Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo (Lev 19,2b)

La conversione come evoluzione spirituale e le sue dinamiche



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Premessa

L'espressione “figlio dell'uomo” ricorre in tutto l'A.T. 108 volte. Si tratta di un ebraismo per indicare l'uomo colto nella sua fragilità carnale. Ma ciò che più stupisce è che questa espressione, con la quale Dio si rivolge al profeta, si ripete per ben 94 volte nel solo libro di Ezechiele. Questa insistenza ossessionante da parte di Dio nel definire “figlio dell'uomo” il profeta tende a sottolineare la grande distanza che intercorre tra Lui ed Ezechiele. Uno scarto incolmabile che annichilisce lo stesso Isaia. Questi, di fronte alla prorompente e incontenibile onnipotenza divina, sente tutta la sua impurità e la sua indegnità, che vengono sanate da un carbone ardente, simbolo della potenza purificatrice e rigeneratrice di Dio, che rende il profeta idoneo all'annuncio della parola (Is 6,1-8). Una distanza tra Dio e l'uomo che emerge prepotente allorché Dio parla al suo popolo dal monte Oreb. Due sono le pretese che Egli avanza nei suoi confronti: da un lato esso deve purificarsi lavando le proprie vesti; dall'altro non deve superare, pena la morte, il limite tracciato attorno al monte della sua Presenza (Es 19,10-12). È il segno della santità di Dio, invalicabile e distruttivo per l'uomo e dice tutta la distanza che lo separa da Lui. Una santità che definisce Dio come altro dall'uomo (Nm 23,19; Os 11,9), totalmente altro da ciò che l'uomo può immaginare e per questo inafferrabile e ineffabile. Ma la santità di Dio non è spesa per distruggere il suo popolo, ma per riscattarlo e salvarlo (Es 15,1-13; Ez 28,22); anzi egli gli dà una dignità e un'identità nuove fino ad allora sconosciute, costituendolo sua proprietà, nazione santa e regno di sacerdoti in mezzo alle genti (Es 19,5-6), associandolo alla sua stessa santità e dandogli un comando di santità: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2b); un'esortazione che insistentemente risuonerà altre due volte in Lv 11,45 e 20,26 e riecheggerà ancora in quella di Matteo: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Essa dice tutto lo scarto che intercorre tra il popolo e Dio, ma nel contempo traccia un cammino di costante conversione che Israele è chiamato a percorrere e che trova la sua figura e la sua metafora nel racconto della liberazione dalla schiavitù egiziana.

La nostra riflessione verte dunque sul tema della conversione e percorre un duplice cammino: a) La liberazione dalla schiavitù dell'Egitto quale cammino di evoluzione spirituale; b) la parabola del figlio ritrovato (Lc 15,11-32), una storia di peccato e di riscatto rigenerante. Si tratta di una lettura spirituale di due racconti che racchiudono in loro stessi i tratti essenziali della conversione, colta, da un lato, come cammino di evoluzione spirituale che va a qualificare il proprio modo di vivere, generando una nuova creazione; dall'altro, nelle sue dinamiche profonde che la muovono.

La liberazione dalla schiavitù d'Egitto, quale cammino di evoluzione spirituale

Gli eventi della sua liberazione dalla schiavitù dell'Egitto, la sua esperienza nel deserto, la sua nascita come popolo ai piedi del monte Sinai, l'Alleanza e il dono della Torah, sono vissuti da Israele come fondanti la sua identità. A questa esperienza si richiameranno i profeti ogniqualvolta il popolo si allontanerà da Jhwh. Questa è per Israele una storia che racconta il suo passaggio dal non essere all'essere, colto come una sua generazione divina (Dt 32,6; Is 43,1a). Tutto nasce da una chiamata divina a rendere culto a Dio, per rispondere alla quale si rese necessario partire, lasciare lo status quo e intraprendere un cammino di tre giorni nel deserto (Es 5,1-4). Un tre che dice il compiersi di un ciclo vitale necessario per giungere a rendere culto a Jhwh. Il tre infatti scandisce il tempo in un inizio, un centro e una fine: l'inizio è lo stato di schiavitù; il centro l'esperienza del deserto con l'evento qualificante del Sinai; la fine è l'entrata nella Terra Promessa. Ma tra lo stato di schiavitù e quello della raggiunta libertà vi è il deserto, un luogo di solitudine, di silenzio, di tentazione, di lotta e di sofferenza; un luogo di purificazione, in cui la vita è messa quotidianamente in discussione e in cui Israele comprende come ogni bene vitale dipende da Dio e non da se stesso. Ma a questo nuovo inizio, che ha la sua origine nella chiamata a rendere culto e a porsi al servizio di Dio, si oppongono le forze della non conoscenza di Dio: “Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele!” (Es 5,2); solo l'esperienza di Dio nella sua Parola può sanare questa ignoranza di Dio, che ha i suoi punti di forza sia nell'illusione di conoscerla che nell'indifferenza. Sono forze che tendono a far rimanere nello status quo il chiamato, soffocando l'iniziativa di un nuovo ciclo di vita: “Perché, Mosè e Aronne, distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri lavori!” (Es 5,4). Non c'è tempo, non c'è spazio per nuove avventure. I ritmi incalzanti del vivere quotidiano precludono ogni spazio e tolgono ogni speranza di cambiamento e di evoluzione spirituale ed umana, trascinando la nostra vita in uno stato di inconsapevole schiavitù, impostaci dalla quotidianità. Non c'è tempo per Dio. Non è semplice iniziare un cammino di riscatto e di liberazione. Una dura lotta tra Dio e il faraone ha preceduto, infatti, l'inizio dell'avventura rigenerante di Israele. Ma sarà soltanto il passaggio del mar Rosso, che segna il confine tra il passato e il futuro, a dare inizio alla nuova avventura in cui protagonista, si badi bene, è Dio non il popolo, che invece rimpiange i tempi della schiavitù (Nm 11,4-6). È dunque il passaggio attraverso le acque rigeneranti della Parola di Dio (1Pt 1,23), che fa la differenza e che crea il confine tra il prima e il dopo della propria vita, tra la schiavitù e la liberazione, tra una vita degradante e quella rigenerata e rigenerante, poiché questa è una Parola viva ed efficace, che produce ciò che dice (Eb 4,12). Da questo momento in poi tutte le cose cambiano e Israele dovrà imparare a dialogare con il suo Liberatore; non avrà più come referente l'aguzzino egiziano, che lo schiavizzava, ma Jhwh, con la potenza creatrice ed evolutrice della sua Parola liberatrice, che accompagnerà il suo popolo ai piedi dell'Oreb dove lo insignirà di una nuova dignità e identità fino ad allora sconosciute: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Avviene qui una nuova creazione: quello che prima era non-popolo ora è popolo, divenuto proprietà di Dio e non più del faraone. Ma tutto ciò è condizionato all'ascolto accogliente della Parola, lasciato alla libera scelta di Israele: “se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza”. È dunque la Parola accolta che genera la nuova identità di Israele e che crea il mutamento esistenziale di quello che prima era un non-popolo. Non è dunque il popolo che si è dato una dignità, ma Dio ha operato in lui il cambiamento per mezzo della sua Parola accolta. Ma non è sufficiente questo, si rende necessario anche il “conservare l'alleanza” inaugurata dalla Parola, cioè perseverare in essa, dando in tal modo spazio a Dio nella propria vita, facendo delle esigenze di Dio la propria forma mentis, che consente di vedere le cose dalla prospettiva di Dio ed operare in conformità alle sue logiche. Ma Jhwh non si limita a condurre il suo popolo fuori dall'Egitto e a dargli un'identità, consacrandolo a se stesso come sua proprietà, ma, sotto forma di nube prima e di Tenda del consiglio poi, Egli cammina con e in mezzo al suo popolo: “Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (Lv 26,11-12). Egli dunque è un Dio che vuole entrare in comunione con il suo popolo condividendone la vita per poterlo associare alla propria. Ed è proprio questa comunione divina, fondata sull'accoglimento e sulla conservazione della Parola, che salvaguarda l'identità d'Israele, garantendogli un'esistenza umana veramente libera. E sono proprio loro, i Giudei, che alla provocazione di Gesù sulla sua capacità di liberazione, risponderanno “Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?”(Gv 8,31-32). È la coscienza e l'orgoglio di un popolo che sa, al di là degli eventi storici, che il suo essere libero dipende dal suo essere e rimanere in Dio, fedele all'Alleanza.

La parabola del figlio ritrovato (Lc 15,11-32); una storia di peccato e di riscatto rigenerante

Benché Luca con la sua parabola del figlio ritrovato intendesse soltanto rintuzzare le pretese di superiorità spirituale degli scribi e dei farisei nei confronti di quelli che loro consideravano soltanto degli impuri destinati alla perdizione, come i pubblicani e i peccatori (15,1-2), tuttavia, in seconda lettura, ci ha fornito in modo ineguagliabile anche il concetto di peccato e di conversione colti nella loro dinamica di relazione con Dio. La nostra analisi si limiterà ai vv.11-24, che ci forniscono il materiale per la nostra riflessione.

Il racconto si suddivide in quattro quadri narrativi:

  1. vv.11-13: il figlio più giovane pretende dal padre la sua parte di beni e, ricevutili, se ne va in una regione lontana e là dissipa la sua sostanza vivendo in modo dissoluto;

  2. vv.14-16: dopo aver dilapidato le sue sostanze, ci fu una grande carestia, che lo gettò nell'indigenza; per sopravvivere, si unì ad un cittadino di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci e preso dalla fame desiderava mangiare le carrube dei porci, ma nessuno gliene dava;

  3. vv.17-19: toccato il fondo, il giovane rientra in se stesso e, considerata la sua situazione disastrosa, progetta di ritornare alla casa paterna;

  4. vv.20-24: e levatosi, ritorna dal padre, che, vistolo da lontano, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo copre di baci. Il figlio incomincia a recitare il discorso che si era preparato, ma il padre neppure lo ascolta e dà ordine ai servi di rivestire il figlio delle vesti migliori, di mettergli un anello al dito e dei sandali ai piedi e, quindi, di far grande festa.


Il primo quadro (vv.11-13) presenta un figlio che si appropria delle sostanze del padre, benché gli spettassero di diritto in quanto erede; ma egli le pretende, e se ne va in una regione lontana, dove dissipa i suoi beni vivendo in modo dissoluto. Ecco che cos'è il peccato, non tanto una violazione di qualche prescrizione morale o di qualche comandamento -per questo nessuno si dannerà, rientrando ciò nelle logiche della fragilità umana segnata profondamente dalla colpa originale- ma l'andare in una regione lontana dal Padre, cioè l'allontanarsi da Dio e spendere la propria vita lontani da Lui. Questo allontanamento esistenziale porta a dissipare il bene della propria vita, avendola reindirizzata verso se stessi e verso le cose, in un cammino autoreferenziale. Significativo in tal senso è il verbo greco “¡mart£nein (amartánein), che si traduce con peccare, ma che in realtà dice molto di più: esso significa letteralmente “deviare, non cogliere, fallire, perdere, essere privato, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità e da ciò che è giusto”. Qui non si parla più di una qualche azione sbagliata, ma di un orientamento esistenziale sbagliato e tale che rende inique e perverse anche le cose oggettivamente buone, poiché il loro compiersi non è più rivolto verso Dio. È il Male che intacca e rende vana ogni cosa buona. Ecco perché il giovane vive in modo dissoluto, perché ha perso il senso delle cose e della vita. Non è più Dio il suo referente, ma se stesso e il proprio autosoddisfacimento.

Il secondo quadro (vv.14-16) presenta gli effetti del peccato, dell'orientamento esistenziale sbagliato: la propria vita viene dilapidata e dispersa nella futilità del vivere, che, a giochi finiti, non paga, ma porta l'uomo in una condizione di grave carestia, che è avvenuta proprio in quella regione lontana da Dio; carestia che significa privazione dei beni essenziali per il vivere, ponendo quindi l'uomo in una condizione esistenziale di morte. Questo stato di cose crea necessariamente un profondo senso di disorientamento e di disagio esistenziali, che spingono il giovane, ormai lontano dalla casa paterna, a cercare la soluzione in altri uomini, che come lui abitano in quella regione lontana da Dio, e la soluzione che essi offrono lo porta ad una situazione di degrado esistenziale insostenibile e senza vie di uscita: accudire i porci, desiderando di nutrirsi del loro cibo.

Il terzo quadro (vv.17-19) presenta il giovane che rientra in se stesso e qui trova la risposta al suo problema; nel rapporto con se stesso, con la propria coscienza, dove lo attende la Voce della Verità e con cui egli dovrà confrontarsi, pena il proprio fallimento esistenziale, che lo apre alla morte. Sant'Agostino, in tal senso, sollecitava: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (Non uscire, ritorna in te stesso, nell'uomo interiore abita la verità). È qui dunque, nell'intimità di questo suo sacrario divino, che l'uomo trova il momento del suo riscatto. Rientrare in se stessi dove, nel silenzio della propria coscienza, l'uomo incontra Dio. È qui che scatta la spinta evolutiva; qui che l'uomo ritrova il senso del proprio vivere che lo porta a rialzarsi.

Il quarto quadro (vv.20-24) presenta gli effetti di questo ripensamento interiore: “levatosi andò da suo padre”. Quel levarsi parla di riscatto, di una forza interiore ritrovata che spinge il giovane in un cammino di ritorno al Padre. È il senso della conversione: il riorientare la propria vita verso il Padre, dove il giovane ritroverà la sua dignità perduta. La conversione è il cammino esatto contrario a quello del peccato. E il Padre lo stava attendendo e gli corre incontro abbracciandolo, accogliendolo nuovamente nella casa abbandonata e ricostituendolo nella sua primitiva dignità di figlio. Il figlio comincia a sciorinare la sua richiesta di perdono, che si era preparato meticolosamente; ma il Padre neppure lo ascolta, poiché il ritorno del figlio vale ben più di qualsiasi discorso; del resto, già da quell'attesa paziente e vigile del Padre traspare evidente il perdono già concesso al figlio.

È sconcertante come il padre in tutto il racconto venga presentato come una figura totalmente passiva rispetto al figlio, quasi succube: nessuna opposizione alle sue decisione sbagliate, nessun tentativo di mandare dei servi a cercarlo o a vigilare sul suo comportamento, nessuna minaccia, nessuna prospettiva di punizione, ma soltanto un'attesa vigile e paziente. Certamente un comportamento anomalo per un padre. Ma questo è il comportamento di Dio, che rispetta le nostre decisioni e le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano, e in tutto questo non vi è nessuna condanna, ma solo un'amorevole attesa del nostro ritorno. Tutto ci è già stato perdonato in Cristo (Rm 8,1); non c'è bisogno di altro perdono, se non della nostra risposta esistenziale a questo perdono incondizionato di Dio. È la logica della storia della salvezza, che può anche fallire a causa nostra, non certo di Dio. Quello che Dio doveva fare lo ha fatto: ha inviato suo Figlio e ci ha lasciato la sua Parola e continua ad illuminarci nell'intimità della nostra coscienza. Ora il gioco è soltanto nelle nostre mani e la parola chiave vincente si chiama “conversione”, che non è soltanto un atto occasionale, ma sistematico. Conversione come scelta di vita; conversione come stile qualificante del proprio vivere; conversione che è ricerca di comunione con Dio. Una conversione che ha la sua radice e il suo motore nella Parola di Dio; conversione quale risposta esistenziale alla Parola di Dio, che ci interpella (Mc 1,15).


Giovanni Lonardi