APPUNTI DI ANTICHITA’ CRISTIANE
Storia della Chiesa antica
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PREMESSA: IL PROBLEMA STORICO
Prima di affrontare la storia della Chiesa è necessaria una
breve e sintetica premessa su ciò che intendiamo per storia, la
scansione dei tempi entro cui essa si muove, i suoi metodi di ricerca,
i concetti di storia della chiesa che si sono sviluppati nel corso del
tempo, cioè come lo storico concepiva il cammino della chiesa
all’interno del tempo.
Il termine “Storia” deriva dal greco “istoria”
che significa indagine, investigazione, ricerca. La storia, quindi,
è la scienza che investiga e svolge ricerche sul passato
dell’uomo; di conseguenza, lo storico è colui che svolge
indagini e ricerche sul passato umano, che assume un duplice aspetto:
quello di vissuto e di conosciuto. Non tutto il vissuto, però,
è anche conosciuto e ciò perché il vissuto
abbraccia spazi storici decisamente superiori al conosciuto. Inoltre,
l’approcciarsi dello storico al vissuto non è mai ingenuo
e oggettivamente aperto, ma è sempre selezionante e spinto da
interessi di vario genere. Ciò dipende dalla natura stessa
dell’uomo, in quanto essere libero e intelligente, e dai suoi
condizionamenti.
Il tempo viene convenzionalmente distinto in Passato, Presente e Futuro.
Il Passato, in quanto già vissuto, non è più
modificabile, ma, tuttavia, è influente sul Presente anche se
non ne abbiamo consapevolezza; e tanto più ne ha quanto
più ne siamo inconsapevoli, perché sfugge alla nostra
coscienza e al nostro controllo.
Il Futuro è un tempo non compiuto, anche se è
condizionato dal passato e dal presente. In tal senso è
già virtualmente occupato. Infatti, sull’esperienza del
passato e da esso condizionati, produciamo nel presente programmi per
il Futuro che ci condizionano nelle nostre scelte nel Presente.
Il Presente è il momento della valutazione, della decisione e
della responsabilità, quale condizione della libertà.
L’uomo, come soggetto storico, è l’essere che vive
nel presente, ma preso dentro e condizionato dal Passato e dal Futuro.
L’uomo nel presente produce intenzioni che, poi, si attuano in
azioni: queste, nel loro insieme, costituiscono la Storia. La Storia,
quindi, è una storia di intenzioni che si fanno azioni. Essa,
pertanto, non può essere soltanto una mera conoscenza dei fatti,
ma deve essere soprattutto un conoscere le motivazioni e le intenzioni
di chi ha prodotto i fatti. Il fatto in sé dice poco; quello che
conta è capire il contenuto intenzionale e motivazionale che lo
ha prodotto. Quindi i fatti vanno sempre letti e interpretati.
Alcuni affermano (V. Marx, Engel, ecc.) che ci sono delle leggi
intrinseche alla storia che regolano in senso generale i fatti e la
Storia stessa in cui tali fatti sono prodotti. Se ciò fosse
vero, verrebbe eliminata o notevolmente condizionata la libertà
dell’uomo, schiavo di queste Leggi superiori verso le quali deve
inchinarsi. Verrebbe annientata l’individualità e la
libertà dell’uomo e, quindi, anche la sua
responsabilità.
Fare lavoro storico significa, in particolar modo, raccogliere i fatti
e interpretarli. È, quindi, un lavoro di ermeneutica.
METODO DEL LAVORO STORICO
Esso si sviluppa essenzialmente su tre livelli: 1) Affinità; 2) Distanze; 3) Tradizione.
Affinità
Chi studia deve ricreare in sé l’epoca e il personaggio
oggetto del suo studio. E’ un immaginare come si è
sviluppata la storia o come può essersi comportato un
personaggio. E’ un entrare in “simpatia” con
l’epoca storica e i personaggi oggetto di studio. Si cerca,
idealmente, di creare dentro di se un feeling con queste realtà
storiche.
Distanza
Bisogna, però, anche prendere una giusta distanza dai fatti, con
cui si è entrati in “simpatia”, per fare una
valutazione oggettiva degli stessi e del loro effetto nella storia. Si
tratta di formulare, in definitiva, il significato oggettivo dei fatti
stessi.
Tradizione
La Tradizione è un insieme di fatti, con la loro conseguente
produzione di effetti, che portano l’uomo ad assumere, come
spontanei e scontati, certi punti di vista, sfociando spesso in
pregiudizi o luoghi comuni.
Quindi il lavoro storico consiste nell’immaginare dentro di
sé il passato, creare con questo un certo feeling, pensare sul
come si è svolto, valutandolo, poi, oggettivamente e
raffrontandolo con le Tradizioni, che costituiscono i luoghi comuni
fino al pregiudizio.
La storia della Chiesa è un settore della ben più ampia
storia dell’umanità. Essa, quindi, ne fa parte e ne
risente degli influssi.
Ciò che fa la storia della Chiesa è l’immagine che
la Chiesa ha di se stessa, che porta dentro di sé e che ha dato
di se stessa nel tempo.
Questa immagine e raffigurazione di sé la Chiesa se
l’è creata nel tempo in una interazione con
l’ambiente esterno, talvolta favorevole e talvolta ostile, e con
il proprio interno, costituito dalla propria organizzazione, cultura,
pensiero, tendenze e, soprattutto, coscienza, sempre più
affiorante, della propria missione. Queste due realtà, interna
ed esterna, interagiscono tra di loro condizionandosi reciprocamente e
a seconda delle situazioni più o meno contingenti.
Per una corretta comprensione della storia della Chiesa va tenuto conto
non solo dei fatti oggettivi ed esperibili, prodotti dalla Chiesa nel
corso dei secoli, ma anche della coscienza che la Chiesa ha avuto di
sé e della propria missione, della sua fede, della sua duplice
dimensione orizzontale (aspetto storico-sociale) e verticale (aspetto
spirituale e divino) che rispecchiano inconfondibilmente la duplice
natura umana e divina del suo Fondatore, il Cristo, che essa incarna
sacramentalmente nel corso dei secoli e della Storia.
LE CONCEZIONI DELLA STORIA DELLA CHIESA
Il primo storico della Chiesa fu Eusebio, che nella sua opera
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convinzione che questa sia condotta dalla provvidenza divina.
Diversamente S.Agostino (354-430), nella sua Città di Dio, vede
la storia della Chiesa svolgersi dinamicamente e in modo dialettico:
contrapposizione del Vangelo con l’ambiente esterno ostile
e le resistenze che questo trova.
Già nei primi cinque secoli della Chiesa, quindi, si delinearono
due orientamenti fondamentali nel concepire la dinamica storica della
Chiesa: uno di tipo prevalentemente provvidenziale e assistenziale;
l’altro di tipo dialettico e di contrapposizione.
Intorno al 14° secolo, alle soglie ormai del rinascente umanesimo,
si era formata la tendenza a mettere sotto critica della ragione la
storia della Chiesa. Ma l’intento naufragò per lo scoppio
all’interno della Chiesa stessa, tra il 15° e 16° secolo,
del movimento rivoluzionario della Riforma protestante, seguita dalla
Controriforma cattolica e sancita definitivamente dal Concilio di
Trento (1545-1563).
La contrapposizione delle parti, Protestante e Cattolica, ha fatto
sì che si scadesse in una apologia dalle forti tinte
polemiche, la cui preoccupazione principale non era la ricerca e
l’affermazione della verità, bensì il
consolidamento della propria posizione.
Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese si apre un nuovo
fronte contro la Chiesa. L’affermazione della ragione sulla fede,
del positivismo sulla teologia. Tutto deve passare al vaglio della
ragione e tutto viene accettato nella misura in cui il tutto passa
indenne da questo vaglio. Si andò affermando, di conseguenza, un
perentorio atteggiamento critico non solo verso la Chiesa e la sua
fede, ma anche verso i Vangeli, la figura di Gesù, di Paolo e
delle Scritture in genere. Tutto è stato rimesso in discussione.
Oggi si ritiene importante, nel valutare la storia della Chiesa,
l’analisi dei documenti, da cui nascono delle domande e si
pongono delle questioni che spingono alla ricerca e ad una maggiore
comprensione.
Due sono le figure e i modi di affrontare la storia della Chiesa: quello storico e quello teologico.
Entrambi affrontano l’argomento da posizioni e da punti di vista
contrapposti, ma che necessariamente si devono integrare tra loro,
ricomponendosi in un’unica ricomprensione della Chiesa.
Lo storico parte dai fatti, dall’osservare come la Chiesa si
è comportata e realizzata nel corso dei secoli, rilevando poi le
costanti, che accomunandosi tra loro ne delineano il carattere, la
personalità e la natura.
Il teologo, invece, parte dal sapere che la natura della Chiesa
è umano-divina e in questa prospettiva fa una lettura dei fatti.
I due procedimenti, quindi, sono inversi: lo storico dai fatti risale
alla natura della Chiesa e al suo contenuto di fede; il teologo,
invece, parte dalla coscienza della natura umano-divina della Chiesa
per arrivare ad una comprensione profonda e intima dei fatti e della
storia.
ALCUNE LINEE DI SVILUPPO
Dalla storia della Chiesa si sono sviluppate separatamente tre aree di studio:
- La Patrologia
- L’Archeologia cristiana
- Storia dei dogmi
La Patrologia è lo studio della vita, delle opere e del pensiero
dei Padri della Chiesa. Questi sono i primi teologi che hanno
sviluppato la teologia e la dottrina cristiane, contribuendo alla
formazione del pensiero cristiano. Essi costituirono una barriera
apologetica contro le eresie, che tra il II e III sec. hanno trovato un
grande sviluppo.
Essi furono, all’interno della Chiesa, dei saldi punti di riferimento del cammino cristiano e della fede.
L’Archeologia cristiana è la scienza che, avvalendosi del
sapere e delle tecniche proprie dell’archeologia, riporta alla
luce reperti archeologici propri del cristianesimo, dando una
testimonianza concreta e storica di ciò che fu il cammino di
fede e del cristianesimo lungo il corso dei secoli.
Il Dogma (dal gr. dogma che, a sua volta deriva da dokew, significa
opinione, decisione) è uno strumento utilizzato dalla Chiesa e
prevalentemente, ma non esclusivamente, sviluppatosi tra il XVIII e il
XIX sec. per opposizione all’Illuminismo, che metteva in
discussione e sotto critica le verità della Fede. In tale
periodo, ma non solo, la Chiesa codificò con bolle e decreti
verità che dovevano essere ritenute assolutamente certe e
indiscutibili e facenti parte della rivelazione divina, avvenuta per
mezzo della Chiesa stessa. Con tale formulazione la Chiesa si presenta
come semplice mezzo trasmettitore di verità rivelate.
Nell’ambito della storia, la prima solenne proclamazione del
dogma si ritrova nel concilio di Nicea, nel 325, a proposito della
questione ariana, che tratteremo più avanti.
STORIA DELLA CHIESA
- L’ANTICHITÀ -
PREMESSA
L’oggetto della storia della Chiesa, come già abbiamo
sopra accennato, è l’insieme delle immagini che essa ha
saputo trasmettere di se stessa nel corso dei secoli.
Idealmente la si può suddividere in quattro momenti:
- Chiesa
antica
(I – VI sec.)
- Chiesa
medievale
(VI – XIV sec.)
- Chiesa della Controriforma (XV – XVII sec.)
- Chiesa contemporanea (XIX ad oggi)
Caratteristiche dei quattro periodi:
Chiesa antica (I – VI° sec.)
Questo periodo è caratterizzato da una iniziale
conflittualità con l’impero romano ricompostasi poi con
l’avvento della svolta costantiniana (313), che integrò la
Chiesa nella struttura stessa dell’impero, dandole in tal modo
una rilevanza sociale prima sconosciuta. Qui la Chiesa, uscita dalle
catacombe, incomincia a darsi una propria organizzazione interna che
risente della struttura imperiale e sarà tale da prenderne il
posto quando, a partire da Costantino (330), gli imperatori
abbandoneranno Roma e si stabiliranno a Costantinopoli.
E’ il periodo delle grandi eresie e dei grandi concili, il
periodo in cui la Chiesa approfondisce il proprio contenuto teologico e
dottrinale, recepito e codificato, poi, dai quattro grandi Concili di
Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451).
E’ il periodo in cui nasce il monachesimo.
L’epoca antica finisce nel VI° con il papa Gregorio Magno
(590-604), mentre l’ultimo imperatore cristiano fu Giustiniano
(482-565).
Chiesa medievale (VI° - XV° sec.)
La fine dell’Impero romano (476) fu segnata dalle invasioni
barbariche. In questo contesto la Chiesa non solo ha fatto da
mediatrice tra le macerie dell’Impero e queste nuove popolazioni
del Nord, ma ha assorbito in se stessa queste nuove energie e trovando
in esse una nuova vitalità da cui nascerà, poi, il Sacro
Romano Impero, che coinvolgerà sempre più la Chiesa nella
temporalità e nella terrestrità. E’ il periodo dei
vescovi principi, dei papi guerrieri, delle lotte per
l’investitura, di una sfrenata rivalità per il potere
conteso tra imperatori e papi.
E’, ancora, il periodo della grande spaccatura con la Chiesa d’Oriente (1057) consumatasi in reciproche scomuniche.
Fu un lungo periodo di quasi dieci secoli in cui la Chiesa,
gradualmente, ha perso sempre più la propria identità
originaria e, conseguentemente, il senso della sua missione spirituale
fino a provocare una reazione che sfociò nella Riforma.
Chiesa della Riforma e Controriforma (XVI° - XVIII° sec.)
La Chiesa, invischiata in impegni quasi esclusivamente temporali e in
concorrenza con il potere imperiale, ha sempre più perso il
senso della propria missione fino a provocare una reazione al proprio
interno che sfociò nella Riforma protestante, luterana e
calvinista.
La Chiesa rispose con una Controriforma nata più per contrastare
la Riforma protestante che per una propria esigenza interna.
I tratti della Riforma e Controriforma, quest’ultima codificata
nel Concilio di Trento, furono caratterizzati dalla polemica, dalla
apologia e da un sostanziale rapporto di forza che ha radicato le
due parti sulle loro posizioni, lacerando la Chiesa e creando in essa
due anime contrapposte che ancor oggi, a fatica, si tenta di
riconciliare.
Chiesa moderna (XIX° - ad oggi)
Con l’avvento della Rivoluzione francese e la nascita
dell’Illuminismo tutto il vecchio mondo europeo, sorto dalle
rovine dell’impero romano, è percorso da una nuova ventata
portata dalla luce della Ragione. Tutto viene posto sotto critica e al
vaglio della Ragione.
Anche la fede e le sue fonti, fino ad allora accettate supinamente, vengono sottoposte ad una dura critica.
E’ l’epoca delle grandi trasformazioni sociali e delle
lotte di classe, della formazione definitiva degli stati europei;
l’epoca della “Rerum novarum”; è il periodo
della formulazione delle grandi teorie economico-sociali che
travolgeranno il mondo con due guerre e lo spaccheranno tra due
ideologie, tra due grandi visioni della storia, della società e
dell’uomo: capitalismo e comunismo.
Un’epoca in cui la Chiesa, quasi superata dagli eventi stessi,
è chiamata a dare delle risposte a se stessa e al mondo, che
attorno a sé sta cambiando in rapida evoluzione, con ritmi fino
ad allora sconosciuti.
ANTICHITA’ CRISTIANE
La storia della Chiesa antica può idealmente essere divisa in
Chiesa precostantiniana e postcostantiniana. Il 313, quindi,
funge da spartiacque tra due periodi che vedranno una radicale
evoluzione e trasformazione della Chiesa e che la porteranno alla sua
definitiva affermazione. Ciò produrrà la definitiva morte
del mondo pagano e un cambio culturale in seno alla società.
Per comprendere l’evoluzione della Chiesa antica ci rifaremo a
delle date meramente indicative, nella coscienza che l’evoluzione
delle persone e della società non ha mai delle date precise e
perentorie, ma segue sempre quella propria dell’uomo, attore
primo della sua storia.
Fino al 150 la Chiesa è ancora legata alle piccole
comunità, alla “casa-chiesa”, le domus ecclesiae, al
Vangelo tutto da scoprire e da comprendere e, soprattutto, da
diffondere. E’ il periodo del primo concilio di Gerusalemme nel
49, riportato negli Atti degli Apostoli al cap. 15 e che trova anche
una risonanza nella lettera ai Galati di Paolo (Gal 2,1-10).
E’ l’epoca della sua grande espansione che ha trovato in Paolo il suo motore potente e instancabile.
E’ il periodo delle persecuzioni e dei martiri; il periodo in cui
la Chiesa sta formandosi nella propria identità, sta emergendo
come entità importante all’interno del mondo antico.
Dal 150 al 313
E' il periodo in cui la Chiesa si incontra e si scontra con la cultura
romana e in particolare con quella ellenistica. Sarà questo
l’intermezzo precostantiniano in cui la Chiesa formulerà i
suoi approfondimenti teologici e dottrinali. E’ una Chiesa che
deve spiegare a se stessa e al mondo, che la interpella, i contenuti
della propria fede, anche perché già in questo periodo
nascono le prime avvisaglie delle grandi eresie che la travaglieranno
lungo tutto il IV e V secolo.
E’ il periodo in cui nasce il monachesimo (250 circa) quale
movimento di richiamo all’austerità del cristianesimo.
Dal 313 al 400
E’ questa l’epoca costantiniana; la Chiesa esce dalle
catacombe e assume un ruolo sociale importante. Essa, ora, è
riconosciuta dallo Stato e ad essa vengono attribuiti onori,
elargizioni e, via via un sempre maggiore riconoscimento anche
nell’ambito giuridico e legislativo. Si profilò, quindi,
una sorta di cristianizzazione del diritto e un’attribuzione di
uno statuto speciale al clero. Ciò portò ad una graduale
e consistente ingerenza di Costantino e degli imperatori successivi
nell’ambito ecclesiastico.
E’ questo il periodo in cui si formano le grandi eresie
controbattute dall’apologia e dall’approfondimento
teologico e dottrinale che, successivamente, ma già nel 325,
verrà recepito e codificato nei grandi Concili : Nicea (325);
Costantinopoli (381); Efeso (431); Calcedonia (451). E’
l’epoca dei grandi Padri della Chiesa e dei grandi apologisti.
E’ il periodo in cui la Chiesa si dà una struttura solidamente gerarchica e mette ordine al proprio interno.
Nel V secolo si affacciano alla Chiesa le prime controversie con le
Chiese di Oriente sia per motivi culturali e politici che ecclesiali.
Questi si alimenteranno sempre più nel corso dei secoli fino
alla rottura definitiva del 1057, in cui tra reciproche scomuniche, si
realizza il primo grande scisma all’interno della Chiesa.
LA CHIESA E IL CONTESTO STORICO-CULTURALE E RELIGIOSO DELLE SUE ORIGINI
La Chiesa nasce a Gerusalemme ed è caratterizzata da tre fattori fondamentali:
1) Gesù morto e risorto da cui si origina la prima comunità di credenti.
2) Dono dello Spirito (Pentecoste): avvenimento fondante la Chiesa.
3) Comprensione profonda della figura di Gesù e del suo messaggio.
Non appena la Chiesa muove i primi passi si scontra subito con il
Giudaismo, che tante tensioni provocherà in essa, fino al
“concilio” di Gerusalemme (49) e oltre.
Si dovrà, inoltre, confrontare, con il mondo culturale e sociale romano ed ellenistico in cui è nata e si muove.
Ma fu proprio grazie all’Impero romano, che per la sua estensione
e la sua fitta rete commerciale e stradale (378.000 Km. di strade
collegavano tutto l’Impero) e la sua organizzazione, di cui si
servì, che il cristianesimo poté espandersi rapidamente.
Inoltre, l’Impero romano aveva creato una unità
linguistica, il greco della koinè, che facilitava la
comprensione tra tutti i popoli. Infatti il N.T. fu scritto tutto in
greco, così come Paolo scrive in greco. E per testimoniare tale
diffusione basti pensare che la Bibbia ebraica fu tradotta, intorno al
II° sec. a.C., in greco ad Alessandria di Egitto, dove vi era una
fiorente comunità di ebrei.
La stessa lingua della Chiesa dei primi quattro secoli fu il greco
della koiné. Sarà papa Damaso I° che intorno al 380
introdurrà la lingua latina nella liturgia della Chiesa
occidentale assumendola, poi, come lingua ufficiale della Chiesa
d’occidente. Fu sempre papa Damaso che in questo periodo
affidò la traduzione della LXX a S.Girolamo. Nacque così
la Vulgata.
MONDO GIUDAICO E IL CONTESTO STORICO
Il giudaismo, nato dopo il ritorno dall’esilio, si era, ai tempi
di Gesù, frantumato in molte sette, ma aveva dei capisaldi
comuni:
- Rigida e ormai consolidata professione del Monoteismo;
- Pratica della Legge;
- Culto del Tempio.
Le sette prevalenti ed emergenti anche dai testi evangelici furono:
Sadducei: la classe nobile dei sacerdoti, discendenti da Sadoq, sommo
sacerdote ai tempi di Salomone (970 – 933 a.C.); essi sono dei
tradizionalisti e conservatori. Prediligono l’ordine costituito,
per cui scendono a patti con i Romani invasori e temono ogni agitazione
e ogni novità che possa favorire l’intervento di Roma,
squalificandoli davanti ai Romani. Per cui guardano con sospetto il
movimento di Gesù, la sua figura e la prima comunità di
discepoli.
Farisei: sorti come movimento di rivitalizzazione della fede e della
pratica della Legge dopo le guerre maccabaiche, nel 150 a.C., questi
laici si “separarono” dal resto dei popolo per dedicarsi
allo studio della Legge e alla sua pratica meticolosa. Essi vennero
detti “i separati” (perushim). Benché definiti
“separati”, tuttavia essi vivono sempre a contatto con il
popolo e sono, in genere, bene accettati. Contrariamente a come sono
presentati dai Vangeli, essi, in realtà, sono persone molto pie,
devote, costituiscono e sostengono l’anima religiosa del popolo.
Sono scrupolosi osservanti della Legge.
Esseni: altro movimento religioso-monastico sorto contemporaneamente ai
Farisei nel 150 a.C. circa. Essi, guidati dal Maestro di Giustizia, in
ottemperanza al versetto di Isaia “Nel deserto preparate la via
del Signore” (Is.40,3), si ritirarono nel deserto nella
località di Qumran dove vissero una vita monastica. Ai tempi di
Gesù, come testimonia Giuseppe Flavio in “Guerra
giudaica” , essi erano circa 4.000 organizzati in gruppi da 10,
50, 100, presieduti da un sacerdote. Essi erano in aperta rottura con
il Tempio e stranamente non sono mai stati citati nel Vangelo.
Zeloti: fu un gruppo minoritario, ma estremista che mal sopportavano
l’invasore romano e sempre pronti a risolvere la questione con le
armi. Saranno loro a fomentare la rivolta del 66 che porterà,
poi, alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70. Guerra che si
concluse nel 73 con la conquista della fortezza erodiana di Masada a
sud del Mar Morto.
Nel suo nascere la Chiesa incontra un duplice ambiente: quello giudaico e quello greco-romano.
Lo sfondo religioso è plurimo: giudaismo, politeismo, religioni
misteriche; diffusa è l’aurispicia e la divinazione
in genere.
Il mondo, inoltre, in cui il cristianesimo si sta impiantando è
in rapida evoluzione. In particolare, il politeismo è in declino
e c’è una tendenza ad unificare le molteplici
divinità: sì, tanti nomi, ma unico è il dio.
Un’altra tendenza è l’enoteismo: tante
divinità, ma su di loro emerge e prevale un unico dio che
sovrasta gli altri.
Il cristianesimo, invece, afferma che Gesù è Dio ed è unico e universale.
Un serio problema si impose ai cristiani dall’epoca di Augusto:
la divinizzazione e il culto dell’imperatore, che procurò
persecuzioni, talvolta, particolarmente cruenti, in particolare sotto
Domiziano (96) e sotto Diocleziano (284-305) creando all’interno
della Chiesa molte defezioni e molti martiri e, soprattutto, si pose il
problema di quei cristiani che avevano ceduto (lapsi) o che in qualche
modo ottennero un salvacondotto (libellati) o che avevano bruciato solo
dell’incenso agli dèi (turificati).
Sempre in tale periodo, si vanno diffondendo le religioni misteriche
che, con grande forza vitale e suggestiva, iniziavano ai culti
misterici e affermavano che partecipando al rito si entrava in
comunione con la divinità, condividendone la vita.
Le due culture, greca e romana, pur mantenendo la propria
identità, si vanno tra loro fondendo e integrando. Esse sono
caratterizzate dalla filosofia, che sviluppa l’uso della ragione
e della critica. La Chiesa dei primi secoli, infatti, dovrà
prevalentemente misurarsi e giustificare i contenuti della propria fede
con la cultura ellenistica. Sarà, proprio, dovuto
all’atteggiamento mentale critico, favorito da questo tipo di
cultura, che nasceranno le prime eresie, che costringeranno la Chiesa
ad approfondire la propria fede e a formulare le sue prime dottrine.
Diversa è la cultura romana, di tipo più pragmatico che
speculativo. Essa è la cultura del diritto e
dell’organizzazione. Una cultura che è finalizzata alle
cose da fare, all’organizzare, agli obiettivi da raggiungere.
Con questo tipo di cultura la Chiesa trova, da un punto di vista
espressivo e dottrinale, maggiori spazi, ma essa deve rispondere della
sua utilità e della sua funzione all’interno
dell’Impero romano. Infatti i Romani erano tolleranti con le
religioni dei popoli conquistati al punto tale da creare a Roma un
Pantheon, dedicato a tutte le divinità di tali popoli. La loro
benevolenza era, prevalentemente, finalizzata a unificare nella
religione la varietà dei popoli soggetti al dominio romano. La
religione, quindi, in quanto collante dell’impero, era bene
accolta da Roma, purché non creasse problemi. Cosa che,
invece, successe con quella cristiana, che proibiva il culto e la
divinizzazione dell’imperatore.
Agli inizi del proprio cammino la Chiesa, in particolare quella di
Gerusalemme, non si era ancora evoluta dal giudaismo e, anzi,
rischiò di esserne fagocitata. Ci volle il concilio di
Gerusalemme (49 d.C.) per definire che i convertiti potevano aderire al
cristianesimo senza obbligo di sottoporsi prima alla religione giudaica
(Legge mosaica e circoncisione). Inoltre, i discepoli frequentavano
ancora il Tempio e celebravano le feste giudaiche secondo i riti e il
calendario giudaico. L’organizzazione di queste prime
comunità rispecchiava quello sinagogale.
Infatti, il cristianesimo dei primi tempi era considerato una delle tante sette giudaiche.
Ma, nonostante ciò, la prima Chiesa già aveva in
sé degli elementi che la distinguevano dal giudaismo. Essi sono
sostanzialmente tre: La Convinzione; le Celebrazioni e la Vita pratica.
La Convinzione
- Il Messia atteso è giunto e questi si identifica in Gesù;
- La Bibbia va riletta e reinterpretata in chiave profetica e fatta convergere verso Gesù.
- Spiccato senso degli ultimi tempi e
dell’imminente venuta di Gesù che avrebbe posto fine alla
storia degli uomini e inaugurato il nuovo mondo.
Le Celebrazioni
La liturgia era semplice e si fondava su tre elementi:
- Il Battesimo, quale rito di iniziazione;
- La Cena del Signore o eucaristia;
- Ascolto della Parola.
La Vita pratica
Era una vita caratterizzata dall’amore, o meglio,
dall’agaph, dalla carità, da un atteggiamento di apertura,
di accoglienza e tolleranza che provocherà la derisione da parte
dei romani che, invece, concepivano il rapporto con gli altri come
rapporto di forza.
Nell’ambito della Chiesa madre di Gerusalemme, ancora legata
culturalmente e religiosamente al giudaismo, si pone la questione: se
Gesù è veramente l’inviato di Dio, ha ancora valore
il Tempio, la Legge, la circoncisione?
Stefano, uno dei sette diaconi, di cultura ellenista e, quindi,
culturalmente più aperto e meno legato al rigido giudaismo,
risponde che ciò non ha più senso (At. 6,9-14).
Per accedere, dunque, al cristianesimo non è più
necessario passare attraverso il giudaismo, la quale cosa venne anche
confermata nel concilio di Gerusalemme (At. 15).
Stefano venne ucciso e il suo gruppo perseguitato e disperso. I
superstiti si rifugiarono ad Antiochia dove fondarono una nuova
comunità (At. 11,19-20) che sarà in antitesi a quella di
Gerusalemme. Quest’ultima raccoglie i giudeocristiani, quella
accoglie gli etnocristiani, cioè i convertiti dal paganesimo.
Sarà questa comunità a far da base operativa a Paolo e
dove, per la prima volta i discepoli di Gesù sono chiamati
cristiani.
Nell’anno 66 d.C. a Gerusalemme, per opera degli Zeloti, scoppia
una rivolta contro i romani che, inizialmente sconfitti, si
riprenderanno Gerusalemme con Vespasiano e Tito nel ’70. La
guerra, narrata da Giuseppe Flavio in “Guerra Giudaica” ,
terminerà definitivamente nel 73 con la conquista della fortezza
erodiana di Masada a sud-ovest del Mar Morto dove i 960 occupanti
morirono suicidi; si salvarono solo 2 donne e 5 bambini.
In questa guerra, secondo Giuseppe Flavio e Tacito, morirono circa 600.000 persone.
Durante tale rivolta di liberazione, i cristiani si posero la questione
se anch’essi dovessero intervenire e prendere le armi contro i
romani. La risposta fu negativa perché la loro era una religione
dell’amore, del perdono e della tolleranza.
Fu così che tali comunità si dispersero, rifugiandosi a Pella.
Ciò fu visto dai giudei come un atto di tradimento che
causò la prima grande lacerazione tra la prima Chiesa e il
Giudaismo.
Nel 132-135 vi fu una seconda grande rivolta a Gerusalemme, capeggiata
da Shim’on ben Kossiba, che da rabbi Aqivà fu salutato
come il messia con il titolo di bar Kokhbà (figlio della
stella). Fu una guerra sanguinosissima, che provocò circa
850.000 morti. Gerusalemme venne distrutta e in parte ricostruita con
il nome di Aelia Capitolina e ai giudei fu proibito di mettervi piede.
I cristiani si dispersero nuovamente e si rifugiarono a Cesarea Marittima.
LA FORMAZIONE DEL CRISTIANESIMO
Il cristianesimo nascente si distingue in tre grandi aree:
- Area Paolina;
- Area dell’Asia minore;
- Area di Roma
Le comunità dell’area paolina sono caratterizzate da una
spiccata coscienza della loro novità e la loro struttura
è di tipo carismatico.
Quelle dell’area dell’Asia minore, legate a Giovanni,
mantengono ancora legami con il giudaismo e celebrano la Pasqua con il
calendario ebraico, il 14 di Nisan; per questo sono chiamate
“quarta decimana”.
Infine, l’altra grande area di Roma fu importante sia
perché Pietro e Paolo vi trovarono il loro martirio, sia
perché in questa città vi era la presenza di due
importanti e grosse comunità ebraica e cristiana. La loro
presenza provocò degli scontri e dei tumulti per
l’attivismo della comunità cristiana, così che
l’imperatore Claudio scaccerà da Roma i proseliti di
entrambe le comunità (49/50 d.C.). Sarà proprio in questo
frangente che Aquila e Priscilla (At. 18,2) si incontreranno con Paolo
e ne diventeranno sostenitori e amici.
La prima letteratura cristiana
Fino al 150 si sviluppò una prima letteratura cristiana, di cui
si ricordano le seguenti 7 opere: Lettera di Clemente ai Corinti (96);
Le sette lettere di Ignazio; lettere di Policarpo, accoppiata al
martirio di Policarpo; Scritti anonimi: Didaché (100 d.C.);
lettere di Barnaba (pseudonimo); Pastore di Erma.
Organizzazione delle prime chiese
Inizialmente le prime chiese erano numericamente piccole con una
organizzazione semplice e incipiente; ciò si rileva anche a
livello ministeriale: struttura semplice e non ancora ben
differenziata: si enumera la categoria degli episcopi, presbiteri e
diaconi. Le loro funzioni, però, non sono ancora ben distinte e
delineate e i confini dell’una si sormontano con quelle delle
altre. Sono figure ancora ben lontane da quelle nostre attuali.
I Simboli di Fede
I simboli di fede ereditati dalla tradizione sono due: il Simbolo Apostolico e il Simbolo Niceno-costantinopolitano.
Il Simbolo Apostolico si forma tra il 100 e il 150 d.C. – La
formulazione che abbiamo oggi è documentabile a partire dal
IV° secolo.
Come si è formato tale Simbolo apostolico?
Già nelle primissime comunità cristiane si trovavano in
uso brevi formule comuni di fede che ruotavano tutte attorno a Cristo e
attraverso le quali veniva codificato ed espresso il comune credo.
Esse si possono riunire in tre gruppi : brevissime formule a un
elemento, in cui compare solo il nome di Gesù; a due elementi,
in cui compare il nome di Gesù e di Dio; a tre elementi in cui
compaiono i nomi di Gesù, Dio e Spirito Santo.
Esempi di formule di fede:
Ad un elemento
“Gesù è il Signore” (1 Cor. 12,3 e Rm. 10,9)
A due elementi
“Per noi c’è un solo Dio, Padre dal quale tutto
proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in
virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per
lui” (1Cor.8,6)
A tre elementi
“La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e
la comunione dello Spirito Santo” (“Cor.13,13)
“Battezzate le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt.28,19)
Formule più dettagliate
“Quello che ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri
peccati secondo le Scritture; fu sepolto ed è risuscitato il
terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor. 15,3 e ss.)
“Il Vangelo di Dio ...riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe
di Davide secondo al carne, costituito Figlio di dio con potenza
secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai
morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm.1,3 e ss.)
Tali formule sono nate per esigenze liturgiche, di culto e per contrapposizione al giudaismo o ai detrattori del cristianesimo.
La fusione di queste ed altre formule variamente sparse nel N.T.
originano il Simbolo Apostolico, che diventa una espressione sintetica
della Fede. In esso, in quanto confessato, diventa la misura
dell’ortodossia e delle eresie.
Quale coscienza hanno le chiese di se stesse?
Esse hanno la coscienza di essere delle comunità tra loro in
Comunione (koinonia). Concepiscono la Pace come appartenenza alla
comunità cristiana. Infatti sulle tombe la scritta “Riposa
in Pace” aveva il senso che questo tale riposa unito alla
comunità cristiana. Avevano, infine, la coscienza di essere
delle comunità di Amore, di Agaph.
Con questo vocabolario le Chiese dicono a tutti che i cristiani sono in
comunione tra loro e membri di un’unica comunità superiore
e che tra loro fanno comunione.
La cosa viene attestata dalle Lettere di comunione, le quali
certificavano che il latore di tali lettere partecipava
all’eucaristia di quella comunità e, quindi, poteva
partecipare a tutte le celebrazioni presso le chiese dove si recava.
Ciò sta a dimostrare l’unità di tutte le chiese e
l’unica fede nel Cristo morto e risorto celebrato nell’
Agaph.
Successivamente, con sorgere delle chiese eretiche, si pose il problema
di individuare non più la chiesa, bensì i responsabili
delle chiese ortodosse.
Nacquero, così, elenchi di vescovi cattolici-ortodossi. Tali
lettere, quindi, divennero a tal punto strumento di individuazione
dell’ortodossia.
Ma che cos’è questa “comunio”? Su cosa si
fondava? Essa è la partecipazione all’eucaristia che
mette, per l’appunto, in comunione i cristiani tra loro e questi
con il Signore, formando in tal modo un unico corpo (1Cor 10,17).
Tale comunione, tuttavia, non si limita ad una semplice partecipazione
all’eucaristia, ma ha come presupposto la retta fede di tutti i
credenti, che si richiamano alla comune fede battesimale.
Altro elemento di “comunio” è il discernimento dei
vescovi, cioè il criterio di valutazione e di approvazione delle
questioni riguardanti la fede, All’interno dei vescovi si fa
strada l’idea che il vescovo di Roma ha una sua peculiarità
La Comunio, dunque, era essenzialmente fondata su tre elementi:
- Fede battesimale, come dottrina e prassi
- Eucaristia
- Vescovi, ai quali era demandato il criterio di
discernimento e di approvazione delle questioni di fede e di
comunità. Al loro interno emergeva un riconoscimento della
peculiarità del vescovo di
Roma.
Il contrario di comunione è la scomunica. Essa è la
proibizione di partecipare alla cena del Signore. Chi può
scomunicare è il presidente della comunità: il vescovo o
il presbitero; oppure era lo stesso interessato che si autoescludeva
dall’eucaristia per gravi offese arrecate contro il Vangelo o
alla comunità stessa.
Tuttavia la scomunica doveva trovare convalida presso tutti i vescovi
delle comunità, altrimenti rimaneva scomunicato lo scomunicante.
Da qui la prassi di indire periodicamente dei sinodi per deliberare
questioni riguardanti la fede e linee comuni di amministrazione delle
comunità.
Il Sinodo si svolgeva sempre a livello regionale; per questo ci si
preoccupava dell’apostolicità delle chiese, nel senso che
sinodi e chiese dovevano sempre trovare il loro radicamento
nell’insegnamento degli Apostoli. Per garantire tale
Apostolicità ci si riferiva alle chiese maggiori.
In tal modo, intorno al 240/250 si fece strada l’orientamento di
riferirsi come criterio di apostolicità alla chiesa di Roma,
come chiesa di Pietro e Paolo. Tuttavia, ancora non si era sviluppata
l’idea di “primato” di Roma o del papa. In questo
periodo più che di primato si deve parlare di
peculiarità, di particolare attenzione verso questa chiesa come
chiesa.
LA CHIESA NEL PERIODO DAL 150 AL 300
Fino al 150 la chiesa era poco conosciuta e ritenuta una variante del
Giudaismo. Ma dal 150 in poi le autorità civili e la stessa
società dovettero prendere atto della diffusione delle chiese e
del loro rapido espandersi.
Di fronte a questa nuova dottrina, che in vario modo interferiva con la
vita pubblica e sociale e spingeva ad interrogarsi e a confrontarsi,
nascono le prime reazioni di diffidenza, che spesso sfociavano in
atteggiamenti persecutori o in vere e proprie persecuzioni,
benché episodiche e quasi mai sistematiche se non a partire dal
250 fino al 305.
Intorno al 200 l’Impero Romano era di circa 70 milioni di
abitanti e in esso i cristiani erano circa 700.000/1.000.000. La
presenza dei cristiani, ovviamente, non era omogeneamente diffusa, ma
presentava una diffusione a macchie di leopardo.
Parallelamente a Gerusalemme, dove sorse la prima comunità
credente, formata prevalentemente da giudeo-cristiani, sorse ad
Antiochia un’altra piccola comunità molto vivace, fondata
da cristiani ellenisti. Essa ha costituito la base e il centro di
diffusione del cristianesimo paolino e il luogo dove per la prima volta
i discepoli di Gesù vennero chiamati cristiani (At 11,26).
Altre presenze consistenti di chiese si rilevarono in Asia minore e in
Grecia, in Egitto ad Alessandria, fiorente città di cultura e di
commercio dove vi era anche una forte presenza di ebrei e dove, intorno
al III sec., si avrà un grande sviluppo del cristianesimo; in
Africa latina (Libia e Cartagine); in Spagna, ma solo a Tarragona; in
Francia, ma solo a Lione e Vienne. In Germania, invece, non si rileva
nessuna presenza cristiana prima del III° sec. Molte, invece, sono
le comunità cristiane nell’Italia del sud.
Dal 200 al 300 la popolazione dell’Impero romano si riduce a 50
mil.; il calo di 20 mil. è dovuto prevalentemente alle guerre e
alle pestilenze.
Intorno al 300 la presenza cristiana nell’impero era di circa 10 mil.
Apologie dei Padri della Chiesa
Alla fine del I° sec., dopo l’epoca dell’età
apostolica conclusasi con la morte di Giovanni, si apre
l’età dei Padri della Chiesa che si possono definire come
i primi teologi, filosofi e giuristi; questi presero le difese della
dottrina della Chiesa. I Padri si possono raggruppare in greci e latini
e suddividere in tre periodi :
- Dalle origini al Concilio di Nicea (325)
- Da Nicea a Calcedonia (451)
- Dal V° all’ VIII° sec.
Essi si cimentarono su quattro linee di difesa: contro il Giudaismo;
contro il Paganesimo greco-romano; contro gli Gnostici; contro le
eresie trinitarie e cristologiche.
Apologie contro il Giudaismo
Tra i padri più importanti si ricorda S.Giustino con la sua
opera “Dialogo con Trifone” e il trattato “Contro i
Giudei” di Tertulliano.
Il “Dialogo con Trifone” è il più antico
scritto cristiano antiebraico pervenutoci. E’ un’opera che
si sviluppa in 142 capitoli. Viene riportata una lunga discussione,
durata due giorni e avvenuta ad Efeso, tra Giustino e un ebreo colto,
forse il rabbino Tarfon.
Nell’opera Trifone accusa i cristiani di :
- aver abbandonato il monoteismo dei padri;
- aver tradito l’attesa messianica;
- essersi esonerati dall’osservanza della Legge.
Ribatte Giustino :
- i cristiani non hanno abbandonato il monoteismo,
poiché il Dio dei Padri è il Padre stesso di Gesù;
- la Legge ha avuto una funzione pedagogica: ci
doveva portare fino a Gesù; ora lui è la vera ed eterna
Legge per l’umanità;
- Gesù è il vero Messia ed è la chiave di lettura di tutta la Bibbia.
L’opera di Tertulliano “Contro i Giudei” ricalca un
po’ lo schema del “Dialogo con Trifone” di Giustino.
L’opera riassume il dialogo durato un giorno intero tra un
cristiano e un ebreo e messa per iscritto per chiarire la
verità. La sua fonte primaria è il “Dialogo con
Trifone” ed è un’opera rimasta allo stato di abbozzo.
Apologie contro il Paganesimo greco-romano
Il contesto socio-culturale
Già si è sopra accennato come il diffondersi del
cristianesimo aveva provocato una reazione sociale e culturale
nell’ambiente pagano, che si vide nella necessità di
confrontarsi con questa ormai diffusa religione che ne metteva in
discussione dèi e tradizione dei padri.
Aspetti sociali
Le accuse principali, rivolte contro i cristiani, furono sostanzialmente tre:
- Lesa divinità
- Lesa maestà
- Inerzia
Lesa divinità: il culto pubblico nell’Impero romano era un
atto di riconoscimento ufficiale in cui si ringraziavano gli dèi
di aver voluto Roma e il suo Impero. Quindi era un riconoscere che alla
base di Roma e del suo Impero c’era la volontà divina.
Non partecipare a tale culto significava offendere tale fede e lo Stato romano stesso.
Pertanto, chi non partecipava veniva imputato del “Crimen lesae
maiestatis”; un’accusa questa che veniva applicata solo in
casi particolari o in situazioni di eventi eccezionali.
Lesa maestà: gli imperatori erano considerati
“divini” e, pertanto, come tali erano oggetto di culto.
Chiaramente i cristiani non potevano aderire al culto
dell’imperatore, per cui venivano accusati di “Lesa
maiestatis”.
Inerzia: Marco Aurelio accusava i cristiani di essere dei disfattisti,
che non si curavano dell’Impero e della cosa pubblica. Tale idea
se l’era formata dai montanisti i quali, attendendo la fine dei
tempi e il giudizio finale, si disinteressavano dei beni presenti.
Oltre a ciò, egli rilevò come i cristiani non si
interessassero alla carriera pubblica; da ciò trasse la
convinzione che ad essi non interessava lo Stato e, pertanto, venivano
tacciati di neghittosità. In realtà i cristiani non
aspiravano a cariche pubbliche perché questo comportava la
partecipazione al culto pubblico e dell’imperatore, cose,
ovviamente, proibiti dal cristianesimo.
Aspetti culturali
La Filosofia, così tradizionalmente cara ai greci, era concepita
come una formazione e un’arte del vivere. Essa era un veicolo di
tradizioni e affondava le proprie radici nell’antichità.
Logos e Nomos erano le due vie dell’educazione alla vita.
Il Logos esprimeva la sapienza degli antichi padri accumulata nel corso
dei secoli, mentre l’antichità forniva pregio agli
insegnamenti.
Ma il Logos esprimeva anche il Nomos che, invece, codificava e regolamentava il modo di vivere proposto dal Logos.
L’accusa contro i cristiani, quindi, si riassumeva nei termini di
“ignoranza e presunzione”, in quanto essi vogliono scalzare
l’antica sapienza dei padri con la loro “filosofia”
assurda di recente costituzione. Essi sono, dunque, ignoranti e
presuntuosi.
Per i Romani i cristiani erano pericolosi perché hanno abbandonato il Mos Maiorum che ha fatto grande Roma.
Ma che cos’era il Mos Maiorum?
Per Cicerone era la Religio, cioè la fedeltà alla
divinità; mentre per Tito Livio era la capacità, che i
Romani hanno avuto, di saper prendere da tutti i popoli conquistati il
meglio delle loro culture e religioni.
Ma il popolo come considerava i cristiani?
Esso si esprimeva prevalentemente secondo queste tre linee:
- Loda i cristiani per le loro virtù;
- Accusa i cristiani di essere la causa di tutte le
disgrazie perché hanno offeso gli dèi abbandonandoli.
- Si danno a pratiche cannibalesche, riferendosi chiaramente all’eucaristia.
In questo clima e in questo contesto culturale nascono nei momenti di
crisi le persecuzioni e si sviluppa il terreno fertile per le Apologie.
LE PERSECUZIONI
Premessa
Il termine persecuzione è molto generico e indica vari episodi
che hanno plurime manifestazioni. Esse furono locali, centrali del
potere o imperiali, cioè estese a tutto l’Impero.
Le persecuzioni in genere fino all’anno 250 d.C. furono
occasionali e sporadiche, per lo più locali e si
differenziavano, per intensità e durata, in ciascuna provincia.
Apparivano, in genere, come esplosioni di odio o rancore più che
azioni proprie dello stato sistematiche e disposte preventivamente. Ci
si muoveva in base ad un diritto di tipo generale, poiché
mancavano leggi specifiche di merito. Sarà solo da Decio (250)
in poi che le persecuzioni troveranno anche una base giuridica e
saranno sistematiche ed estese a tutto l’impero. I cristiani
erano colpiti come singoli o gruppi, ma mai come comunità
ecclesiale. Una svolta in tal senso, invece, si avrà con
Diocleziano che provocò un enorme danno alle chiese come
comunità e puntava alla estirpazione sistematica non tanto dei
singoli cristiani, quanto delle comunità stesse. Sotto di lui,
infatti, furono distrutti luoghi di culto, libri sacri, fatti
prigionieri e costretti alla abiura i capi delle comunità e poi
uccisi e infine la persecuzione fu estesa indistintamente a tutti i
fedeli.
A seguito di questa feroce persecuzione, molti documenti sono stati
distrutti e numerose testimonianze sono andate perdute; per questo ci
è pervenuta poca documentazione sulla vita delle chiese dei
primi tre secoli.
Per questo periodo, reso cieco dalla persecuzione, prevalente punto di
riferimento è l’opera di Eusebio “Storia
ecclesiastica”.
Le motivazioni
I Romani hanno perseguitato i cristiani per motivi religiosi o
politici? Porre questa domanda non è realistico, poiché
questa distinzione rispecchia la nostra mentalità, ma non quella
dei Romani per i quali politica e religione erano un binomio
strettamente inscindibile: la religione era, da un lato, fondamento
dello Stato e, dall’atro, era ad esso finalizzata.
La tolleranza romana verso le varie religioni dei popoli conquistati
era in realtà solo parziale; infatti la “Pax deorum”
chiedeva di venerare gli dèi dell’Impero che hanno fatto
grande Roma e l’hanno voluta come potenza imperiale. Vi era,
quindi, un obbligo, quale segno di fedeltà e lealtà verso
lo Stato, di venerare esclusivamente gli dèi di Roma. Fu solo
successivamente, per tolleranza e convenienza politica, che i Romani
concessero ai popoli vinti di continuare il culto dei loro dèi,
ma con obbligo di anteporre a questi il culto di quelli romani.
In genere, comunque, si può affermare che gli imperatori non
furono dei sanguinari che avevano in odio i cristiani, ma restauratori
della “pietas” romana verso gli dèi che si scontrava
con il fermo rifiuto dei cristiani del politeismo e del culto
all’imperatore.
La questione delle persecuzioni, pertanto, non è un problema
astratto, ma concreto e va ricercato, di volta in volta, nei
comportamenti dei singoli imperatori e delle situazioni che ne
circostanziavano le decisioni. Ciò spiega perché a lunghi
periodi di tranquillità scoppiava, quasi all’improvviso,
la persecuzione.
Le cause delle persecuzioni si possono sostanzialmente raggruppare in due parti:
- motivazioni politico-religiose;
- motivazioni popolari.
Motivazioni politico-religiose
La “Pax deorum”, strettamente legata al culto pubblico,
comportava l’obbligo da parte dei cittadini di tutto
l’impero il culto degli dèi di Roma che si ritenevano il
fondamento stesso della grandezza e potenza.
Sottrarsi, quindi al culto pubblico era considerato un atto contro
l’integrità dello Stato e dell’Impero e, pertanto,
perseguibile.
Inoltre, già con Giulio Cesare (54 a.C.) era invalso l’uso
di divinizzare, dopo la sua morte, l’imperatore, benché,
ancor prima, ci fosse stata la tendenza ad associare l’imperatore
o le sue qualità alla divinità (ad es. a Roma si era
costruito un tempio alla Clemenza di Cesare).
Tale tendenza, nel corso del tempo, lentamente si trasformò in
divinizzazione dell’imperato vivente con obbligo di culto divino.
Ben presto il culto imperiale si consolidò diventando elemento
di prova di fedeltà e lealtà verso lo Stato e
l’imperatore.
Non tutti gli imperatori, tuttavia, pretesero apertamente il culto alla
loro persona, benché quasi tutti a partire da Ottaviano Augusto
associarono al proprio nome l’appellativo di “divus” .
Con Domiziano (81-96 d.C.), per la prima volta, si accentuò
l’assolutismo e con questo, apertamente, si associò il
culto divino alla sua persona; egli si faceva chiamare “Dominus
et Deus”.
E’ evidente che, posta in questi termini, per i cristiani la
situazione diventava insostenibile, considerata la loro fermezza nel
riconoscere un unico Dio e suo Figlio Gesù Cristo.
Per questo loro rifiuto di sacrificare agli dèi di Roma e
all’imperatore, essi furono accusati di ateismo e di essere
nemici dello Stato.
La loro religione, con l’atto giuridico del senatus consultum
(delibera del senato) del 35 d.C., fu considerata “religio
illicita”, cioè non riconosciuta dal Senato, che respinse
la proposta di Tiberio (14-37 d.C.) di riconoscerla, invece, come
“religio licita” non tanto per avversità contro il
cristianesimo, ma per affermare la propria indipendenza
dall’imperatore.
Motivazioni popolari
Accanto alle motivazioni politico-religiose che, comunque, non sempre
furono determinanti per decidere di perseguire i cristiani,
accompagnandosi quasi sempre con situazioni di difficoltà o di
crisi interne dello Stato o dell’Impero, affiorarono anche
motivazioni di tipo popolare, che si concretavano prevalentemente in
credenze basate su chiacchiere e maldicenze, che si traducevano in
diffamazioni nei confronti dei cristiani circa i loro riti e il loro
stile di vita.
Ciò succedeva perché i cristiani, diventati ormai numero
consistente penetrato a diversi livelli sociali, sentiti come una
società chiusa all’interno della società,
conducevano una vita ritirata e non lasciavano trasparire chiaramente
la loro dottrina e i loro culti. Questo modo di vivere, velato o
occultato dal silenzio, provocò il sospetto dell’ambiente
in cui vivevano e da qui la diffidenza e le accuse più assurde e
irrazionali.
Da un punto di vista sociale questo costituì una sorta di difesa
da ciò che non si conosceva e che, quindi, si temeva.
Le accuse, le più disparate, si traducevano in mormorazione su
“culti delittuosi”, di “banchetti tiestei”
durante i quali i cristiani avrebbero mangiato carne umana
(eucaristia), su atti lussuriosi incestuosi (dall’uso dei
cristiani di chiamarsi fratello e sorella); inoltre si attribuì
loro la colpa di tutte le catastrofi naturali, le pestilenze e le
disgrazie pubbliche per il loro rifiuto di sacrificare agli dèi.
In genere furono accusati di “odium humani generis”
per il loro rifiuto di partecipare alle cariche pubbliche, agli
spettacoli del circo, per il loro vivere appartati e organizzati in
comunità chiuse.
Pertanto, i cristiani dei primi secoli vissero in una atmosfera ostile
che sfociò, spesso, in misure di particolare violenza da noi
chiamate persecuzioni.
Si parlò di “dieci” persecuzioni romane. In
realtà esse furono molte di più se si considerano tutti
gli atti di repressione, di contrasto e processo; molte di meno se si
considerano le sole repressioni sistematiche e generali avvenute, per
altro, molto tardi (tra il 250 e il 305 d.C.).
LE PERSECUZIONI
L’epoca delle persecuzioni si estende dal 64 d.C. (Nerone) al 311 d.C. (editto di Galerio).
Tale periodo può essere suddiviso in 4 fasi:
1° fase: fino al 100 d.C. circa, le persecuzioni si manifestano come fenomeni repressivi sporadici e occasionali.
2° fase: periodo che va da Traiano (98-117) a Marco Aurelio
(161-180) in cui si cerca di regolare la questione cristiana per mezzo
di rescritti.
3° fase: periodo che va dal 180 al 250, dalla morte di Marco
Aurelio all’avvento di Decio, ci fu una situazione pendolare: di
fatto i cristiani dovrebbero essere perseguitati, invece sono
tollerati. Fu un periodo di sostanziale tranquillità in cui la
Chiesa non solo poté espandersi, ma conquistò anche le
classi aristocratiche e i funzionari dello Stato, consolidando,
inoltre, la propria struttura.
4° fase: periodo che va dal 250 al 311: è l’epoca
delle grandi persecuzioni di Decio (249-251); Valeriano (253-260);
Diocleziano (284-305).
Se le persecuzioni si considerano come atti ostili contro i cristiani,
allora già nel 33 d.C. circa, vediamo la chiesa di Gerusalemme
perseguitata dai giudei, ma solo contro gli ellenisti e tra questi, in
particolar modo Stefano che venne lapidato.
Un secondo atto persecutorio contro gli ebrei e i cristiani della
comunità di Roma fu promulgato da Claudio, nel 49 d.C. con un
editto di espulsione, per sanare radicalmente i disordini sorti, per
l’appunto tra ebrei e cristiani, in quanto quest’ultimi
erano molto attivi nel proselitismo.
Vittime di questa espulsione furono Aquila e sua moglie Priscilla, che
si rifugeranno a Corinto e diventeranno coadiutori di Paolo.
Tuttavia se escludiamo questi due fatti episodici ed occasionali, una
vera e propria persecuzione iniziò con Nerone a seguito
dell’incendio di Roma.
Nerone (54-68 d.C.)
La persecuzione scatenata da Nerone nel luglio del 64 d.C. fu del tutto
occasionale a seguito di un incendio che devastò Roma e di cui
egli fu il colpevole. Quindi, per scagionarsi dalle accuse di aver
provocato l’incendio e stornare da lui il furore popolare,
accusò i cristiani, che perseguitò e condannò a
morte in modi atroci : furono crocifissi, dati alle belve come
spettacolo, usati come torce umane o rivestiti di pelli di animali
selvatici e dilaniati cosi dai cani.
La persecuzione durò un anno e si spense da sola.
Nerone, comunque, al di là del fatto contingente, non
elaborò mai una politica contro il Cristianesimo, né
mostrò una ostilità persistente contro i cristiani.
Tale persecuzione ci viene riportata da Tacito negli
“Annales” al cap. 15,44 e accennata da Svetonio nella
“Vita dei Cesari”, senza però alcun accenno
all’incendio.
Il fondamento giuridico di tale persecuzione si ritrova nel senatus
consultum del 35 d.C. sotto Tiberio (14-37 d.C.) che dichiara il
cristianesimo “religio illicita”. Essa fu limitata alla
città di Roma e l’accusa non fu di aver appiccato
l’incendio, bensì di odio verso il genere umano, che
trovava il suo fondamento nella vita riservata dei cristiani e nel loro
rifiuto di partecipare alla vita pubblica, al fine di evitare
l’obbligatorio culto pubblico.
Domiziano (81-96 d.C.)
Dopo la persecuzione di Nerone, i cristiani godettero di un periodo di
trent’anni di sostanziale tranquillità sotto Vespasiano e
Tito.
Con l’avvento di Domiziano, negli ultimi anni della sua vita,
egli accentuò il suo assolutismo e, per primo, promulgò
il culto all’imperatore anche da vivo. Egli si fece chiamare
“Dominus et Deus” e pretese di conseguenza l’adeguato
riconoscimento religioso, che trovò, ovviamente,
l’opposizione e il rifiuto dei cristiani. Da qui la persecuzione
che , secondo Lattanzio, fu di “efferata crudeltà”.
Vittime di questa persecuzione furono suo cugino, il console Flavio
Clemente, mentre sua moglie Flavia Domitilla venne esiliata. Numerose
furono anche le vittime tra la società nobile, e ciò
lascia trasparire il grande livello di penetrazione del cristianesimo.
Altra vittima illustre fu Giovanni, esiliato nell’isola di Patmos dove scrisse l’Apocalisse.
Nerva (96-98 d.C.)
Con l’avvento degli Antonini si inaugura un periodo di
distensione nei confronti dei cristiani; tuttavia per tutto il II°
secolo la situazione è caratterizzata più che dalla
persecuzione, da un clima di paura e di precarietà; i cristiani
vivono, comunque, sotto la minaccia di denunce e torture.
I loro timori derivano più che dalla crudeltà degli
imperatori, dalla ostilità delle popolazioni pagane e giudaiche.
Con Nerva cessa la persecuzione domizianea, perché egli non
condivide la divinizzazione dell’imperatore come il suo
predecessore.
Traiano (98-117 d.C.)
Con Traiano si cerca di regolamentare la questione cristiana in modo più civile e meno traumatico.
Basilare, per il comportamento da tenere verso i cristiani, è la
lettera di Plinio il Giovane (112 d.C.), governatore della Bitinia, con
cui egli chiede delucidazioni al suo amico e sovrano Traiano sul da
farsi nei confronti dei cristiani che gli vengono presentati.
Traiano risponderà con un rescritto suggerendo che “i
cristiani non devono essere ricercati, ma se sono accusati e sono
convinti di colpa, bisogna punirli. [...] Quanto, poi, ai libelli
anonimi non devono essere accolti ....”
Dai due testi (lettera di Plinio e rescritto di Traiano) si evince quanto segue:
- Non esistono leggi specifiche contro i cristiani;
- Non si parla mai di persecuzioni di massa, ma di singoli casi di natura occasionale;
- L’unico capo di accusa è quello di essere cristiani;
- Le norme date da Traiano sono di ordine empirico
più che giuridico, e per altro, sono anche contraddittorie, cosa
che rileverà anche Tertulliano.
Adriano (117-138 d.C.)
Adriano assume un atteggiamento sostanzialmente equo e positivo nei
confronti dei cristiani, rilevabile da un rescritto (128 d.C.) a
Minucio Fundano, proconsole dell’Asia.
In esso scrive “Se l’accusatore riesce a provare che i
cristiani fanno veramente qualcosa contro la legge, tu puniscili
secondo la gravità del delitto. Se, invece, qualcuno prende
questo pretesto per calunniare, non lasciarti sfuggire tale colpa e
punisci a dovere”
Antonino Pio (138-161 d.C.)
Anche Antonino Pio segue l’esempio dei suoi predecessori Traiano
e Adriano; e in una lettera indirizzata all’assemblea federale
dell’Asia vieta di incolpare i cristiani di ateismo e di
perseguire, invece, chi ha loro ingiustamente dato fastidio.
Secondo alcuni, però, questo scritto non è autentico,
perché se così fosse i cristiani non potevano più
essere perseguitati.
Marco Aurelio (161-180 d.C.)
Marco Aurelio, fu un filosofo stoico: All’inizio del suo governo
si sommarono assieme una serie di sfortunate coincidenze (carestia,
peste, barbari ai confini) che portarono alla sollevazione della
plebe contro i cristiani accusati, per il loro ateismo, di essere la
causa di tutti questi mali. Inoltre Marco Aurelio aveva una particolare
antipatia verso i cristiani che accusava di “inerzia” in
quanto che non partecipavano alla vita pubblica e alla pubblica
carriera. Fu così che scatenò una violenta persecuzione
contro i cristiani.
Nonostante ciò Marco Aurelio non emanò alcun editto speciale, limitandosi a confermare le direttive di Traiano.
Martiri di questa persecuzione furono Giustino con sei suoi compagni, e altri ancora.
Con l’avvento di Comodo (180-192 d.C.), ultimo degli Antonini, vennero giorni più tranquilli per le chiese.
Settimio Severo (193-211 d.C.)
E’ un africano e intende ristabilire l’ordine
nell’impero. Inizialmente fu tollerante verso i cristiani, ma in
seguitò emanò un editto che proibiva sotto grave pena sia
la circoncisione che il battesimo. Un provvedimento che tenta di
impedire il progressivo diffondersi sia dell’ebraismo che del
cristianesimo.
La persecuzione durò solo alcuni anni.
Massimino il Trace (235-238 d.C.)
Fu il primo barbaro sul trono dei Cesari. Per odio contro i Severi che
avevano protetto e favorito i cristiani, scatenò una
persecuzione, ordinando di uccidere solamente i capi della Chiesa su
cui pesava la responsabilità della diffusione del Vangelo. La
persecuzione, che infierì particolarmente in Cappadocia e nel
Ponto, durò pochi anni per sopraggiunta morte
dell’imperatore.
LE GRANDI PERSECUZIONI
Decio (249-251 d.C.)
Fu un militare rozzo e pieno di energie; quando salì al potere
instaurò una politica di grande restaurazione dello Stato, ormai
in piena decadenza.
Per questo stabilì che tutti i cittadini, compresi i cristiani,
facessero atto di lealismo agli antichi dèi e all’impero.
Era, quindi, una manifestazione politica e religiosa che mirava al
compattamento dei popoli e dell’impero.
Al rifiuto dei cristiani, scatenò una persecuzione generale,
sistematica e di massa, voluta con determinazione e precisa nelle
procedure. In ogni località dell’Impero costituì
una commissione di cinque persone con il compito di convocare davanti a
sé gli abitanti, comprese donne e bambini, e di imporre loro di
sacrificare davanti agli dèi o dell’incenso davanti alla
statua dell’imperatore.
A tutti quelli che accettavano veniva rilasciato un certificato di
sacrificio (libellus). Chi, invece, rifiutava veniva sottoposto dalla
commissione ad ogni sorta di pressioni: minacce, torture, prigione,
fino alla morte.
Fu una persecuzione inattesa, un fulmine a ciel sereno, e molti
cristiani, presi dallo spavento, tradirono la fede: sono i famosi
lapsi. Numerosissime furono le defezioni, molti sacrificarono agli
dèi (sacrificati); altri ancora bruciarono incenso davanti alla
statua dell’imperatore o degli dèi (thurificati); altri,
infine, corrompendo la commissione, si procurarono dei certificati
senza, però, tradire la fede (libellatici).
Tutti quelli che, a vario titolo, cedevano erano automaticamente fuori
dalla Chiesa, che subì una impressionante riduzione di effettivi
in pochi mesi.
In una chiesa così decimata e quasi priva di guida, assunsero
una figura importante i confessores, cioè quei cristiani che per
la testimonianza della loro fede erano imprigionati e rischiavano la
morte da un momento all’altro. Essi furono meta di pellegrinaggio
da parte dei lapsi, che venivano a chiedere il perdono, ricevendo da
loro il libellus pacis con cui venivano reintegrati nella Chiesa, senza
imporre loro nessuna penitenza.
Quando vennero liberati essi conservarono gran parte del loro prestigio, entrando in concorrenza con un clero ormai indebolito.
Questa concorrenza provocò due gravi scismi all’interno della Chiesa.
In Africa, per la rigidità di Cipriano di Cartagine che non
volle riammettere i lapsi se non in punto di morte, il sacerdote Novato
e il diacono Felicissimo si opposero provocando uno scisma e furono
scomunicati. Tuttavia, la paura di ulteriori conflitti interni
suggerì alla Chiesa africana un più moderato
atteggiamento verso i lapsi, ma ormai era troppo tardi: lo scisma si
era consumato.
A Roma il sacerdote Novaziano, che aveva sostenuto ad interim la
cattedra del Vescovo di Roma, rimasta vacante dopo la morte di Fabiano
per la durezza della persecuzione, si fece sostenitore di un forte
rigore con i lapsi.
Quando il clero di Roma elesse come vescovo Cornelio, Novaziano si fece
eleggere a sua volta, prodigandosi per essere riconosciuto da tutte le
chiese. Si produsse una forte tensione all’interno della Chiesa
fino allo scisma.
I martiri in questo periodo furono diverse centinaia, forse qualche
migliaio. Per la strenua resistenza delle chiese, la persecuzione,
durata circa un anno, andò lentamente scemando fino a terminare
verso al fine dell’estate del 251.
Valeriano (253-260 d.C.)
Salito al potere durante l’estate del 253, fu inizialmente, nei
primi quattro anni del suo impero, favorevole ai cristiani che vengono
riammessi alla corte.
Ma le situazioni di difficoltà militari e particolarmente
finanziarie spinsero Valeriano, su istigazione del suo ministro delle
finanze Macriano, a confiscare i beni dei singoli cristiani e delle
chiese in genere. Caratteristica di questa persecuzione, equiparabile a
quella di Decio, fu quella di impadronirsi delle ricchezze e dei beni
delle chiese e dei cristiani.
Pertanto, Valeriano promulgò due editti:
- uno nel 257 con cui ordinava ai capi delle chiese
di sacrificare agli dèi dell’Impero, pena il bando; e ai
cristiani, pena la morte, proibì le assemblee di culto;
- il secondo nel 258 con cui i capi delle chiese che
si rifiutavano di sacrificare venivano puniti con la morte, mentre gli
honestiores, cioè i membri delle classi elevate, venivano
imprigionati e costretti all’abiura, diversamente mandati a morte
e i loro beni confiscati.
Questa persecuzione, assieme a quella di Decio, fu la più
cruenta e terminò nel 259, quando Valeriano fu fatto prigioniero
dei Persiani.
Salì al potere il figlio Gallieno (260-268) che, preoccupato
delle sorti dell’Impero, lasciò in pace i cristiani
concedendo la libertà di culto e restituendo i luoghi di culto e
i cimiteri confiscati.
Con Gallieno ha inizio un altro quarantennio di pace fino al 300 circa.
Diocleziano (284-305 d.C.)
Con l’avvento di Domiziano al potere, l’Impero subisce una radicale riorganizzazione.
Fu diviso in Impero d’Occidente e d’Oriente. Si suddivise in 4 prefetture, 12 dicesi e 96 province.
Capitale dell’Occidente fu Milano e dell’Oriente fu Nicomedia. Roma rimase solo capitale onoraria.
Assunse al governo dell’intero impero altri tre imperatori,
costituendo una amministrazione imperiale formata da due Augusti
coadiuvati da due Cesari:
- Diocleziano, con il titolo di Augusto, insieme a
Galerio, con il titolo di Cesare, governarono l’Oriente;
- Massimiano, con titolo di Augusto, e Costanzo Cloro, con titolo di Cesare, governarono l’Occidente.
In uno Stato così restaurato una Chiesa autonoma e saldamente
gerarchizzata non poteva più essere tollerata
all’interno dello Stato; occorreva una religione ufficiale
sottomessa al potere che facesse da collante morale a tutto
l’Impero. Diocleziano instaurò gli antichi culti pagani
con obbligo per tutto l’Impero.
A tal punto fu inevitabile lo scontro con lo Stato, che fu drammatico.
La persecuzione scoppiò nel 301 circa su istigazione di Galerio
che convinse Diocleziano che i mali di tutto l’impero erano da
addebitarsi ai cristiani, come elementi disgregatori della
società e negatori del culto ufficiale. Ma il vero ispiratore fu
il filosofo neoplatonico Ierocle, proconsole della Bitinia, che
combatteva il cristianesimo anche con gli scritti.
Si cominciò con l’epurazione nell’esercito mettendo
i soldati cristiani di fronte all’alternativa di sacrificare agli
dèi o di essere espulsi dall’esercito.
La fase più acuta della persecuzione si toccò nel 303 in cui Diocleziano emanò ben quattro decreti :
- Nel primo si ordinava la distruzione dei luoghi di culto e i libri sacri bruciati;
- Nel secondo ordinava l’incarcerazione dei capi delle chiese e la loro costrizione a scarificare;
- Nel terzo condannava alla pena capitale coloro che si rifiutavano di sacrificare;
- Nel quarto estendeva l’obbligo di sacrificare
a tutti i cristiani indistintamente, sotto pena di torture e di morte.
Nel 305 Diocleziano si dimette e sale al potere Galerio che continua la
persecuzione in Oriente con tutta la virulenza del suo predecessore e
cessa nel 311 con un editto di tolleranza del 30 aprile, sei giorni
prima di morire divorato dal cancro.
Gli succede Massimino Daia, più fanatico e oltranzista di
Galerio; continuò con recrudescenza la persecuzione, che
dovette, però, abbandonare verso la fine del 312 per intervento
di Costantino; e il 30 aprile 313 venne sconfitto dal suo rivale
d’Occidente Licinio, che ne sterminò i seguaci e
conquistò le sue province.
Nel 313 Licinio e Costantino si incontrano a Milano per consultarsi
sulla situazione politica e religiosa dell’impero. In tale
occasione non vi fu nessun editto, ma un semplice accordo che noi
conosciamo grazie a due lettere scritte da Licinio.
In esso si riconosce “ai cristiani e a tutti gli altri la
libertà di seguire la religione che ciascuno crede”. Ci si
rende ormai conto che in vaste zone dell’impero non si segue
più la religione dei padri, per cui, al fine di evitare continui
e cruenti conflitti sociali, si decide di lasciare il culto della
divinità alla coscienza di ciascuno, senza imporre obblighi.
L’importante è non essere atei, poiché questo
infrangerebbe la Pax deorum attirando l’ira degli dèi.
Inoltre si provvede alla restituzione dei luoghi di culto ai cristiani.
Con queste disposizioni si riconosce il fallimento delle persecuzioni e
la forza del Cristianesimo. Il mondo pagano con quest’ultima
persecuzione viene definitivamente sconfitto dal Cristianesimo e una
nuova svolta epocale si apre per la Chiesa con l’avvento di
Costantino.
LA LETTERATURA CRISTIANA NELL’EPOCA DELLE PERSECUZIONE
L’apologia
Con il termine apologia (dal greco apologia che significa difesa,
giustificazione) si designa un tipo di letteratura sorta nel II°
secolo e volta a difendere il cristianesimo dagli attacchi delle
persecuzioni, delle dicerie contro i cristiani e la loro dottrina e
contro il paganesimo.
I maggiori apologisti del II° secolo furono Giustino e Tertulliano.
Lo schema fisso su cui è strutturata l’apologia è triplice:
- Denuncia dell’ingiustizia della persecuzione, su cui non ci si sofferma molto;
- Critica dei costumi pagani e dell’idolatria; anche qui l’esposizione è breve;
- Presentazione del messaggio cristiano a cui si dava
molto spazio e che nella sua esposizione seguiva una triplice linea di
sviluppo: a) presentazione del credo cristiano; b) esposizione del
culto; c) condotta di vita dei cristiani.
Le apologie, ovviamente, erano rivolte al mondo esterno che era di
costumi pagani e mentre la cultura imperante era quella greco-romana.
Si pose, quindi, il problema di come comunicare il messaggio cristiano
e cioè che Gesù è il Cristo e il Signore. Termini
questi che, per loro natura, erano equivoci per il mondo greco-romano.
“Dominus” o Kuruoj erano titoli che venivano dati ai
sovrani o all’imperatore; mentre Cristoj, traduzione
letterale dell’aramaico Meshia, significa l’unto del
Signore, espressione del tutto incomprensibile in questo tipo di
cultura.
Come fare, dunque?
Gia apologisti hanno, pertanto, sfruttato la filosofia neoplatonica,
che, molto diffusa nel II° secolo, formava lo spirito e la
mentalità dell’epoca, facendo cultura e tendenza.
Questa filosofia, a carattere religioso ed etico, spiegava l’universo secondo uno schema tripartito:
D I O
Essere supremo irraggiungibile
e sconosciuto, avvolto nel silenzio
e immobile
L O G O S
Intermediario tra Dio e il Cosmo
C O S M O
Al vertice di tutto ci sta DIO, essere supremo, irraggiungibile,
avvolto nel silenzio e inconoscibile per l’uomo, immobile
(Tertulliano lo chiamerà il Deus otiosus).
Sotto ci sta il cosmo, regolato da leggi naturali, eterne, immutabili e
necessarie; queste costituiscono il divino incarnato nel cosmo.
Ma come è possibile che un qualcosa del sommo Dio sia in parte
nel mondo? Come è possibile che un eterno, immenso, immutabile
sia presente in una realtà mutevole, finita e corruttibile?
Ci deve essere un qualcosa che fa da intermediario e che collega
l’irraggiungibile e l’inconoscibile Dio eterno e immutabile
con il mondo. Questo è il LOGOS.
Scopo del filosofo non era quello di capire Dio che, in quanto tale,
era inconoscibile e irraggiungibile, ma il Logos, raggiungibile con la
sola ragione e, quindi, a portata di uomo. Conoscere il Logos
significava avere la chiave di lettura della vita, conoscere le regole
che normano il mondo e la natura; per apprenderle valeva il detto
“vivere secondo natura”. E poiché nella natura erano
inserite le leggi eterne, frammenti di Dio inseriti nel mondo, vivere
secondo natura significava riconoscere queste leggi e conformare a
queste la propria vita; significava, così facendo, onorare e
rispettare la divinità presente nel cosmo.
Ora ciò che garantiva l’ordine della vita e la
solidità dei rapporti sociali, dando stabilità e
sicurezza, era la Legge romana; in essa, dunque, è presente il
Logos; per cui il buon cittadino è colui che conforma il proprio
vivere alla legge romana, espressione concreta delle Leggi eterne e
divine presenti nel mondo.
Ed ecco, ora, gli apologisti, inserendosi in quest’ordine
culturale e filosofico, affermano che loro conoscono il Logos e che
questo è stato loro rivelato. Questo Logos ha un nome, si chiama
Gesù. Così dicendo, gli apologisti volevano evidenziare
che questo Logos-Gesù, proprio perché Logos, doveva
interessare a tutti, perché tutti sono in relazione e dipendenti
dal Logos. Diventare cristiani, quindi, non significa rinnegare la
religione dei padri e la sapienza degli antichi, ma, anzi, è
ritrovare la pienezza della rivelazione del Logos degli antichi.
Affermano, inoltre, che tutto ciò che è buono nelle
religioni pagane non solo non contraddice il Logos, ma è, anzi,
una anticipazione del cristianesimo e di questo Logos la cui piena
rivelazione è stata data ai cristiani. Così dicendo gli
apologisti dimostrano che i cristiani, ben lungi dall’essere
nemici del genere umano, sono anzi in stretta simpatia con il mondo e
il resto delle religioni che contengono frammenti di Logos.
Spiritualità del martirio
Il termine martire, dal greco martur, testimone, è introdotto
con significato nuovo e peculiare dal cristianesimo. Nessuna religione
o filosofia aveva avuto presso i pagani dei martiri e, in senso
stretto, neppure presso il Giudaismo che ebbe sì delle persone
che sacrificarono la propria vita, ma solo per non tradire la religione
dei loro padri (v. i tre giovani nella fornace, i Maccabei, ecc.). Il
cristianesimo, invece, introduce il termine martire proprio nel senso
di testimoni della risurrezione, del messaggio e della persona di
Gesù Cristo, che proclamavano il Signore. Tuttavia, fin
dall’inizio questa testimonianza è accompagnata da
sofferenze e da minacce e, infine, dalla testimonianza estrema espressa
con il sacrificio della vita, non solo per non tradire la loro fede, ma
soprattutto per affermare l’unicità di Dio per tutti gli
uomini, incarnatosi in Gesù detto il Cristo e il Signore.
In tal senso, come afferma Origene, “chiunque rende testimonianza
alla verità, sia in parole che opere, sia sostenendola in
qualsiasi modo, può veramente essere chiamato martire”
Per Igniazio di Antiochia, nella lettera ai Romani, il martirio
è la partecipazione mistica alla morte e risurrezione di Cristo;
e il giorno della morte è per i martiri il “dies
natalis”; è un imitare la passione e morte di Cristo,
è un associarsi a lui; è, per Origene, un secondo
battesimo più grande del primo.
Quindi, ciò che distingue i martiri cristiani dagli altri, come
dice S.Agostino, “non è la pena, ma la causa” del
martirio.
Il martirio ha delle somiglianze con il Vangelo: come questo deve
essere accolto liberamente, sì, ma integralmente e non è
barattabile, così il martire diventa testimone di una fede e di
una realtà che non scende a compromessi.
Il martirio, inoltre, si propone come una visione nuova del mondo e
alternativa di quella propria di quel tempo: a un mondo fatto di
sopraffazione, di rapporti di forza e, in ultima analisi, di violenza,
il martire propone una visione del mondo fatto di amore, di
riconciliazione e di perdono; a questo mondo egli ci crede al punto
tale da sacrificare la sua vita e ciò diventa testimonianza.
Il martirio, inoltre, consolida la comunità cristiana che legge
in questo la forza dello Spirito e la presenza di Dio nel martire; in
ciò la comunità trae forza e coraggio. Il martirio,
dunque, è concepito dalla comunità quale carisma dello
Spirito. I cristiani, infatti, andavano a trovare in carcere i martiri
quasi come ad un pellegrinaggio spirituale, coscienti che in essi
c’era viva la presenza dello Spirito.
Il martirio, infine, ha consolidato i valori fondamentali della vita,
che formano la base di una nuova società e di una nuova epoca:
essi propongono una nuova visione della vita e della storia.
Nell’antichità questi valori erano incentrati negli eroi,
idealizzazioni delle aspirazioni umane, pronti a morire per la Patria e
per la Verità.
Egli è colui che si autoafferma sugli altri e si avvicina agli
dèi staccandosi, quasi con disprezzo, dagli uomini comuni. La
sua morte è sempre un morire in dispregio agli altri che non lo
capivano; il suo morire è un atto di superiorità rispetto
agli altri.
Al contrario, il martire non muore in disprezzo ad un mondo che lo
rifiuta, mettendosi sopra agli altri, ma recepisce la sua morte come un
dono dello Spirito all’umanità, una testimonianza di
valori superiori per i quali vale la pena perdere la vita; il morire
del martire, quindi, si trasforma in un atto di amore e di donazione di
sé, in una testimonianza di una realtà superiore che
interpella l’umanità e la invita ad accoglierla.
Tra i martiri e gli eroi c’è un trapasso di ideali e una visione completamente diversa.
Le testimonianze e lo spirito del martirio, tuttavia, sono documentati da alcuni scritti quali :
Atti dei Martiri
Sono verbali di processi compilati dalle autorità in cui vengono
riportati gli interrogatori, le sentenze e le pene inflitte. Erano
pubblici e potevano, quindi, essere acquisiti da tutti. Sono, pertanto,
documenti storici di indubbio valore perché ci dicono come si
è svolto concretamente il processo.
Le passioni
Sono rapporti di testimoni oculari o contemporanei del martirio, dovuti
ad iniziativa spontanea di cristiani, con aggiunte iniziali e finali, a
scopo di edificazione. Non sono perciò autentici e diretti come
gli atti.
Esortazioni al martirio
Erano scritti che sorgevano all’approssimarsi delle persecuzioni
per preparare i cristiani alla dura battaglia, invitarli a non tradire
e ad affrontare con coraggio il martirio.
Le Leggende dei Martiri
Sono racconti sorti intorno al IV° secolo a scopo di edificazione,
e guardano al periodo delle grandi persecuzioni come ad un epoca eroica
ed epica. Non sono storici, ma sono scritti per edificare e spingere a
sopportare le sofferenze e le difficoltà della testimonianza e
della vita.
I cristiani scoprono che c’è una stretta relazione tra
martirio e Vangelo. Infatti ci si chiede come predicare il Vangelo e
convincere ad accoglierlo, considerato che il Vangelo, da un lato, non
possiede sanzioni per chi non lo accoglie, ma,dall’altro, per chi
lo accoglie è un messaggio assoluto, nel senso che non
può essere preso solo in parte: o tutto o niente.
Come , allora, convincere ad accoglierlo integralmente? Ecco la
risposta: con la testimonianza di vita, cioè con il martirio,
che è un modo nuovo di proporre il Vangelo.
Quanti furono i Martiri? E’ impossibile dare una cifra anche
approssimativa. Dai vari scritti pagani e cristiani abbiamo solo delle
indicazioni di grandi quantità. Alcuni parlano di 50.000, anche
se oggi, con il Ruiz Bueno, si può parla di circa 200.000, ma
forse anche meno, quasi certamente non di più.
L’EVOLUZIONE DELLA CHIESA TRA IL 150 – 300 D.C.
I due testi fondamentali che testimoniano l’evoluzione delle
chiese in questo periodo sono la Apologia di Giustino (160) e la
Tradizione Apostolica di Ippolito (220).
Tra il 150 e il 300 la Chiesa conosce una notevole evoluzione
nell’ambito della propria organizzazione e delle strutture delle
proprie comunità.
Intorno al 155 d.C. l’organizzazione ministeriale è
semplice: vi è un responsabile della comunità coadiuvato
da dei diaconi.
La celebrazione eucaristica è ancora una agape ed è
ancora legata ad un pasto fraterno, all’interno del quale si fa
memoria di Gesù morto e risorto e si consuma il pane e il vino
consacrato.
Ora, invece, come ci è testimoniato da Giustino nella sua
Apologia la struttura gerarchica e la sua vita è più
complessa.
A capo della comunità c’è un vescovo, attorniato da
un collegio di presbiteri e assistito dai diaconi. Di fatto il vescovo
è il capo e il garante della comunità attorno al quale
ruota tutta la vita della chiesa locale. Esso è, secondo
Ippolito, il rappresentante di Dio in mezzo alla comunità e
rappresenta la comunità davanti a Dio.
Inizialmente c’era un vescovo per ogni comunità, ma
successivamente, con il proliferare delle comunità, il vescovo
delegava la responsabilità a dei presbiteri, mentre lui assumeva
la direzione e la responsabilità delle chiese presenti in una
determinata regione.
La necessità di omogeneizzare l’organizzazione delle
comunità e di trovare delle comuni soluzioni ai vari problemi di
fede, spingeva i vescovi a riunirsi tra loro: nascono così i
primi sinodi.
Ancora non si rileva la preminenza di un vescovo sugli altri,
benché la chiesa di Roma fungesse già da tacito punto di
riferimento, in quanto essa si richiamava agli apostoli Pietro e Paolo;
godeva, in buona sostanza, di una sorta di primato d’onore, e
questo porterà gradualmente il vescovo di Roma ad assumersi un
ruolo di guida.
Il Battesimo era il rito sacramentale di entrata nella chiesa del
catecumeno. Esso era preceduto da un periodo di catecumenato, che
doveva essere abbastanza lungo e che nella chiesa di Roma era di 3
anni. Il catecumeno partecipava alla vita di comunità, ma al
momento dell’eucaristia veniva mandato fuori, perché non
ancora pienamente inserito nella comunità e nel corpo di Cristo.
Durante il catecumenato il candidato veniva istruito sul senso delle
Scritture e sulle principali verità di fede, ma già
doveva, però, abbandonare il suo vecchio stile di vita pagana
per conformarsi alle norme di vita cristiana. Esso non aveva schemi
fissi, ma variava da comunità a comunità.
Il catecumeno, nella notte di Pasqua, veniva battezzato per immersione
o per aspersione in particolari situazioni che impedivano
l’immersione. L’immersione aveva il significato di
immergersi in Cristo per poi uscirne creatura nuova e il “tre
volte” stava ad indicare che la sua vita era ora immersa in
quella trinitaria e ne faceva parte.
Il battesimo rimetteva i peccati e apriva ad una vita nuova in Cristo e
consacrava a Dio il battezzato e donava lo Spirito Santo. Esso veniva
dato inizialmente solo agli adulti e soltanto in tempi successivi
allargato ai bambini e comportava una confessione di fede, consistente
in un semplice “credo”.
L’atto battesimale era seguito da una imposizione delle mani e da
un’unzione a significare il dono dello Spirito. Tale prassi
verrà poi disgiunta successivamente e costituirà un
sacramento a se stante: la confermazione o cresima, in cui il bambino
battezzato, divenuto adulto, confermava la fede ricevuta e si decideva
coscientemente per il Cristo.
L’Eucaristia veniva celebrata ogni domenica di notte o al sorgere
del sole, richiamandosi chiaramente alla risurrezione di Cristo che
nell’eucaristia veniva celebrato. Una tale testimonianza ci
è stata tramandata nella lettera di Plinio il Giovane (112 d.C.)
inviata all’imperatore e amico Traiano.
L’eucaristia fino al 150 d.C. era una semplice agape, cioè
un banchetto, richiamato anche da Paolo nella prima lettera ai Corinzi,
in cui ognuno portava del cibo mettendolo in comune; durante o alla
fine del banchetto il presidente prendeva del pane e del vino e
ripeteva le parole dell’ultima cena; alla fine il pane consacrato
veniva distribuito perché venisse portato agli ammalati.
Successivamente l’eucaristia subì una evoluzione e si
componeva essenzialmente di due parti: la prima comprendeva delle
preghiere comunitarie, delle letture e loro spiegazione; la seconda
comprendeva la vera e propria celebrazione eucaristica, la cui
preghiera eucaristica, fino al 150 d.C. circa, il celebrante ancora
improvvisava secondo le sue capacità; ma intorno al 200 Ippolito
ne redigeva un testo fisso che proporrà come modello.
L’etica cristiana si esprimeva in termini molto severi e
incoraggiava i cristiani al digiuno e all’ascesi, anche se i
fedeli in genere non li rispettavano perché non sempre
all’altezza dell’ideale professato. Essi erano invitati a
rinunciare ad ogni compromesso con il paganesimo e a praticare
l’amore per il prossimo e la vita comunitaria.
Tra il 150 e 300 sorgono le prime chiese a pianta basilicale; i
cristiani hanno i loro cimiteri (catacombe); già si diffonde una
prima pietà cristiana tra i fedeli.
Dal 150 d.C. inizia i culto dei santi sotto forma di venerazione dei
martiri sulle cui tombe ci si recava a pregare o anche a celebrare dei
culti; si sviluppò la devozione delle reliquie e una teologia
dei santi e martiri.
Tutto ciò per significare che già in quest’epoca il
cristianesimo era notevolmente diffuso e ben radicato all’interno
della società in cui stava definendo la propria struttura
comunitaria e liturgica, nonché la propria identità.
LA SVOLTA COSTANTINIANA
Costantino nacque il 27 febbraio 285 a Naissos in Dacia da genitori
pagani, Costanzo Cloro ed Elena, non legati da matrimonio legittimo,
poiché lui era un generale dell’esercito romano e lei una
semplice locandiera. Essa, dopo alcuni anni dalla nascita di
Costantino, fu ripudiata da Costanzo per motivi politici. Ci
penserà, comunque, Costantino a riabilitare sua madre
assegnandole nel 306 il titolo di nobilissima formina, innalzandola
alla condizione nobiliare e, più tardi, le assegnerà il
titolo di augusta, cioè di imperatrice-madre.
Costantino fu allevato a Nicomedia alla corte di Diocleziano e dopo
l’abdicazione di questi nel 305, si rifugiò presso il
padre, signore della parte occidentale dell’impero. Lo
accompagnò in una campagna militare in Inghilterra, dove a York,
dopo la morte del padre, venne proclamato imperatore nel 306,
all’età di 22 anni circa.
Egli consolidò il suo potere nella parte occidentale
dell’impero e nella battaglia del 312 al ponte Milvio, alle porte
di Roma, contro Massenzio si assicurò il potere assoluto su
tutto l’impero che condividerà con suo cognato Licinio,
che verrà sconfitto da Costantino nel 324 e ucciso.
Elena influì molto su Costantino, che si convertirà,
grazie a lei, al cristianesimo; mentre Costanzo, suo padre, praticava
una specie di monoteismo paganeggiante e assai tollerante in fatto di
culti.
Con la salita al trono di Costantino nel 312, dopo la definitiva
sconfitta di Massenzio al ponte Milvio, la chiesa subisce una
trasformazione epocale, passando non solo a religio licita ma
addirittura a religione ufficiale dello Stato e dell’Impero
romano e cessa, quindi, di essere perseguitata.
Infatti, Costantino intuisce che il cristianesimo era ormai ampiamente
diffuso in tutto l’impero ed era inestirpabile e che, inoltre,
costituiva una forza nuova e vitale utile per il rinnovo
dell’Impero e per il suo amalgama. Pertanto, dal 313 al 330 d.C.,
avvia una serie di riforme favorevoli al cristianesimo per riconciliare
la Chiesa allo Stato, dopo lunghi secoli di persecuzioni e
atteggiamenti ostili e diffidenti.
La Chiesa bizantina lo considera santo, l’uomo della provvidenza;
mentre storici non cristiani ritengono che egli abbia messo le premesse
per il crollo dell’Impero romano e della sua cultura e che si sia
avvicinato al cristianesimo per pura opportunità. Molto
probabilmente egli si avvicinò anche per convinzione; infatti
proveniva da una famiglia sostanzialmente religiosa che lo ha
indirizzato alla ricerca del vero Dio e il clima familiare era
prevalentemente filo-cristiano.
Decisivo fu l’atteggiamento assunto da Costantino verso il
cristianesimo che, in quanto imperatore, aveva creato un ambiente
generalmente favorevole e un flusso di famiglie nobili e altolocate dal
paganesimo al cristianesimo.
Già dal 313 e fino al 330 Costantino adotta una serie di provvedimenti e atteggiamenti filo-cristiani:
- Vieta di bollare in faccia i condannati ai lavori
forzati o ai giochi nel circo, perché, afferma, l’uomo
è immagine di Dio;
- Riconosce ai cristiani di dare la libertà ai propri schiavi davanti al vescovo;
- Concede capacità giuridica e di giudizio ai vescovi per le cause civili, con piena validità
- Libera da sanzioni i celibi e i senza figli, per
rispetto allo stato ascetico in uso presso la chiesa primitiva.
- Ordina il riposo nel giorno della domenica per i
tribunali e i lavori manuali, in omaggio al giorno del Signore,
festeggiato dai cristiani.
- Stabilisce che chiunque può lasciare in testamento i propri beni alla Chiesa.
- Vieta l’aurispicia privata, ma non quella pubblica;
- Fa larghe sovvenzioni alle chiese, tendendo a restringere quelle per i culti pagani
Costantino si considera “vescovo per quelli di fuori”,
cioè colui che facilita l’ingresso dei pagani nel
cristianesimo.
In qualità di pontifex maximus (sommo sacerdote) si
preoccupò sempre sinceramente del buon andamento delle strutture
ecclesiastiche e della vita della Chiesa. E quando l’impero era
in subbuglio per la questione ariana egli, per pacificare la chiesa e
di conseguenza anche l’impero, convoca il concilio di Nicea nel
325.
La vita pubblica e sociale assume un’impronta sostanzialmente, anche se non definitivamente, cristiana.
Costantino oltre ai privilegi giuridici e amministrativi, mostrò
tutta la sua simpatia e il suo mecenatismo verso il Cristianesimo.
In questo clima di pace la Chiesa progredisce vistosamente e si sviluppa intensamente l’attività teologica.
Costantino, poco prima di morire si fece battezzare. Ciò
corrisponde ad un uso frequente a quel tempo, poiché le colpe
gravi commesse dopo il battesimo erano sottoposte ad una dura penitenza
nella chiesa, per cui si cerca di rimandare il battesimo verso la fine
della vita, quando le occasioni di colpe gravi erano prevedibilmente
scemate.
Egli morirà il 22 maggio del 337. Al di là di ogni
valutazione di parte o contro, si può ben dire che Costantino fu
uno spirito profondamente religioso e bene intenzionato nei confronti
della Chiesa e del cristianesimo in genere.
EVOLUZIONE DELLE RELAZIONI TRA STATO E CHIESA NEL IV° SEC.
Esse possono essere idealmente divise in tre epoche:
1° epoca: Costantino si mostra favorevole alla Chiesa, ma ne rimane fuori dalle dispute, se ne astiene da tutti i problemi.
2° epoca: Costanzo II, figlio di Costantino, pretende di essere il
pontifex maximus e interviene nelle sue faccende in modo pesante,
creando notevoli problemi interni alla Chiesa. Essendo egli filo-ariano
decreta in favore dell’arianesimo, ma i vescovi cristiani
ortodossi si oppongono ed egli li esilia.
3° epoca: Sotto Teodosio il Grande il paganesimo subisce
progressive restrizioni: ogni azione cultuale pagana fu proibita e i
templi e santuari pagani vengono distrutti. Ora è il paganesimo
ad essere perseguitato.
In quest’epoca i rapporti tra Stato e Chiesa tendono a
distanziarsi. Significativo fu l’intervento di Ambrogio contro
l’imperatore Teodosio che aveva fatto massacrare 7000 cittadini
raccolti in uno stadio per vendicare la morte di un suo funzionario.
Ambrogio scomunica l’imperatore e lo sottopone a penitenza.
Questo episodio sta a significare che anche l’imperatore è
un cristiano e deve sottostare, per quanto riguarda il suo
comportamento morale, alla Chiesa. Ambrogio dirà
all’imperatore che a lui spetta garantire la libertà e al
prete dire la verità; in altri termini, ognuno faccia il proprio
lavoro a casa sua senza interferire in casa degli altri; è
l’applicazione del “Date a Cesare quel che è di
Cesare e a Dio quel che è di Dio.
Nel 380 Teodosio con l’editto Cunctos populos stabilisce la religione cristiana quale religione imperiale.
Con questo decreto l’impero torna ad avere una religione
ufficiale, che sostituisce quella pagana tradizionale. Stabilisce,
inoltre, che i cristiani siano chiamati cattolici e gli altri cristiani
che si pongono fuori, eretici.
Teoria della Sinfonia
Gli stretti rapporti tra Stato e Chiesa e le reciproche ingerenze
trovarono in Eusebio di Cesarea la loro giustificazione teologica.
Eusebio era uno strenue sostenitore di Costantino nel cui avvento vede
la realizzazione delle più alte speranze cristiane. Esso appare
agli occhi di Eusebio come un secondo salvatore, un emissario di Dio
mandato per strappare il cristianesimo dalle persecuzioni.
Ben vedeva, dunque, Eusebio l’interessamento di Costantino verso
la Chiesa e i suoi problemi. Nell’ambito di quest’ottica
Eusebio formulò una teoria giustificatrice di questo stato di
cose che, invece, provocò non pochi problemi e seccature alla
Chiesa.
Questa teoria fu denominata della “Sinfonia” che espose
adottando lo schema neoplatonico del tempo: Dio, Logos, Cosmo.
D I O – PANTOKRATOR
L O G O S
Attuatore della volontà di Dio
Per mezzo di due vie
Popolo di Israele,
Impero
Romano,
via parziale, ma
via implicita, ma
esplicita
universale
LOGOS INCARNATO
Riassume in se le due vie
C H I E S A
Incarna il Logos e si fa
universale per mezzo
dell’Impero Romano
Al vertice, afferma Eusebio, ci sta Dio, creatore di tutte le cose, il
pantokrator, il quale per entrare in rapporto con l’uomo si serve
del Logos, intermediario tra Dio e il mondo. Il Logos, dunque, non solo
fa da intermediazione, ma è anche l’attuatore della
volontà divina nel Cosmo. Per fare ciò egli utilizza due
vie: il popolo di Israele, che per le sue piccole dimensioni è
una via parziale, ma esplicita, nel senso che ha coscienza di essere
strumento e sacramento di Dio nella storia; e l’Impero Romano,
che è la via implicita, nel senso che non ha coscienza di essere
lo strumento che realizza il disegno di Dio, tuttavia, ha il vantaggio
di avere una enorme organizzazione ed espansione in tutto il mondo
allora conosciuto, facilitando il diffondersi del cristianesimo a cui,
con l’avvento di Costantino, dava anche un concreto e valido
supporto apostolico.
Tra le due vie si pone di mezzo l’incarnazione del Logos,
concepito come sintesi delle due vie, sia perché è
l’espressione massima e matura dell’Israele storico, sia
perché nato nel bel mezzo dell’Impero Romano, di cui la
Palestina fa parte come provincia.
Dal Logos viene generata la Chiesa, presente in esso, per cui anche la
Chiesa assume le caratteristiche di questo Logos: universalità e
testimone della volontà di Dio in mezzo agli uomini.
Pertanto Chiesa e Stato altro non sono che due facce della stessa medaglia, cioè del Logos.
Di conseguenza tra i due non c’è contrapposizione, ma
reciproca collaborazione e integrazione, pur nella distinzione, ognuno,
delle proprie competenze, per cui l’Imperatore deve lasciarsi
condurre dai vescovi e dal papa e questi trovare il loro aiuto e
appoggio per il compimento della loro missione nell’Imperatore.
Conseguenza di questa Sinfonia sono i normocanoni, per cui i canoni della Chiesa sono recepiti come proprie leggi dallo Stato.
Da qui ne discende che le eresie furono perseguite non solo in quanto
destabilizzanti l’integrità dell’Impero, ma anche
perché erano violazioni di leggi civili dello Stato.
Questo schema che giustifica una reciproca implicazione tra Stato e
Chiesa aiuta anche a capire le Chiese ortodosse che fino ai nostri
giorni sono in stretto legame con lo Stato.
La Chiesa di fronte allo Stato e all’Impero
Prima della venuta di Costantino l’attività missionaria
era rivolta esclusivamente ai singoli, cercando di convincerli e di
convertirli. Dopo Costantino, i compiti della Chiesa cambiano
radicalmente. Infatti l’attività non è più
mirata al singolo, ma rivolta ad una intera società, ad un
intero Impero. Non si trattava più di convincere e di
convertire, ma di gestire secondo criteri e principi cristiani
un’intera società a livello mondiale.
L’azione sociale della Chiesa, in questo IV° secolo, interviene su tre aree fondamentali del vivere civile e sociale:
- Famiglia
- Disuguaglianze sociali
- Cultura e divertimenti
Famiglia
Due erano le questioni principalmente affrontate dalla Chiesa:
l’indissolubilità del matrimonio e la Patria potestas.
Nell’ambito del diritto romano erano previsti tre tipi di matrimonio:
- Uno a sfondo religioso, durante il quale i coniugi
consumavano una focaccia di farro davanti al pontifex maximus;
- Uno a sfondo, per così dire, laico, avveniva
per coemptio, cioè il marito comperava letteralmente la moglie
che diventava di sua proprietà;
- Uno caratterizzato dall’usus, basato sul
principio dell’usucapione, cioè un possesso che
protrattosi nel tempo, portava alla proprietà dell’oggetto.
A fianco del matrimonio si affiancava abbastanza diffusamente il concubinato.
Il diritto romano era sostanzialmente favorevole alla
indissolubilità del matrimonio, ma era aperto anche al divorzio
in determinate circostanze.
Altro problema che si poneva nell’ambito del matrimonio era
quello contratto tra schiavi: il padrone poteva liberamente vendere
separatamente i coniugi, distruggendo famiglie e creando drammi.
Il pater familias era il capo assoluto del nucleo familiare,
comprendente la moglie, i figli, gli schiavi e il patrimonio. Solo alla
morte del padre finiva la patria potestas, alla quale i figli
rimanevano sottoposti anche in età maggiore.
Il potere paterno era evidente fin dalla nascita dei figli, che
potevano essere anche abbandonati se non accolti dal pater familias. I
figli abbandonati venivano venduti come schiavi o avviati alla
prostituzione.
Inoltre il pater familias aveva diritto di uccidere la figlia colpevole di adulterio.
Come si può vedere la situazione della famiglia e lo strapotere
del pater rendevano la situazione familiare gravemente pesante e lesiva
della stessa dignità umana al punto tale che anche Ottaviano
Augusto emanò delle apposite leggi tra il 18 e il 9 a.C. che
puntavano ad un riordino della vita matrimoniale e familiare in genere.
Di fronte allo strapotere del pater familias la Chiesa interviene
cercando di far recepire che la paternità, ancor prima di essere
un potere sugli altri, è anzitutto un dovere verso gli altri, di
cui si ha la responsabilità, e che deve radicarsi
nell’amore. Fu questo un notevole salto di qualità che
cozzava contro una mentalità radicata da secoli.
Lentamente si sviluppa una teologia del matrimonio e della famiglia, intesa come chiesa domestica (S.Crisostomo).
Disuguaglianze sociali
Parlare della questione sociale significava parlare sostanzialmente della schiavitù e del divario tra ricchi e poveri.
Nel IV° sec. la Chiesa si muove su due linee; per quanto riguarda
la schiavitù, questa viene dichiarata non accettabile,
perché Dio vuole uguali tutti i suoi figli.
Da questa affermazione di principio si doveva, poi, passare
all’attuazione che si rivelò alquanto complessa; infatti
non tutti gli schiavi volevano diventare liberti, poiché in tal
modo oltre che perdere una identità sociale, sia essa pur umile,
veniva persa anche la protezione e la sicurezza esistenziali.
C’era, inoltre, anche un problema di ordine sociale ed economico;
infatti la popolazione romana era composta per circa un 80% di schiavi
e un 15-20% di liberi. Da ciò appare chiaramente che c’era
tutta una struttura sociale ed economica che si reggeva sulla
schiavitù.
Togliere la schiavitù era solo un buon proposito, ma non
attuabile in quanto che si sarebbe intaccata la struttura e di
conseguenza l’esistenza stessa della società
dell’epoca.
Per cui la Chiesa dovrà muoversi nell’ambito di una
umanizzazione della vita dello schiavo, facendo maturare ai padroni che
questi erano esseri umani, figli di Dio. In tal senso, circa tre secoli
prima, S.Paolo si muoverà nella sua lettera a Filemone a favore
dello schiavo Onesimo.
Altro aspetto che affliggeva la vita sociale romana era il netto divario tra ricchi e poveri.
A fronte di tale problema i vescovi presero posizione contro la
proprietà privata, non nel senso di un marxismo ante litteram,
bensì una contestazione di una situazione di grave ingiustizia,
in cui il solo 4-5% aveva in mano tutte le proprietà, mentre il
restante 95% non possedeva nulla. Da parte della Chiesa veniva invocato
il buon uso dei beni, nel senso che questi hanno una destinazione
universale per il bene di tutti e non per il godimento di pochi, mentre
la proprietà esclusiva dei beni si traduceva in oppressione; a
sostentamento di tale tesi veniva portato il racconto biblico della
vigna di Nabot, dove Acab re di Samaria, pur di avere proprietà
maggiore, fa uccidere il buon Nabot e si appropria della sua vigna.
E’ sempre in questo secolo che la Chiesa si occupa
dell’assistenza ai poveri, sia fisica che spirituale. Basilio si
dedicò a loro cercando anche di formarli, di educarli,
rendendoli edotti dei loro diritti e cercando di dare loro un lavoro
per il proprio sostentamento. Tanti erano i poveri accorsi che vicino a
Cesarea sorse una quasi città fatta di poveri desiderosi di una
loro affermazione sociale, che il popolo chiamò Basileide. Tale
fatto sociale fu talmente rivoluzionario che fece intervenire
l’imperatore che sollecitava Basilio a moderare i suoi interventi
a favore dei poveri per non sovvertire l’ordine e l’assetto
sociali.
Cultura e divertimenti
Un altro settore dove la Chiesa fece sentire la sua presenza fu nell’ambito della cultura e dei giochi.
Nelle scuole, infatti, ai giovani veniva proposta ancora una cultura
squisitamente pagana, fondata sui classici greci e latini. Basilio
intervenne non proibendone la lettura, ma cercando di recuperare quel
fondo di umanità e di verità che anche i classici pagani
portavano in loro e che formava il punto di contatto con il
cristianesimo.
Quanto ai divertimenti, la Chiesa si dovette scontrare duramente con
tradizioni e mentalità decisamente pagane e del tutto
inaccettabili da parte del cristianesimo, come ad esempio i giochi
gladiatori, le gare di corsa con bighe o quadrighe nel Circo Massimo,
le recite nei teatri, spesso licenziose.
LA VITA INTERNA DELLA CHIESA NEL IV° SECOLO
La vita interna della Chiesa del IV° secolo è caratterizzata da quattro aspetti:
- Il riconoscimento della Chiesa da parte dello Stato e della società;
- Il grande conflitto trinitario e dottrinale, in particolare, la questione ariana, durata un sessantennio;
- Sviluppo del catecumenato;
- Fioritura del monachesimo;
Riconoscimento della Chiesa da parte dello Stato
Per questo argomento vedi pagg. 32 e 33.
La questione trinitaria
I problemi dottrinali sviluppatesi nel corso del IV° preoccuparono
non poco la Chiesa, che era particolarmente attenta alla correttezza
dei contenuti della propria fede sia per fedeltà alla tradizione
apostolica e, quindi, a Cristo; sia perché su tali contenuti si
basava la vita stessa della Chiesa e di ogni fedele; e, infine, sia
perché su questa correttezza si fondava la propria unità
e cattolicità, cioè, in definitiva, la propria
identità.
Le questioni dottrinali, ben lungi dall’essere argomento
esclusivo riservato ad una stretta cerchia elitaria di teologi,
formavano argomento di discussione e di interesse a livello popolare.
Il fatto in sé non è trascurabile in quanto che, grazie a
questo interesse diffuso, venivano a crearsi all’interno della
Chiesa stessa delle vaste e diffuse aree di interesse per queste
questioni che porteranno la Chiesa a serie spaccature al proprio
interno, come avvenne per la questione ariana, che la tormentò
per un sessantennio, dal 320 al 380 d.C.
Le questioni dottrinali relative alla Trinità non sorsero con
Ario, ma egli fu quello che incendiò le polveri di un problema
che serpeggiava da oltre un secolo all’interno della Chiesa e che
tacitamente già aveva creato opposti schieramenti.
Ma come sorsero i problemi trinitari e cristologici?
Nelle Scritture vengono spesso richiamati i nomi di Dio, Padre, Figlio,
Spirito Santo; come mettere in relazione tra loro questi nomi?
C’è un Dio solo o sono tre dèi? Tra il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo quale rapporto intercorre? Oppure modi
diversi di chiamare la stessa realtà? Sono vere e proprie
persone oppure tre modi diversi attraverso i quali Dio si esprime?
La questione non era semplice. Varie furono le soluzioni, quasi tutte
eretiche, cioè dottrinalmente deviate, tutte, comunque,
preoccupate di salvaguardare l’unicità di Dio.
Monarchianesimo (Monoj arcV, un unico principio)
Fu un movimento eretico che affermava l’unicità di Dio ed
era rigorosamente monoteista. Come, dunque, giustificare la posizione
di Gesù che veniva adorato come Dio accanto al Padre?
Si crearono, pertanto all’interno del Monarchianesimo due correnti: l’adozionismo e il modalismo.
Adozionismo
Gli adozionisti affermavano che Gesù era un semplice uomo, ma
che nel battesimo presso il fiume Giordano venne adottato da Dio;
quindi soltanto il Padre è Dio, mentre Cristo è soltanto
un Dio adottato e, quindi, non propriamente vero Dio, ma solo un
secondo Dio.
Modalismo
I modalisti , invece, affermavano che Padre, Figlio e Spirito Santo
erano solo modi di manifestarsi dell’unico Dio, svuotando,
quindi, le tre persone del loro contenuto essenziale di persone e
riducendoli a semplici modi espressivi di Dio.
Subordinazionismo
Il Subordinazionismo nacque all’interno della scuola alessandrina
che ebbe in Origene uno dei suoi fondatori e il maggior
interprete della cristologia del Logos.
Anche questa scuola, tuttavia, ebbe delle difficoltà nel coordinare i rapporti interni delle tre persone trinitarie.
I subordinazionisti, pur affermando la natura divina di Gesù,
subordinavano il Verbo al Padre e lo Spirito Santo al Figlio; in tal
modo per tutti e tre veniva salvaguardata la natura divina, ma in modo
subordinato e dipendente dal loro assoggettamento o subordinazione;
quindi, non una natura divina intrinsecamente posseduta, ma
condizionata dalla loro dipendenza.
Di rigoroso indirizzo subordinazionista fu anche la scuola antiochena,
fondata dal presbitero Luciano verso la fine del III° secolo, che
morirà martire sotto Diocleziano. A questa scuola si
formò Ario e la maggior parte dei capi ariani.
La questione ariana
Ario (260-336) era presbitero dal 313 presso la chiesa di Baukalis ad
Alessandria, in cui era vescovo Alessandro con il suo diacono Atanasio.
Venne in conflitto nel 318 con il suo vescovo per aver propagato con
prediche e scritti una cristologia rigorosamente subordinazionista.
Ario aveva a cuore l’unità di Dio per cui un Gesù
Cristo, Figlio di Dio e, quindi, lui stesso Dio, attentava al
monoteismo.
Ario, pertanto, affermava che :
- Il Logos, cioè Gesù Cristo, non
è Dio ed ha una natura completamente diversa da Lui. Egli,
tuttavia, è pur sempre il primo tra tutte le creature, di gran
lunga superiore agli uomini e perciò lo si poteva definire un
semi-Dio, ma non gli si poteva attribuire una natura divina vera e
propria.
- Egli non era eterno, ma fu creato nel tempo; anzi ci fu un tempo in cui il Logos non c’era;
Ario fondò e sostenne queste sue affermazioni con alcuni passi della Bibbia e precisamente:
- Mc. 13,32 : “Quanto a quel giorno e a
quell’ora nessuno li conosce… neppure il Figlio”;
- Gv. 14,28 : “… vi rallegrereste che io
vado dal Padre, perché il Padre è più grande di
me”
- Rm. 1,4 : “Costituito Figlio di Dio con
potenza secondo lo Spirito… mediante la risurrezione”
- Prov. 8,22 “Il Signore mi ha creato
all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera,
fin d’allora”. In questo passo si parla della Sapienza, ma
da sempre gli antichi interpretarono la Sapienza come Logos.
Così, Ario, in buona fede, interpretò il Logos, Gesù Cristo.
Ma che cosa ha portato Ario a queste conclusioni? Ario ha in
testa lo schema tripartito del mondo : Dio – Logos o secondo Dio
– cosmo.
Quindi il Figlio-Logos è il Dio secondo in quanto mediatore. In
quanto mediatore, Dio e uomo si incontrano in lui, ma rimangono
estranei. Ario si accorge di questo e ricorre ad un ragionamento di
tipo platonico: il Figlio è in assoluto il migliore di tutti
noi, per cui se noi lo imitiamo saliamo a Dio come lui.
Alessandro, suo vescovo, gli controbatte: se tu affermi che il Figlio
non è Dio, come possiamo diventare figli di Dio nel battesimo,
se il Figlio in cui siamo immersi nel battesimo non è Dio?
Allora il tutto diventa inutile.
Ovviamente, Ario negando la divinità di Cristo e la sua
consustanzialità, si poneva automaticamente fuori dalla retta
dottrina della Chiesa.
Fu indetto un sinodo intorno al 319 o 323 dove Ario fu dichiarato
eretico e posto fuori dalla Chiesa. Ario si rifugiò presso il
vescovo Eusebio di Nicomedia.
Ario non si sottomise e continuò a propagare le sue idee,
specialmente attraverso il poemetto Thalia. Nacquero disordini e le
divisioni all’interno della Chiesa si accentuarono, così
che intervenne l’imperatore Costantino, richiamando
all’ordine le parti, ma senza ottenere alcun risultato.
Pertanto, Costantino nel 325 convocò a Nicea il primo concilio ecumenico della storia.
Il Concilio di Nicea: 20 maggio – 25 luglio 325
Voluto da Costantino, con il consenso di papa Silvestro I° per
dirimere la questione trinitaria e cristologica insieme, ebbe inizio il
20 maggio del 325 e terminò il 25 luglio dello stesso anno,
durò, quindi, circa due mesi.
Vi parteciparono, sembra, 220 vescovi, ma forse furono 318, con
riferimento ai 318 servi di Abramo, mentre Eusebio di Cesarea nella sua
“Storia ecclesiastica” parla di 250 vescovi; per lo
più provenivano dalla parte orientale dell’impero, mentre
l’occidente era rappresentato da 5 vescovi e da due legati di
papa Silvestro I°, sette persone in tutto.
Dopo lunghi e agitati dibattiti vinse la corrente che rappresentava l’ortodossia, cioè la corrente alessandrina.
Il Concilio si concluse con la professione di fede sottoscritta da 220
vescovi in cui si affermava: “Noi crediamo …. In
Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre,
cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio
vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre
(omo-ousioj) …. Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli
non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da
ciò che esisteva …. O che il Figlio di Dio possa cambiare
o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica condanna.”
Il Concilio regolamentò anche in 20 canoni alcuni aspetti della vita interna della Chiesa e della sua struttura.
Anche se questi non hanno valore teologico e, quindi, possono essere
considerati del tutto marginali rispetto al grande tema del Concilio di
Nicea, tuttavia sono, da un punto di vista storico, di grande interesse
per la vita della Chiesa del IV° secolo.
La confessione di fede, sottoscritta da 220 padri conciliari, venne recepita da Costantino e promulgata come legge imperiale.
Si chiudeva così in due mesi circa, dal 20 maggio 325 al 25
luglio dello stesso anno, il Concilio di Nicea. Ma nonostante la
concorde condanna conciliare di Ario, le diatribe ripartirono
più vive che mai.
Per capire come mai il concilio non riuscì a tacitare
tutte le polemiche e a por fine alla questione ariana, bisogna capire
la mappa dei vescovi all’interno del concilio. C’erano
quattro gruppi:
- I Monarchiani: sostenitori di un rigoroso
monoteismo e unità di Dio, per cui non accettavano un
Gesù Cristo pari e uguale a Dio e Dio lui stesso.
- Subordinazionisti: che sostenevano che si il Figlio
era subordinato al Padre, ma non al punto di essere uguale al Padre e
di possederne la natura;
- Alessandrini: sostenitori della retta dottrina
- Ariani: in accordo con Ario
Pomo della discordia era il termine omo-ousioj (consustanziale) per
niente digerito dai vescovi orientali che, invece, preferivano il
termine omoioj (simile). Si usò, quindi, la formula
“simile in tutto” al Padre.
Si vennero a profilare così quattro posizioni interne alla Chiesa:
- I Niceni : favorevoli all’ omo-ousioj (consustanziale);
- Gli Omeusiani : affermavano che il Figlio è omoioj (simile) a Dio, ma ne è distinto;
- Gli Omei : affermavano che il Figlio è simile al Padre;
- Anomei : affermavano, invece, che il Figlio è dissimile al Padre.
A favorire gli strascici polemici ci si mise anche Costantino, che
cambiò quasi subito opinione. Nel 328 richiamò
dall’esilio il vescovo Eusebio di Nicomedia e con lui
ritornò anche Ario che, dopo aver aderito pro forma al simbolo
niceno, venne restituito, su ordine imperiale, al suo ministero. A
ciò si oppose il vescovo Atanasio, che venne esiliato una prima
volta nel 335 a Treviri; seguirono, poi, altri quattro esili sotto vari
imperatori; l’ultimo, il quinto, sotto l’imperatore Valente
nel 365; ciò provocò una sommossa popolare e, in tal
modo, Anastasio poté rientrare definitivamente nella sua
città.
Il dibattito, quindi, accompagnato da vere e proprie persecuzioni,
testimoniate anche dalla lettera dei vescovi radunati nel concilio di
Costantinopoli (381) a papa Damaso e ai vescovi occidentali, riprese,
sostenuto e difeso da imperatori filoariani, proseguendo fino al 380,
quando Teodosio il Grande (379-395), con un editto “Cunctos
populos” emanato nel febbraio del 380, dichiarò il
Cristianesimo religione di stato e bollò di eresia tutti coloro
che si ponevano contro la dottrina cristiana cattolica.
In questo sessantennio ariano di lotte teologiche, si profilò
una nuova definizione di Trinità, elaborata dai tre grandi
Cappadoci: Basilio di Cesarea (330-379), Gregorio nazianzeno (330-390)
e Gregorio di Nissa (334-392). Essi affermarono che all’interno
della Trinità vi è una sola natura in tre Persone,
quindi, un Dio in tre Persone.
Essi misero in chiara luce anche la divinità dello Spirito
Santo, che, invece, era considerato dagli ariani solo uno spirito
incaricato di un ministero, diverso dagli angeli solo per grado.
Concilio di Costantinopoli: 1 maggio – luglio 381
Chiarita la relazione tra il Padre e il Figlio, riconosciuta la stessa
natura sia al Padre che al Figlio e affermato che il Figlio è
Dio alla pari del Padre, rimaneva ora da definire la posizione dello
Spirito Santo rispetto al Padre e al Figlio.
Questo aspetto, infatti, era rimasto nell’ombra perché tutta l’attenzione era stata concentrata sul Logos.
Gli ariani affermavano che lo Spirito era una creatura del Figlio, come
egli lo era del Padre. Anzi, per la verità, sostenevano, lo
Spirito Santo era uno degli spiriti incaricati di un ministero, diverso
dagli angeli solo per grado.
A fronte di tale posizione, S.Atanasio scrisse ben quattro lettere ad
un vescovo ariano in difesa della divinità e
consustanzialità dello Spirito Santo rispetto alle prime due
persone. In tal senso vi furono dei sinodi, nel 362 ad Alessandria, in
cui S.Atanasio proclamò lo Spirito Santo “della stessa
sostanza e divinità del Padre e del Figlio”; e
successivamente altri ancora ad Alessandria e a Roma.
A sostegno della tesi di Atanasio vi furono i tre Cappadoci, Basilio di
Cesarea, Gregorio nisseno e Gregorio nazianzeno, che confutarono
acutamente l’eresia.
La questione, ormai annosa e insolubile, sfociò in un secondo
concilio ecumenico, quello di Costantinopoli nell’anno 381, che
durò circa tre mesi, dal 1 maggio al luglio del 381.
Esso fu convocato dall’imperatore Teodosio I° e vi
parteciparono 150 vescovi delle sole chiese di oriente.
Successivamente, nel 382, i Padri conciliari scrissero una lettera a
papa Damaso I° e ai vescovi della chiesa di occidente in cui
esposero sinteticamente la formulazione raggiunta sullo Spirito Santo :
“Questa fede … ci insegna a credere nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola
divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno,
in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone,
…”
Il Simbolo costantinopolitano recepì quello niceno e aggiunse
per quanto riguarda lo Spirito Santo: “Crediamo anche nello
Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede
dal Padre; che con il Padre e il Figlio deve essere adorato e
glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti”.
Come si può rilevare, le chiese di oriente concepivano lo
Spirito Santo come procedente “dal Padre attraverso il
Figlio”, mentre per l’Occidente lo Spirito santo
procedeva “dal Padre e dal Figlio”.
Quando in Occidente si diffuse la formula con il “Filioque”
lo si ritenne semplicemente una interpretazione; ma l’Oriente
considerò, invece, questa introduzione come una adulterazione
del Simbolo apostolico e incolpò l’Occidente di eresia.
Il Filioque diverrà così la causa prima dello scisma del
1054 tra le Chiese d’Oriente e quella di Occidente, conclusosi
con reciproche scomuniche.
LA CHIESA NEL V° SECOLO
Nel V° secolo all’interno della Chiesa si verificano
significativi cambiamenti. Fino al 397, morte di S.Ambrogio, la Chiesa
è uniforme in tutto l’impero romano che forma da
coagulante e polo catalizzatore. Successivamente si vengono a creare
delle tensioni tra le chiese di area orientale e quella di area
occidentale.
Cause che favorirono la separazione tra Occidente e Oriente:
- Diversificazione linguistica: dal greco, quale
lingua ufficiale della Chiesa, si passa al latino. La Chiesa di
occidente incomincerà ad ignorare il greco e introduce al
proprio interno il latino. Papa Damaso (380) introduce nella liturgia
occidentale la lingua latina e incaricherà S.Girolamo a tradurre
dal greco la Bibbia; nasce così la Vulgata. Il cambio di lingua
modifica il linguaggio e il modo di intendere le cose; si verifica un
cambio di cultura e di prospettiva.
Così l’Occidente diventa latino, mentre l’Oriente rimane bizantino.
- Frattura politica: tra Oriente e Occidente si crea
una spaccatura. L’Occidente come impero finisce subito, mentre
l’Oriente dura fino al XV° secolo. Questo ha dei riflessi
culturali.
Si crea, inoltre, una forte avversione dell’Occidente nei
confronti dell’Oriente che, a fronte delle invasioni barbariche e
al fine di attenuarne la pressione, dà a questi barbari degli
stanziamenti in Occidente. Di conseguenza gli orientali pensano che il
lungo permanere dei barbari in Occidente abbia anche imbarbarito
culturalmente l’Occidente. Ma ciò che crea una più
profonda spaccatura tra Occidente ed Oriente sono le rivalse delle
varie etnie che compongono l’Impero romano in Occidente e
rivendicano le proprie peculiarità linguistiche e culturali in
opposizione all’Impero.
- Diversa struttura ecclesiale: la scomparsa
dell’imperatore da Roma, fa si che il potere imperiale passi
nelle mani della Chiesa occidentale, che diventa, pertanto, la naturale
erede del vuoto politico lasciato dall’imperatore, che nel 330
aveva lasciato Roma per Costantinopoli. Roma, dunque, e con lei
l’occidente ritiene di poter decidere autonomamente, abbandonando
di fatto l’imperatore e il suo impero, ma avendone, però,
ereditato le strutture e la cultura.
- Per l’Oriente, invece, la struttura
ecclesiale è quadripatriarcale (Alessandria, Antiochia,
Costantinopoli e Gerusalemme), mentre Roma era il quinto patriarcato.
- E’ radicato, inoltre, il concetto che le
decisioni devono essere sempre comunitarie e concordi. Non si poteva,
dunque, pensare che la sola Roma potesse decretare per tutti.
Pertanto, ne esce che l’Oriente è comunitario, mentre l’Occidente è monarchico.
Un conflitto, che portò ad una prima sospensione di rapporti tra
Occidente ed Oriente (404-415), avvenne in occasione dell’esilio
di Giovanni Crisostomo, che si era scagliato pubblicamente contro
l’imperatrice Eudossia per essersi questa impossessata
indebitamente di un latifondo e, nel contempo, contro il vescovo
Teofilo di Alessandria chiamato a rispondere per delle vessazioni da
lui prodotte contro un gruppo di monaci.
Teofilo convocò un sinodo di 36 vescovi egiziani, tranne sette,
detto “Sinodo della Quercia”, sobborgo nei pressi di
Calcedonia. Questo sinodo condannò Crisostomo con ventinove capi
di accusa falsificati. Crisostomo, conoscendo la faziosità del
sinodo, per ben tre volte rifiutò di presentarsi e venne,
pertanto, deposto nell’agosto del 403 ed esiliato
dall’imperatore Arcadio in Bitinia, da dove fu richiamato quasi
subito per una sommossa della popolazione di Costantinopoli, di cui
Crisostomo era il patriarca.
L’anno successivo (9 giugno 404) seguì un secondo esilio a
Cucuso, Bassa Armenia, per contrasti insorti con l’imperatrice
Eudossia e l’imperatore Arcadio, che lo aveva destituito dalle
funzioni ministeriali.
A questi esili si oppose la Chiesa di Occidente che dichiarò di
non potersi più sentire in comunione con quelle d’Oriente
fintanto che Crisostomo non fosse stato ripristinato nelle sue piene
funzioni. Tale sospensione di rapporti durò circa 11 anni, dal
404 al 415.
Un altro episodio, che provocò il primo vero sisma tra Occidente
e Oriente, durato 50 anni (484-534) riguarda l’Editto
dell’Unione o Enotico.
Dopo il Concilio di Calcedonia (451) le discussioni sulla duplice
natura di Cristo erano ben lungi dall’essere sopite e
l’impero rischiava di dividersi su questioni religiose. Nei
decenni successivi i vari imperatori cercarono di ricondurre
l’impero all’unità religiosa, ma inutilmente.
Pertanto, nel 482, l’imperatore Zenone, su consiglio del vescovo
di Costantinopoli, Acacio, elaborò e prescrisse una formula di
unione, cioè l’Enotico, che avrebbe dovuto essere accolta
da tutti. Essa rappresentava una sorta di compromesso teologico. Esso
si riprometteva di non togliere autorità al Concilio di
Calcedonia (451), ma di darne una interpretazione che doveva
accontentare le tendenze monofisite moderate. In sostanza, questo
Enotico, o Editto dell’Unione (482), mise di fatto tra parentesi
il Concilio di Calcedonia. Papa Felice III si oppose respingendo
l’Enotico e, in un sinodo romano, Acacio venne messo al bando e
scomunicato e così tutti quelli che condividevano le sue idee,
compreso, quindi, anche l’imperatore Zenone, benché il suo
nome non venisse citato.
Al di là di questi episodi, comunque, era il clima che ormai era cambiato.
L’Oriente ha prospettive contemplative e ieratiche della
realtà; l’Occidente ha una visione pratica e concreta
della realtà. Questi due modi di vedere si riflettono molto bene
nelle rispettive liturgie: coreografiche e ricche di simbolismo quelle
orientali; sobrie e concrete quelle occidentali.
Anche le architetture delle chiese orientali e occidentali differiscono
tra loro e riflettono il proprio modo di vedere: a pianta rettangolare
quelle occidentali; a pianta circolare quelle orientali. Quelle
occidentali, con la loro forma rettangolare allungata sul cui fondo
c’è il tabernacolo, richiamano l’atteggiamento del
cristiano in cammino verso Cristo. Mentre quelle orientali, con la loro
forma circolare, tendono a mettere in comunione cielo e terra e
invitano il cristiano alla contemplazione del mistero di Dio.
Se il IV° secolo è dominato dalle questioni trinitarie
(consustanzialità tra Padre, Figlio e Spirito Santo, tre persone
in un unico Dio; con lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, con
la questione conseguente del Filioque), il V° secolo fu
caratterizzato dalla questione cristologia: come si accordano
l’umanità e la divinità di Cristo? La questione fu
tutta orientale, lì, infatti, erano i contemplativi.
L’Occidente, invece, si preoccupava di aspetti più
concreti: che cosa significa per me incontrare Cristo? Che cosa succede
in questo incontro? Che cosa devo fare?
Anche qui si rispecchiano i due modi diametralmente opposti di porsi:
l’uno contemplativo, l’altro pratico e concreto.
FORMAZIONE DEI PATRIARCATI (chiese madri)
Fino al 150 le comunità cristiane vivevano in piena autonomia e senza sostanziali coordinamenti.
Ma con il rapido diffondersi del cristianesimo e il sorgere dei
problemi di fede ed eresie gnostiche, che investivano ampie aree della
chiesa, nonché la questione, molto sentita, della trasmissione
dell’autenticità apostolica, fecero si che delle
comunità si rivolgessero alle comunità considerate di
origine apostolica e, quindi, di genuina ortodossia.
Questo orientamento, tuttavia, fu ben presto superato a causa delle
distanze geografiche che si frapponevano tra le numerose
comunità ecclesiali locali con le poche comunità a
fondazione apostolica.
Pertanto, le chiese, per le loro attività pastorali e
amministrative, adottarono la suddivisione amministrativa
dell’Impero. Nell’ambito di queste vaste regioni si
formarono, per prassi storica e non giuridica, tre punti saldi di
riferimento: Alessandria, Antiochia e Roma, attorno a cui gravitano
vaste aree territoriali.
Fanno capo ad :
- Alessandria: Egitto e regioni confinanti.
- Antiochia : tutto l’ambiente siriano-aramaico
- Roma : l’intero occidente latino
L’unica grande area in cui non c’era ancora un patriarcato era quella greca.
Il vuoto si riempì ben presto, quando Costantino l’11
maggio del 330 elevò la piccola Bisanzio a residenza imperiale.
Essa, agli inizi, era solo una sede episcopale secondaria.
In quanto sede imperiale, ristrutturata e ampliata, fu denominata
Costantinopoli e assunse, quindi, importanza politica e amministrativa
di primo grado.
L’elezione di Costantinopoli a sede imperiale dà subito
importanza alla sede vescovile, che diventa la sede di consultazione
degli imperatori per le questioni di fede e religiose in genere,
divenendo, in tal modo, anche un importante centro per le delibere
religiose imperiali.
Sarà proprio il Concilio di Costantinopoli (381), nel III°
canone, a decretare “il primato d’onore per il vescovo di
Costantinopoli dopo il vescovo di Roma, perché tale città
è la Nuova Roma”. Fu così che dopo il Concilio di
Costantinopoli, l’importanza della sede vescovile venne legata
all’importanza politica della città.
Si pose, quindi, una questione di primato: per la Chiesa orientale esso
spettava al vescovo la cui città nell’ordinamento politico
era preminente sulle altre. In Occidente, invece, prevale il criterio
teologico del “Tu es Petrus…”.
Decadute nel VI° e VII° secolo Alessandria e Antiochia, rimangono a contendersi il primato solo Roma e Costantinopoli.
Costantinopoli rivendica il primato sia perché lì vi
è la sede imperiale e sia perché vi sono sepolte le
spoglie di S.Andrea che fu discepolo prima di Pietro e, quindi,
Costantinopoli ha da essere prima di Roma.
Il canone 28 del Concilio di Calcedonia (451) stabilisce i privilegi
del patriarcato di Costantinopoli sugli altri patriarcati di Antiochia
ed Alessandria, divenendo così seconda solo a Roma, ma prima in
Oriente. Tale posizione, sancita dal canone 28, venne contestata da
Roma perché, in tal modo, venivano ridotti i poteri degli altri
due patriarcati.
Infine, a seguito del crollo di Costantinopoli sotto l’invasione
araba del VII° e VIII° secolo, Roma abbandona
l’imperatore e si rivolge ai Franchi, potenza occidentale
nascente.
Con ciò Roma si stacca definitivamente dall’impero
d’oriente e dalla Chiesa d’Oriente, separazione che
troverà definitiva rottura nel 1054 in seguito alla questione
del Filioque.
QUESTIONI ESEGETICHE E CRISTOLOGICHE
Tra il 390 e il 420 prendono piede due orientamenti teologici
differenti: antiocheno e alessandrino, riconoscibili tra loro in
riferimento a due aspetti precisi: esegetico e cristologico.
Aspetto esegetico: come si legge la Scrittura? La Chiesa
d’Oriente, Alessandria, privilegia l’aspetto spirituale di
tipo cristologico, per cui si tende a vedere in tutta la Bibbia
riferimenti diretti o allegorici a Cristo; mentre la chiesa antiochena,
occidentale, privilegia l’aspetto letterale, cioè del
testo così come sta scritto. E’ di tipo storico. Accetta
il senso tipologico solo per quelle parti dell’A.T. che sono
attestate nel N.T. o nella catechesi liturgica battesimale.
Aspetto cristologico: la scuola antiochena quando pensa a Gesù,
pensa ad una dualità: alla natura umana e a quella divina. Ma il
pensare degli antiocheni è concreto, per cui quando si pensa
alla natura umana, la si pensa come sussistenza umana
(upÒstasij= sostanza, sussistenza); quando si pensa a quella
divina, la si pensa come sussistenza divina (upÒstasij=
sostanza, sussistenza).
Il problema che si pone è come spiegare l’unità
delle due nature. Si fa ricorso ad una immagine, quella della
inabitazione: il Cristo, Figlio di Dio, è uno perché
inabita nell’uomo Gesù, vero uomo, come nel suo tempio. Ne
nasce, in tal modo un prÒswpon di unione, cioè un modo di
presentarsi come un unico soggetto.
Per cui si può schematicamente dire che Gesù Cristo, nuovo Adamo è:
VERO UOMO (natura umana + sussistenza umana)
In un
prÒswpon di unione per inabitazione
VERO DIO (natura divina + sussistenza divina)
La scuola alessandrina ha una visione dinamica della persona di
Gesù: egli è il Verbo di Dio che diventa uomo per noi.
Non si pone, quindi, il problema della duplice natura umana e divina,
ma si preoccupa di evidenziare come quel Verbo che, prima
dell’incarnazione era da sempre presso il Padre, ora ha assunto
la carne umana; quindi c’è identità tra il Verbo
prima dell’incarnazione e quello dopo l’incarnazione.
Tale visione dinamica, dunque, si svolge in due tempi ed è
sintetica: prima dell’incarnazione, il Verbo di Dio è
presso Dio da sempre; dopo l’incarnazione, il Verbo di Dio
è tra noi, grazie all’incarnazione. Prima era presso il
Padre; ora proviene da Maria.
Per cui alla domanda: chi è Gesù Cristo? L’alessandrino risponde: è il Verbo di Dio che si fa carne.
Sinteticamente tale formula potrebbe essere espressa in tal modo:
Da sempre nella condizione divina presso il Padre
L’IDENTICO VERBO DI DIO E’
Nel
tempo nella condizione umana, da Maria Vergine
Questa duplice visione cristologica presentava dei punti deboli. Per
guanto riguarda gli antiocheni, non si era chiarito bene l’unione
delle due nature, come cioè questa avvenisse. Quanto agli
alessandrini che, invece, spiegarono bene l’unicità del
Verbo incarnato, non riuscirono chiarire bene la distinzione delle due
nature.
Questa scarsa chiarezza dottrinale portò ad una serie di
questioni a cui si dettero varie risposte non sempre dottrinalmente
corrette. Nacquero così le prime eresie di tipo cristologico.
Le eresie cristologiche, a seconda dell’interpretazione che
dettero alla figura di Gesù, si distinsero in docetismo
(Gesù ha solo un corpo apparente; si nega, quindi la
corporeità di Gesù); apollinarismo (Il Verbo di Dio
incarnandosi prende il posto dell’anima; in tal modo viene a
distruggersi la vera umanità che è un composto di anima e
corpo); monofisismo (in Gesù vi è una sola natura: quella
divina che ha assorbito in se la natura umana);
Il grosso problema cristologico, tuttavia, scoppiò nel 428 quando Nestorio divenne patriarca di Costantinopoli.
Nestorio, monaco antiocheno, grande asceta e desideroso di esattezze
teologiche, non accolse bene l’ormai consolidato titolo,
soprattutto presso il popolo, di Qšotokoj assegnato a Maria che,
a suo avviso, invece, doveva essere riconosciuta soltanto come
Cristotokoj, poiché essa, in realtà, genera soltanto
l’uomo in cui abita Dio.
Le affermazioni di Nestorio si diffusero rapidamente e giunsero ad
Alessandria, dove era patriarca Cirillo. Tra i due sorse una fitta
corrispondenza teologica con reciproche messe in guardia dal cadere in
errore, ma non si giunse a nessuna conclusione.
Della controversia tra i due era costantemente informato papa Celestino
che, dopo aver convocato un sinodo, dichiarò inaccettabili le
affermazioni di Nestorio e gli dette dieci giorni di tempo per
ritrattarle.
Esecutore della notifica fu lo stesso Cirillo che ne approfittò per aggiungere alle consegne papali dodici anatemismi.
Nestorio reagì duramente e a ragione: il suo avversario era
diventato anche suo giudice?! Per cui egli ricorse all’imperatore
Teodosio II e chiese un concilio che, con il consenso papale, venne
concesso.
Concilio d i E f e s o: 22 giugno – 31 luglio 431
Il concilio venne aperto il 7 giugno del 431 ad Efeso, ma nel giorno di
apertura mancarono tutti i vescovi antiocheni che con varie scuse
tardarono il loro arrivo poiché per loro la situazione era
fortemente imbarazzante: da un lato si trovavano in difficoltà
per difendere Nestorio dato che questi si era spinto troppo oltre;
dall’altro non condividevano le definizioni di Cirillo.
Questi, vedendo il notevole ritardo, iniziò il concilio con il
22 giugno, senza la presenza di 43 vescovi antiocheni e senza quella
dei legati papali.
Nestorio venne convocato per ben tre volte, ma, vista la
composizione dell’assemblea esclusivamente alessandrina,
rifiutò. Venne, pertanto, dichiarato eretico e destituito,
mentre a Maria fu confermato il titolo di Qšotokoj.
Il 26 giugno arrivarono finalmente gli antiocheni capeggiati dal
vescovo Giovanni. Vedendo il concilio già aperto, si irritarono
e si rifiutarono di prendervi parte.
Fecero una loro riunione a parte e scomunicarono Cirillo e Anemone,
vescovo di Efeso, per scorrettezze procedurali. Controbatterono con la
scomunica gli alessandrini.
Giunsero nel frattempo i legati papali che confermarono il Qšotokoj, ma respinsero le reciproche scomuniche.
I due capi delegazione, Cirillo e Giovanni, si resero ben presto conto
che la situazione era insostenibile, per cui, al fine di uscirne bene
tutti, affidarono al vescovo Acacio di Berea l’elaborazione di
una formula unione (433), in cui Cirillo rinuncia a parlare di unione
naturale, mentre gli antiocheni accettano il Qšotokoj e
abbandonano la categoria dell’Inabitazione a favore di quella
dell’unione, per spiegare l’unità di Cristo.
Il Monofisismo
La definizione nel 433 della formula di unione con cui si concludeva il
tormentato concilio di Efeso, non portò certo
tranquillità all’interno della Chiesa.
Infatti, Eutiche, archimandrita di Costantinopoli, non convinto sulla
questione delle due nature di Cristo, affermava che prima
dell’unione c’erano due nature distinte, ma dopo
l’unione una sola natura. Infatti, l’umanità di
Cristo si trova rispetto alla sua divinità come la goccia
d’acqua nell’oceano: viene totalmente assorbita.
Un sinodo, convocato nel 448 dal patriarca di Costantinopoli, Flaviano,
condannò come eretico Eutiche e lo scomunicò.
Questi non si rassegnò e per il tramite di Crisafio, ministro di
Teodosio II, chiese ed ottenne un secondo concilio ad Efeso nel 449 che
per le scorrettezze e la illeberalità con cui fu gestito non
approdò a nulla. Infatti in tale concilio venne escluso il
Vescovo Teodoreto di Ciro, uno dei maggiori rappresentanti della scuola
antiochena e sfavorevole ad Eutiche. Inoltre fu impedito ai legati
papali di leggere il Tomus Leonis ad Flavianum. Il concilio fu
condannato dallo stesso papa Leone I che lo definì “non
concilium sed latrocimium ephesinum” e aderì, invece, alla
proposta di Flaviano, di aprire un nuovo concilio che si tenne a
Calcedonia.
Concilio di Calcedonia: 8 ottobre – 1 nov. 451
Morto Teodosio II, salì sul trono Marciano con sua moglie
Pulcheria, ben disposti verso il papa, e aprono il concilio a
Calcedonia con presidenza papale.
Si posero subito due questioni:
- Problema delle persone che favorirono il
“latrocinium ephesinum” e primo fra tutti Di oscuro, che
aveva collaborato per la riammissione di Eutiche e la condanna di
Flaviano.
- Problema cristologico: come rispondere al
monofisismo di Eutiche. In tal senso venne letto il Tomus Leonis ad
Flavianum che venne approvato da tutti con le famose parole
“Petrus per Leonem
locutus est”.
Nella prima seduta si affrontò la questione Dioscoro, che troverà una soluzione nella terza seduta.
Nella seconda seduta viene affrontata la questione dottrinale che
trovò delle difficoltà, per cui venne affidata ad una
apposita commissione l’elaborazione di una formula da sottoporre
all’assemblea.
Nella terza seduta viene ripresa la questione del personale. Dioscoro,
convocato per tre volte al concilio, rifiutò e, pertanto, venne
dichiarato deposto per il suo comportamento. Gli altri vescovi furono
riammessi dietro pentimento, mentre un gruppo di 13 vescovi
dell’Egitto chiese una sospensiva in attesa che venisse eletto il
loro patriarca, per timore, poi, di non trovarsi in contrasto con lui.
Nella quinta seduta venne votata e promulgata una formula di fede, preparata tra la quarta e quinta seduta.
Formula di Calcedonia
“… uno e medesimo Cristo signore unigenito (Cirillo); da
riconoscersi in due nature (cristologia antiochena), senza confusione,
immutabili, indivise, inseparabili; non essendo venuta meno la
differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata,
anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e
concorrendo a formare una sola persona (Tomus Leonis ad Flavianum) e
ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma
è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, verbo e signore
Gesù Cristo (Cirillo) …”
La formula, suddivisibile in due parti: una di tipo descrittivo si
riallaccia ad Efeso e alla tradizione; e una di tipo dottrinale, sopra
riportata.
Come si può rilevare vengono recepite le formulazioni di Cirillo
(cristologia alessandrina); della tesi papale (Tomus Leonis ad
Flavianum) e quella della scuola antiochena.
Le conseguenze del Concilio di Calcedonia
Il concilio di Calcedonia non portò affatto la pace tra le varie
fazioni; infatti, le diatribe teologiche proseguirono in modo
pericoloso per l’impero che rischiava di frantumarsi. Infatti
l’unità dell’impero non era concepibile senza
l’unità religiosa che, praticamente, non era raggiungibile.
Per alcuni decenni, in vari modi, vi si cimentarono gli imperatori, ma senza esito alcuno.
Nell’ambito di questi sforzi va inserito il tentativo di Zenone
(482) che cercò di formulare un documento che idealmente doveva
sancire la pace religiosa e, quindi, salvaguardare l’unità
dell’impero.
Zenone, su consiglio del vescovo Acacio di Costantinopoli, formula un
documento di unione, l’ EnÒtikon, che doveva essere
accolto da tutti. Era in sostanza una formula teologica di compromesso
che in realtà scontentò un po’ tutti, anche se
guadagnò gli egiziani e i siri, di tendenze monofisite, ma
venne, invece, respinta dal papa Felice III (483-492) perché in
essa si rinunciava alla formula calcedonese, basata prevalentemente sul
Tomus Leonis ad Flavianum e cara all’occidente. Un ulteriore
tentativo, quindi fallito.
Queste diatribe teologiche insanabili si radicarono profondamente nelle
singole comunità e gruppi etnici che portarono ben presto, nel
corso del VI sec., alla frantumazione della chiesa d’Oriente.
Le cause, tuttavia, non vanno ricercate esclusivamente nelle questioni
teologiche, ma esse hanno prevalentemente costituito l’occasione
per una scissione dall’impero, tanto che un autore copto
contemporaneo, tale Thager, afferma che “lo scisma di religioso
ebbe solo lo spunto”.
Quindi, due furono fondamentalmente le cause della frantumazione:
- Teologiche: per le questioni cristologiche;
- Politico-etniche: infatti, ogni chiesa aveva un suo
precipuo carattere etnico, cioè era legata ad un popolo con sue
caratteristiche linguistiche e culturali che cercava di affrancarsi
dall’impero. Inoltre, ogni chiesa
è caratterizzata da una propria liturgia che ne costituisce
l’identità e la specificità.
Esse si sono sostanzialmente cosi distribuite:
- Chiesa melchita: accetta Calcedonia (due nature in una persona)
- Chiesa nestoriana: due nature distinte e
incomunicabili tra loro; Dio opera nell’uomo Cristo così
che Gesù è solo uno strumento nelle mani di Dio.
- Chiese giacobite, copte,etiopi, armene: sono chiese
monofisite eutichiane: prima dell’unione due nature; dopo
l’unione la natura umana è assorbita da quella divina.
- Uniati: costituiscono raggruppamenti di dissidenti
delle precedenti chiese; si uniscono a Roma dal XVI sec. – Per
questo sono detti Uniati.
Tutte queste chiese sono gerarchicamente strutturate, fornite di un
capo supremo a cui sono sottoposti i vescovi, non sposati, i sacerdoti,
che, invece, possono essere anche sposati, e i laici.
Un ruolo importante ricopre al loro interno il monachesimo da cui provengono i vescovi.
Tutte queste chiese riconoscono il valore dei sacramenti che,
però, variano quanto al numero all’interno di ogni chiesa.
Ognuna di queste chiese è caratterizzata da una sua propria
liturgia in cui si riconoscono e che costituisce la loro specifica
identità. Pertanto, per queste comunità la liturgia
è un elemento importante che ne definisce la personalità.
SANT’AGOSTINO
Agostino è il padre della Chiesa Occidentale il cui pensiero
è risuonato nel corso dei secoli fino ai nostri giorni in tutta
la Chiesa.
Agostano nasce a Tagaste nel 354 e muore vescovo di Ippona nel 430. Suo
padre, Patrizio, era un funzionario dell’amministrazione
imperiale, fu battezzato poco prima di morire; la madre, Monica, fu,
invece, una fervente cristiana e contribuì con le sue preghiere
e lacrime alla conversione di Agostino.
La vita di Agostino si svolge tra gli ultimi splendori
dell’impero romano, sotto Teodosio I, e i primi segni di un
inequivocabile tramonto: nel 430, anno della sua morte, Agostino vede
la sua Ippona assediata dai Vandali.
Tre sono le tappe fondamentali attraverso cui passa la vita di Agostino:
- Dalla nascita al battesimo: dal fascino della
retorica si converte alla ricerca della sapienza. Viene a contatto con
il neoplatonismo e incomincia a intuire l’immaterialità
dell’essere e di Dio. Il contatto con
le Scritture e la predicazione di Ambrogio lo portano alla conversione
definitiva.
- Dal battesimo all’episcopato: abbandona la
cattedra di retorica che ha a Milano e la quasi certa carriera
nell’amministrazione pubblica e si ritira a Tagaste dove conduce
una vita da monaco con un gruppo di amici.
Alla morte del vescovo di Ippona, Valerio, Agostino che già
coadiuvava il suo vescovo, come diacono prima e presbitero poi, viene
eletto vescovo di Ippona.
- Episcopato: eletto vescovo nel 395 vi rimane per 35
anni fino al 430, anno della sua morte. Durante il suo ministero
episcopale non abbandona mai l’orizzonte monastico che
coltiverà per tutta la vita.
Si dedicò totalmente al suo ministero episcopale affrontando non
solo i problemi della vita pastorale della sua diocesi, ma anche i
grandi problemi della chiesa africana e in particolare il
Manicheismo,
Donatismo e Pelagianesimo.
Manicheismo
Mani è un filosofo persiano vissuto nel III sec., il suo
pensiero si radica nello gnosticismo e rispetto a questo non ha nulla
di nuovo se non una grande abilità nel sostenerlo e diffonderlo.
Secondo mani, tutta la realtà si spiega in forza di due
principi: le tenebre e la luce. Le tenebre si esprimono qui sulla terra
attraverso la materia, che è, quindi, un principio negativo;
mentre la luce si esprime attraverso lo spirito, che è
l’area del bene.
Il mondo è il luogo storico dove avviene il conflitto tra il
bene e il male, tra la luce e le tenebre, anzi, questo conflitto
è proprio dell’uomo per il suo essere composto di spirito
e materia.
Il principio del bene, al fine di contrastare quello del male e
sottrarre l’uomo dal dominio della materia, mette in atto una
serie di iniziative salvifiche inviando all’umanità dei
grandi profeti per indicare loro la strada della salvezza: Budda,
Zoroastro, Gesù Cristo e, da ultimo, lui, Mani.
A questo movimento, fondamentalmente gnostico, il Mani dette una
struttura paraecclesiastica e un fondamento autogiustificativo del suo
pensiero.
Agostino affronta il manicheismo attraverso tre passaggi:
- Filosofico: sostiene che non esiste un principio
del male, poiché esso altro non è che una carenza di bene.
- Teologico: le Scritture attestano che la creazione
proviene da Dio, quindi, anche la creazione è buona.
- Fede – Ragione: non vi è
contraddizione tra fede e ragione. Infatti, l’uomo quando nasce
si inserisce in un traditum e si fida di quello che gli viene
trasmesso. Solo in un secondo momento la ragione procederà alla
verifica di quanto ha creduto e lo recepirà come proprio
continuando a credere per meglio capire. Da qui l’assioma:
Intellego ut credam, credo ut intellegam.
Donatismo
Il donatismo, nato nel 313, è un problema tutto ecclesiologico e
ha coinvolto tutto l’episcopato africano, circa 200 su 400
vescovi.
I fatti: nel 313 muore il vescovo di Cartagine e lo sostituisce il
vescovo Ceciliano. I vescovi della Numidia si opposero
all’elezione di Ceciliano perché consacrato da un vescovo,
Felice di Aptungi, che era sospettato di essere un Traditor,
cioè di aver consegnato i libri sacri perché fossero
bruciati, durante la persecuzione di Diocleziano.
Pertanto il vescovo era ritenuto indegno e, quindi, la consacrazione invalida.
Da parte dei vescovi della Numidia venne eletto, invece, un altro
vescovo, tale Maggiorino, che, sfortunatamente morì due mesi
dopo. Lo sostituì il vescovo Donato, elemento di grandi
capacità che organizzò la chiesa donatista in opposizione
a quella cattolica.
Secondo Donato, ciò che definisce la chiesa è la sua
santità, nel senso di “chiesa erede dei martiri”,
quella chiesa, cioè, che non ha mai ceduto nelle persecuzioni e
che inflessibilmente ha sempre espulso i lapsi.
Soltanto questa chiesa è abilitata a somministrare validamente i
sacramenti e a comunicare la salvezza. Pertanto, ogni battesimo
somministrato al di fuori di questa chiesa è invalido.
Ciò che sottende tale concezione di chiesa è l’idea
che Gesù Cristo ha dato la piena potestas e, quindi,
l’auctoritas a gestire una sorta di monopolio della salvezza.
Di fronte al donatismo Agostino prende due posizione:
- Ricerca i rapporti personali con i vescovi
donatisti, cosciente che la questione non era solo dottrinale, ma era
anche necessario superare una certa diffidenza attraverso il dialogo.
- Dibattito teologico. La chiesa è una
realtà complessa che si esplicita in due grandi dimensioni:
celeste e terrena. Quanto alla chiesa celeste, essa è pienamente
santa perché pienamente e definitivamente in Dio; quanto a
quella terrena, essa è santa da parte di Dio, ma da parte degli
uomini è una chiesa in continuo cammino di conversione e che
vive grazie alla pazienza di Dio e il suo vivere non è sempre
ineccepibile. Tale chiesa non ha la potestas, ma solo il ministero. Il
suo compito è quella di essere segno della presenza di Dio che
attraverso di essa e del suo ministero dona la salvezza agli uomini.
Agostino, infine, precisa anche come il cristiano può appartenere alla chiesa.
Il suo appartenere si esplicita in due modi: secondo la communio
sanctorum e la communio sacramentorum. Questi due modi dovrebbero
essere sempre tra loro connessi. Infatti, a motivo della nostra
fragilità, può accadere che si partecipi alla communio
sacramentorum senza che questa porti con sé la communio
sanctorum. In altri termini, si può essere dentro la chiesa
visibile, ma non partecipare della vita profonda di questa.
Questo schema Agostino lo applica anche alla questione donatista e
afferma che il ministro può essere nella chiesa in communio
sacramentorum, ma non in communio sanctorum. Ma poiché è
sempre Cristo che opera, indipendentemente dalla dignità del
ministro, il sacramento rimane valido.
Pelagianesimo
Pelagio, monaco della Britannia, viene a Roma intorno al 400 e vi trova
un cristianesimo vissuto nella mediocrità ed elaborò il
desiderio di riformarlo secondo un grande ideale ascetico.
Pelagio parte dall’idea che l’uomo, creato libero, è
in grado con le sue sole forze di realizzare la volontà di Dio.
Così egli pensò l’uomo sotto tre dimensioni:
- Posse, come capacità di realizzare;
- Velle, come capacità di volere e decidere;
- Esse, come capacità di tradurre in azione.
Il posse,in quanto capacità di realizzare, ci proviene
direttamente da Dio, mentre il velle e l’esse, cioè la
capacità di decidere e di attuare, dipendono esclusivamente
dall’uomo.
In questa prospettiva il peccato di Adamo e la grazia di Cristo sono
soltanto due figure valide solo sul piano
dell’esemplarità: l’uno ci ha dato il cattivo
esempio, mentre l’altro ci porta a conoscenza della
volontà di Dio che noi con il nostro velle ed esse possiamo
realizzare.
Viene, in tal modo svuotato tutto il contenuto salvifico delle due
figure. Di conseguenza preghiera e sacramenti sono solo atti di
devozione a Dio. Ciò che conta è solo l’impegno
della volontà a realizzare le esigenze di Dio.
Ciò che sta sotto a questa teologia pelagiana è
probabilmente una mentalità stoica: ogni natura ha in sé
il suo fine ed è attrezzata per poterlo raggiungere. In
ciò si ravvisa la provvidenza di Dio.
Agostino comprende che la questione, posta in questi termini, svuota di
significato ciò che è vitale per il cristianesimo.
Il problema riguarda il modo con cui siamo salvati.
Agostino afferma che se Cristo ci ha salvati con la sua morte e
risurrezione, ciò sta a significare la nostra incapacità
a salvarci con la sola nostra buona volontà. Se così
fosse, infatti, potremmo dire con S.Paolo “che se la
giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano”
(Gal. 2,21).
Pertanto, la Grazia non è soltanto la capacità che
l’uomo ha per natura, ma è, invece, l’Amore di Dio
che si è offerto all’uomo in Cristo e che continuamente si
offre a noi.
Pertanto, conclude Agostino, senza grazia noi non potremmo salvarci,
anche se rimane vero che l’uomo se non si rende disponibile a
tale grazia non si salva. E’, quindi, necessario un atto di
libera volontà e di libera accoglienza da parte dell’uomo
perché la grazia operi efficacemente.
Agostino, pertanto, arriva ad affermare che quel “Dio che ci ha
creati senza di noi, non ci salva senza di noi”; pertanto,
“grazia di Dio e libertà dell’uomo si sostengono a
vicenda”. Quindi Grazia di Dio e Libertà dell’uomo
sono produttrici di salvezza quando l’uomo, incontrandosi con
Dio, si apre liberamente a Lui.
In questo quadro, dunque, Agostino si muove nell’ambito dell’Alleanza, Pelagio in quello della natura.
La vicenda del pelagianesimo si conclude con un sinodo tenuto da papa
Zosimo nel 418 a Roma in cui si ribadiscono contro il pelagianesimo tre
punti fondamentali:
- La morte non è un fatto naturale per
l’uomo, ma è conseguenza del peccato; si tratta della
morte così come l’uomo la sperimenta;
- Il battesimo è necessario per la salvezza;
mentre Pelagio affermava che i sacramenti sono semplici atti di
pietà verso Dio;
- La Grazia di Dio è assolutamente necessaria per essere salvati.