APPUNTI DI
(Elaborazione di miei appunti)
Premessa
Quando si parla di Ecumenismo si intende il dialogo che si conduce tra le chiese cristiane; mentre quando si parla di dialogo interreligioso, si intende il dialogo condotto tra la parte cristiana e le religioni non cristiane.
Va osservato che quando si parla di dialogo, questo si svolge da una prospettiva cattolica e riflette un concetto proprio di chiesa.
Il Dialogo
L'ecumenismo ha come base fondamentale d'incontro tra le chiese cristiane il dialogo. Ma perché dialogare? Nell'enciclica "Ecclesiam suam" Paolo VI afferma che il dialogo è lo spazio entro cui si muove la chiesa. Perché il dialogo è così fondamentale all'interno della Chiesa? Il motivo, al di là degli aspetti sociologici e psicologici che accompagnano ed esprimono questa forma di relazione sociale, risiede, per il credente, in un aspetto teologico fondamentale: Dio per primo ha iniziato dialogare con l'uomo e proprio attraverso il dialogo Egli si è autorivelato e autocomunicato. Dialogo, quindi, quale espressione automanifestatitiva di Dio, che proprio nel dialogo si fa dono agli uomini.
Non va, infatti, dimenticato come proprio la Parola sta all'inizio della creazione, diventando strumento essenziale di rivelazione e atto creativo: "Dio disse: <<Sia la luce!>>. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona" (Gen 1,3-4).
La Parola, poi, è posta anche da Giovanni all'inizio del suo vangelo: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio ... tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste ... E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria ..." (Gv 1,1-3.14).
Il vangelo di Giovanni è, per antonomasia, il vangelo della Rivelazione, intesa non solo come disvelamento, il tono è squisitamente apocalittico, ma anche come dono che si fa storia.
Con quel "In principio" il Verbo viene posto in senso assoluto all'origine di tutto e tutto da lui discende. IL Verbo per Giovanni è essenzialmente "Parola che si fa", che si dispiega nella storia come creazione ("tutto è stato fatto per mezzo di lui") e come rivelazione ("noi vedemmo la sua gloria").
I tratti essenziali, dunque, di questo dialogo divino sono sostanzialmente tre: atto creativo e atto rivelativo, che si fanno comunicazione donativa di Dio stesso agli uomini, finalizzata al ristabilimento della comunione di Dio con gli uomini.
Il dialogo, pertanto, è il proprio della Chiesa e peculiarità specifica della storia di salvezza, letta come sacramento d'incontro tra Dio e gli uomini. Dio, infatti, all'interno della storia si fa dialogo in Cristo per incontrare gli uomini; questi devono farsi dialogo, a loro volta, per incontrarsi con Dio.
L'incontro dialogico dell'uomo con Dio non avviene certo direttamente, poiché Dio, per sua natura è totalmente trascendente; esso si svolge attraverso l'uomo stesso. E' proprio incontrandosi con il suo simile, in cui Cristo è sacramentato (Mt 25,40), che l'uomo incontra Dio, che nell'altro lo interpella e lo spinge a dare una risposta e a prendere posizione.
Il dialogo, in senso teologico, è necessità che nasce da Dio, che si è fatto dialogo in Cristo e nel dialogo lo si trova e lo si esperisce.
Il termine "Ecumenismo", dal greco "oikoumenoV" significa "ciò che è abitato", con riferimento alla comune casa abitata. Essa può essere individuata come la comune e indivisa Chiesa d'origine, in cui tutte le chiese sono chiamate a ritrovarsi. Esso, pertanto, indica un cammino di riflessione e maturazione da parte di tutte le chiese per ritrovarsi nella comune Casa del Padre. Esso ha assunto anche delle connotazioni sociali e politiche, che indicano la necessità di acquisire una stessa identità, che spinga ad un accorpamento unico, pur nel rispetto delle singole individualità. Non è pensabile, infatti, un ecumenismo che veda un appiattimento di tutte le chiese confluenti in un'unica Chiesa. Ciò significherebbe la morte di tutti e lo svilimento delle ricchezze che ogni chiesa porta con sé. Dio ha numerosi volti, per questo è bene che le Chiese rimangano con il loro proprio volto.
Se di unità si deve parlare, dunque, questa deve essere nella pluralità.
Del resto l'ecumenismo è una realtà molto complessa poiché in esso vede confluire numerose storie, spesso segnate da dolorose esperienze, talvolta, difficilmente sanabili.
Per comprendere la complessità dell'ecumenismo e del dialogo al suo interno, basti pensare, ad esempio, alla Chiesa anglicana, formata da un insieme di chiese, così che si deve parlare di "comunione di chiese", tenute assieme da un'assemblea, che dà le linee di fondo; ognuna, poi, le applica a proprio modo. In ogni chiesa, inoltre, vi sono tre chiese: quella alta, simile a quella cattolica; la chiesa bassa, vicina ai protestanti; e la chiesa larga, in cui il pastore esercita compiti sociali.
Anche le Chiese ortodosse non sono da meno. Ogni chiesa è autocefala con le sue peculiarità. E questo per non parlare del protestantesimo, che è risuscito a generare oltre duemila chiese.
Tutto ciò ci dà la chiara dimensione della complessità e della difficoltà di dialogo entro cui si muove il movimento ecumenico.
Si è resa, pertanto, necessario creare una base minima comune di fede per poter accedere al dialogo. Questa consiste nel credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio e salvatore; nonché nella Trinità.
La necessità di instaurare un dialogo tra le varie confessioni e una comune base di annuncio è nata dall'accusa, mossa dalle popolazioni convertite a seguito l'azione missionaria delle varie chiese: "Voi ci avete inviato dei missionari che ci hanno fatto conoscere Gesù Cristo; non possiamo che ringraziarvi. Ma voi ci avete portato anche le vostre distinzioni e le vostre divisioni; ... Noi vi chiediamo di predicare il vangelo e di lasciare a Cristo Signore di suscitare lui stesso all'interno dei nostri popoli, sotto la sollecitudine del suo Santo Spirito, la chiesa conforme alle sue esigenze ..."
Storicamente sarà la Conferenza Internazionale Missionaria di Edimburgo del 1910 a dare il via concretamente al movimento ecumenico, anche se questo fu preparato da altre iniziative precedenti.
Da questa Conferenza nacquero due movimenti fondamentali: "Fede e Costituzione", che ha il compito di cagliare gli aspetti teologici e dottrinali della fede. E "Vita e Azione ", con intenti più sociali e politici. Insieme, i due movimenti hanno dato vita al cammino ecumenico.
La Chiesa cattolica ha sempre rifiutato un dialogo ecumenico, poiché riteneva essere lei il ceppo originale da cui si sono staccate tutte le altre chiese. Pertanto, per la Chiesa cattolica "ecumenismo" significava semplicemente "ritorno" nel suo seno delle chiese ribelli e separate.
Dobbiamo aspettare Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano perché le chiese separate vengano riconosciute come chiese "sorelle", mentre i loro adepti erano definiti "fratelli". Tutto ciò provocò grande scandalo tra i cattolici.
Si apre in tal modo il cammino del dialogo ecumenico anche per la Chiesa cattolica, che lo codifica nel decreto sull'ecumenismo "Unitati redintegratio". Si incomincia a pensare che le "chiese divise", in realtà, sono state sempre unite, perché l'unità non è frutto di accordi e compromessi politici, ma un dono che è stato dato da Dio stesso alle Chiese. Questo dono si chiama Cristo, si chiama Fede. Spetta, ora, alle chiese accoglierlo e farlo proprio. L'unità, pertanto, è una qualità ontologica della Chiesa stessa.
Fondamento biblico dell'Ecumenismo
Il termine "ecumenismo" non esiste nella Bibbia, tuttavia, si può da essa desumere. Il termine deriva dal greco "oikew", che significa "abitare". Da qui "oikoumenoV" (ciò che è abitato o terra abitata, in contrapposizione alla terra non abitata). Nel XIX sec. il termine viene usato per indicare l'azione missionaria in tutte le "terre abitate".
L'ecumenismo o azione missionaria portò le chiese ad un più stretto contatto tra loro, che portavano, si, uno stesso annuncio, ma fatto sotto bandiere diverse, creando perplessità e scandalo tra i nuovi credenti: ci avete portato Cristo e ve ne siamo grati; ma con l'annuncio ci avete portato anche le vostre divisioni.
L'ecumenismo, quindi, ha origini missionarie e trova nella Conferenza Internazionale Missionaria di Edimburgo (1910) il suo punto di partenza.
Ci chiediamo, ora, se c'è un fondamento biblico all'ecumenismo e tale da giustificarlo; o se, invece, esso è da ritenersi soltanto frutto di fantasia e iniziativa umane.
E' chiaro che la Bibbia è un libri datato e, quindi, non può parlare esplicitamente di "ecumenismo", tuttavia ne dà i tratti essenziali, in quanto che la Parola di Dio ha un suo dinamismo intrinseco (dabar) espansivo e di continua incarnazione, nel senso che essa è una parola che continua dirsi nella storia.
La Rivelazione, intesa quale atto di Dio che si dona all'uomo, è tutta ed è piena, ma si lascia comprendere gradualmente; man mano che la storia avanza la Parola si esplicita, diventa interprete della storia stessa e in essa si incarna, assumendo lungo il corso dei secoli aspetti e volti sempre diversi e sempre nuovi. E' la Rivelazione che, una volta donata, si compie e si manifesta sempre più, accompagnando l'uomo lungo il cammino della storia.
La Bibbia, quindi, va sempre rivisitata così che noi ne diventiamo eco, consentendole di incarnarsi sempre più nel tempo.
Questa è la logica dell'incarnazione, intesa non come atto puntuale nel tempo, ma come un processo dinamico.
Il Dio d'Israele, percepito inizialmente come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quindi un Dio personale ed esclusivo di Israele, nel periodo esilico (597-538 a.C.) e postesilico (da 538 a.C. in poi) viene colto dai profeti come il Dio di tutti i popoli, sognando la loro unità. Un sogno che Isaia ci racconta nel suo libro: "Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà elevato sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: <<Venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare nei suoi sentieri. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro tra molti popoli.>>" (Is 2,2-4); un sogno che prosegue e si fa escatologico: "Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti" (Is 25, 6-7).
Nel NT Gesù è percepito come colui che è venuto ad abbattere in lui tutte le barriere politiche, sociali, culturali, razziali e sessuali: "Non c'è più né Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). Ma anche gli Atti offrono il loro contributo in tal senso, relativizzando la religione e riducendola alla sincerità di cuore con cui si aderisce a Dio: "Pietro prese la parola e disse: <<In verità mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35).
L'intervento di Dio, inoltre, fa capire come non esistano barriere che possano limitare la sua azione, ma come egli voglia abbracciare, invece, tutti gli uomini, indistintamente dalla loro fede e a loro dona il suo Spirito: "Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito santo scese su tutti coloro che stavano ascoltando il discorso ... e si meravigliavano come anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo" (At 10, 44-45).
Ma se ci fossero dubbi in tal senso, Giovanni ci offre la sua comprensione del mistero di salvezza attuato in Cristo: "Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Ed è proprio quell'espressione "chiunque" che dà un respiro di universalità all'azione di Dio, superando ogni limite del ragionare umano.
Ma altri testi ancora ci ricordano la volontà salvifica universale di Dio:
· "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32) · "...Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati" (1Tm 2,4) · "Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per chiunque crede" (Rm 1,16).
La Chiesa stessa nel suo dogma di fede proclama che egli "è disceso dal cielo per noi uomini e per la nostra salvezza".
C'è, dunque, in Gesù e in Dio suo Padre una volontà salvifica universale che si realizza nel particolare, così che lo spezzare i piccoli ostacoli ci fa universali.
Tale modo di ragionare di Dio destabilizza la rigida e chiusa mentalità degli Israeliti.
Tale universalità si esplicita soprattutto in un atteggiamento di servizio di Dio verso l'uomo. Gesù ricorderà che lui non è venuto per essere servito, ma per servire ( ) e ne darà l'esempio nell'ultima cena lavando i piedi ai suoi discepoli, "perché come ho fatto io, facciate anche voi" (Gv 13,16).
Ma sarà l'inno cristologico della lettera a Filippesi, 2,6-11, a darci l'intera dimensione e la comprensione piena di questo servizio divino a favore dell'uomo, sintetizzata in quel "ekenwsen".
Con la Pasqua e la Pentecoste si rompono tutte le barriere sociali, politiche, culturali, razziali e sessuali, poiché tutti noi siamo diventati uno in Cristo (Gal 3,28). Questo nostro "essere uno in Cristo" ci trasforma in uomini ecumenici, cioè capaci di superare tutte le barriere, riconoscendoci tutti uno in Cristo.
In questa unità, che rispetta la diversità, sta la ricchezza di tutti noi. Infatti, i Protestanti ci hanno dischiusi alla Parola, come fondamento della comunità e della nostra fede; mentre gli Ortodossi ci hanno introdotti nella ricchezza della contemplazione e della liturgia.
Come Gesù fu il volto storico dell'amore del Padre e lo spazio storico d'incontro tra Dio e l'uomo, così l'uomo, in cui Cristo è sacramentato (Mt 25,40), diventa il luogo primo in cui si incontra e si esperisce Dio nelle sue molteplici diversità espressive.
Primo atteggiamento, dunque, dello spirito ecumenico è il mettersi in ascolto non tanto dell'altro, ma di Dio che nell'altro ci interpella e ci spinge ad aprirci a lui in un atto di amore e di comunione.
Per sua natura l'uomo è ecumenico in quanto è naturalmente portato ad incontrarsi e a dialogare. E il dialogo è il primo atto pedagogico di Dio, attraverso cui interpella e stimola l'uomo ad aprirsi a lui, aprendosi all'altro.
Dio parla con il linguaggio dell'uomo; egli si fa percepire ovunque da quelli che hanno l'orecchio adatto per sentirlo. Il linguaggio non è certo fatto di parole, ma è essenzialmente sacramentale e si fa percepire nei vari contesti storici in cui, di volta in volta, l'uomo viene a trovarsi.
Per farsi capire Dio adopera il linguaggio dell'altro, che non si può intendere se non ci si apre a Lui.
Il parlare di Dio, inoltre, è dialogico: Dio interpella l'uomo e si lascia interpellare: storia, avvenimenti, fatti, personaggi, la vita stessa diventa linguaggio che interpella e chiede una risposta.
Si tratta di un dialogo che non è semplice, ma difficile e di difficile decifrazione, poiché non sempre si lascia intendere immediatamente, spingendo, in tal modo, l'uomo alla ricerca e all'approfondimento, che spesso sono sofferti e tormentati.
La vita dell'uomo è piena di domande, perché questa è la posizione di ricerca. Senza la domanda non c'è lo stimolo della ricerca di una risposta. In genere Gesù entra in conflitto con gli Scribi e i Farisei, con i dottori della Legge. Queste, infatti, sono persone sicure di sé; persone che riposano sulla sicurezza della loro sterile ed arida dottrina, che li chiude al parlare di Dio.
La domanda, l'interrogarsi dicono che il nostro rapporto con Dio è vivo e ci poniamo, pertanto, in un atteggiamento di ascolto, poiché il dialogo, prima ancora di essere parola parlata, è soprattutto parola ascoltata, cioè accolta.
Fare dialogo ecumenico non significa livellare le differenze, poiché Dio per primo ricorda che le mie vie non sono le vostre vie e i miei pensieri non sono i vostri (Is ). La Parola di Dio, pur uscendo dal mistero, tuttavia non elimina le distanze. Fare dialogo, quindi, significa incontrarsi nella diversità, accogliendosi reciprocamente, nel rispetto delle identità e diversità altrui. Ognuno si rivela all'altro nella diversità e nella pluralità, proponendosi come ricchezza che ti fa crescere e ti aiuta a convergere verso l'unica casa del Padre.
Metafora del dialogo tra Dio e l'uomo è la lotta tra Giacobbe e l'angelo presso il torrente Iabbok (Gen 32, 24-32). La lotta si protrae fino al sorgere del sole. Finché c'è notte, c'è lotta; c'è, cioè, ricerca tormentata, una ricerca aperta di Dio senza la pretesa di impossessarsi di Dio. Il cercare Dio con la pretesa di averlo trovato e ingabbiato in qualche nicchia teologica, rischia di crearci delle grandi delusione: egli è il totalmente trascendente e inafferrabile. Egli è sempre là dove l'uomo lo cerca e non dove ritiene di possederlo. In tal modo egli si rende inafferrabile e ti spinge in una continua ricerca a livelli sempre più alti.
Quando Giacobbe si accorge di trovarsi davanti ad un essere divino gli chiede il nome, ma ciò non è possibile, perché il mondo divino è avvolto nel mistero e, pertanto, inafferrabile. Conoscere il nome significa possedere Dio e Dio non si lascia legare ed afferrare dall'uomo, perché egli è il totalmente trascendente.
L'altoparlante, che fa da eco alla Parola, è la vita nella cui dinamica essa risuona e mai al di fuori di essa. Non basta, pertanto, l'ascolto della Parola; è necessario che questo avvenga all'interno della vita.
Il miglio modo di ascoltare è obbedire. L'obbediente, infatti, è colui che crea spazi di ascolto dentro di sé; è colui che, mettendo da parte le proprie pretese e le proprie esigenze, si fa accogliente, cioè fa proprie le esigenze dell'altro.
Cos'è, dunque, l'ecumenismo per la Chiesa? Esso è un'esperienza, cioè un modo di porsi e di vivere il vangelo. E', dunque, esperienza di chiesa, in cui la chiesa si scopre divisa e diversa. E questo ci pone subito un quesito inquietante: come posso vivere il mio cristianesimo e pregare lo stesso Dio, invocandolo con il nome di Padre, quando proprio questo Dio, che preghiamo, ci trova tra noi divisi e in disaccordo?
La divisione dequalifica la fede, la rende scarsamente credibile e mette in discussione la mia stessa identità di cristiano. Cristo stesso, infatti, è diviso quando le chiese sono divise. Per essere veri cristiani, pertanto, serve un atteggiamento di servizio e di ascolto accogliente. Solo allora io mi mostro veramente ecumenico. Perciò io mi metto in ascolto del diverso da me non perché sono ecumenico, ma perché sono cristiano. Il cristianesimo è la base fondante dell'ecumenismo. Il cristiano, per sua natura e in quanto tale, è ecumenico e non può non esserlo, perché il suo porsi in Cristo lo rende naturalmente aperto, accogliente e donativo verso l'altro, qualsiasi sia la posizione con cui l'altro mi si presenta davanti.
In tal senso, il centro di convergenza dei credenti non è più la Chiesa cattolica, ma Cristo. In tal modo si punta verso l'unità nel rispetto delle diversità. L'ecumenismo, quindi, non è accentramento, incorporazione e appiattimento, ma unità in Cristo nella diversità. E' lo Spirito di Cristo che chiama all'unità seppur nella diversità. L'ecumenismo non è, dunque, la speranza di credere in un'unica dottrina o teologia, ma il "credere in Cristo" pur nella diversità. E' il "credere in Cristo" che ci fa "uno", non il credere tutti nell'unica dottrina.
L'ecumenismo, come si può ben vedere, è un dato permanente, poiché esso si radica nella nostra stessa natura di cristiani.
In tale ambito si parla spesso di "fratelli separati". Ma separati da chi? Un'espressione, come si vede, che sottende un atteggiamento rigido e di chiusura, spezzando ogni possibilità di dialogo e di incontro. Tutti siamo fratelli, sfortunatamente tutti separati gli uni dagli altri.
La memoria del passato: lettura del cammino storico dell'ecumenismo
Le tipologie di comprensione della vicenda ecumenica
Prima di introdurci in un "excursus storico" sull'ecumenismo, prendiamo in esame alcuni atteggiamenti delle chiese, che si sono sviluppati lungo il corso della storia ecumenica.
La controversia polemica
Come dice il termine stesso "polemica" (dal gr. "polemoj"; guerra), tale atteggiamento è caratterizzato dalla ricerca di ciò che divide,più che da ciò che unisce. La logica è quella del conflitto finalizzato alla vittoria finale sull'altro. Qui non si tratta di convincere, ma di vincere. E' questo l'orizzonte entro cui si sono mosse le chiese per secoli.
La logica di questo atteggiamento è scandita dalle seguenti caratteristiche:
La controversia irenica
E' il lontano parente dell'ecumenismo. Come dice il termine stesso, la controversia da polemica diventa a pacifica, in cui si cerca di cogliere la posizione e le motivazioni dell'altro, ma ancora non c'è un vero e proprio dialogo costruttivo e di comune crescita e maturazione. La propria posizione si ritiene, comunque, superiore a quella dell'altro. Maestro in ciò fu il Bossuet.
La controversia simbolica
Così denominata perché la controversia si accentrava sui simboli che rappresentano le rispettivi fedi (ad es. il Credo). Questa controversia, tuttavia, è piuttosto sterile e limitante, perché verte esclusivamente su questioni dottrinali, escludendo, invece, il vissuto della comunità cristiana.
La totalità di vita di fede di ogni confessione (sec. XIX)
Considera il contenuto storico-culturale e politico che ha determinato e motivato il distacco o le scelte che hanno portato ad esso (v. ad es. le motivazioni che hanno portato alla separazione della Chiesa d'Oriente da quella di Occidente; o la spaccatura tra cattolicesimo e protestantesimo).
Si incomincia, pertanto, a considerare i contesti umani e la formazione delle motivazioni che hanno portato alle divisioni, e questo è un passo decisamente importante e positivo. Il credente separato, qui, viene colto nel suo attuarsi storico e umano e, per la prima volta, viene considerato una sorta di partner di dialogo, pur non minimizzando le differenze dottrinali e teologici.
Dall'insieme di questi metodi che si sono sviluppati lungo la storia delle chiese, si sono evidenziati dei punti comuni su cui focalizzare il dibattito ecumenico:
- Lo Spirito quale principio interiore che muove le chiese verso l'unità e attraverso le quali parla a tutte. - L'attenzione al globale e al vivente, cercando di superare l'atteggiamento di chi vuol cavillare sulla dottrina altrui, ma la considera nella sua globalità in riferimento a Cristo e al suo contenuto esistenziale ed esperienziale, storicamente acquisito. - Il ministero episcopale, la Parola, i sacramenti, la comunione reale, quali elementi fondamentali e costituenti il vivere cristiano comune.
L'unità a cui si punta, come si può ben comprendere, non è un livellamento o un assorbimento dell'altro in sé, ma una unità nella pluralità in cui l'altro è sentito come un fratello e posto al mio pari. Punto essenziale di questo nuovo modo di sentire e di questo processo ecumenico è il proprio convergere nel comune ritrovarsi in Cristo. Quindi, soltanto nell'andare al cuore delle proprie origini, Cristo, si può ritrovare la propria identità originale, benché, poi, venga vissuta in modi e forme diverse.
Lo sviluppo storico dell'ecumenismo
Il cammino storico dell'ecumenismo nasce intorno al 1850 con il Movimento di Oxford, il cui intento era quello di far recuperare all'anglicanesimo molti elementi della tradizione cattolica. Il Sant'Uffizio cerca di bloccare l'iniziativa, entrando in conflitto con il Movimento, per un diverso concetto di cattolicità e di unità che, secondo la Chiesa cattolica, si possono esprimere soltanto al suo interno. Infatti, per il Sant'Uffizio la cattolicità è soltanto di tipo confessionale; mentre l'unità si realizza soltanto con il rientro delle chiese separate nella Chiesa cattolica.
Ma il vero movimento ecumenico si è soliti farlo partire con la Conferenza Internazionale Mondiale di Edimburgo del 1910. Qui, in ambito missionario, quindi, nasce la questione ecumenica. I missionari segnalano alle loro chiese come le divisioni e la concorrenza nell'attività missionaria per i non cristiani costituiscono motivo di disorientamento e confusione.
Il rimprovero che i popoli neoconvertiti muovono alle chiese presenti in missione viene cosi espresso: "Voi ci avete inviato dei missionari che ci hanno fatto conoscere Gesù Cristo; non possiamo che ringraziarvi. Ma voi ci avete portato anche le vostre distinzioni e le vostre divisioni; alcuni ci predicano il metodismo, altri il luteranesimo, il congregazionalismo o l'episcopalismo. Noi vi domandiamo di predicare il Vangelo e di lasciare a Cristo Signore di suscitare lui stesso, all'interno dei nostri popoli, sotto la sollecitudine dello Spirito santo, la chiesa conforme alle sue esigenze, che sarà la chiesa di Cristo in Giappone, la chiesa di Cristo in Cina, la chiesa di Cristo in India, libera finalmente da tutti gli "ismi" con cui avete classificato la predicazione del vangelo in mezzo a noi".
Tra il 1910 e il 1948 il movimento ecumenico nato a Edimburgo va alla ricerca dei suoi tratti fondamentali, della propria identità, ancora tutta da inventare e da creare.
Come si può rilevare dalle date (1910-1948) siamo in ambito bellico (prima e seconda guerra mondiale) e immediatamente psot-bellico. La voglia di riconciliazione è molto forte: dall'esigenza di pace e di una nuova organizzazione di rapporti tra le nazioni si avverte le necessità di un nuovo rapporto tra le varie denominazioni cristiane e le varie religioni.
E' durante questo periodo che nascono all'interno del Movimento ecumenico due organismi, che si riveleranno fondamentali e vitali per il movimento stesso: "Fede e Costituzione", preposto alle questioni dottrinali e teologiche e il cui compito è quello di trovare comuni convergenze in tale ambito. Il secondo organismo è "Vita e Azione" ha la funzione di dare atto e concretezza all'azione ecumenica, al fine di evitare che l'ecumenismo non rimanga una semplice aspirazione.
Nel 1927 a Losanna si parla di unità delle chiese di tipo "organico". Ciò significa che ogni chiesa deve sentirsi membro di un corpo, ma significa anche che ogni chiesa deve rinunciare alla propria autonomia e alla propria identità. La prospettiva concreta era quella di un livellamento di tutte le chiese in un'unica Chiesa. La proposta risultò essere inaccettabile. Essa, infatti, verrà stemprata con la Conferenza di Salamanca del 1974 in cui si parlerà di "conciliarità".
Nel 1937 a Edimburgo si rileva che l'unità delle chiese esiste già, ma che essa deve essere ancora pienamente svelata a motivo del peccato delle chiese. L'ecumenismo della chiesa deve esprimersi a livello di fede, di liturgia e di strutture. L'unità richiede delle tappe intermedie: confederazione e intercomunione delle varie chiese.
Il movimento ecumenico ormai si è consolidato e ha acquisito una sua identità di fondo. Ed ecco sorgere ad Amsterdam nel 1948 il C.E.C. ossia il Consiglio Ecumenico delle Chiese, nato dalla fusione dei due organismi "Fede e Costituzione" e "Vita e Azione". Esso è costituito dall'insieme di tutte le chiese. Per aderirvi si esige una base teologica minima: credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio e nostro salvatore. Tale base cristologica minima verrà ampliata a Nuova Delhi (1961) anche alla fede nella Trinità.
A partire da questo momento si accentua fortemente la ricerca di unità. Tuttavia la Chiesa cattolica non vi fa parte come titolare, poiché il Consiglio si muove in base alla maggioranza del numero dei battezzati che le singole Chiese rappresentano. E' evidente che la Chiesa cattolica possiede da sé la maggioranza assoluta e, quindi, la sua presenza come titolare rappresenterebbe una forte limitazione alla ricerca dell'unità.
Nel 1952 a Lund si pongono due precisazione di tipo metodologico: a) il CEC non intende costituirsi come "Super Chiesa"; b) necessità di superare il metodo comparativo per creare convergenze in vista di un futuro di riunificazione.
Nel 1961 a Nuova Delhi, durante la terza assemblea del CEC, confluisce in esso anche il CIM (Conferenza Internazionale Missionaria).
Nel 1968 a Uppsala, il Movimento ecumenico è investito dalla contestazione. Del resto, ciò non stupisce: il 1968 fu l'anno della contestazione globale a livello mondiale; segno questo del desiderio di una svolta radicale dell'intera società civile. Per la prima volta la Chiesa cattolica partecipa ufficialmente al Movimento. Ciò non deve stupire. Infatti, siamo nel periodo immediatamente post conciliare e la Chiesa con il suo decreto sull'ecumenismo "Unitatis Redintegratio" aveva dato all'interno di se stessa una netta svolta ecumenica. Il Concilio stesso fu ecumenico. Erano, dunque, giunti si rompessero gli indugi e ci si immettesse nel grande flusso ecumenico. L'accoglienza del rappresentante della Chiesa cattolica, il gesuita Tucci, fu accolta con un'ovazione generale: mezz'ora di applausi.
La posizione della Chiesa cattolica di fronte al Movimento ecumenico
Di fronte al CEC la Chiesa cattolica si posiziona come chiesa madre, che attende il rientro dei figli che si sono allontanati. Essa, pertanto, non si sente coinvolta in tale Movimento, che per lei può soltanto significare un ritorno delle chiese in seno a se stessa. Infatti, la Chiesa cattolica si sente il vero ceppo originario, fedele a Cristo, da cui le altre si sono separate lungo il corso della storia. Non ha senso, pertanto, per lei parlare di ecumenismo.
Due i documenti di parte cattolica che meritano attenzione:
"Mortalium animos", promulgato da Pio XI nel 1928, in cui si afferma che l'unità non si realizza sulle idee, ma contestualizzandola storicamente e concretamente. Non si può, infatti, contestualizzare l'unità nell'ambito della "Chiesa invisibile". Inoltre, il cammino verso l'unità non può giocarsi sulla logica della "verità minima", che restringe gli spazi del ritrovarsi. La chiesa cattolica, ancora, non può aderire al CEC perché non può porsi alla pari delle altre chiese.
C'è in tutto ciò la coscienza di essere l'unica depositaria della Verità divina, che non può essere barattata con le altre chiese, né tantomeno essere oggetto di contrattazione o merce di scambio.
La Chiesa si limita a prendere atto del Movimento, che vede come uno strumento di "ritorno" in seno ad essa.
Latro documento è costituito da alcune "Istruzioni del Sant'Uffizio" del 1949. Qui appare qualcosa di nuovo: si comincia a ritenere possibile il cammino ecumenico, benché esso continui ad essere concepito soltanto come un ritorno a Roma. Anche se la Chiesa cattolica non ha mai partecipato al Movimento conciliare, tuttavia, essa dichiara che lo ha sempre seguito come una madre segue i propri figli, in attesa del loro ritorno.
Tutto ciò è sotteso dalla convinzione che la Chiesa cattolica è l'unica vera chiesa. Comunque, ciò che impedisce alla Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico è la presenza di alcuni pericoli di fondo: l'indifferentismo, cioè la non conoscenza della chiesa cattolica e delle altre chiese; lo spirito irenico, cioè il tentativo di addolcire le differenze, annacquando quelle dottrinali e teologiche; il relativismo, cioè il relativizzare gli insegnamenti delle singole chiese e i loro percorsi storici, culturali e dottrinali. Si riconosce, tuttavia, la possibilità a dei sacerdoti cattolici di partecipare, come osservatori, a questi movimenti.
Ma quali sono le motivazioni che hanno portato la Chiesa cattolica a concepire l'unità come un ritorno degli altri in seno a se stessa? a) La convinzione di essere la sola chiesa vera e di possedere l'esclusiva della salvezza; b) la tendenza di identificare la Chiesa con il Regno di Dio; c) il livellamento della verità, cioè la verità è unica e questa è la nostra; da ciò sfocia l'ecclesiocentrismo: la salvezza si opera soltanto all'interno della Chiesa cattolica; d) perdita del senso misterico a favore dell'istituzionalismo; e) la difficoltà di distinguere la fede dalle forme con cui essa si esprime. In altre parole, la difficoltà di distinguere la sostanza dalla forma con cui questa sostanza viene espressa. f) Un certo timore verso atteggiamenti irenici, cioè il creare l'unità su punti comuni, dimenticandosi delle sostanziali divergenze che dividono. Trascurare ciò significa pregiudicare l'unità stessa con il rischio di creare una falsa unità. g) L'idea di verità intesa come possesso, con risvolti di autosufficienza. h) La difficoltà di accettare il metodo di dialogo, inteso come incontro tra pari. i) Insufficiente coscienza da parte della Chiesa cattolica delle proprie responsabilità circa le divisioni create all'interno dell'unica Chiesa di Cristo.
La grande svolta
La grande svolta della Chiesa cattolica verso l'ecumenismo verrà data da Giovanni XXIII con l'enciclica "Ad Petri cathedram" del 1958, in cui le altre chiese sono definite come "figlie" e "sorelle". Le diverse chiese, quindi, non sono più concepite come eretiche scomunicate e colpite dai vari anatemi e questo apre nuovi orizzonti di incontro e di possibile dialogo.
A breve, nel 1960, nasce il "Segretariato per l'unità dei cristiani", mentre dal Concilio Vaticano II, di natura squisitamente ecumenica non soltanto per l'universale presenza dei vescovi cattolici, ma anche per la presenza dei rappresentanti delle varie chiese separate, che vengono sistematicamente interpellati sui documenti conciliari, con possibilità di esprime il loro parere, benché non partecipino al dibattito, uscirà il decreto sull'ecumenismo "Unitatis Redintegratio" (1964), seguito dal Direttorio sull'unità, in due parti, 1967 e 1970.
A tutto ciò non si è arrivati per caso, ma grazie ad un attivo e fecondo retroterra di movimenti: biblico, liturgico, esperienze di centri ecumenici, migliore comprensione dei fatti storici, il chiarimento di posizioni teologiche, ecc.
Il discorso ecumenico iniziato da Giovanni XXIII, sfociato nel Concilio Vaticano II, troverà la sua naturale continuità in Paolo VI che nella sua enciclica "Ecclesiam suam" (1974) presenta l'ecumenismo come un fatto costitutivo della Chiesa stessa.
I punti comuni tra Chiesa cattolica e le altre chiese
Attualmente gli indirizzi ecumenici, su cui tutti i partecipanti all'ecumenismo convergono, sono i seguenti: a) Centralità cristologica della salvezza; b) gerarchia delle verità, cioè la Chiesa viene dopo Cristo; c) la chiesa cattolica ha la pienezza, ma non l'esclusività della salvezza; anche le altre chiese sono strumenti di salvezza d) la Chiesa è strumento del regno, ma non vi si identifica; e) distinzione tra fede e formulazioni dottrinali; f) reciproca responsabilità nelle divisioni; g) riscoperta del dialogo come stile ecumenico.
La condizione ermeneutica della Chiesa
Si tratta qui di fondare un metodo di dialogo tra le chiese nel rispetto delle loro identità.
Innanzitutto una prima domanda: cosa significa interpretare? Ogni filosofia, ogni teologia è una interpretazione, che parte da un discorso fenomenologico; questo parla dell'accadere delle cose. Infatti, noi abbiamo accesso alla conoscenza per mezzo dei fenomeni, mentre lo Spirito muove verso la loro interpretazione.
Due i modelli di interpretazione: la sperimentazione e l' intuizione .-
Le cose che accadono sono un fenomeno, che si presenta a noi nella sua oggettività, così come egli è. Ma per poter accedere al suo significato e coglierne la valenza bisogna mettere in atto un processo di interpretazione, che sarà tanto più penetrante quanto più mi coinvolge nei miei interessi. S.Tommaso affermava che più una realtà è amata e più la si conosce. L'amore porta all'intuizione e ad una più profonda comprensione della realtà e delle persone, poiché l'amore rende acuta la mia attenzione, sollecitando tutte le mie capacità di penetrazione e di concentrazione sull'oggetto dl mio amore.
La conoscenza sperimentale precede quella speculativa, che si pone nei suoi confronti come momento di astrazione e di elaborazione della prima. Infatti, prima "sento", poi "penso"; e questo è il momento della concettualizzazione. Si pensi in proposito alla prima lettera di Giovanni: all'origine della conoscenza ci sta "... ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, ..." (1Gv 1,1-4), soltanto dopo, in un secondo momento di elaborazione speculativa, riflessiva e di interiorizzazione, viene la fede.
Così pure vale per Israele: prima il popolo sperimenta la liberazione, il deserto e la terra promessa, poi compie un'azione speculativa, di riflessione e di interiorizzazione dell'evento salvifico, su cui si baserà la fede in Jhwh. Prima, dunque, si sperimenta, poi si specula, infine si codifica. Fare l'inverso è innaturale e predispone al fallimento conoscitivo o, nella migliore delle ipotesi, alla distorsione della conoscenza. Non c'è mai una conoscenza se prima non c'è un vissuto, che poi viene espresso con la parola; come non c'è teologia senza vissuto.
Ogni interpretazione si muove, dunque, tra sperimentazione e concettualizzazione; essa fa da trait-d'union tra questi due poli.
La parola dice l'evento dice l'evento, concettualizzandolo, ma mentre lo dice lo tradisce, perché non dice la totalità dell'evento sperimentato, le cui dimensioni superano la sua semplice concettualizzazione. L'evento è sempre una realtà molto complessa, dalle numerose sfaccettature, molte della quali non si lasciano cogliere immediatamente, ma abbisognano di una successiva riflessione, altre ancora rimangono nascoste.
Le varie religioni cristiane sono le varie facce dell'unico volto: quello d Cristo.
Noi diciamo la verità, ma non siamo la Verità; questa è più ampia del nostro esperire e del nostro vissuto; quest'ultimo, poi, proprio perché "vissuto", dice contestualizzazione storica, cioè limitazione, relativizzazione. Ogni verità, storicamente posta, è una verità relativa. Non si pongono nella storia verità assolute. Anche Dio, con la sua incarnazione qui nella storia, è diventato un "Dio relativo" e pertanto bisognoso di interpretazione. L'esegesi biblica dice proprio questo bisogno di interpretazione, di svelamento.
Subentra, ora, il concetto di fenomeno. C'è un tentativo di far dialogare la "natura" (sostanza) con il "fenomeno" (forma con cui la sostanza si contestualizza storicamente e si dà a noi, si presta alla nostra conoscenza). Dal XIX sec. in poi, sostanza e fenomeno si equivalgono; anzi, il fenomeno è la sostanza delle cose che ci si presentano.
E qui si pone la questione del comprendere il fenomeno. Il comprendere non è un processo intellettivo univoco, ma molteplice. La saggezza degli antichi romani già l'avevano colto ed espresso nel lapidario proverbio "Tot capita, tot sententia"; mentre la Scolastica, con forma più elaborata e sofisticata, si esprimerà dicendo che "quiquid recipitur admodum recipientis recipitur". Le cose, quindi, sottoposte alla comprensione, sono sottoposte, in realtà, alla loro interpretazione. Tutto ciò rende la comprensione complicata e rende necessario anche un confronto umile tra le varie comprensioni, poiché la nostra comprensione è "un punto di vista" e non "il punto di vista".
E' necessario, pertanto, arrivare alla comprensione dei vari vissuti, da cui nascono le altrettante comprensioni. I vangeli ne sono un esempio: il loro oggetto e contenuto è identico: l'opera, la predicazione e la figura di Cristo, ma queste vengono colte da prospettive e contesti diversi. Ed è proprio qui che io scopro il vario parlare di Dio nella storia. Dio non parla soltanto con la mia lingua, ma con la lingua di tutti, poiché Dio ci supera tutti.
L'interpretazione del vissuto, pertanto, dice la capacità di comprensione di quel vissuto, che diversamente rimarrebbe chiuso in sé e irraggiungibile.
L'esperienza mentre si dà, si nasconde, nel senso che non si può coglierla interamente e pienamente. Dio lo si coglie ovunque, poiché non lo si può vincolare ad un fenomeno.
L'interpretazione, quale veicolo di conoscenza, si esprime attraverso il giudizio: "questo è un orologio". Questo giudizio è anche veritativo, nel senso che si radica nella mia esperienza così come da me percepita; si basa, dunque, su di una mia percezione della realtà. Chi è, infatti, il Dio di Israele? E' il Dio che mi ha liberato. La risposta si fonda su di una mia conoscenza, che a sua volta si radica nella storia: è un Dio che io ho sperimentato come liberatore.
C'è, poi, nel giudizio e nella conoscenza un aspetto annunciativo (apofantico) o rivelativo: si tratta di risalire dai vari fenomeni alla sostanza del fenomeno stesso. Pertanto, tutte le interpretazioni sono tentativi di comprensione della stessa realtà.
Il fenomeno, infatti, non è una realtà che mi si presenta interpretata, ma è una realtà che mi si presenta così com'è, senza pretese; è una realtà che si pone di fronte a me in termini oggettivi e si offre a me perché io la possa cogliere. Ma nel momento che io la colgo anche la interpreto, emettendo su di essa un giudizio, che è interpretativo del fenomeno e, in tal modo, esso perde la sua oggettività entrando in me.
La conoscenza, tuttavia, non è soltanto "sperimentazione", ma anche "intuizione", che si può definire come un rapido raggiungimento della verità, che baipassa ogni passaggio ragionativo; è una sorta di scorciatoia per la verità. L'intuizione va al cuore della realtà e sfugge ai processi linguistici e normali della conoscenza. Il fenomeno, conosciuto per intuizione, va, pertanto, disoccultato, anche se non sarà mai possibile farlo pienamente. Infatti, Cristo, prima dell'ascensione, si capisce e non si capisce. Il suo mistero più che compreso è intuito. L'intuizione, pertanto, ci avvicina al mistero del fenomeno, riducendo ogni ideologia.
In tal senso le diverse comprensioni che numerose chiese cristiane hanno avuto di Cristo e che hanno costituito la loro peculiarità confessionale, sono ricchezze per tutti e vanno, per questo, rispettate. Quindi, più forte è la simpatia tra le chiese (si conosce veramente ciò che si ama) e più facile è l'intuizione delle loro verità e l'empatia, cioè il mettersi in consonanza con loro. In tal modo si apre la strada alla convergenza.
Ma per giungere a questo, ci è chiesta una disponibilità verso la realtà, cioè un certo grado di apertura e di accoglienza. Infatti, spesso ci accostiamo alle realtà con nostre precomprensioni, che ci limitano nel processo di comprensione del reale.
L'evento previo è Dio stesso, che spinge alla diversificazione. E' Lui che fa cristiano l'uomo, mentre l'azione dello Spirito lo muove. Dio, dunque, è l'evento previo, colui che precede: egli è sempre là dove tu devi ancora arrivare e ti attende, mentre ti spinge ad arrivare a Lui, che è in attesa. Quando tu ti muovi, significa che Lui si è mosso per primo.
La prima reazione al fenomeno esperito è la confusione. La definizione impoverisce, perché il fenomeno ha realtà che lo superano e non si lasciano imbrigliare, così che l'apice del fenomeno è il silenzio contemplativo, fatto di riflessioni e di intuizioni.
Parlare di Dio prima di conoscerlo è un modo strano e inverso conoscere. Prima ci si pone in ascolto umile ed accogliente, poi si conosce. Più ci si avvicina a Dio e più lo sentiamo. Nessuno può fare esperienza piena di Dio. Ma tra il tutto e il niente c'è di mezzo una mediazione e questa non è Dio, altrimenti scadremmo nell'idolatria.
Il linguaggio della fenomenologia è interpretativo; è il linguaggio della differenza tra il vissuto e la sua interpretazione; è il linguaggio che esprime una riserva escatologica, nel senso che dice qualcosa del vissuto, ma non tutto. E' questa la logica della Rivelazione, che rivela, ma non dice tutto, perché non lascia accedere alla Rivelazione piena, che si avrà soltanto nella dimensione finale: quella escatologica. Il conoscere, quindi, è un cammino verso l'escatologia, un processo in continuo divenire, una continua e progressiva scoperta, che avrà la sua pienezza soltanto alla fine. E' così anche la logica della vita: si rivela continuamente, ma non si lascia mai cogliere nella sua essenza ultima.
Questa è la struttura stessa della storia, in cui tutto è relativo perché tutto in essa è limitato, mentre la conoscenza, attuata nel suo ambito, è sempre conoscenza parziale e relativa. Tuto ciò può farci cadere nel soggettivismo. Certo è un rischio, ma garante dell'oggettività è lo Spirito stesso che aleggia nella comunità e si costituisce in mezzo ad essa come il vero ermeneuta. Lo Spirito, infatti, ci ricorda Giovanni, vi condurrà alla verità tutta intera (Gv ).
I criteri del dialogo
Si tratta di evidenziare alcuni criteri per avviare il dialogo con l'altro, anche perché ognuno si relazione secondo il proprio modo di essere.
L'interpretazione nasce con il linguaggio, qual strumento mediativo tra il polo dell'esperienza e quello della conoscenza. Ma anche quando "si dice" anche "si tace", perché ci sono aspetti indicibili.
Anche all'interno della Chiesa cattolica vi sono varie posizioni assunte dai credenti, ma si accettano e si sopportano. Così si dovrebbe essere anche nei confronti delle altre confessioni.
Nel dialogo ecumenico si attivano varie esperienze, che vengono raccontate secondo il proprio vissuto. Ma Dio è più grande del linguaggio, per cui egli traspare da più linguaggi. E' nell'insieme dei vari linguaggi che si delinea una maggiore e migliore immagine di Dio.
Pertanto, quando si affronta il dialogo ecumenico, questo va colto nella globalità di ciò che dice. Non si può mai prendere un solo elemento e assolutizzarlo, ma quanto si dice va colto nella sua globalità. Solo in tal modo esso acquista senso e si rivela nella sua piena verità. Se l'oggettività è piena di Cristo, il modo di esprimerlo è pluralistico, poiché numerosi sono i modi di viverlo (quidquid recipitur ...).
Il contenuto del dialogo non si basa s degli assoluti, ma bisogna rifarsi ai valori di riferimento e al "vissuto" di ogni persona e di ogni "credo". Si tratta, dunque, di un contenuto che è incarnato, cioè storicamente e culturalmente contestuato, cioè vissuto.
La valutazione di una chiesa, pertanto, va fatta nella sua globalità, colta nel suo vissuto, poiché le chiese sono persone vive, con alle spalle una loro storia personale e comunitaria. Infatti, l'uomo si trova come un essere storicamente contestuato, in cui necessariamente si autodetermina.
Ed è a tal punto che si pone la questione dell'autodeterminazione, intesa come capacità di porsi in modo motivato nell'ambito di un determinato contesto sociale, storico e personale. Essa è sempre frutto ed espressione di un atto di libertà, che sarà sempre più tale nella misura in cui si determina in base ad una adeguata motivazione e nella misura in cui tale atto, liberandomi da me stesso, mi sa spingere al di là di me stesso.
Ogni motivazione, poi, quale forza che orienta la mia volontà e la spinge a determinarsi, deve necessariamente radicarsi in un valore o in un qualche cosa, comunque, che è ritenuto tale per me.
Il valore, poi, non è un qualcosa di concreto, ma sgorga da una relazione tra me e ciò che è altro da me e che io sento e percepisco come un qualcosa di positivo e di affermativo per me stesso.
Essere liberi, quindi, significa essere capaci di autodeterminarsi di fronte alla realtà. Autodeterminarsi significa essere capaci di scelte; ed essere tali significa avere la capacità di emettere dei giudizi di valore sulla realtà su cui orientare la mia volontà.
La libertà, pertanto, è una realtà viva che mi spinge sempre al di là del bivio, senza fermarmi davanti ad esso. Più sono libero, quindi, e più scelgo, cioè più sono capace di autodeterminarmi.
La libertà, pertanto, è l'intensità di una forza che ti spinge ad una scelta, cioè ad autodeterminarti di fronte alla realtà, e ti getta già al di là. La libertà è forza che travolge, è azione pura, che non conosce pause di riflessione. E' spazio entro cui si svolge tutta la dinamica dell'autodeterminazione: percezione di una realtà come valore per me; giudizio di valore, che costituisce la motivazione su cui è chiamata a determinarsi la volontà; determinazione della volontà sul valore motivante; azione. Tutto ciò dice libertà, cioè capacità di potersi esprimere motivatamente in un atto che mi colloca sempre al di là di me stesso.
In tale contesto la libertà va letta come "spontaneità", nel senso che la libertà è una capacità connaturata all'uomo. L'uomo, in quanto tale, nasce già capace di libertà, anche se, poi, per divenire realmente libero necessita di tutto un processo di crescita che sgrezzi e affini sempre più, rendendola scattante e brillante, questa sua capacità naturale.
Proprio perché naturalmente capace di libertà, l'uomo patisce la costrizione quando viene ostacolato.
Naturalmente libero, l'uomo è istintivamente portato ad esprimere la sua libertà attraverso l'atto di scelta, che lo coinvolge totalmente ad ogni livello, perché l'uomo, in quanto tale, è un essere perfettamente integro. Qualora, infatti, si verificassero delle dicotomie tra i vari livelli della sua personalità, esso soffrirebbe di schizofrenia, che riduce, se non annulla, per ciò stesso, la sua libertà, cioè la sua capacità di scelta.
La scelta, dunque, in quanto espressione di libertà, non può che coinvolgere interamente una persona, ad ogni livello.
La scelta, poi, proprio perché pone l'uomo in uno stato di autodeterminazione, diventa per ciò stesso scelta radicale, nel senso che essa porta con sé aspetti piacevoli e altri meno ed è sempre e comunque una scelta condizionante, proprio perché autodetermina e si pone in un contesto storico relativo e relativizzante.
I DOCUMENTI
B.E.M. - Battesimo, Eucaristia, Ministero
La struttura metodologica del documento parte dall'iniziativa di amore di Dio Padre; si passa alla morte e risurrezione di Gesù, nella potenza dello Spirito Santo.
Tutti gli uomini sono chiamati alla conversione, liberati dal peccato per la sola grazia e convocati in una Chiesa. L'appartenenza alla Chiesa comporta il dovere della testimonianza. Testimone è colui che incarna e rivela Dio, inverandolo nella propria vita. Se così è, allora la testimonianza toglie ogni ideologia, poiché il testimone in sé non incarna un'idea, ma una persona in cui tutti credono e da cui tutti discendono: Dio.
Per la conversione delle Chiese
Il documento si presenta in veste privata. Si tratta di una cinquantina di teologi protestanti e cattolici, che, a titolo proprio, individuale, affermano che essere cristiani significa porsi in un costante atteggiamento di conversione a Dio.
E come ogni cristiano è chiamato alla conversione, così anche le singole confessioni sono invitate ad intraprendere un cammino di conversione a Dio. Questo comporta, primariamente, aprirsi ed uscire dal chiuso della propria rigida istituzionalizzazione.
Un tesoro in vasi d'argilla, ossia la questione ermeneutica nella chiesa
Il documento parte dal presupposto che il processo interpretativo sia stato causa di divisioni nella storia. Si parte tutti da un unico Dio, rivelatosi in Cristo, ma soggetto, poi, a varie interpretazioni. Un fatto naturale questo, che già gli antichi romani avevano rilevato ed espresso lapidariamente in quel "Tot capita, tot sententia". Del resto, anche i Vangeli, partendo dall'unico Cristo, sviluppano quattro diverse teologie.
In questa prospettiva, si può ben dire che tutta la Chiesa è una comunità ermeneutica, che si pone di fronte ala Parola e la interpreta; non solo, ma interpreta la realtà e le altre chiese. In tal modo, lo Spirito parla attraverso le varie chiese, guidate dalla Parola, così che ogni chiesa diviene voce dello Spirito per sé e per gli altri, proprio nel momento in cui interpreta.
Chi interpreta, però, non ha il monopolio dello Spirito, che invece parla per mezzo di tutti. Le chiese, pertanto, devono sapersi ascoltare, in quanto reciprocamente voci dell'unica voce: quella dello Spirito.
Perché, allora, nascono i conflitti? Proprio perché non ci si sa ascoltare. Ascoltare significa fare spazio accogliente dentro di sé; e per fare ciò io devo necessariamente mettere da parte le mie pretese e le mie esigenze e fare mie le esigenze e le pretese dell'altro. Devo, in buona sostanza, liberarmi da tutti quegli ostacoli che si frappongono ad un ascolto accogliente.
Le precomprensioni, seppur necessarie per accostarsi alla realtà, altrimenti irraggiungibile, fanno parte di questi ostacoli, che mi impediscono di vedere la realtà per quella che essa è veramente.
La precomprensione, infatti, indirizza la comprensione, la critica, la incanala e innesca una certa visione della realtà. Essa è costituita da un proprio bagaglio storico-culturale e formativo, che se, da un lato, aiuta ad approciarsi alla realtà e a leggerla, dall'altro limita e condiziona la mia capacità di lettura e limita il mio campo visivo.
Da qui si può ben comprendere come non ci sia teologia senza esperienza, né ci può essere esperienza senza teologia.
L'interpretazione conflittuale dei testi, pertanto, ha contribuito molto alle divisioni.
Infatti, il fenomeno, in quanto realtà che si presenta in sé e per sé, va "disoccultato"; ma il suo rivelarsi non è mai totale e pieno, nel senso che non si arriverà mai a comprenderlo e a coglierlo pienamente. Proprio per questa sua complessità è buona cosa fare una lettura multipla del fenomeno; una lettura, cioè, a più voci, in cui ognuno coglie ciò che lo Spirito gli suggerisce.
In tale prospettiva, l'ecumenismo non è un mercatino dove ognuno cerca di vendere la propria merce, ma è un mettere assieme, in comune, le proprie comprensioni per un maggior approfondimento della Parola e della realtà.
Le tradizioni, infatti, sono specificazioni e incarnazioni dell'unica grande Tradizione: Gesù Cristo risorto. Esse sono nate dalle singole interpretazioni, avvenute in particolari contesti storico-culturali. In tal senso, l'interpretazione della chiesa si pone in chiave ermeneutica, nel senso che la chiesa è una realtà che interpreta e si lascia interpretare dalla Parola, nel momento in cui questa chiesa si pone o viene posta in confronto con la Parola stessa. Se la Chiesa è ermeneutica, significa che essa è in un permanente stato di conversione, poiché sia nell'interpretare che nell'essere interpretata essa è sempre messa in discussione, perché sempre posta a confronto con qualcosa che è altro da sé.
Ma la vera ermeneutica di una chiesa avviene nell'ambito della liturgia, in quanto che questa è lo spazio proprio e specifico in cui si manifesta e si attua la vita della chiesa stessa.
L'ermeneutica è un processo costante e dinamico delle chiese; mentre le diversità vanno colte come ricchezza. In tale prospettiva, l'unità non va vista come uniforme fusione di chiese, ma come una unità che si pone nella pluralità, salvaguardando la ricchezza storica, culturale, dottrinale e teologica di ogni chiesa, poiché proprio tale ricchezza costituisce l'identità specifica e propria delle chiese. In questo orizzonte la diversità non può e non deve comportare una conflittualità, poiché il vero responsabile di questa diversità è lo Spirito, che con i suoi carismi suscita la diversità.
Il voler definire, configurare, accorpare, accentrare denuncia sempre una paura di fondo verso un qualcosa che sentiamo come inafferrabile e sfuggente. Ma ciò non ci rende liberi, ma schiavi di paure che bloccano una naturale crescita, sospinta dallo Spirito.
Unitatis Redintegratio
L'ecumenismo è un'esperienza ecclesiale che ha dato alla chiesa di comprendersi divisa e da qui partire verso l'unità.
Fu proprio la missione ai popoli che ha provocato nelle chiese la comprensione del loro stato di divisione: "Perché tutti ci portate l'unico Cristo, ma siete tutti divisi tra di voi?". Si accetta, quindi, che i cristiani siano divisi tra loro. Si dice "Padre nostro" e ognuno intende quel "nostro" come se stesso. Non si pensa che se le Chiese sono divise, è Cristo ad essere diviso.
L'ecumenismo ha il suo fondatore in Cristo che, rivolto al Padre, lo prega perché tutti siano una cosa sola come loro due lo sono (Gv 17,21).
Ciò che qui opera non sono strategie, ma solo grazia, che spinge alla conversione dei cuori. Si tratta, quindi, di dono dello Spirito. Tuttavia, va considerato che vi è già una sostanziale unità in Cristo, benché imperfetta.
Ut unum sint
Questa enciclica interpreta in modo dinamico quanto è stato detto dal Vaticano II con la "Unitatis redintegratio". Si afferma, per la prima volta, che quello ecumenico è un movimento irreversibile e che l'unità, in realtà, non fu mai distrutta, ma solo resa opaca. Si parla, ancora, di "fratelli separati", di dialogo come scambio di doni, di conversione.
Si enunciano, poi, i frutti del dialogo: tradizioni ecumeniche, desiderio di celebrare insieme. Le Chiese Orientali, poi, sono chiamate chiese sorelle, anche se da questa definizione (sorelle) sembra trasparire un velato tentativo di fagocitarle.
Unità, dunque, ma nella diversità, mentre si evidenzia la necessità di approfondire ulteriormente il dialogo, da un lato, e dall'altro di fare un comune martirologio. Un passo importante quest'ultimo, poiché significa che le rispettive chiese si riconoscono reciprocamente i martiri, cioè persone che hanno testimoniato, fino all'effusione del sangue, l'unica fede, seppur da versanti diversi.
Si riconosce, poi, che il Vescovo di Roma svolge un ministero di unità, mentre i vescovi sono chiamati "fratelli nel ministero"
Dialogo e annuncio
Un documento questo emanato nel 1991 sul dialogo interreligioso, definito, questo, come un insieme di dialoghi con tutte le altre religioni non cristiane, al fine di una mutua conoscenza e reciproco arricchimento.
Si parla, qui, di dialogo, ma forse sarebbe bene parlare di "incontro interreligioso", in quanto che il dialogo presuppone una comune base di incontro teologico e religioso. E così anche quando si parla di "preghiera in comune", si dovrebbe parlare, invece, più correttamente di "preghiera individuale fatta in un luogo comune".
Tra le varie religioni non cristiane, quella privilegiata è l'Ebraismo, in cui gli ebrei sono chiamati "Fratelli maggiori". Ma attenzione a questa eccessiva elargizione del termine "fratelli", poiché spesso nasconde una subdola voglia di fagocitamento.
Nostra Aetate
Mette in rilievo un nuovo tipo di dialogo, ponendo una differenza tra dialogo ecumenico e interreligioso.
I fondamenti del dialogo interreligioso
Il dialogo interreligioso è un fatto nuovo, sorto recentemente con il Vaticano II. Esso si radica nei diritti fondamentali dell'uomo, basati sul valore della persona umana, depositaria di diritti inviolabili.
Da un punto di vista filosofico, si può dire che si è formata una ontologia dell'altro, scoperto nella sua dimensione trascendentale e nella sua intima natura di persona come valore in sé e per sé.
Poste queste premesse, il dialogo si presenta, ora, come "dialogo alla pari"; "alla pari" perché pari è la dignità che lega gli uomini tra di loro e li pongono sullo stesso livello. Diversamente il dialogo si pone su di un piano di forza e fatalmente scade in monologo o in polemica. In quest'ottica si pone il "dialogo interreligioso". Tale dialogo viene reso possibile se si considera che il proprio interlocutore, ma anche noi stessi, è impastato nella propria religione, che ha succhiato con il latte materno e fa parte della sua struttura mentale e del bagaglio culturale che ciascuno si porta appresso.
Essa costituisce, pertanto, una sorta di schema mentale e di ricchezza emotiva e sentimentale attraverso i quali ognuno vede e sente se stesso, si relazione, giudica, ragiona, compie delle scelte ... vive.
La religione viene a costituirsi, quindi, l'angolo di prospettiva da cui viene guardata la vita e le sue molteplici manifestazioni.
Niente è più equivoco della religione, che all'interno della società può porsi come fonte di vita o di morte, con una forza che supera quella della stessa dittatura, anzi essa può possedere la forza di crearla. Quante teocrazie esistono ancor oggi sul nostro pianeta; e quante ne sono esistite nel passato; quante volte, ancor oggi, soprattutto dove la religione è fortemente istituzionalizzata, essa diventa uno strumento di potere, che umilia anziché affermare l'uomo e la sua dignità.
Tutto ciò avviene perché la religione va a toccar i tasti più intimi e profondi dell'uomo. Essa, quindi, può aprire o chiudere l'uomo alla storia e all'altro.
La religione, in quanto realtà storicamente contestuata, assume poi la coloritura propria della cultura e del momento storico in cui si pone, con il rischio che venga strumentalizzata. Basti pensare, in tal senso, alle lotte di religioni e ai rischi che si corrono oggi nel confornto tra l'Occidente cristiano o ateo e il mondo islamico.
Il rischio concreto esiste soprattutto se pensiamo che fino a ieri ci è stato insegnato che la verità si afferma combattendo (pensiamo alle crociate, all'inquisizione) anziché dialogando. Non va mai dimenticato che alla base del dialogo ci sta sempre la dignità della persona; e questo mi spinge a pormi nei confronti dell'altro non in termini di possesso, ma di processo di maturazione e di apertura verso l'altro. Apertura e accoglienza che significa migliore conoscenza e comprensione, rafforzando il rapporto, la stima e il rispetto: e ciò non è indifferente per il dialogo. Non si può, infatti, dialogare senza conoscersi.
Il documento "Dialogo e popoli" (1991) vede il dialogo come "l'insieme dei rapporti dei rapporti interreligiosi costruttivi e positivi con comunità e persone di altre fedei per una reciproca conoscenza e arricchimento nel rispetto della libertà e dignità altrui"
Sono, queste, prospettive nuove anche per la Chiesa, che prima si sentiva e si concepiva come l'unica portatrice di ricchezza, in quanto unica detentrice della Verità.
Dialogare significa innanzitutto accostarsi con fedeltà alla propria identità, perché il dialogo viva e arricchisca. Il vero dialogo si fonda sulla coscienza della mia identità che apro all'altro. Il suo arricchimento dipenderà proprio dalla fedeltà al mio essere quello che sono. Diversamente il dialogo si trasforma in menzogna, inganno e impoverisce.
Più che di "dialogo interreligioso" è forse meglio parlare di "incontro interreligioso". Infatti, il dialogo prevede che tra i vari partners ci sia una comune base di intessa in cui tutti convergono e su cui dialogare. Ciò non esiste nelle religioni non cristiane.
Ciò vale anche per quel tentativo di "ecumenismo interreligioso" che spinge a trovarsi insieme per una "preghiera comune". Non può esserci preghiera comune perché non c'è un Dio comune.
Nell'anno del Giubileo (2000) si pensò ad un incontro di preghiera a tre, tra le grandi religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo, ai piedi del monte Sinai, perché luogo comune a tutte e tre. Il motto era "incontro assieme per pregare", in cui predominante è lo "stare insieme". Non si è voluto, infatti, dire "incontro per pregare assieme", poiché qui l'accento cade sul "pregare assime", ma per fare ciò serve un comune Dio che nella preghiera ci accomuni. E ciò non si è verificato. Per questo, probabilmente, tale incontro non si è mai verificato, anche perché c'è sempre stata nella Chiesa cattolica una sorta di contrapposizione tra sé e le altre religioni.
Benché discorso ipotetico, tuttavia l'intenzione era quella di trovarsi assieme in un luogo comune, che assumeva grande valore simbolico di unità o, quanto meno, di incontro.
Ma proprio questo "luogo comune" fa sorgere delle domande: il Sinai è veramente simbolico per tutti tre? I dieci comandamenti sono veramente la base morale comune per tutti? Il valore di questo monte è uguale per tutti?
Come si vede gli interrogativi lasciano trasparire dei dubbi su comune intendere le stesse cose e, a lungo andare, questa scelta sembrava essere sostitutiva di un'altra impossibile: Gerusalemme; per cui il Sinai sembrava essere più neutro e meno "caldo".
Si concluse, pertanto, che il Sinai non è di alcun valore simbolico, perché diversi sono i significati che si attribuiscono a tale monte.
Se diversi sono i significati e le attribuzioni di valore che ognuno dà alle medesime cose, l'atteggiamento da tenere e la risposta da dare a tale diversità è l'ascoltare come ognuno si definisce e si comprende. L'ascolto, dunque, è l'unico modo di approcciare le religioni non cristiane.
Nel documento conciliare "Nostra Aetate" sul dialogo interreligioso, si afferma che la religione cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Considera il vissuto e su questo si confronta e ragiona. Infatti, la verità di ciò che si crede si esprime concretamente nella santità di vita. E' questo il luogo della credibilità e, pertanto, il luogo del dialogo e dell'incontro.
E' questa una posizione molto importante da parte del Vaticano II se si pensa che queste affermazioni non sono rivolte a singole persone, ma a delle religioni, che vengono integralmente riconosciute e non più contestate o, peggio, respinte e condannate. La religione è la via storica con cui l'uomo dalle varie culture e latitudini cerca Dio e a Lui accede. Tutto ciò è degno di profondo rispetto.
In ogni religione si è incominciato a vedere un "raggio di luce divina", con un implicito riferimento al prologo di Giovanni: "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv 1,9). Dall'incarnazione, in poi, dunque, la luce si è effusa su tutti gli uomini.
Su questa linea si inserisce anche Giustino con il suo "Logos spermatikoV", la Parola inseminatrice. In ogni uomo, quindi, brilla il seme della Verità, che illumina e spinge ad aprirsi a Dio.
Nonostante questa luce variamente effusa su tutti, la Chiesa è chiamata, comunque, ad annunciare la Verità del Dio incarnato e la sua rivelazione. Essa, pertanto, non può venir meno alla sua naturale vocazione di annuncio, benché ci sia, da parte sua, l'apprezzamento per il raggio di Verità posseduto da ogni religione.
Tuttavia, la "Nostra Aetate" non arriva a proclamare che ogni religione è in sé e per sé via di salvezza. Il tempo per riconoscerlo non è ancora giunto a maturazione. Essa concepisce ancora le religioni come lo storico tentativo dell'uomo di ricercare Dio, mentre sono considerate soltanto come prologo alla salvezza, che ancora si ritiene posseduta soltanto dalla Chiesa cattolica.
Proprio in tal senso Paolo VI nel suo viaggio in India definiva quelle religioni come alba della vera religione.
Un progresso ulteriore si compie con la "Redemptoris missio" con cui si riconoscono nelle religioni non cristiane delle "tracce di Dio".
Ciò nonostante permane alla religione cristiana l'obbligo dell'annuncio, possedendo essa la pienezza della Rivelazione, che va proposta ad integrazione delle verità che già dimorano presso le diverse religioni. Quindi, qui non si tratta di fare proseliti, di convertire, ma di "svelare" la pienezza della Rivelazione. Questo per dire come lo Spirito agisca anche al di fuori degli spazi della Chiesa. Il dialogo interreligioso ha, pertanto, come finalità la ricerca e la scoperta di fin dove Dio è arrivato. E ciò chiede un umile ascolto e rispetto. Fare dialogo interreligioso significa ammettere implicitamente l'azione di Dio oltre la Chiesa.
Il dialogo, quindi, si qualifica non come conquista, ma testimonianza; e testimonianza dice "dare ragione della propria speranza, che è in noi"
Le modalità di questo disvelamento ce le suggerisce la prima lettera di Pietro: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto" (1Pt 3,15). Si parla, dunque, di dialogo dolce e rispettoso con i non cristiani. Inoltre, qui non ci viene chiesto di dare ragione alla nostra identità, ma alla nostra speranza. Infatti, l'identità dice ciò che si è, mentre la speranza dice ciò che ancora non si è. E qui sta la chiave del dialogo interreligioso.
E' una testimonianza "dolce e rispettosa", che trascende ogni etichetta confessionale. In altri termini, ci si deve accorgere che tu sei cristiano non tanto dalla pratica, quanto piuttosto dal tuo stile di vita, dal tipo di rapporto che tu intrattieni con Dio e gli altri. E' quando c'è scarsa coscienza del proprio essere cristiani che ci si attacca all'etichetta.
1Pt 3,15 esorta "a chiunque vi chieda ragione della vostra speranza". Si parla di speranza, dunque, e non di identità. L'identità, infatti, pone l'accento su ciò che tu già sei, mentre la speranza dice ciò che tu ancora non sei. In essa è racchiusa un aforte tensione escatologica, che dice cammino verso il compimento.
Ci vengono proposti diversi tipi di dialogo: quello tipo "marmellata", in cui tutto viene fuso e si propone come un'indistinta purea di elementi eterogenei; e quello tipo "insalata" dove gli elementi non vengono confusi, ma giustapposti l'uno accanto all'altro, inconciliabili tra loro.
Il vero dialogo, invece, deve contagiare, portando l'uno verso l'altro in reciproco arricchimento, in cui ognuno ritrova un po' di se stesso.
In tal senso, la testimonianza è il dialogo più autentico su Dio perché dice con la vita, dice ma non tutto; lascia degli spazi per l'altro affinché egli possa ritrovare in essa delle tracce di Dio, predicato con la vita.
Il primo a dialogare con tutti, indistintamente, è Dio e, quindi, approfondendo il comportamento di Dio, coglibile dalle Scritture e dalla storia, scopriamo quale deve essere il vero atteggiamento di dialogo.
Il volto di Dio nella storia assume multiformi aspetti, indefinibili, non catalogabili; Egli è sempre là dove meno ti aspetti di trovarlo. Assegnare al Dio che si rivela delle etichette significa correre dei rischi: il primo è quello di illuderci di possederlo, creandoci la nostra nicchia teologica, dietro la quale ci rifugiamo e per la quale combattiamo, nella certezza di possedere la verità inoppugnabile. Il secondo rischio è quello di crearci una "confessione" da contrapporre agli altri, scadendo in una conflittualità religiosa, del tutto estranea e non vluta da Dio.
Dio parla molti linguaggi, perché diverse sono le contestualizzazioni storiche e culturali in cui l'uomo viene a trovarsi. Egli si offre a loro così come loro sono capaci di coglierlo.
La Rivelazione, pertanto, non va vista come un dato di fatto, come una Verità codificata e codificabile, ma come un dinamismo storico, come una Verità che si fa nella storia e in essa va ricercata, così come ci appare.
Il dialogo e la sua metodologia
Il nostro secolo è caratterizzato dall'incontro delle chiese, cosa che per secoli non accadeva. La nostra rivalità si è trasformata in disponibilità, la contrapposizione in ascolto, la polemica in accoglienza .
Se ci si chiedesse che cos'è il contrario del Fascismo, ci verrebbe da rispondere l'Antifascismo. In realtà ciò che si oppone al Fascismo e ad ogni forma di coercizione è il dialogo, che esige, per sua natura, la fine degli integrismi religiosi.
Giovanni XXIII sottolineava come bisogna distinguere la Verità dalla sua formazione. Ciò comporta il comprendere come la Verità si è incarnata, come si è storicamente contestuata.
Qual è, dunque, il modo di confrontarci? Mettendo al centro Cristo, luce da cui tutti riceviamo la luce.
Non c'è, quindi, nessuna chiesa che è luce per le altre, poiché tutte sono sotto l'unica Luce, così che la luce di ogni chiesa viene assorbita dall'unica Luce, quella vera, in cui essa e tutte si riflettono.
Altro elemento del dialogo è la scoperta dell'unità nella diversità. Questo signifiica che ognuno accetta di andare a scuola dell'altro, poiché ha compreso come nell'altro parla quell'Unico Maestro che parla in tutti. Tutti discepoli, dunque. Sarà proprio Gesù che ricorderà ai suoi discepoli, nell'ultima cena, di no farsi chiamare maestri, perché uno solo è il loro maestro.
Altro aspetto del dialogo è unità e rinnovamento, cioè il dialogo colto come provvisorietà dinamica; dialogo che non s'impone come realtà finita, ma in un continuo dinamismo, sempre aperto, sempre in ricerca di quella Verità che variamente e sempre in modo nuovo e avvincente si propone a tutti gli uomini.
Ancora un diverso aspetto del dialogo è passaggio dalla coesistenza alla proesistenza, cioè il passare dal convivere allo spendermi per l'altro. E questo per rispondere alla ia vocazione battesimale, che nasce dal mio accorpamento a Cristo, colto nel suo essersi fatto pro-esistenza. In tal modo l'unità non è più uniformità, ma un frutto di una continua conversione.
Un diverso aspetto ancora del dialogo è l'educazione alla libertà che deve comportare il superamento delle parzialità. La parzialità crea ostacolo e sfocia nell'integrismo. Abbiamo, invece, bisogno di imparare l'uno dall'altro.
L'ecumenismo nasce dalla scuola del Vangelo e della Parola, che è stata rivolta non a qualche gruppo confessionale, ma agli uomini, senza etichette di sorta; infatti, nella Parola Dio si presenta come il totalmente accogliente, che nell'essere levato da terra attira tutti a sé.
Uscire dalla parzialità significa uscire dal proprio ghetto e dalle proprie sicurezze indiscusse.
Nell'accostarsi all'ecumenismo bisogna fare attenzione e rifuggire due atteggiamenti contrapposti: il radicarsi nel proprio passato senza guardare alla novità che emerge e che si para davanti; e il diventare rivoluzionari, rinnegando quel passato di cui siamo figli e rimanendo, in tal modo, privi di radici e di identità. Dio ci fa sale della terra non mentre dormiamo, ma attraverso il nostro muoverci nella libertà (v. il capitolo dell'ermeneutica).
Teniamo sempre presente che le ragioni di Cristo a favore dell'unità sono sempre più forti di quelle nostre per restare divisi.
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