ECCLESIOLOGIA  E  MARIOLOGIA

  

(Elaborazione dei miei appunti integrati da sunto e riflessione sulle dispense dell'insegnante)

 

 

Scarica PDF

 

 

Introduzione

 

Quando si parla di Chiesa diventa giocoforza raffrontare tale espressione con l'immagine che si è sedimentata in noi attraverso la nostra esperienza. Ora si tratta di rileggere e ricomprendere in termini oggettivi  e più maturi tale immagine superando, là dove ci fossero, eventuali resistenze o facili credenze.

 

Infatti, quando si parla di Chiesa la nostra mente corre alla "Gerarchia ecclesiastica" che, pur rappresentando la Chiesa, tuttavia non la esprime pienamente.

 

E' utile, pertanto, prima di introdurci in uno studio di ecclesiologia, definire il termine "Chiesa".

 

Tale espressione deriva dal greco "ek-kalew" che si significa "chiamare da". La chiesa, pertanto, nella sua prima accezione etimologica, si potrebbe definire come una "assemblea di convocati". In tal senso essa si richiama a quel movimento escatologico che Gesù ha promosso nel corso della sua missione terrena: la raccolta dell'intera umanità, rinnovata nello Spirito e resa conforme al volere di Dio, sua nuova immagine e somiglianza.

 

Il termine Chiesa, inoltre, è la traduzione greca (ekklhsia) di quello ebraico "Qaal", che esprime la comunità del popolo di Israele raccolta ai piedi del monte Sion per celebrare l'accoglienza dell'Alleanza. Pertanto, per l'antico Israele, quando si parla di "Qaal" si intende l'esperienza di una comunità convocata attorno alla Parola e che dalla Parola viene qualificata.

 

La Chiesa, pertanto, è una realtà che, generata dalla Parola e dall'evento Gesù Cristo, morto e risorto, si ritrova attorno ad essi per trarne sostentamento e un continuo rinnovamento nello Spirito.

 

Nel N.T. l'espressione Chiesa assume vari significati e dimensioni che Paolo stesso suggerisce nelle sue lettere:

 

•   Chiesa, come comunità di discepoli e credenti, assume l'accezione molto ampia di "Chiesa universale";

 

•   Chiesa come espressione di "Comunità locale": chiesa di Corinto, di Tessalonica, di Roma, ecc.

 

•   Chiesa come "Chiesa domestica" che si raduna nelle "domus" e che in esse trova i suoi spazi vitali di incontro e di celebrazione liturgica e che sono accompagnati dall'ospitalità, accoglienza, familiarità.

 

La Chiesa si pone nella storia quale segno e strumento efficace Dio  e, in quanto tale, rimanda ad un’altra realtà che è il Cristo che essa, per mezzo della Parola e del Sacramento, perpetua nel tempo e lo fa incontrare con gli uomini di ogni epoca. Nella storia essa si fa, quindi, spazio e sacramento d’incontro tra Dio e l’uomo, senza avere la presunzione del monopolio di Dio e della salvezza, e senza credere di esprimere pienamente Dio e l’uomo.

 

La Chiesa, afferma la L.G., si comprende all’interno della Trinità e dice qualcosa di Dio, ma anche dell’umanità. Essa, infatti, racchiude in sé il mistero del suo fondatore Gesù Cristo, uomo-Dio, e vive nella sua duplice dimensione e natura.

 

Tutta la storia porta in sé le tracce di Dio: la creazione, nella quale sono visibili le qualità spirituali di Dio (Rm 1,20); la storia stessa è diventata linguaggio di Dio, luogo privilegiato di incontro tra Dio e l’uomo. Essa è segnata dal prendersi cura di Dio come Padre, che si manifesta nel volto di Cristo, mentre lo Spirito attesta l’apertura di Dio all’uomo. Dio è Padre perché consente all’uomo in Cristo di essergli figlio; mentre lo Spirito è colui che apre la storia alla disponibilità di Dio e la spinge verso di lui.

 

In questo ambito trinitario si colloca la Chiesa, che rispecchia il volto della Trinità e si comprende come attestazione della disponibilità di Dio verso l’uomo e di questo per Dio; il tutto in Cristo, per Cristo e con Cristo.

 

Essa si costituisce, pertanto, come il luogo storico di risposta alla disponibilità di Dio.

 

Come si può rilevare, la comprensione della Chiesa postconciliare si è diametralmente capovolta: si è passati da una visione gerarchica ad una trinitaria, da meramente storica a teologica. In tale visione l’uomo è spinto anche ad una migliore comprensione della sua umanità, che è diventata in Cristo e con Cristo una parte componente della Trinità stessa, nel cui ciclo vitale l’uomo stesso è racchiuso.

 

La Chiesa ha proprio questo senso: testimoniare come l’umanità di Dio è sempre presente e come l’uomo, proprio attraverso la sua umanità, ormai assorbita in Cristo per sempre, ha una possibilità concreta di rientrare nella dimensione divina da cui era stato escluso nei suoi primordi.

 

Essa esprime in sé un “già” e un “non ancora”. In quanto “già” la Chiesa è il luogo in cui si attesta la presenza di Dio; in quanto “non ancora”, essa attesta la non definitiva compiutezza della salvezza che è chiamata a dare, poiché, essendo nella storia, si trova nell’ambito del continuo divenire, del continuo mutare, ponendosi in una forte tensione escatologica.

 

La Chiesa, in quanto erede del Cristo morto-risorto e del suo dono, lo Spirito Santo, è chiamata ad un atteggiamento di costante apertura verso il mondo e la storia, in un costante atteggiamento di dono. Infatti, il dono è fatto per essere donato e una Chiesa che si chiude perde il senso della sua missione e della propria identità. La riuscita della Chiesa sta proprio nel tenersi disponibile nel dono anche quando trova l’indisponibilità; anzi, deve saper trasformare questi luoghi di inaccoglienza in luoghi di disponibilità.

 

La nascita della Chiesa: evento pasquale e pentecostale

 

Il racconto della Pentecoste, propostoci da At 2,1-13, descrive il momento della nascita della Chiesa delineandone i tratti essenziali. Vediamone i punti più significativi: "Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. (...) Essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. (...) La folla si radunò (...) Li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa"

 

Quando gli ebrei entrarono nella "Terra promessa" la celebrazione della pentecoste era già presente presso i popoli cananei ed esprimeva il loro ringraziamento alla divinità per la fruttuosità della terra.

 

Gli ebrei fecero propria questa celebrazione legandola all'esperienza dell'Alleanza presso il monte Sinai, dove Israele divenne popolo e ricevette da Dio la sua nuova identità: "Sarete mia proprietà, sarete un regno di sacerdoti e una nazione santa". E' il momento in cui l'Israele liberato assume la sua nuova configurazione umano-divina e viene investito della sua missione. Segno di questa nuova realtà è la Legge, che lo accompagna e lo qualifica.

 

Parimenti ad Israele, in cui affonda le proprie radici storiche e culturali, la Chiesa esperimenta nella Pentecoste il suo nuovo costituirsi quale assemblea convocata nello Spirito e da questi qualificata.

 

"Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire". Con la Pentecoste cristiana si chiude l'epoca veterotestamentaria, qualificata dalla Legge, e se ne apre una completamente nuova all'insegna dello Spirito: si aprono i tempi escatologici, i tempi dello Spirito. Il termine "sumplerousqai", riempire completamente, quindi, ultimare, lo sta ad indicare: il tempo dell'attesa è ormai compiuto, si aprono nuove dimensioni: quelle dello Spirito.

La Chiesa, pertanto, si pone come compimento e piena realizzazione di quelle realtà significate e anticipate già nel Primo Testamento, ne è pieno sviluppo, e consequenzialità, così come Gesù non è venuto per abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento (Mt 5,17).

Tuttavia, ciò non va inteso come se la Chiesa fosse il punto di arrivo e, quindi, conclusivo del progetto di salvezza pensato da Dio, bensì, in qualità di erede di Israele a cui è intimamente legata, ne è il punto di partenza. In quest'ottica la Chiesa è chiamata a percorrere insieme all'umanità, condividendolo, il cammino della storia, facendosi continuamente dono e proposta di salvezza per tutti. Essa è il segno di questa salvezza, lo spazio dell'incontro tra Dio e gli uomini, il luogo di raccolta dell'intera umanità che cammina verso Dio.

 

"Si trovavano tutti insieme nello stesso luogo" Due le espressioni significative: "tutti insieme" e "nello stesso luogo". Esse danno l'idea della piena unità nello Spirito, che da questo momento in poi qualificherà l'essere della Chiesa.

 

"Furono tutti pieni di Spirito Santo" Il dono dello Spirito fu sempre visto nell'A.T. come l'inizio dei tempi escatologici, l'aprirsi del tempo di Dio quale spazio salvifico donato all'uomo, in cui l'uomo è chiamato a porre la propria dimora e a conformare la propria vita alle esigenze dello Spirito che Paolo contrappone a quelle della carne. Nuove prospettive escatologiche, dunque, che pongono l'uomo in una forte tensione esistenziale tra un già e un non ancora.

 

"Cominciarono a parlare in altre lingue ... e ciascuno li sentiva parlare la propria lingua" E' il segno dell'universalità e dell'unità: pur qualificati sotto diverse culture, tutti sono accomunati nell'ascolto della Parola, che si rende accessibile a tutti indipendentemente dalle proprie identità etniche e culturali. E' il segno della Parola che si rende coglibile e comprensibile a tutti. E' il segno di una Parola che si incarna nella storia e che interpella ogni uomo.

"Cominciarono a parlare in altre lingue", esprime il compito missionario della Chiesa: l'incarnare nella storia e nella cultura di ogni uomo la proposta salvifica di Dio all'uomo, rendendola accessibile a tutti.

"...e ciascuno li sentiva parlare la propria lingua", indica, da un lato, la capacità di esprimere dentro il linguaggio della vita, cioè nel vissuto, quella Parola e quell'evento che hanno contrassegnato la propria esistenza; dall'altro, l'accoglienza per mezzo dell'ascolto di tale messaggio, che interpella ogni uomo e a fronte del quale ogni uomo è tenuto a dare una risposta a livello esistenziale.

Così si attua la missione, intesa come la disponibilità a ridire la Parola nelle parole.

 

"La folla si radunò" E' l'effetto del movimento escatologico dello Spirito inaugurato da Gesù stesso: tutti, mossi dallo Spirito,  si radunano attorno alla Parola che convoca. Essa è l'elemento di unità attorno a cui si costituisce nello Spirito la nuova comunità dei credenti, che si lascia coinvolgere dall'azione dello Spirito e si rende sensibile al suo richiamo.

 

Benché il racconto della Pentecoste presentato dagli Atti si snodi sulla falsariga delle teofanie veterotestamentarie e si richiami fortemente all'esperienza di Israele ai piedi del monte Sinai (Es 19,16-18), esso delinea i tratti della nuova comunità:

 

•    La nuova assemblea dei chiamati si pone sul finire dell'esperienza veterotestamentaria, qualificata dalla Legge, e ad essa si aggancia, in quanto in essa è stata preannunciata e sulla sua falsariga si è conformata.

 

•    Segni qualificanti di questa nuova assemblea sono l'unità, pur nella diversità; l'universalità e il dono dello Spirito, che convoca tutti attorno all'annuncio della Parola, su cui si fonda e da cui nasce la nuova comunità, raccolta da ogni parte del mondo dallo Spirito, che spinge tutti e tutti sostiene nel loro cammino verso Dio, come in un grande movimento escatologico. La Chiesa, dunque, in in tal senso, raccoglie l'eredità del Cristo risorto.

 

Questa nuova comunità, nata dall'esperienza dello Spirito, unita nell'unica esperienza del Cristo risorto e che porta in sé uno slancio missionario universale, che la spinge a proclamare la Parola in mezzo ai popoli di ogni lingua e cultura, come in un grande movimento escatologico di orientamento dell'umanità verso Dio, è una realtà che si pone all'interno della storia, in essa si radica e, al suo interno, condivide il faticoso cammino dell'umanità, illuminandolo con la Parola del Risorto.

La Chiesa, pertanto, diventa "segno e strumento efficace dell'intima unione di Dio con il genere umano".

 

In quanto segno la Chiesa non esprime la totalità della realtà che porta in sé, ma rimanda alla realtà che la trascende e che nel segno-Chiesa è significata: essa è segno, cioè sacramento dell'incontro tra Dio e l'uomo, lo spazio storico-culturale entro cui si realizza l'incontro salvifico tra Dio e l'uomo.

 

Va, tuttavia, precisato che l'espressione "extra ecclesiam nulla salus" se, da un lato, è vera, dall'altro, bisogna sottolinearne la limitatezza poiché la salvezza che proviene da Dio è decisamente più grande dei segni che la esprimono. Essi la contengono, ma non la monopolizzano, poiché Dio non è monopolizzabile da nessuno, nemmeno dalla Chiesa. Il suo progetto di salvezza supera i ristretti confini della Chiesa stessa che, in quanto storicamente situata, è per sua natura limitata. Ciò, tuttavia, non deve far dimenticare o sottovalutare che essa è e rimane il segno, lo spazio privilegiato dell'incontro dell'uomo con Dio, nell'ambito del quale l'uomo può rientrare nella dimensione di Dio e Dio può attrarre nella sua dimensione l'uomo. In tal senso la Chiesa è anche "strumento efficace" nel senso che essa non solo lo significa, ma anche lo consente realmente.

 

In tale ambito, la Chiesa sarà sempre più segno e strumento efficace dell'incontro tra Dio e l'uomo nella misura in cui essa, pur rimanendo vincolata alla storia degli uomini, non dimentica che al centro del suo "essere Chiesa" ci sta l'esperienza del Cristo risorto e della sua Parola dai quali non solo è nata, ma continuamente viene generata.

 

La triplice dimensione del vissuto della Chiesa

 

La Chiesa è una realtà umano-divina che cammina nell'ambito della storia, condividendo le esperienze dell'umanità in cui si colloca e di cui fa parte. In quanto segnata dalla storia essa è caratterizzata dalla triplice dimensione temporale di passato, presente, futuro.

 

Il presente: l'oggi della Chiesa

 

La proposta di salvezza offertaci da Dio, di cui la Chiesa è segno e spazio qualificati, si situa nell' "oggi": "Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore" (Lc 2,11); "Oggi la salvezza è entrata in questa casa" (Lc 19,9).

 

La Chiesa è, pertanto, chiamata ad operare nel presente e in esso attuare la sua missione; un oggi che va inteso come l'unico spazio in cui si propone e si attua la salvezza dell'uomo. E' nell'oggi che Dio fa la sua offerta all'uomo, ed è sempre nell'oggi che l'uomo è chiamato a dare la sua risposta esistenziale. Ogni altra dimensione temporale pone la Chiesa e l'uomo fuori dal progetto salvifico di Dio.

 

L' "oggi", pertanto, si qualifica come lo spazio temporale entro cui, da un lato, la Chiesa è chiamata ad incarnare nell' "oggi" il Cristo e la sua Parola; dall'altro, l'uomo è chiamato a misurarsi esistenzialmente con l'appello di Dio in Cristo.

 

La Chiesa, che si muove nell'ambito della storia, deve essere, pertanto, attenta alle sue espressioni, alla sua evoluzione, alle questioni che quotidianamente pone affinché Cristo sia la risposta continuamente e adeguatamente aggiornata. E' compito della Chiesa generare continuamente Cristo e la sua Parola all'umanità perché Cristo sia costante e sempre nuova risposta all'uomo che si muove nel suo "oggi". Solo quando i due "oggi", dell'uomo e di Dio, si incontrano, la Chiesa può dire di essere stata fedele alla sua missione, cioè quello di aver reso possibile nell' "oggi" tale incontro salvifico.

 

Il suo passato: nell'esperienza di Israele

 

Nell'ambito della Storia della salvezza Dio ha affidato la sua promessa e le sue rivelazioni a Israele, che è e rimane, comunque, il popolo della elezione di Dio con cui Egli ha fatto la sua Alleanza.

In tale ambito la Chiesa si comprende come "compimento", nel senso di una ripresa di questa Storia della salvezza fin qui portata avanti da Israele e di una ricomprensione della sua esperienza alla luce della centrale figura di Cristo e del dono del suo Spirito. Non, dunque, due realtà contrapposte che si mettono in concorrenza tra loro e tendono a superarsi, ma come un consequenziale sviluppo dell'una dall'altro. In ciò viene espressa, pertanto, la continuità della storia della salvezza, intesa come un unico atto salvifico di Dio.

 

Il futuro: un tempo segnato dal dono di Dio

 

"I cieli nuovi e la terra nuova" vaticinati da Isaia e contemplati da Giovanni nell'Apocalisse sono le realtà ultime verso cui la Chiesa e con essa l'intera umanità sono chiamate. Una realtà già anticipata nell'oggi del Cristo risorto, benché non ancora pienamente compiuta. Una realtà, comunque, che impegna già fin d'ora la Chiesa e la condiziona nel suo vivere nel presente.

 

In questa prospettiva la Chiesa si qualifica come pellegrina, cioè come colei che si muove nel tempo verso una meta precisa, che la Chiesa deve vivere nel suo "oggi" in un impegno fedele e con un atteggiamento di disponibilità accogliente.

 

Infatti, il futuro della Chiesa non è dato dai progetti che essa fa per se stessa e l'umanità, dalle conquiste missionarie o dalle strutture organizzative che riesce a realizzare, ma da una disponibilità accogliente nei confronti di un Dio che le si consegna sempre stesso e sempre nuovo nel Cristo morto-risorto, presente in essa nel sacramento e nella Parola. Pertanto, due sono gli elementi che la qualificano in tale ambito: la sua fedeltà all’evento del Cristo morto-risorto, attuato nella comunità per mezzo del sacramento e della Parola; e la sua costante disponibilità accogliente verso un Dio che le si offre per essere donato.

 

La riuscita della Chiesa, pertanto, non si misura in termini di successo o di conquista, bensì in termini di disponibilità a Dio che le si offre per essere offerto all'umanità.

In altri termini è Dio che salva e non la Chiesa con la sua bravura e la sua capacità organizzativa. Il giusto atteggiamento per rendere efficace la sua missione è quello di lasciare che in essa operi Dio senza volerlo prevaricare.

 

La Chiesa, pertanto, deve imparare a pensare in termini qualitativi e non quantitativi. Il suo successo non è segnato dalla quantità delle sue conquiste, bensì dalla sua disponibilità a un Dio che, proprio grazie alla disponibilità della Chiesa, è ancora oggi in grado di raggiungere e salvare ogni uomo.

 

Una Chiesa che annuncia e incontra

 

Il punto di partenza per comprendere la Chiesa è l'esperienza del Cristo risorto e del dono del suo Spirito con il quale e nel quale essa intraprende il suo cammino escatologico con l'umanità, rendendo presenti in mezzo ad essa, già fin d'ora, quelle realtà finali che costituiscono il mondo di Dio a cui l'uomo ha appartenuto.

 

Il collocarsi, quindi, della Chiesa nella storia e il suo rapportarsi con l'umanità in un servizio sacro di annuncio diventano elementi importanti della propria missione.

 

Un annuncio che suscita stupore

 

"La folla si radunò e rimase sbigottita ... erano stupefatti e fuori di sè per lo stupore dicevano: << ... com'è che li sentiamo parlare tutti la nostra lingua nativa? ... Che cosa significa questo?>>" (At 2,6-7.12)

 

Come si può rilevare dallo stupore nasce una domanda di senso: "Che cosa significa questo?"

 

Lo stupore, questa capacità di meravigliarsi e di interrogarsi su ciò che ci ha colpiti, nasce dall'incontro e dall'annuncio che diventano testimonianza; testimonianza che si impone all'altro e lo interpella. Incontro e testimonianza che spingono a riflettere e a decidersi esistenzialmente, suscitano un cammino di ricerca e di crescita interiore.

 

Una Chiesa che incontra e si fa luogo d'incontro

 

La missione della Chiesa, che si esplicita nella testimonianza e nell'annuncio del Cristo risorto, comporta il camminare nel proprio tempo e incontrarsi con l'altro, sviluppando con lui un dialogo che si fa annuncio e testimonianza e che lo interpella esistenzialmente.

 

Non si tratta, quindi di convertire, ma di annunciare e testimoniare poiché in queste espressioni viene proposto e trasmesso il Cristo risorto: è lui che converte e salva, il compito della Chiesa è veicolare attraverso l'annuncio e la testimonianza del Risorto.

 

La Chiesa, nell'ambito della propria missione :

 

•   deve porsi di fronte all'uomo in un atteggiamento positivo di stima, ricordandosi che quell'uomo, proprio per il suo tramite, è un chiamato da Dio. Il suo compito è, pertanto, sollecitare in lui questa coscienza di chiamato, creando in lui degli spazi di riflessione per consentire l'entrata di Dio;

 

•   deve rendersi un tabernacolo vivente della Parola di Dio, perché sull'esempio di Maria la possa generare all'altro;

 

•   deve saper testimoniare all'uomo il volto dell'accoglienza di Dio, facendo comprendere come la storia sia il luogo di incontro con Dio in cui ognuno ha accesso ed è accolto come unica creatura irrepetibile;

 

•   deve calarsi nell'ambito dell'umanità e condividerne le sorti, poiché solo in questo orizzonte la Chiesa rende credibile e accoglibile l'annuncio. Non c'è incontro pieno e vero se non alla pari, così come il suo "Verbo si è fatto carne e abitò tra di noi". Cristo si è fatto annuncio e volto del Padre proprio nell'incarnazione.

 

La missionarietà della Chiesa, pertanto, non è esportazione di una dottrina o un colonialismo religioso, ma la capacità di saper leggere i segni di una presenza divina che l'ha preceduta: in ogni uomo, infatti, ci sono tracce della presenza di Dio che lo predispongono all'accoglimento di un annuncio pieno.

 

Chiesa: quale immagine?

 

Più che darsi definizioni la Chiesa, nel corso della propria storia, ha preferito fare ricorso a delle immagini. Esse, infatti, hanno un forte potere evocativo: si rifanno alla nostra esperienza, ci interpellano profondamente, dicono molto senza esaurire il loro contenuto che va continuamente ricompreso e approfondito.

 

Nell'ambito delle numerose immagini proposteci (ovile, campo, edificio, famiglia, tempio, sposa, ecc.) due acquistano un grande rilievo scritturistico e di tradizione: Popolo di Dio e Corpo di Cristo.

 

Chiesa quale popolo di Dio

 

Quattro i motivi che ci spingono a considerare la Chiesa come "popolo di Dio" :

 

•     L'esigenza di superare una dualità e contrapposizione tra "Clero - Laici". In passato, infatti, la Chiesa era identificata con il Clero. Oggi, benché tale dualità e contrapposizione non siano ancora pienamente superate, si tende a riconoscere una pari dignità di Chiesa a tutti i credenti.

 

•     Il legame tra la Chiesa e Israele. Infatti, la categoria di "Popolo di Dio" è già presente nell'A.T. ed essa esprime tutta l'esperienza salvifica e universale di un popolo che porta in sé i segni dell'elezione e dell'Alleanza di Dio con l'umanità. In tal senso, tale appellativo ben si addice anche alla Chiesa, quale luogo di elezione e di incontro tra Dio e l'uomo.

 

•     In quanto spazio liturgico entro cui si realizza l'incontro Dio-uomo. La Chiesa, infatti, assemblea convocata da Dio attorno alla sua Parola e alla sua Mensa; qui tale assemblea di chiamati viene costituita popolo e si esprime in termini di relazione.

 

•     Per esprimere la sua dimensione storica. Infatti, il parlare di popolo facilita la sua comprensione storica che si rifà alla nostra esperienza. Popolo significa una entità vivente, radicata nella storia, capace di relazioni con altri popoli e portatrice di valori e di un messaggio di salvezza valido per l'intera umanità in cui vive e si muove.

 

Queste quattro motivazioni che ci hanno spinto a prendere in considerazione l'appellativo "popolo di Dio" evidenziano anche la natura di tale espressione.

 

In quanto popolo esso dice di appartenere alla storia e di essere capace di relazionarsi agli altri popoli con una propria identità, che si esprime nell'unica fede nell'unico Cristo morto-risorto in cui tutti i battezzati si riconoscono come nuova creatura in Lui. Tale identità meglio si esprime in un ambito liturgico entro cui si realizza e si attualizza, facendone memoria, il mistero della nostra salvezza. Un popolo che si riconosce come comunità di comunione perché battezzato nell'unico Cristo e convocato all'unica mensa della Parola e del Pane.

 

Un popolo che non nasce dal nulla, ma affonda le sue radici in quello di Israele nella cui esperienza storica vede un'anticipazione e una raffigurazione della propria esperienza spirituale e a cui si unisce nell'unico padre Abramo.

 

Un popolo la cui qualificazione specifica gli viene dalla sua appartenenza che è anche la sua origine: "di Dio". Tale qualificazione lo unisce ai destini di Dio, da cui proviene per elezione e invita a trascendere la sua semplice dimensione storica.

 

La Chiesa si comprende, inoltre, come popolo eletto, salvato, sacerdotale, pellegrino.

 

Chiesa come popolo eletto

 

Quando si parla di elezione c'è il rischio di intenderla come un privilegio riservato a pochi, mentre, in realtà, essa esprime un atto gratuito di Dio nei confronti dell'uomo che, indipendentemente dal suo status storico-culturale e personale, è chiamato a far parte del progetto salvifico di Dio che si attua sacramentalmente attraverso la Chiesa.

 

L'elezione, intesa come atto gratuito di Dio, si costituisce come libero dono di Dio all'uomo che è chiamato ad adeguare la propria vita in conformità al dono ricevuto. Essa esprime il prendersi cura di Dio per noi e, in quanto tale, esige una adeguata risposta esistenziale che ci apre a Lui e agli altri e non ci contrapponga a Dio escludendo gli altri.

 

Ponendosi su di un piano di gratuità, la libera elezione di Dio ci chiede di adeguare in tal senso la nostra vita sia nei suoi confronti che in quelli degli altri: "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date". Un invito questo ad effondere tale dono anche agli altri.

 

L'amore di Dio per noi, che si è sacramentato ed espresso nell'elezione gratuita, deve tradursi in noi in testimonianza, annuncio e donazione gratuita di quanto è avvenuto in noi, che siamo divenuti depositari dell'amore di Dio, sotto forma di libera e gratuita elezione.

 

Chiesa come popolo salvato

 

Talvolta pensiamo al termine "salvezza" come l'essere trattenuto da un pericolo, uno schivarlo, un evitarlo.  Nell'ambito teologico, invece, essa indica una relazione con Dio ed esprime, in particolare, l'uomo pienamente realizzato e compiuto nel suo essere uomo. In tal senso, salvezza è un sinonimo di realizzazione, affermazione.

 

Dire, pertanto, che la Chiesa è un "popolo salvato" non significa "Chiesa trattenuta" da un pericolo, ma è un porre il popolo, l'altro nella condizione di diventare pienamente uomo, realizzare pienamente il proprio essere.

 

Questo è, comunque, un primo passo di salvezza che prepara e apre l'uomo alle prospettive escatologiche già attuate nel Cristo risorto.

In tal senso l'uomo, realizzato su di un piano umano in Cristo, viene completato pienamente nel Cristo risorto in cui è ricreato a immagine e somiglianza di Dio.

 

E', dunque, una salvezza che si compie a due livelli: umano, prima, divino, poi.

 

Una salvezza che si esprime nella libertà, non nel senso di "fare quello che si vuole", ma nel senso di piena realizzazione del proprio essere e un ricostituirsi in Cristo, che consente un'affermazione piena dell'umanità, configurata al Cristo risorto.

 

In questo ambito la Chiesa offre salvezza, ma non è lei che salva, bensì Dio che è presente e sacramentato in lei. In tale orizzonte la Chiesa ha il compito di affermare la dignità dell'uomo e di promuoverlo. Ciò non è da intendersi come filantropia, ma è, in essa e per suo mezzo, l'azione stessa di Dio che afferma e promuove la dignità dell'uomo.

 

Chiesa come popolo sacerdotale

 

Spesso abbiamo relegato il termine sacerdotale al sacro, mentre il sacerdote è il mediatore del sacro tra Dio e gli uomini. In tal senso Israele si sente legato al sacerdozio, in quanto egli si fa mediatore dell'immagine di Dio verso gli uomini.

 

Tratto essenziale del sacerdozio, pertanto, è la mediazione tra Dio e l'uomo. Egli è colui che dice la disponibilità di Dio per l'uomo e, viceversa, accoglie e rappresenta l'uomo davanti a Dio, creando una circolarità del dono: da Dio all'uomo e viceversa per mezzo del mediatore sacerdotale. In questa sua funzione il sacerdote deve evitare il rischio di diventare un monopolista di Dio.

 

Due, quindi, le caratteristiche del sacerdozio: mediazione e circolarità del dono ricevuto. In tal senso Gesù Cristo è sacerdote per eccellenza: sacramento e punto d'incontro tra Dio e l'uomo.

 

In questo orizzonte la Chiesa, per mezzo del suo sacerdozio, è colei che afferma l'alterità di Dio che opera nella storia.

 

Sacerdozio, dunque, quale luogo d'incontro tra Dio e l'uomo, creando tra loro una circolarità del dono da Dio all'uomo che viene, poi, riespresso sotto forma di offerta da parte dell'uomo a Dio.

 

La Chiesa, dunque, si pone come luogo di sacerdotalità, cioè di mediazione e di circolarità: dono e risposta esistenziale.

 

C'è, infine, un sacerdozio universale, proprio di ogni battezzato, al cui interno si colloca quello ministeriale, che si qualifica come servizio e stimolo al primo sacerdozio.

 

Posta in questi termini la questione, va detto che non c'è identità tra sacerdote e prete. Infatti, vi è un unico sacerdote, il Cristo, il quale partecipa a tutti il suo sacerdozio e tutti lo sono in quanto di lui partecipi.

Il prete si pone all'interno del sacerdozio ed esprime la sua ministerialità, intesa quale servizio al comune sacerdozio.

 

Chiesa come popolo di pellegrini

 

Il pellegrino non è un turista, ma uno che inizia un cammino finalizzato ad un incontro.

 

Ciò che motiva il pellegrinaggio di Israele nel deserto è la promessa di un dono a cui accedere: la terra. Pertanto, Israele sente il deserto come la realtà della vita segnata dal bisogno, la cui soddisfazione sta nel dono della terra che gli sta davanti. Il deserto, pertanto, è un luogo di passaggio finalizzato alla meta. Israele, quindi, deve tenere desta la  coscienza della meta per non confondere il deserto come uno stato di vita definito, perdendo, così, di vista la meta.

 

Il pellegrinaggio, pertanto, si qualifica come disponibilità interiore ad un cammino orientato alla meta, che ne costituisce il senso e la motivazione prima.

 

E' la fedeltà di Dio che rende pellegrina la Chiesa, nel senso che la stimola ad una continua presa di coscienza del dono verso cui è incamminata. Tale cammino riceve senso da questo dono, a cui la Chiesa risponde con il suo continuo pellegrinare verso il dono che si pone quale segno della fedeltà di Dio, indipendentemente dalla fedeltà della Chiesa.

 

Il pellegrinaggio, pertanto, si traduce in un impegno storico quale risposta al dono-meta-finale.

Il pellegrinaggio, inoltre, mette in risalto la provvisorietà delle strutture ecclesiastiche che, invece, esprimono la stabilità e la garanzia del futuro e indicano radicamento nella storia e nel presente.

 

I discepoli chiamati abbandonano tutto (barca, reti, lavoro,ecc.) per "seguirlo", cioè abbandonano ogni struttura sociale per iniziare con Gesù un cammino e un pellegrinaggio, che è sequela. Pertanto, ne discende che quanto più la Chiesa si identifica con queste strutture, tanto più perde la sua identità di pellegrina, cioè di popolo in cammino verso la meta finale.

Essere pellegrina per la Chiesa significa maturare la coscienza che questa storia è il luogo in cui continuamente è chiamata a decidersi per Dio e, di conseguenza, a orientare e riorientare di continuo il proprio cammino verso di Lui.

 

Chiesa come corpo di Cristo

 

Quando parliamo di corpo, pensiamo al dualismo platonico di "anima e corpo" in cui il copro appare il contenitore dell'anima. Tale immagine, se associata al rapporto Chiesa-Cristo, porterebbe a concludere che la Chiesa è il contenitore entro cui si pone Cristo.

 

Il corpo, tuttavia, non va inteso come una parte dell'uomo, bensì come espressione della sua totalità. Ci viene in aiuto, in tal senso, l'antropologia ebraica che concepisce l'uomo in forma profondamente unitaria, come "spirito incarnato e corpo spiritualizzato".

In questa prospettiva, allora, anche la Chiesa non appare più come un semplice contenitore che ospita Cristo, ma è in uno stato di profonda unitarietà e comunione con lui, così che essa si esprime come una "Chiesa cristificata e un Cristo storicizzato nella Chiesa".

Tale visione esprime una profonda compenetrazione reciproca, che trova la sua migliore espressione nel battezzato: persona che nel battesimo è stata immersa in Cristo, diventando un'unica realtà con lui. Infatti, nel battesimo il cristiano è stato rivestito di Cristo come di un abito nuovo, è stato impastato nel Cristo, è stato cristificato al punto tale che, afferma Paolo in Gal. 2,20, "non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me".

In questo orizzonte il cristiano diventa ad essere un "altro Cristo", suo sacramento vivente in mezzo agli uomini.

 

Espressioni della corporeità della Chiesa sono la sua storicità, quale suo habitat in cui si muove e si esprime; la sua unitarietà grazie alla quale tutti sono Chiesa e nessuno è sezionabile, mentre tutti partecipano della stessa vita e realtà; la sua riferibilità a Cristo e la sua relazione con lui.

 

In tale proposito Paolo nella sua 1Cor 12,12-27 presenta la Chiesa come corpo di Cristo, avvalendosi di un tema conosciuto nella cultura ellenistica: il corpo umano come immagine del corpo sociale, che induce al rispetto della diversità delle sue membra e alla necessaria unità di tutti nel perseguire finalità comuni. Ma ala luce dell'esperienza cristiana e della pratica eucaristica del "corpo di Cristo" ne trasforma il significato.

 

La pericope (12,12-27) è incorniciata dai vv. 12,11 e 12,28.

 

Il v. 12,11 evidenzia come la pluralità dei carismi è originata dallo stesso Spirito; quindi la diversità, ben lungi dall'essere contrapposizione, diventa, invece, arricchimento, proprio per l'unicità della sua fonte originaria che tende ad imprimere nei suoi doni il segno dell'integrazione e non della divisione.

Il v. 12,28 evidenzia, invece, come la pluralità dei carismi e dei ministeri sono posti da Dio stesso nell'unica Chiesa. Molti, dunque, i doni, ma unica la realtà in cui essi si esprimono.

 

Dall'analisi di questi due versetti-cornice appare evidente come unica è la fonte da cui sgorgano tutti i doni, lo Spirito e Dio, e unico è lo spazio in cui essi vengono recepiti e si manifestano, la Chiesa. Così che la Chiesa diventa ad essere il luogo privilegiato della manifestazione dell'azione dello Spirito che con i suoi doni arricchisce e fa crescere i suoi membri. La Chiesa, pertanto, diventa ad essere il sacramento vivente da cui traspare l'agire di Dio nella storia.

 

Letta in questa cornice, ora, la pericope 12,12-27, appare più comprensibile.

 

Essa si può idealmente dividere in due parti: vv. 12,12-13  e  12,14-27.

 

Nella prima parte (12,12-13) Paolo considera la profonda unitarietà e integrità del corpo. In tale ambito Paolo pone un parallelo tra il corpo, così come da noi conosciuto, con il Cristo: "come il corpo" ... "così anche Cristo". Quel "così anche" riprende e sostituisce tutto il ragionamento immediatamente precedente sviluppato da Paolo sulla unitarietà del corpo pur nella diversità delle membra e così, pari pari, lo applica a Cristo.

 

Pertanto, seguendo tale logica, si avrà che Cristo si esprime attraverso una pluralità di membra, che scopriremo nel v.13 essere i battezzati, le quali, in quanto membra dell'unico Cristo, sono esse stesse Cristo.

 

Ed ecco che, ora, tale parallelo, corpo-Cristo (v.12), viene immediatamente applicato alla Chiesa: "E in realtà, noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo" (v.13). Qui Paolo indica ciò che ci fa corpo di Cristo: il battesimo e lo Spirito.

 

La diversità nella Chiesa, proprio per l'unicità della sua fonte, è finalizzata all'unità ed esprime il mistero partecipativo di Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo: tre diverse persone, ma un solo Dio.

 

E', dunque, una Chiesa che si muove in un ambito trinitario: diversità nell'unità, unità che si arricchisce e cresce nella diversità, proprio perché tale diversità possiede connaturato in sè il sigillo dell'unitarietà divina. L'unitarietà, tuttavia, non va intesa come livellamento: tutti uniti perché tutti uguali, ma essa, come nella Trinità, è reciproca compenetrazione di diversità.

 

Seguono, poi, i vv. 12,14-27 finalizzati ad evidenziare la pluralità delle membra del corpo che vivono, però, nella reciproca armonia al servizio le une delle altre, ed è proprio nell'ambito di questo reciproco servizio che l'armonia del corpo viene mantenuta e alimentata.

 

Il problema, quindi, sembra dire Paolo, non sta nella pluralità o nella diversità, ma nel voler prevaricare gli uni sugli altri. A fronte di tale pericolo, che porta ineluttabilmente alla disgregazione e alla morte della comunità stessa, la risposta più adeguata è il servizio nella carità che fa della Chiesa la vera Chiesa. Non a caso al capitolo 12 Paolo fa seguire lo stupendo inno alla carità.

 

Il servizio, poi, è mosso da Dio stesso nell'ambito della comunità per il bene della stessa: "Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto" (12,18).

 

Infatti, Dio pone distintamente ciascuno nella Chiesa con un suo carisma personale in funzione della comunità perché essa cresca e si arricchisca, ma "ciascuno per la sua parte" (v.12,27), cioè a ciascuno è stato dato un compito in funzione della comunità.

 

Si pone, a tal punto, la necessità che ognuno, investito di un carisma da Dio, si renda disponibile ad accoglierlo, conformandosi così alla sua volontà.

 

"Fare la volontà di Dio", pertanto, significa essere disponibili a rispondere esistenzialmente a un Dio che mi interpella nel corso della mia vita con fatti, avvenimenti, persone, ecc. che si pongono sul cammino della mia vita. In questo ambito è importante saper leggere la storia e i segni che in essa si pongono.

 

Chiesa, corpo di Cristo: riflessione conclusiva

 

Nell'ambito della Chiesa, corpo di Cristo, lo Spirito dà liberamente i suoi doni, ma tutti devono confluire e favorire l'unità e in essa la crescita della Chiesa.

 

Ogni dono non è mai assoluto e a se stante, ma si comprende e si arricchisce assieme agli altri. Esso è come la tessera di un puzzle: non si comprende da sola, ma soltanto insieme agli altri. Essa, tuttavia, nell'insieme è unica e senza di essa l'insieme non è più tale, anzi ne risulta rovinato. Pertanto, anche il dono individuale ricevuto è assoluto e importante, senza il quale il tutto, poco o tanto, ne risulta impoverito.

 

Quindi, ogni singolarità è importante, ma lo è solo nell'ambito dell'unità. Ogni dono, infatti, è finalizzato al servizio e alla crescita della comunità e si esprime nella condivisione.

 

Quando una funzione nella Chiesa si ritiene superiore alle altre e/o tende a prevaricarle, l'unità è minacciata.

 

Molte, quindi, le funzioni e i carismi, ma tutto deve concorrere all'arricchimento e all'unità della comunità stessa.

 

Funzioni e relazioni nella Chiesa sono espressioni del volto di Dio che si manifesta in Cristo. La Chiesa, in tal senso, diventa il luogo in cui si esprime il mistero di Dio per mezzo delle funzioni e della loro pluralità nell'unità.

 

Aspetto importante della Chiesa è l' unità che esprime la verità di Dio: il Dio uno e trino.

 

Unità, però, non come somma di singoli, ma come una compenetrazione reciproca in cui l'uno si comprende nell'altro. Si tratta, dunque, di una unità ontologica, che si pone, cioè al di sopra delle singole divisioni. La Chiesa è una perché uno è Dio e uno è il Cristo di cui essa è corpo. E' evidente che più divisa è la Chiesa al proprio interno e meno traspare la sua unità ontologica che, invece chiede di essere testimoniata nel sacramento dell'unità e in tal senso la Chiesa diventa ad essere la "rappresentazione del mistero di Dio".

La Chiesa è il corpo di Cristo, ne è la sua incarnazione ed esplicitazione nell'ambito della storia.

 

Altro aspetto della Chiesa è il dinamismo al cui interno si presenta l'offerta di salvezza di Dio agli uomini.

 

La Chiesa nell'ambito della storia vive di una vita propria, ma in essa si esplicita e si muove un dinamismo salvifico che è divino.

 

Altro aspetto è la reciprocità nel cui ambito ognuno può attingere dall'altro.

 

Altro aspetto, ancora, è la contemporaneità, cioè la capacità di incidere nell'oggi. E' una Chiesa che si muove nel proprio tempo e in questo "oggi" attua la salvezza e il Cristo, rendendo contemporaneo l'oggi di Dio e il messaggio.

 

Si può, dunque, concludere che Cristo è capo della Chiesa, non nel senso che la spadroneggia, ma come punto vitale e sorgivo da cui tutto defluisce.

 

Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica

 

La Chiesa è ambito di  professione di fede. Infatti, diciamo "Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica"; attributi questi che qualificano la Chiesa nel suo essere e nel suo esprimersi. "Unità, santità, cattolicità e apostolicità" sono dimensioni strutturanti l'essere della Chiesa e fondamentali poiché se ne togliamo una viene a mancare un elemento costitutivo del suo "essere Chiesa". Tali dimensioni, pertanto, sono i quattro pilastri fondamentali su cui si regge l'intera piattaforma ecclesiale.

 

Si noti come non si dice "credo nella Chiesa" in quanto essa non è l'oggetto della fede in cui credere, ma si dice "credo la Chiesa" come "una, santa, cattolica e apostolica". La fede, cioè l'adesione esistenziale, viene data non alla Chiesa, bensì a Cristo. La Chiesa è solo un oggetto di riflessione che ci impegna, poi, nella fede credendo che essa è "una, santa, cattolica e apostolica"

 

Chiesa "Una"

 

L'unico fondamento della Chiesa è Cristo il quale esprime la sua intenzione che nella Chiesa si realizzi l'unità: "che tutti siano uno come tu, Padre, in me ed io in te" (Gv 17,20). L'unità, pertanto, dice riferimento al mistero di Dio: egli pur nella diversità delle tre persone è uno. Unità dice, innanzitutto, relazione tra diversità che non si contrappongono, ma che si arricchiscono intrecciandosi.

 

L'unità, tuttavia, non va intesa come somma di individui, ma come intreccio di relazioni partecipate. In essa ritroviamo l'unica fede, l'unico Dio, l'unico Cristo. In tale ambito la diversità non è mai contraria all'unità, ma essa trova la sua piena maturità proprio nell'unità che la trasforma in ricchezza. L'unità, pertanto, è valorizzazione delle singole diversità.

 

L'unità della Chiesa è data dall'unicità di Dio che, pur diversificato in tre persone, è uno.

 

La Chiesa, pertanto, è ontologicamente "unità" e non è costituita o basata sulla volontà umana che, invece, è chiamata a realizzare anche sacramentalmente quella unità già presente ontologicamente. In altri termini, la Chiesa è comunque unita anche nelle divisioni dei suoi membri che, proprio perché divisi, tradiscono la loro vocazione all'unità che è germinalmente in loro in virtù del battesimo. Infatti, Paolo nella sua lettera ai Galati afferma: "Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 4,27-28). Se da una lato, l'espressione di Paolo porta a pensare come le divisioni deturpino il volto della Chiesa, dall'altro evidenzia come principio e sorgente di unità, attorno a cui ruotano tutte le chiese, è Cristo.

 

La Chiesa, pertanto, rimane "una" anche in mezzo alle divisioni poiché essa è per sua natura "una" e l'unità è un suo elemento costitutivo che è presente in essa come dono che aspetta di essere colto e testimoniato nella sacramentalità della storia. L'unità, quindi, non manca nella Chiese e tra le chiese, ma, piuttosto, la capacità di convertirsi al dono, sempre disponibile, dell'unità di Dio; uno dono che ci sta davanti e che aspetta di essere colto e accolto. Ciò che a Dio va pertanto chiesto è di darci la forza e la luce necessarie per testimoniare e realizzare anche sacramentalmente quell'unità che è già presente in virtù del nostro essere in Cristo e con Cristo inseriti nel ciclo vitale della Trinità: tre persone nell'unico Dio; pluralità e diversità nell'unità.

 

Chiesa "Santa"

 

Quando parliamo di santità della Chiesa questa non va intesa in termini di distinzione e/o contrapposizione al mondo, quasi che la Chiesa sia santa e il mondo, invece, peccatore, anche se il concetto di santità contiene in sè un'idea di separazione, di alterità. Il termine, infatti, deriva dal latino "sancire" che significa anche "dedicare, consacrare" e, quindi, riservare, separare dal resto.

 

Comunque, quando si parla di santità nella Chiesa non va intesa in termini di privilegio.

 

Anche per questa qualità propria della Chiesa va fatto riferimento a Dio: la Chiesa è santa perché santa è la sorgente da cui essa sgorga. La santità della Chiesa, pertanto, si recepisce nell'ambito della sua relazione con Dio: "Siate santi perché io il Signore vostro Dio sono santo" (Lv 19,2)

 

Poiché la santità della Chiesa va considerata in rapporto a Dio cerchiamo di comprendere bene il significato biblico di tale termine.

 

Dio è santo perché egli è totalmente altro rispetto al mondo e all'uomo e non è riconducibile nell'ambito dell'esperienza umana. Egli è santo anche perché il suo agire avviene in modi completamente diversi da quelli dell'uomo, anzi esattamente contrapposti: " Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri " (Is. 55,8-9 ).

 

Nell'ambito di Israele la santità di Dio è sperimentata come fedeltà di Dio alla sua promessa e come liberazione che si riassumono nell'unico termine di "elezione". Israele verrà qualificato con una sua nuova identità a cui è legata una missione: "Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli ... Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es.19,5-6). Israele, pertanto, viene qui definito proprietà di Dio tra tutti i popoli e, in quanto tale, egli viene riservato a Dio, separato dal resto e, in quanto "di Dio", egli ha legato i propri destini a quelli di Dio; per questo Israele è una nazione santa da cui sgorga, ora, la sua naturale missione di sacerdote, cioè di colui che fa da ponte, da tramite tra Dio e gli uomini, datore del sacro perché lui, per primo, è santo, una santità in funzione di un ministero.

 

Così è anche per la Chiesa; anche per essa la santità non è un privilegio, ma la dimensione entro cui si muove e vive, la dimensione stessa di Dio. Essa è chiamata ad essere santa, cioè a riflettere nella propria vita quella santità divina che la permea nella sua più profonda intimità; una santità che non è fine a se stessa, ma è chiamata ad estrinsecarsi. La Chiesa è santa perché chiamata a santificare, cioè a recuperare l'uomo e il suo habitat nell'ambito di Dio. In tal senso essa espleta anche la sua funzione sacerdotale.

 

Santità, tuttavia, non significa esenzione dal peccato. Il peccato, infatti, appartiene alla dimensione storia ed è sinonimo di fragilità e, in quanto tale, appartiene anche alla Chiesa. Essa è una Chiesa santa formata da peccatori, quella che i Padri della Chiesa chiamavano con un'espressione dura, in terminis contraddittoria, ma molto appropriata "casta meretrix", indicando con ciò questa convivenza di colpa e santità.

 

Essa è santa perché tende, sia pur nella sua fragilità, a lasciar trasparire storicamente la realtà santificatrice che porta dentro e di cui è impastata. Essa è santa benché sia peccatrice e la sua fragilità nulla toglie allo splendore della sua santità.

 

Quando il celebrante nella prece eucaristica prega "Padre veramente santo e fonte di ogni santità, santifica ..." non dobbiamo mai dimenticare che la sorgente di ogni santità e santificazione è sempre e unicamente Dio.

 

Chiesa “Cattolica”

 

Il termine "cattolica" deriva dal greco katolikh e significa "universale". L'espressione, benché contenga in sè anche un'accezione quantitativa ed estensiva, tuttavia non va intesa in senso di estensione confessionale poiché ciò sarebbe riduttivo della vera universalità che la Chiesa porta in sè.

 

La cattolicità della Chiesa si aggancia sempre alla sua fonte primaria che l'ha generata: il Cristo morto-risorto che proprio in questa esperienza salvifica abbraccia, misteriosamente e realmente, l'intera umanità: "Quando sarò innalzato attirerò tutti a me" (Gv  ). L'universalità, pertanto, si esprime nell'abbraccio del Cristo morente che diventa comunione di salvezza tra Dio e gli uomini. Unica condizione per parteciparvi è il credere, un credere che è aperto a tutti, indipendentemente dalla propria collocazione storica e culturale: "Io sono la risurrezione e la vita ; chi crede in me anche se muore vivrà" (Gv 11,25); e ancora Paolo nella sua lettera ai Romani: "Io non mi vergogno, infatti, del Vangelo poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16) e infine Luca nei suoi Atti sottolinea questa universalità ancora in termini più accentuati: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At.10,34-35).

 

Queste espressioni così indefinite "chi crede", "chiunque crede", "a qualunque popolo appartenga" esprimono proprio l'universalità.

 

La Chiesa si colloca proprio in tale ambito e fa parte della sua identità. Essa, pertanto, è universale perché strumento universale di salvezza, così come pensato da DIo, e, in quanto tale, universalmente aperta a tutti, a "qualunque popolo si appartenga".

 

La cattolicità della Chiesa, pertanto, rimanda all'evento di salvezza, Cristo morto-risorto, che si è offerto gratuitamente in favore di tutti, indipendentemente dal proprio collocarsi storico; in tal senso esprime il prolungarsi della missione di Cristo.

 

Contemporaneamente, da un punto di vista storico, questa universalità si esprime nella missionarietà della Chiesa, intesa non come azione di conquista e affermazione di potere, ma come annuncio dell'offerta di salvezza operata da Dio nel suo Cristo per chiunque crede.

 

Cattolicità, dunque, non come confessionalità, che è l'opposto di universalità, ma come espressione e specchio della volontà salvifica di Dio che si è fatto carne non per il papa, i vescovi, i preti o i cristiani in genere, ma "per noi uomini e per la nostra salvezza". Una Cattolicità, quindi, che supera le stesse dimensioni della Chiesa e che si esprime soltanto in Dio sacramentato nel suo Cristo.

 

Chiesa “Apostolica”

 

Il termine "apostolica" deriva dal greco apostolikh che significa "inviata".

 

Sta proprio qui il germe dell'apostolicità della Chiesa: l'essere inviata. Bene si può applicare alla Chiesa quanto Paolo in Galati afferma con forza e perentorietà di se stesso: "Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomini, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre" (Gal 1,1).

 

Come per Paolo, anche la Chiesa è chiamata e inviata da Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo. Una apostolicità, pertanto, che non si è data, ma un mandato che gli è stato lasciato in eredità da Cristo: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv  ).

 

Un mandato che si concretizza in un annuncio, un annuncio che si fa sacramento. E' l'evento Cristo che nell'annuncio e nel sacramento si genera continuamente nella storia a tutti gli uomini per mezzo della Chiesa e che nella Chiesa, proprio per mezzo dell'annuncio e del sacramento, convoca tutti gli uomini in un grande e universalistico movimento escatologico che tende a ricondurre l'intera umanità e l'intero cosmo in Dio, da cui l'umanità proviene e da cui si è allontanata a causa della colpa originale.

 

L'apostolicità, pertanto, non è soltanto un fatto statico, cioè un semplice e continuo riferirsi alla tradizione e alla fede dei Padri, ma radicata in esse, si attua nel presente attraverso l'annuncio e il sacramento generandosi continuamente e continuamente generando un'umanità nuova e protesa verso Dio. L'apostolicità, pertanto, esprime il farsi della Chiesa nel tempo che convoca e orienta, con la Parola e il sacramento, l'intera umanità verso quei cieli nuovi e terra nuova vaticinati da Isaia, contemplati da Giovanni nell'Apocalisse e anticipati nella risurrezione di Cristo.

 

L'apostolicità per sua natura è profetica, cioè attua, genera continuamente la Parola di Dio in mezzo all'umanità e la dona nella sacramentalità del suo sacerdozio, creando e conservando per Dio una nuova umanità in cui si rispecchi nuovamente, come nei primordi, la sua immagine e somiglianza con Dio.

 

Essa, propria di ogni battezzato, trova la sua espressione e unità nella figura del Vescovo che la rende visibile e storicamente riferibile. Infatti, non ci può essere chiesa senza vescovo.

 

Il triplice modo di porsi e di esprimersi della Chiesa

 

Nell'ambito dell'orizzonte storico la Chiesa si propone come il suo essere da Dio, la cui efficace rappresentanza è sacramentalizzata nel Clero; come il suo essere nella storia e per la storia, che viene espresso attraverso la laicità, chiamata a sacralizzare la realtà storica attraverso i suoi attributi di profetismo, sacerdotalità e regalità, intesa quale servizio; ed infine come sua testimonianza e suo tendere verso le realtà future che già sono presenti nella Chiesa, rivestita del Cristo risorto; egli nella sua risurrezione ha anticipato i tempi escatologici che non devono essere dimenticati e, pertanto, vengono affidati a quei cristiani che ne hanno colto l'importanza e si sono decisi per questi fino a consacrarsi esistenzialmente ad essi: i religiosi.

 

Triplice, quindi, il modo di porsi della Chiesa nell'ambito della storia: essere nella comunità come guida (Vescovi, sacerdoti, diaconi); essere nel mondo (laici); testimonianza e tensione escatologiche (religiosi).

 

Nell'ambito di questo suo triplice "essere" ci deve essere un adeguato equilibrio affinché la Chiesa possa portare avanti efficacemente la sua missione.

 

Infatti, la predominanza del clero porterebbe ad una clericalizzazione della Chiesa, mutilandola nei suoi due altri aspetti, diventando così una Chiesa monca e impoverita; se la predominanza fosse lasciata al laico si sfocerebbe in una laicizzazione della Chiesa che verrebbe, così, sfalsata nella sua autentica natura; se lo spazio ecclesiale fosse dato ai religiosi, porterebbe ad una eccessiva spiritualizzazione che la estranierebbe dalla storia portandola al fallimento del suo mandato.

 

Il proprio della vita consacrata

 

Si è voluto usare la dizione “vita consacrata” perché essa ha un significato più ampio rispetto a “vita religiosa” in quanto comprende anche espressioni laicali di consacrazione.

 

La vita consacrata esprime in modo eminente e specifico la tensione escatologica, propria di tutta la Chiesa.

 

Il nuovo  mondo inaugurato con la risurrezione di Cristo e in lui anticipato; il nuovo rapporto dell’uomo con Dio in Cristo e di conseguenza degli uomini tra loro; le nuove realtà del Regno in cui tutti siamo immersi e radicati per mezzo del battesimo; tutta questa nuova dimensione in cui noi già viviamo, anche se non ancora in modo compiuto, appartiene ad ogni battezzato. Tutto ciò, tuttavia, per la sua natura squisitamente spirituale è storicamente impercettibile; abbisogna, quindi, di una sua sacramentalizzazione, di una testimonianza, di una sua attuazione storica.

 

Ecco, dunque, la presenza di persone che, sensibili ai valori del Regno, decidono le loro vite per tali valori attuandoli esistenzialmente. Queste vite consacrate diventano, quindi, dei segni di realtà future, ma che già sono presenti, anche se non in modo pieno e definitivo. Sono vite messe a disposizione e al servizio di tali realtà, per questo sono consacrate, cioè separate “in funzione di..

 

Tali vite sono espressione della tensione escatologica propria dell’intera Chiesa e ad essa, ad ogni suo membro, non solo, ma anche ad ogni uomo ricordano e testimoniano il nuovo mondo verso cui stanno affluendo non solo la Chiesa, ma anche l’umanità e l’intera storia.

 

Proprio perché la vita consacrata è chiamata a sacramentalizzare nell’ambito della storia le realtà future, essa  si presenta come una forte tensione profetica. Il profeta, come dice il termine stesso, è colui che “parla in nome di…; per conto di …”: Il profeta, dunque, è l’uomo di Dio che parla in suo nome e per suo conto; è l’uomo che rende presente Dio in mezzo al suo popolo; è l’uomo che insegna a leggere al suo popolo la storia in senso teologico, cioè aiuta a cogliere nell’oggi della storia, un Dio che opera per gli uomini e con gli uomini.

 

La presenza profetica, propria della vita consacrata, è il tentativo di mantenere desto e vivo in mezzo agli uomini quel futuro preparato da Dio per l’intera umanità e anticipato nel Cristo risorto.

 

Tale profezia viene vissuta nella vita consacrata attraverso la radicalità dei consigli evangelici della povertà, castità e obbedienza.

 

Povertà

 

Benché la povertà nel mondo giudaico assuma un connotato negativo contrapposto alla ricchezza, intesa, invece, come segno della benedizione divina, tuttavia Gesù ha fatto della povertà un segno distintivo del suo stile di vita  (<<Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo>> -Mt 8,20) e di quello del suo discepolo (“Disse loro: <<Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno.>>” – Lc 9,3). La povertà, quindi, ben lungi dall’essere una spogliazione di beni, è, in particolare, vivere la propria vita nella essenzialità, usando delle cose come se non le si usassero per non essere distolti da queste, poiché ciò che conta è Cristo.

 

Povertà diventa ad essere, sull’esempio di Cristo, solidarietà e condivisione con chi è povero. Egli, infatti “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,6-7) In questa prospettiva la povertà diventa servizio gratuito al povero, uno spezzare il pane della propria vita con lui e per lui.

 

Castità

 

La castità, ben lungi dall’essere una rinuncia alla propria sessualità e alla capacità relazionale, è essenzialmente un prendersi cura di Dio negli altri. Questo consente di non vincolarsi a nessuno per essere a disposizione di tutti e saperlo così ritrovare in tutti. Essa, quindi, non è un tagliare io ponti con gli altri, ma, al contrario, esprimere il massimo della relazione e dell’affettività che è aperta a tutti, perché è aperta a Dio.

 

Essa esprime, inoltre, il futuro di Dio in cui “non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo.” (Mt 22,30).

 

Essa, infine, in tale prospettiva, esprime la fecondità dello Spirito che non è legata a quella biologica, per sua natura effimera e limitata, ma è aperta alla generazione di un’umanità nuova in Cristo.

 

Obbedienza

 

Quando si parla di obbedienza spesso si intende un rinunciare alla propria libertà e alla propria volontà per fare quello che altri, superiori a noi in autorità, vogliono che noi facciamo.

 

Essa, innanzitutto, è un conformarsi a Cristo, il quale “apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.” (Fil 2,7b-8). E proprio nell’obbedienza Cristo ha manifestato la fedeltà di Dio alla storia.

 

In questa prospettiva l’obbedienza diventa una libera scelta esistenziale finalizzata a creare nella nostra vita degli spazi per accogliere le esigenze degli altri. Nell’obbedienza, pertanto, non c’è la preoccupazione di affermare se stessi, ma l’altro.

 

In ultima analisi, possiamo dire che l’obbedienza è una forma, un aspetto della povertà: un liberarsi delle cose e di se stessi per fare spazio a quel Dio che ritrovo nell’altro.

 

Il proprio dei laici

 

Dignità battesimale e indole secolare costituiscono l'identità dei laici, chiamati a sacralizzare, con la loro triplice funzione di profetismo, sacerdotalità e regalità, la realtà in cui vivono. Essi sono persone consacrate in virtù battesimo e, quindi, per natura propria, atte a consacrare e sacralizzare le realtà temporali e ad offrirle a Dio quale atto consacratorio e redentivo. In tal senso, non va dimenticato che i laici nel battesimo sono stati rivestiti di Cristo come di un abito nuovo, sono stati, per meglio dire, cristificati cosi che, come afferma Paolo, "non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Il loro vivere, quindi, è un vivere da consacrati consacranti e santificanti.

 

E' sempre Paolo che nella sua lettera ai Romani sottolinea la sacralità e la sacerdotalità del vivere laicale : "Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale." (Rm 12,1). In tale prospettiva, la vita "laicale" (ma, a tal punto, è proprio il caso di chiamarli ancora laici?) è vista come una costante azione sacerdotale di consacrazione delle realtà temporali e un'offerta consacrante e santificante di se stessi e di tali realtà a Dio. La vita "laicale", in tal senso, viene concepita come un sacro e costante atto di culto liturgico che si traduce in una liturgia di consacrazione e di santificazione, in un inno di lode e di ringraziamento.

 

I laici ricordano, inoltre, alla Chiesa che il suo posto è la storia, cioè l'inserimento della Chiesa nei vari ambiti umani. Essi nel mondo fungono da testimoni del vangelo e di appello al mondo verso Dio, contestando alla storia la sua pretesa di assolutezza e di definitività.

 

Fede e competenza secolare sono qualità del laico, cioè testimonianza del divino nell'ambito del proprio impegno esistenziale e storico. Essi sono chiamati all'annuncio e al servizio.

 

  

Aspetti e qualità del dialogo Chiesa - Mondo

                            At. 10,1 – 11,18

 

Il dialogo nella Chiesa non si fonda sui mezzi di comunicazione, ma sulla dialogicità trinitaria: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio … e il Verbo si fece carne” (Gv 1,1).

 

La dialogicità è essenzialmente un atteggiamento interiore che si può anche esprimere attraverso i mezzi di comunicazione, ma certamente non si crea con questi.

Nell’enciclica “Ecclesiam Suam” la Chiesa viene definita come dialogo, disponibilità e ascolto. Essa, infatti, deve esprimere il desiderio di incontro di Dio con gli uomini. In tal modo essa diventa uno spazio di dialogo tra Dio e l’uomo, un dialogo che è accoglienza e ascolto.

 

Il testo di At 11,1 – 11,18 si colloca all’interno dei rapporti tra i giudeo-cristiani e gli etnico-cristiani. In particolare richiama i solleciti che provengono alla Chiesa dal mondo esterno e che la stimolano ad una riflessione e ad una risposta. Qui, l’altro, il diverso da colui che appartiene alla Chiesa, viene presentato in un orizzonte di stima: “C’era in Cesare un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio” (At 10,1-2). Ciò sta a significare che chi è fuori dalla Chiesa non necessariamente è lontano da Dio. Si tratta, dunque, di porsi di fronte all’altro non con sospetto, ma in un’ottica di stima e di arricchimento. Un richiamo questo a togliere quell’atteggiamento di polemica verso il mondo e che per molti secoli e, per certi aspetti ancor oggi, ha caratterizzato la Chiesa. Del resto è Giovanni stesso che rivaluta il mondo e lo presenta come l’oggetto dell’amore stesso di Dio: “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Dio stesso, quindi, assume un atteggiamento di stima e di fiducia nei confronti del mondo che, sebbene decaduto, è pur sempre una sua creatura (Gn 1,1); e la fiducia è tale da donargli il proprio Figlio. Il mondo, quindi, è già riscattato per mezzo dell’amore di Dio che si è sacramentato in Cristo.

 

L’atteggiamento di sospetto e di diffidenza produce un atteggiamento di chiusura, di difesa e di polemica.

L’atteggiamento di stima, invece, produce apertura e disponibilità di dialogo, che è rafforzato dalla riconciliazione e dal perdono. Infatti, Gesù nell’atto supremo della sua vita, abbandonato dal Padre e dai suoi più intimi discepoli, e deriso da quegli uomini per i quali stava donando la propria vita esprime l’ultimo gesto di perdono e di riconciliazione : “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Un perdono che si fa riconciliazione dopo la risurrezione: “… venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: <<Pace a voi!>>” (Gv 20,19). È l’atto della riconciliazione tra Dio e gli uomini: riconciliati per poterci tra noi riconciliare.

 

Il primo modo di dialogare è quello di essere autentici, avere, cioè, la coscienza del proprio essere e del proprio limite. Pertanto, la prima preoccupazione nel dialogare non deve essere la conquista dell’altro, ma il dirsi e il porsi con verità e autenticità all’altro. Ciò comporta un convertirsi all’autenticità, alla fedeltà del proprio mandato, lasciarsi, in ultima analisi, convertire da Dio.

 

Ma anche il dialogo non è una cosa immediata, ma richiede un lento cammino di maturazione personale e interiore che ci porta dal “me” al “tu”; che ci fa crescere in un atteggiamento di ascolto, perché il dialogo è soprattutto ascolto interiore dell’altro, far risuonare l’altro dentro di sé.

 

Quali sono, dunque, le tappe del dialogo che segnano questo cammino di crescita interiore verso l’altro?

 

Punto 1 

 

… vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: ;<<Cornelio>>” (At 10,3).

 

È questa la prima qualità del dialogo: andare incontro all’altro e dire il suo nome, cioè riconoscerlo nel vissuto che gli è proprio e, quindi, accoglierlo per quello che è, per la sua storia. Si tratta, dunque, di accogliere l’uomo in quanto tale, nella sua dignità. Ed è proprio questo che consente all’uomo di sentirsi chiamare per nome, anche nella sua lontananza da Dio.

 

Il dialogo deve avere per base e quale ambito in cui muoversi la dignità dell’uomo. In tale prospettiva il dialogo diventa servizio all’uomo, che viene valorizzato nella sua dignità, anche in una situazione di lontananza; ed è lo strumento attraverso il quale l’uomo può scoprire la sua chiamata.

 

Punto 2

 

Ma Pietro rispose: ;;<<No davvero, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo>>. E la voce di nuovo a lui: ;<<Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano>> (At 10, 14-15).

Non c’è più nulla di profano perché la storia incontrata e salvata da Dio è diventata storia sacra. Così, già nell’A.T., Dio si rivolge a Ciro come a un suo servo fedele: “Io dico a Ciro: Mio pastore; ed egli soddisferà tutti i miei desideri” (Is 33,28) e ancora “Dice il Signore del suo eletto, di Ciro” (Is 45,1). E ancora la figura del re pagano Melchisedek (Gn 14) ci viene presentata in un alone di sacralità. Questi due esempi, ma non sono gli unici, stanno ad indicare che non c’è più nessuna figura profana nella storia che è stata redenta dal Cristo risorto.

 

Punto 3

 

Pietro, allora, li fece entrare e li ospitò” (At 10,23)

 

Un altro aspetto del dialogo è l’accogliere l’altro nella propria casa: l’ospitalità, anche se ciò comporta un rendersi impuri. Il dialogo non è un fare domande all’altro (questa è un forma di aggressività), ma è un rendersi disponibili e accoglienti; una disponibilità accogliente per l’altro e che ci spinge, al di là di ogni barriera in favore dell’altro.

 

Punto 4

 

Ma Pietro lo rialzò, dicendo: ;<<Alzati: anch’io sono un uomo!>>” (At 10,26)

 

Il punto d’incontro con l’altro avviene nella comune umanità: “… anch’io sono un uomo”.

 

Il dialogo diventa uno spazio d’incontro in cui ciò che ci accomuna è la comune umanità. Dio stesso, infatti, ha incontrato l’uomo proprio nella sua umanità che ha condiviso con lui e lo ha incontrato nel suo habitat naturale: la storia.

  

Punto 5

 

Pietro prese la parola e disse: <<In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto.>>” (At 10,34-35).

 

“<<In verità sto rendendomi conto>>”. Pietro prende coscienza del senso del Vangelo: già sapeva e conosceva, ma solo ora ne prende coscienza e ciò nell’impatto con la vita, con l’esperienza.

 

Si sa che Dio è amore, buono e misericordioso, ecc. , ma solo quando si esperimenta l’amore e il perdono ci si rende conto cosa ciò significhi.

 

Il dialogo, pertanto, condotto nell’ambito dell’amore e della solidarietà ci consente di fare un’esperienza della dialogicità di Dio con l’uomo. Solo in questa dimensione dialogica viene sperimentato Dio, un Dio che ci interpella.

 

In qualsiasi luogo e in qualsiasi dialogo Dio si rende presente e si lascia cogliere, purché noi ci rendiamo disponibili a coglierlo.

 

Punto 6

 

E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra ai pagani si effondesse lo Spirito Santo” (At 10,45)

 

Talvolta pensiamo la missione come una conquista di spazi e di uomini, mentre essa è disponibilità, è il riconoscere i segni anticipatori dello Spirito colà presente. Lo Spirito conduce l’umanità a Dio, la sostiene in tale cammino: egli è il “già presente” che anima e sostiene.

 

Il missionario deve avere la sensibilità del cogliere tale presenza e i frutti che essa vi ha già operato. Non siamo noi che portiamo Dio e convertiamo a Dio, ma Lui è già presente e già opera ovunque liberamente e libero da ogni manipolazione e monopolizzazione. Egli anticipa sempre e chiede di saperlo accogliere rispettosamente.

 

Punto 7

 

E quando Pietro salì a Gerusalemme, i fedeli circoncisi lo rimproveravano dicendo: <<Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme a loro!>>” (At 11,2)

 

Molto spesso la resistenza al dialogo è interna alla stessa Chiesa. A fronte di ciò la risposta di Pietro è indicativa: egli racconta la propria esperienza ed espone pazientemente alla comunità le proprie comprensioni.

 

Il primo dialogo deve avvenire all’interno della Chiesa.

 

 

CARISMI E MINISTERI

 

 

 

Premessa e precisazioni generali

 

La Chiesa, per sua natura, è segnata dall'esperienza pasquale e pentecostale. Origine della Chiesa è, pertanto, un evento (il Cristo morto-risorto) che estende e completa la sua efficacia sulla prima comunità di suoi discepoli e sull'intera Chiesa con l'invio del su Santo Spirito nel giorno della Pentecoste.

 

Ebbene, quando parliamo di carismi e ministeri ci agganciamo a questo evento pasquale esteso nella Pentecoste: pi precisamente, quando parliamo di ministeri ci riferiamo all'evento pasquale; mentre i carismi ineriscono al dono dello Spirito.

 

Il carisma, dal greco carij, significa grazia, dono e indica il servizio radicato nell'amore di Dio, che precede sempre l'uomo. Il ministero, invece, esprime la modalità con cui viene attuato concretamente e storicamente il carisma. Il carisma, pertanto, potremmo definirlo come il dono che sgorga dall'amore di Dio e viene da lui liberamente e gratuitamente offerto per mezzo del suo Spirito a favore della comunità; mentre il ministero ne è la sua espressione sacramentale e storica; esso ci dice come Dio ama l'uomo incontrandolo nella storia.

 

Carisma e Ministero, pertanto, non sono sinonimi, ma l'uno (ministero) è l'incarnazione dell'altro (carisma), la sua storicisazzione, la sua sacramentalizzazione. Il ministero, pertanto è un servizio al carisma. Di conseguenza ci può essere un carisma senza ministero, ma mai un ministero senza carisma.

 

Infine, l'uno (carisma) esprime un dono dello Spirito, che soffia dove vuole e come vuole; e viene dato liberamente e indistintamente a tutti; l'altro, invece, (ministero) si radica in una elezione che si fa vocazione, cioè una chiamata ad incarnare un carisma, a rendergli servizio. Sia l'uno che l'altro, tuttavia, non sono mai dati fine a se stessi, ma in funzione di una comunità, per una sua ordinata crescita e maturazione in Cristo verso Dio. Entrambi esprimono, quindi, servizio alla comunità.

 

Ogni ministero, quindi, in quanto servizio alla comunità, racchiude in sé una chiamata che fa del ministro un inviato presso la comunità per esercitare in modo stabile e ufficiale un determinato carisma, di cui il ministero è segno infallibile e in cui la comunità si riconosce.

 

Il ministero, inoltre, proprio perché si qualifica come un servizio richiede anche una specifica preparazione, competenza e una adeguata formazione umana e culturale.

 

Il ministero, pertanto, potremmo definirlo secondo le seguenti caratteristiche:

 

•    Soprannaturalità dell'origine in quanto è partecipazione alla missione di Cristo ed opera in persona Christi.

 

•    Ecclesialità: nasce nella Chiesa ed è al servizio della Chiesa e del mondo.

 

•    Pubblicità del riconoscimento, cioè il ministero deve essere noto a tutti e tutti in esso si devono riconoscere.

 

•    Stabilità della prestazione, cioè è perenne per il ministero ordinato. Non ha scadenze.

 

•    Competenza, il ministero è in vista di un servizio da compiere e pertanto richiede adeguata preparazione umana, culturale e spirituale.

 

Nel corso della storia della Chiesa spesso i due aspetti hanno subito delle forti tensioni e concorrenze tra loro, nel senso che il ministero, in particolar modo a partire dal IV sec., si è gradualmente e sempre pi impossessato del carisma, istituzionalizzandolo. Ciò ha sostanzialmente spaccato la Chiesa in due parti contrapposte: il Clero, che è per eccellenza l'incarnazione di un ministero ordinato; i Laici, sempre pi ghettizzati nel corso dei secoli e ridotti ai margini di una Chiesa ormai clericalizzata e ministerializzata, togliendo, così, un libero spazio alla voce dello Spirito, sostanzialmente monopolizzato e imbrigliato nella ministerialità clericale.

 

Proprio in tal senso Karl Rahner, il teologo che ha sollecitato attenzione ai carismi all'interno della Chiesa, coraggiosamente affermava che la Chiesa, lungo i secoli era riuscita a trovare la maniera di difendere l'istituzione dagli abusi dei carismatici; ma è venuto il momento di pensare anche all'esigenza contraria, cioè alla protezione dei carismatici nei confronti degli eccessi dell'istituzione.

 

Subito dopo il Vaticano II si è ampliato il concetto di ministero ad ogni servizio compiuto all'interno della comunità ecclesiale, perdendo  e banalizzando in tal modo il senso vero di ministero che, per sua natura, racchiude in sé l'idea di stabilità e di ufficialità, caratterizzate dall'invio.

 

Oltre all'episcopato, presbiterato e diaconato, altri due sono i ministeri, oggi, riconosiuti ufficialmente dalla Chiesa: il lettorato o servizio alla Parola e l'accolitato o servizio all'altare. Tali ministeri sono detti anche laicali o istituiti, in quanto non ordinati.

 

Un ministero fondamentale all'interno della Chiesa è quello dell'apostolato che consente di presentare alla comunità, con fedeltà e continuità, il messaggio e l'opera salvifica di Cristo. Esso costituisce il polo catalizzatore dell'intera comunità, attorno a cui essa si raduna e si riconosce, ricevendone garanzia di verità.

 

Accanto a tale ministero se ne affiancano altri due: il presbiterato e il diaconato, entrambi legati all'episcopato e posti al suo servizio, si relazionano all'episcopato in modo diverso per compiere servizi diversi e complementari. Non si tratta, pertanto, di una gerarchizzazione di poteri, ma di una diversa relazionalità tra loro che si esprime per mezzo di diversi servizi e che trovano la loro pienezza e completezza nella celebrazione liturgica presieduta dal vescovo.

 

 

Ministerialità e corresponsabilità dei Laici nella Chiesa

 

 

 

Una precisazione del termine laico

 

Nel N.T. il termine laico fa la sua comparsa per la prima volta nella lettera di Clemente Romano ai Corinti (95 d.C.), comunità paolina di tipo carismatico che mal sopportava la gerarchia. Raramente ritorna negli autori cristiani fino al III sec., epoca in cui diventa di uso comune nei padri della Chiesa.

 

Nel NT, anche se non c'è il vocabolo, c'è però il suo fondamento. I cristiani vi vengono chiamati gli eletti, i santi, ma soprattutto i fratelli. Essi, infatti, formano un'unica comunità sacra: la Chiesa di Dio, il Corpo di Cristo, popolo di Dio che un tempo era non popolo (1Pt 2,10) a cui, perciò, si possono applicare i termini e i temi propri dell'AT: regno di sacerdoti, sacerdozio santo, proprietà di Dio, tempio spirituale, ecc.  Il NT applica a tutta la Chiesa indistintamente categorie che erano riservate nell'AT al tempio, ai sacerdoti e leviti. Il che significa che l'intera comunità cristiana è fatta da consacrati; per cui se una distinzione c'è e viene fatta, questa non è tanto tra laici e preti, quanto tra popolo e non-popolo. Senza dubbio esistono già al'interno dela Chiesa diversità di doni, di strutture e di ministeri, però tutto ha ragione di essere in rapporto alla comunità per il suo maggior bene e la sua crescita.

 

Con Clemente, invece, il termine laikoj è stato per la prima volta usato per distinguere all'interno della Chiesa stessa un semplice fedele dal diacono o sacerdote. Un primo solco questo destinato ad approfondirsi sempre pi nel corso dei secoli fino a creare due blocchi insuperabili all'interno della Chiesa stessa.

 

Ecco, dunque, porsi le due categorie di "Laikoj" che significa si appartenente al popolo, ma in senso spregiativo di volgare, profano, tant'é che l'espressione "laikazw" significa prostituirsi; mentre "Klhroj" indica sorte, in origine pezzetti di legno o pietruzze con cui tirar la sorte. Al plurale (klhroi), però, indica anche i beni, il dominio, il possesso. Quindi potremmo concludere che i chierici sono quelli che hanno avuto in sorte (da Dio) i beni spirituali e il potere.

 

Tale concetto verrà, poi, rimarcato dallo stesso papa Gregorio VII (1073-1085). Egli infatti applicherà alla comunità cristiana la distinzione tra "carnali" e "spirituali", questi ultimi sono solo i membri del clero, la parte destra della comunità, cioè privilegiata, mentre gli altri sono la parte sinistra. Le due parti sono tra loro divise anche in chiesa da un presbiterio.

 

Si è venuta, quindi, sviluppando all'interno della Chiesa un senso decisamente negativo del termine laico, mentre sempre pi esclusivo e privilegiato era quello di clero, al punto  tale la Chiesa ha subito una forte clericalizzazione durata fino ai nostri giorni. Basti pensare, ad esempio,  che nel Diritto canonico, quello in vigore fino al 1982, quando si parlava di laici, li si denominava non-chierici. Ciò stava a significare che si era creata nel clero una profonda identificazione con la Chiesa: la Chiesa è il Clero.

 

Nuovo concetto di laico dopo il Vaticano II

 

Abbiamo visto come, fino a non molto tempo fa, il laico all'interno della Chiesa era considerato come una sorta di oggetto passivo. Esso non va neppure considerato, però, come una sorta di minorenne o un semplice rappresentante del mondo profano o più semplicemente come un non appartenente al clero.

 

Ancor oggi, purtroppo, il laico non sembra aver trovato un suo specifico spazio all'interno della Chiesa, probabilmente per un modo distorto di concepire i ministeri e i ruoli. Così che, un po' semplificando la questione, si potrebbe dire nella Chiesa il clero si occupa delle questioni interne con la responsabilità pastorale di edificare il popolo cristiano, mentre il laicato è rivolto alle questioni esterne nell'intento di animare le realtà profane.

 

C'è, inoltre, un concetto limitato di ministero inteso come un "fare certe cose", per cui il clero fa le cose sacre, mentre il laicato si occupa di quelle profane. Senza avvedersene si è creato all'interno della Chiesa una dicotomia di due realtà contrapposte e tra loro inconciliabili.

 

Il Vaticano II ha aperto una nuova prospettiva e offerto una nuova visione del laicato.

 

Innanzitutto esso va definito non in rapporto al clero, bensì con riferimento al suo "essere in Cristo". Il laico, in realtà, è una persona che in virtù del battesimo è stata inserita in Cristo ed è stata rivestita di lui come di un abito nuovo; si potrebbe dire che il battezzato è stato cristificato al punto tale che, parafrasando S.Paolo in Gal 2,20, si potrebbe dire che "non è più io che vive, ma Cristo vive ed opera in lui". Il cristiano, pertanto, non va più concepito come un laico che cerca di imitare Gesù seguendo gli insegnamenti del clero, ma egli è, innanzitutto, un "altro Cristo", una persona consacrata ad ogni effetto nel battesimo e, come tale, confermato nella cresima. Il suo vivere e il suo operare non è quello di un semplice uomo, bensì è un vivere ed operare che genera salvezza, perché in lui vive ed opera Cristo.

 

In tale prospettiva egli è un essere consacrato e consacrante, salvato e salvante; è una persona attraverso cui Cristo viene continuamente generato al mondo; grazie a lui Cristo, ancor oggi, può incontrare, raggiungere e abbracciare l'intera umanità.

 

E' da chiedersi, a tal punto, se il cristiano sia ancora da definire "laico".

 

In tale orizzonte,il cristiano assume un ruolo nuovo sia all'interno della Chiesa come nel suo essere ne mondo: egli diventa corresponsabile, assieme a tutti i membri della Chiesa, della diffusione del Vangelo, della testimonianza del Cristo risorto e della stessa azione salvifica di Dio, poiché Dio salva l'uomo, ma non senza l'uomo.

 

Il cristiano, pertanto, così concepito, ha all'interno della Chiesa un suo ruolo, un suo compito, un suo servizio da svolgere e va aiutato a scoprirlo e a riconoscerlo in funzione del bene comune, sia della comunità ecclesiale che del mondo.

 

Un cammino del Magistero

 

Contro una visione della Chiesa ristretta al clero, il Concilio Vaticano II ha ricompreso la Chiesa come popolo di Dio, cioè come una comunità che è proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6), quindi una comunità consacrata a Dio, suo segno, suo sacramento vivente in mezzo agli uomini.

 

Un orizzonte nuovo questo che, via via sempre più, andava dischiudendosi nel tempo e testimoniato da una lunga serie di documenti, di cui i seguenti sono solo alcuni tra i più significativi:

 

•     Il rinnovamento dei ministeri nella Chiesa, CEI 1974, in cui si supera la dicotomia tra ministerialità clericale e laicale. Tutti i ministeri sono vere missioni ecclesiali.

 

•     Evangelii nuntiandi, esortazione apostolica del 1975, in cui si puntualizza come per l'individuazione dei ministeri bisogna fare riferimento sia alle fonti della rivelazione che alle necessità pastorali della Chiesa. Vengono, poi, segnalati alcuni ministeri significativi come i catechisti, gli animatori della preghiera e del canto, quelli dediti al servizio della Parola o all'assistenza dei fratelli bisognosi, i capi di piccole comunità.

 

•     Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, CEI 1975, in cui si concepisce il matrimonio come un'autentica missione ecclesiale: i coniugi quali ministri di santificazione nella famiglia e di edificazione della Chiesa. Un apostolato insostituibile.

 

•     Evangelizzazione e ministeri, CEI 1977, in cui si tratta della ministerialità della Chiesa a partire dal ministero di cristo e da cui discendono tutti gli altri ministeri ecclesiali: ordinati, istituiti, conferiti e riconosciuti.

 

Da questi brevi cenni sulla questione dei ministeri e della ministerialità all'interno della Chiesa, potremmo ricavare alcuni elementi importanti:

 

•    La Chiesa è una comunità di comunione disegnata su quella trinitaria e si costituisce attraverso l'ascolto comune della Parola e l'attuazione del proprio essere Chiesa attraverso l'annuncio (marturia), la celebrazione liturgica (leitourgia) e il servizio fraterno (diakonia).

 

•    La ministerialità esprime la diakonia dell'intera comunità ecclesiale come concreta partecipazione alla vita di comunione. La Chiesa è essenzialmente ministeriale perché proprio in questa sua ministerialità esprime quella del Cristo.

 

Le due dimensioni della  Chiesa

 

La Chiesa è nata come conseguenza sia come conseguenza sia delle apparizioni del Risorto, si in stretta connessione con l'esperienza dell'effusione dello Spirito. Pertanto, la comunità cristiana ha una duplice dimensione: cristologica e pneumatica che sono tra loro strettamente connesse.

 

La struttura carismatica della Chiesa si richiama, in particolar modo, alla teologia di S.Paolo (1Cor 12,4-11 e 12-31a) e si può così sintetizzare:

 

•   Nella comunità vi sono diversità di carismi, cioè di doni liberamente dati alla comunità dallo Spirito.

•   Questi doni sono servizi per il Signore che in essi opera per il bene della comunità.

•   Di conseguenza, tali carismi sono dati in funzione della comunità, per la sua crescita e maturazione, per l'utilità comune.

•   Tali carismi vengono fondamentalmente dati a tutti.

•   Poiché la comunità abbraccia una pluralità di persone e la fede l'intera vita, diversi sono i carismi.

 

Tuttavia la testimonianza neotestamentaria autorizza anche a parlare di una struttura ministeriale della Chiesa, là dove se ne sottolinea l'origine cristologica. Sinteticamente potremmo definirne i tratti:

 

•   Nella comunità cristiana vi sono servizi particolari: testimoni scelti dal Signore risorto.

•   Questi servizi hanno la funzione di rappresentare con autorità il Risorto.

•   Tali ministeri sono posti all'interno della comunità, a suo servizio e a quello del mondo.

•   Questi ministeri si fondano su di una speciale elezione. Sono conferiti solo ad alcuni.

•   Tali ministeri sono necessari sia per la Chiesa che per il mondo ai fini dell'annuncio della Parola e la raccolta della comunità.

 

Ministeri e carismi hanno, dunque, due origini diverse, ma entrambi provengono dall'unico Dio per il bene e il servizio della comunità e del mondo. (Per la definizione e precisazione del rapporto tra carismi e ministeri v. il paragrafo "Premessa e precisazioni generali" - pag.16).

 

La ministerialità laicale

 

Il ministero esprime un rapporto con Cristo, con la Chiesa e il mondo. Esercitare, pertanto, un ministero esprime una maniera specifica di partecipare alla missione di Cristo, nel senso che Cristo opera nel ministro e per suo mezzo nella Chiesa e nel mondo.

 

Il ministero ha la sua stessa radice nell'incarnazione di Dio che proprio attraverso la sua umanità opera la salvezza in mezzo agli uomini e in loro favore. Essa esprime la concreta ed operante presenza di Dio nel mondo.

 

In tale prospettiva la ministerialità laicale diventa un segno profetico in mezzo alla Chiesa e le ricorda la sua laicità, cioè il suo essere nella storia e per la storia.

 

Tale laicità o secolarità della Chiesa può esprimersi sotto quattro forme:

 

•     L'essere nel mondo, cioè essere radicati nella storia per comprenderla e assumerla pienamente nella propria vita e nella propria missione, come Dio l'ha assunta nell'incarnazione del suo Cristo.

•     Senza essere del mondo, è la coscienza che non si appartiene come logiche al mondo, ma si vive nella testimonianza delle realtà future in cui la Chiesa già è immersa anche se non ancora pienamente e definitivamente.

•     L'essere per il mondo, esprimendo un atteggiamento di apertura e accoglienza perché il mondo è stato amato da Dio al punto tale che egli inviò suo Figlio.

•     L'essere, talvolta, contro il mondo nel senso di denunciare la sua chiusura al disegno di Dio.

 

La laicità, quindi, è un valore ecclesiale presente in tutte le vocazioni autenticamente cristiane.

 

Gli ambiti della ministerialità laicale

 

Molti laici avvertono la chiamata a mettersi a servizio per la catechesi, l'educazione dei giovani, la liturgia, l'evangelizzazione, la carità, ecc. condividendo, in tal modo, la responsabilità pastorale del vescovo e dei presbiteri.

 

Essa si esplicita nei tre ambiti propri della Chiesa:

 

•     L'annuncio e la testimonianza (marturia)  del Vangelo, interpretando la vita  e la storia secondo i valori in esso racchiusi e rispondendo alla domanda di senso e al bisogno di speranza dell'uomo d'oggi.

•     Liturgia e sacramenti (leitourgia) intesa come il luogo di incontro tra Dio e gli uomini in cui si attua la riconciliazione

•     Servizio alla comunità (diakonia) inteso quale testimonianza e attuazione dell'amore servizievole di Dio per l'uomo.

 

Le aggregazioni laicali

 

Esse esprimono la scelta del mettersi insieme per condividere e fare comunione. Sono forme che testimoniano in particolar modo "l'essere chiesa" e il "fare chiesa", cioè una comunità di convocati per il servizio al Signore negli altri.

In tal senso basti pensare ai gruppi di giovani e di adulti dediti alla catechesi, all'educazione degli adolescenti nelle parrocchie, all'animazione liturgica, all'assistenza degli anziani, ammalati, tossicodipendenti o dediti, comunque, al volontariato sociale, quale risposta gratuita e donativa ai bisogni dell'umanità.

 

I criteri che permettono di riconoscere l'ecclesialità di queste aggregazioni laicali sono indicati dallo stesso Magistero che li ha così delineati:

 

•     Il primato dato alla santità che trova la sua perfezione nella carità, come scopo della vita cristiana.

•     L'impegno di testimoniare la fede in comunione con la Chiesa.

•     La partecipazione all'apostolato della Chiesa con un impegno di presenza e testimonianza nella società.

•     Testimonianza di comunione con il Papa e il proprio Vescovo.

 

 

 

M A R I O L O G I A

 

 

 

 

Premessa

 

Il cap. VIII della Lumen Gentium si costituisce a se stante e svincolato, su di un piano di logica, dagli altri sette precedenti capitoli che, invece, parlano della Chiesa. Questo ci dice che l'argomento era stato predisposto per una trattazione autonoma e posta al di fuori della costituzione dogmatica sulla Chiesa.

 

Infatti, all'interno del Vaticano II la questione fu lungamente dibattuta tra due schieramenti contrapposti: l'uno ne voleva fare un trattato di mariologia a parte; l'altro, invece, lo voleva accorpato alla LG. Prevalse quest'ultimo partito per l'esiguo scarto di soli 17 voti a favore.

 

Le motivazioni contro furono sostanzialmente tre:

 

•    Si riteneva che ridurre la vasta tematica mariologica ad un solo capitolo, sviluppato in diciotto brevi paragrafi, e relegato in fondo alla costituzione sulla Chiesa sminuisse la figura di Maria.

•   Inoltre, sembrava eccessivamente innovativo affiancare Maria alla Chiesa e vedere in essa i tratti configuranti la Chiesa stessa.

•   Si pensava, ancora, che la devozione a Maria potesse subire un duro contraccolpo, qualora inserita e assorbita nell'ambito di una teologia sulla Chiesa.

 

Le titubanze e le perplessità sopra elencate vennero, comunque, superate al pensiero che, invece, la figura di Maria ne sarebbe uscita arricchita per mezzo di una sua nuova percezione: Maria veniva compresa come inserita nell'ambito della storia della salvezza, facente parte del piano redentivo, pensato da Dio fin dall'eternità e realizzato in Cristo proprio per mezzo di Maria che, in tal modo, veniva affiancata all'opera redentrice di Cristo. Ne usciva, quindi, una visione del tutto nuova e grandiosa di Maria che trovava, finalmente, una sua giusta e corretta collocazione nel piano di salvezza. Inoltre, il suo affiancamento alla Chiesa, gettava un'ulteriore luce nuova sulla Chiesa stessa, creando una sorta di parallelo con Maria.

 

Con il Vaticano II , poi, si è superata un'impostazione mariologica tradizionale di tipo dogmatico, partendo, invece, da un'attenta analisi scritturistica e, quindi, dall'interno della storia della salvezza. Infatti, nella trattazione su Maria il linguaggio utilizzato dal Concilio è prevalentemente biblico, quasi a creare una base oggettiva e comune a tutti i credenti, in prospettiva anche di un dialogo ecumenico.

 

Inoltre, molto sensibile alla figura di Maria è la Chiesa ortodossa che già con il concilio di Efeso (431) la definiva a pieno titolo Qeotokoj,  confermando, da un lato, la già ampia e consolidata devozione mariana dell'intera Chiesa, che vedeva in Maria anche un esempio di discepolato, e stigmatizzando, dall'altro, le pretese del patriarca di Costantinopoli Nestorio.

 

Infine, con il Vaticano II si inaugura una mariologia ecclesiotipica, scostandosi da quella cristotipica tradizionale in cui si interpretava la figura di Maria alla luce di Cristo, applicando a lei le stesse attribuzioni di Cristo, quasi mettendo in concorrenza tra loro le due figure se non ponendole sullo stesso piano.

 

Cap. VIII : analisi del testo

 

Il cap. VIII si suddivide in cinque paragrafi e 18 capoversi. Nei primi tre capoversi (52-54) vengono tratteggiate, a mo' di premessa, le linee essenziali che innervano l'intero cap. VIII.

 

Il capitolo si apre con il cv 52 in cui ci viene tratteggiato il piano salvifico di Dio che si attua nell'incarnazione redentrice e rivelatrice, la cui eredità è accolta e continuata dalla Chiesa nel tempo.

 

Ebbene, Maria si trova coinvolta pienamente nell'ambito di questo mistero divino del Cristo e della Chiesa. Grazie a lei è stato possibile a Dio incarnarsi nella storia e qui incontrare gli uomini e redimerli dal peccato. Già qui Maria viene vista come servizio alla redenzione, generatrice di una nuova umanità. Vengono, inoltre delineati i tratti essenziali di Maria: essa è gloriosa, cioè sottratta alla corruzione della morte; vergine nonché madre sia di Dio che di Gesù, con un forte richiamo ai concili di Efeso (431) e Calcedonia (451).

 

Nel cv 53 vengono delineati i tratti fondamentali e caratterizzanti la figura di Maria nei quali la Chiesa si riconosce:

 

•   Maria accolse la Parola di Dio nel suo corpo e la generò alla storia e all'intera umanità.

•   Essa è stata redenta anticipatamente per i meriti di suo Figlio ed è insignita del ruolo di madre di Dio, per questo figlia prediletta del Padre e Tempio dello Spirito Santo, da cui è nata una nuova umanità

•   Maria è vista come discendente di Adamo e, quindi, come creatura umana, in cui condivide i bisogni degli uomini ed è solidale con essi.

 

Nel cv 54 il Concilio dichiara le sue intenzione: da un lato, intende contemplare la figura di Maria nel mistero del Verbo incarnato; dall'altro, sollecitartene il culto. Non intende, comunque, proporre una dottrina esauriente su Maria, ma ne lascia libera la ricerca e l'approfondimento.

 

Fatte le dovute premesse, il Concilio a partire dal II paragrafo prospetta quattro dimensioni fondamentali della mariologia:

 

•     La dimensione biblica (cv 55-59) caratterizzata da un excursus scritturistico a partire dall'AT in cui, attraverso una rivisitazione cristiana, si scopre l'emergere di una figura di donna che ha un ruolo primario nel piano salvifico di Dio: eccola in Gen.3,15 dove schiaccia la testa al serpente; è lei a vergine che partorirà un figlio, chiamato l'Emmanuele (Is 7,14); lei che primeggia tra gli anwim, i poveri di Jhwh, che vedono in Dio la loro unica salvezza. Ma soprattutto nel NT essa scandisce con la sua costante e quasi impercettibile presenza l'azione salvifica di Dio nel suo Cristo. Sembra di contemplare i misteri del Rosario: l'annunciazione, la nascita, la presentazione al Tempio, il ritrovamento di Gesù; la sua silenziosa presenza nella vita pubblica di suo figlio fino alla passione e morte. Una presenza costante che indica la compartecipazione di Maria nel mistero salvifico.

 

•     La dimensione funzionale (cv 60-62) chiarisce come la funzione di Maria nell'ambito del disegno di salvezza non si pone sullo stesso piano di Cristo, ma si qualifica come un servizio alla redenzione che si è attuato attraverso il concepimento, e poi generando il Cristo, nutrendolo, presentandolo al tempio, soffrendo con lui morente sulla croce, accompagnandolo, dunque, passo dopo passo nella sua opera di salvezza. Tale servizio alla redenzione non è cessato con l'assunzione al cielo sua e di suo figlio, ma continua la sua funzione di madre che si prende cura dell'umanità e intercede per lei, cooperando sempre nell'opera redentiva di suo Figlio.

 

•     La dimensione ecclesiologica (cv 63-65) contempla, in modo tutto nuovo, Maria come vergine e madre. Essa ha generato in modo verginale, cioè "senza contatto con uomo", il Cristo da cui è scaturita la Chiesa. Pertanto, Maria viene vista intimamente unita alla Chiesa e inserita nel suo mistero. Infatti, in quanto madre di Cristo, essa è anche madre della Chiesa, che è il corpo di Cristo. Maria, pertanto, si pone all'origine della Chiesa non solo in quanto madre del Cristo, di cui la Chiesa è il corpo, ma anche perché nel momento della nascita della Chiesa, Maria è là insieme ai discepoli che, come lei, vengono adombrati dallo Spirito. Ma la maternità e la verginità di Maria si rispecchiano anche nella Chiesa. Infatti, anch'essa, come Maria, è madre poiché per mezzo della Parola e del battesimo genera nello Spirito una nuova umanità, di cui il Cristo, quale nuovo Adamo, è il capostipite. Ma la Chiesa è anche vergine perché custodisce integralmente, senza scendere a compromessi con il mondo, quella fede che è fedeltà allo sposo. Per queste sue caratteristiche Maria si pone a modello di ogni cristiano e di tutta la Chiesa. Essa, però, non è un  modello moralistico a se stante, ma un appello e uno stimolo a crescere nell'intelligenza del mistero della salvezza e nella realizzazione della sequela di Cristo che, nato da Maria, viene ora generato negli uomini per mezzo della Chiesa sull'esempio della maternità verginale di Maria, esempio di amore materno, da cui devono essere animati tutti coloro che operano nella missione apostolica della Chiesa.

 

•     La dimensione cultuale (cv 66-69). Proprio per la sua centralità nel mistero della salvezza, la Chiesa rivolge una particolare attenzione cultuale a Maria, in cui, però, non si deve confondere la venerazione con l'adorazione, dovuta soltanto a Dio. Tale atto di culto si pone anche nel rispetto di una secolare tradizione cristiana che già la vedeva, fin dagli inizi, venerata quale madre di Dio e riconosciuta ufficialmente tale dal Concilio di Efeso (431). Essa è stata sentita dalla Chiesa e da ogni cristiano un rifugio sicuro da ogni pericolo e così essa è celebrata con la stupenda preghiera "Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio ..." e contemplata nei misteri del S.Rosario. La Chiesa, pertanto, sollecita tutti i suoi figli a rendere atto di venerazione e di culto a Maria, specialmente  liturgico (aspetto liturgico e biblico), invitando anche i teologi ad approfondire tale mirabile figura, cercando di evitare esagerazioni che possono indurre in errore i fratelli separati (aspetto ecumenico)  e deturpare tale sublime immagine  che si pone di fronte ai fedeli pellegrinanti quale segno di sicura speranza e di consolazione fino alla venuta del Cristo (aspetto escatologico).

 

 

 

 

ECCLESIOLOGIA E MARIOLOGIA

 

(Sintesi e riflessioni sul libro "La Chiesa"

Lineamenti fondamentali di ecclesiologia di Siegfried Wiedenhofer

Edizioni San Paolo, 1994 - Traduzione di Angelo Maffeis)

 

 

 

 

 

 

 

Panoramica generale

 

Come non esiste una Chiesa in astratto, ma situata in realtà storiche ben definite, così, di conseguenza, non può esistere una ecclesiologia astratta, ma essa va ricondotta all'esperienza storica che caratterizza la Chiesa stessa.

 

L'ecclesiologia, pertanto, si qualifica come una riflessione teologica sulla Chiesa colta nel suo dispiegarsi storico. Tuttavia, l'attenzione alla dinamica storica della Chiesa non deve portare ad una frantumazione della stessa, poiché ogni chiesa particolare è Chiesa nella misura in cui essa ha quale pietra angolare Gesù Cristo stesso sul quale poggia e dal quale è configurata a se stesso.

 

Inoltre, ciò che deve guidare la nostra riflessione sulla natura della Chiesa e sul suo farsi nella storia è la fede che, sola, ci salvaguarda dallo scadere in ideologie, che snaturano la nostra riflessione, deviandola verso mete aberranti.

 

Infatti, quando affrontiamo la questione "Chiesa" va sempre tenuta presente la sua duplice natura umana e divina che essa ha ereditato dal suo stesso fondatore, Gesù Cristo.

 

Pertanto, se con l'occhio umano seguiamo il suo evolversi storico, con quello della fede dobbiamo imparare a leggerlo in senso teologico, poiché, per stessa scelta divina, Dio, qui nella storia, si esprime sempre in modo sacramentale, cioè mediato.

 

Segno di contraddizione

 

Proprio perché la Chiesa, rivestita della natura umana, si muove nell'ambito della storia saranno sempre presenti in essa debolezza, imperfezione, fallibilità e, perché no, anche malvagità.

 

Ciò non deve stupire perché Dio, per primo, ha scelto di affidare il suo messaggio di salvezza al libero agire dell'uomo, accettandolo in tutta la sua fragilità e accettandone pure il rischio conseguente.

 

Scandalizzarsi, pertanto, della fragilità umana della Chiesa, magari strumentalizzandola, significa precludersi ogni via di comprensione e di dialogo con la stessa.

 

Tuttavia la Chiesa, pur nella sua connaturale contraddizione (essa è umana, ma anche divina; si radica nella storia, ma anche la trascende), si pone nella storia come un segno di contraddizione per l'uomo, che non sempre riesce a comprenderla e ad accettarla. In tutte le epoche vi sono state persone che hanno avuto difficoltà con la Chiesa; in tutte le epoche la Chiesa ha avuto problemi di identità, di fedeltà alla propria essenza e alla propria missione.

 

La Chiesa oggi: alcune considerazioni

 

La Chiesa si pone oggi all'interno di una società secolarizzata che ha perso o sta perdendo rapidamente la propria identità e le proprie radici cristiane, cosa questa che si riflette in una diminuita partecipazione alla vita liturgica e, di conseguenza, ad un lassismo di costumi che, nella migliore delle ipotesi, vedono il cristiano vivere semplicemente come una "brava persona", posta in una dimensione puramente orizzontale.

 

La vita di fede sembra essere sempre più peculiarità delle fasce alte di età, forse per un senso di debolezza e fragilità che le pervade.

 

Che cosa significa tutto ciò? Forse che la Chiesa ha perso il proprio ruolo di leader spirituale all'interno di una concorrenza di altre fedi che si affacciano all'orizzonte dell'occidente? Deve forse adeguarsi ad una società che cambia rapidamente e che vive in profondità un senso di disagio e di disorientamento esistenziali (psicofarmaci, droghe, separazioni, divorzi, disagi giovanili e, oggi, anche infantili  ne sono il sintomo più marcato ed eclatante)? Ma adeguarsi che cosa vuol dire? Quale dunque il ruolo della Chiesa in questo tipo di società?

 

Oggi la Chiesa si trova di fronte ad una persona più evoluta, più cosciente del proprio valore e del proprio ruolo sociale e privato; una persona arricchita culturalmente e con notevole capacità di critica, verso cui deve sapersi porre in termini diversi rispetto al passato.

 

Oggi il cristiano, quello che crede e vive realmente questa sua dimensione, chiede più che essere semplicemente guidato anche di partecipare alla vita della Chiesa, di cui è parte integrante, e di divenirne responsabile con i responsabili.

 

In altri termini, la Chiesa non deve essere più un affare privato del clero, che gestisce Dio e il suo mondo come un monopolio esclusivo proprio. Una Chiesa arroccata su queste posizioni è destinata a spegnersi perché non è più una Chiesa con un respiro universale, cioè aperto a tutti, non è più una Chiesa in cui Dio possa in qualche modo riconoscersi e veicolarsi ancora.

 

Una Chiesa simile deve prendere coscienza che Dio può fare anche a meno di lei. In tal senso è significativo l'episodio offertoci da At 10,44-48 in cui vediamo l'azione dello Spirito che, bypassando la decisione e i programmi dei responsabili della comunità cristiana, scende anche su dei pagani non ancora battezzati. Ai responsabili non è rimasto che prenderne atto e conformarsi. Dio non può essere imbrigliato dalle fantasia degli uomini.

Tale concetto viene anche rimarcato in Mt 3,9 dove Giovanni, rivolto a farisei e sadducei lì presenti, rinfaccia loro che "Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre", facendo loro capire che Dio non si formalizza agli apparati storici pensati dall'uomo. Egli ha un suo progetto di salvezza che conduce nella storia senza rimanerne per questo condizionato o, peggio ancora, soccombere.

 

La Chiesa deve porre attenzione a non imprigionare l'opera viva dello Spirito, di cui è depositaria, nell'ambito della propria organizzazione, trasformando una salvezza che deve interpellare esistenzialmente l'uomo in un'amministrazione sacramentaria al cui interno il sacerdote è un semplice "burocrate", distributore di sacramenti, e il fedele (ma si può ancora parlare di fedele nell'ambito di una chiesa così concepita?) un semplice "cliente" più o meno occasionale e da relegare, comunque, ai confini di questa organizzazione che vive solo grazie all'apparato e all'apporto clericale.

 

Quali comportamenti oggi dei fedeli nella Chiesa?

 

Dopo il Concilio Vaticano II si può ben dire che la Chiesa ha preso una maggiore coscienza della sua identità e del senso della sua missione; forse le ha riscoperte anche se le è mancato il coraggio di andare fino in fondo.

 

A fronte di una simile apertura (incompiuta e ancora ben lontana dal compiersi) si sono prodotti all'interno della Chiesa diverse reazioni:

 

a) C'è chi, da un lato, ha sempre mantenuto un atteggiamento di forte critica e rifiuto non solo della Chiesa in sé, ma anche di tutto ciò che essa rappresenta e testimonia; dall'altro, c'è chi, con una posizione alquanto discutibile ed equivoca, afferma di credere in Dio o in Gesù, ma di rifiutare la Chiesa.

 

 

b) C'è ancora chi, a fronte delle aperture e del rinnovamento propugnati dalla Chiesa con il Vaticano II, si è chiuso in se stesso radicandosi nel passato, sognandone le glorie perdute e dando origine ad un movimento tradizionalista (quasi che la Chiesa non lo sia a sufficienza). Questa fuga nel passato preconciliare, il solo ritenuto splendido e sicuro, rappresenta una regressione alquanto pericolosa per la fede, che rischia di alimentarsi di forme perdendo la sostanza.

 

c) C'è ancora chi vive un "cristianesimo civile", una forma questa molto ampia e diffusa. Tale cristianesimo consiste nel fatto che riti ecclesiali quali il battesimo, la cresima, il matrimonio, funerali vengono vissuti come "riti di abbellimento" che segnano alcune tappe importanti della vita del cristiano o di ciò che è rimasto del cristiano. Essi di fatto sono assimilati ai riti tribali che accompagnano i vari passaggi della vita dell'uomo. Ciò che stupisce è che la Chiesa accoglie supinamente tali richieste religiose, diventando connivente con un certo modo di intendere il cristianesimo.

 

d) Da ultimo c'è chi sente forte l'impegno cristiano e la sacralità del proprio vivere e intende dare fattivamente il suo apporto anche in quelle funzioni che tradizionalmente sono affidate al clero, ma il cui esercizio non è incompatibile con lo stato laicale, in supporto alla sua parrocchia, ma ne viene respinto o freddamente accolto con sospetto, quasi che ciò fosse una concorrenza al clero, che ancora oggi si ritiene l'unico titolare e amministratore ufficialmente riconosciuto della Chiesa.

E perché non si crei confusione o equivoci in proposito la Santa Sede stila e approva un documento in data 13.8.97 dal titolo "Istruzioni su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti" in cui si pone una netta linea di demarcazione che divide ancora una volta di più il popolo di Dio in due parti spesso contrapposte: clero e laici.

Ed ecco, allora, che a fronte di un calo vistoso del clero, più accentuato all'estero che in Italia, si pensa più a riorganizzare e a ridistribuire le parrocchie perché più parrocchie siano gestite dal minor clero, piuttosto che preoccuparsi a formare adeguatamente il laico, che laico non è per la sua consacrazione battesimale e crismale, perché a fianco al clero gestisca l'annuncio evangelico e la vita sacramentale del popolo di Dio.

Qui non si tratta di sostituire la ministerialità del clero, ma di riconoscere anche in via di fatto, visto che in via di diritto è gia riconosciuta, quella del laico, che ripeto, laico non è in forza della sua consacrazione battesimale e crismale.

 

Tale schematizzazione può essere a sua volta dettagliata in una tipologia di diverse appartenenze alla chiesa o diversi modi di rapportarsi ad essa:

 

•     Ci sono persone che intrattengono rapporti forti con la Chiesa e un intenso scambio con essa;

•     Ci sono anche quelli che, pur andando regolarmente in chiesa, tuttavia i loro rapporti con questa si sono allentati e corrono il rischio di un allontanamento silenzioso dalla stessa;

•     Ci sono persone, poi, che intrattengono rapporti occasionali in genere nei momenti più significativi della loro vita: nascita, cresima, comunione, matrimonio, funerali;

•     Ci sono persone, ancora, che intrattengono rapporti estremamente aleatori fondati prevalentemente su vaghi ricordi d'infanzia e la cui frequenza è limitata a natale e a pasqua, ma basta un niente perché anche questo residuo filo venga spezzato;

•     Vi sono anche persone che, pur lontane dalla chiesa, attraverso un opportuno cammino pastorale o attraverso gruppi carismatici, si avvicinano nuovamente ad essa;

•     Vi sono, infine, persone completamente fuori dalla chiesa perché cresciute in un ambiente ateo o semplicemente areligioso, che attraverso contatti con gruppi religiosi particolari intraprendono un cammino di avvicinamento.

 

Questi comportamenti esprimono in genere una reazione personale al fenomeno chiesa che si pone, nel bene o nel male, sul cammino di ogni uomo. Al di là, comunque, delle storie personali che li hanno provocati, la risposta va cercata sia nella persona che nella chiesa stessa, poiché quando la Chiesa suscita scandalo può essere richiesta sia la conversione della persona interessata come pure la conversione della Chiesa.

 

Una chiesa in dialogo

 

La Chiesa che cammina nella storia è un fatto sociale che interpella ogni uomo e ogni società di ogni tempo e con questi, lungo il cammino dei secoli, deve saper dialogare e intraprendere adeguati rapporti.

 

Questi devono svolgersi su tre livelli:

 

Interno: la Chiesa deve superare le scandalose divisioni interne e imparare a dialogare; e dialogare significa non solo considerare anche il punto di vista degli altri con rispetto, nella coscienza che la verità non è mai tutta da una parte, ma anche sapersi mettere in discussione. In altre parole bisogna rimescolare le carte e ricominciare la partita.

 

ebraico-cristiano: la Chiesa deve avere la coscienza che le sue origini e le sue radici sono nell'antico popolo di Dio, da cui è nata e in cui si è innestata e da cui ha ricevuto un grandioso patrimonio spirituale che la nutre. Dio stesso l'ha onorata con la sua presenza e ne ha fatto parte. Con tale antica madre la Chiesa deve trovare ogni punto di contatto che l'accomuna, rispettando ciò che la divide.

 

Interreligioso e interculturale: la Chiesa deve avere la coscienza che se ha ereditato da Dio la pienezza della rivelazione, di cui è depositaria e responsabile, non deve dimenticare che lo Spirito soffia dove vuole, quando vuole e come vuole.

 

Dio, infatti, nella sua immensa misericordia e nella sua amorevole provvidenza, conoscendo i limiti storici della Chiesa stessa e degli uomini, ha posto in ogni fede un frammento di Verità perché ogni uomo, incontrandola nel cammino della propria fede, possa incontrarsi con Lui. La

 

Chiesa, dunque, deve porsi al servizio della fede che accompagna ogni uomo, nel rispetto delle culture; e lasciando ogni senso di onnipotenza, trovare l'unità della fede nel rispetto della molteplicità con cui tale fede storicamente si incarna e si manifesta.

E ciò che crea l'unità della fede non è l'unica verità dottrinale o l'unica forma liturgica, espressioni storiche di un modo di pensare la verità o di esprimerla, bensì l'unico Dio e il suo Cristo che tutto e tutti abbraccia dall'alto della sua croce e dallo splendore della sua risurrezione: il cristiano come l'ebreo o il musulmano, l'induista come il buddista, lo shintoista come il più umile e oscuro adoratore di Dio seppellito nell'umida foresta equatoriale.

Infatti, per noi uomini e per la nostra salvezza egli è venuto sulla terra. Ad incontrare l'uomo per radunarlo in un grande movimento escatologico che lo riporti a Dio nel modo in cui l'uomo è capace. 

 

Tale universalità viene sancita anche dagli Atti: "Pietro prese la parola e disse:<<In verità sto rendendomi conto che Dio non fa distinzione di persona, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto>>" (At 10,34-35).

 

Nell'ambito di questa universalità ritengo che gli incontri interreligiosi promossi da Giovanni Paolo II ad Assisi siano la strada giusta che va approfondita. Qui non si tratta di perdere la propria identità o di rinunciarvi, scadendo in un qualunquismo o in un sincretismo religioso, bensì trovare un nuovo modo di vivere ed esprimere l'identità e la missione che Cristo ha affidato alla Chiesa, ricomprendendola alla luce degli eventi e della Parola di Dio che, unica, li sa illuminare, lasciandosi guidare dallo Spirito.

 

In altre parole, la Chiesa deve ripensare se stessa e la sua missione chiedendosi se il proprio modo di porsi nel mondo e per il mondo è ancora giusto; e il giusto non è solo ciò che è conforme alla tradizione, ma anche ciò che è conforme agli eventi e alla Parola che la interpellano qui nel presente. Pertanto, la tradizione non è solo un qualcosa che è relegato nel passato e che deve necessariamente condizionare la Chiesa nel presente, ma, in senso dinamico, è un suo continuo farsi nel presente, dando linfa e vitalità, quindi, anche al passato; solo così il passato e la tradizione si arricchiscono, si vitalizzano e costituiscono alimento nel presente e propulsione verso il futuro escatologico.

 

 

 

L'ORIGINE DELLA CHIESA

 

LA TESTIMONIANZA DELLA SACRA SCRITTURA

 

 

 

 

La questione della fondazione

 

La dottrina preconciliare sulla fondazione della Chiesa era condizionata dalla Controriforma e dalla neoscolastica e risentiva di una forte coloritura apologetica: Gesù è il fondatore dell'unica Chiesa.

 

Tale asserzione si trova più chiaramente nel giuramento antimodernista del 1910 di Pio X:

 

"Credo fermamente che la Chiesa, custode e maestra della verità rivelata, è stata istituita immediatamente e direttamente dallo stesso Cristo vero e storico, mentre era tra di noi, e che essa è stata edificata su Pietro, principe della gerarchia apostolica, e i suoi successori per sempre"

 

Una simile affermazione presuppone che Gesù ha posto consapevolmente ed esplicitamente determinati atti giuridici e formali per mezzo dei quali ha fondato la Chiesa come istituzione visibile. Abbia voluto, in buona sostanza, creare un'apposita struttura ben organizzata per lasciare una continuità del suo messaggio dopo la sua morte. C'era, dunque, intenzionalità.

 

Ritenere vero ciò diventa problematico  almeno da un punto di vista esegetico, poiché il pensiero di Gesù riportato nei Vangeli è già elaborato alla luce della sua morte e risurrezione in una situazione (v. Mt 16,18 e 18,17) ecclesiale per certi aspetti già definita o in via di definizione. Pertanto, non è corretto rifarsi a questo "pensiero elaborato".

 

Più corretto, invece, è cercar di capire che cosa sta al centro della predicazione di Gesù, del suo operare, della sua missione.

 

Due sono gli aspetti che lo caratterizzano: l'annuncio del Regno, quale offerta gratuita di perdono a tutti a fronte della quale è richiesta l'adesione della fede e la conversione ("Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo" Mc 1,15); e un movimento escatologico di raccolta dell'intero popolo di Dio finalizzato al riorientare Israele verso Dio (Mt 23,27).

 

In questa prospettiva Gesù non voleva fondare certamente una nuova comunità religiosa, né costituire un resto o una comunità particolare all'interno di Israele. Che da questo movimento di raccolta ne derivi, poi, di fatto una separazione, ciò non è dipeso dalla volontà di Gesù, bensì dal rifiuto di parte dei suoi destinatari.

 

In tale ambito diventa difficile pensare ad una fondazione della Chiesa da parte di Gesù così come oggi noi la concepiamo o come ci è stata tramandata dalla storia.

 

Fallito, dunque, il tentativo di trovare la fondazione della Chiesa nella intenzionalità di Gesù e nelle sue parole, bisogna rifarsi al processo storico della sua formazione.

 

Due sono sostanzialmente i principi fondatori della Chiesa: uno teologico-oggettivo  prepasquale, che si trova nel senso stesso della missione di Gesù (l'offerta gratuita di perdono unitamente alla richiesta di conversione e fede; e il movimento escatologico di raccolta di Israele); l'altro storico postpasquale, legato ad un processo di separazione della primitiva comunità cristiana da Israele e dal suo costituirsi attorno alla figura del Cristo morto e risorto, celebrato nell'eucaristia, come luogo comune di ritrovo e di identificazione della comunità stessa, e nella sua Parola (At 2,42).

 

Chiesa: fenomeno nuovo?

 

L'esperienza religiosa di Israele, che si esplicita in una fede squisitamente comunitaria che plasma e configura questo popolo come proprietà di Dio, nazione santa e popolo di sacerdoti, è alla base del movimento escatologico verso gli orizzonti di Dio promosso da Gesù e costituisce, nel contempo, la preistoria della Chiesa. Senza Israele così costituito non ci sarebbe stata Chiesa.

 

Ma anche l'esperienza di Israele e quella conseguente della Chiesa non costituiscono fenomeni originali ed estranei alla storia dell'umanità, anzi ne sono forme particolari e altamente evolute.

 

Israele, Chiesa come ogni altra espressione religiosa, che caratterizza l'umanità fin dal suo nascere, costituiscono una risposta storica alla divinità che interpella l'uomo nel suo habitat naturale. E la risposta non è mai individuale, ma sempre collettiva ed è nell'ambito della collettività che si colloca la fede e si esprime la religiosità dei singoli che, a questo livello, è strettamente personale.

 

Infatti, Dio nella storia di Israele non si qualifica mai come il Dio di qualcuno  in particolare, bensì come il Dio di Israele, cioè di una comunità di credenti con cui fa Alleanza; e benché si definisca, talvolta, con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, essi sono intesi come nomi collettivi, capostipiti cioè di una collettività in cui tutti si riconoscono.

 

Questi aspetti di fede comunitaria si ritrovano anche nelle religioni primitive in cui la fede ha un carattere fortemente collettivo ed è legata ai cicli della natura e della vita dell'uomo: la tribù è il fondamento della vita del singolo e il vero partner degli dèi.

 

Queste strutture religiose della comunità e queste strutture sociali della religione, caratteristiche dei popoli primitivi, in seguito non sono semplicemente scomparse, ma si sono evolute assieme all'uomo accompagnandolo lungo il cammino della sua storia, poiché esse risiedono nella natura propria dell'uomo e si esprimono in conformità al contesto storico, sociale e culturale che caratterizza l'uomo di ogni tempo e di ogni latitudine.

 

Pertanto, le esperienze comunitarie arcaiche delle collettività e delle religioni primitive rappresentano fondamentali esperienze dell'umanità che rimarranno presenti anche in tutti gli sviluppi religiosi successivi anche se ripresi in forma modificata.

 

Israele e la Chiesa

 

La struttura della Chiesa affonda le sue radici nell'esperienza comunitaria e religiosa di Israele. C'è, pertanto, una profonda e fondamentale unità tra il popolo di Israele e la Chiesa, tra il popolo di Dio veterotestamentario e quello neotestamentario.

Senza questo connubio la nascita della Chiesa e del cristianesimo sarebbero incomprensibili e impensabili.

Il cammino religioso e spirituale di Israele è essenziale per comprendere quello della Chiesa e la figura stessa di Cristo da cui hanno ereditato la ricca e profonda  spiritualità e tradizione e su cui si sono innestati.

L'identità che Dio ha assegnato ad Israele ai piedi del Sinai ("Voi sarete per me mia proprietà, un regno di sacerdoti e una nazione santa") e l'esperienza spirituale e di fede di Israele prefigurarono quelle della Chiesa. Il cammino di Israele è quello della Chiesa. Gesù stesso, rivolto ai discepoli di Emmaus, spiega loro la propria figura ripercorrendo le Scritture che lo riguardavano (Lc. 24,27) e se ne dichiara compimento (Mt. 5,17).

 

Nella storia e nella vita della Chiesa, pertanto, si riproducono i modelli fondamentali del cammino e dell'esperienza di Israele.

 

Come pensare, dunque, una Chiesa e un Gesù senza Israele o, peggio ancora, opposti ad esso?

 

Gesù e la Chiesa

 

Dopo il ritorno dall'esilio ogni voce profetica si era spenta in Israele ed era stata sostituita dall'attesa di un nuovo profeta, di un messia, inviato di Dio, che ne facesse risentire la voce. Si erano, quindi, venuti a creare dei movimenti di attesa escatologica che esprimevano il desiderio di una nuova signoria di Dio in mezzo ad Israele. Tali furono i movimenti di resistenza contro gli invasori romani, quello degli esseni ritirati nel deserto e movimenti profetici in genere che qua e là indicavano l'avvento del messia e che, in un certo senso, decretarono la fortuna della predicazione di Giovanni.

 

Questo fu il clima storico-religioso che accolse Gesù, un tempo di profonda crisi politica, sociale e spirituale tale che portò Matteo ad osservare che Gesù "vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore" (Mt.9,36).

 

In tale contesto si pone l'azione di Gesù, i cui intenti non erano quelli di fondare una nuova comunità all'interno di Israele, bensì creare un movimento escatologico di raccolta del popolo per riorientarlo verso Dio, rianimandolo spiritualmente e dando un nuovo senso alla sua languida religiosità, ma ciò purtroppo fallì. Infatti, di ciò Gesù si lamenta davanti al tempio: "Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che Dio ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto" (Mt. 23,37).

 

In questo orizzonte di profonda crisi si pone il movimento escatologico di Gesù il quale, attraverso la parola e l'azione, annuncia e fonda la signoria di Dio in mezzo al popolo. Essa altro non è che l'offerta incondizionata e gratuita di perdono da parte di Dio all'uomo a cui Gesù chiede una risposta di conversione e di fede: "Il  tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al  vangelo" (Mc. 1,15). La fede, dunque, è l'unica risposta adeguata alla proposta di Dio e consente a tutti, al di là delle qualifiche storiche e culturali che caratterizzano ogni uomo, di aderire al movimento escatologico promosso da Gesù.

 

Pertanto, nell'ambito della sua missione Gesù compie due azioni fondamentali:

 

•     Con parole ed opere annuncia e fonda la signoria di Dio in mezzo agli uomini;

 

•     Crea, poi, un movimento escatologico verso Dio, che forma una libera comunità visibile a cui si accede per mezzo della fede in Cristo e dalla sola fede è qualificato. Esso, quindi, grazie alla "sola fede", intesa come apertura e abbandono esistenziali a Dio, diventa una proposta universale.

 

All'interno di questo movimento Gesù sceglie tra i molti suoi discepoli, seguaci e simpatizzanti vari, un gruppo di dodici persone in rappresentanza dell'intero popolo di Israele per indicare simbolicamente come all'interno di questo movimento si attuavano le attese messianiche di un nuovo Israele. Infatti, nell'immaginario del popolo, la ricostituzione delle dodici tribù significava che i tempi messianici erano finalmente giunti. Con tale azione simbolica, pertanto, Gesù si qualifica come capostipite dell'atteso Israele escatologico.

 

Va, comunque, precisato che il fatto che la Chiesa sia nata come comunità distinta e successivamente separata da Israele, non va attribuito alla volontà di Gesù bensì alla reazione dei destinatari del suo messaggio. La Chiesa va compresa, pertanto, anche nell'ambito di questa separazione poiché, proprio qui, avviene il passaggio da uno stato di sincretismo alla nascita di una nuova identità: una comunità visibile di uomini qualificati dall'unica fede in Cristo, in cui si è riconosciuto l'avvento dei tempi messianici e la fondazione della signoria di Dio in mezzo agli uomini.

 

Pasqua e Pentecoste come origine della Chiesa

 

Dopo l'arresto e a morte di Gesù, che ha prodotto la dispersione di tutti i suoi discepoli e la fine di ogni illusione circa la restaurazione del regno di Israele e l'insediamento del messia escatologico, i discepoli esperimentano in una forma nuova Gesù attraverso le apparizioni che vogliono annunciare il riscatto di ciò che sembrava finito, la ripresa  e l'inizio di una nuova era: da questo momento in poi la storia e l'avventura umana non sono più le stesse e vanno colte e lette in modo nuovo: attraverso la luce della morte-risurrezione.

 

La nuova esperienza di Gesù, rigenerato ad una nuova vita e in una nuova dimensione, consente la riaggregazione dei suoi discepoli, riaggregazione che ben presto si trasforma in comunione di vita e di fede attorno al Risorto. L'esperienza dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 19ss) è significativa e rappresentativa dell'esperienza di tutti i discepoli e dell'intera prima comunità: dopo l'evento essi abbandonano sconsolati e delusi Gerusalemme, il luogo del compimento del mistero di salvezza, ma sarà proprio l'incontro e l'esperienza del Cristo risorto che li farà ritornare sui loro passi e ad unirsi in una nuova comunione di vita con gli altri discepoli, facendosi annunciatori e testimoni della loro esperienza del Risorto.

 

L'esperienza del Risorto proietta la primitiva comunità dei discepoli in una nuova dimensione escatologica: Cristo risorto attua e anticipa in sè i tempi nuovi ed ultimi. Di questa nuova realtà essa ha fatto esperienza e ne è radicalmente e intimamente investita nel fenomeno dell'effusione dello Spirito, ne è profondamente coinvolta e permeata. Ora, essi, non solo hanno sperimentato la nuova realtà del Cristo risorto, ma ne fanno integralmente parte. Proprio da tale Spirito del Risorto essi ereditano la sua missione e i suoi poteri; e quel movimento escatologico di raccolta, che sembrava fallito sulla croce e nella tomba, viene ora ripreso e l'intera umanità è nuovamente chiamata a raccolta in un cammino che la conduce verso i cieli nuovi e la terra nuova, già pienamente presenti nel Cristo risorto e in cui l'intera umanità e cosmo sono totalmente coinvolti anche se non ancora in modo definitivo. Ma questo è il loro destino!

 

Questo movimento escatologico, man mano che il tempo passa assume sempre più contorni propri fino a crearsi una propria identità che lo contrapporrà al giudaismo. La nuova comunità, simboleggiata dai dodici apostoli che si agganciano alle dodici tribù d'Israele si comprende sempre più come l'erede di Israele e, pertanto, come il nuovo Israele la cui missione non è più contenuta nei ristretti confini della Giudea, ma spinge la nuova comunità ad abbracciare, dopo il sostanziale fallimento della conversione dell'antico Israele, anche i pagani.

 

Gli elementi storici che delinearono i contorni della nuova comunità e della sua missione furono:

 

•     L'espulsione da Gerusalemme degli Ellenisti che criticavano il culto del Tempio e la Torah, e il loro conseguente rivolgersi ai pagani (At 7, 8, 11)

•     L'insuccesso dell'annuncio in Israele e il corrispondente successo strepitoso dell'annuncio ai pagani (At 11 e 13ss)

•     La stessa guerra giudaica (66-70 d.C.) che portò alla distruzione di Gerusalemme, del Tempio e alla dispersione della prima comunità verso mondi diversi e nuovi rispetto al proprio habitat iniziale, da un lato, e alla formazione giudaismo rabbinico, dall'altro.

 

L'azione convergente e dinamica di questi elementi storici portarono ad una frattura all'interno del popolo di Israele: l'Israele che crede in Cristo diventa parte della ekklhsia (At 5,11; 8,1; 9,31) la rimanente parte di Israele continua ad esistere come giudaismo improntato al rabbinismo farisaico.

 

Pertanto, dopo l'esperienza pasquale-pentecostale e la rottura con l'Israele storico, la nuova ekklhsia è proiettata in avanti verso un nuovo popolo formato da ebrei e pagani uniti assieme nell'unica fede in Cristo risorto alla luce del quale anche il passato dell'antico Israele viene riletto e recuperato come proprio passato. Per questo la Chiesa si comprende come il nuovo Israele, come popolo di Dio formato da ebrei e pagani (At 13,46)

 

Le prime teologie sulla Chiesa

 

Dopo che la Chiesa ha consumato il suo distacco dal giudaismo e ha incominciato a pensarsi come una nuova comunità radunata attorno alla Parola, alla frazione del pane e nell'unica fede in Cristo, incominciarono a delinearsi anche le prime teologie sul proprio essere Chiesa, cioè il proprio comprendersi in rapporto con Cristo, Dio e la propria missione, che favorirono successivamente anche la rottura definitiva con il giudaismo da cui proveniva.

 

Essa si comprese prevalentemente come "corpo di Cristo", "popolo di Dio" e "Tempio dello Spirito Santo". Il primo teologo che delineò queste nuove autocomprensioni fu Paolo.

 

Tutta la teologia paolina si è sviluppata da situazioni concrete ed occasionali. Perciò anche l'ecclesiologia di Paolo risente delle condizioni sociali, economiche e culturali della comunità di fede storicamente situata. Alla base di ogni riflessione teologica ci sta l'esperienza di Damasco e, pertanto, il pensiero di Paolo è essenzialmente cristologico e cristocentrico. Non poteva essere, quindi, diversamente anche per lo sviluppo della sua ecclesiologia.

 

Per Paolo l'elemento fondatore della comunità è l'annuncio del vangelo, cioè del Cristo morto e risorto. Nascono, quindi, le comunità quando l'apostolo annuncia il vangelo, cioè il Cristo morto-risorto, e i destinatari accolgono nella fede questo vangelo. La comunità, pertanto, si qualifica come una nuova forma sociale della fede che si basa esclusivamente sul Cristo morto e risorto.

 

Pertanto, quando Paolo vuole indicare sinteticamente il fondamento della comunità e della sua fede egli parla di "essere in Cristo" o di "essere corpo di Cristo" (1Cor 1,30; 2Cor 5,17; Gal 3,28). Ciò significa che chi crede in Cristo entra nel suo ciclo vitale, ne fa parte, diventa parte di lui. Entrare in questo nuovo ciclo significa anche cambiare i rapporti sociali e il proprio porsi nell'ambito della società: "non c'è giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti sono uno in Cristo" (Gal 3,28) così che la Chiesa è il vero corpo di Cristo formato da molti fedeli uniti in Cristo, in cui sono diventate nuove creature.

 

La Chiesa, pertanto, diventa la forma storica in cui e con cui Cristo ancora vive, si prolunga nei secoli, ancor oggi si manifesta, si comunica, è presente e agisce nella storia.

In tale prospettiva, dunque, la Chiesa è il corpo terrestre di Cristo risorto.

 

Ma poiché la fede in Cristo non è sradicata da quella nel Dio di Israele, che, anzi è ricompresa in Cristo, anche l'esperienza della Chiesa è misurata da Paolo su quella dell'antico Israele così che la nuova comunità di credenti in Cristo è definita da Paolo come "popolo di Dio". Sue, infatti, sono le espressioni "laos tou qeou" (Rm 9,25s), "Israel tou qeou" (Gal 6,16), "sperma Abraam" (Rm 9,7s), "uioqesia, uioi qeou, tekna qeou" (Rm 9).

 

In questa prospettiva, Paolo trasferisce le esperienze dell'antico Israele sulla Chiesa, nuovo Israele, nuovo popolo di Dio: la fedeltà di Dio all'Alleanza e alla Promessa nonostante l'infedeltà e la fragilità del suo popolo; la discendenza di Abramo (Rm 4,13-14); la vera circoncisione e il vero Giudeo (Rm 2,28-29). Da ciò ne discende che la Chiesa è agganciata al vecchio Israele e in esso si radica e dalle sue radici è portata e nutrita (Rm 11, 16-22); essa si qualifica, inoltre, come il vero resto d'Israele che si è convertito a Cristo (Rm 11,5-7); l'indurimento di Israele è solo temporaneo, per far giungere la salvezza ai pagani (Rm 11, 11-12 e 25b). La Chiesa, pertanto, si qualifica come una parte di Israele. La discontinuità si fonda nel carattere escatologico della morte e risurrezione di Cristo e nella confessione di Fede in Lui con la sua esigenza di decisione, poiché in Cristo è apparsa la giustizia escatologica di Dio e, di conseguenza, solo la fede in Cristo giustifica (Rm 1,16-17). In tal modo la Chiesa si comprende anche come l'erede dell'Alleanza veterotestamentaria affidata al resto di Israele (Rm 9, 24-27).

 

Nell'incontro del risorto i discepoli non solo hanno conosciuto Gesù in modo del tutto nuovo, ma ne hanno anche sperimentato lo Spirito di cui sono stati riempiti. Un'esperienza da cui sono usciti completamente trasformati e rinnovati. Per Paolo, quindi, la Chiesa è anche il Tempio di Dio riempito dallo Spirito: "Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?" (1Cor 3,16). Essa, pertanto, è il tempio messianico del Dio vivente in cui si sono adempiute le promesse dell'A.T. : "Noi siamo, infatti, il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: <<Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo>>" (2Cor 6,16). La Chiesa, dunque, deve la propria esistenza allo Spirito che con la sua presenza la arricchisce di carismi, doni spirituali, ministeri utili al suo sostentamento e continuamente la genera nella santità perché possa vivere una vita santa al cospetto di Dio.

 

Da una Chiesa carismatica ad una  Chiesa  apostolica

 

Le comunità della fine del primo secolo, con lo scomparire, da un lato, dei primi discepoli e, con l'allungarsi, dall'altro, a tempo indeterminato, il ritorno escatologico del Cristo, sentono sempre più l'esigenza di dare continuità e garantire l'integrità dell'insegnamento apostolico, anche per far fronte alle prime eresie.

Nascono, pertanto le prime chiese strutturate, sia pur semplicemente e ancora in modo non ben definito, in vescovi, presbiteri e diaconi il cui compito è garantire l'integrità della dottrina e della fede nonché la loro trasmissibilità. Sarà questa l'epoca (II sec.) in cui nasce il canone, cioè l'esigenza di mettere ordine tra i primi scritti neotestamentari, cercando di evitare scostamenti e/o deviazioni dottrinali e dando basi certe e sicure alle nuove comunità di credenti.

 

L'annuncio originale, ora, si fa dottrina e tradizione; il carisma si traduce in ministero e, successivamente, in ministero ordinato. La prima comunità assume l'aspetto di una chiesa strutturata e istituzionale.

 

In questo contesto la riflessione teologica sulla Chiesa si amplia e si arricchisce di nuove immagini ed angolature: la Chiesa è il luogo sicuro della verità (1Tm 3,15) che rende visibile a tutto il mondo la volontà salvifica di Dio. Essa è concepita e, successivamente, modellata come una famiglia, che anticamente era strutturata in modo patriarcale con un capo, a cui era sottomessa. Purtroppo tale modello ha influito notevolmente anche nelle relazioni sociali all'interno della Chiesa stessa, che la allontanano dalle primitive esperienze carismatiche: la donna è allontanata dai ministeri comunitari, l'annuncio è affidato al capo della comunità, dotato di autorità e responsabilità, e a quelli da lui delegati; eliminazione del carisma profetico e di ogni altro carisma che vengono assorbiti dal ministero ordinato; l'annuncio kerigmatico del vangelo si fa insegnamento, dottrina e tradizione. La Chiesa è, ora, concepita come famiglia, casa di Dio fondata sul fondamento apostolico: nasce la tradizione.

 

Numerose, nel corso della storia, furono le immagine utilizzate per definire la Chiesa. Il fatto che nel canone di definizione della Chiesa si siano conservate tutte, senza escluderne nessuna, ciò sta a significare non solo che ognuna costituisce una singolare risposta sul che cos'è la Chiesa, ma anche che l'esclusione di una di queste immagini o la loro assolutizzazione possono dare un'idea distorta o limitata della Chiesa.

 

 

 

LA CHIESA NEL CORSO DELLA STORIA

 

LA TESTIMONIANZA DELLA STORIA DELLA CHIESA

 

 

 

La Chiesa dei primi secoli:  come mistero di fede

 

Nei primi secoli la Chiesa non era ancora divenuta oggetto di riflessione teologica, poiché essa si identificava sostanzialmente con la vita cristiana e l'esperienza di fede ed era legata alle singole comunità locali.

 

Tuttavia, essa è compresa come parte di quel piano di salvezza che è stato rivelato da Gesù Cristo e che, ora, è annunciato in tutto il mondo e di cui la Chiesa è mediatrice. Essa è compresa anche come parte dell'azione divina che si espleta in un piano di salvezza.

 

In questa epoca primitiva si sono sviluppati i tratti fondamentali della Chiesa: norme fondamentali della fede (canone scritturistico e dottrinale: simbolo apostolico), forme fondamentali della liturgia costituenti anche gli elementi essenziali su cui poggia la vita cristiana (battesimo ed eucaristia) e della struttura ecclesiale (vescovi, presbiteri, diaconi), trasmissione della fede (annuncio, catechesi, prima teologia).

 

Tre sono essenzialmente i luoghi dell'autocomprensione della Chiesa primitiva e in cui essa matura la propria identità:

 

•     Il contesto liturgico nel cui ambito l'assemblea liturgica forma la propria autocoscienza ecclesiale. Battesimo, quale rito iniziatico che radica il credente in Cristo, lo fa nuova creatura e lo inserisce nella comunità, in cui tutti sono "uno in Cristo"; l'ascolto della Parola su cui si fonda e si nutre la propria fede; la celebrazione eucaristica attorno a cui si raccoglie e cresce la comunità, come comunione di amore. Tale contesto è anche importante per lo stretto legame che si stabilisce tra culto e prassi di vita. Nella liturgia, in particolar modo eucaristica, la comunità si sperimenta come assemblea, popolo di Dio e corpo di Cristo convocata attorno all'unica Parola e all'unico Pane in cui la diversità dei membri vengono unite per formare l'unica comunità configurata a Cristo: "Pur essendo molti formiamo un solo pane, un solo corpo" (1Cor 10,17). In questa prospettiva la Chiesa si delinea come una realtà liturgico-sacramentale.

 

•     Nel contesto apologetico la Chiesa si esprime in termini diversi ed usa un linguaggio accessibile al mondo pagano, al proprio della cultura ellenistico-romana. Essa punta a presentare i cristiani e il loro relazionarsi tra loro e con la società come esempio di un'umanità e una società mature ed evolute. Raffrontano il vivere pagano con quello pagano e ne evidenziano le differenze a favore del cristianesimo. Un esempio è la "Lettera a Diogneto" in cui i cristiani sono presentati come coloro che "... vivono nella carne, ma non secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite e con la loro vita superano le leggi ... come è l'anima nel corpo, così sono i cristiani ... L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo ... "

 

•     Nel contesto della missione la Chiesa, chiamata alla salvezza e sua depositaria, compie anche la fondamentale esperienza dell' "essere inviata" all'annuncio e alla testimonianza di realtà che sono in essa, ma che nel contempo la trascendono e di cui essa diventa segno per il mondo. Il suo essere inviata non si espleta solo nella testimonianza e nell'annuncio, ma anche nelle azioni liturgiche e nelle attività sociali. In tale contesto essa si pone quale mediazione della salvezza che non le appartiene, ma di cui è depositaria.

 

La Chiesa del medioevo:  come dominio  spirituale

 

Nella Chiesa medievale il contesto storico muta radicalmente: l'aspetto politico, istituzionale e terreno si pone al centro degli interessi della Chiesa. Il dominio clericale e spirituale costituisce la chiave di lettura di questa lunga epoca durata circa un millennio. Teocrazie e ierocrazie si esibiscono in lunghe e sanguinose lotte di potere e di prevaricazioni (Carlo Magno, Ottone I, Gregorio VII, Innocenzo III, Bonifacio VIII).

 

In seguito alla svolta costantiniana (313) la Chiesa perseguitata diviene libera e persecutrice, a sua volta, del residuo paganesimo. Da Chiesa di confessori diviene Chiesa di massa, Chiesa imperiale e di Stato.

Con la progressiva integrazione nelle realtà terrene, la coscienza escatologica, il senso della propria missione e la propria identità vengono, dapprima offuscate e poi perse. Non si diventa più cristiani per scelta, ma per nascita.

In Oriente, l'imperatore, divenuto cristiano, acquista una crescente influenza sulla Chiesa che ne diventa totalmente succube, mentre in Occidente si assistono a lunghe lotte di potere tra papa e imperatore: la Chiesa imperiale, sotto Carlo Magno (768-814)  e Ottone I (962), acquista la sua indipendenza a partire da Gregorio VII (1073-1085) e con il Concordato di Worms (23.9.1122) tra Callisto II ed Enrico V avvia la sua affermazione sull'impero fino all'apogeo di Innocenzo III (1198-1216) e il definitivo declino del predominio papale con Bonifacio VIII (1294-1302).

In quest'epoca la Chiesa si clericalizza sempre più: si accentua, infatti, la spaccatura tra chierici e laici. Preti e monaci sono gli "uomini spirituali", superiori ai laici, considerati "uomini carnali";  e sempre più diventa Chiesa romana, perdendo la sua dimensione di universalità: l'intera Chiesa occidentale è assorbita dalla Chiesa di Roma: universalità e unità sono sinonimi di conformità alla Chiesa romana.

 

Durante il Medioevo la Chiesa, passa da una sua comprensione squisitamente ed esclusivamente teologica (Chiesa come corpo di Cristo, popolo di Dio, nuovo Israele, ecc.) ad una nuova comprensione come entità giuridica e politica che si pone in concorrenza con il potere imperiale.

Le immagini, quali "corpo di Cristo", "popolo di Dio" dalla valenza originaria squisitamente teologica e spirituale, nonostante i tentativi di separazione e distinzione dei poteri spirituali da quelli politici e terreni (Gelasio I - 492/496- distingue la "auctoritas sacrata pontificum" dalla "regalis potestas" nella sua lettera inviata nel 494 all'imperatore Anastasio) acquisicono, ora, una nuova valenza giuridico-istituzionale e politica: esse esprimono il "Regnum Dei" sulla terra, e accanto al "populus Dei" compaiono nuovi termini quali "Christianitas" e "populus christianus"; e l'espressione "ecclesia universalis", che in S.Agostino designava l'insieme dei giustificati dalla grazia di Cristo, ora, comprende anche l'aspetto secolare (v. la lettera di Innocenzo III al console fiorentino Accerbo del 30 ottobre 1198). La Chiesa diventa sempre più istituzione di diritto divino dalla costituzione rigorosamente giuridica, la cui unità è fondata dalla presenza di un capo visibile, il papa, e da una gerarchia ecclesiastica. La Chiesa, dunque è "Corpo di Cristo" nel senso di un organismo gerarchicamente ordinato al cui vertice si trova la Sede Romana.

 

Dal momento in cui l'autorità ecclesiale non è più compresa come "ministerium" e "diakonia" a favore della comunità, bensì quale "dominium", signoria, si giunse anche ad un conflitto all'interno della stessa gerarchia: è l'epoca del conciliarismo, sviluppatosi con il concilio di Costanza ("Haec sancta" e "Frequens").

 

La clericalizzazione della Chiesa investì fatalmente anche la liturgia, che divenne sempre più un affare privato del Clero, mentre il popolo divenne sempre più spettatore passivo così che, alla fine, poteva anche mancare completamente. Significativa, in tal senso, fu l'affermazione, dapprima nei monasteri e poi anche presso il Clero, della messa privata.

 

Tale clericizzazione fu pagata (e tuttora viene pagata) a caro prezzo: infatti, alla Chiesa formata da chierici stava ora di fronte una società secolare e secolarizzata formata da laici, oggi pragmaticamente e sostanzialmente atea ("Dio: non mi interessa").

 

La Chiesa dell'epoca moderna:  Chiesa confessionale

 

Il Rinascimento e, al suo interno quale movimento letterario, l'Umanesimo furono un movimento culturale che fece da ponte tra il Medioevo e l'età moderna e che, idealmente è posto tra il 1304 (nascita del Petrarca) e il 1550. Esso è caratterizzato dalla scoperta e rinascita del mondo dei classici pagani. Da qui scaturisce una cultura profana contrapposta a quella sacra del Medioevo. Nell'ambito di questa contrapposizione si origina lo spirito critico dell'uomo rinascimentale nei confronti di tutto ciò che è sacro (è, infatti, proprio in questa epoca che si scoprono i falsi medievali quali i "Decretali pseudoisidoriani" e il "Constitutum Constantini" da parte degli umanisti Nicolò Cusano e Lorenzo Valla, segno di una mutata epoca.). E' una sorta di liberazione interiore dell'uomo, proveniente dal mondo delle teocrazie e ierocrazie medievali, e conseguente al formarsi di una nuova coscienza: l'uomo si scopre più come entità razionale e autonoma che come essere religioso e dipendente. E' una sorta di Illuminismo ante litteram.

 

L'unità compatta della "Christianitas" occidentale si frantuma in diverse nazioni e all'interno del "populus christianus" il laico incomincia  a rendersi indipendente dal clero e critico nei suoi confronti. La scoperta di nuovi mondi e il conseguente sviluppo commerciale porta allo sconvolgimento del sistema sociale rurale, l'affermazione delle città e della borghesia unitamente allo sviluppo dei mercati, dell'economia artigianale e di quella finanziaria. Si sviluppa un incipiente capitalismo che porta alla formazione delle classi sociali.

 

Questo processo di rivoluzione sociale e di umanizzazione della società, basata su di una cultura laica e profana contrapposta a quella sacra ed ecclesiastica; l'eccessiva temporalizzazione della Chiesa coinvolta in un degrado morale senza pari (v. Alessandro VI  1492-1503) dette origine alla Riforma del XVI sec. il cui intento era quello di riformare la Chiesa e la teologia, ma che, di fatto, portò alla divisione della Chiesa occidentale in diverse confessioni e ad una pluralità di pretese verità e di Chiese che si combattevano reciprocamente anche in modo sanguinoso.

 

Tale processo di disgregazione e di evoluzione della società dal mondo del sacro ed ecclesiale trova la sua espressione definitiva tra il XVII-XVIII sec. con l'Illuminismo: il sapere dell'uomo, le sue espressioni individuali, sociali e culturali si staccano definitivamente dal contesto cristiano in cui prima erano inserite.

Le correnti moderne come il razionalismo, empirismo, liberismo, socialismo, materialismo, idealismo e positivismo si formano al di fuori dell'ambito cristiano diviso al proprio interno.

 

La società inizia, in tal modo, un lungo e sempre più profondo processo di secolarizzazione a cui si contrappone una sacralizzazione sempre più accentuata della religione; alla statalizzazione della società l'ecclesiasticizzazione della religione.

 

L'epoca moderna vede una Chiesa caratterizzata da un contesto apologetico  e polemico nell'ambito della controversia cattolico-protestante che sfocia in uno scontato irrigidimento delle parti e nello scisma. Il concilio di Trento (1545-1563) costituisce un monumento dottrinale entro cui la Chiesa si ingabbia togliendosi ogni possibilità di dialogo con la parte Protestante e rendendo definitiva la frattura tra le due confessioni. Pertanto la Chiesa cattolica è quella che si identifica nel concilio di Trento e che professa le verità colà definite.

La religione diventa una dottrina, la fede una serie di enunciati da credere, la Chiesa una rigida gerarchia a cui sottomettersi: la Chiesa si difende e, anziché elaborare una nuova teologia, compie un balzo all'indietro e si cristallizza su elementi specificatamente medievali: l'affermazione della Chiesa nella sua forma gerarchica e monarchica, così che l'ecclesiologia diventa una gerarcologia. Significativa la definizione che il card. Roberto Bellarmino dette di Chiesa e che influenzò notevolmente la teologia e il catechismo postridentini: "La Chiesa è l'insieme degli uomini che sono uniti dalla professione della stessa fede e dalla partecipazione agli stessi sacramenti, sotto il governo dei legittimi pastori e principalmente dell'unico vicario di Cristo sulla terra, il romano pontefice" (da "Controversiae generales").

 

In quest'epoca riformistica e di grandi tensioni polemiche la Chiesa si concepisce come la città santa posta su monte che, fortificata dalle salde mura dell'assistenza divina, resiste a tutti i nemici che l'assaltano.

 

 

A partire, invece, da metà del XVII sec., in piena epoca barocca, dopo la passata bufera della Riforma e la propria affermazione e sostanziale tenuta, la Chiesa celebra la sua vittoria e il suo trionfo e si presenta come una raggiante vincitrice secondo l'immagine della "Ecclesia triumphans" di cui lo splendore delle chiese barocche sono un eloquente monumento.

 

Così arroccata saldamente e polemicamente sulle proprie posizioni, rigidamente definite e cristallizzate nel Concilio di Trento, la Chiesa non è più in grado di recepire le questioni che si pongono nel rapido mutare dei tempi, che preannunciano l'arrivo della imminente modernità. Questa è caratterizzata da una società borghese, secolarizzata e pluralista, per la quale la religione cristiana diventa un elemento esistenziale di secondaria importanza, non più necessaria per dare senso alla vita borghese.

 

Si va delineando, pertanto, un conservatorismo ecclesiologico antimoderno, rafforzato dal sopravvenire dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese.

 

La storia moderna, nel suo porsi, si rivelò agli occhi della Chiesa come una grande apostasia, non più accettabile, così che l'ecclesialità si pone in una posizione di decisa antimodernità.

 

La salvezza di questa modernità apostatica, pertanto, consiste nella restaurazione della teologia scolastica, nella decisa sottomissione al papa, in una scienza e in una politica strettamente legate alla Chiesa.

 

In questa prospettiva, ecclesialità e antimodernità diventarono sinonimi. La restaurazione di un cattolicesimo, di fatto identificato con l'autorità papale e legato al centralismo romano, costituisce lo sforzo dell'apologetica e della teologia del XIX e XX sec. In questo ambito la Chiesa si comprende come una "società perfetta", cioè totalmente autonoma dallo stato e perfettamente autosufficiente. Tale comprensione porta ad un ulteriore irrigidimento e ad una più solida chiusura nei confronti della cultura e della società moderne, nel cui ambito i laici, definitivamente e rigidamente divisi dal clero all'interno della Chiesa, sono oggetti e sudditi del clero. La Chiesa cattolica, ormai, appariva come una grande diocesi papale con distretti amministrativi affidati ai vescovi.

 

La Chiesa del Vaticano II: una nuova comprensione

 

Il Vaticano II nelle costituzioni dogmatiche "Gaudium et Spes" e "Lumen Gentium", superato l'atteggiamento apologetico e polemico, creatosi in reazione alla Riforma protestante e alla nuova società moderna nata dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, reimposta, da un lato, i propri rapporti con la società e il mondo offrendone una nuova visione e comprensione decisamente più adeguate ai tempi; dall'altro, offre una nuova comprensione della Chiesa come popolo di Dio, inteso come comunità storica di credenti e nel cui ambito la gerarchia ecclesiastica assume il carattere di servizio del ministero ecclesiale. Una Gerarchia, pertanto, che si pone al servizio del popolo di Dio e non più come padrona dominante.

 

La Chiesa si ricomprende come parte del piano divino di salvezza, come suo sacramento e suo strumento universale. Non è più la Chiesa centralistica, ma si riscopre come Chiesa locale. La Chiesa universale, pertanto, deve intendersi come l'insieme comunionale delle Chiese locali.

 

L'apologetica e la polemica confessionali si traducono in una comprensione e in dialogo: si aprono nuove prospettive ecumeniche.

 

La stessa teologia cambia completamente veste: da una teologia fondata prevalentemente sulla filosofia neoclassica si passa ad una teologia cristocentrica. Il luogo di partenza per ogni teologia e per ogni comprensione teologica non sono più i principi dogmatici, bensì la storia. Viene scoperta la sacramentalità della salvezza, segno di una riappacificazione della Chiesa con la storia e con il mondo ai quali, arroccata nel proprio dogmatismo, aveva dichiarato guerra.

 

CHE COS' E' LA CHIESA

 

(Parte seconda)

 

 

 

 

CARATTERIZZAZIONI FONDAMENTALI

 

 

 

 

Premessa

 

Prima di parlare della Chiesa è importante capire che cosa essa sia, in che cosa consista la sua essenza e in quale modo essa si manifesti storicamente.

 

Nella nostra professione di fede proclamiamo che la Chiesa è "una, santa, cattolica e apostolica".  Non serve molto per capire come questa affermazione venga di fatto smentita dalla storia stessa della Chiesa. Pur tuttavia, ciò costituisce un elemento importante della nostra fede e riguarda l'essenza, la natura stessa della Chiesa.

 

Questa apparente contraddittorietà fa parte del mistero della Chiesa che, in se stessa, rispecchia la duplice natura del proprio fondatore: umana e divina nel contempo. Essa, quindi, va compresa in questo ambito e accostata come un mistero.

La Chiesa, in tale prospettiva, si presenta come una realtà complessa: storica e transtorica, opera di Dio e degli uomini; è uno spazio di salvezza proposto indistintamente a tutti gli uomini, in riferimento al quale c'è una missione da compiere.

 

Le caratteristiche della Chiesa

 

Quando si parla di chiesa, essa può essere compresa come l'edificio sacro, come la gerarchia ecclesiastica che la rappresenta ufficialmente, come la comunità dei credenti che può essere colta storicamente. Con ciò ancora non si è detto nulla dell'essenza della Chiesa, poiché, pur muovendosi nella propria dimensione storica, tuttavia la trascende. Essa, infatti, ha una dimensione profonda che si radica nello stesso agire di Dio nella storia. I due aspetti della Chiesa, pur distinti tra loro, non vanno, tuttavia, separati.

 

La Chiesa, benché la sua essenza sia racchiusa nel mistero stesso di Dio, la si potrebbe definire come l'opera di Dio in cui l'agire di Dio assume una forma particolare, concreta e storicamente rilevabile. Pertanto, "essere opera di Dio" e "percettibilità storica" appartengono all'essenza stessa della Chiesa che, proprio in questo, rispecchia la duplice natura del suo fondatore.

 

Conseguente a questa sua duplice natura, è il suo essere contemporaneamente "oggetto" e "soggetto". In quanto oggetto essa, per dirla con Isidoro di Siviglia (in "De ecclesiasticis officiis"), essa è "Ecclesia convocata et congregata" da cui discende la sua missione di "Ecclesia convocans et congregans".

 

Ne consegue che la Chiesa, in quanto oggetto passivo dell'azione di Dio, in cui tale azione si riversa, si comprende correttamente solo quando si ritiene, per così dire, geneticamente discendente da Dio e in tale orizzonte espleta la propria missione.

 

In quanto soggetto essa è titolare di azione propria, ma nella piena coscienza che nel suo operare opera Dio stesso. Non è lei, quindi, che salva, ma essa è soltanto strumento e sacramento visibile di salvezza. In tale ambito e con questa coscienza essa la propria missione.

Ancora, essa si concepisce come una pluralità di individui qualificati dall'unica fede e dall'unico battesimo che diventa "ekklhsia", cioè assemblea convocata, quando si raduna attorno all'unica Parola e spezza l'unico Pane.

Tuttavia, perché tale assemblea convocata nell'azione liturgica sia effettivamente tale, è necessario che essa sia ordinata, cioè presieduta da una struttura istituzionale entro cui si costituisce validamente come assemblea. In tale struttura istituzionale si colloca primariamente il ministero ecclesiale.

 

L'assemblea convocata attorno alla Parola e allo spezzare del Pane esprime intimamente e visibilmente la sua unità e la sua comunione proprio nell'accogliere in sè  l'unica Parola e l'unico Pane.

Tale comunione liturgica trova la sua piena attuazione proprio nell'ambito della prassi vitale e si concretizza nella sequela di Cristo e nella testimonianza della vita trinitaria, inserita in noi in virtù del battesimo, che è vita essenzialmente di amore, di reciprocità di partecipazione. Tutti siamo uno in Cristo perché uno è il battesimo che abbiamo ricevuto, uno è lo Spirito che ci permea, una è la fede in cui crediamo, una è la Parola e uno è il Pane di cui ci nutriamo.

 

Essa è una comunità che si esprime dinamicamente nell'ambito dell' "impegno nella fede, operosità nella carità e costante speranza" (1Ts 1,3). L'impegno nella fede si manifesta nel nostro orientarci esistenzialmente a Dio, nell'aprirci a Lui nell'accoglierlo nella nostra vita. Ciò ci porta ad essere operosi nella carità che si qualifica quale sacramentalizzazione, storicizzazione dell'amore di Dio in noi, attraverso cui viene veicolato lo stesso amore di Dio. Una vita che, permeata dallo Spirito e in esso immersa, ci fa tendere "alle cose di lassù e non a quelle della terra" (Col 3,2) dove l'escaton finale, il Cristo risorto, ci orienta esistenzialmente a Dio con la forza del suo Spirito che "ci sostiene nella nostra debolezza" (Rm 8,26).

 

La Chiesa cristiana, pertanto, così concepita, si  presenta come una nuova società, riconciliata con Dio , nella quale vive e fa esperienza della vita trinitaria, grazie alla quale, per ogni uomo, si apre una nuova comprensione della propria socialità e individualità, che si prospetta come comunione di amore in cui ognuno si realizza e si arricchisce proprio nel suo donarsi.

In tale ambito e in questo orizzonte ogni cristiano è chiamato a costruire nuovi rapporti e dare testimonianza nel suo vivere quotidiano del nuovo mondo già presente in lui in virtù del battesimo; quel mondo verso cui l'intera umanità, cosciente o meno, si sta incamminando.

 

Chiesa come Tempio dello Spirito

 

Nell'incontro con il Cristo risorto i discepoli hanno fatto anche una nuova esperienza di se stessi: chi si trova nello spazio vitale del Risorto viene interiormente trasformato, liberato dal peccato e dalla soggezione alla Legge e dalla morte (Rm 5,1.12-6,14), diviene una nuova creatura in Cristo, grazie alla potenza rigeneratrice dello Spirito che lo ha risuscitato dai morti (Rm 1,4); e, infine, è stato definitivamente riconciliato con Dio proprio per mezzo dello Spirito (Gv 20,19-23) così che "non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm 8,1-2).

 

Dopo l'esperienza del Risorto e dello Spirito la comunità cristiana dovette comprendersi come una nuova creazione generata dalla potenza dello Spirito in cui diviene visibile il suo carattere escatologico, così che la comunità dei discepoli diviene la comunità escatologica della salvezza, lo spazio escatologico in cui, rigenerato dalla potenza dello Spirito, ogni credente diviene nuova creatura, sacramento e testimonianza del nuovo mondo già presente in lui in forza del battesimo, mentre la comunità diviene il nuovo popolo di Dio dei tempi finali.

 

La Chiesa, pertanto, è questa comunità escatologica ricreata dallo Spirito e lo è nella misura in cui si lascia plasmare e guidare dallo Spirito. Essa si pone come una nuova forma di comunità all'interno della storia, chiamata a testimoniare che i tempi dello Spirito sono già in atto e che tutte le genti sono chiamate ad abitare entro questo spazio escatologico di salvezza, diventando così nuove creature: "Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).

 

Essa, quale realtà interiore, potrebbe essere definita edificio pneumatico, tempio dello Spirito, poiché proprio nel suo intimo opera lo Spirito, opera eventi che non si possono pianificare o prevedere. Una Chiesa che si comprende a partire dallo Spirito acquista anche una sua dimensione ecumenica non solo nel senso che abbraccia l'intera umanità, ma anche riconosce che lo Spirito è parimenti presente anche in altre strutture e comunità. Essa è costituita da una struttura carismatica in cui i moti dello Spirito sono ascoltati e accolti, da ovunque essi vengano. Diventa, in tal modo, una Chiesa in ascolto dello Spirito, testimone dell'azione creatrice di Dio.

 

Chiesa, sacramento di incontro tra Dio e gli uomini

 

Con il Vaticano II si è recuperato e approfondito il concetto patristico della sacramentalità della Chiesa, cioè di una Chiesa che si pone quale segno e strumento in funzione della salvezza. Ciò ha consentito di superare un concetto trionfalistico, clericale e giuridico di Chiesa. In altri termini si è cercato di spostare l'attenzione da una visione di Chiesa che si autoafferma e domina ad un'altra in cui essa si propone quale strumento in funzione di un servizio alla comunità e all'umanità. Ciò significa che la Chiesa ha acquisito con il Vaticano II una nuova coscienza della propria identità: essa è sacramento di incontro tra Dio e gli uomini, spazio vitale ed escatologico in cui l'intera umanità è convocata in un grande movimento escatologico verso Dio e in cui ogni uomo si scopre nuova creatura in Cristo.

 

In quanto sacramento la Chiesa si pone come il luogo della manifestazione dell'agire di Dio nella storia e ciò spinge ogni cristiano a ritenersi, da un lato, personalmente coinvolto nel progetto salvifico di Dio; dall'altro, testimone e, a sua volta, sacramento vivente delle nuove realtà inaugurate nel Cristo risorto di cui egli è parte integrante e integrata in virtù del battesimo.

 

In quanto tale, il vivere della Chiesa e di ogni suo membro nonché il loro porsi nella storia diventano naturalmente e costituzionalmente missionari, cioè testimoni e collaboratori di Dio non solo del messaggio salvifico proposto all'intera umanità, ma anche, con il loro vivere, attuatori di tale salvezza. In altri termini, il vivere della Chiesa e di ogni cristiano è produttore di salvezza poiché esso è il vivere e operare di Cristo stesso. In tal senso Paolo sembra essere piuttosto esplicito: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20) creando, in tal modo, una sorta di identità tra Cristo e la Chiesa.

 

Nell'ambito di questa sacramentalità per il cristiano non esiste alcun agire umano positivo che non sia anche un servizio all'agire salvifico di Dio e che non sia, al tempo stesso, un segno dell'operare di Dio nella storia. In questa prospettiva la sacramentalità rende sacro e sacralizzante il vivere dell'uomo, così che la vita stessa diventa un atto di culto a Dio. In tal senso Paolo si esprime nella lettera ai Romani: "Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1)

 

La funzione della sacramentalità della Chiesa è quella, da un lato, di nascondere la presenza del Cristo risorto e dell'azione di Dio nella storia, affinché l'uomo sia spinto alla ricerca di Dio, decidendosi così personalmente ed esistenzialmente per Dio e il suo mondo; dall'altro è di rivelare tale presenza e azione a chi lo cerca con cuore sincero.  Questa dialettica di nascondimento e rivelazione viene espressa da Blaise Pascal nei suoi Pensieri : "Dio ha stabilito dei segni nella Chiesa per farsi riconoscere da coloro che lo cercano sinceramente e, tuttavia, ha coperto tali segni in modo tale da essere scorto soltanto da coloro che lo cercano con tutto il cuore"

In quanto sacramento e spazio privilegiato di incontro tra Dio e gli uomini, la Chiesa è tale solo in Cristo e, in quanto segno, rimanda sempre oltre se stessa verso Cristo, che è il soggetto autentico di ogni agire della Chiesa.

Pertanto, la Chiesa non può mai porsi quale Verità stessa, ma soltanto strumento e rappresentante di tale Verità, servitrice della Verità: "Ecce ancilla Domini" è il messaggio e lo stile di vita che le viene da Maria.

 

La Chiesa, quale sacramento divino e segno dell'agire salvifico di Dio nella storia, deve evitare di diventare un segno menzognero.

La storia, infatti, insegna che nella Chiesa è sempre presente Il pericolo di appropriarsi del potere conferitole da Cristo e di far di sè uno strumento di potere e di dominio, scadendo così in una idolatria di se stessa. Dio non è monopolio di nessuno, né tantomeno si lascia monopolizzare. L'episodio della venuta dello Spirito sui pagani in At 10,44-48 lo sta a dimostrare: mentre Pietro sta ancora predicando a dei pagani su questi si effonde spontaneamente e autonomamente lo Spirito di Dio così che a Pietro non rimase che prenderne atto e formalizzare la cosa con il battesimo. Lo Spirito soffia dove vuole e come vuole e nessuno lo può ostacolare.

 

La Chiesa, dunque, deve porsi alla scuola di Gesù che "è venuto per servire e non per essere servito"; e a quella di Maria che con il suo "Ecce ancilla Domini" si è fatta umile serva del Signore. In tal senso potremmo dire che niente di più esprime meglio la propria sacramentalità che il servizio; una sacramentalità che si fa servizio.

 

 

 

LE ATTUAZIONI FONDAMENTALI

DELLA CHIESA

 

 

 

 

La Chiesa quale comunità

 

Contro una visione della Chiesa clericale, che in una prospettiva antiprotestante e antimoderna aveva ridotto la Chiesa a gerarchia ecclesiastica, il Vaticano II, ricollegandosi alla storia e alla tradizione, ha ricompreso la Chiesa come comunità di credenti costituita dall'intero popolo di Dio.

 

E' soprattutto l'esperienza trinitaria di Dio che rende meglio comprensibile la socialità, la comunitarietà e, nel contempo, la soggettività della Chiesa: pluralità e diversità in uno; e in questo uno si esprime e vive la pluralità e la diversità, non come contrasto, ma come arricchimento reciproco che rafforza l'unità.

 

Dall'esperienza trinitaria, dunque, scaturisce un modo nuovo di intendere la socialità e la comunitarietà: Chiesa come popolo di Dio, come corpo di Cristo e, infine, come Tempio dello Spirito. Una socialità e comunitarietà che trovano la loro sacralizzazione e migliore espressione nella liturgia in cui l'assemblea, quale pluralità di soggetti, si costituisce soggetto unico dell'azione liturgica attorno all'unica Parola e all'unico Pane.

 

Tale pluralità nell'unità trova sintetica ed efficace espressione in Gal 3,28: "Tutti voi siete uno in Cristo".

 

Se la Chiesa, quale pluralità nell'unità, ontologicamente trova il senso e l'espressione del suo essere comunità nella comunione di vita con il Dio uno e trino, tale comunione e unità, nell'ambito della storia, trovano il loro esprimersi mediante l'annuncio, la  liturgia e la diaconia o fraterno servizio di amore, attraverso cui la Chiesa attua se stessa.

 

In conclusione, potremmo dire che la comunità dei credenti diviene un soggetto comune attraverso l'ascolto comune della Parola, per mezzo della comune celebrazione eucaristica, della comune preghiera e, infine, della comune condivisione dei beni. Tale unità e comunione si esprime principalmente anche nell'annuncio, nella celebrazione eucaristica e nel fraterno servizio d'amore, in cui ognuno, spezzando il pane della propria vita, lo condivideva con i fratelli.

 

La Chiesa, così delineata, non è mai un nome collettivo e astratto, ma è sempre  storicamente situato e coglibile nel suo agire storico nella triplice forma  di annuncio, liturgia e diaconia finalizzato all'edificazione della comunità e alla salvezza del mondo.

 

La Chiesa tra carisma e ministero

 

La Chiesa, ponendosi quale segno visibile dell'operare salvifico di Dio in mezzo agli uomini, è giocoforza che si esprima istituzionalmente e concretamente. Non vi può essere trasmissione sacramentale di salvezza, non vi può essere spazio adeguato di incontro tra Dio e gli uomini se non in forma sacramentale. Va da sé, quindi, che la Chiesa, sacramentalmente costituita, in tale modo si esprima attraverso forme carismatiche, cioè espressioni spontanee suggerite dallo Spirito e visibili in doni spirituali (1Cor 12,4-11) e ministeriali.

 

La Chiesa, infatti, ha una sua duplice origine: cristologica (l'incontro dei discepoli con il Cristo risorto attorno al quale si ricostituisce l'intera comunità dei discepoli) e pneumatologica, tra loro strettamente legate e tra loro interconnesse. Il loro insieme determina la Chiesa, che ha per fondamento Cristo ed è animata e vitalizzata dai carismi (doni spirituali) dello Spirito. In tal senso Paolo afferma che "Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti" (1 Cor 12, 4-6).

 

La struttura carismatica della Chiesa si richiama in particolar modo alle chiese paoline, le quali più che essere sorrette da una solida struttura istituzionale, pressoché inesistente e vagamente definita con il termine "responsabile/i", poggiavano sui doni che variamente lo Spirito diffondeva tra i membri della comunità per il buon funzionamento e la buona crescita spirituale della stessa.

 

Struttura carismatica, dunque, perché la comunità ecclesiale poggiava prevalentemente sull'opera dello Spirito. Le caratteristiche di tali comunità si possono così sintetizzare sulla base di 1Cor 12, 4-11 e 12, 12-31:

 

•   Nella comunità cristiana vi sono una molteplicità di doni (carismi) donati alla comunità dallo Spirito che ne dispone liberamente;

 

•   Questi doni sono servizi al Signore nei quali Dio stesso opera per il bene e l'utilità della comunità. La loro finalità, pertanto, è il bene comune e l'edificazione della comunità;

 

•   Tali carismi vengono dati a tutti e tutti, anche i deboli, sono necessari;

 

•   Poiché diverse sono le necessità della comunità e diversi sono i membri che la compongono, diversi sono necessariamente i carismi.

 

Tuttavia una comunità esclusivamente fondata sui carismi non si regge in piedi da sola, ma necessita anche di una struttura che le dia una propria configurazione storica e sacramentale. Ecco che, pertanto, accanto ai carismi si associano i ministeri, intesi come servizi istituzionalizzati all'interno della comunità e finalizzati al suo buono e ordinato funzionamento.

 

Il ministero apostolico per Paolo è un servizio esercitato con autorità in nome e per incarico di Cristo, che viene conferito irrevocabilmente nel momento dell'invio in missione ed è strettamente legato ad essa.

Ma anche la testimonianza evangelica suggerisce una struttura ministeriale della Chiesa: infatti, i vangeli presentano coloro che prendono parte alla missione di Gesù, che la continuano e lo rappresentano dopo la sua dipartita. Solo loro sono chiamati "apostoli" e a loro soltanto si riconosce autorità.

 

La comunità, fondata sulla ministerialità, si può definire come:

 

•     una comunità in cui vi sono servizi speciali di testimoni scelti dal Signore;

•     questi servizi hanno la funzione di rappresentare con autorità il Cristo risorto;

•     questi ministeri hanno i compito di servire la comunità e il mondo;

•     si fondano su di una speciale elezione e scelta. Solo alcuni vi possono accedere;

•     la comunità e il mondo hanno necessità di questi servizi il cui contenuto è la raccolta della comunità e dell'umanità in un unico grande movimento escatologico promosso dall'annuncio e fermentato dalla celebrazione liturgica e sacramentaria.

 

Pur distinte in ordine alla loro origine cristologica quella ministeriale e pneumatica quella carismatica, entrambe queste strutture (carismatica e ministeriale) coincidono nell'unico Cristo e nell'unico Spirito, così che si potrebbe dire che tutti i ministeri sono carismi, cioè doni di grazia finalizzati al bene della comunità; e tutti i carismi hanno anche un carattere ministeriale, cioè di servizio alla comunità e finalizzati alla sua crescita spirituale.

 

La tensione fra le due strutture ecclesiali (carismatica e ministeriale) sale di livello man mano che le comunità si moltiplicano, si allargano e man mano che ci si allontana dall'età apostolica per cui si fa sempre più pressante la questione della trasmissione della dottrina e della fede e la loro corretta conservazione.

 

Sarà proprio in questo momento (intorno al III- IV sec.) incominciano a svilupparsi dei ministeri ai quali vengono attribuite specifiche e proprie funzioni quali l'annuncio pubblico nella liturgia, la celebrazione dell'eucaristia, la guida della comunità e la tutela della tradizione.

 

Questo è il momento del ministero ordinato, cioè ordinato a tali specifiche funzioni che lo caratterizzano in particolar modo.

 

Il ministero ecclesiale ordinato

 

La nascita del ministero istituzionalizzato all'interno della Chiesa è strettamente legato all'evoluzione e alla storia della Chiesa stessa. Il passaggio da una struttura carismatica ad una ministeriale istituzionalizzata è segnato prevalentemente dall'assorbimento della struttura carismatica da parte di quella ministeriale. Quest'ultima si è resa, via via sempre più elemento indipendente all'interno della Chiesa fino al punto di perdere il senso di servizio in favore della comunità, in cui è sorta e al cui interno è giustificata, arrivando alla identificazione della Chiesa con il ministero ecclesiale ordinato stesso (gerarchizzazione della Chiesa).

 

All'interno della comunità cristiana della prima generazione le funzioni sono ancora poco differenziate. Il punto di riferimento più importante e decisivo è ancora l'apostolo attorno a cui tutto ruota.

Egli, tuttavia, non può svolgere tutti i ruoli e tutte le funzioni richieste per un ordinato servizio della comunità, anche perché egli non sempre può essere presente.

Si formano così nella comunità ruoli, servizi, ministeri per tutti i singoli compiti che sono espressione della struttura carismatica della comunità. Tra questi compiti vi è anche la salvaguardia dell'unità della comunità, della sua direzione e amministrazione. Per questo, sulla falsariga della sinagoga, nascono dei consigli di anziani, i presbuteroi, che hanno funzione direttiva e i cui membri rappresentano la comunità.

Ora il ministero viene fondato direttamente su Cristo e nel ministro si tende a vedere l'autorità dello stesso Cristo e la sua rappresentanza. Tale ministero, ora, viene conferito anche attraverso un'ordinazione che abilita all'esercizio di determinate funzioni pubbliche all'interno della comunità. Già agli inizi del II sec. si vede come l'ordinamento episcopale e presbiterale si siano sviluppati assieme così da condurre senza rotture ad un sistema ministeriale che prevede tre livelli: vescovi, presbiteri e diaconi.

 

In tempi successivi e in particolar modo nel IV sec. la struttura carismatica è passata in secondo piano e, nel IV sec., scompare totalmente sgomberando il campo a favore della sola funzione ministeriale che l'ha oscurata completamente.

 

A questo affermarsi autonomo del ministero ordinato corrisponde una sempre maggiore svalutazione ecclesiologica dei laici. La Chiesa si spacca in due: Clero, che ormai si identifica con la Chiesa istituzionalizzata, e Laici, appendice sostanzialmente insignificante e non necessaria della Chiesa.

 

Nell'ambito del Vaticano II si è cercato di reinserire il ministero ordinato all'interno dell'insieme della Chiesa a fianco della pluralità dei servizi e dei ministeri. Si tende a inserire la gerarchia ecclesiale all'interno del popolo di Dio e non prima o, comunque, distintamente da esso.

 

I laici, inoltre, sono sistematicamente rivalutati: per ben sei volte la LG ripete che il laico partecipa all'ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo in virtù del battesimo che rende uguali tutti i fedeli e in stretta comunione tra di loro. In tale ottica anche i laici sono chiamati a svolgere dei servizi ecclesiali.

 

Va evidenziato che, tuttavia, il sacerdozio del laico differisce da quello ordinato essenzialmente e non solo di grado. Il sacerdozio ordinato abilita ad operare in persona Christi e a svolgere funzioni pubbliche all'interno della comunità in particolar modo in ambito liturgico. Esso consente anche di operare persona Ecclesiae, in rappresentanza della Chiesa in particolar modo nell'ambito liturgico e comunitario.

 

Quale nota personale aggiungo che, al di là dei proclami del Vaticano II, comunque per certi aspetti,molto apprezzabili, fin tanto che permane la divisione della Chiesa in Clero e Laici ogni proclama di unificazione e di rivalutazione viene vanificato.

Quale spazio, dunque, oggi il laico ha all'interno della Chiesa? Un test importante per valutare la questione è l'ambito liturgico che, per sua natura, esprime la vita più vera e autentica della Chiesa. Ebbene, si osservi attentamente tale ambito e ci si accorgerà come in esso il laico è ancora sostanzialmente spettatore e come le poche funzioni che gli sono concesse (ma quali sono ?!?) tendono sempre più ad essere ridotte o condizionate.

Si noti, infine, come al di là dell'insistente rilevazione che il laico è profeta, sacerdote e re per partecipazione a Cristo, la Chiesa non solo non ha mai spiegato tali funzioni al laico né quali conseguenze esse comportino o a che cosa, di fatto, esse abilitino, ma non ne ha dato per nulla diffusione. Ci si è semplicemente e urgentemente preoccupati di distinguere il sacerdozio ministeriale da quello battesimale perché, una volta affermato il comune sacerdozio, ciò non ingeneri confusione. E questo mi suona più come difesa della specie, mossi da un primordiale istinto di conservazione.

Oggi solo alcuni laici sanno di essere insigniti della funzione profetica, regale e sacerdotale, ma che cosa significhi tutto ciò, che cosa serva o che cosa comporti, di tutto ciò nulla si sa. Fin tanto che tutto ciò non verrà posto a livello pastorale e non trovi un'applicazione a livello comunitario, per cui ognuno si sente coinvolto nel suo essere profeta, re e sacerdote, ogni proclama, per quanto solenne, rimane lettera morta e, certamente, non favorirà nessun cambiamento all'interno della comunità ecclesiale che sempre più si sta laicizzando e paganizzando, mentre il clero torna ad essere, se non nei proclami, di certo nei fatti, nuovamente identificato con la Chiesa.

 

Le tre attuazioni fondamentali della Chiesa: annuncio, liturgia, servizio

 

All'interno della Chiesa la vita della comunità ruota attorno a tre fondamentali pilastri ricollegabili ad aspetti fondamentali della vita di Cristo e, pertanto, normativi per la Chiesa e nella cui esplicitazione il Cristo continua a vivere ed operare:

•     L'annuncio e la testimonianza (marturia)

•     La liturgia: sacramenti e preghiera (leitourgia)

•     Servizio della carità e comunione (diakonia)

 

Tali aspetti gia compaiono nei primissimi tempi della vita della Chiesa: "Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42).

 

Questi elementi, già presenti in una comunità cristiana in via di formazione, trovarono all'interno di una comunità ecclesiale più evoluta una loro istituzionalizzazione, in quanto che esse, nel loro insieme, qualificano la missione e l'esistenza stessa della Chiesa e delineano la sua identità, non solo, ma la Chiesa stessa, in qualche modo, è il risultato di queste funzioni.

 

Annuncio e testimonianza:   marturia

 

Fa parte del compito e della missione della Chiesa, continuando la missione di Gesù, annunciare e testimoniare a mondo la parola del vangelo (v. Mt 28,19-20), infatti, senza annuncio non nasce la fede che salva (Rm 10,14). Così l'annuncio della Parola di Dio avviene sotto la responsabilità e nella fede della comunità ecclesiale, che conserva in sé e tramanda, di generazione in generazione, tale annuncio. Essa è la depositaria della fede e della tradizione; suo, quindi, il compito di trasmettere e generare.

 

La Chiesa stessa, del resto, nasce dal comune ascolto della Parola. E' la stessa Parola di Dio che genera la comunità, abilitandola e chiamandola, poi, alla testimonianza comune.

 

Culto, sacramenti e preghiera:  leitourgia

 

Fa parte della missione della Chiesa e dei suoi compiti amministrare la Parola con l'annuncio nell'ambito del culto; offrire preghiere, suppliche e ringraziamenti a Dio, quale atto di mediazione tra Dio e gli uomini; introdurre gli uomini, per mezzo del battesimo, immergendoli nel Cristo morto-risorto, nello spazio vitale di Dio, diventando così luogo di riconciliazione; celebrare la memoria del Cristo morto-risorto nell'eucaristia, attuando nell'oggi la riconciliazione tra Dio e gli uomini, non come atto compiuto duemila anni fa, ma come salvezza che si compie oggi e che nell'oggi interpella ancora una volta l'uomo, perpetuando in tal modo la forza redentiva lungo il cammino della storia.

 

Di questi atti sacri e salvifici, cioè produttori di salvezza, che si pongono come luoghi di mediazione e di incontro tra Dio e l'uomo riconciliato in Cristo, responsabile è la Chiesa non solo quella istituzionalizzata nei suoi ministeri, ma la Chiesa nella sua interezza, poiché ogni cristiano, in virtù del battesimo, è ministro di Cristo, chiamato a generare Cristo all'umanità.

 

Tale missione nasce primariamente dall'esperienza che la Chiesa ha fatto nel Cristo risorto: riconciliata per prima è chiamata a riconciliare: "Gesù disse loro di nuovo: <<Pace a voi! Come il Padre ha mandato, anch'io mando voi>>. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e achi non li rimetterete, resteranno non rimessi>>" (Gv 20,21-23)

 

Riconciliati, dunque, per riconciliare: dalla riconciliazione nasce la missione del riconciliare. Questo è il compito della Chiesa! A questo è chiamato ogni singolo cristiano.

 

La Chiesa, dunque, riconciliata per mezzo del sacrificio di Cristo, diventa nella liturgia serva della riconciliazione dell'umanità e nuovo luogo della lode di Dio.

 

Servizio della carità:  diakonia

 

La Chiesa, che in Cristo, per prima, ha sperimentato l'amore e l'impegno di Dio per l'uomo, è chiamata a testimoniare con la parola e la vita, rendendolo possibile con il proprio impegno esistenziale, un nuovo modo di essere gli uni con gli altri, gli uni per gli altri. Questo nuovo modo di essere è proprio il servizio umile all'altro, è lo spezzare il pane della propria vita per l'altro. E' questo il senso della diaconia che Gesù ci ha lasciato quale testamento spirituale nell'ultima cena e quale norma imperativa: "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri" (Gv 13,14).

 

L'impegno di Dio per l'uomo, reso tangibile in Cristo, diventa l'eredità della Chiesa che lungo il cammino della storia deve rendere continuamente visibile l'impegno di Dio per l'uomo proprio attraverso il suo donarsi agli altri, il suo mettersi a servizio degli altri: come Cristo è diventato pane che si spezza per la salvezza di tutti, così la Chiesa, ogni suo membro, è chiamato alla diaconia, cioè allo spezzare il pane della propria vita per il mondo. In tale diaconia è Cristo che continua il suo servizio all'umanità, testimonianza perenne dell'amore di Dio per l'uomo.

 

 

  

PROPRIETA' FONDAMENTALI

 

DELLA CHIESA

 

 

 

 

Premessa

 

Con il concilio di Costantinopoli (381) la Chiesa fu proclamata "Una, Santa, Cattolica, Apostolica". In questi attributi sono designate le proprietà fondamentali della Chiesa; fondamentali nel senso che  tutte quattro, inscindibilmente e in solido tra loro, ineriscono alla sua essenza e senza le quali la Chiesa non sarebbe più tale.

 

In quanto dono di Dio queste proprietà mettono in stretta relazione la Chiesa con Dio stesso e la inseriscono nel suo ciclo vitale. Come compito affidato agli uomini, invece, costituiscono un oggetto di costante riflessione e di azione; e si pongono a loro come obiettivi primari da raggiungere e continuamente da elaborare secondo l'evolversi del contesto storico in cui, di volta in volta, la Chiesa viene a trovarsi, nel senso che con il mutare dei tempi muta anche la comprensione delle sue proprietà fondamentali.

 

U N I T à

 

Nella prospettiva antiprotestante e antiliberale, che ha dominato fino agli anni cinquanta del secolo scorso, il concetto di unità era semplice: credere e accettare tutte le verità della fede cattolica, partecipare ai sacramenti e sottomissione alla gerarchia imperniata sul papa.

 

Con l'avvento del Vaticano II si è avuta una nuova comprensione di "Unità": la Chiesa è concepita come una comunità di credenti modellata sull'amore trinitario di Dio e chiamata a testimoniarlo.

In essa le persone sono chiamate non più ad essere le une contro le altre, ma le une per le altre nel rispetto delle diversità, non più viste come elemento di scontro, bensì di arricchimento.

Si giunge, pertanto, a riprodurre, in un impegno continuo, la stessa vita trinitaria nel cui ciclo vitale la Chiesa è già inserita: unità nella pluralità e diversità nel vincolo dell'amore, inteso non come espressione emotivo-sentimentale, bensì come atteggiamento di apertura e servizio finalizzati all'affermazione e realizzazione dell'altro.

 

Una unità che la Chiesa già possiede ontologicamente, ma che deve anche perseguire sul piano storico-salvifico, non solo con segni concreti di unità al proprio interno, ma anche per mezzo della riconciliazione dell'umanità a Dio, offerta in Cristo, e di cui la Chiesa è il luogo privilegiato di incontro e di riconciliazione tra Dio e gli uomini.

Unità, quindi, intesa anche come servizio di riconciliazione dell'umanità con Dio.

 

Nel suo cammino verso l'unità la Chiesa deve sapersi convertire alla vera unità che già vive in lei, in quanto inserita nel ciclo vitale della Trinità in cui la diversità e la pluralità convivono perfettamente nell'uno per mezzo del vincolo dell'amore.

 

La storia della Chiesa, infatti, si è rivelata spesso non solo come storia delle divisioni e separazioni, ma anche come storia di molti tentativi sbagliati di riconquistare l'unità: anziché togliere ciò che divideva, si ponevano paletti di distinzione e di separazione.

Ancor oggi i responsabili ecclesiali corrono il pericolo di recuperare e garantire l'unità della Chiesa in modo centralistico e amministrativo-giuridico anziché tentare nuove esperienze spirituali e storiche: cercare i punti essenziali e fondamentali per la fede cristiana, punti che devono essere di comune interesse (Gesù Cristo e la sua Parola) e su cui tutti necessariamente convergono, nel rispetto delle libertà e diversità di espressione di culto (pluralità e diversità, dunque, nell'unità).

L'unità, di cui la Chiesa è già investita per il suo essere nell'unico Cristo e nell'unico Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo e da cui nasce la sua vocazione e missione all'abbraccio universale, va ora ricercata anche da un punto di vista storico su vari livelli: confessionale, interconfessionale e interreligioso, tenendo sempre presente che è l'unità con Dio a creare la vera unità.

 

Unità confessionale

 

L'unità concreta, esteriormente visibile, della Chiesa cattolica è data dalla triplice unità nella "professione dell'unica fede", nella "comune celebrazione del culto" e nella "comune concordia fraterna della famiglia di Dio". Custode e servitore di questa triplice unità è il Vescovo nella sua triplice funzione, propria del suo ministero, di insegnamento, governo e santificazione.

 

Questa unità esteriore è sacramento necessario, cioè segno visibile e storico, di quella interiore che non si è data, ma che possiede per sua natura, in quanto inserita nel ciclo vitale trinitario e di Cristo.

 

Unità interconfessionale

 

Fintanto che la Chiesa cattolica si comprende come l'unica vera Chiesa di Cristo e ritiene che le altre comunità l'abbiano abbandonata (questa era la posizione apologetica tradizionale) allora il ristabilimento dell'unità può significare per le altre chiese soltanto il dover riconoscere il proprio errore e ritornare all'interno dell'unica vera Chiesa e ciò comporta conversione, assorbimento, livellamento e rinnegamento della loro storia.

 

Qui, però, non si tratta di compiere un ritorno e un rinnegamento della propria identità storica, ma un riconoscimento delle reciproche identità, dei reciproci valori e dei reciproci cammini storici e spirituali. Unificazione, in questa prospettiva, significa reciproco accoglimento e rispetto dell'altro come valore in cui ha operato l'agire salvifico di Dio.

In questa prospettiva significa anche riconoscere e accettare la propria parte di colpa nelle divisioni e riconoscere l'agire divino di grazia negli altri, nella piena coscienza che nessuna Chiesa, nessuna comunità possiede il monopolio della Verità e di Dio e che Dio, ben lungi dall'essere di parte, è Padre unico di tutti i suoi figli che ha costituite nella sua unica famiglia divina.

 

Nell'ambito di questo orizzonte, allora, il ristabilimento dell'unità viene compreso come riconciliazione anziché ritorno, mentre la necessità della conversione è estesa indistintamente a tutti. La riunificazione, pertanto, diviene conversione comune e convergenza di tutte le Chiese e comunità cristiane verso l'unico Cristo da cui tutte e tutti sono stati generati.

 

In tale ambito, i segni concreti, storici dell'unità sono importanti per dare visibilità e sacramentalità all'unità ontologica della Chiesa, ma si deve tenere sempre presente che essi sono solo mediazione storica di tale unità ontologica e come tali, mai definitivi e insuperabili, soprattutto se il radicarsi a essi comporta far fallire l'opera di Dio.

 

Unità interreligiosa

 

Nel simbolo della fede cristiana si afferma che Dio si è incarnato "per noi uomini e per la nostra salvezza". Tale affermazione riflette sulla Chiesa una dimensione universalistica, che le è connaturata e che la spinge ad interrogarsi nei confronti delle altre culture e religioni.

 

Dopo il Vaticano II, infatti, c'è un'unità della Chiesa in cui sono ricomprese anche tutte le altre religioni non cristiane, riflettendo in ciò la volontà salvifica universale di Dio. Quel "per noi uomini", senza connotazioni storico-culturali e religiose, evidenzia in modo inequivocabile l'universalità della salvezza che viene proposta da Dio all'intera umanità, indipendentemente dalla sua collocazione storica.

In tale prospettiva, il Concilio considera le religioni non cristiane in termini positivi, non più come terreno di conquista o fase preparatoria al cristianesimo, ma oggetto di un'attenta riflessione e scoperta in esse  di quanto c'è di vero e santo, tentando un dialogo che deve portare ad una reciproca comprensione e rispetto, nella coscienza che anche in esse si riflette quel raggio di Verità che illumina tutti gli uomini. Su tale aspetto si deve sviluppare il dialogo e proporre Cristo come risposta e/o integrazione alla Verità, sia pur parziale, che si ritrova in tali religioni. Esse sono pur sempre forme storiche di ricerca di Dio e di risposta storica a Lui.

 

Tutto ciò, tuttavia, non deve far perdere alla Chiesa la coscienza di essere l'erede di quel Cristo che si è proclamato "la Via, la Verità e la Vita", cioè l'unica Via che conduce al Padre. Essa, dunque, tradisce la propria vocazione, la propria missione e identità se nell'ambito del dialogo dimentica l'annuncio e la testimonianza. Non va, infine, trascurato il fatto che se Cristo non fosse stato necessario per la salvezza dell'uomo, il Padre non lo avrebbe inviato e Dio non avrebbe unito il proprio destino a quello degli uomini in modo così definitivo e irrevocabile come è avvenuto nell'incarnazione. Ma se ciò è avvenuto, questo significa che la salvezza dell'uomo è imprescindibile e inscindibile da Gesù Cristo. Capire, poi, come il Cristo, morto-risorto, opera sull'intera umanità e in quale modo egli si relazioni agli uomini all'interno di ogni religione, questo è compito di ogni teologia.

 

SANTITà

 

La santità è la più antica e indiscussa delle quattro qualità fondamentali della Chiesa. Essa è strettamente legata all'esperienza dell'antico popolo di Israele che fu oggetto di particolare predilezione ed elezione da parte di Dio e, in quanto tale, Santo. Tale santità di Israele costituisce uno degli elementi fondamentali dello stesso Israele e costituisce un aspetto della sua identità che gli venne consegnata ai piedi del monte Sinai: "Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli; ... voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 9,5-6)

In tale prospettiva, santo è ciò che è chiamato all'esistenza e costituito da Dio, ciò di cui lo Spirito di Dio prende possesso. Se la Chiesa, dunque è santa ciò le viene esclusivamente da Dio.

 

La santità della Chiesa, pertanto, non dipende dal suo corretto comportamento nei confronti di Dio, ma è costituzionalmente e ontologicamente: santa perché generata da Dio. Quella della Chiesa non è una santità morale, bensì costituzionale e a lei connaturata. La Chiesa non è diventata santa, ma è nata santa. Lo è per sua natura.

 

Questa santità, tuttavia, stride con la sua fragilità e la sua peccaminosità. Nella Chiesa, suo malgrado, esiste il peccato e ci sono i peccatori, per questo la Chiesa ha continuo bisogno di conversione. Peccato e santità, dunque, convivono all'interno della Chiesa; un aspetto questo che è stato significativamente evidenziato dai Padri nell'efficace espressione di "casta meretrix".

 

In tale prospettiva (casta meretrix) la santità della Chiesa, pur essendo già presente, ma non ancora pienamente compiuta, si traduce, nel presente, in una sempre nuova e rinnovata capacità di conversione e nel processo irreversibile attivato da Dio che consiste nel santificarla e nel sostenerla nel suo processo di santificazione per mezzo dello Spirito.

Per Paolo i santi sono coloro che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio (Rm 8,14) nella certezza che egli sarà sempre presente in mezzo alla sua Chiesa con la sua azione santificatrice: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28, 21b).

 

Per questo, dunque, la è santa e santificatrice: perché partecipa alla santità di Dio; perché è unita a Cristo e perché, infine, le è stato donato lo Spirito santo. In questa prospettiva, pertanto, il peccato contraddice ciò che la Chiesa è, mentre la santità è rivelazione della sua essenza.

 

La sua natura di santa funge da stimolo ad esserlo anche fattivamente e la spinge a concretizzare nel proprio vivere quella realtà santificante e santificatrice di cui è costituita e la pervade. Il monito di Dio rivolto al suo popolo "Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo" (Lv 19,1) costituisce un imperativo anche per la sua Chiesa e la spinge a diventare sacramento di tale santità, poiché la Chiesa, in quanto santa, è chiamata a santificare, cioè a consacrare le realtà, nel cui ambito vive, a Dio, offrendole in un atto di culto a Lui accetto, gradito e consacrante.

 

La santità della Chiesa, infine, esprime l'agire santificante di Dio nella Chiesa, ma è anche un ammonimento a corrispondere a questa santità nella prassi della vita cristiana ed ecclesiale.

 

Tale specifica santità della Chiesa, tuttavia, non significa che essa sia esclusiva della Chiesa, ma è estensibile anche a tutti gli uomini che, pur non appartenendo alla Chiesa in modo formale, lo sono, di fatto in cuor loro. In tal senso Paolo afferma che "Giudeo non è chi appare all'esterno e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera" (Rm 2,28-29).

Un'ulteriore sottolineatura in tal senso proviene da Luca nei suoi Atti, là dove Pietro afferma: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35).

 

CATTOLICITà

 

Il termine "cattolicità" appare nella Chiesa fin dal II sec. e a partire dal IV sec. si definisce come proprietà della Chiesa stessa (Teodosio il Grande nel 380 emette il decreto Cunctos populos in cui definisce la chiesa come cattolica, cioè universale, adottandola quale religione dell'impero e in opposizione alle teorie eretiche. In tal senso cattolico più che esprimere l'universalità sottolinea la contrapposizione a tutto ciò che se ne differenzia).

 

Il termine compare per la prima volta in S.Igniazio di Antiochia nella lettera ai cristiani di Smirne (110-118): "Dove appare il vescovo, ivi è la comunità, come dov'è Gesù Cristo, ivi è la Chiesa cattolica" (Smyrn. 8,2). Qui cattolico esprime la pienezza della salvezza e della verità fondata sull'universalità dell'opera redentrice di Cristo. Cristo è cattolico, nel senso che la sua azione redentrice e salvifica è rivolta alla totalità degli uomini, per questo la Chiesa è essa stessa cattolica.

 

Con il crescere delle controversie (eresie) circa l'identità della fede che minavano l'unità e l'identità della Chiesa, emerge sempre più l'aspetto dell'ortodossia. In tale prospettiva la cattolicità assumeva anche un aspetto quantitativo: cattoliche erano tutte quelle comunità che professavano la stessa fede. Si evidenziava così anche una contrapposizione con quelle eterodosse che, quindi, non rientravano nella cattolicità, cioè nell'ortodossia.

 

Con il tempo la cattolicità assunse anche valori geografici ed estensivi, per cui cattolico non indicava più soltanto l'universalità della salvezza in Cristo e/o la totalità delle chiese raccolte nell'unica fede, ma anche l'universalità storica e geografica.

 

Ma con l'arrivo della Riforma (XV-XVI sec.) il termine cattolico assunse una valenza prevalentemente confessionale e tale rimase fino ai nostri giorni, benché il concilio Vaticano II abbia cercato di darne una valenza qualitativa, legata all'essere della Chiesa inserita nel ciclo vitale di Dio e in Cristo.

 

La fede in Dio come fondamento della cattolicità

 

Ciò che rende universale la fede è sia l'oggetto della fede, Cristo morto-risorto che, posto al di là dello spazio e del tempo è divenuto, ora, il Cristo cosmico che abbraccia in sé l'intera creazione e, con lei, l'intera umanità le quali gemono per le doglie del parto (Rm 8,22-23), cioè sono chiamate a condividere nella propria carne la morte e risurrezione del Cristo (Rm 6,4-5) o, meglio, è il Cristo stesso che ci sta vivendo tutti nella sua morte, la quale racchiude in sé la promessa della risurrezione; sia la volontà salvifica di Dio rivelata in modo definitivo e irrevocabile in Cristo che diviene, pertanto, l'ultimo discorso di Dio agli uomini e nel quale tutti gli uomini sono liberamente e indistintamente convocati, al di là di ogni barriera storica, culturale o religiosa. Unica condizione per partecipare a tale convocazione è la fede in Cristo.

 

Paolo stesso sottolinea questo tratto di universalità della fede in Cristo quando afferma che "Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del greco." (Rm 1,16) E ancora: "Poiché non c'è che un solo Dio il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi" (Rm 3, 30)

Inoltre, l'unicità della figura di Cristo e, pertanto, in quanto tale anche universale, viene sottolineata anche da Giovanni nel suo vangelo là dove Gesù afferma di essere "la Via, la Verità e la Vita"; non dice una delle tante vie, una delle tante verità, bensì "La Via", "La Verità" sottolineando in ciò la sua esclusiva unicità e, pertanto, universalità.

 

La missione della Chiesa quale espressione di cattolicità

 

La costituzione dogmatica sull'attività missionaria della Chiesa "Ad  Gentes"  così esordisce al punto 1.a)  "Inviata per mandato divino alle genti per essere sacramento universale di salvezza, la Chiesa, rispondendo alle esigenze più profonde della sua cattolicità e all'ordine specifico del suo Fondatore, si sforza di portare l'annuncio del Vangelo a tutti gli uomini". 

 

Tale pretesa di universalità della Chiesa trova il suo fondamento scritturistico sia in Matteo che in Marco: "Andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni" (Mt 28, 19) e ancora "Gesù disse loro: <<Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura>>" (Mc 16,15).

 

La missionarietà della Chiesa, pertanto, diventa ad essere realizzazione ed espressione di tale universalità, che è elemento costitutivo della sua natura, poiché universali sono Dio e il Cristo nel cui ciclo vitale è inserita e da cui è continuamente generata e rinnovata per mezzo dello Spirito.

 

Tale missionarietà non va intesa come atto affermativo della Chiesa, tentativo di possesso e di dominio, espressioni a cui non deve cedere e alla cui tentazione è sempre esposta, bensì come atto di obbedienza a Dio, che le è Padre, e quale servizio reso a favore dell'umanità. Essa, come Maria, porta in sè il Cristo di cui è serva (Ecce ancilla Domini) e non padrona.

In tale missionarietà la Chiesa deve muoversi sempre con la piena coscienza di essere soltanto segno e in quanto tale deve rendere testimonianza di realtà che no le appartengono, ma che la trascendono.

 

La Chiesa, dunque, è chiamata a porsi di fronte al mondo quale segno dell'universale volontà salvifica di Dio. Essa adempie al suo mandato nella misura in cui essa rimane nell'ambito della sua sacramentalità, cioè di segno che non accentra in sè, ma rimanda sempre a colui al quale deve rendere testimonianza.

 

Chiesa, sacramento visibile di Universalità in mezzo ai popoli

 

"Tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo popolo di Dio ... A questo scopo Dio ha mandato il Figlio suo, che ha costituito erede di tutte le cose (Eb 1,2) perché fosse il maestro, il re e il sacerdote di tutti, il capo del nuovo e universale popolo dei figli di Dio ... L'unico popolo di Dio è presente, dunque, in tutte le nazioni della terra, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i suoi cittadini, cittadini di un regno che per sua natura non è della terra, ma del cielo. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo .... Tutti i popoli sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale" (LG 13)

 

La Chiesa, così descritta, appare anche sacramentalmente universale. Una universalità, però, che non le è data da una estensione quantitativa, storica e geografica, ma dall'unico Dio, che è tale sia per i Giudei che per i pagani, cioè per tutti, e al quale tutti sono chiamati a rapportarsi per mezzo della fede nell'unico Cristo (Rm 3, 29-30) in cui "... non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3, 28). In tale prospettiva l'estensione storico-geografica della Chiesa diventa di per se stessa segno e sacramento di un'altra universalità che la trascende e che nel contempo fa parte della sua natura, una universalità che è comunione di tutto e di tutti nell'unico Cristo.

 

Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza?

 

L'assioma "Extra Ecclesiam nulla salus" che sotto varie forme e modi ha accompagnato le convinzioni della Chiesa lungo i secoli viene espressamente condannata e nel Concilio Vaticano II è chiaramente affermata la possibilità di salvezza al di fuori della Chiesa: "... e ciò non vale solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti è morto per tutti e la vocazione dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale" (GS n.22).

 

L'assioma, pertanto, della necessità della Chiesa per la salvezza non è una implicita condanna per chi se ne trova fuori, bensì indica la particolare natura e funzione della Chiesa nell'ambito della storia di Dio con gli uomini.

 

La necessità della Chiesa ai fini della salvezza  va compreso nel senso della elezione deLla Chiesa stessa, a cui è stata affidata l'eredità salvifica di Cristo. Ciò tuttavia non va inteso come un monopolio esclusivo di salvezza. Dio non si vincola a niente e non si lascia monopolizzare da nessuno.

 

Pertanto, tale affermazione non va mai intesa in senso fisico: dentro si, fuori no; bensì in senso di un servizio reso all'umanità ai fini della salvezza, segno e testimonianza per gli altri e ciò spinge la Chiesa alla missione.

 

Inoltre, tale assioma ha un valore parenetico. La Chiesa si costituisce all'interno della storia come sacramento privilegiato di incontro tra Dio e gli uomini, come testimonianza della definitiva e piena Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, per cui "chi in modo consapevole non si converte e non entra nello spazio di salvezza da lui riconosciuto  come tale, fallisce il suo fine" (LG n.14).

 

Da quanto fin qui detto si ha da concludere che l'affermazione "Extra Ecclesiam nulla salus" riferita ai non cattolici o ai non cristiani è falsa. Infatti, nei suoi Atti Luca mette sulla bocca di Pietro la seguente espressione alquanto significativa: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35).

 

APOSTOLICITà

 

La questione della continuità della tradizione e dell'identità della Chiesa si pone in termini evidenti fin dalla prima generazione postapostolica. Le comunità paoline fondano la loro identità sul legame con l'apostolo Paolo, mentre la lettera agli Efesini comprende l'apostolo come fondatore e garante della tradizione che sorregge la Chiesa: "... edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti ..." (Ef 2,20).

 

Anche per Luca gli apostoli che fondano la Chiesa sono garanti della tradizione e insieme prototipi dei ministeri ecclesiali, i quali continuano quello che essi hanno iniziato.

 

Per Ireneo di Lione il legame storico tra Cristo e la Chiesa è mediato attraverso gli apostoli.

 

Inoltre, già fin dai primi tempi della Chiesa viene identificata nella figura del vescovo la garanzia della tradizione e l'autenticità della dottrina. Sono compilate, proprio in questo periodo (dal II sec.) liste di successione di vescovi, storicamente verificabili, quasi ad indicare i punti cardine dell'autenticità della vera Chiesa.

 

In tale orizzonte la parola "apostolico" appare per la prima volta nel IV sec. come una delle quattro caratteristiche che definiscono l'identità della Chiesa.

Sarà solo dopo il XVI sec. in un ambito polemico ed apologetico che gli apologisti cattolici antiriformisti sottolineeranno l'apostolicità quale elemento di contrapposizione e di autenticità contro i riformisti, una apostolicità che viene letta in termini di sede apostolica romana.

 

Il ministero degli apostoli e missione della Chiesa

 

Per comprendere bene la caratteristica dell'apostolicità della Chiesa è importante capire il ministero dell'apostolo al suo interno.

 

La figura dell'apostolo si delinea all'interno dell'esperienza fondante il cristianesimo: l'esperienza del Cristo risorto di cui l'apostolo non solo è testimone, ma anche annunciatore. Con tale esperienza questi testimoni sono costituiti apostoli nel senso etimologico del termine, cioè di inviati a proclamare la loro testimonianza che diventa, per questo, missione.

 

L'apostolato, pertanto, diventa un servizio autorizzato in nome e per mandato di Cristo: il suo compito è l'annuncio del vangelo che si fonda sulla risurrezione di Gesù Cristo, ma che rimanda anche alla sua vita, alla sua predicazione e alla sua opera. La sua finalità è la raccolta per mezzo della predicazione e la consacrazione a Dio per mezzo del sacramento del popolo escatologico.

 

La Chiesa, pertanto, è tale solo se segue le indicazioni degli apostoli e rimane all'interno del loro insegnamento, che è testimonianza ed eredità del Cristo risorto e per mezzo della quale conferisce allo stesso Cristo risorto una nuova forma storica di presenza nell'annuncio, nella liturgia e nella comunione ecclesiale.

 

E' da rilevare, infine, che nella professione di fede il cristiano confessa l'apostolicità della Chiesa, non quella dei vescovi o del clero. L'intera Chiesa, pertanto, nella missione e nell'impegno, deve continuare il servizio apostolico della testimonianza, dell'annuncio, della liturgia e della vita vissuta come segno.

 

La Chiesa è nata con il fine di rendere partecipi tutti gli uomini della redenzione salvifica; pertanto, tutta l'attività della Chiesa e di tutti i suoi componenti si chiama apostolica, perché tutti, in quanto battezzati, sono stati chiamati anche a tale funzione: quello della testimonianza e dell'annuncio del Cristo risorto, ognuno secondo lo stato di vita in cui si trova.

 

I cosiddetti laici, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, regale e profetico di Cristo, assolvono compiti propri della Chiesa, in quanto anch'essi apostoli, cioè chiamati e inviati a rendere testimonianza e a diventare sacramenti viventi di quelle realtà future di cui sono stati rivestiti nel Cristo risorto.

All'interno di questa generale apostolicità della Chiesa che coinvolge tutti, nessuno escluso, vi sono punTi di riferimento istituzionali che in modo specifico rappresentano ufficialmente l'apostolicità della Chiesa e ai quali è stato attribuito l'espressione "apostolico" in senso eminente.

 

Come l'apostolo ha ricevuto una particolare funzione di rappresentanza e di testimonianza del Risorto in rapporto alla guida delle comunità da lui fondate, così anche colui che gli succede nella guida e nella testimonianza, cioè il vescovo, ha una particolare funzione di testimonianza e di rappresentanza e, di conseguenza, di autorità all'interno della comunità che guida. Nel ministero episcopale, pertanto, si prolunga la funzione pastorale e l'autorità dell'apostolo.

 

 

FORME FONDAMENTALI DELLA CHIESA

 

 

 

Chiesa come insieme strutturato

 

Una delle grande riscoperte del Vaticano II fu certamente quello di "Chiesa locale", superando così il concetto di Chiesa perfetta e universale che si identificava con la Sede di Roma.

 

La Chiesa universale, pertanto, viene ora concepita come una comunione di chiese locali, cioè delle concrete figure e realizzazioni storiche e culturali di chiesa.

Le varie chiese locali testimoniano la loro unità, comunione e universalità nella partecipazione piena ed attiva di tutto il popolo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche e, in particolar modo, quando la comunità locale si raccoglie attorno alla medesima Parola e alla stessa eucaristia, professando e celebrando, così, l'unica fede.

 

Tutto ciò rende universale ogni singola chiesa locale e in comunione con tutte le altre chiese.

 

Se le chiese trovano il concretizzarsi della loro universalità nelle celebrazioni liturgiche, vero è che esse trovano il proprio segno visibile di universalità e di comunione nella figura del vescovo, quale rappresentante della chiesa particolare, che, unito al papa, rappresentano assieme tutta la Chiesa unita nel vincolo della pace e dell'amore.

 

Le chiese locali, a seconda del loro collocarsi storico, si possono distinguere in chiesa domestica, comunità di base o personale, comunità locale o parrocchiale, chiesa particolare o episcopale, chiesa nazionale, chiesa continentale  e  chiesa universale.

 

Queste chiese, così variamente denominate, esprimono il loro collocarsi storico nell'ambito della società e il loro relazionarsi ad essa. Esse, così variamente distribuite in mezzo alla comunità più ampia degli uomini, consento e attuano la comunione di Dio con gli uomini e di cui loro sono segno, spazio di incontro tra Dio e l'uomo.

 

Forme di comunità

 

Da dopo il Vaticano II si è passati da un concetto di chiesa gerarchico-giuridica a quello di chiesa come comunità, variamente formata e strutturata, di comunione. Questo non è un passaggio indifferente, poiché si recupera un aspetto che è fondamentale e costitutivo della chiesa stessa: il suo essere comunione di credenti nell'unico Cristo, il suo essere una in Cristo.

 

Comunità domestiche nella Chiesa primitiva

 

Anticamente la famiglia fu il primo luogo in cui si è formata la chiesa. Erano le prime "domus ecclesiae". La loro prima esperienza di chiesa fu caratterizzata dalle peculiarità proprie del piccolo gruppo familiare: possibilità di rapporti personali, relazioni affettive, obiettivi comunemente condivisi, ruoli diversi finalizzati tutti al comune compito del servizio in favore della piccola comunità, profonda condivisione dei beni comuni e solidarietà.

 

Al di là di questi aspetti sociali, comunque molto importanti e caratterizzanti la chiesa domestica, l'altro elemento, non meno importante, era il battesimo che creava un profondo e intimo legame con Cristo, in cui tutti formavano un'unica realtà e grazie al quale tutti avevano coscienza di formare una nuova società che si relazionava in un modo nuovo al proprio interno e con il mondo. Una nuova visione delle cose veniva prospettata loro.

 

Il battesimo e la comune fede, dunque, sono l'atto di fondazione di queste piccole comunità domestiche, che proprio in questa loro coscienza di essere una nuova realtà in Cristo, trovano la forza e lo slancio missionario e della testimonianza.

Concludendo questo aspetto, possiamo dire che la Chiesa primitiva è nata all'interno della famiglia e ne ha subito le caratterizzazioni proprie della comunità familiare, vissuta in però modo nuovo, grazie al suo inserimento in Cristo. Essa si era costituita come nucleo fondamentale della comunità locale e, in seguito, pietra di edificazione, luogo della preghiera, dell'istruzione, della solidarietà, luogo di riunione della cena del Signore.

 

La Chiesa domestica

 

Con il Vaticano II si è cercato di ricomprendere la famiglia come la "Chiesa domestica", cioè come una realizzazione della Chiesa e un suo modo di esprimersi: essa è posta al servizio dell'edificazione del Regno di Dio nella storia mediante la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa. Essa unita Cristo è perciò stesso salvata, ma si costituisce anche come comunità salvante, come intima comunità di amore e di vita, chiamata a riprodurre in sè la stessa vita trinitaria.

Infine, in quanto chiesa domestica, la famiglia cristiana realizza, con le caratteristiche che le sono proprie, anche le tre attuazioni fondamentali della Chiesa: l'annuncio del vangelo, la liturgia e la preghiera, la diaconia.

 

Essa, pertanto, si costituisce come un elemento nuovo e riscoperto della chiesa primitiva in cui ognuno è chiamato in prima persona a dare testimonianza al vangelo e al Cristo risorto; ognuno, nella sua triplice funzione di sacerdote, re e profeta, si costituisce come elemento consacrato e consacrante, salvato e salvante la realtà nel cui ambito, secondo la propria collocazione storica, sociale e culturale, è chiamato a vivere.

 

Forme della comunità locale

 

Le primitive comunità cristiani, sorte all'interno delle famiglie, dovettero ben presto con il diffondersi del cristianesimo cedere il posto ad una diversa organizzazione in consonanza all'ambiente in cui si collocavano. Ciò impedì che l'esperienza di chiesa si esaurisse nell'ambito chiuso e intimistico della famiglia e si integrasse, invece, nel più complesso e articolato tessuto sociale, diventandone fermento. Ma è, inoltre, l'esperienza di fede in comune, che trovava concretezza nella celebrazione liturgica, nonché una serie di difficoltà pratiche a spostare il baricentro dalla famiglia alla comunità locale.

 

Tale spostamento al centro della vita ecclesiale fa nascere la Chiesa. L'espressione nasce dal greco "ekklhsia", che traduce l'espressione ebraica "qahal" o "qahal Jhwh" che significa "assemblea" o "assemblea di Dio", spesso con valore di "assemblea cultuale". In tali assemblee non si discute, né si decide, ma "si ascolta" la Parola di Dio. Nel giudaismo primitivo la "ekklhsia" esprime soprattutto l'incontro della comunità giudaica al sabato. I primi cristiani avevano di fronte a sé queste esperienze quando parlavano di "ekklhsia".

 

Chiesa, pertanto, significa innanzitutto che ci si incontra nel "nome di  Gesù" (Mt 18,20) e con questo è implicito che si tratta di una riunione cultuale. Quindi, quando si parla di Chiesa si intende l'assemblea liturgica dei credenti radunati dalla Parola intorno alla Parola stessa e alla celebrazione  eucaristica e sacramentale.

Il termine "Chiesa", pertanto, possiede in sè un significato sacro e celebrativo, per cui l'assemblea si costituisce tale in quanto convocata dalla Parola e attorno alla Parola nel nome di Cristo e si esprime in modo privilegiato nell'ambito liturgico.

Nella liturgia, la comunità dei "convocati" si qualifica come nuova comunità escatologica, posta sotto l'azione dello Spirito, in cui i sacramenti qualificano la dinamica della vita di tale comunità e di ogni suo membro attraverso i riti di passaggio che scandiscono i momenti più importanti della vita di ogni credente: il battesimo (rito di iniziazione e di inserimento vivo nella comunità credente); cresima (rito di passaggio all'età adulta i cui il membro della comunità, divenuto cosciente del suo essere in Cristo si dichiara pronto alla testimonianza e all'impegno cristiano); matrimonio, ordine sacro (riti che dicono l'impegno e la testimonianza cristiana nell'ambito della comunità e del mondo. Esprimono anche la risposta vocazionale personale e specifica); unzione degli infermi (rito che sostiene l'ammalato nella sua infermità e, se ne ricorre il caso, lo aiuta nella sua dipartita da questo mondo consegnandolo nelle mani amorose del Padre); confessione ed eucaristia (riti celebrativi che consentono il rafforzamento del vivere cristiano e comunitario, riconciliandosi con Dio e la comunità, formando, poi, una comunione attorno all'unico Pane e all'unica Parola)

 

In tale ambito essa diventa la comunità escatologica raccolta dalla Parola e che in Gesù Cristo ha già preso forma. Ciò ha permesso ai cristiani di sentirsi come un nuovo popolo nel mondo, convocato dalla Parola intorno al Cristo risorto per testimoniare le realtà future già anticipate nel Risorto di cui sono rivestiti come di un abito nuovo in virtù del battesimo.

 

Così concepita, la comunità locale è segno della salvezza di Dio nel mondo e, in quanto consacrata e salvata, diventa essa stessa consacrante e salvante.

 

La comunità, così qualificata nella liturgia e sacralizzata dai sacramenti, deve, poi, sostanziare queste sue azioni cultuali con la vita, in particolar modo attraverso i tre aspetti caratterizzanti la vita stessa della Chiesa: annuncio e testimonianza della Parola e di quelle realtà future, inserite in ciascuno  con il battesimo; celebrazione liturgica nella vita, così che tutta la vita diventi un atto di offerta e di culto a Dio; e, infine, diaconia o servizio reso alla comunità e al mondo con la propria vita, così che, sull'esempio del Cristo eucaristia, pane che si spezza per tutti, si sappia spezzare il pane con della propria vita con quanti ci stanno attorno; e quella mano che si apre per accogliere il Cristo-eucaristia non si chiuda mai di fronte alle necessità di quanti si incontrano sul proprio cammino.

 

Dunque, la fede, così celebrata nella liturgia, deve trovare il suo riscontro concreto nella prassi della vita cristiana, caratterizzata dalla carità e dalla speranza.

 

Forme della chiesa particolare o episcopale

 

Nel linguaggio giuridico romano il termine "dioikhsij", cioè amministrazione, designava una unità di ordinamento politico di differente ampiezza. A tale concetto si è riferito, poi, il linguaggio giuridico ecclesiale così che, dal XIII secolo, è stato utilizzato solamente per la chiesa episcopale.

 

Tale chiesa episcopale o diocesana è una parte concreta, storicamente collocata, del tutto e rappresenta il legame con il tutto. Tale legame è concretamente visibile nella figura del vescovo, che la presiede. Essa, quindi, va concepita come una porzione del popolo di Dio che è affidata alle cure pastorali del vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio. Il vescovo, pertanto, da un punto di vista giuridico e teologico, è il punto di collegamento tra Chiesa particolare e Chiesa universale.

 

Egli agisce "in persona Christi" e al tempo stesso agisce "in persona Ecclesiae". Da ciò sgorga la sua autorità all'interno della Chiesa particolare e universale; per questo egli funge da raccordo tra la chiesa particolare e quella universale.

 

Questa particolare funzione del ministero episcopale è il risultato finale di aspetti teologici e storici. L'aspetto teologico consiste nella necessità che sia continuato il servizio apostolico della rappresentanza di Cristo in mezzo alla comunità. Quello storico è rappresentato dal fatto che la comunità cristiana si organizzò progressivamente nella forma di comunità locali urbane e, in seguito, in distretti ecclesiastici più vasti.

 

La peculiarità del ministero episcopale consiste nel fatto che i vescovi realizzano, in quanto successori degli apostoli, cioè come rappresentanti di Cristo e della Chiesa, le tre funzioni principali della Chiesa: l'annuncio, la liturgia e il servizio ai fratelli; e i tre uffici di Cristo: profetico, sacerdotale e regale.

 

Tali funzioni, va tenuto presente, sono di tutti e tutti sono chiamati, secondo il proprio stato di vita, ad attuarli in comunione con il vescovo a cui si è battesimalmente uniti.

 

La Chiesa universale

 

Universalità e unità rappresentano due aspetti costitutivi della Chiesa e sono rappresentate storicamente dalle due istanze fondamentali: papa in stretta comunione con il collegio dei vescovi.

 

La Chiesa universale si costituisce in un insieme comunionale di chiese particolari e locali in costante scambio tra di loro e tra loro interconnesse dall'unica fede, dall'unico culto e dall'unico Cristo in cui tutte vivono e sono costituite e da cui, per mezzo dello Spirito, discendono tutti i carismi e ministeri. Tutte sono costituite come un'unica assemblea convocata attorno all'unica Parola e all'unico spezzare del Pane.

 

Perché tale identità della Chiesa permanga integra e trovi in sé un punto catalizzatore di tutte le proprie forze e capace di coordinarle e rappresentarle, sia all'interno che all'esterno, si sono costituite, secondo un ordine teologico e storico, delle istituzioni quale il papato e le assemblee episcopali.

 

Benché l'istituzione del papato sia nell'ambito della Cristianità da più parti criticato e rifiutato, esso tuttavia dovrebbe essere espressione più che di cattolicità di ecumenismo in cui si abbracciano tutte le confessioni cristiane, riconciliate e unite nell'unica fede in Cristo e nell'unica Parola.

 

Per questo il papa dovrebbe presentarsi non solo come il portavoce dell'eredità cristiana, comune a tutte le chiese e agire in loro rappresentanza morale, come difensore della libertà e dei diritti umani, ma anche comprendere il suo ministero di unità, come servizio di unità a tutti i cristiani e di tutte le chiese.

 

Del resto, un servizio papale di questo genere, che si comprende in modo cattolico ed ecumenico, a lungo termine è indispensabile per una cristianità di nuovo riconciliata. Infatti, come il servizio apostolico a livello di chiesa particolare episcopale ha bisogno di un segno e di una testimonianza visibili e personali, così vale anche a livello di chiesa universale.

 

Nessun altro livello o istituzione può sostituire validamente questo ultimo livello di vertice in cui l'intera Cristianità trova la testimonianza concreta e visiva della propria identità e unità.