settima ora, le ore 13,00, cioè nella pienezza della luce (4,46-54).

Ma vi è anche un'ora, che parla non di rivelazione o manifestazione, ma di un incipit, cioè di un tempo particolare, una sorta di kairós188, in cui, attorno alla croce si coagula il primo nucleo fondativo della chiesa, che sarà investito dallo Spirito, rilasciato dal Gesù morente: “Poi dice al discepolo: “<<Ecco la tua madre>>. E da quel momento il discepolo la prese con sé” (19,27). Fu questa l'ultima consegna che Gesù lasciò a Giovanni e a sua Madre, una sorta di testamento spirituale; dopo di che “disse: << È compiuto>>. E piegato il capo, consegnò189 lo Spirito” (19,30). Si tratta di una effusione dello Spirito che consacra quel primo nucleo ecclesiale. La Chiesa, dunque, ha avuto inizio dal testamento spirituale di Gesù, consacrato dal sigillo dello Spirito.

c) L'ora, come tempo del compimento, riguarda da un lato Gesù, dall'altro il tempo da lui inaugurato e che seguirà dopo la sua dipartita e che comporterà un nuovo accadere di eventi. Qui il termine ricorre 17 volte, di cui 8 riguardanti Gesù e 9 ineriscono al compiersi dei nuovi tempi. Quanto a Gesù, per tre volte viene detto che non era ancora giunta l'ora (2,4; 7,30; 8,20); ma a ridosso della sua passione, morte e risurrezione (12-17) si annuncia che l'ora è giunta190. L'ora, dunque, indica il tempo del compiersi del mistero della salvezza, che ha come contenuto essenziale la morte di Gesù e la sua glorificazione. L'annuncio del compiersi di quest'ora è articolato secondo uno schema concentrico in B):


A) v.12,23: si annuncia che l'ora della glorificazione è giunta;

     B) vv. 12,27; 13,1: il turbamento e il passaggio dal mondo al Padre;

A') v.17,1: si annuncia che l'ora della glorificazione è giunta


I vv.12,23 e 17,1 formano tra loro inclusione per identità di tema, la glorificazione; mentre i vv.12,27 e 13,1 specificano le modalità con cui si attuerà questa glorificazione. Non si tratta di una marcia trionfale, poiché essa sarà preceduta da un profondo turbamento che sconvolgerà l'animo di Gesù, creando in lui una sorta di stato confusionale e di smarrimento191. È, infatti, una glorificazione, che deve passare attraverso la dolorosa e sconvolgente morte di croce, che comporterà un transito da questo mondo verso il Padre. Una passione e una morte che Luca, l'evangelista medico e storico, unico tra gli evangelisti, attesta come profondamente angoscianti: “In preda all'angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra” (Lc 22,44). Sarà una glorificazione, che il Padre opererà in Gesù, restituendogli quella gloria che aveva presso di Lui prima della creazione del mondo (17,5); ma nel contempo questa glorificazione del Figlio sarà anche quella del Padre, poiché in questa incarnazione-morte-risurrezione il Padre ha attuato il suo disegno di salvezza a favore dell'intera umanità e della stessa creazione, legata ai destini dell'umanità (Rm 8,19-23), riconducendole nuovamente in se stesso (1Cor 15,20-28).

Quanto al tempo originato dal Risorto e che comporterà l'accadere di nuovi eventi, esso esprime l'avvento di un nuovo culto, non più legato al potere del Tempio, ma al cuore dell'uomo, in cui si celebrerà l'autentico culto spirituale a Dio gradito (Rm 12,1). Un culto che si esprimerà nella vita stessa, rivolta autenticamente verso Dio (4,21.23). Sarà il tempo in cui la salvezza sarà aperta anche al mondo pagano, che, avendo accolto in se stesso la Parola del Figlio, verrà tratto dal sepolcro della sua idolatria e rigenerato ad una nuova vita (5,25.28). Ma sarà questa anche l'ora del travaglio, poiché ogni nuova vita nasce nella sofferenza e nel dolore di chi la deve partorire. Ecco, dunque, la persecuzione, che creerà paura, dispersione e abbandono del proprio Maestro (16,2.4.32). Sarà, infine, il tempo della pienezza della verità, poiché la sofferenza del nascere a nuova vita aprirà al credente la comprensione delle nuove realtà, a cui è stato rigenerato. Non ci sarà più bisogno di metafore, di simbolismi, di parabole o di similitudini, poiché il dono dello Spirito, che Gesù ha anticipato nel suo morire sulla croce (19,30), porterà i nuovi credenti alla verità tutta intera (16,13-14).


14) Padre (Pat»r; Patér)


Il nome Padre, inteso come Dio, si impone prepotentemente nel vangelo giovanneo per ben 119 volte. Già questa quantità lascia intravvedere la centralità di questa figura, attorno alla quale ruotano altre tre figure: quella del Figlio/Gesù, quella degli uomini, qualificati per la loro incredulità e inintelligenza; e quelli, invece, che hanno fatto la scelta del credere e della sequela. Figure queste, che intrecciano tra loro complessi rapporti, da cui Giovanni trae le sue teologie, e che ho cercato di catalogare in cinque gruppi, tenendo presente che questi rapporti, a motivo della loro complessità e della loro reciproca compenetrazione, non sempre si lasciano facilmente catalogare:


Il Padre, quale luogo di origine e di dimora del Figlio/Gesù

La prima volta che compare il nome Padre è in 1,14, in cui il Padre è presentato come il luogo di origine originante, da cui proviene il Figlio (par¦ patrÒj, parà patrós, dal Padre). La particella “parà”, seguita dal genitivo (patrós), dà l'idea di provenienza, del moto da luogo, imprimendo un movimento, un dinamismo al luogo stesso di provenienza. Per questo abbiamo detto “origine originante”. È il Padre, infatti, che possiede in se stesso la vita e l'ha concessa al Figlio (5,26; 6,57a). Il Padre, per Giovanni, non si presenta come un luogo statico, da cui esce il Figlio di sua spontanea volontà, ma come vita donativa e generante, una sorta di utero materno, da cui il Figlio viene generato ed espulso, cioè mandato192, e da cui il Figlio non solo proviene, ma in esso dimora, vive e si muove193. Un concetto questo che ci viene fornito da 1,18 in cui il Figlio è colto “nel seno del Padre” (e„j tÕn kÒlpon, eis tòn kólpon, nel seno, nel grembo, nell'utero). Significativa è la particella “eis” da cui dipende il termine “kólpon”. Essa indica moto, direzione in, verso. La presenza del Figlio, dunque, si colloca dinamicamente all'interno del Padre e dice non soltanto il suo essere nel Padre, ma anche il suo essere rivolto “verso”, “orientato” verso il Padre194. Il Padre, dunque, è il luogo di origine da cui Gesù è uscito, in cui egli si muove e al quale Gesù è rivolto e tende costantemente. Sono questi due versetti (1,14.18), che scandiscono l'intera dinamica del rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre in tutto il vangelo giovanneo. Colto in questa prospettiva, potremmo dire che il vero attore principale nel vangelo di Giovanni non è Gesù, bensì il Padre195, da cui Gesù è uscito e verso il quale tende196.


Il Padre in relazione e nei confronti del Figlio

L'atteggiamento e la relazione che il Padre sviluppa nei confronti del Figlio sono fondati su di un rapporto di conoscenza e di amore197. Quanto alla conoscenza, non si tratta di un atto intellettivo di apprendimento, bensì di un rapporto di esperienza198, che lo lega al Figlio e ne fa una sola cosa con Lui. Il Padre, infatti, ha comunicato al Figlio la sua stessa vita, così che con il Figlio è in una stretta e profonda comunione simbiotica, possedendo entrambi l'identica vita (5,18). Si tratta, dunque, di una conoscenza, che è esperienza vitale del Figlio, in cui il Padre si riconosce e si compiace199. Quanto all'amore nei confronti del Figlio, questo, più che un sentimento, di cui Dio, in quanto Spirito, è totalmente privo, delinea un atteggiamento e un comportamento di totale apertura di Sé nei confronti del Figlio, di totale donazione di Sé al Figlio e della totale accoglienza in Sé del Figlio. Ed è proprio questo tipo di amore e di conoscenza, che unisce il Padre al Figlio, che porta il Padre a mettere nelle mani del Figlio ogni cosa (3,35), manifestando tutto Se stesso, le profondità del suo Essere, al Figlio (10,15; 5,20). Ma ancor prima, l'amore nei confronti del Figlio si è concretamente a lui manifestato nel comunicargli la sua stessa vita, entrando in tal modo il Figlio in una profonda comunione divina con il Padre (5,26; 6,57a), facendo sì che i due fossero, pur nella distinzione dei ruoli loro propri e di persone, una cosa sola (10,30; 17,11.21.22). Segno indelebile di questo dono di comunione di vita divina al Figlio è lo Spirito, che sancisce la coeternità e la coesistenza del Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio e che consacra il Figlio al Padre, facendone una cosa sola con Lui e in Lui, così che il Figlio diventa il riflesso vivente del Padre (6,27; 10,36; 14,9.10.11), irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3). Per questo il Padre non abbandona mai il Figlio ed è, di conseguenza, testimone del suo operare, in cui agisce il suo stesso operare (8,16.18; 10,38; 14,10). Il Padre è anche colui che glorifica il Figlio (8,54b; 12,16), cioè fa apparire e trasparire nel Figlio quella gloria divina che gli è propria fin dall'eternità (17,5), poiché fu proprio Lui, il Padre, ha concedere al Figlio di avere in se stesso la sua vita divina.


Il Figlio in relazione e nei confronti del Padre

La prima impressione, che traspare dalla relazione che Gesù intrattiene con il Padre, è di assoluta dedizione e consacrazione a Lui, verso il quale è totalmente rivolto, come ad un assoluto irrinunciabile per il quale vive e dal quale dipende e con il quale è in intima e profonda comunione.

Il fondamento che spiega tutto ciò è la comune divinità che lega i due (5,18) e che fa dei due una cosa sola, pur nel rispetto delle diverse identità, (10,30.38). Gesù, infatti, proviene da Dio, anzi è uscito da Dio stesso e, quindi, da Lui generato (13,3b; 16,28a). Per questo egli è un profondo conoscitore delle cose del Padre, non solo perché gli appartiene e ne possiede la natura divina, ma poiché egli dimora in Lui e il Padre in Gesù (10,38; 14,10.11.20; 17,21a). Questa profonda comunione simbiotica fa sì che Gesù sia l'azione stessa del Padre, operando in consonanza con Lui e a Lui è profondamente e intimamente legato, così che dall'operare di Gesù traspare quello del Padre (5,17.19). Posta in questi termini, l'obbedienza di Gesù, che egli attesta conformandosi pienamente al Padre, di cui ricerca la volontà200, e verso il quale è, per sua natura, rivolto (1,1-2; 6,57) e per il quale vive (6,57), non ha da intendersi come un atto di soggezione forzata del Figlio nei confronti del Padre, ma come uno spazio accogliente, che il Figlio opera, necessariamente, in se stesso, per sua conformazione naturale verso il Padre, da cui dipende (5,19.30; 8,28), da cui ha ricevuto tutto201 e di cui Gesù riconosce la sua assoluta grandezza senza pari (10,29; 14,28). In tal modo, dall'operare di Gesù traspare quello del Padre, anzi, l'operare di Gesù è quello proprio del Padre (14,7-11). Gesù, azione del Padre, diventa, pertanto, lo spazio storico entro cui il Padre incontra gli uomini e ne opera la salvezza.

Egli nei confronti del Padre si qualifica come il suo consacrato (10,36a) e il suo inviato202, le cui opere testimoniano tale sua posizione, rivelando il suo particolare rapporto con il Padre (5,36; 14,10-11). Il suo invio, tuttavia, non va inteso come una sorta di vocazione, conseguente ad un mandato, poiché l'invio di Gesù è il suo uscire stesso dal Padre203. Ed è proprio questo suo uscire dal Padre, che lo costituisce come inviato e testimone d'eccellenza del Padre stesso, in senso assoluto. Giovanni attesta, infatti, che “Nessuno ha mai visto Dio; l'Unigenito Dio, colui che è nel seno del Padre, quello (lo) mostrò204 (1,18). Gesù, tuttavia, non è solo testimone e rivelatore del Padre, perché è uscito dal Dio, ma perché egli manifesta ai suoi ciò che egli ha udito e ha visto presso il Padre205. Nulla di ciò che Gesù compie e dice viene da lui, ma dal Padre206.


Il Padre e il Figlio in relazione agli uomini

Il rapporto, che relaziona il Padre con il Figlio e fa sì che il Padre si rifletta nel Figlio e il Figlio nel Padre, così che i due formano tra loro una sola cosa, questo rapporto si proietta inevitabilmente anche nella relazione che essi intrattengono con gli uomini e in particolar modo con i credenti. Amare e onorare Gesù, significa, ipso facto, amare e onorare il Padre, che si compenetra nel Figlio, come questi nel Padre. Per questo il Padre contraccambierà questo amore credente con il proprio; e l'amore dei credenti verso di loro si manifesta nel conformarsi esistenzialmente alle esigenze del Padre, rivelate nel Figlio (14,21.23), così che nella misura in cui la vita si conforma alla rivelazione del Padre, manifestatasi nel Figlio, anche l'amore del credente rimane in loro (15,10.23; 16,27). E quando si parla di amore (già lo si è detto sopra) non si parla mai di un sentimento o di una spinta emotiva, ma di un atteggiamento che caratterizza la relazione del Padre/Figlio con il credente come una totale apertura e accoglienza da parte loro nei suoi confronti; come un loro donarsi al credente così da stabilire in lui la loro dimora (14,23). L'amore, dunque, che caratterizza il rapporto Padre/Figlio, qualifica anche il loro rapporto con i credenti, che vengono in tal modo inclusi in un circolo vitale di amore divino, che è la vita stessa di Dio (1Gv 1,3-4).

Se credere, dunque, significa essere inseriti nel ciclo amoroso della vita divina stessa e appartenervi, l'entravi non è iniziativa dell'uomo, bensì di Dio (15,16a), la cui finalità è quello di affermare il credente in questo ciclo di amore, perché cresca in esso e la sua crescita si affermi in modo duraturo (6,40; 15,16b). L'obiettivo, dunque, è quello di ricondurre l'uomo in Dio, così come era nei primordi, e far sì che ci rimanga. All'origine di tutto, dunque, ci sta una scelta da parte del Padre, che si è palesata e attuata in una chiamata in e per Cristo (Gv 6,37.44; Ef 1,4-5). Questa scelta-chiamata ha cambiato radicalmente il porsi del credente nei confronti del Padre/Figlio, per cui egli è stato elevato alla dignità di amico, a cui è stato consegnato il mistero del Padre (15,15); anzi, è stato riconosciuto figlio nel Figlio e in quanto tale vi è impresso in lui il DNA di Dio (Gv 20,21; Gal 4,4-7), lo Spirito Santo, che procede dal Padre, ma che è dono invocato del Figlio per il credente e che lo porterà alla pienezza della rivelazione (14,16.20.26; 15,26). Insignito, dunque, dello Spirito, che è vita di Dio e che lo accorpa in Lui, il credente entra a far parte del ciclo trinitario, e come tale è accolto da Dio in e per Cristo. Elemento di riconoscimento di questo nuovo stato di vita, che accorpa il credente a Dio, è la comunione dei credenti tra di loro e tale da formare una cosa sola, in cui si rispecchia la comunione e l'unità del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, così da essere come loro una cosa sola (17,11.21.24.25). Questo è il vero elemento identitario della comunità credente.


Gli uomini in relazione al Padre e al Figlio

L'evento Gesù si colloca in modo rivoluzionario e sorprendente in mezzo agli uomini, provocando in essi una frattura. Vi è innanzitutto un diverso modo di relazionarsi a Dio, che non parte più dall'esteriorità del culto e dalla formale osservanza della Legge, né si misura più su questi parametri; Gesù punta, invece, alla sua interiorizzazione e tale da coinvolgere nelle sue profondità l'intera vita dell'uomo, nelle sue mille sfaccettature quotidiane (4,21.23). Il nuovo tempio, dunque, sarà il cuore dell'uomo; lì si celebrerà il vero culto, che ha come vittima sacrificale a Dio gradita la stessa vita del credente, che nei confronti del Padre si qualifica, oltre che vittima, anche come suo sacerdote. Paolo ricorderà alla comunità di Roma proprio questo aspetto del vivere credente: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Si parla di offerta, di sacrificio, di culto, tutti termini che attengono all'attività propria del sacerdote. Il sacrificio a Dio gradito, dunque, sia secondo il Gesù giovanneo che Paolo è il vivere stesso del credente, che si qualifica anche come il nuovo tempio, in cui il Padre e il Figlio prendono dimorano207.

Di fronte a questi nuovi parametri, su cui commisurare il proprio relazionarsi a Dio, l'uomo è chiamato a decidersi. Si tratta di una scelta innovativa, che chiede l'abbandono degli antichi modi e degli antichi schemi di relazionarsi a Dio e delle sicurezze che questi fornivano; si tratta di una scelta che deve seguire gli impulsi rinnovanti dello Spirito e che mette in discussione il proprio modo di vivere e di essere. Alla fine dei giochi, questa scelta si rivelerà essere una vera e propria chiamata da parte del Padre, che si manifesta nel Figlio, il quale funge da mediazione tra il Padre e il nuovo credente . Nessuno, infatti, può aderire a Gesù e alla sua offerta di salvezza se non gli è concesso dal Padre (6,65); così come nessuno può raggiungere il Padre se non per mezzo di suo Figlio (14,6b), che si qualifica di fronte al nuovo credente come la Via, la Verità e la Vita (14,6a). In questo nuovo gioco di relazioni Padre-Figlio-credente assume una rilevanza decisiva l'adesione esistenziale del credente all'offerta di salvezza rivelatasi nel Figlio. Questa diventa un'attestazione esistenziale di amore da parte del nuovo credente, che viene, per ciò stesso, accolto e inserito nel ciclo vitale di amore del Padre e del Figlio, associato, quindi, alla vita divina stessa208.

La proposta di un culto innovativo da celebrarsi non più nel tempio, secondo le prestabile sacre leggi liturgiche dettate dal Levitico e consolidate nella Tradizione, bensì, mossi dallo Spirito, nel cuore e nella vita di ogni credente, non era facile da accettarsi, poiché chiedeva un salto di qualità, che destabilizzava il potere sacro della classe sacerdotale e delle autorità religiose. Da qui l'incredulità e l'inintelligenza, che nel racconto giovanneo caratterizza il mondo del giudaismo, resosi impermeabile alla chiamata di Dio, manifestatasi in Cristo209.


15) Rimanere (mšnw; méno)


Il verbo rimanere ricorre in Giovanni 40 volte. Esso significa sempre il perdurare di una determinata azione ed assume prospettive diverse a seconda del contesto in cui esso è inserito. Vi è, pertanto:


Il rimanere che qualifica Gesù

Gesù si qualifica come il luogo del rimanere divino. Lo Spirito e il Padre sono con lui e rimangono in lui, operando in e con lui (1,32.33; 14,10). L'operare di Gesù è, pertanto, un operare trinitario. Egli va colto come l'azione di Dio, che opera in mezzo agli uomini con la potenza rinnovatrice e rigenerante dello Spirito (Lc 4,18-19; 11,20), collocando l'uomo in una nuova posizione nei confronti di Dio. Per questo, per entrare nel suo Regno, è necessario rinascere dall'alto per mezzo della potenza rigeneratrice dell'acqua e dello Spirito (3,3-6). L'efficacia, la potenza divina e la stabilità duratura della sua azione viene evidenziata da Giovanni, che riporta una credenza popolare, secondo la quale “il Cristo rimane in eterno” (12,34); una credenza che lascia tuttavia risuonare in se stessa la voce di Is 9,5-6 e di Dn 7,13-14210, che inneggiano alla grandiosità e alla stabilità duratura dell'azione divina del Messia in mezzo agli uomini e che la chiesa primitiva ha attribuito a Gesù. Se il rimanere che riguarda Gesù lo colloca nell'area della divinità, vi è anche un altro suo rimanere, che lo associa agli uomini e lo rende solidale con loro. I suoi due primi discepoli, sospinti da Giovanni verso di lui, gli chiedono “dove abiti?” (1,35-38), letteralmente “dove stai”, “dove rimani”. La risposta verrà data in 14,25: “Vi ho detto queste cose mentre sto con voi (par' Øm‹n mšnwn, par'imîn ménon)”. Gesù, dunque, si presenta come colui che sta con l'uomo, ne condivide le sorti ed è a suo favore; e l'efficacia della sua presenza è garantita dall'azione dello Spirito, che sosterrà i credenti nel loro cammino verso la verità tutta intera (16,13). Gesù, dunque, è il Dio-con-noi e il suo permanere con noi e per noi è garantito dalla sua promessa, con cui si chiude significativamente il racconto matteano: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b)211.

Il rimanere che qualifica il discepolo

Il discepolo viene definito come colui che “rimane presso Gesù e in Gesù”. È significativa l'esortazione che Gesù rivolge ai due discepoli del Battista: “Venite e vedrete” (1,39a). Un verbo al presente (venite) e l'altro al futuro (vedrete); lo spazio temporale che intercorre tra il presente e il futuro indica il cammino di trasformazione del discepolo, che nella fedele sequela del proprio Maestro, nel suo rimanere con lui viene introdotto alla piena comprensione del mistero di Dio, rivelatosi in lui (vedrete). Un vedere che toglie dalle tenebre e apre il credente alla luce di Dio, manifestatasi in Gesù, e lo colloca in essa (12,46). Non a caso Giovanni sottolinea l'ora dell'incontro tra Gesù e i due discepoli: “era circa l'ora decima” (1,39c). E' l'ora pomeridiana della pienezza della luce. L'incontro con Gesù porta i due discepoli a “rimanere” presso di lui (1,39b); un “rimanere”che definisce lo stato di vita del vero discepolo. Un “rimanere” che lascia intuire un profondo e intimo rapporto tra discepolo e Maestro, così che i due si compenetrano vicendevolmente formando tra loro una cosa sola, in cui si riflette il rapporto di profonda comunione e compenetrazione del Padre nel Figlio e di questi nel Padre212. Ciò che attua questa profonda comunione di vita è il conformarsi esistenzialmente del discepolo alle esigenze del proprio Maestro, lasciandosi compenetrare e permeare dal suo modo di vedere, di sentire e di essere, facendo del suo Maestro la propria forma mentis (6,27.56; 15,10). In questa prospettiva di vita il discepolo è sollecitato dal proprio Maestro, alimento spirituale della propria vita (6,27), che gli consentirà di “rimanere” nella casa del Padre, qualificandosi egli come suo figlio (8,35). In tal modo il discepolo, in Cristo e per Cristo, acquisisce un'identità divina, che lo assimila a Dio, facendolo figlio nel Figlio e in lui nuovamente sua immagine e somiglianza213. Rimanendo il discepolo nella dimensione del suo Maestro, il suo vivere sarà salvifico e produrrà frutti permanenti di salvezza (15,16), non soltanto per se stesso, ma anche per chi incontrerà sul cammino della propria vita, poiché il suo vivere e il suo operare è compenetrato e permeato dalla potenza di Dio.

IlI  Il rimanere che discrimina il credente dal non credente

Vi è, poi, anche un “rimanere” discriminante: il credente rimane in Gesù, avendolo accolto nella propria vita, che da questo pane di vita eterna è alimentata e fecondata (6,51); ma vi è anche “un rimanere nel peccato” (5,38; 9,41), come conseguente rifiuto di Gesù, che si contrappone al “rimanere nella sua parola” (8,31), che qualifica, invece, il vero discepolo. Questo rimanere nella parola dice come il vero credente abbia conformato la sua vita ad essa, facendo della Parola il leit motiv dominante della propria vita.

Il   Il rimanere come giudizio divino

Questo “rimanere nel peccato” sottolinea la persistente e invincibile opposizione a Dio, rivelatosi nel Figlio, che preclude ogni possibilità di salvezza. Per questo “Colui che crede nel Figlio ha la vita eterna; ma chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio rimane su di lui” (3,36). Il “rimanere nel peccato”, quindi, ha come suo corrispettivo “l'ira divina che rimane”, anch'essa persistente, sulla irriducibilità del rifiuto. Ci troviamo di fronte al compiersi di un giudizio, che si attua hinc et nunc, anzi che già si è compiuto e che, pertanto, toglie ogni speranza di riscatto: “Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio” (3,18).

Il rimanere nel senso fisico di restare

Il verbo rimanere, infine, nel senso di restare in un determinato luogo fisico ricorre dieci volte. Esso non sembra assumere un qualche significato teologico, ma si limita a soddisfare esigenze narrative214.


16) Spirito Santo (Pneàma ¤gion; Pneûma ághion)

La voce Spirito ricorre nel vangelo giovanneo 27 volte, di cui per 4 volte viene indicato con il termine di Intercessore215 (par£klhtoj, parakletos). Anche qui il sostantivo Spirito assume sfaccettature diverse a seconda del contesto in cui esso viene collocato e le relazioni che intreccia con i diversi personaggi del racconto. Si ha pertanto:



L'identità dello Spirito

Lo Spirito si presenta come l'elemento discriminante tra l'uomo e Dio, poiché egli non solo indica la natura stessa di Dio (4,24a), ma anche quella del suo mondo, del suo vivere, del suo essere. Esprime in modo sublime la realtà stessa e qualificante di Dio. Esso si contrappone alle realtà umane, che sono espresse con ciò che è l'esatto opposto dello Spirito: la carne, colta nella sua totale fragilità e incapacità di elevarsi a Dio, per cui ciò che nasce dalla carne è carne, mentre ciò che nasce dallo Spirito è Spirito (3,6), una insanabile frattura, che divide e contrappone due mondi. Il contrasto viene maggiormente accentuato quando le due realtà vengono poste in diretto confronto tra loro: lo Spirito è il generatore della vita per eccellenza, mentre la carne non vale niente (6,63). Forse risuona qui un lontano ricordo della creazione dell'uomo e del suo dramma, quando egli, rivestito dello Spirito di Dio, venne associato alla sua stessa vita (Gen 2,7); mentre la perdita dello Spirito, dopo la colpa, lo vede spogliato dello Spirito (Gen 3,7a.10b), per cui viene relegato al mondo animale, con quel gesto simbolico di Dio, che lo rivestì con pelli di animali (Gen 3,21). Da questo momento i due mondi e le due realtà si allontanarono tra loro, relegate in una insuperabile frattura e incomunicabilità (Gen 3,22-24).

Lo Spirito si qualifica come il successore nell'opera di Gesù e il suo continuatore nei confronti degli uomini e in particolare dei nuovi credenti. Gesù, infatti, vede nello Spirito “un altro Intercessore” (14,16), che come lui è inviato dal Padre e da lui è uscito216 e come lui intercederà presso il Padre a favore dei credenti. La sua venuta, tuttavia, non è autonoma e neppure il Padre lo invia per sua iniziativa; ma l'invio dello Spirito passa attraverso l'intercessione del Figlio (14,16a.26; 15,26), come atto complementare e conclusivo della sua missione, assegnatagli dal Padre. Soltanto lo Spirito, infatti, è in grado di generare i veri figli di Dio, poiché dalla carne non nasce che carne; sarà lo Spirito, che dimora e vive nelle parole di Gesù, che imprimerà in loro una potenza generativa, capace di generare i veri figlio di Dio. Per questo la parola di Gesù è “Spirito e Vita” (6,63b). L'autore della prima lettera di Pietro sottolineerà questo particolare aspetto della potenza generativa della Parola: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1,23). Lo stesso Paolo nella sua lettera alla comunità di Roma sottolinea come la fede, questo aprirsi esistenzialmente a Dio per accoglierlo nella propria vita, dipende esclusivamente dalla Parola: “La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17). Compito dello Spirito, se da un lato è generare con la potenza di Dio nuovi credenti, dall'altro è accompagnarsi ai credenti nel loro cammino verso Dio e illuminarli, portandoli alla piena comprensione dell'evento Gesù e alla verità della sua rivelazione (14,26; 16,13). Non si tratta di dare dei nuovi insegnamenti aggiuntivi, ma di approfondire in pienezza quelli lasciati in eredità da Gesù ai suoi, rendendoli raggiungibili da tutti, così che tutti possano accedere in pienezza presso il Padre (15,26); è lui, Gesù, infatti, la Parola rivelatrice del Padre; è in lui che il Padre si manifesterà e opererà in pienezza in mezzo agli uomini (14,9-11). Lo Spirito, dunque, continuerà l'opera di Gesù presso i suoi, dispiegando la potenza della sua Parola e rendendo accessibile ai credenti il suo mistero.

Lo Spirito, in cui Gesù vive, qualifica il suo operare

Gesù si pone nei confronti dello Spirito come il luogo della sua dimora e della sua pienezza. Il Battista dà la sua testimonianza e vede scendere su Gesù lo Spirito e rimanere su di lui (1,32.33). Proprio per questo l'agire di Gesù è l'agire stesso di Dio e, proprio per questo, in Gesù agisce la potenza di Dio; il suo agire è salvifico, cioè capace di ricollocare l'uomo in Dio, rivestendolo nuovamente del suo Soffio primordiale (Gen 2,7); per questo Gesù “è colui che battezza in Spirito Santo” (1,33b), perché “reimmerge” l'uomo in Dio, da cui proviene, attraverso la potenza del suo Spirito. In Gesù, dunque, dimora la pienezza dello Spirito (7,39), che egli effonde attraverso la sua parola e le sue opere (3,34); e coloro che lo accoglieranno verranno trasformati in figli di Dio dalla potenza dello Spirito, che opera in Gesù e nella sua parola (1,12-13). I miracoli di guarigione, compiuti per la potenza dello Spirito, annunciano l'irrompere della potenza di Dio in mezzo agli uomini e ne sono un segno significativo (Lc 11,20). Non a caso i Sinottici indicano i miracoli con il termine “dun£meij” (dinámeis), che significa azioni di potenza; mentre Giovanni li definisce “shme‹a” (semeîa), cioè segni, attraverso cui traspare l'agire di Dio e ad esso rimanda. Non soltanto Gesù parla e opera con la potenza dello Spirito, ma il suo stesso vivere e il suo stesso sentire è quello proprio dello Spirito. Di fronte alla commozione generale, che turbava l'animo dei Giudei e delle due sorelle di Lazzaro per la sua morte, anche Gesù si lascia trasportare dallo Spirito e in esso freme per il dolore degli uomini, rendendosi solidale con la loro sofferenza (11,33); così, similmente, durante la cena di addio dai suoi, ancora una volta Gesù si lascia trasportare dallo Spirito verso quell'ora, che lo spaventa, ma che per questa era venuto (12,27) e dà la testimonianza dello Spirito, che vive in lui: “Dopo aver detto queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e testimoniò e disse: <<In verità, in verità vi dico che uno di voi mi consegnerà>>” (13,21). In entrambi i casi l'espressione che Giovanni usa non è “yuc»” (psiché), che significa anima, animo, soffio vitale, psiche, spirito e che ha stretta attinenza con l'uomo e la sua umanità; bensì usa “pneàma” (pneûma) con riferimento al sentire di Gesù, che si muove nello Spirito e in esso vive ed opera. Ed è proprio questo Spirito, che egli renderà al Padre al termine della sua missione terrena (19,30); uno Spirito che effonderà dalla croce sul primo nucleo della comunità credente, ai suoi piedi (19,26-30).

Lo Spirito qualifica il credente e il suo relazionarsi con Dio

Il nuovo credente si qualifica come colui che è stato generato dallo Spirito e per questo, permeato nuovamente della vita divina, viene ricollocato in Dio (3,5). Il primo segno della sua spiritualizzazione è la rottura di ogni schema religioso, che lega a culti e a riti il suo rapporto con Dio, che, invece, viene celebrato nel culto del proprio cuore e della propria vita. È significativo quanto Gesù dice alla Samaritana, che cercava la purezza del culto, ancorandolo alla legalità del tempio (4,20): “Credimi, donna, che viene l'ora allorché né in questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano” (4,21.23). Similmente, Paolo esorta la comunità di Roma ad essere sacerdoti della propria vita, vista come il luogo di culto divino a Dio gradito: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Come Dio non può essere imbrigliato da culti, riti e preghiere, così il nuovo credente, che si lascia muovere dallo Spirito, viene qualificato come figlio di Dio (Rm 8,14). Del resto, Gesù stesso, che era mosso dallo Spirito e in esso si muoveva217, ruppe tutti gli schemi religiosi218, che imprigionavano e soffocavano l'uomo nel suo rapporto con Dio, creando stupore, inquietudine, incomprensioni, disagio, irritazione, tradimenti fino ad arrivare ai propositi omicidi delle autorità religiose dell'epoca219. Gesù, pertanto, spinge il nuovo credente a relazionarsi al Padre in modo nuovo, non più secondo i vecchi schemi cultuali, ma secondo le logiche dello Spirito, poiché il Padre è spirito (4,24; Rm 7,6). Lo Spirito, questa è l'onda su cui il nuovo credente è chiamato a sintonizzarsi con Dio; lo Spirito è il nuovo linguaggio che il credente deve parlare per comprendere quello divino (1Cor 2,13-16). Esso è il linguaggio di Dio, che lo porterà alla verità tutta intera e ad accostarsi e a penetrare il mistero stesso di Dio (14,26; 15,26; 16,13), poiché è proprio lo Spirito che viene dalle profondità di Dio e ne conosce i segreti (1Cor 2,10-12). È proprio lo Spirito che rieduca l'uomo a relazionarsi con Dio e a riprendere quel dialogo bruscamente e drammaticamente interrotto nel paradiso terrestre.


17) Testimonianza (martur…a; martiría)


Il termine testimonianza o testimoniare ricorre nel vangelo giovanneo 47 volte e si colloca in due grandi aree: la testimonianza di Gesù e la testimonianza su Gesù. Strano a dirsi, ma tutto ciò che viene detto sulla testimonianza, che proviene da Gesù, non riguarda il Padre o le realtà divine, ma si limita, da un lato, a denunciare sia la perversità del mondo che il tradimento subito da Gesù (7,7; 13,21); dall'altro, ad una lamentela da parte di Gesù per l'incredulità a riguardo della sua testimonianza da parte dei Giudei (4,44; 8,13-14). L'unico aspetto significativo e sostanziale sulla natura della testimonianza proveniente da Gesù ci viene offerto dal v.18,37, in cui Gesù, rispondendo a Pilato, afferma: “[...] Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. [...]”. L'esserci di Gesù, dunque, è finalizzato ad attestare la verità, cioè il piano salvifico del Padre a favore dell'uomo. L'agire del Gesù giovanneo, pertanto, è squisitamente rivelativo. Molto significativo è quel “io sono nato” e “sono venuto nel mondo”. Sembra una tautologia, poiché il nascere comporta sempre un venire al mondo; ma questa rimarcatura allude alla sua provenienza divina, poiché il suo entrare nel mondo, attraverso la nascita, lascia intendere che egli proviene da una realtà diversa da quella mondana, come del resto già traspare in 18,36, e che la verità, a cui egli dà testimonianza, riguarda la realtà da cui proviene: il Padre. Per ben 25 volte ricorre nel vangelo giovanneo l'espressione “mi ha mandato”, con espresso riferimento al Padre. La sua origine, dunque, è il Padre, di cui egli è la manifestazione incarnata e tale che chi vede lui vede il Padre (14,7-10). Accettare, pertanto, la testimonianza di Gesù, come proveniente dal Padre, significa attestare da parte del credente la verità di Dio (3,33).

Contrariamente alla prima, la seconda area occupa uno spazio notevole e particolarmente variegato. Si tratta della testimonianza su Gesù. Le provenienze di queste testimonianze sono molteplici a partire dal Padre, che imprime su Gesù e sulla sua missione rivelatrice il sigillo di veridicità. La testimonianza del Padre, a cui Gesù spesso ricorre, infatti, è una sorta di giuramento, che egli compie di fronte agli uomini, per attestare la verità della sua missione e della sua provenienza, chiamando in causa Dio stesso220. La seconda fonte testimoniale privilegiata su Gesù è lo Spirito Santo, che Gesù invierà ai discepoli. Egli darà testimonianza su Gesù, prendendo da ciò che Gesù ha detto e operato e, illuminando i discepoli, li condurrà alla pienezza della verità, cioè della comprensione del mistero di Gesù e del disegno del Padre in lui rivelatosi (15,26;16,12-15). Si tratta, dunque, di un'attestazione divina sull'evento Gesù, che si tradurrà in una grande e persistente illuminazione dei credenti sull'operato di Gesù, che li porterà ad una piena comprensione (16,12). Una terza fonte di testimonianza su Gesù sono le sue stesse opere, da cui traspare non solo l'attuarsi della volontà del Padre e del suo disegno salvifico, ma anche la stessa provenienza divina di Gesù, quale inviato del Padre (5,36; 10,25; 14,10-11). Vi è poi la testimonianza che proviene dal Battista e che viene indicata come altamente qualificata, poiché egli ha come sua missione personale ed esclusiva quella di rendere testimonianza alla luce, anzi la natura del suo esserci è proprio quella della testimonianza (1,7-8); per questo egli attesta di essere nei confronti di Gesù e della sua missione una figura di secondo piano: egli non è il Cristo, non è Elia, né il Profeta, ma soltanto una voce, che annuncia e dà testimonianza alla vera luce (1,19-23), quella che illumina tutti gli uomini (1,4). Definito chi è il Battista e sgomberato il campo da possibili equivoci (3,26-28), Giovanni rende la sua testimonianza diretta su Gesù. Ne attesta la grandezza, che non ha confronti (1,15); testimonia la consacrazione divina, ricevuta da Gesù nello Spirito, che dimora in lui e su di lui (1,32) e ne dà testimonianza di figliolanza divina (1,34); infine, attesta l'autenticità della missione divina: “Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; colui che è dalla terra è dalla terra e parla dalla terra. Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti; ciò che ha visto e udito, questo testimonia, e nessuno accoglie la sua testimonianza” (3,31-32). Gesù, dunque, proprio perché viene dall'alto, è il testimone unico e privilegiato delle cose del Padre. Vi sono, poi, le testimonianze della Samaritana, che attesta la natura profetica e messianica di Gesù (4,17-19.39) e quella della gente, che attesta la sua potenza divina (12,17). Ma vi è anche la fondamentale testimonianza delle Scritture, che parlano di lui221. Vi è, infine, la testimonianza dei discepoli, che si radica nella loro esperienza e comprensione di Gesù222.


18) Vedere (blšpw / qewršw / Ðr£w; blépo / tzeoréo / oráo)


Il verbo “vedere” in Giovanni ricorre 112 volte e già una simile quantità dice l'importanza che riveste tale verbo nel Quarto Vangelo. La lingua greca possiede tre espressioni verbali per indicare il “vedere”: blšpw (blépo), qewršw (tzeoréo) e Ðr£w (oráo), che nei vangeli, in particolar modo in quello di Giovanni, acquistano sensi e significati diversi. La distinzione tra i sensi, sottesi nelle tre espressione verbali, tuttavia, non è sempre così netta in Giovanni, in particolar modo tra la seconda (tzeoréo) e la terza forma verbale (oráo). Si tratta, comunque, queste ultime due forme, di un vedere sempre superiore a blépo, il cui senso, invece, è ben delimitato. Il primo (blépo) ricorre 20 volte ed esprime un vedere fisico, oggettivo; un vedere che non si interroga, ma che dice soltanto una funzione percettiva e constatativa, scevra da qualsiasi giudizio o da qualsiasi comprensione circa ciò che si vede. Tale verbo è usato significativamente ben 13 volte su 20 nel solo racconto del cieco dalla nascita (9,1). Esso indica la condizione del giudeo nel suo incontro con Gesù. Il cieco, infatti, vede soltanto dopo che è andato al Tempio per soddisfare le prescrizioni mosaiche, ma il suo non è ancora un vedere completo e pieno. Interrogato, infatti, sul come sia avvenuto ciò, egli sa dire esattamente quello che è successo, ma non sa ancora dove si trovi Gesù (Gv 9,11-12). Ci troviamo di fronte ad una persona che sa, ma non ancora pienamente, non in modo tale da sapere dov'è Gesù e tale da potersi avvicinare a lui. Soltanto quando egli è cacciato dalla sinagoga e lascerà, quindi, il giudaismo, soltanto allora egli incontrerà in modo nuovo Gesù (9,34-35) e il suo blépo si trasformerà in oráo, in un vedere qualitativamente superiore, che gli consentirà di cogliere in Gesù la pienezza della potenza di Dio (9,36-38). La sola Legge mosaica, infatti, non è in grado di spiegare lo sconvolgente evento Gesù. Quindi Giovanni usa correttamente il verbo blépo, poiché il vedere del giudaismo di fronte a Gesù non sa darsi una spiegazione. È un vedere opaco, acritico, che non sa ancora andare al di là di ciò che vede. Ma Giovanni, in questo racconto, usa una terza espressione verbale, “tzeoréo”, che esprime un vedere che si interroga di fronte al segno e che prelude il raggiungimento della fede piena, che si compirà nel cieco guarito. È, dunque, un verbo di transizione: dalla cecità del giudaismo che, legato alla Legge giudaica, non sa leggere la novità dell'operato di Gesù, ad una fede piena, passando attraverso l'interrogarsi sull'evento Gesù, espresso dal verbo “tzeoréo”. Tale verbo, infatti, è assegnato a coloro che conoscevano il cieco nato e si interrogavano sul come fosse stato possibile la sua guarigione (9,8). Essi sono definiti con un participio presente, che indica una condizione di vita: qewroàntej (oi tzeorûntes), cioè quelli che di fronte ai segni di Gesù si interrogano sulla sua natura e su ciò che da questi traspare. Essi alludono a quella fascia intermedia del giudaismo che non ha rifiutato pregiudizialmente Gesù, ma si sta interrogando su di lui e sono, quindi, disposti ad aderire a lui.

Un uso particolare, ma teologicamente molto significativo, viene fatto di blépo in 5,19, in cui si attesta che il Figlio fa soltanto ciò che “vede fare dal Padre”, così che ugualmente il Figlio lo fa. L'uso di blépo in questo contesto sottolinea due cose: Gesù è in diretto contatto con il Padre, con il quale ha un rapporto privilegiato ed esclusivo, che gli consente di conoscerlo a fondo; dice inoltre come ciò che egli, Gesù, compie, riproduce ciò che ha visto, senza mettere niente di suo; quindi l'operare di Gesù è fedelmente rivelativo del Padre, a cui egli si è sottomesso. Il verbo blépo, infatti, esprime un vedere fisico e acritico, che riproduce, quasi fotograficamente, ciò che si è visto.

Un altro uso che Giovanni fa di blépo lo si trova in 9,39 e 9,41 in cui si evidenzia un “vedere”, che non riesce a trascendere la realtà di ciò che si vede; quindi blépo, in questo caso, è il verbo dell'incredulità o, meglio, della non fede o della fede ancora acerba, come in 20,1 e in 20,5.

La seconda espressione verbale “tzeoréo si presenta nel racconto giovanneo 25 volte. Già si è accennato sopra come questo verbo si colloca tra un vedere, che esprime ancora una fede acerba o inesistente (blépo), e la piena visione del mistero nascosto in Gesù (oráo). Si tratta di una fase intermedia in cui viene interpellata l'intelligenza, che prelude in qualche modo alla fede e la prepara; è la fase della investigazione, dell'osservazione, della riflessione, della critica e dell'intuizione che consente di scorgere e di intravvedere. Non si è ancora giunti alla pienezza della fede. Il significato del verbo, infatti è scorgere, osservare, esaminare, meditare, investigare, valutare. In Giovanni questo verbo, a differenza di blépo, ha già a che fare con le realtà divine, ma lascia intendere come questa sia ancora una visione imperfetta. Gli oggetti di questo modo di vedere sono “la sua gloria” (1,14), che costituirà l'oggetto della investigazione dell'intero racconto giovanneo, in particolar modo nella sua seconda parte (13-20); la visione dello Spirito, che scende e rimane su Gesù (1,32), la cui comprensione si avrà soltanto nei capp.14 e 16; i segni compiuti da Gesù, che hanno smosso alla fede molti Giudei e spinto alla sequela le folle (2,23; 6,2); ma la loro fede non era ancora giunta a pienezza, così che Gesù diffida di loro e li redarguisce duramente (2,24; 6,26); il vedere della Samaritana in Gesù un profeta (4,19) è inficiato dalla polemica che animava la rivalità tra i due templi: quello di Gerusalemme e quello del monte Garizim (4,20) e che provocherà il richiamo di Gesù (4,21); il vedere Gesù che cammina sulle acque, che provoca nei discepoli un moto contrario alla fede: la paura (6,19), perché ancora non avevano compreso la sua divinità (6,20), che quel suo camminare sulle acque, accompagnato da quel “Io sono”, invece, richiamava (Gen 1,2b); il vedere il Figlio e credere in lui (6,40), anche qui si parla di una visione incompleta di Gesù, che necessita del credere in lui; vedere e credere qui, infatti, sono separati tra loro e rappresentano due momenti di un cammino di fede, che porta a credere in Gesù; vi è poi il sollecito dei fratelli di Gesù, che lo esortano a far vedere le sue opere ai suoi discepoli, così che egli si manifesti pubblicamente e si crei un seguito (7,3-4); si è, qui, ancora nell'ambito di una visione sensazionalistica di Gesù: si intuisce la sua grandezza, ma non si è ancora in grado di capire da dove viene; infatti, commenta l'evangelista, “i suoi fratelli non credevano in lui” (7,5); anche l'affermazione di Gesù che chi crede in lui non vedrà la morte (8,51), il non vedere, qui, non è ancora una certezza., poiché è condizionato dal credere; si ha, poi, il vedere del mercenario; esso è un vedere che è disinteressato, poiché percepisce nettamente il pericolo, ma non sente la sua responsabilità nei confronti delle pecore, per cui le abbandona (10,12-13); così anche il vedere dei giudei, presenti alla risurrezione di Lazzaro, i quali “videro e credettero”, ma il loro credere è ancora immaturo, poiché ancora troppo legato ad un vedere sensazionalistico, così che alcuni di questi non esitarono a denunciare Gesù presso le autorità religiose (11,45-46); il vedere le bende per terra, al sepolcro di Gesù, spinge Pietro a riflettere su ciò che può essere accaduto; intuisce, ma ancora non capisce (20,6), poiché la sua fede è ancora molto lontana dalla verità. L'evangelista, infatti, commenta: “Non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (20,9); la Maddalena che al sepolcro vede Gesù (20,14a), ma non lo riconosce (20,14b), perché anch'essa non aveva capito che era risorto (20,13). Sono tutti esempi questi in cui viene usata l'espressione verbale “tzeoréo” per indicare una visione del mistero di Gesù ancora incompleta; un vedere che è incamminato verso l'oráo, ma che ancora non l'ha raggiunto.

Il verbo tzeoréo viene associato per due volte anche a Gesù in 1,38 e in 6,5, in un contesto in cui Gesù sta per operare una scelta: in 1,38 sta per scegliere (li vede) i suoi primi due discepoli per condurli ad una piena visione del suo mistero: “venite e vedrete” (qui il verbo è oráo, il verbo della piena comprensione del mistero); in 6,5 sta per rivelarsi come il vero pane disceso dal cielo e lo fa scegliendo, quale luogo privilegiato, la grande folla, che vede davanti a lui. In entrambi i casi, il vedere di Gesù prelude alla manifestazione del suo mistero.

Vi è, infine, la terza espressione verbale, oráo, che ricorre nel vangelo giovanneo 67 volte. Si tratta di un vedere altamente qualificato, che va al di là delle semplici apparenze e riesce a cogliere le cose di Dio e a penetrare il mistero, che si nasconde in Gesù223. È, dunque, il verbo del vero credente, giunto al termine del suo cammino di fede, dove vede la luce divina, che traspare da Gesù. Ma esso è anche il verbo proprio di Dio, che non si ferma alle apparenze, ma va al cuore dell'uomo. Giovanni usa questo verbo in cinque contesti tra loro diversi, ma nel contempo anche simili; per cui il verbo oráo compare in riferimento al vedere a) riguardante le realtà spirituali224; b) relativo al cammino di fede225; c) riferito al vedere di Dio e di Gesù 226; d) riguardante all'incredulità, probabilmente come azione uguale contraria al cammino di fede227; e) e, infine, strano a dirsi, Giovanni usa questo verbo, che possiede in sé una forte carica spirituale, anche per un vedere materiale, fisico228; a meno che il suo uso, che stride in questo contesto, non nasconda una sottile e talvolta impercettibile ironia, finalizzata a stigmatizzare un certo comportamento di incredulità o di inintelligenza, come espressione di un vedere superiore, ma che in realtà denuncia nei fatti una grande cecità. Similmente al nostro affibbiare il titolo di lungimirante o di spiccata intelligenza ad una persona di mediocre levatura. Potrebbe essere, in tal senso, il caso di 6,24 in cui la folla vide (eiden, eiden) che Gesù non era più là con loro per cui lo ricercano assiduamente, per poi scoprire che il loro interesse per Gesù era soltanto utilitaristico (6,26). Similmente, allorché i Giudei vedono („dÒntej, idóntes) Maria, la sorella di Lazzaro uscire, si alzano tutti per seguirla prontamente (11,31); ma sono proprio quei Giudei, che, pur vedendo Gesù, non solo non lo seguono, ma anche lo contrastano; come dire che la sublimità del loro vedere si ferma a poca cosa. Oppure, sono sempre gli stessi Giudei che accorrono verso Gesù, ma non tanto per vedere lui, quanto Lazzaro (12,9). Come dire che questa gente riesce a vedere il miracolato, ma non chi ha operato il miracolo. Gente che vede il sensazionalistico, ma non riescono ad andare oltre a ciò che vedono. Così, con quel idóntes, Giovanni sembra voler dire che i Giudei sono gente perspicace nella fede, poiché vedono i segni, ma non li sanno leggere.

Al di là, comunque, di quest'ultima eccezione, va detto che questo verbo acquista in Giovanni un significato di un vedere, che ha attinenza con le realtà spirituali in senso lato.


1  19) Verità (¢l»qeia; alétzeia)


Il termine “verità” (¢l»qeia) e suoi derivati, come “vero” (¢lhqinÒj, aletzinós), “veritiero” (¢lhq»j, aletzés), “veramente” (¢lhqîj, aletzôs), ricorrono nel vangelo giovanneo 55 volte. Tuttavia, il termine teologicamente più significativo, attorno al quale ruotano anche gli altri, è il sostantivo “verità”, che si presenta 25 volte. È indubbio che questo termine abbia esercitato su Giovanni un certo fascino, così come altrettanto indubbio è che questo termine sia stato mutuato dallo gnosticismo, con il quale si esprimeva il Mistero, oggetto della ricerca e della conoscenza, che si ottiene attraverso una illuminazione interiore229.

La Verità in Giovanni ha una stretta attinenza con la rivelazione, anzi, essa è per eccellenza la rivelazione piena del mistero racchiuso nel Padre (1,14.17), che è matrice e fonte prima, da cui essa defluisce e alla quale Gesù attinge direttamente230, per il suo particolare e specifico rapporto che lo lega al Padre231. E la rivelazione che Gesù fa del mistero del Padre è la Verità, poiché in ciò che egli opera si rispecchia pienamente il mistero del Padre232. Egli, infatti, ha a cuore il fare la volontà del Padre, che costituisce il fulcro centrale del suo essere, tanto da riconoscerlo come il suo alimento vitale233. Gesù, infatti, è venuto nel mondo per rendere testimonianza alla Verità, cioè a svelare il mistero del Padre e il suo progetto salvifico a favore degli uomini; per questo chiunque è dalla Verità ascolta la sua voce; chiunque viene da Dio è da Lui generato ed è anche disposto ad accogliere la parola di Verità, che è parola di vita divina, capace di generare e rigenerare l'uomo in Dio (Gv 18,37; 1Pt 1,23); ma occorre disponibilità interiore per accogliere la Verità, che, invece, rimane sconosciuta al mondo pagano (18,38a). Vi è, però, insito nel concetto di verità anche quello di conformità, di corrispondenza e di fedeltà tra ciò che è rivelato e il mistero del Padre e che potremmo definire con il sostantivo “autenticità”. L'operare rivelante di Gesù, pertanto, è veritiero perché riflette fedelmente il mistero del Padre. Gesù, infatti, fa soltanto ciò che vede fare dal Padre (5,19) e le opere che egli compie, in realtà, è il Padre che le compie in lui (14,10-11); per questo esse assicurano la veridicità della testimonianza di Gesù. Ciò che traspare da Gesù, infatti, non è inquinato da suoi personalismi o interpretazioni, ma possiede l'imprimatur dell'autenticità, al punto tale che chi vede lui vede il Padre (14,8-11). È proprio questa identificazione, che fa dei due una cosa sola (10,30; 17,11.21.22) e che consente a Gesù di indicare se stesso come la Verità per eccellenza (14,6a), cioè come il Mistero del Padre manifestato; per cui aderire a lui significa aderire al Padre (14,6b). Dal Padre, quindi, esce la Verità, cioè, la rivelazione del suo mistero e del suo progetto salvifico a favore degli uomini, per mezzo di suo Figlio234. Essa defluisce da Lui, viene accolta da suo Figlio, il Cristo, e da qui manifestata agli uomini (17,6.26), che da questa vengono interpellati. La verità, quindi, subisce un processo dinamico, che ha come fonte primaria il Padre, come intermediario rivelante il Figlio, come destinataria l'umanità, chiamata a prendere posizione di fronte ad essa (3,16.18). Significativo di questo dinamismo è il v.17,8a: “poiché le parole che mi hai dato ho dato a loro, ed essi (le) accolsero”. “Fare la verità”, altra espressione giovannea (3,21a), significa, pertanto, accogliere la rivelazione del Padre, manifestatasi in Gesù, incarnandola nella propria vita, così che essa diventi il riflesso e la testimonianza del mistero rivelato. Fare la verità significa, anche, lasciar trasparire dalla propria vita l'operare stesso del Padre (3,21b). Di conseguenza i “veri adoratori del Padre” sono quelli che lo adorano “in spirito e verità” (4,23-24), cioè coloro che fanno della loro vita il luogo accogliente del mistero manifestatosi in Gesù, conformandosi esistenzialmente ad esso, così che esso traspaia dalle loro vite. Essi diventano, pertanto, il nuovo Tempio, dove risiede la gloria di Dio; per questo Gesù dirà alla Samaritana che sono giunti i tempi, in cui l'adorazione di Dio, a Lui gradita, non si attua più nel Tempio, ma nel cuore della propria vita, divenuta dimora del Padre e del Figlio (6,56; 14,17). In tal modo, conformando la propria vita a questa Verità, essa libererà il credente dalle tenebre dell'ignoranza, per accreditarlo presso Dio: “Diceva dunque Gesù ai Giudei che gli avevano creduto: <<Se voi rimanete nella mia parola siete veramente miei discepoli e conoscerete la verità, e la verità vi libererà>>”. La Verità, che traspare dalla Parola rivelante di Gesù, diventa, dunque, la forza divina che rigenera l'uomo alla dimensione stessa di Dio (1Pt 1,23), sottraendolo alla schiavitù debilitante e degradante del peccato. La Verità, dunque, è forza di Dio e acquista il senso anche di vita divina in 8,44: “Voi siete dal padre, il diavolo, e volete fare i desideri del padre vostro. Quello era omicida fin dall'inizio e non è stato nella verità, poiché la verità non è in lui. Quando dice il falso, parla di ciò che gli è proprio, poiché è menzognero e suo padre.” Per questo Gesù non è creduto dai Giudei, perché egli dice la verità, cioè è manifestazione del Padre (8,45-46). Il pericolo, quindi, di uscire dalla Verità, dalla vita stessa di Dio, è concreto; per questo Gesù prega il Padre perché santifichi i suoi nella Verità (17,17.19), cioè li renda conformi alla rivelazioni ricevuta e in essa vengano confermati e permangano.

Ma punto di forza del “dopo Gesù” è lo “Spirito di Verità”, che accompagnerà e sosterrà il credente nel suo cammino verso il Padre e gli farà penetrare in profondità la Parola di Verità udita da Gesù, conducendolo nella pienezza del mistero di Dio (16,13-15). La verità, dunque, è conoscenza del Mistero di Dio, rivelato in Cristo, a cui siamo chiamati e dal quale siamo interpellati; ed è proprio il conoscere la Verità, che è sinonimo di vita eterna (17,3).


20) Vivere/vita (z£w / zwopoišw / zw»/ yuc»;

záo / zoopoiéo / zoé / psiché)


Le espressioni vivere, vivificare, vita ricorrono in Giovanni 64 volte di cui 17 con la forma verbale “z£w”, 3 con “zwopoišw”; 36 con il sostantivo “zw»” e 8 con “yuc»”. Già questa piccola statistica, così variegata, indica l'importanza e la complessità che il tema della vita ricopre nel racconto giovanneo. Un'importanza che viene evidenziata anche dalla grande inclusione, che ha i suoi estremi in 3,15 e in 20,31235 e che abbraccia l'intero vangelo caratterizzandolo, in tal modo, come il vangelo della vita divina data all'uomo nella persona di Cristo mediante la fede in lui (3,15.16b; 5,24; 6,47).

Il confronto che si pone subito è il doppio uso che Giovanni fa del sostantivo vita: “zw»” e “yuc»”; il primo viene riservato alla vita divina e a tutto ciò che ha attinenza con questa, mentre il secondo alla vita umana. Significativo è il v.1,4 in cui, dopo la presentazione della dimensione divina del Logos (1,1-3), compare per la prima volta il termine vita: “in lui era vita, e la vita era la luce degli uomini”. La vita, di cui qui si parla, è chiaramente quella divina e per questo tipo di vita Giovanni usa il termine greco “zw»”; così similmente, quando parla della “vita eterna”, espressione che ricorre 17 volte, con la quale intende la vita stessa di Dio, usa sempre il sostantivo “zw»”. Esso, dunque, assume in Giovanni il significato di una vita qualitativamente superiore e che affonda le sue radice in quella di Dio stesso, di cui il credente diviene, hinc et nunc, partecipe in virtù della fede. Significativa, infatti, è l'associazione, che Giovanni pone tra il credere e la vita, in particolar modo là dove egli parla di “vita eterna”236. Il credere, quindi, associa il credente alla vita stessa di Dio. Per contro, Giovanni riserva il termine “yuc»” esclusivamente alla vita umana237, di cui la “yuc»” era la sua espressione dinamica e più qualificata238.

Tuttavia, Giovanni non si limita a indicare nella “zw»” la vita divina accessibile al solo credente, ma ne esprime il suo dinamismo e la sua dinamicità attraverso l'uso del verbo “z£w” e del suo composto “zwopoišw”, che ricorrono complessivamente 20 volte. Tutti questi verbi hanno una triplice qualifica: a) hanno come soggetti e referenti principali il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e come soggetti e referenti secondari, dipendenti dai primi e conseguenti a questi, i credenti; b) tutti i verbi riferentesi ai primi sono posti all'indicativo presente e c) tutti sono presi in senso assoluto, così che Il Padre vive (6,57a); Gesù non solo è pane che vive, ma vive per il Padre o semplicemente, alla pari del Padre, vive (6,51.57a; 14,19); lo Spirito Santo è significato dall'acqua vivente (zîn, zôn), che promana da Gesù (7,38-39); un participio presente, che indica sia la persistenza e, quindi, l'eternità di questo vivere, sia la natura stessa dello Spirito, che è vivente (3,5; 4,10.11). Questo modo di porre i verbi, all'indicativo o al participio presente e in senso così assoluto, indicano la natura stessa dei soggetti, che li qualifica come esseri viventi per eccellenza, evidenziandone in tal modo la loro natura divina. Questa, pertanto, è energia e potenza di vita, che li rende capaci di generare anche a terzi la loro stessa vita, qualificandoli in tal modo primaria fonte di vita. Giovanni, infatti, per tre volte soltanto, ognuna di queste riferite ad ognuno dei Tre (5,21; 6,63), usa il verbo “zwopoišw” (zoopoiéo), vivificare, cioè rendere essere vivente, che richiama in qualche modo l'azione vivificante del soffio vitale di Dio nel creare il primo uomo, fatto a sua immagine e somiglianza (Gen 2,7). Questa forza vitale si imprime nell'uomo, rendendolo a sua volta essere vivente, per mezzo della potenza della parola accolta nella propria vita di credente. È significativo quanto avviene nel racconto di guarigione del figlio del funzionario del re (4,46-53): per tre volte consecutive si afferma, quasi in modo ossessivo, “tuo figlio vive” (4,50.51.53). Anche qui viene usato il presente indicativo in senso assoluto, come per i Tre, per significare il trasfondersi della vita divina in quel giovane per mezzo della potenza della Parola, accolta nella fede (6,50). È questo l'effetto della Parola, caricata della forza vitale di Dio stesso, resa capace di generare alla vita divina, chiunque l'accoglie in sé (1Pt 1,23).


I  I Segni


Se i vv. 20,30-31 attestano che vi fu una cernita tra i numerosi segni che fece Gesù, la cui finalità, secondo l'autore, doveva essere quella di aprire il proprio lettore alla fede in Gesù, cogliendo il mistero divino che si racchiudeva in lui, il v. 12,37 attesta che tale obiettivo non sempre fu raggiunto: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui”. I segni, dunque, furono un elemento di contrasto e di divisione fra la gente (9,16); questo, tuttavia, non dipese dai segni, ma, come sempre, dalla disponibilità interiore di ogni persona, che da questi segni veniva interpellata. Attorno a questi due campi schierati e tra loro contrapposti si raggruppano altri 15 versetti riguardanti i segni239, che in vario modo, approfondiscono, dettagliandolo, il molteplice compito dei segni e le diverse risposte da questi ottenute.

Vi sono, poi, due versetti che si relazionano strettamente ai due precedenti, formando con questi due significative inclusioni, che abbracciano l'intero racconto giovanneo: il v.2,11, concludendo e commentando il primo segno delle nozze di Cana, afferma, da un lato, che esso manifestò la divinità di Gesù; dall'altro, che i suoi discepoli credettero in lui. Esso lega con 20,31, che parla della dinamica rivelativa del segno e della sua funzione di smuovere alla fede. Questa ampia inclusione abbraccia sostanzialmente l'intero racconto giovanneo, facendone un annuncio rivelativo della divinità di Gesù, che, interpellando i lettori, li spinge a dare la loro adesione di fede, per poter attingere alla salvezza. Questo tema non solo percorre l'intero vangelo di Giovanni, ma con le ultime parole di Gesù, rivolte a Tommaso, si estende a tutti i credenti futuri: “Gli dice Gesù: <<Perché mi hai veduto, hai creduto. Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto>>” (20,29). Con questa affermazione il credente viene proiettato al di là di ogni segno e al di là di ogni certezza, vagliata dai sensi, per approdare ad una fede, che diviene scelta di vita. Significativa è la seconda ampia inclusione, per contrapposizione tematica, che si viene a formare tra il v.2,23, dove molti vedendo i segni che Gesù fece, credettero in lui, e il v.12,37, dove, al contrario, pur avendo visto molti segni non hanno creduto. Questa seconda inclusione non comprende l'intero vangelo, ma soltanto fino al cap.12, con cui termina la vita pubblica di Gesù e la sua attività missionaria, costellata di scontri, contrapposizioni, incomprensioni, diatribe, attentati, che affondano le loro radici nel comune denominatore dell'incredulità, preludendo a ciò che sarà la vita e la missione delle comunità credenti.

L'intero vangelo giovanneo, pertanto, viene caratterizzato da queste due grandi inclusioni, che si muovono sul tema della fede e dell'incredulità, in cui i segni, la cui importanza viene rilevata dai vv. 20,30-31, ma che risuona anche in 2,11.23, giocando una funzione rivelatrice e attestatrice e, di conseguenza, provocatrice, innescano, di fatto, fin d'ora, un giudizio escatologico, che discrimina gli uomini in credenti e increduli.

Il segno per Giovanni ha essenzialmente una funzione rivelatrice della natura di Gesù. In 2,11 si attesta che egli con il segno di Cana manifestò la sua gloria, mentre in 3,2 i segni forniscono a Gesù l'attestato della sua provenienza divina; in 6,14 il segno della moltiplicazione dei pani lo rivela come il profeta atteso, mentre in 7,31 si insinua che i segni compiuti da Gesù lo qualificano come il Cristo; con sottile ironia, in 9,16, si riconosce nei segni la provenienza divina di Gesù, mentre in 20,31 si attesta chiaramente la finalità di questi segni: manifestare la natura messianica e divina di Gesù e smuovere, quindi, la fede in lui.

Il segno, poi, proprio per la sua natura squisitamente rivelativa della divinità di Gesù, è riservato esclusivamente a lui. Con tono velatamente polemico, infatti, si attesta in 10,4 che Giovanni è un testimone della verità, ma i segni non gli appartengono, poiché egli è soltanto un testimone della luce (1,7-8).

Ma il segno è una sorta di spada a doppio taglio, poiché se da un lato spinge ad andar oltre le apparenze e a leggere in Gesù la sua divinità, dall'altro può diventare un facile espediente per una fede a buon mercato, legata alla sensibilità dell'apparire e da essa condizionata. È questo, infatti, il rimprovero mosso da Gesù al funzionario regio: “[...] Se non vedete segni e prodigi, non credete” (4,48); e similmente, la folla, che cerca Gesù non per il significato profondo del segno dei pani, ma perché hanno visto in Gesù un potente taumaturgo, che poteva soddisfare le loro esigenze (6,26). Si tratta, dunque di un segno che non interpella più l'uomo nel suo profondo, spingendolo ad andare oltre l'apparire del meraviglioso, ma la ricerca di una prova della divinità di Gesù o della sua autorità (6,30); oppure sono colti come eventi inquietanti, che attentano l'autorità religiosa (11,47).

I segni scelti dall'autore, per stimolare la fede nella messianicità e nella divinità di Gesù (20,30-31), sono i seguenti sette240:



Essi sono tematicamente disposti in forma parallela, concentrica in D), nel seguente modo:


A) La trasformazione dell'acqua in vino (2,11), che è incluso dalle due espressioni “al terzo giorno” ... (2,1a) Gesù “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11). L'allusione alla sua risurrezione balza subito evidente.

B) La guarigione del figlio del funzionario regio (4,46-54), in cui Gesù stigmatizza la fede legata a segni sensibili e da questi ne è condizionata.

C) La guarigione di un paralitico in giorno di sabato (5,1-9ss), in cui Gesù opera come il Padre (5,17) e in conformità a quello che vede fare dal Padre (5,19), che gli manifesta ogni cosa (5,20), lasciando intendere la sua origine divina e la sua stessa divinità, che gli viene contestata dai Giudei (5,18).


D) La moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,1-15) in cui Gesù si dichiara il vero pane disceso dal cielo, da cui promana la stessa vita divina e in esso viene donata241, vero dono del Padre (6,32).


C') Gesù cammina sulle acque (6,16-21). se da un lato l'episodio richiama Gen 1,2c, in cui lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque; dall'altro Gesù si rivela come l' “Io sono” (6,20), invitando i discepoli a non aver paura; un sentimento questo che compare nelle teofanie.

B') La guarigione del cieco nato (9, 1-38), in cui non si crede neppure di fronte all'evidenza del segno.


A') La risurrezione di Lazzaro (11,1-46), ultimo segno, posto a ridosso del racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, a cui si allude.


I segni, così raggruppati, sviluppano quattro temi:


A/A': la risurrezione di Gesù, quale vertice della manifestazione della gloria sua e del Padre, della quale i segni sono in qualche modo rivelazione, anticipandone gli effetti; un tema questo che pervade l'intero vangelo giovanneo242, creando una forte tensione verso il punto più alto della glorificazione: la morte e risurrezione

B/B' : vengono posti a confronto e stigmatizzati due modi sbagliati di porsi di fronte ai segni: la fede, legata alla sensibilità del segno, è associata all'incredulità. Tema questo che verrà ripreso in 20,24-29;

C/C' : i segni sono manifestazione della divinità e del messianismo di Gesù; tema questo che verrà ricordato anche in 20,30-31;

D : Gesù è il vero pane della vita, dono del Padre agli uomini e loro vero cibo, da cui scaturisce la vita divina.

Il primo e l'ultimo segno formano inclusione tematica tra loro, data dai vv. 2,11b (“manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”) e 11,4.40 (“è per la gloria di Dio, perché per mezzo di essa (la malattia di Lazzaro), sia glorificato Dio”; e ancora “se credi, vedrai la gloria di Dio”). Tutti i segni, quindi, sono finalizzati alla manifestazione della gloria di Dio, che, tuttavia, richiede la fede per essere colta.
Altro particolare, che caratterizza tutti i segni, è il fatto che essi si compiano attraverso il “dire di Gesù”
243. Il segno, quindi, esprime l'agire creativo e rigenerante della Parola, che manifesta la sua gloria e quella del Padre, offrendosi agli uomini, perché contemplandola, vi aderiscano esistenzialmente (1,1-2.14). In questo modo la Parola in Giovanni viene concepita come un Dabar, cioè come l'agire di Dio che, manifestandosi in mezzo agli uomini, li interpella e li spinge a prendere esistenzialmente posizione, compiendosi, in tal modo, su di loro il giudizio escatologico (3,16-19).
Tutti i segni, infine, sono legati al tema del credere, a cui essi sono finalizzati
244.


I Discorsi


Un altro elemento, che caratterizza il racconto giovanneo, sono i discorsi, che costituiscono circa il 31% dell'intero vangelo. Essi sono diciotto, per complessivi 281 versetti245. Tra questi discorsi ho incluso anche quelli che si presentano in forma dialogica, in cui gli interlocutori di Gesù fungono da spalla, rilanciando il tema verso un maggiore approfondimento o, più semplicemente, ne introducono uno nuovo, come in 6,28-71; 8,12-20; 8,21-30; 8,31-59; 14,1-31. Questi discorsi contraddistinguono la natura contemplativa dell'intero vangelo, favorendo e stimolando la riflessione sul mistero del Verbo incarnato, ne sondano la natura, cogliendola nei suoi molteplici aspetti. Il v.1,14 già li preannunciava in qualche modo ed essi, in qualche modo, ne danno attuazione: “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”.

Al di là dell'apparenza, questi discorsi non sono sottesi da una dinamica ragionativa, finalizzata a dimostrare o a convincere, ma il loro andamento è squisitamente di tipo sentenziale. Tutti i discorsi, infatti, sono composti da detti o espressioni di tipo proverbiale o sapienziale e ne possiedono il ritmo, che stimola la riflessione e facilita la mnemonizzazione. Ogni detto ha in se stesso un senso compiuto ed è a se stante, anche se talvolta si sviluppa in versetti successivi, in cui il precedente viene richiamato dal o dai seguenti con parole chiave, che si ripetono e rimbalzano da un detto all'altro, imbastendo tra loro questi singoli detti e dando l'illusione di uno sviluppo ragionativo, come in 5,19-21 e in 5,22-29; in realtà si ha soltanto una somma di singoli detti, giustapposti l'uno accanto all'altro. Questo modo di procedere dà origine a forme retoriche proprie della poesia veterotestamentaria, nelle sue diverse forme di parallelismo, come il parallelismo sinonimico, in cui la seconda riga ripete l'idea della prima, come in 3,11; 4,36; 6,33.55; 7,34; 13,16; o il parallelismo antitetico, dove la seconda riga si contrappone alla prima, come in 3,18; 3,20-21; 5,23; 8,35; 9,39; o il parallelismo sintetico, in cui il senso fluisce da una riga all'altra, come in 8,44 e, similmente, il parallelismo a scala, dove una riga riprende l'ultima parola principale della riga precedente, come avviene numerose volte nel Prologo e in 6,37; 8,32. Questo modo di procedere favorisce, inoltre, una forma letteraria squisitamente giovannea: il pensiero a chiocciola o a spirale, in cui i concetti sembrano ripetersi, ma in realtà l'uno si aggancia all'altro in uno sviluppo concettuale vorticoso, sempre nuovo, che si posiziona a livelli superiori fino a raggiungere il vertice. Un simile modo di procedere si trova in 5,19-30, in 6,28-59 o in 15,1-17. Ma ciò che colpisce in particolare in questi discorsi è il ritmo poetico, in cui le espressioni sono brevi e incisive, facilmente memorizzabili, esprimendo con intensità il loro contenuto246. L'intento di questo modo molto strano di procedere e tutto giovanneo ha un'unica finalità: non dimostrare una tesi o convincere i dubbiosi o sferzare gli avversari, ma offrire uno spunto di riflessione e di meditazione, alimentando la contemplazione del Verbo Incarnato nel suo dispiegarsi storico, cercando di cogliere il mistero, che in Lui si nasconde e vive (1,14). In questo contesto la voce non viene mai alzata, né vengono lanciati anatemi, né gli avversari sono sferzati violentemente, come in Mt 23. Tutto è soffuso e permeato da una fine e, a volte, impercettibile ironia; nulla deve disturbare quel contesto ovattato di serenità meditativa, entro cui si muove l'intero vangelo giovanneo. Anche il racconto della passione non è mai truculento, offensivo della sensibilità del credente, ma la ieratica figura di Gesù viene permeata da una avvincente, sacra e sublime regalità, come nel momento dell'arresto nel giardino del Getsemani o nell'interrogatorio presso il sommo sacerdote e presso Pilato o sul Golgota. In ogni momento Gesù non è mai presentato come una vittima, ma come uno che, rivestito di potere regale, domina la scena e controlla gli eventi. Significativo in tal senso è quanto Gesù risponde alle preteso potere di Pilato (19,10): “Non avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato dall'alto” (19,11a).


L  Le Festività247


Le festività nel vangelo giovanneo occupano uno spazio importante, poiché formano il contenitore entro cui si snoda l'intero racconto. Esse sono complessivamente sei e sono incluse dalla prima (2,13) e dalla terza pasqua (11,55), entro cui si snodano le altre quattro festività, poste in ordine cronologico. Prima di addentrarci, si rende necessaria una premessa su due questioni: l'ordine dei capp. 5 e 6 e la festività anonima, di cui al v.5,1.

La questione dell'ordine dei capp. 5 e 6 nasce da un problema di logica geografica. Esso, tuttavia, acquista la sua importanza proprio perché si trova nel vangelo di Giovanni, che, come vedremo, al contrario di Luca, è molto preciso, quasi meticoloso, nel descrivere la geografia della Palestina e i movimenti di Gesù. Proprio per questa accurata attenzione, che Giovanni presta alla geografia, balza subito all'occhio la sfasatura dei capitoli in questione.

Il cap. 4 si apre con Gesù che lascia la Giudea, dove si trovava a battezzare assieme a Giovanni e ai suoi discepoli (3,22-26), e si dirige verso la Galilea, per evitare rivalità e screzi con il gruppo del Battista (4,1-3). Passa attraverso la Samaria, dove si incontra con la donna Samaritana (4,4-42). Qui si ferma due giorni (4,43) e poi riparte per la Galilea dove viene accolto festosamente dalla gente. Si ferma a Cana per la seconda volta e qui guarisce il figlio del funzionario regio (4,46-53). Il cap.4 si chiude con la considerazione dell'autore: “Gesù fece di nuovo questo secondo segno, quando venne dalla Giudea alla Galilea” (4,54). Il cap.4, pertanto, lascia Gesù a Cana di Galilea, quindi a circa 150 Km da Gerusalemme in linea d'aria.

Inaspettatamente, il cap. 5 si apre collegandosi al cap. 4 con l'espressione: “Dopo queste cose c'era una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”, creando una frattura geografica e temporale tra i due capitoli: Gesù, lasciato in chiusura del cap.4 a Cana di Galilea, si trova improvvisamente catapultato a Gerusalemme in apertura del cap.5, mentre sale al Tempio a motivo di una imprecisata festa dei Giudei. Similmente la frattura si ripete tra il cap.5 e il cap.6. Il cap.5, infatti, vede Gesù che opera e disputa a Gerusalemme; mentre il cap. 6, si apre con Gesù che, anche qui all'improvviso e inaspettatamente, sta attraversando il lago di Tiberiade, in Galilea. Lasciando, quindi, il cap.5 tra i capp.4 e 6 vengono a crearsi le due fratture geografiche e temporali sopra menzionate. Tutto, invece, si ricompone se il cap.5 si pospone al cap.6: Gesù, infatti, guarito il figlio del funzionario regio a Cana di Galilea (cap.4), si trasferisce, dopo queste cose, sulle coste del lago di Tiberiade, a pochi Km da Cana di Galilea, per attraversarlo (cap.6). Tutto il cap.6 ruota attorno al lago di Tiberiade e a Cafarnao (6,59) in Galilea. I capp. 4 e 6, quindi, si accordano tra loro. Il cap.7, infine, si accorda bene con il cap.5, poiché si apre con la considerazione dell'autore: “E dopo queste cose Gesù camminava nella Galilea; infatti non voleva camminare nella Giudea, poiché i Giudei cercavano di ucciderlo.” Nel cap.5, infatti, Gesù guarisce un paralitico in giorno di sabato e, a seguito di ciò, ha un duro scontro con le autorità religiose, che cercano di ucciderlo (5,16.18). Giusta, quindi, l'apertura del cap.7, che concorda bene con il cap.5, ma non con il cap.6. L'ordine, pertanto, dei capitoli è il seguente: capp. 4; 6; 5; 7.

La seconda questione è la festa anonima citata dal v.5,1: “Dopo queste cose c'era una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Tutte le festività in Giovanni sono indicate con il loro nome, ad esclusione di questa. Due gli interrogativi che si impongono su questo anonimato: a quale festività si fa riferimento; e perché Giovanni ne ha taciuto il nome, la quale cosa urta contro la sua precisione, talvolta pignolesca, nel citare gli avvenimenti. Si era detto sopra che, escluse la prima (2,13) e l'ultima pasqua (11,55), che formano inclusione tra loro e, pertanto, letterariamente occupano un loro proprio spazio narrativo, le altre quattro festività rimanenti, tenendo conto delle inversione dei capp.5 e 6, si snodano con una loro propria sequenza temporale: seconda pasqua - pésach - (6,4), cadente nel mese di Nisan (marzo-aprile); festività anonima (5,1), oggetto del nostro studio; la festa delle Capanne o delle Tende – Sukkòth - (7,2), cadente nel mese di Tishrì (settembre-ottobre); festa della Dedicazione del Tempio – Channukà o Hannukah - (10,22), cadente tra il mese di Kislèv (novembre-dicembre) e quello di Teveth (dicembre-gennaio). Va rilevato come la festività anonima si collochi tra la festa di Pasqua e quella delle Capanne, che sono due delle tre feste del pellegrinaggio (Shalòsh Regalìm), le uniche che godono del titolo di “festa” nel calendario ebraico (hâg), mentre le altre sono definite con il termine generico di “solennità del Signore” (mō'ădē). Tutte tre sono in immediata sequenza temporale l'una all'altra: Pésach, Shavu'òth e Sukkòth. La festa anonima, pertanto, sembra essere proprio quella di Shavu'òth, o festa delle settimane, chiamata anche Pentecoste dagli ebrei di lingua greca; essa cadeva nel mese di Sivan (maggio-giugno) e si agganciava direttamente alla pasqua, prolungandosi per sette settimane, 49 giorni, e si chiudeva all'ultimo giorno con la celebrazione della festa di Pentecoste, il 6 di Sivan. L'individuazione è resa possibile o quantomeno molto probabile sia dalla sequenza temporale regolare, con cui Giovanni cita le quattro festività, sia perché essa, assieme a Pasqua e Capanne, forma il trio delle festività di pellegrinaggio.

Rimane da capire perché Giovanni ne taccia il nome. Il motivo sembra risiedere nel contenuto stesso del cap.5: la guarigione del paralitico, avvenuta in giorno di sabato, da cui ne discende un'accesa polemica con i farisei. Considerato, poi, che il termine sabato ricorre in questo capitolo tre volte (5,10.16.18), con riferimento al segno di guarigione, non resta che pensare che l'anonimato della festa, quella delle Settimane o Shavu'òth, fosse stato imposto sulla festa per evitare che questa oscurasse la questione del sabato, che invece, è la vera festa oggetto di attenzioni dell'intero cap.5248. Un anonimato, forse, che potrebbe essere un segnale lanciato da Giovanni ai suoi lettori, indirizzandoli ad accentrare la loro attenzione sull'unica festa citata nel cap.5, il sabato, mentre l'altra viene opportunamente oscurata.

Tutto ciò premesso, vediamo come Giovanni ha dislocato le sei festività:

  1. Prima Pasqua (2,13) caratterizzata dalla cacciata dei venditori dal Tempio, alla quale è strettamente legato il segno della sua autorità: la risurrezione ossia la rigenerazione e la ricostituzione di un nuovo Tempio, il suo corpo;

  1. Seconda Pasqua (6,4) caratterizzata da due segni: la moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,5-15), che offrirà a Gesù l'occasione per un grande discorso, che dominerà l'intero cap.6, in cui egli, in uno stretto confronto con la manna di Mosè, si presenta come il vero pane di vita disceso dal cielo; un discorso che si concluderà amaramente con l'inintelligenza (6,60-61) e l'abbandono (6,66) di molti dei suoi discepoli. Il secondo segno è il camminare di Gesù sull'acqua (6,16-21), che, richiamandosi a Gen 1,2b, sottolineerà la divinità di Gesù. Esso, per la prima volta qui, si presenta ai suoi, impauriti, come l' “Io sono” (6,20), richiamandosi a Es 3,14.

  2. Festa anonima o di Pentecoste (5,1), caratterizzata dal segno della guarigione di un paralitico in giorno di sabato, che apre alla diatriba sulla questione del sabato, in cui si pone una identità tra Gesù e il Padre (5,18), tra il suo operare e quello del Padre (5,17.19). Nuovamente si sottolinea la divinità di Gesù e il potere, alla pari del Padre, di dare la vita (5,24-26).

  3. Festa delle Tende o delle Capanne (7,2), che incornicia (7,2.14.37) nove diatribe ed è carica di tensione, causata, oltre che dalle diverse situazioni di contrasto, dovute all'incredulità, anche dai tentativi di sopraffazione di Gesù (7,25-30.44-53).

  4. Festa della Dedicazione (10,22), che si accentra interamente sull'identità di Gesù, colta nei suoi molteplici aspetti: egli è il Cristo (10,24c), il Figlio di Dio e Dio lui stesso (10,32-33), nonché la porta delle pecore (10,7.9) e il buon pastore, che offre la sua vita per le sue pecore, preludendo in questo la terza pasqua, quella fatale (10,11.14).

  5. Terza Pasqua (11,55), è l'ora della glorificazione ed è preannunciata da tutti quegli eventi che la precedono, la preparano e verso di lei convergono. In particolare, la risurrezione di Lazzaro (11,1-46), che prelude a quella di Gesù; la congiura di palazzo contro Gesù (11,47-54); l'unzione di Gesù da parte di Maria (12,1-8), che allude alla sua imminente inumazione; l'entrata di Gesù in Gerusalemme (12,12-19); un nuovo discorso di Gesù, incentrato sulla sua passione, morte e glorificazione (12,23-36); un deludente bilancio della sua attività pubblica (12,37-43); un ultimo discorso, con cui si conclude l'attività pubblica di Gesù e se ne riassume la predicazione (12,44-50); ancora un lunghissimo discorso, che dura ben cinque capitoli (13-17), fatto in intimità con i suoi, una sorta di testamento spirituale; infine, passione e morte di Gesù (18-19) e sua risurrezione (20).

La prima (2,13) e la terza pasqua (11,55), come già si è detto, formano inclusione tra loro sia per l'identica espressione, che le introduce, “Ed era vicina la pasqua dei Giudei”, accompagnata in entrambi i casi dalla salita di Gesù a Gerusalemme (non così è per la seconda pasqua – 6,4), sia per il tema trattato: nella prima pasqua Gesù sottrae il tempio all'uso dell'uomo, che indebitamente se ne era appropriato per i propri affari, e lo restituisce al Padre e al suo culto. Vi è, dunque, una sorta di riconsacrazione e ricostituzione dei diritti divini, sanciti dal segno, che allude alla sua risurrezione, mentre l'annuncio della fondazione di un nuovo tempio, il corpo del Risorto, pone sull'antico tempio un'ipoteca. Nella seconda pasqua viene collocata una nuova purificazione: quella della nuova comunità messianica, sottratta al mondo (17,14.16) e destinata ad essere associata a Gesù (13,8-10). Con il gesto della lavanda dei piedi Gesù non solo indica il senso della suo vivere e del suo morire, quali servizio di redenzione speso a favore dell'umanità, ma è anche una sorta di battesimo, che consacra la nuova comunità credente e la associa a Gesù. Essa, pur essendo nel mondo, viene sottratta al mondo e non vi appartiene249, per diventare la nuova dimora di Dio in mezzo agli uomini (14,23; Ap 21,3). Decisivi per comprendere il senso della lavanda dei piedi sono i vv. 13,8-10 in cui il lavare i piedi diventa determinante per avere parte con Gesù (“oÙk œceij mšroj met' ™moà”, uk ékeis méros met'emû).

Questo scandire l'attività di Gesù all'interno delle festività ebraiche, incluse da due pasque, in cui il tema di fondo è il riappropriarsi di Dio dei propri spazi e dei propri tempi, rifondandoli e riconsacrandoli nel suo Cristo, lascia intravvedere come la presenza di Gesù, che riempie di sé queste feste, come l'intero culto ebraico, tempio, sacerdozio e sacrifici, venga rifondato e rimodulato su Gesù, il nuovo Tempio, in cui si celebra un nuovo culto a Dio, celebrato dai veri adoratori graditi al Padre, che lo adoreranno in spirito e verità (4,23-24).


La geografia del Quarto Vangelo e i movimenti di Gesù


Nel vangelo di Giovanni va riservata una particolare attenzione alla geografia e ai movimenti di Gesù, collocati al suo interno. Essi, geografia e movimenti, costituiscono lo sfondo storico entro cui si opera la salvezza, dando, nel contempo, compattezza e logica narrativa a tutto il racconto. Con Giovanni l'intervento salvifico del Padre, operato in Gesù a favore degli uomini, lascia, per la prima volta nel N.T., la vaga e occasionale geografia dei Sinottici, per calarsi, con precisione, nella concretezza della storia; mentre l'habitat naturale dell'uomo assume, per la prima volta nel N.T., una forte valenza teologica, che ha tre solidi punti di riferimento: a) l'incarnazione del Verbo della Vita (1,14), che assume su di sé le dimensioni proprie della storia e ne fa parte; b) i segni, che nel loro apparire storico rimandano a realtà transtoriche; c) i discorsi, che aiutano a leggere la dimensione transtorica dell'evento Gesù, nel suo compiersi storico. Si ha così una teologia che si fa storia e una storia che viene letta e compresa secondo parametri teologici. In questo contesto la geografia rafforza il contenuto storico dell'apparire e dell'agire del Verbo Incarnato, formandone il luogo storico, in cui i primi credenti incontrarono il Verbo della Vita (1Gv 1,1) e ne contemplarono la gloria (1,14). Questa logica della concretezza storica, molto cara a Giovanni e propria del testimone diretto, trova la sua eco e la sua continuità logica nella Prima Lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1Gv 1,1-3).

Ci limiteremo, qui, a rilevare i luoghi e i movimenti di Gesù, riservandoci un loro commento successivamente, nel corso della nostra riflessione sul testo.


  1. 1,19-28: in Betania, al di là del Giordano (1,28), il Battista dà la sua testimonianza ai sacerdoti e leviti, provenienti da Gerusalemme, circa la sua identità. La Betania, di cui qui si parla, non è il villaggio dove abitava Lazzaro con le sue sorelle, che dista poco meno di 3 Km da Gerusalemme, bensì quella di Perea, appena al di là del Giordano e che si trova a nord del Mar Morto. Benché Origene, agli inizi del III sec., non riuscisse a trovare nessuna località con tale nome, posta al di là del Giordano, optando, quindi, per una lettura diversa del testo, Bēthabara, tuttavia l'autore sembra, invece, essere cosciente della omonimia delle due località, distinguendo le due Betanie in quella al di là del Giordano, dove Giovanni battezzava (10,40) e in quella dove abitava Lazzaro con le due sorelle (11,1), che egli precisa essere a 15 stadi250 da Gerusalemme (11,18). Se i nomi delle due località fossero stati diversi, l'evangelista, molto probabilmente, non avrebbe posto tutte queste precisazioni. È interessante, poi, notare come il primo nome geografico che compare nel vangelo è Gerusalemme (1,19). Essa è il vertice verso cui tende il racconto giovanneo e dove prevalentemente opera Gesù contrariamente ai Sinottici, per i quali Gesù, invece, opera in Galilea. Gerusalemme qui compare per la prima volta come il luogo da dove proviene la minaccia, che insidierà Gesù, di cui il Battista è precursore e figura: le autorità religiose. Gerusalemme, quindi, capitale e cuore del giudaismo non è vista come luogo amico, così come il nome Giudei assume in Giovanni un senso negativo,251 sinonimo di incredulità.

  2. 1,43: Gesù decide di andare verso la Galilea e incontra Filippo, che a sua volta contatta Natanaele e gli indica in Gesù il Messia atteso; similmente fa Andrea nei confronti di Simone, suo fratello. Se si aggiunge il discepolo, di cui viene taciuto il nome e che era in coppia con Andrea (1,37-40), in tutto i primi discepoli di Gesù furono cinque. A quanto sembra, tutti i primi discepoli erano già presenti in Betania, al di là del Giordano, prima ancora di conoscere Gesù e di stabilire un rapporto personale con lui. Tutti, quindi, dovevano essere stati inizialmente seguaci del Battista e successivamente hanno aderito a Gesù, che, quasi certamente, agli inizi, fu anch'egli un militante del movimento battista252. Con questi cinque Gesù muove verso la Galilea. Contrariamente, i Sinottici pongono l'incontro di Gesù con i primi quattro discepoli a Cafarnao, sulle sponde del lago Tiberiade253.

  3. 2,1: Tre giorni dopo, Gesù si trova a Cana di Galilea dove è invitato con i suoi discepoli ad una festa di nozze. Qui compie il primo segno della trasformazione dell'acqua in vino.

  4. 2,12: Dalla montuosa Cana Gesù scende a Cafarnao, sulle rive del lago di Tiberiade, che si trova al di sotto del livello del mare. Giusto, quindi, lo “scendere a Cafarnao”. Qui vi rimane non molti giorni insieme a sua madre, i suoi fratelli e i suoi discepoli.

  5. 2,13: Da Cafarnao, avvicinandosi la pasqua, la prima, sale a Gerusalemme dove, entrato nel Tempio, trova i venditori di animali per i sacrifici e i cambiavalute, contro i quali si scaglia duramente, cacciandoli dal Tempio. Giusto il “salire a Gerusalemme”, poiché la città si trova sul monte Sion a circa 750 mt. sul livello del mare, mentre Cafarnao si trova in zona depressa.

  6. 2,23-3,1a: Gesù è ancora a Gerusalemme per la pasqua, dove fa dei proseliti, stupiti dai segni che compiva. Sempre qui a Gerusalemme s'incontra con Nicodemo, uno dei capi dei Giudei, che ricomparirà, probabilmente ormai divenuto discepolo di Gesù, alla fine del vangelo (19,39) assieme a Giuseppe di Arimatea, per dare sepoltura a Gesù.

  7. 3,22a: Gesù dopo queste cose, va nella regione della Giudea. Qui sembra esserci una incongruenza, poiché Gesù, trovandosi a Gerusalemme a motivo della pasqua, era già in Giudea; a meno che non si intenda che Gesù lasciò Gerusalemme e incominciò a percorrere la Giudea. In tal caso non è comprensibile la particella “e„j” (eis), che indica un moto a luogo, una direzione verso cui si va. Probabilmente quel eis sottintende una località precisa della Galilea, che viene specificata subito, di seguito, al v. 3,22b.

  8. 3,22b: Gesù in Giudea si intrattiene a battezzare con i suoi. Tuttavia, essendo in Giudea, è probabile che Gesù si sia recato dov'era prima Giovanni, a Betania di Perea (1,28), dove egli era già stato e dove aveva raccolto i suoi primi discepoli e dove vi ritornerà (10,40). Betania, infatti, è l'unica località vicina al Giordano e, quindi, confinante con la Giudea. Probabilmente, la vicinanza delle due regioni ha determinato lo scambio di nomi: Giudea per Perea. Del resto il contesto geografico, qui, è sostanzialmente irrilevante rispetto ai movimenti di Gesù. Ma assume significatività con quanto viene detto al v.3,23.

  9. 3,23: qui viene specificato che Giovanni battezzava ad Enon, vicino a Salim, nel territorio della Decapoli. Una località questa molto ricca di acque, ma che rispetto a Betania di Perea, dove Gesù si trovava a battezzare, dista circa 55 Km in linea d'aria. Anche se i due versetti sono posti l'uno di seguito all'altro (vv.22-23), tuttavia, le località citate, dove Gesù e Giovanni battezzavano, erano a notevole distanza tra loro. Pertanto, la rivalità che sorse tra il discepolato di Gesù e quello di Giovanni (3,24) e che costrinse Gesù ad andarsene in Galilea (4,1-3) al fine di evitare spiacevoli confronti, anche se qui è riportata in forma episodica e contestualizzata, doveva essere, in realtà, una situazione che si era venuta a creare nel tempo, quando Gesù, inizialmente seguace di Giovanni e del gruppo dei battisti, se ne staccò formando una propria cellula con discepoli, distaccatisi dal gruppo di Giovanni (1,35-37).

  10. 4,1-6: Gesù, al fine di evitare un confronto diretto con il Battista e i suoi, se ne va verso la Galilea, passando per la Samaria, dove, a Sicar, nei pressi del pozzo di Giacobbe, troverà la donna samaritana, sul cui incontro Giovanni intesserà uno stupendo racconto (4,4-42). Qui si ferma due giorni (4,43) e poi riprende il suo cammino verso la Galilea, dove viene accolto festosamente da quei Galilei, che erano stati con lui a Gerusalemme durante la festa di pasqua (la prima pasqua) e avevano visto quello che vi aveva fatto (4,45).

  11. 4,46a: In Galilea, ritorna nuovamente a Cana, dove aveva compiuto il segno della trasformazione dell'acqua in vino, e qui compie il secondo segno (4,54), la guarigione del figlio del funzionario regio (4,46b-53), chiudendo il ciclo cananaico.

  12. 6,1: Dopo i fatti di Cana, Gesù si trasferisce nei pressi del lago di Tiberiade da dove passa all'altra sponda. Qui si compiranno il terzo e il quarto segno, la moltiplicazione dei pani (6,5-15) e la camminata sulle acque del lago (6,16-21). Il contesto religioso è quello della seconda Pasqua (6,4) e, stranamente, Gesù non sale a Gerusalemme, dove in genere si recavano i pii israeliti per celebrare la pasqua, ma rimane sulle sponde del lago254. A questi segni segue, a Cafarnao (6,17.24.59), sempre quindi sulle rive del lago, un lunghissimo discorso sul tema del pane, che vede al centro del confronto Mosè e Gesù, il vero pane, di cui quello mosaico (la manna) era solo una prefigurazione (6,28-71).

  13. 5,1: Gesù, dopo la seconda pasqua, sale a Gerusalemme in occasione di una festa anonima, quasi certamente la Pentecoste255. Qui, nei pressi della porta delle Pecore, vi era una piscina a cinque porte, detta in ebraico Betzatà (5,2), dove compie, in giorno di sabato, il quinto segno, la guarigione di un paralitico, ammalato da trentotto anni (5,6-9). Questo provoca una diatriba tra Gesù e i farisei per la guarigione avvenuta di sabato (5,10-18), a cui si aggancia un lungo discorso, che occuperà il restante cap.5 (5,19-47). I Giudei cercheranno di uccidere Gesù (5,18).

  14. 7,1: Anche se in modo repentino, ma narrativamente logico, Gesù viene presentato mentre cammina per la Galilea per timore dei Giudei, che cercavano di ucciderlo. Il contesto religioso, che inquadra l'intero cap.7, è la festa delle Capanne (7,2.14.37), che segue quella della Pentecoste. Gesù, inizialmente si rifiuta di salire a Gerusalemme (7,6-9), ma poi la raggiunge nascostamente (7,10). Il cap.7 è composto da nove unità narrative, giustapposte l'una accanto all'altra, dal diverso e vario contenuto, le cui tematiche sono: l'incredulità, il disaccordo su Gesù, diatribe, tentativi di sopraffazione , interrogativi su Gesù.

  15. 8,1: questo capitolo dà continuità temporale e logica al cap.7. Infatti, in 7,37 si parla dell'ultimo giorno della festa delle Capanne, in cui Gesù fa l'annuncio di essere l'acqua viva (7,37-39), creando disaccordo tra i suoi ascoltatori (7,40-43) e disappunto tra le autorità religiose, perché il loro ordine di arresto non era stato eseguito (7,44-49). Tutti, alla fine, se ne tornano a casa, mentre Gesù si incammina verso il monte degli Ulivi (8,1). Si è, dunque, sempre in Giudea, a Gerusalemme, nei pressi del Tempio. Con questa nota si chiude l'ultimo giorno della festa delle Capanne. Infatti, il giorno successivo, sul far del giorno, Gesù va al tempio (8,2), che forma la cornice topografica in cui è incorniciato il cap.8 (8,2.20.59); il v.2, infatti, forma inclusione con il v.59, per movimenti uguali contrari: Gesù entra (v.2) ed esce (v.59) dal Tempio, dando unità narrativa all'intero capitolo. Il contenuto del cap.8 è dato dall'episodio dell'adultera, colta in flagranza di reato (8,3-11), e da tre ampli discorsi (8,12-20. 21-30.31-59).

  16. Il cap.9 è interamente dedicato al sesto segno: la guarigione del cieco nato. Il contesto geografico è ancora Gerusalemme. Il segno, infatti, sembra collocarsi subito dopo l'uscita di Gesù dal Tempio (8,59b) con cui si chiude il cap.8: “Passando vide un uomo cieco dalla nascita” (9,1).

  17. Con il cap. 10, che presenta dei problemi di disposizione interna delle singole pericopi e che sarà oggetto di studio a suo tempo, Gesù si trova ancora a Gerusalemme durante la festa della Dedicazione, che ricorre nella seconda metà del mese di dicembre (10,22-23). L'autore precisa, infatti, che “Era inverno” (10,22b). Si è, quindi, a tre mesi dalla festa delle Capanne (cap.7). Il tema di fondo del cap.10 è l'identità di Gesù, presentato come il Buon Pastore e la Porta. Il tono è velatamente polemico contro le autorità religiose (10,5.8.10.12). Il capitolo si chiude con la trasmigrazione di Gesù da Gerusalemme a dove prima Giovanni battezzava, al di là del Giordano (10,40), in Betania di Perea (1,28).

  18. Nel cap.11 Gesù, che si era rifugiato a Betania di Perea per fuggire al linciaggio dei Giudei (10,31-33), viene qui raggiunto dalla notizia che il suo amico Lazzaro stava molto male; tuttavia, si sofferma ancora due giorni (11,6b) prima di ripartire per Betania di Giudea, che dista da quella di Perea circa 35 Km in linea d'aria ed è posta a qualche Km a sud-est di Gerusalemme. Giunto a destinazione, dopo quattro giorni dalla sepoltura di Lazzaro (11,17.39), Gesù compie il miracolo della risurrezione. Alcuni dei presenti denunciano la cosa ai Farisei (11,46), che, preoccupati per il grande seguito e la risonanza dei suoi miracoli, ne decidono la soppressione (11,47-53). Pertanto, Gesù, con i suoi discepoli, si rifugia ad Efraim (11,54), posta a nord di Betania di Giudea a circa una ventina di Km, linea d'aria, da questa. Il cap.11 si chiude con l'annuncio della pasqua (11,55), la terza.

  19. Il cap.12 potremmo definirlo di transizione, perché chiude l'attività pubblica di Gesù e lo traghetta nell'intimità dei suoi (13-17) e da qui al Calvario (18-19), verso la sua glorificazione (20). Da Efraim, dove Gesù si era rifugiato, ritorna a Betania di Giudea sei giorni prima della Pasqua, (12,1) dove, in casa di Lazzaro, partecipa ad un pranzo in suo onore (12,2). Durante il pranzo Maria unge con olio profumato Gesù, tra i rimbrotti di Giuda, redarguito duramente da Gesù (12,3-8). Qui si raduna una grande folla di Giudei per vedere sia Gesù che Lazzaro (12,9). Preoccupati per il grande flusso di persone, che si staccavano dal Tempio per aderire a Gesù, i sacerdoti decidono la soppressione sia di Gesù che di Lazzaro (12,10-11). Il giorno seguente Gesù, da Betania di Giudea, entra a Gerusalemme tra la folla osannante (12,12-18). Qui vi sono dei Greci che vogliono vedere Gesù (12,20-21). In questa occasione Gesù pronuncia il suo decimo discorso256 (12,23-36). Il cap.12 si chiude con un'amara considerazione sulla fallimentare attività di Gesù, a motivo della durezza di cuore dei Giudei (12,37-43).

  20. Con i capp.13-17 Gesù si trova a cena con i suoi. Qui si collocano la lavanda dei piedi e gli ultimi otto discorsi. I capp.18-19 raccontano il dramma di Gesù e il cap.20 la sua glorificazione. Lo sfondo geografico è unico: Gerusalemme, il luogo dove Gesù, uscito dal Padre e venuto nel mondo, ritorna al Padre (16,28). In Gerusalemme, dunque, si compie il ciclo della salvezza, pensato da Dio fin dall'eternità (Ef 1,4). Gerusalemme è il luogo con cui si è aperto il racconto giovanneo (1,19) e sul cui sfondo si chiude.


Il Vangelo di Giovanni e i Sinottici257


Se è lecito su di un piano scientifico e di ricerca porre a confronto il racconto giovanneo con quello dei Sinottici, cercando di rilevarne le sostanziali differenze o gli eventuali punti di contatto o le eventuali dipendenze del primo dai secondi, si rende, tuttavia, necessario porre delle premesse per orientare la ricerca e il confronto. Riteniamo, infatti, che un'eccessiva analisi letteraria condotta su singole parole o singole espressioni, su episodi che più o meno vagamente si richiamano, o racconti o qualche detto che si possono trovare anche in Giovanni, può essere deviante nella ricerca di eventuali e possibili contatti tra due scuole di pensiero, come quello sinottico e giovanneo, così diverse. A nostro avviso, più che un'analisi letteraria, potrebbe essere d'aiuto, nel confronto, tener presente alcuni parametri quali l'origine delle singole opere, la loro destinazione, i loro autori e i contesti storici e culturali in cui esse sono nate e si sono formate. La sola ricerca letteraria non è, a nostro avviso, sufficiente né determinante per definire con certezza i possibili contatti tra le due scuole di pensiero così diverse; anzi essa è del tutto secondaria e va posta, quindi, in subordine rispetto ad altri parametri oggettivi, sopra proposti. È significativa, infatti, da parte degli studiosi, la continua altalena tra una posizione e un'altra, passando per contrapposizioni insanabili: c'è chi afferma l'assoluta autonomia di Giovanni dai Sinottici; chi, invece, lo fa dipendere se non completamente, almeno in parte dai Sinottici; chi lo fa un loro semplice rielaboratore, sui generis; chi ritiene Giovanni, se non dipendente dai Sinottici, almeno dalle loro fonti, che poi ha elaborato secondo le sue prospettive e i suoi intenti; si cercano termini, espressioni o qualche unità narrativa coincidenti, che fatalmente si trovano, considerato l'identico oggetto dell'annuncio, ma rischiando anche di essere condizionati da ciò che si vuole trovare o provare. In altri termini, ci troviamo di fronte ad opere eccessivamente diverse per voler ad ogni costo stabilire dei punti di contatto tra di loro. Il farlo e lo sforzarsi in tal senso rischia di compromettere l'oggettività stessa della ricerca. Contrariamente, mi sembra più naturale e più logico accettare la diversità e, proprio per questa, difendere l'autonomia delle due scuole di pensiero, cercando di capirne i motivi.

Un primo passo è considerare attentamente chi sono gli autori dei quattro vangeli. Tre di questi, i Sinottici, sono autori sconosciuti, certamente nessuno di questi è stato testimone diretto e discepolo di prima chiamata da parte di Gesù. Sono credenti di seconda generazione, che probabilmente non hanno mai conosciuto Gesù o non ne hanno mai avuto esperienza diretta. Si è reso, pertanto, necessario per loro ricercare delle fonti presso le diverse comunità credenti, di cui, nel frattempo, si era popolata la Palestina e le regioni limitrofi; si è reso necessario, in modo più o meno rilevante, riferirsi ad opere simili a quella che loro intendevano intraprendere, per cui Matteo riporta quasi interamente nel suo vangelo quello di Marco, mentre Luca prende materiale marciano per circa un 30%. Entrambi, poi, attingono ad una comune fonte virtuale, formata da detti e parabole, che convenzionalmente viene definita “Fonte Q”258, dando, poi, alle loro rispettive opere dei tocchi personali, recuperando materiale da fonti proprie, materiale, cioè, che compare soltanto in Marco o in Matteo o in Luca259. Essi, poi, rimescolando il tutto, secondo una loro prospettiva teologica e cristologica, tenendo conto dei problemi specifici delle loro comunità, alle quali si indirizzavano, editano le loro opere personali, che per le modalità della composizione si assomigliano notevolmente tra loro, così da poter essere lette in parallelo tra loro260.

La questione per l'autore del Quarto Vangelo è completamente diversa. Qui non ci troviamo di fronte ad un discepolo di seconda o di terza generazione, ma ad un testimone diretto di Gesù, con il quale ha avuto un rapporto umano e una capacità di comprensione del suo mistero semplicemente eccezionali e tali da giustificare la sua definizione di “discepolo che Gesù amava” da parte della sua comunità261. Un simile testimone diretto, di grande levatura sociale e culturale, non aveva di certo bisogno di reperire fonti presso le diverse comunità palestinesi o fare riferimento alle già esistenti opere sinottiche per rifornirsi di dati e informazioni, poiché la fonte prima, unica e ancora vivente era proprio lui. Se di fonti fosse proprio necessario parlare, queste non vanno intese alla stregua di quelle dei Sinottici o ricercate tra queste, ma bisogna riferirsi a raccolte di racconti, discorsi e segni, che egli stesso o i suoi discepoli, da lui dipendenti, hanno prodotto nel corso del tempo262.
Un secondo elemento da considerare è
la comunità giovannea, a cui era indirizzato il vangelo. Si tratta, come si è detto sopra263, di una comunità chiusa ed elitaria, culturalmente e socialmente elevata, come il proprio maestro; una società di piccole dimensioni, che si sente come una sorta di club esclusivo264, e che si relaziona con difficoltà alle altre comunità palestinesi, così da lasciare la natia Palestina per Efeso. Una comunità, dunque, formata da gente con buona cultura e benestante, ma di piccole dimensioni. Nel Quarto Vangelo, infatti, non si parla mai di ricchezza o di povertà o di attenzione ai poveri o alle necessità della gente265. La questione sociale è completamente assente, così come assente è la spinta missionaria, presente solo come riflessione teologica, per evidenziare l'universalità della salvezza. Questo lascia intendere che è una comunità chiusa in se stessa e che ha come unico referente il Discepolo Prediletto. Non è istituzionalizzata, ma la sua struttura è ancora carismatica, quasi certamente per la lunga presenza del suo Maestro, che la condizionava con la sua notevole e carismatica figura e fungeva da fulcro catalizzatore e da anima della stessa comunità. Una simile comunità difficilmente avrebbe accolto le diverse tradizioni, fonti o testi evangelici, provenienti dalle altre comunità palestinesi, prodotte e costruite da discepoli di seconda generazione. Essa aveva il Discepolo Prediletto, da cui dipendeva interamente, e il quale non aveva certo bisogno di riferirsi a testi e fonti esterne per redigere la propria opera. Era essa, la comunità giovannea, che aveva fondato una tradizione tutta sua, avendo una fonte di prima mano al loro interno.

Sono questi elementi, a nostro avviso, che vanno premessi e tenuti in considerazione in un qualsiasi confronto letterario tra i Sinottici e il Quarto Vangelo. Certo, si possono rilevare identità di termini, espressioni molto simili, racconti, segni o qualche detto che richiamano i Sinottici, ma tutto ciò va ascritto all'identico soggetto, che tutti quattro i Vangeli trattano, ognuno a modo loro: Gesù e il mondo palestinese, in cui egli è nato, si muoveva e si relazionava. Non va, poi, dimenticato, come si accennava sopra, che spesso, anche involontariamente, si rischia di essere condizionati da ciò che si vuol trovare o provare. In conclusione, a nostro avviso, se un forte legame di interdipendenza, ma anche di originalità, unisce i tre Sinottici tra loro, nessun legame con questi va ascritto al Quarto Vangelo, un'opera del tutto originale, inedita e a se stante. Un evento letterario e teologico, che personalmente considero eccezionale e irripetibile.

Un'ultima premessa va posta sulla attribuibilità del titolo di “vangelo” al racconto giovanneo o, in altri termini, se il racconto giovanneo può rientrare a pieno diritto nel genere letterario evangelo. La questione si pone per le evidenti differenze tra i due modi, sinottico e giovanneo, di narrare e di porsi di fronte all'unico oggetto della comune narrazione; sono diversità tali da variare e condizionare la natura stessa delle quattro opere: kerigmatica, quella dei Sinottici; prevalentemente contemplativa e rivelativa, quella giovannea.

Il termine evangelo o vangelo deriva dall'espressione greca “eÙaggšlion” (euanghélion), che letteralmente significa “buon annuncio”, cioè l'annuncio di una lieta notizia. Nel mondo greco si designava con tale termine l'annuncio di una vittoria, le nozze del figlio del re, la nascita di un figlio del sovrano, talvolta anche la venuta del sovrano, che portava con sé gioia e doni ed era motivo di festa per tutti. Si trattava, comunque, di un annuncio in cui era coinvolto l'intero popolo; la sua dimensione, dunque, era universale e riguardava tutti. L'annuncio di questo lieto evento era affidato ad un araldo, che lo proclamava e lo diffondeva in mezzo alla gente, perché tutti ne venissero a conoscenza e tutti ne partecipassero. L'araldo o banditore era chiamato kÁrux (kêrix), il suo proclamare il lieto evento era espresso dal verbo khrÚssw (kerísso), mentre l'annuncio era definito dal termine k»rugma (kérigma). Sia il termine “euanghélion” che il verbo “kerísso” compaiono per la prima volta nella Prima Lettera ai Tessalonicesi, il più antico scritto cristiano pervenutoci e datato tra la fine del 50 e l'inizio del 51 d.C. Non che Paolo ne fosse stato l'inventore, ma di certo egli trovò le due espressioni presso le comunità credenti, con cui era in contatto e da cui proveniva dopo l'esperienza di Damasco. Quindi, i due termini esistevano già ed erano stati mutuati dal mondo profano dai primissimi nuclei di discepoli, per indicare l'annuncio di Gesù, che venne colto fin da subito come un evento di salvezza universale. Il suo annuncio, tuttavia, non venne lasciato alla libera fantasia dei primi predicatori, concepiti come gli araldi, i banditori di questo universale e lieto annuncio, ma seguiva uno schema prefissato, di cui abbiamo una testimonianza molto antica negli Atti degli Apostoli:

36Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d'Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti.
37Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni;
38cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.
39E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce,
40ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse,
41non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
42E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio.
43Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome ” (At 10,36-43)


Innanzitutto l'annuncio è concepito come “Parola di Dio stesso”, che Egli ha manifestato in Gesù, riconosciuto come il “Signore di tutti”, indicandone, in tal modo la

portata universale. L'essenza di questo lieto annuncio è l'atto di riconciliazione e di riappacificazione tra Dio e gli uomini (10,36), che avviene per mezzo di Gesù e si

concretizza nella remissione dei peccati, ottenuta per mezzo della fede in lui (10,43). I vv.10,36.43 formano, pertanto, un'inclusione, che abbraccia l'intero schema di

annuncio. Si tratta, quindi, di una sorta di premessa, che dà significato e senso all'intero contenuto del lieto annuncio. Esso è costituito da tre momenti essenziali: a)

battesimo predicato da Giovanni e inizio della vita pubblica di Gesù; b) opere e predicazione di Gesù inquadrate in una cornice geografica; c) morte e risurrezione con

accenni degli inizi della vita ecclesiale.


I punti fondamentali che formano l'ossatura della predicazione apostolica si possono, pertanto, individuare nei tre seguenti momenti:


1) La figura del Battista, la sua attività battezzatoria, il battesimo di Gesù, che inaugura l'inizio della sua attività pubblica.

2) La fine del racconto, formato dalla morte e risurrezione, apparizioni e consegna del mandato ai discepoli.

3) Tra questi due confini si colloca tutta l'attività di Gesù, parole ed opere, inserita in una cornice geografica essenziale: Inizio in Galilea, viaggio tra Galilea e Giudea, e da qui, in Giudea, a Gerusalemme, la tappa conclusiva.


Questo intero schema e i suoi relativi contenuti, che inaugurano il nuovo filone letterario, denominato “vangelo”, sono riscontrabili parimenti nel racconto giovanneo. Esso, infatti, segue lo schema narrativo del genere letterario “vangelo”, anche se in modo più libero e originale, affondando le sue radici nel racconto di un testimone diretto degli eventi.

Gli elementi che caratterizzano, infatti, il racconto giovanneo, inserendolo nel filone letterario “vangelo”, sono:

a) Inizio: presentazione della figura del Battista e sua testimonianza sul Cristo investito dallo Spirito. (1,19-33).

b) Attività di Gesù condensata in sette segni, raccolti nei primi 12 capitoli, e nella sua predicazione, a cui viene riservata una parte molto ampia e significativa, da cui emerge gradualmente la vera natura e figura di Gesù. Questa attività è raggruppata secondo le indicazioni topografiche indicate dalla prima predicazione apostolica.

c) Narrazione della morte-risurrezione di Gesù e consegna del mandato ai discepoli (capp. 18-20) e primi inizi della vita ecclesiale (21).

Quanto al quadro geografico, anche per Giovanni la Galilea costituisce l'inizio dell'attività di Gesù: primo segno di Cana, sua permanenza a Cafarnao (2,1-12). Vi è anche un viaggio dalla Giudea alla Galilea attraverso la Samaria (4,1-4). Gesù, poi, si muove in tutta la Giudea e in particolare a Gerusalemme, che in Giovanni acquista una notevole importanza: qui lo troviamo agli inizi, come discepolo di Giovanni266 (1,15.27.30) e con lui battezzava (3,22-23); ad eccezione della seconda Pasqua (6,1), che trascorre in Galilea, a Cafarnao (6,17.24.59), Gesù si reca spesso in Giudea e a Gerusalemme durante tutte le festività267. Qui purifica il tempio (2,13-22), sana un paralitico da 38 anni (5,1-18), guarisce un cieco nato (9,1-41), risuscita un morto (11,1-44) e compie altri segni (2,23). Qui viene posto il vertice della narrazione con la morte (18-19) e risurrezione di Gesù (20), mentre gli inizi ecclesiali si collocano, come per i Sinottici, in Galilea (21).

Possiamo, quindi, concludere che il racconto giovanneo, pur nella sua originalità sconcertante e unica nel suo genere, si può insignire con pieno diritto del titolo di vangelo, alla stessa stregua dei racconti sinottici, benché le sue finalità più che kerigmatiche , come per i Sinottici, sono contemplative.
Ciò premesso, passiamo ora ad un confronto tra il racconto giovanneo e quello sinottico, servendoci dell'aiuto di Angelico Poppi
268, per la sua notevole capacità di sintesi e chiarezza espositiva sulla questione.

Notevoli sono le differenze e tali da qualificare il vangelo giovanneo come diverso e, proprio per questo, ha subito un lungo processo di canonizzazione. Esso, infatti fu l'ultimo vangelo ad essere ufficialmente accolto tra gli scritti canonici, proprio per la sua spiccata diversità e originalità; uno scritto unico, che non ha paragoni in tutto il N.T.

Le diversità nei confronti dei Sinottici attengono a) ai contenuti, b) alla forma letteraria, c) alla cronologia, d) alla geografia e ai movimenti di Gesù, e) alla teologia:


a) i contenuti: quanto a questi, tra Giovanni e i Sinottici vi è una certa corrispondenza in alcune parti narrative, benché esposte in modo completamente diverso e con intenti esclusivi e propri dell'autore, circa l'attività del Battista, la purificazione del tempio, la guarigione del figlio del funzionario regio, la moltiplicazione dei pani, il camminare di Gesù sulle acque, l'unzione di Betania, l'ingresso messianico a Gerusalemme, il racconto della passione e risurrezione. Quanto al resto del materiale narrativo è esclusivo dell'autore, come il segno di Cana, il colloquio con Nicodemo, l'incontro con la Samaritana, la dislocazione dell'attività di Gesù su tre pasque e su sei festività, l'interrogatorio di Anna, il dialogo serrato tra Gesù e Pilato, l'affidamento di Maria al discepolo prediletto e il colpo di lancia al costato, la spartizione delle vesti, i numerosi discorsi pronunciati da Gesù, tutti propri di Giovanni e contenutisticamente del tutto originali. Soltanto qualche detto di Gesù, accomuna Sinottici e Giovanni, ma rimangono eventi occasionali e isolati.

b) La forma letterari: lo stile narrativo vivace, pittoresco, concreto, semplice e immediato dei Sinottici, adornato da stupende parabole, che affascinano il lettore, scompare completamente in Giovanni e viene da lui sostituito con ritmi lenti e riflessivi, dai toni squisitamente sapienziali, in cui il miracolo, che nei Sinottici diventa espressione della potenza di Dio (dÚnamij, dínamis), che agisce in mezzo al suo popolo, in Giovanni diventa un segno (shme‹on, semeîon) della manifestazione della gloria del Verbo Incarnato e ne rivela la natura. Ogni segno viene attentamente selezionato per lo scopo che deve soddisfare (20,31-32) ed è curato con particolare attenzione narrativa, intrisa di dialoghi, che aiutano a riflettere e a svelare, alleggeriti, qua e là, da una più o meno velata e soffusa ironia, che fa sorridere, ma non offende mai.

c) La cronologia: completamente diversa è la cronologia. Per i Sinottici tutto sembra risolversi nello stretto spazio di un anno, solo una pasqua è menzionata in essi, quella fatale per Gesù; per Giovanni lo spazio temporale si dilata su tre pasque (2,13; 6,4; 11,55), mentre l'attività di Gesù è scandita dalle festività. Anche i tempi e le modalità dell'ultima cena sono diversi e di conseguenza anche i tempi della stessa morte di Gesù. Giovanni parla di una cena a pochi giorni dalla pasqua (13,1-3), una sorta di cena di addio, in cui Gesù lascia il suo testamento spirituale, ma tutto si consuma alla vigilia della pasqua (19,14.31.42), il giorno in cui si immolavano gli agnelli nel tempio, creando in tal modo una connessione tra il sacrificio di Gesù e l'immolazione degli agnelli, figura di Gesù (1,29.36); per i Sinottici, invece, la morte di Gesù avviene nel giorno di pasqua. La diversità delle date, a nostro avviso, va ascritta alle diverse prospettive teologiche degli evangelisti269.

d) La geografia: come già si è visto sopra, la geografia giovannea è dettagliata e precisa e va a costituire e rafforzare il quadro storico, in cui il Verbo della Vita si è incarnato, operando la sua azione salvifica, lasciandosi raggiungere e interpellare da tutti gli uomini del tempo. Essa, quindi, assume una forte valenza teologica, contrariamente alla geografia sinottica, che riveste tratti di occasionalità ed è molto imprecisa. Anche il dislocamento geografico dell'agire di Gesù è completamente diverso: per i Sinottici Gesù opera esclusivamente in Galilea, dirigendosi verso Gerusalemme dove si compiranno i misteri della salvezza. Vi è, quindi, un unico viaggio: Galilea-Gerusalemme. Al contrario, il Gesù giovanneo compie diversi viaggi tra la Galilea e la Giudea, mentre il suo operare è collocato, quasi esclusivamente, in Giudea e a Gerusalemme. Anche qui, come per la cronologia, le diversità vanno ascritte alle diverse prospettive teologiche degli evangelisti.

e) Il contenuto teologico: benché l'oggetto delle attenzioni degli evangelisti sia identico, tuttavia diverse sono le angolazioni da cui questi è colto. Questo ha determinato l'assenza di numerosi temi in Giovanni, che, invece, sono propri dei Sinottici. Giovanni, infatti, non parla mai della necessità della conversione; è sostanzialmente assente il tema del Regno di Dio, la cui espressione viene citata casualmente due volte in 3,3.5; mentre ne parla, come il luogo della sua provenienza e appartenenza, soltanto tre volte nel dialogo con Pilato (18,36); non riporta il discorso della montagna né quello missionario; sono assenti le parabole, non è riportato il Padre nostro né il racconto della Trasfigurazione; non vengono ricordate guarigioni di lebbrosi e indemoniati; nessuna conversione da parte di pubblicani. Grande importanza vengono, invece, assegnati ai segni e ai discorsi, due pilastri su cui si muove l'intero vangelo.


      La struttura del Quarto Vangelo


L'analisi strutturale di un'opera riveste un'importanza fondamentale nella comprensione dell'opera stessa. La struttura, infatti, costituisce l'architettura di un'opera, attraverso la quale l'autore distribuisce organicamente il proprio pensiero, lasciando trasparire in tal modo i propri intenti e comunicando ai suoi lettori la visione che egli ha delle cose, di cui parla. Tuttavia, quando l'opera dista da noi circa duemila anni, portando con sé una cultura, che ci è estranea, e presentandoci un argomento alquanto complesso, l'individuazione della struttura di quest'opera non sempre diventa agevole, lasciando spesso spazio a molte e diverse interpretazioni. Non fa eccezione il vangelo giovanneo, la cui struttura è stata ed è oggetto di numerose definizioni270, che rispecchiano sovente, più che un dato oggettivo, il punto di vista dell'esegeta, ma che costituiscono, comunque, un indubbio contributo alla comprensione di un'opera molto complessa e stupefacente, che non ha eguali nel N.T.


La macrostruttura


È sufficiente un semplice sguardo d'insieme per rendersi conto che il Vangelo di Giovanni, si divide in due grandi parti:

  1. 1,1–12,50: questa prima parte, che racconta i tratti essenziali del ministero pubblico di Gesù, scandito su sei festività, precedute da una settimana introduttiva (1,19-2,11), è comunemente denominata il Libro dei Segni, sia perché qui sono racchiusi i sette segni, compiuti da Gesù durante la sua attività pubblica; sia perché il termine “shme‹on (semeîon, segno), qui e soltanto qui, ricorre sedici volte ed è distribuito su quasi tutti i capitoli, che la compongono271.

  1. 13,1–21,25: conclusa l'attività pubblica con il cap.12, questa seconda parte racconta l'intimità di Gesù con i suoi. Tutto gira attorno ad una cena (13,2a), che potremmo definire come la cena dell'addio, in cui Gesù lascia ai suoi il suo testamento spirituale (13-17); ma è anche la sezione in cui si attua l'ora della sua glorificazione, per la quale Gesù è venuto e che, come una trama di tessuto, fa da sfondo all'intero racconto giovanneo. Per tale motivo, questa seconda parte è definita comunemente il Libro dell'Ora o della Glorificazione272.

La suddivisione bipartita dell'opera è tuttavia giustificata anche da altri elementi formali. Il cap.12, infatti, si pone in modo evidente a conclusione dell'intera attività pubblica di Gesù, che iniziatasi con Gesù, che va verso Giovanni (1,29a) e incomincia a formare il proprio gruppo di discepoli (1,35-51), termina in duplice modo: a) in 12,37-43 vi è un amaro e deludente bilancio dell'attività pubblica di Gesù, che trova la sconsolata riflessione in 12,37: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui”; b) mentre con 12,44-50 vi è l'ultimo discorso pubblico di Gesù, il cui intento, da un punto di vista narrativo, è sintetizzare i temi fondamentali e le parole chiave dell'intera predicazione di Gesù e che in modo particolare si richiamano al prologo poetico (1,1-18), creando in tal modo una sorta di grande inclusione, che dà unità narrativa all'intera prima parte. I richiami al prologo sono determinati dai termini “gridare” in 12,44 e che ha la sua contropartita in 1,15; “credere” in 12,44.46 e in 1,7.12; “luce” in 12,46 e in 1,5.9; “tenebre” in 12,46 e in 1,5; “vita” in 12,50 e 1,1,4; “Parola” in 12,48 e in 1,1; “mondo” in 12,46.47 e in 1,9.10; “Padre” in 12,49.50 e in 1,14273.

Un altro elemento di distinzione tra le due parti sono i diversi e molteplici attori, che popolano i capp. 1-12, caratterizzati dall'attività pubblica di Gesù: le folle, con tutti i personaggi tratti dal loro anonimato come il figlio del funzionario regio, il cieco nato, il paralitico presso la piscina di Betsaida, Nicodemo, la Samaritana, Lazzaro con le sorelle, Marta e Maria, le autorità giudaiche, definite con la generica espressione di Giudei, a cui l'autore assegna un significato negativo per la loro invincibile incredulità; mentre in 13-17 Gesù si rivolge esclusivamente ai suoi, che, invece, lo hanno accolto. Una contrapposizione questa che si richiama ai vv.1,10-12 del Prologo. Si viene, quindi a creare una frattura narrativa tra il cap.12, in cui i destinatari, richiamati dai vv.12,37 e 12,44a, sono gli uomini in genere, e il cap.13, i cui attori principali sono Gesù e i suoi. Anche il contesto geografico è diverso: nella prima parte (1,19-12,50) è il variegato e molto movimentato mondo della Palestina; nella seconda parte (13,1-20,31) la geografia diventa topografia: ci si trova all'interno di un ambiente chiuso, ad una cena, che Gesù fa esclusivamente con i suoi; mentre Gerusalemme, ultima destinazione, diventa il luogo del compiersi del mistero. Significativo in tal senso è l'aprirsi del cap.13, che dà l'intonazione a tutta la sezione 13-17: “Ora, prima della festa della pasqua, sapendo Gesù che venne la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi nel mondo, li amò fino alla fine” (13,1).

Una nota va riservata alla titolazione, che Rudolph Bultmann assegna alla due parti del vangelo giovanneo, definendole significativamente, anziché “Libro dei segni” e “Libro della gloria”, “La rivelazione della dÒxa al mondo” e “La rivelazione della dÒxa alla comunità”. Sotto questa titolatura si nasconde un concetto di fondo, che coglie l'essenza del vangelo giovanneo: esso è una manifestazione della gloria del Figlio e del Padre, che si attua nell'ora stabilita dal Padre. Infatti, i due termini “éra” e “dÒxa” sono disseminati in modo consistente in tutto il racconto giovanneo274 e ne formano il leit-motiv narrativo. Destinatari di questa gloria sono in egual modo il mondo e la comunità credente. Quindi per il Bultamann l'elemento di distinzione delle due parti sono soltanto i destinatari della manifestazione della medesima gloria.


A loro volta, le due parti sono così ripartite:


Il Libro dei Segni


  1. 1,1-18: Prologo poetico, che funge da parte introduttiva, delineando i tratti essenziali del vangelo, che verranno richiamati in qualche modo nel discorso conclusivo dell'attività pubblica di Gesù (12,44-50), formando in tal modo un'inclusione tematica;

  1. 1,19-2,11: Prologo narrativo, scandito in cinque quadri, ognuno dei quali è introdotto da una annotazione temporale, che richiama da vicino la settimana della creazione genesiaca, facendo dell'evento Gesù una sorta di nuova creazione:

1) primo giorno (1,19-28): l'identità di Giovanni: egli è una voce che grida la sua testimonianza;

2) secondo giorno (1,29-34): l'identità di Gesù e la finalità della missione di Giovanni;

3) terzo giorno (1,35-42): i primi discepoli: da Giovanni a Gesù; precisazioni sull'identità di Gesù: egli è il Messia e l'Agnello di Dio;

4) quarto giorno (1,43-51): altri discepoli aderiscono a Gesù. Altre indicazioni sull'identità di Gesù: : egli è il figlio di Giuseppe, è figlio di Dio e re d'Israele;

5) settimo giorno (2,1-11): le nozze di Cana, in cui avviene il primo segno. Se questo segno, da un lato, conclude il prologo narrativo, dall'altro, apre, con l'espressione “a Cana della Galilea”, una nuova sezione narrativa, caratterizzata dall'inclusione data dalla citata espressione in 2,11 e in 4,46, tradizionalmente definita come “sezione da Cana a Cana”.


  1. 2,12-13: versetti di transizione. Con una nota geografica (“scese a Cafarnao”) e una temporale (“non molti giorni”) in 2,12 si chiude il prologo narrativo, mentre il v.13 traghetta il lettore in un nuovo contesto temporale (la prima Pasqua) e geografico (Gerusalemme).

  1. 2,14-4,54: Sezione da Cana a Cana. Questa sezione si suddivide, a sua volta, in tre sottosezione, composte da quadri narrativi.

  1. Prima sottosezione (2,14-3,21) composta da tre quadri:

  1. Quadro (2,14-22): il contesto è quello pasquale e Gesù si trova a Gerusalemme. Cacciata dei venditori dal tempio e allusione alla risurrezione; Gesù è il nuovo Tempio. Segue il bilancio conclusivo sulla prima Pasqua (2,23-25).

  1. Quadro (3,1-10): l'incontro notturno con Nicodemo.

  1. Quadro (3,11-21): primo discorso che si accompagna all'incontro con Nicodemo


  1. Seconda sottosezione (3,22-4,4) composta da due quadri:


  1. Quadro (3,22-26): chiarimento dei rapporti tra Giovanni e Gesù, in cui Giovanni riconosce la superiorità di Gesù. Il chiarimento si conclude con il secondo discorso (3,31-36), che, agganciandosi al v. 3,30, lo sviluppa, fornendo le motivazioni teologiche della superiorità di Gesù. Con questo quadro si chiude il confronto diretto tra Gesù e Giovanni, le loro identità e le loro rispettive missioni; un confronto che, iniziatosi in 1,6-8, è proseguito in 1,15 e in 1,19-36. Successivamente la figura di Giovanni comparirà ancora in 5,33.36; 10,40.41, ma sarà soltanto menzionata.

  1. Quadro (4,1-4): si tratta di un piccolo quadro narrativo, che transita il lettore dal confronto Giovanni-Gesù al protagonismo esclusivo di Gesù, che da questo momento diventerà il personaggio principale del racconto. Viene in tal modo data continuità logica e narrativa al quadro precedente, a cui questo è agganciato, e lo conclude.


  1. Terza sottosezione (4,5-54), composta da due grandi quadri intermezzati da 4,43-45:


  1. Quadro (4,5-42): L'incontro tra Gesù e la Samaritana;

  1. Quadro (4,46-54): racconto del secondo segno: la guarigione del funzionario regio, occasione di lamentela da parte di Gesù per la fragilità di una fede legata ai segni sensibili.


  1. I capp. 5-10 contengono la grande sezione dell'attività pubblica di Gesù, scandita su di una sequenza temporale logica delle quattro festività principali del mondo giudaico, Pasqua, Pentecoste, Capanne e Dedicazione, che, abbracciando il periodo marzo/aprile – dicembre/gennaio, formano il secondo anno di attività di Gesù275. Per un motivo di ordine logico, faremo partire la nostra analisi strutturale dal cap.6276.

  1. Cap. 6: festività di Pasqua (seconda). Il capitolo è caratterizzato dalla presenza di due segni, il quarto e il quinto: la moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,5-15) e la deambulazione di Gesù sulle acque (6,16-27). Un lungo discorso sul pane, che occupa il restante capitolo, conclude la riflessione sul terzo segno (6,28-71).

  1. Cap. 5: festività di Pentecoste277. Il capitolo è caratterizzato dal terzo segno, la guarigione di un paralitico in giorno di sabato (6,1-8), seguito da una diatriba sul sabato (6,9-18) e da un lungo discorso conclusivo (6,19-47).

  1. Cap. 7: festività delle Capanne funge da cornice (7,2.14.37) a nove unità narrative di varia natura, giustapposte l'una accanto all'altra, senza apparente ordine né logico né di interconnessione tra loro. Tutte hanno come argomento centrale la persona di Gesù, attorno alla quale si sviluppano notevoli tensioni. Quest'ultimo aspetto è l'unico leit-motiv che le accomuna tutte.

  2. Cap. 8: il giorno successivo alla festa delle Capanne (8,2) ha come cornice il Tempio (8,2.20.59). Qui si svolge il racconto dell'adultera colta in flagrante (8,3-11) e qui si susseguono tre discorsi (8,12-20.21-30.31-59), in cui Gesù si dichiara “luce del mondo” (8,12);

  3. Cap. 9: stesso giorno del cap.8 (8,59-9,1) ed è un sabato (9,14). L'intero capitolo è dedicato al racconto del cieco nato e che spiega il senso di Gesù luce del mondo.

  1. Cap. 10: festività della Dedicazione. L'intero capitolo è dedicato all'identità di Gesù, definito come la Porta delle pecore (10,1-10); il Buon Pastore (10,11-18); il Cristo (10,24-25); Gesù è Dio (10,10,33). Il capitolo, e con esso il secondo anno di attività di Gesù, si chiude con Gesù che sfugge all'arresto (10,39) e si rifugia in Betania di Perea (10,40), dove prima battezzava Giovanni (1,28; 3,22-23)


  1. I capp. 11-12 potremmo definirli di transizione, poiché concludono l'attività pubblica di Gesù e collocano il lettore a ridosso della terza Pasqua (11,55), quella fatale per Gesù, traghettandolo verso il compimento dell'ora e della glorificazione (13-20).


Il Libro della Glorificazione


Questa seconda parte comprende i capitoli 13-21, così strutturati:

  1. Capp. 13-17: Gesù nell'intimità con i suoi; fa da cornice una cena, che potremmo definire come “la cena degli addii”;

  1. Capp. 18-19: primo tempo della glorificazione: la passione e la morte di Gesù;

  1. Cap. 20: secondo tempo della glorificazione: la risurrezione;

  1. Cap.21: l'epilogo a sfondo ecclesiologico: sulla parola di Gesù si gettano le reti.


Gesù nell'intimità con i suoi: capp. 13-17


  1. Cap. 13: introduce nel contesto di una cena (v.2a), in cui avvengono tre eventi:


- la lavanda dei piedi (vv.1-20);

- il traditore svelato abbandona la cena e il gruppo (vv.21-30);

- Pietro giura fedeltà a Gesù, che gli predice il suo triplice rinnegamento (vv.36-38)


  1. Capp. 14-17: contengono un intenso e incalzante susseguirsi di sette discorsi, alcuni, come il cap.14, sotto forma dialogica, in cui l'interlocutore di Gesù funge da spalla per rilanciare il discorso o introdurre nuovi temi. I discorsi, giustapposti l'uno accanto all'altro, ognuno dei quali tratta una propria tematica, sono così suddivisi:

  1. Discorso (14,1-30): è formato da un collage di uno o più detti giustapposti l'uno accanto all'altro, i quali accennano a diverse tematiche;

  1. Discorso (15,1-17): la vite e i tralci, ossia il rapporto che intercorre tra Gesù e i suoi;

  1. Discorso (15,18-16,4): il rapporto tra mondo e discepoli e l'oggettiva responsabilità del primo per il suo manifesto rifiuto;

  1. Discorso (16,5-15): il ritorno di Gesù al Padre è la condizione necessaria per l'invio dello Spirito Santo, che condurrà i discepoli alla pienezza della verità;

  1. Discorso (16,16-22): Gesù preannuncia ai suoi la sua prossima morte e risurrezione;

  1. Discorso (16,23-33): chiedere nel nome di Gesù, che, ritornato al Padre, è ora rivestito di potenza e, per questo, può tutto. Questo deve spingere i credenti a confidare non in loro stessi, bensì in lui, che ha vinto il mondo;

VII. Discorso (17,1-26): la grande preghiera di Gesù per i suoi, sui quali invoca l'unità e l'amore, ponendo come parametro di raffronto e fondamento lo stesso rapporto che lega lui e il Padre.


  1. Capp. 18-19: il racconto della passione e morte di Gesù, da cui traspare la sua regalità

  1. Cap. 20: la scoperta della tomba vuota: inintelligenza, perplessità, intuizioni e comprensione agitano le prime comunità credenti, che con l'aiuto delle Scritture arrivano a comprendere la verità: Gesù è risorto.

  1. Cap. 21: è il capitolo ecclesiale del dopo Gesù, che sancisce la riconciliazione della comunità giovannea con le comunità palestinesi, riconoscendo il primato di Pietro.



Giovanni Lonardi




N O T E

1Sul tema del periodo storico cfr. G. Floramo e D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, l'Antichità, Editori Laterza, Bari 1997; Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica; e per le singole voci il Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato, 2005.

2Circa la datazione cfr. il titolo “Luogo e data di composizione”

3Gli Zeloti, un gruppo politico-religioso integralista, sorto nel I sec. d.C., che potremmo considerare come il braccio armato dei Farisei, alla cui dottrina erano particolarmente legati, erano convinti che non si dovesse aspettare passivamente l'avvento del Regno di Dio, ma che si dovesse intervenire attivamente nella storia per provocare il cambiamento messianico. Alla base delle loro convinzioni stava un ideale teocratico: solo Dio doveva regnare su Israele. L'avvento del Regno di Dio, secondo la loro concezione teologica, era ritardato, se non impedito, per la presenza dei pagani sulla terra di Israele. Scacciare l'invasore romano, quindi, più che un atto politico e di liberazione, aveva finalità prevalentemente teologiche. - Sulla questione cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato (AL), 2005

4Dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) il suo immenso impero venne diviso tra i suoi generali (diadochi). La Palestina, punto strategico nel medioriente, era contesa dai Lagidi di Egitto e i Seleucidi della Siria, finché sotto il seleuco Antioco III, vincitore degli egiziani, passò definitivamente sotto i Seleucidi. Ad Antioco III, successe il fratello Antioco IV, detto Epifane, cioè manifestazione di Dio. Questi, per dare unità al suo impero, impose una spregiudicata ellenizzazione della Palestina, provocando le reazione del popolo, che capeggiato dalla famiglia dei Maccabei, ingaggiò una dura lotta contro Antioco IV, durata dal 167 al 164 a.C., al termine della quale egli venne cacciato, Gerusalemme riconquistata e il Tempio purificato dalla profanazione. A ricordo di questo evento venne istituita la festività della Hannukah o Dedicazione, cadente nel mese di dicembre.

5La comunità di Qumran sorse tra il 150 e il 130 a.C. ad opera di un ignoto sacerdote, chiamato negli scritti qumranici Maestro di Giustizia. Questi, seguendo le indicazioni di Is 40,3ss, si ritirò nel deserto a preparare l'avvento del Signore e del suo Regno. La comunità conduceva una vita di tipo monastico con una propria rigorosa organizzazione interna. Essa fu molto attiva, ed avendo predetto l'intronizzazione regale di Erode il Grande sui Giudei, entrò nelle sue grazie. Della comunità si persero definitivamente le tracce nel 68 d.C., dopo che la X legione romana, la Fretensis, che ebbe un ruolo primario nell'ambito della prima guerra giudaica, ne distrusse l'insediamento. Cfr. la voce “Qumran” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op.cit.; - Luigi Moraldi, I Manoscritti di Qumran, Editori Associati Spa, Milano 1994; G.Flavio, Antichità Giudaiche, XV, 371-374.

6Il testo è tecnicamente denominato 1QM, in cui 1 sta per “Prima Grotta” delle 11 trovate a Qumran tra il 1947 e il 1956; Q sta per Qumran; mentre M sta per Milhāmāh (Guerra). Esso risale verso la fine del I sec. a.C. e tratta delle regole riguardanti una guerra escatologica della durata di quarantanni, che i figli della luce (gli adepti della comunità qumranica) avrebbero ingaggiato a fianco di Dio e delle schiere angeliche contro i figli delle tenebre. Cfr. L. Moraldi, I Manoscritti di Qumran, op. cit.

7L' Idumea era una regione desertica posta a sud della Giudea ed era pagana. Nel 128 a.C. l'asmoneo Giovanni Ircano (134-104 a.C.) la sottomise e la giudaizzò forzatamente, imponendo agli Idumei la circoncisione e il culto ebraico. Essi, pur considerati legalmente giudei, di fatto furono considerati dai Giudei dei bastardi. Da questi uscì la dinastia degli Erode che governò a lungo (47 a.C.- 66 d.C.), malvista e mal sopportata, l'intera Palestina.

8Dopo il lungo e bellicoso governo di Alessandro Ianneo (103-76 a.C.), gli successe la vedova Alessandra, che regnò dal 76 al 67 a.C. - Al fine di evitare guerre fratricide tra i suoi due figli, nominò il suo primogenito, Ircano II, sommo sacerdote e il secondogenito, Aristobulo II, capo dell'esercito. Quest'ultimo esautorò suo fratello, si autoproclamò re e sommo sacerdote. Si scatenò così una guerra tra i due. Entrambi cercarono l'alleanza di Roma. Pompeo, che in quel tempo stava conducendo delle campagne di conquista nel medioriente, colse l'opportunità offertagli da entrambi i contendenti e scelse il partito di Ircano II, il quale, nella guerra contro il fratello, era appoggiato da Antipatro, padre di Erode il Grande, divenuto poi suo primo ministro. Pompeo conquistò Gerusalemme e ricostituì Ircano nel suo titolo di sommo sacerdote, mentre Aristobulo e i suoi figli due figli, Alessandro e Antigono, vennero condotti a Roma quali prigionieri e ostaggi di alto rango. Sgombrato il campo dal fratello concorrente, Antipatro divenne l'uomo forte del momento e un saldo punto di riferimento per i Romani, che gli accordarono piena fiducia, nominandolo viceré della Giudea nel 47 a.C. - Cfr. G. Floramo e D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, op. cit.

9G. Flavio, Guerra giudaica, I, 203-205.

10G. Flavio, Guerra giudaica, II, 57.

11G. Flavio, Guerra giudaica, II, 60-64

12Cfr. G. Floramo e D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, op. cit.

13Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XX, 97

14Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XX 169-172

15Cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato, 2005.

16Cfr. Gv 3,3.7.31;

17Cfr. Rm 13,11; 1Cor 4,5; 7,29-31; 10,11; 1Ts 1,9-10; 5,1-6

18In tal senso cfr. R. E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi (Pg), 1999 – Pag. XCI

19Cfr. Gv 3,16; 5,22.24.27; 9,39; 12,31.47

20Cfr. Lc 2,11; 4,21; 5,6; 19,5.9; 23,43.

21 Soltanto Paolo si avvicina in qualche modo a Giovanni, ma il suo pensiero, di grande e unica profondità teologica, cristologica e dottrinale, soffre dell'occasionalità del suo manifestarsi. Il pensiero paolino, infatti, ci è stato tramandato attraverso le sue lettere, la cui funzione non era dottrinale o teologica, ma essenzialmente pastorale, finalizzata a rispondere alle questioni interne delle sue comunità. Contrariamente, il vangelo di Giovanni è una lirica contemplazione del Verbo Incarnato; certo, anche questo, scritto per la sua comunità; non sono assenti, quindi, i motivi pastorali, ma esso si distingue per la sua compattezza e profondità di pensiero, scevro dalle preoccupazioni pastorali di Paolo.

22Datazione che segue l'ipotesi di A. van Hoonacker, la più condivisa tra gli studiosi. La Tradizione sposta la data al 458 a.C. Sennonché alcune riforme di Esdra presuppongono quelle di Neemia.

23Cfr. Is 29,13; Ger 3,10; Ez 11,9

24Cfr. Mt 15,8; 23; Mc 7,6; Lc 11,42

25Cfr. Es 19,8; 24,3.7; Dt 5,27

26Con questa espressione “secondo Tempio” ci si riferisce al periodo postesilico, che segna una svolta nel vivere sociale e religioso di Israele, che andò sotto il nome di giudaismo. Si chiudeva, quindi, l'era del primo Tempio, quello costruito da Salomone. Fu l'era caratterizzata dalla monarchia e dal grande profetismo. Tutto un mondo questo che venne stroncato con la distruzione del regno di Israele (722 a.C.) e di quello di Giuda (597-582).

27Sul tema del vuoto formalismo cultuale, non sostanziato da un corretto vivere in conformità alle esigenze di Dio, cfr. Is 1,10-20

28Similmente cfr. Es 3,7.10; 6,7

29Cfr. Sal 22; 79,2; Is 40,11; Ger 3,15; 10,21; 12,10; 23,1-6; 31,10; Ez 34,1-31; Zc 11,15-17

30Cfr. Gen 17,1; 26,24; 46,3; Es 3,6.14; 20,2; Lv 11,45; 19,10; 10.12; Dt 5,9; 32,39.

31Cfr. Is 45,18.19.22; 46,9; 47,10; 48,12.17.

32Cfr. Gv 1,26-27; 3,5.23; 4,7.10.11.13.14.15; 5,7; 7,38; 13,5; 19,34

33Cfr. Nm 20,8; Sal 1,3; 41,2; 62,2; 71,6; 77,16; 104,41; Is 12,3; 33,16; 35,7; 41,16-20; 44,3; 48,21; 49,10;55,1; Sap 11,4; Sir 15,3; Ez 47,12; Zc 14,12; Ger 2,13; 17,7-8.13; 31,9; Ez 16,9; 34,17-19; 36,25; 47,1-4; Gl 2,23.

34Tra le festività qui citate, esula dalla Torah la festività della Dedicazione o Hanukkah, che richiama la purificazione del Tempio dopo la sua profanazione da parte di Antico Epifane IV (167-164), le cui vicende sono raccontate nei due libri dei Maccabei (1Mac 4,36-61; 2Mac 10,1-8). La festività viene ancor oggi celebrata tra il 25 di Kislèv (nov./dic.) al 2 o 3 di Tevèt (dic./gen.).

35Cfr. Gv 1,17.45; 3,14; 5,45.46; 6,32; 7,19.22.23; 8,5; 9,28.29

36Cfr. Gv 1,23; 2,17; 6,31.45; 7,38.42; 8,17; 10,34.35; 12,13.14-15.38-40; 13,18; 15,25; 17,12; 19,24.28.36.37; 20,9

37In particolar modo Matteo riporta oltre una quarantina di citazioni, tra dirette e indirette, finalizzate a dimostrare come Gesù fosse il compimento delle Scritture. Convinzione che l'evangelista testimonierà in 5,17.

38Il termine ellenismo fu coniato dallo storico tedesco Johann Gustav Droysen (1808-1884) nella sua opera Geschichte des Hellenismus.

39Il termine diadoco è la traslitterazione di quello greco di£docoj, che significa letteralmente “colui che subentra” e, quindi, il successore. Antipatro ebbe in sorte la Macedonia e la Grecia; Antigono governò la Frigia e la Lidia, mentre Tolomeo l'Egitto, Lisimaco la Tracia, mentre l'impero era retto pro tempore per conto del figlio di Alessandro dal generale Perdicca. Ma dopo la morte di Antipatro e lo sterminio della famiglia di Alessandro, si aprì una lunga contesa tra i Diadochi, che portò nel 275 a.C. alla spartizione dell'impero: la Macedonia, sotto il dominio degli Antigoni; Siria, Mesopotamia e Persia sotto i Seleucidi, che ebbero la parte di territorio più consistente dell'impero di Alessandro, ma anche la più difficile; l'Egitto, il paese più ricco del mondo antico, passò ai Tolomei e con l'Egitto passò ai Tolomei anche la Palestina, che fu da loro controllata fino al 198 a.C. per poi passare sotto i Seleucidi.

40Con la battaglia di Azio, il 31 a.C., l'Egitto viene condotto sotto il dominio di Roma.

41Va distinto il periodo in cui si forma e si afferma l'ellenismo (323-31 a.C.), come grande movimento culturale che coinvolge il mondo antico da occidente ad oriente, da quello che, invece, viene inteso come educazione specifica dell'uomo nella sua individualità (paideia). In quest'ultimo caso l'ellenismo si conclude convenzionalmente nel 529 d.C., quando l'imperatore Giustiniano, nella sua campagna contro il paganesimo, farà chiudere l'Accademia Platonica.

42La traduzione delle Scritture in greco fu un evento storico. Per l'ebreo, infatti, era impensabile cambiare la lingua con cui fu scritta la Torah, poiché l'ebraico era considerato una lingua sacra, la lingua con cui Jhwh dettò le sue volontà e stipulò l'Alleanza con il suo popolo. Proprio per la particolarità dell'evento, attorno questa traduzione, resasi ormai necessaria per la folta comunità giudaica di Alessandria, che non comprendeva più l'ebraico, parlando esclusivamente il greco, sorse una leggenda a garanzia della fedeltà della traduzione ebraico-greco, che ha il sapore di un imprimatur divino. Secondo la leggenda, narrata nella Lettera di Aristea a Filocrate, Tolomeo II Filadelfo aveva commissionato alle autorità religiose di Gerusalemme per la nuova biblioteca di Alessandria, una copia della Scrittura tradotta in greco. Il sommo sacerdote Eleazaro nominò 72 saggi, sei per ogni tribù d'Israele, e li inviò al sovrano, che li accolse con grande benevolenza ed entusiasmo. Questi si ritirarono nell'isola di Faro e, separati gli uni dagli altri, portarono a termine la grande opera in 70 giorni. Al termine del lavoro, le traduzioni vennero tra loro confrontate e con grande stupore di tutti si osservò come esse fossero identiche tra loro.

43Si pensi in tal senso all'opera di Senaca (4.aC.-65 d.C.), “Lettere morali a Lucilio”, che costituisce il vertice della maturità umana e morale del filosofo, contemporaneo e coetaneo di Gesù.

44Filone, ebreo di nascita, nacque ad Alessandria d'Egitto, dove vi era una florida e numerosa comunità ebraica. Egli proveniva da una famiglia molto ricca e molto influente. La sua posizione di benestante gli consentì di dedicare tutta la sua vita alla scienza, alla cultura e al tentativo di promuovere la vita spirituale e religiosa della comunità ebraica di Alessandria, dove, per la sua posizione sociale, doveva godere di un alto prestigio. Egli scrisse molto sulla Torah, usando il metodo allegorico, offrendo in tal modo la possibilità di una riflessione filosofica ed etica al suo lettore.

45Cfr. Gv 7,35; 12,20; 19,20

46Cfr. Gv 10,30; 14,7-11; 17,11.21.22

47Fino al 1945 lo gnosticismo era conosciuto prevalentemente attraverso le opere apologetiche dei Padri della chiesa, che lo combattevano per il suo modo distorto di concepire il mistero di Cristo e di leggere le Scritture. Ma la scoperta, nel 1945 a Nag Hammadi, l'antica Chenoboskion, in Egitto, di 13 codici del IV sec. d.C., contenenti 52 trattati, scritti in copto, ha fatto cambiare idea, distinguendo uno gnosticismo pagano, risalente in epoca anteriore al I sec. d.C., da uno cristiano, che dal primo dipese. Tra questi trattati vanno ricordati i più significativi, come il Vangelo di Verità, l'Apocrifo di Giovanni, il Vangelo di Tommaso e il Vangelo di Filippo. Tutti i testi originali, contenuti nei 13 codici, vengono fatti risalire tra il I e il II sec. d.C., epoca questa in cui la gnosi ebbe la sua affermazione.

48L'intero sunto sullo gnosticismo, qui riportato, è tratto da H. Jonas, Lo gnosticismo, editrice SEI, Torino 1991.

49Valentino nacque in Egitto prima del 135. Egli fu un teologo e un filosofo gnostico, fondatore della setta dei valentiniani. Ricevette la sua prima istruzione ad Alessandria d'Egitto, dove diffuse la sua dottrina, prima di raggiungere Roma, sotto il pontificato di Igino (138-142) ed ebbe il suo apogeo al tempo di papa Pio I (142-155). Rimase qui a Roma fino a tutto il pontificato di papa Aniceto (155-166). Da Roma si ritirò a Cipro dove probabilmente morì nel 165. - Cfr. Johannes Quasten, Patrologia, ed. Marietti, Assisi 1992

50Tito Flavio Clemente nacque, probabilmente ad Atene, verso il 150 da genitori pagani e qui ricevette la sua prima educazione. Convertitosi al cristianesimo, compì lunghi viaggi in Italia meridionale, in Siria e in Palestina. Egli, alla ricerca della vera sapienza, si propose di mettersi alla scuola dei maestri più famosi. Giunto ad Alessandria, si pose alla scuola di Panteo. Le sue lezioni lo attrassero particolarmente e ne determinarono il suo orientamento intellettuale. Si stabilì, quindi, definitivamente ad Alessandria e, dapprima discepolo di Panteo, divenne poi suo assistente e infine, intorno al 200, lo sostituì nell'insegnamento, divenendo capo della scuola catechetica. Le persecuzioni dell'imperatore Settimio Severo lo costrinsero a lasciare l'Egitto e si rifugiò in Cappadocia presso il suo allievo Alessandro, il futuro vescovo di Gerusalemme. Qui morì poco prima del 215, senza più aver rivisto l'Egitto.

51Cfr. La citazione è riportata da H.Jonas nella sua opera citata alla nota 44. Essa è riportata da Clemente Alessandrino in Excerpta ex Theodoto, 78,2.

52Cfr. Gen 6,12-13; Rm 8,19-22.

53Paolo nella sua Lettera ai Romani insisterà su questo concetto: nessun uomo è scusato davanti a Dio, poiché ciò che essi potevano sapere e conoscere di Dio è stato loro manifestato per vie naturali da Dio stesso: “In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (Rm 1,18-21)

54Cfr. Gv 1,1-2.18; 3,13; 6,46; 8,38; 12,28; 13,1; 14,6; 16,28; 17,5; 20,17b.

55Cfr. Gv 1,1-2.14.18b.34; 3,34; 5,18b.19.43; 6,27.46.57; 8,16.28.42.54.58; 9,33; 10,15.30.33.36.38; 11,27; 12,49; 13,3; 14,9-11.20.24b; 16,27.28.30; 17,1.3.5.21; 19,7;

56Cfr. Gv 1,1-2.18; 3,12-13; 5,20.36; 6,28-29; 6,40.46; 7,28-29; 8,28.38.40.42.52.54-55; 10,15.25.32.37-38; 12,49.50; 14,2.4.6a.10.11.31; 15,15b; 17,25

57Cfr. Gv 6,44.57.65; 8,38.40; 10,30.37-38; 12,50; 13,18a; 14,6b.9-11; 17,6.26;

58Cfr. Gv 1,5.10-11.26.31; 3,19; 4,10.32; 7,28-29; 8,12.19.24.31-32.54-55; 9,29; 12,35.37-41.46; 14,17a; 15,21; 16,3; 17,25a;

59Cfr. Gv 1,4.9.12-13; 2,11.23; 3,15.16.36; 4,42; 5,24; 6,29.40.47.69; 7,37-38; 8,32; 10,4.14.27; 11,25-27.40.45; 12,36a; 14,4.7.17b; 16,27.30; 17,3.6.8.26; 20,31.

60Gv 1,4.5.9; 3,18-19.21; 8,12; 9,5; 11,10; 12,31.35-36.46; 14,30; 16,11.33.-

61Gv 1,37-38.43; 2,23; 6,2.67-69; 10,4.27; 12,26; 20,31

62Il termine conoscere o conoscenza ricorre 69 volte; il verbo sapere 67 volte; il verbo manifestare 9 volte, mentre rivelare compare 2 volte.

63Si tratta di un frammento lacunoso, mancando l'inizio e la fine, scritto in un latino letterariamente povero e difettoso, il cui autore è anonimo. Fu scoperto presso la Biblioteca Ambrosiana da Ludovico Antonio Muratori e pubblicato nel 1740. Il manoscritto, databile intorno all' VIII sec., riporta al v.44 un riferimento al papa Pio I (142-154/55) (“sedente cathedra Urbis Romae ecclesiae Pio Episcopo”), la quale cosa lascia intendere come questo scritto sia stato redatto intorno al 170 d.C. in greco, la lingua ufficiale della chiesa fino al 400 d.C., e successivamente, tradotto in un latino molto povero, giunse fino a noi.

64Gli altri due criteri canonici erano il rispetto della dottrina e la diffusione del testo presso le comunità credenti.

65Per gli storici antichi ciò che contava non era il fatto in se stesso, bensì il suo contenuto e il suo significato. Pertanto la ricerca storica verteva sulla trasmissibilità del senso e del significato del fatto, non sulla veridicità del suo accadimento, così come apparso nella storia. Era, quindi, sostanzialmente irrilevante il fatto espresso nella sua storicità, così come accaduto. Esso, quindi, nel suo aspetto esteriore poteva anche essere modificato o cambiato completamente se il suo accadere non lasciava trasparire il suo contenuto e il suo significato. Questo modo di procedere fa a pugni con il nostro modo scientifico di intendere la storia. Lo storico odierno cerca fatti, documenti, testimonianze, personaggi storicamente ben definiti, luoghi geografici, cause, ecc. , mentre per quanto riguarda il contenuto o il significato dei fatti, esso, per lo storico moderno, è del tutto irrilevante. Sarà eventualmente il filosofo o il critico, che si accolleranno il compito di comprenderne il significato. Per questo contrapposto modo di intendere e di scrivere la storia è necessario chiedersi sempre che cosa l'autore intendesse dire con ciò che ha detto e quale fine egli perseguiva.

66Cfr. Mt 4,21; Mc 1,19-20; Lc 5,10

67L'espressione greca è “¥nqrwpoi ¢gr£mmato… e„sin kaˆ „diîtai” (àntzropoi agrámmatoí eisin kaì idiôtai). Letteralmente “uomini analfabeti e ignoranti”.

68Il termine cameo è l'abbreviazione dell'espressione inglese “cameo appearance” o “cameo role” o, più semplicemente, “cameo”, tradotto in italiano con cammeo. Con questo termine nel linguaggio teatrale o cinematografico si indicavano le brevi e fuggevoli apparizioni dell'autore del film o di un qualche personaggio di rilievo e comunque pubblicamente noto. Perché un'apparizione venga definita cameo, essa deve durare almeno cinque secondi. Benché non unici nella storia del cinema, famosi sono quelli di Alfred Hitchcock.

69Il termine scriba compare 22 volte nel vangelo di Matteo, 20 al plurale e soltanto due al singolare: al v.8,19, in cui uno scriba si avvicina a Gesù promettendogli di seguirlo ovunque; e al v.13,52, dove, sempre uno scriba, si presenta come discepolo di Gesù, che ha già elaborato il suo precedente credo (Legge mosaica) coniugandolo con le esigenze del nuovo evento Gesù. È probabilmente lo stesso Matteo, che si coglie agli inizi della sua vocazione (8,19) e nella sua ormai consumata esperienza di discepolo (13,52), che ha saputo sapientemente coniugare l’antico con il nuovo. Per questo egli si propone quale esempio alla sua comunità di giudeocristiani, che come lui si sono convertiti e fatti discepoli del Maestro.

70Il verbo “vedrete” è espresso in greco con “Ôyesqe” (ópseste), futuro di oraw, che nel linguaggio dei vangeli è il verbo proprio della fede ed è sinonimo di credere.

71 All'epoca del Nuovo Testamento il giudaismo aveva adottato la suddivisione del giorno romano, che si riscontra negli stessi Vangeli: 12 erano le ore del giorno e 12 quelle della notte. Le ore del giorno erano contate con i numeri ordinali, prima ora, seconda ora, ecc. fino alla dodicesima, corrispondente alle nostre 6 pomeridiane. La notte era divisa in quattro vigilie, di 3 ore ciascuna, a partire dalle sei pomeridiane e fino alle sei del mattino del giorno successivo. L'ora decima, quindi, corrisponde alle nostre 16,00 pomeridiane.

72L'espressione greca, che indica “sul seno” di Gesù è “™n tù kÒlpJ” (en tô kólpo), ha attinenza con aspetti fisici propri di una donna e significa oltre che seno, anche grembo, utero, ventre, viscere per indicare, probabilmente, il particolare rapporto di affetto tra Gesù e questo discepolo anonimo, assimilabile all'affetto materno. L'espressione “en tô kólpo”, con quel “en”, esprime uno stato in luogo e, quindi, una situazione che indica permanenza, continuità, pieno affidamento.

73Il verbo greco qui usato per esprimere l'appoggiarsi è “¢nake…menoj” (anakeímenos), il quale, tra i vari significati, assume anche quello di “dipendere da”, “riferirsi a”.

74 Taluni autori ritengono che la presenza di un articolo indeterminativo davanti all'espressione “altro discepolo” sia indice che qui l'autore parli di un altro discepolo, diverso da quello amato, che in questo caso avrebbe avuto davanti a sé un articolo determinativo. In realtà è sempre lo stesso discepolo, quello amato, anche se non individuato dall'articolo determinativo, la quale cosa accentua una volta di più il suo anonimato. Due sono gli elementi che qualificano questo discepolo come quello amato: l'anonimato e la precisazione immediatamente successiva, “quel discepolo ...” (Ð de maqht¾j ™ke‹noj). L'aggettivo dimostrativo “quel” (™ke‹noj) in realtà non si riferisce esclusivamente al discepolo che segue Gesù assieme a Pietro, indicato con l'espressione “un altro discepolo”, bensì richiama qui il discepolo amato, creando un aggancio e una identificazione tra i due. Infatti, se l'autore avesse pensato soltanto ad un discepolo diverso da quello amato, non avrebbe usato un aggettivo dimostrativo come “™ke‹noj”, bensì “oÞtoj”, che significa “questo”, indicando il discepolo appena citato. Usando “™ke‹noj”, invece, l'autore rimanda il suo lettore ad un discepolo anonimo, che già aveva citato prima e che è noto proprio per il suo anonimato, qui accentuato dall'articolo indeterminativo, e per il suo particolare rapporto con Gesù. Usando, pertanto, l'aggettivo dimostrativo “™ke‹noj” sembra quasi dire che l'espressione “un altro discepolo” si riferisce, in realtà, a “quel discepolo”, cioè quello amato. Non abbiamo, quindi, “un altro discepolo”, ma è sempre “quel discepolo”, sempre rinchiuso nel suo rigido anonimato.

75Maria comparirà per l'ultima volta in At 1,14 assieme a tutti i discepoli (At 1,13).

76‡de o „doÝ due interiezioni, che per la loro efficacia narrativa, sono molto usate nel N.T., in particolar modo nei vangeli e negli Atti degli Apostoli, che parlano il linguaggio della narrazione. Meno usata la prima, soltanto 19 volte; molto comune la seconda, usata 148 volte soltanto nei quattro vangeli e negli Atti, su di un complessivo di 193 volte in tutto il N.T.

77L'intento dei brevi commenti è mettere in rilievo i tratti fondamentali con cui viene delineato il discepolo prediletto. Ci riserviamo un'esegesi più approfondita e dettagliata al momento opportuno.

78Questo apparire sovente affiancati tra loro è indice che vi era all'interno delle prime comunità credenti un confronto in atto tra Pietro e Giovanni, per determinarne il primato. Forse proprio per questo nei Sinottici Pietro risalta come figura preminente e affidatario di un primato esclusivo in Matteo (16,15-19), mentre nel racconto giovanneo la figura di Pietro è sempre posta in secondo ordine e in posizione sempre perdente rispetto a quella del Discepolo Prediletto. In Giovanni, inoltre, Pietro non riuscirà mai a riconoscere la messianicità di Gesù, mentre è sempre il Discepolo Prediletto ad indicare a Pietro il Risorto e fungere da filtro tra lui e Gesù.

79Quando si affronta la questione del QV è giocoforza porsi la questione della relazione che intercorre tra questo e le tre Lettere giovannee. È indubbio che tra i quattro scritti intercorra, da un lato, un forte legame per la coincidenza di temi e di espressioni: unità del Padre e del Figlio (Gv 5,20; 10,30; 14,10; 17,11.21.22; 1Gv 1,3; 4,2; 2Gv 1,7); dualismo tra mondo e Dio (Gv 14-17; 4,3-6; 1Gv 2,15; 4,4; 5,4.19); il nascere da Dio (Gv 1,13; 3,3; 1Gv 3,9; 4,4.7; 5,1; 3,1,11); il conoscere Dio (Gv 1,10; 8,19.55; 14,7; 16,3; 1Gv 2,3-5.13,14; 3,1.6; 4,6-8); il rimanere in Dio e in Gesù (8,31; 14,10.17; 15,4-10; 1Gv 2,6.24.27; 4,12-16; 2Gv 2.9); l'acqua e il sangue (Gv 19,34-35; 1Gv 5,6-8); il comandamento dell'amore (Gv 13,34-35; 1Gv 2,7-8; 2Gv 4-6); la verità (Gv8,32; 18,37; 1Gv 2,21; 3,19; 2Gv 1,1.13); l'essere da Dio (Gv 1,13; 8,47; 1Gv 3,9.10; 4,2-6; 5,19; 3Gv 1,11); conservare i comandamenti (Gv 14,15.21; 15,10; 1Gv 2,3-4; 3,22.24; 5,3); dall'altro, si deve osservare come siano diverse le mani che scrivono e diversi i tempi in cui si scrive, poiché molti termini, che ricorrono nel racconto giovanneo, non sono presenti nelle lettere, come graphé, doxa, doxazo, zeteo, krino, kyrios, nomos, pempo, proskyneo, sozo e karis. Da questo si può pensare come le lettere precedano il vangelo di Giovanni, anche perché in esse si riscontra un'ostilità e un clima accorato e teso che non compaiono, invece, nel vangelo, pur tenendo conto della diversa natura letteraria che li separa. - Sulla questione cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, n.134, pag. 855-856.

80Nel vangelo di Matteo si rileva che accorrevano alla predicazione del Battista e si facevano da lui battezzare anche “molti farisei e sadducei” (Mt 3,7). E', dunque, possibile, che anche il Discepolo amato, da noi pensato sacerdote della nobile classe dei sadducei, sia accorso alla predicazione del Battista e, successivamente, se ne sia fatto discepolo.

81Cfr. Rm 14,1-3.13.20-21; 15,1-21; 1Cor 8,1-13; 10,27-32.

82L'espressione Sitz im leben, che letteralmente significa “il posto nella vita”, fu introdotta dalla corrente esegetica della Storia delle forme (Formgeschichte ), sorta in Germania intorno al 1920 ad opera di K.L. Schmidt, M. Dibelius e R. Bultmann. Essa studiava l'ambiente vitale, lo Sitz im leben per l'appunto, in cui si erano formate le varie unità narrative, che, poi, sotto la redazione degli evangelisti (Redaktiongeschichte), confluirono nei vangeli e li formarono.

83Il titulus crucis era il cartiglio posto sopra la croce e riportava il motivo della condanna. Tale esposizione era, infatti, prevista dalla legislazione romana.

84Il termine è greco e significa letteralmente le “dieci città”, tutte, eccetto Scitopoli, poste ad est del Giordano. Dovevano appartenere a questa confederazione Avila, Dion, Gerasa, Ippo, Kanatha, Pella, Filadelfia, Gadara, queste due ultime abitate da Greci fin dal 200 a.C., e, infine, Rafana e Scitolpoli. In seguito, si unirono ad esse altre città, come ad es. Damasco. Le città, distrutte da Alessandro Ianneo (103-76 a.C.) e sottoposte al dominio ebraico, vennero liberate nel 63 a.C. da Pompeo (Giseppe Flavio, Guerra Giudaica, 1,155-157). Sulla questione cfr. la voce “Decapoli” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; op. cit.

85Cfr. Gv 1,38.41.42; 4,5; 5,2; 9,7; 16,18; 19,13; 20,16.

86La consistente presenza della Torah nel racconto giovanneo sembra attribuirsi a due fattori: da un lato, come si è detto, una numerosa presenza di Samaritani, che riconoscevano, come testo sacro, soltanto la Torah; dall'altro, la probabile appartenenza dello stesso autore, il Discepolo amato, alla classe nobile dei sacerdoti, i sadducei. Anche questi, alla pari dei Samaritani, riconoscevano esclusivamente la Torah.

87Dopo la distruzione del Regno del Nord (721 a.C.) ad opera dell'assiro Sargon II, vennero portati in Samaria dei coloni stranieri da Babilonia e dalla Media. I nuovi arrivati adottarono il culto jhawista (2Re 17,24-28), ma lo contaminarono con le loro credenze idolatriche. Quando nel 538 a.C. ritornarono in patria dall'esilio babilonese i deportati del Regno del Sud, a seguito della sua distruzione nel 597 a.C. ad opera dei babilonesi, epoca questa della prima deportazione (ne seguirono altre due nel 586 e 582 a.C.), i Samaritani si opposero ai rimpatriati e ostacolarono la ricostruzione del Tempio e di Gerusalemme. La rottura, a seguito anche della contrapposizione teologica, tra Giudei e Samaritani fu inevitabile. I Samaritani nel corso del IV sec. a.C. si costruirono un loro tempio sul monte Garizim in contrapposizione a quello di Gerusalemme. L'unico testo sacro a cui essi facevano riferimento era la Torah, disconoscendo i Profeti e gli altri Scritti, riconosciuti, invece, dai Giudei. La contrapposizione tra i due popoli si accentuò quando nel 128 a.C. Giovanni Ircano distrusse il tempio del monte Garizim

88Cfr. Lc 1,79; 2,1.14.32; 3,6.

89Cfr. Gv 1,9.29; 3,16.17; 4,42; 6,33.51; 12,16.47; 12,32.47;

90Cfr. Gv 1,10; 3,19; 7,7; 14,17; 15,18; 17,9; 17,14.25;

91Cfr. Gv 3,11; 4,22; 6,70; 10,3-4.14; 13,18; 15,16.19; 17,6-9.12.14.16.23.

92Un breve e sfuggevole cenno ai poveri viene fatto in Gv 12,1-8, nell'episodio dell'unzione di Gesù da parte di Maria, sorella di Lazzaro.

93È difficile che questo discepolo, di cui è pervicacemente sottaciuto il nome, ma non la sua posizione sociale e la sua personalità, si sia autodefinito “il discepolo che Gesù amava”. È molto più credibile che questa definizione gli sia stata attribuita dalla sua comunità, conferendogli in tal modo una posizione privilegiata non solo all'interno della sua stessa comunità, ma anche e soprattutto in mezzo alle altre comunità palestinesi, stigmatizzando le eventuali pretese da parte di queste e dei loro responsabili. Il ripetuto confronto tra Pietro e il Discepolo amato è in ultima analisi il confronto tra due posizioni dominanti all'interno delle numerose comunità nascenti del I sec. Altro punto di forza della comunità giovannea, facente capo al discepolo prediletto, è la costante sottolineatura che egli è il testimone diretto degli eventi, che formavano all'epoca i contenuti della fede nascente, in un tempo in cui era di somma importanza l'aggancio ai testimoni oculari e diretti.

94Cfr. Gv 14,16.26; 16,13.

95Cfr. sotto la voce “Il vocabolario giovanneo”, prima posizione, pag.55

96Cfr. Gv 1,42.43; 4,22; 6,37.39.44.65.69.70; 8,12.31-32.47; 10,3-4.7-11.14.25-30; 12,26; 13,18; 14,17; 15,15.16.19; 16,30; 17,6.7-8.9-10.18-19.22-25.26a;

97Basti pensare alla presenza di Nicodemo, definito come uno dei capi dei Giudei e certamente fattosi discepolo di Gesù. Lo vediamo, infatti, andare da Gesù di notte per disquisire con lui (3,1-12); lo cogliamo in 7,50-51 a difendere Gesù nei confronti dei suoi colleghi; lo troviamo per l'ultima volta mentre, assieme a Giuseppe d'Arimatea, altro discepolo di Gesù benestante, va da Pilato a chiedergli il corpo di Gesù e, assieme a Giuseppe, lo inuma con tutti gli onori (19,39-40).

98Cfr. 1Gv 2,9-11; 3,14-18; 4,7-12.20-21. Questa posizione è caratteristica della morale gnostica, che se da un lato può sospingere ad una ascetica separazione dal mondo, ritenuto fonte di male; dall'altro può generare nei perfetti un senso di superiorità spirituale, che li esenta da qualsiasi regola morale, proprio in virtù della loro perfezione. In tal senso si cfr. la questione morale nello gnosticismo, presente in questo capitolo a pag. 17.

99La questione della realtà del corpo di Gesù risorto viene accennata anche in Luca, là dove Gesù, incontrandosi con i suoi nel cenacolo, li rassicura di non essere un fantasma e li invita a toccarlo e a dargli da mangiare, sottolineando la sua corporeità: “un fantasma non ha carne ed ossa come vedete che io ho” (Lc 24,36-43). Segno questo che già nei primi anni della chiesa vi erano dubbi e incertezze sulla risurrezione e sulla sua natura. In tal senso si cfr. anche Mt 28,16-17, in cui i discepoli, avendo visto il Risorto, li si prostrarono davanti, “ma essi dubitarono”.

100Il principio di cui si parla e da cui si è originata la fede, è l'evento storico Gesù, colto nella realtà storica e concreta della sua corporeità, a cui ci si riferisce con quel ripetersi di ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, sentito, toccato con le nostre mani, contemplato. Il riferimento ai sensi (vedere, toccare, udire, mani, occhi) e alla mente (contemplare) dà l'idea della concretezza dell'evento storico Gesù e della saldezza della testimonianza, basata non su speculazioni dottrinali o filosofiche, bensì dirette, storicamente circoscrivibili.

101Cfr. 2,13; 5,1; 6,4; 7,2; 11,55.

102A questo provvedimento fa riscontro la dodicesima benedizione (eufemismo che sta per maledizione) contro gli apostati, che testualmente recita: “Per gli apostati non ci sia speranza e il regno insolente [cioè l'impero romano] venga presto sterminato, nei nostri giorni. I nazareni [i giudeocristiani] e gli eretici periscano subito e siano abrasi dal libro della vita, né siano iscritti insieme ai giusti. Benedetto sei tu Signore, che umili l'insolente”.

103In tal senso cfr. Lc 3,15

104Cfr. 1,6-8; 3,22-28; 4,1-3; 5,36a; 10,41

105 Cfr. Mt 3,1-12; 11,7-15; 17,11-13

106 Cfr. 1,10; 3,19; 7,7; 14,17a.19.22.27; 15,18-20; 17,14.25; 18,36.

107 Un accenno a questa persecuzione forse è riscontrabile in Gv 11,57.

108 I Samaritani, come i Sadducei, rifiutavano la Torah orale, frutto delle interpretazioni rabbiniche e della Tradizione giudaica, posizione questa condivisa anche da Gesù (Mt 15,9; Mc 7,7). Essi si riconoscevano nella sola Torah scritta.

109 Sulla questione dei movimenti della comunità giovannea dalla Palestina ad Efeso cfr. Alberto Casalegno, “Perchè contemplino la mia gloria” - Introduzione alla teologia del Vangelo di Giovanni, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), 2006.

110 Cfr. R. E. Brown, Giovanni, pag. CXXV, op. cit.

111 Parlando dell'attribuibilità del vangelo a Giovanni, dicevo che non erano attendibili i Padri della chiesa, poiché troppo coinvolti nel dare credibilità apostolica al vangelo, a motivo del canone neotestamentario a quel tempo in formazione. Più neutra sembra essere, invece, l'affermazione della presenza di Giovanni ad Efeso e, pertanto, si tratta di una notizia più credibile, anche se rimane sempre ferma l'osservazione che i Padri della chiesa non erano degli storici e che i loro intenti erano prevalentemente apologetici e teologici.

112 Il banchetto in casa di Lazzaro avviene sei giorni prima della Pasqua (12,1). Esso apre, dunque, quel tempo, a ridosso della pasqua, in cui Gesù annuncia per la prima volta che la sua ora è giunta.

113 Mentre in Giovanni il termine fuoco, con finalità punitive, ricorre una volta soltanto nel sopra citato v.15,6, nei Sinottici esso ricorre complessivamente 22 volte e quasi sempre con una valenza di dannazione eterna per chi non ha aderito alla proposta salvifica di Gesù.

114 Cfr. Mt 3,1-17; Mc 1,3-8; Lc 3,3-18

115 Cfr. Gv 3,14-18.39; 5,24; 6,40.47.

116 Cfr. Gv 2,13; 6,4; 11,55.

117 Secondo Giuseppe Flavio i morti dall'inizio del conflitto con Roma fino alla distruzione di Gerusalemme (66-70 d.C.) furono un milione e centomila, mentre i prigionieri furono 97.000.- Cfr. Guerra Giudaica, VI, 420.

118 Cfr. Mt 5,10-12.44; 10,16-25; 13,36-43; 23,32-38; Mc 4,16-17; 10,30; Lc 11,42-54; 21,12; 22,28;

119 Cfr. Ireneo di Lione in Adversus haereses e San Girolamo in De viris illustribus

120 Sulla questione cfr. A. Casalegno, “Perché contemplino la mia gloria – Introduzione alla teologia di Giovanni”; Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico; R.E. Brown, Giovanni; A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico. Tutte le opere citate.

121 Lo studio delle forme o formgeschichte scoperse come i vangeli fossero una sorta di antologia narrativa, cioè una raccolta di varie unità narrative, che gli evangelisti avevano trovato presso le prime comunità credenti. Queste, sul ricordo della predicazione di Gesù e delle sue opere, le avevano elaborate per proprio conto, finalizzandole ad un proprio uso interno. L'ambiente in cui esse si originarono fu di tipo liturgico, cultuale, catechetico, apologetico, polemico e pastorale in genere.

122 Sull'identità dell'evangelista Matteo cfr. la mia opera, presente su questo sito, “Il Vangelo di Matteo” - Parte Introduttiva – al titolo “L'Autore”

123 Cfr. 1,14.16; 3,11; 4,22; 6,69; 9,31; 14,22; 21,24.

124 Cfr. La voce “Efeso” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo, srl, Cinisello Balsamo (MI), Seconda edizione, 2000

125 Il detto viene riportato anche da Mt 13,57; Mc 6,4; Lc 4,24.

126 Cfr. Gv 1,45.46; 18,5.7; 19,19.

127 La sequenza logica delle festività citate, collocate tra la prima (2,13) e la terza pasqua (11,55) sono: la seconda pasqua (6,4), la festività anonima (5,1), che, seguendo subito la seconda pasqua e seguita, a sua volta, dalla festa delle Capanne non può che essere la Pentecoste; a questa segue, come detto, la festività delle Capanne (7,2) e, infine, la festa della Dedicazione (10,22).

128 Nel suo “De Trinitate” (13,2.5) Sant'Agostino distingue due aspetti importanti della fede: la “fides quae creditur”, che costituisce l'oggetto del credere della fede; e la “fides qua creditur”, che esprime la fede con cui si crede, alla quale si aderisce esistenzialmente; è la fede che diventa vita e che da forma alla vita del credente. Questo doppio aspetto viene sottolineato qui in Giovanni quando afferma “affinché crediate che Gesù ...” e, poi, “affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome”.

129 Cfr. la mia opera presente su questo sito alla voce “Il Vangelo di Matteo”, cap.16.

130 Espressioni come “In verità, in verità” (Gv 11,51; 3,3; 3,11, ecc.); “operare la verità” (Gv 3,21); “credere nel nome di” o “venire nel nome di” (Gv 1,12; 2,23; 3,18; 5,43; 12,13); così come l'uso delle particelle “†na” (ína, affinché; ricorre 132 volte), “Óti” (óti, che, poiché; ricorre oltre 228 volte) e “oân” (ûn, pertanto, dunque; ricorre 192 volte) o di termini come “Rabbunì, Messia, Cefa, Golgota, Gabbatà” denotano lo sfondo aramaico e semitico entro cui il vangelo si muove.

131 Cfr. Gv 1,38; 1,41; 4,5; 5,2; 7,2; 9,7; 19,13.17; 20,16.

132 Paratassi e asindeto sono figure retoriche in cui le proposizioni non si susseguono in modo ordinato e armonico per mezzo della subordinazione, ma vengono giustapposte l'una accanto all'altra con un semplice kaˆ (kaì, e) coordinativo, oppure senza alcuna particella, la quale cosa dà origine all'asindeto. Questo modo di procedere, caratteristico della retorica ebraica, rivela lo stile semitico dell'autore del Quarto Vangelo. Il Prologo, Gv 1,1-14, ne è un esempio, così come il cap.10 e 15. Qui tutte le frasi sono giustapposte l'una accanto all'altra senza coordinazione logica, se non di senso. In altri termini, sono frasi che possono rimanere anche a se stanti, perché hanno un senso compiuto in se stesse e non abbisognano di un altro contesto, che le supporti o le spieghi. Esse sono molto vicine al modo di esprimersi sapienziale e sentenziale.

133 Il fatto che l'autore senta il bisogno di spiegare il significato di nomi ebraici, nomi di festività ebraiche o luoghi propri della Palestina (cfr. nota 127) significa che davanti a sé ha una comunità, che deve avere anche una forte componente del mondo greco o ellenistico.

134 Cfr. Guerra Giudaica, Libro I,3.

135 Cfr. A. Poppi, I Quattro vangeli, commento esegetico; R. E. Brown, Giovanni, opp. citt.

136 Circa il rapporto tra il QV e Qumran cfr. R. E. Brown, Giovanni, pag. LXXI.

137 Sulla questione cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, op. cit.

138 Un simile modo di procedere lo si riscontra nel prologo in 1,1-4, versetti che vengono ripresi nello svolgersi del prologo stesso: 1,1 è ripreso da 1,2; 1,3 è ripreso da 1,10; 1,5 è ripreso da 1,11. Similmente al cap.15 il tema della vite e dei tralci, enunciato in 15,1-2, viene più volte ripreso in un crescendo continuo fino a tutto 15,11.

139 Cfr. Mt 4,23; 10,7; 11,1; 28,19-20; Mc 1,38.39; 6,12; 16,15.20; Lc 4,4; 8,1; 24,47; At 5,20; 6,7; 8,4.14.25; 12,24; 13,5.49; 14,25; 15,35; 1Cor 1,17.23; 9,16; Gal 1,8.9; 2,2; Col 4,3; 1Ts 2,4; 1Tm 5,17;

140 Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: <<E' fuori di sé>>. Chi siano “i suoi” ci viene detto in 3,31. Qui, infatti, i suoi escono di casa per andar prendere Gesù, ritenuto fuori di testa (“™xšsth”, exéste, “sta fuori di sè”); mentre in 3,31 ci viene detto che “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare”. Quindi, anche la madre di Gesù non sembra dare fiducia a suo figlio.

141 Il titolo di Cristo o Messia ricorre complessivamente in tutto il racconto giovanneo 21 volte; ma soltanto nella sezione 7,1-12,20 è oggetto di dibattito, di scontro e di adesione di fede; mentre tra i vv. 1,19-6,71 pur citato otto volte è soltanto oggetto o di controversia con i battisti (1,20.25; 3,28 ) o motivo di affermazione (1,41) e di ricerca (4,25.29), propri di una fede ancora incerta.

142 Cfr. 7,26.27.31.42.43; 9,22; 10,24; 12,34.

143 Cfr. 11,27; 17,3; 20,31.

144 L'espressione “Io sono” ('Egè e„mi, Egó eimi), caratteristica di Giovanni, allude al nome di Dio, rivelatosi a Mosè come “Io sono colui che sono” e più brevemente, si fa subito denominare come “Io Sono” (Es 3,14).

145 Non a caso Valerio Mannucci nella sua opera “Giovanni il vangelo narrante. Introduzione all'arte narrativa del quarto vangelo” , Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1993, enumerando una serie di passi in cui egli scopre una certa ironia, rileva, per buona parte, proprio quelle pericopi del fraintendimento, che riportiamo di seguito: Gv 1,47-51; 2,19-22; 3,3-5.10; 4,8-15.31-34; 6,26-31.66-68; 7,33-36; 8,21-22.56-59; 9,35-37.39-41; 10,32-33; 11,11-14; 13,33-38.

146 Cfr. 3,1-10; 7,50-53; 19,38-40

147 Cfr. Gv 3,14; 8,28; 12,32.34

148 Cfr. Gv 1,28.29.34; 4,3-6; 5,1.2-3; 6,4; 8,20; 9,14; 11,18; 19,41-42; 21,19.

149 Cfr. Gv 2,6; 4,9.27a; 5,16.18; 9,14; 19,31.

150 Cfr. Gv 2,17.22; 12,16.

151 Cfr. Gv 1,7.819.24; 2,9; 3,22-24; 4,7a; 5,4.16.18; 6,6.10.18; 7,5; 8,6; 9,22-23; 10,6; 11,51-52; 12,6.41.43; 13,29; 18,32; 19,35-37; 20,9.

152 Cfr. Gv 1,38.41.42; 9,7; 19,13.17; 20,16.

153 Cfr. Gv 2,11; 4,54; 7,43-44; 8,30; 10,39-42; 11,45; 12,11; 19,20; 20,30-31; 21,24-25.

154 Cfr. Gv 2,24.25; 5,6; 6,6.15.61.64; 7,15; 11,42; 13,1.3.11; 18,4; 19,28. -

155 Cfr. Gv 1,6.24.40.44; 3,1; 4,46; 6,8.71; 7,50; 11,2.16.49; 12,4.21; 13,2.23; 18,2.10.13-14.15-16.40; 19,25-26.38.39; 20,2.3.8.24;21,2.7.-

156 Sulla questione della lingua cfr. il titolo “Lingua e stile letterario” pagg. 48-49 della presente introduzione.

157 La traslitterazione in italiano del testo greco dei vocaboli segue la pronuncia e non esattamente il testo greco.

158 Tutti i conteggi dei vocaboli giovannei sono stati effettuati direttamente sul testo greco.

159 Sul tema dell'Amore in Giovanni e nel N.T. Cfr. R. E. Brown, Giovanni; e la voce “Amore” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia. Tutte le opere citate.

160 Nel Vangelo di Giovanni il termine acqua ricorre 24 volte; nelle tre Lettere, 4 volte; nell'Apocalisse, 19 volte.

161 Cfr. 10,18; 11,57; 12,49.50; 13,34; 14,15.21; 15,10.12

162 Cfr. 8,5; 14,31; 15,14.17

163 Cfr. Gv 10,18; 12,49.50; 14,31.

164 Cfr. Gv 10,30; 14,11; 17,11.21.22.

165 Cfr. Gv 13,34; 15,12.17.

166 Cfr. Gv 14,15.21; 15,14.

167 Sul tema del comandamento cfr. il punto 4) del vocabolario giovanneo.

168 Cfr. Gv 1,19; 5,10.15.16.18; 7,1.13.15; 8,48.52; 9,18.22; 10,24.33; 18,12.14.31.36; 19,7; 20,19.

169 Cfr. Gv 2,6.13; 5,1; 6,4; 7,2; 11,55; 19,42.-

170 Sull'espressione “Io sono” cfr. A. Casalegno, Perché contemplino la mia gloria. Introduzione alla teologia del Vangelo di Giovanni, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2006; R. Brown, Giovanni, op. cit.; voce “Io sono” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

171 Cfr. Gv 8,24.28.58; 13,19; 18,5.6.8

172 Cfr. Gv 4,26; 6,20.35.41.48.51; 8,12.18; 10,7.9.11.14; 11,25; 14,6; 15,1.5.-

173 Cfr. Es 3,6.15.16; 4,5; 1Re 18,36

174 Il monte Sinai, nelle tradizioni elohista e deuteronomista, è chiamato monte Oreb.

175 Cfr. Gen 17,1; 26,24; 31,13; 46,3; Es 3,6.-

176 Cfr. Gv 1,14; 8,54; 12,28.41; 17,5.22.24;

177 Cfr. Gv 7,39; 12,16.23; 13,31; 17,1.5;

178 Cfr. Gv 14,13; 15,8; 17,10; 17,22

179 Cfr. 5,41.44; 7,18; 8,50; 9,24; 12,43; 16,14; 21,19.

180 Cfr. Gv 1,9; 8,12; 9,5; 12,46. Anche se qui vengono citati soltanto questi versetti, che in modo diretto dichiarano che Gesù è la Luce, tuttavia, anche tutti gli altri lasciano trasparire, senza incertezze, l'identificazione di questa Luce con Gesù.

181 Cfr. Gv 1,5.9; 3,19; 8,12; 9,5; 12,46

182 Cfr. Gv 14,17.26; 15,26; 16,13; 20,22-23.

183 Cfr. Mt 3,7-12; Lc 3,7-9.17

184 Cfr. Gv 7,4; 8,12.26; 9,5;

185 Cfr. Gv 1,39; 4,6; 4,52.53; 19,14.17 gnn

186 I romani dividevano il giorno in due parti di dodici ore ciascuna. Il giorno iniziava con l'ora prima, le nostre ore 6,00 del mattino, e terminava nella dodicesima ora, le nostre ore 18,00. La notte iniziava alle 18,00 e andava fino alle ore 6,00 del mattino successivo. Essa si divideva in quattro vigilie di tre ore ciascuna, numerate con numeri ordinali: I vigilia, II vigilia, ecc.

187 Cfr. anche 8,12; 9,5; 12,35.36.46;

188 Il termine greco kairÒj (kairós) significa tempo opportuno, conveniente, il tempo giusto, adatto, propizio; esso, nel linguaggio biblico, indica il tempo dell'agire salvifico di Dio.

189 L'espressione “paršdwken tÕ pneàma” (parédoken tò pneûma, consegnò lo spirito) può assumere anche il significato di “donò lo Spirito”. Il verbo paraddwmi (paradídomi), tra i suoi diversi significati, consente anche questo tipo di traduzione.

190 Cfr. Gv 12,23.27; 13,1; 17,1.-

191 Il verbo greco che indica il turbamento al v.12,27 è tarassw (tarásso) e significa sconvolgere, agitare, turbare, rimescolare, mettere sossopra, scompigliare, mettere in disordine, atterrire, confondere. Si tratta, dunque, di un grave turbamento, che crea inquietudine, scompigliando e agitando profondamente l'animo di Gesù.

192 Cfr. Gv 4,34; 5,23.24.30.36.37; 6,29.38.57; 7,28.29; ecc. Il termine ricorre circa 45 volte.

193 Cfr. Gv 10,38; 14.10.11.20

194 Cfr. Gv 4,34; 5,30; 6,38.57

195 Cfr. Xavier Léon-Dufour, Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI), 1990. Seconda edizione 2007 – pag.35

196 Cfr. 7,29; 8,42,13,3; 16,28

197 Cfr. Gv 3,35a; 5,20a; 10,15; 15,9a; 10,17a;

198 L'ebreo, per sua naturale predisposizione, rifugge le astrazioni e le concettualizzazioni, preferendo, invece, le immagini e le espressioni concrete. Pertanto, quando si parla di conoscere o di conoscenza, questi sono sinonimi di esperire o di esperienza.

199 Cfr. Mt 3,17; 12,18; 17,5; Mc 1,11; 3,22.-

200 Cfr. Gv 4,34; 5,30; 6,38; 8,28; 10,18; 12,49.50; 14,31; 18,11b.-

201 Cfr. Gv 3,35; 5,20; 6,37; 13,3; 16,15

202 Cfr. Gv 8,42; 17,3.8.18.21.23.25; 20,21a;

203 Cfr. Gv 3,2; 5,37; 6,46; 8,42; 13,3b; 16,28a.30; 17,8b

204 Cfr. anche Gv 6,46

205 Cfr. Gv 5,19; 7,16-17; 8,26.38a.40; 12,49.50; 14,10; 15,15; 17,7.8.10;

206 Cfr. Gv 5,19.30; 8,28; 9,33;

207 Cfr. Gv 5,38; 6,56; 14,17; 14,23.

208 Cfr. Gv 1,12; 14,21.23; 15,8; 16,27.

209 Cfr. Gv 5,43; 6,42; 8,19.27.49; 10,32.36; 14,24; 15,24; 16,3.

210 Testi di Is 9,5-6: Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti”; e di Dn 7,13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”.

211 Matteo opera nel suo vangelo una grande inclusione che vede, al suo inizio, Gesù come “Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23b); mentre alla fine della sua opera Gesù attesta che egli sarà sempre con noi (Mt 28,20b). In tal modo Matteo spinge il suo lettore a cogliere in Gesù non solo il Dio che è tornato in mezzo agli uomini e opera in loro favore, ma che rimane per sempre con loro, associandoli, in lui e per lui, a Dio (Gv 12,32).

212 Cfr. Gv 15,4.5.6.7.9.10

213 Cfr. Rm 8,29; Gal 4,4-7; Ef 1,4-5; Col 3,9-10

214 Cfr. Gv 2,12; 4,40; 7,9; 10,40; 11,6.54; 19,31; 21,22.23

215 Ho preferito tradurre il termine greco par£klhtoj con “Intercessore” perché meglio esprime il ruolo dello Spirito dopo la dipartita di Gesù. Egli, infatti, è colui che si pone a fianco del credente e lo istruisce sulle cose di Dio, conducendolo alla pienezza della Verità (Gv 16,13). Anche Paolo in Rm 8,26.27 coglie lo Spirito nella sua qualifica di intercessore presso il Padre: Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8,26.27). L'intercessore, pertanto, è colui che viene a porsi tra il Risorto e il credente, portando alla sua pienezza la rivelazione del Padre, attuatasi in Gesù (Gv 16,13).

216 Cfr. Gv 8,42; 14,26; 15,26; 16,28.30; 17,8

217 Mt 1,20; 3,11.16; 4,1; 12,18.28; Mc 1,8.10.12; Lc 1,15; 3,22; 4,1.14.18-21; 10,21; Gv 1,33;

218 Mt 5,21-48; 23,1-39; Mc 11,15-17;

219 Cfr. Mt 8,26; 12,14; 13,54; 21,10-13; 21,26; 22,15; 26,4; 27,1; Mc 1,22.27; 3,6.21; 4,41; 6,2; 10,32; 11,18; Gv 6,60-61.66; 7,5.15; 11,49-50; 18,14

220 Cfr. Gv 5,31.32.34.37; 8,17.18

221 Cfr. Gv 2,22; 5,39; 7,42; 20,9; Lc 24,25-27

222 Cfr. Gv 3,11; 15,27; 19,35; 21,24

223 Cfr. Gv 1,18;

224 Cfr. Gv 1,18.33.34.51; 3,3; 5,37; 6,46

225 Cfr. Gv 1,39.46.50; 3,11.36; 4,29.45; 6,14.26; 8,56; 9,37; 11,40; 12,21.41; 14,7.9; 19,35; 20,8.18.20.25.29;

226 Cfr. Gv 1,47.48.50; 3,32; 5,6; 8,38.57; 9,1;11,33.34; 16,22.

227 Cfr. Gv 4,48; 6,30.36; 11,32; 15,24

228 Cfr. Gv 6,24; 11,31; 12,9; 16,6.17.19; 18,26; 19,6.33

229 Sulla questione, cfr. la voce “Gnosticismo” nella presente introduzione.

230 Cfr. 3,12-13; 5,19-20; 14,8-11

231 Cfr. la voce “Padre”, posizione 14).

232 Cfr. Gv 3,21; 4,34; 5,17.36; 9,4; 10,25.32.37.38; 14,10.11.24; 17,4

233 Cfr. Gv 4,34; 5,30; 6,38.39.40.57a;

234 Cfr. 1,8.14.17; 5,19.31-32; 7,28; 8,26.40; 15,15;16,28; 17,8a;

235 Anche se il termine vita compare per la prima volta in 1,4, tuttavia, ho preferito scegliere come primo parametro per l'inclusione il v. 3,15 non solo perché vi ricorre il termine vita, ma anche perché esprime l'identico senso che viene riportato in 20,31, con cui si conclude il vangelo di Giovanni. Nel vangelo giovanneo, infatti, prima di evidenziare le inclusioni, è necessario porre una particolare attenzione, poiché in Giovanni, come si è visto nella nostra analisi di alcuni vocaboli significativi, vi sono termini ed espressioni che ricorrono numerose volte. Bisogna, dunque, valutare, di volta in volta, quando compaia effettivamente l'inclusione. - Sulla questione cfr. Xavier Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Ed. San Paolo Srl, Cinisello Balsmo (MI) – Seconda edisione 2007; pag.33

236 Cfr. Gv 3,15.16.36; 4,50.53; 5,24.39; 6,35.40.47; 7,38; 11,25.26; 20,31

237 Cfr. Gv 10,11.15.17; 12,25; 13,37.38; 15,13

238 La yuc» va strettamente correlata al corpo (sîma, sôma), ma senza contrapporsi a questo. Essi sono, invece, due sinonimi, poiché entrambi, nel mondo semitico e in quello antico in genere, indicavano l’uomo, la persona, colta nella sua totalità e integralità. Tuttavia, l’anima, pur definendo la persona alla stessa stregua del corpo, rimarca ciò che è vivo nell’uomo, la sua vita come realtà concreta, colta nella sua dinamicità esistenziale. Essa, tuttavia, non ha nulla a che vedere con il mondo dello spirito (pneàma, pneûma), ma attiene sempre e comunque alla sfera della naturalità umana ed era individuata nel respiro dell’uomo. Lo stesso termine greco yuc», infatti, che traduce l’ebraico néfesh, significa respiro, soffio, forza vitale. Corpo e anima, quindi, sono due termini che definiscono sempre l’uomo come persona, ma che nel contempo lo indicano con due sfumature diverse: il corpo definisce la persona che è immediatamente raggiungibile in modo tangibile, mentre l’anima esprime parimenti la persona, ma colta nella sua vitalità esistenziale, cioè come essere vivente, ma senza alcun aggancio al mondo del trascendente. - In tal senso cfr. la voce “Anima” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; e la voce “Psicologia” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo Srl, Cinisello Balsamo (MI); seconda edizione 2000.

239 Cfr. Gv 2,11.18.23; 3,2; 4,48.54; 6,2.14.26.30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47; 12,18

240 Vi è anche un ottavo miracolo, quello della pesca miracolosa (21,1-8), che non è stato computato, perché il cap.21 costituisce un'appendice ecclesiologica, non appartenente al vangelo giovanneo e aggiunta tardivamente, probabilmente dalla stessa comunità giovannea, riconciliatasi con le comunità palestinesi, che riconoscevano come capo Pietro.

241 Cfr. Gv 6,33.35.48.50.51.54.55.58

242 Cfr. la voce “Il vocabolario giovanneo” al punto 9) della presente introduzione.

243 Cfr. Gv 2,5; 4,50; 5,8; 6,11; 6,19.20; 9,6-7; 11,43. Anche là, come in 6,11.19-20 e in 9,6-7, dove Gesù al suo dire unisce anche il gesto o l'azione, il suo “agire” va inteso come “dire”, poiché esso è concepito da Giovanni (1,3) come Dabar, cioè Parola che è Azione, cioè una realtà dinamica ed efficace (Eb 4,12). In tal senso si cfr. Xavier Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, nota 34, pag. 65 - op. cit.

244 Cfr. 2,11b; 4,50.53; 5,1-9.37-47; 6,1-15.26-30.36.42-43.47.60-71; 9,35-38; 11,25-2740.

245 I discorsi da me individuati sono i seguenti: 1° discorso 3,11-21; - 3,31-36; - 4,30-38; - 5,19-47; - 6,28-71; - 8,12-20; 7°- 8,21-31; 8°- 8,31-59; - 10,1-21; 10°- 12,23-36; 11°- 13,31-35; 12°- 14,1-31; 13°- 15,1-17;14°- 15,18-16,5; 15°- 16,5-15; 16°- 16,16-22; 17°- 16,23-33; 18°- 17,1-26

246 Sulla questione della forma poetica dei discorsi in Giovanni, si cfr. Raymond Edward Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi (PG) 1999 – pagg. CLXI-CLXV

247 Le festività ebraiche sono rigorosamente scandite dal calendario, che forma una sorta di architettura sacra del tempo entro cui si colloca la vita del popolo, che Es 19,5-6 definisce proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa. Le feste per l'ebreo hanno la funzione di ricordare gli eventi salvifici del passato, che attraverso la loro ritualizzazione, li rendono presenti e raggiungibili anche dalle generazioni presenti, così che esse ne sono in qualche modo protagoniste, direttamente coinvolte e chiamate a dare la loro risposta esistenziale. Le feste, pertanto, innescano un dinamismo di stimolazione spirituale, che viene settimanalmente alimentato dalla festività dello Shabbath. Esse, quindi, costituiscono per il pio israelita il momento di un incontro salvifico con Jhwh, rafforzando il suo rapporto non solo con Lui, ma anche con i suoi Padri. Ogni festa, pertanto, diviene un memoriale, in cui, attraverso il rituale liturgico, il passato si fa presente, coinvolgendo in un'unica azione salvifica l'intero Israele. - Sulla questione delle festività ebraiche cfr. Yitzchaq Leib Peretz, Sholem Aleichem, Le Feste ebraiche, saggio introduttivo alle feste, di Daniel Lifschitz, Paoline Editoriale Libri – Figlie di San Paolo, Milano, 2001.

248 Sulla questione dell'anonimato, cfr. Xavier Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, pagg.377-388 op. cit.

249 Cfr. Gv 15,9; 17,11.14.16

250 Lo stadio alessandrino era una misura greca introdotta in Palestina dopo le conquiste di Alessandro Magno (333-323 a.C.), all'epoca dei Maccabei (II sec. a.C.). Esso misurava circa 184,9 mt. - Cfr. la voce “Pesi e Misure” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.1

251 Cfr. Il punto 6) della voce “Giudei” sotto il titolo “Il vocabolario giovanneo”, presente in questa introduzione.

252 Cfr. Gv 1,15; 3,22; 4,2.

253 Cfr. Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-11

254 Ho preferito invertire i capp. 5 e 6 per i motivi esposti al titolo “Festività” nel presente studio. In tal modo si dà sequenza logica sia alle festività che ai contesti geografici.

255 Cfr. la voce “Festività” nel presente studio.

256 Sulla numerazione dei discorsi cfr. la voce “I Discorsi” nella presente trattazione.

257 Non intendiamo, qui, compiere uno studio dettagliato e approfondito sulla questione, ma soltanto dare dei tratti essenziali, che aiutino il lettore ad orientarsi su una questione che è tutt'altro che conclusa.

258 “Fonte Q”, in cui la lettera “Q” sta per il termine tedesco “Quelle”, che significa “Fonte”.

259 Il termine tecnico per indicare il materiale proprio, che ogni Sinottico inserisce nella sua opera, è l'espressione tedesca “sondergut”, che significa “materiale speciale”.

260 Sinottico, infatti, significa “leggere insieme”.

261 Sulla questione del Discepolo Prediletto e autore del Quarto Vangelo, rimando al titolo “L'Autore”, presente in questo studio alla pag.20.-

262 Sulla questione vedasi il titolo “La formazione del Vangelo e la sua unità letteraria” presente in questo studio a pag.41. -

263 Cfr. il titolo “La comunità giovannea” presente in questo studio a pag.30

264Cfr. Gv 3,11; 4,22; 6,70; 10,3-4.14; 13,18; 15,16.19; 17,6-9.12.14.16.23.

265Un breve e fuggevole cenno ai poveri viene fatto in Gv 12,1-8, nell'episodio dell'unzione di Gesù da parte di Maria, sorella di Lazzaro.

266 L'espressione “Ð Ñp…sw mou ™rcÒmenoj” (o opíso mu ercómenos) è un'espressione tecnica per indicare la sequela.

267 Cfr. 2,12; 5,1; 7,2.10; 10,22; 11,55

268 Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, Ed. Messaggero di S.Antonio – Editrice, Padova 1998; pagg. 529-532

269 Sulla questione della datazione si cfr. il mio piccolo studio “Pasqua ebraica e Ultima Cena e alcuni problemi connessi”, presenti su questo sito nella Sezione Esegetica, area “Altri Scritti”.

270 Sulla questione cfr. A. Casalegno, “Perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24) – Introduzione alla teologia del Vangelo di Giovanni, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo (MI), 2006 – pagg.59-65.

271 Una diciassettesima volta il termine ricorre in 20,30.

272 Ci sembra significativo rilevare come il termine gloria compare prevalentemente come sostantivo nella prima parte del racconto (1-12); mentre nella seconda parte (13-21), in cui la gloria si attua, il sostantivo cede il passo al verbo glorificare, che si presenta più volte con la forma passiva, lasciando intravvedere nell'atto del glorificare l'azione del Padre, che restituisce al Figlio quella gloria che aveva dall'eternità (17,5). In tal modo, con la glorificazione del Figlio, che viene ricostituito nella sua dignità divina originale originale, è glorificato anche il Padre (17,1), che lascia trasparire nella glorificazione del Figlio la loro divinità.

273 Sul confronto di Gv 12,44-50 con Gv 1,1-18 cfr. A. Casalegno, “Perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24) – Introduzione alla teologia del Vangelo di Giovanni; op. cit. - pag.65

274 Il termine “dÒxa” o il verbo corrispondente compaiono 27 volte nella prima parte e 18 nella seconda; mentre il termine “éra” compare 16 volte nella prima parte e 9 volte nella seconda.

275 Il primo anno di attività va relazionato alla prima pasqua (2,13); il secondo anno comprende le quattro festività di seconda Pasqua (6,4); Pentecoste (5,1); Capanne (7,2) + il giorno successivo, che abbraccia i capp. 8 e 9; Dedicazione (10,22); il terzo anno va riferito alla terza pasqua (11,55), quella fatale per Gesù e dalla quale dipende l'intero Libro della Gloria (capp.13-20)

276 Sulla questione cfr. la voce “Festività”, presente in questa Parte Introduttiva.

277 Il v.5,1 parla di un'anonima festa dei Giudei, che noi riteniamo si tratti della Pentecoste. Sulla questione cfr. la voce “Festività”, presente in questa Parte Introduttiva.