STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE





Scarica PDF




LE PREMESSE AL MEDIOEVO E I SUOI CARDINI FONDAMENTALI


Nessuna epoca muore senza preannunciare in sé quella successiva. Nessuna epoca nuova nasce senza affondare le sue radici in quella precedente.

Così, dunque, avvenne anche per il Medioevo.

I presupposti dell’epoca medievale si profilano già nella tarda antichità. Essi si possono sintetizzare nei seguenti punti:

-    La divisione del grandioso Impero Romano Cristiano, inaugurato da Costantino, in Impero d’Oriente e Impero d’Occidente. Tale divisione affonda le sue radici         nella decisione di Costantino di trasferire la capitale dell’Impero da Roma a Costantinopoli l’ 11 maggio 313 e che diviene definitiva dopo la porte di Teodosio il         Grande nel 395.
-    Politica dei papi romani del IV e V secolo che, richiamandosi all’apostolo Pietro, si sono attribuiti un potere sempre più grande nella Chiesa, esteso anche allo Stato      a seguito del vuoto politico e di presenza lasciato dagli imperatori che dal 330 avranno sede stabile a Costantinopoli, la nuova Roma.
-    La grande teologia di S.Agostino (354-430), padre del pensiero occidentale.

Questi elementi, tuttavia, non sarebbero stati di per sé sufficienti se ad essi non se ne fossero aggiunti degli altri, che si rivelarono determinanti per la fondazione di una nuova epoca, quali:

-    Le migrazioni dei popoli germanici del V e VI secolo con il conseguente crollo dell’Impero romano (476) e il battesimo del re merovingio dei Franchi Clodoveo (498).
-    La comparsa sulla scena della storia di Maometto (622) e dell’Islam con le sue conquiste dei paesi del Mediterraneo appartenenti al vecchio Impero d’Occidente.
-    La rifondazione del sacro Romano Impero da parte di Carlo Magno nella notte del Natale dell’800, in cui potere sacro e profano si fondono in un connubio che porterà ad un invischiamento della Chiesa nel potere temporale ed ha, come contropartita, una decadenza spirituale della stessa; nonché alle lotte per l’investitura, con le quali la Chiesa cercherà di sottrarsi all’asfissiante teocrazia imperiale, e che si chiuderanno con il “Concordato di Worms” del 23 settembre 1122 tra papa Clemente II ed Enrico V.
-    Ma sarà con la riforma gregoriana dell’XI secolo (Gregorio VII - 1073-1085), che avrà il suo apogeo tra l’XII e il XIII secolo in Innocenzo III (1198-1216), che il Medioevo troverà il suo culmine così che, già con i secoli XIV e XV, si troverà in piena crisi e metterà le premesse ad una nuova epoca: quella moderna.


CHE COSA SI INTENDE PER MEDIOEVO

Con il termine Medioevo si delinea quel periodo che va, all’incirca, tra il 400 e il 1500 d.C., cioè dal periodo Tardoantico all’Umanesimo e pieno Rinascimento.

Tale termine sorge nel XVI sec. tra gli umanisti ed è già presente in Petrarca (1304-1374).

La valutazione di tale periodo da parte degli Umanisti è decisamente negativa perché vedono in esso la fine del mondo classico, decretato dal suo imbarbarimento a seguito delle invasioni barbariche. Così, pure, negativo fu giudicato dai Protestanti, nel periodo della Riforma, che in esso videro la decadenza della Chiesa.

Negativo fu, anche, il giudizio degli Illuministi che in esso videro l’oscuramento della Ragione.

Uniche voci fuori del coro furono il Romanticismo e la moderna Storiografia che vedono, invece, nel Medioevo l’affiorare di nuovi popoli e culture, nonché la culla dell’Europa moderna.

Non tempo di oscurantismo, dunque, ma inizio e gestazione di una nuova era e di un nuovo mondo: quello Occidentale.

È il periodo questo in cui nel mondo si vanno delineando tre grandi civiltà: la bizantina, l’islamica  e quella germanica, da cui, poi, nasceranno i tre grandi poli: Oriente, Occidente e Arabo-islamico.

Benché non ci sia ancora un accordo tra gli storici, il Medioevo lo si fa iniziare verso la fine dl IV sec. con le migrazioni delle popolazioni germaniche.

Grande importanza riveste, inoltre, il VII sec. in cui nacque l’Islam (622) che porterà, poi, alla spaccatura del mondo in due grandi blocchi: cristiano-occidentale e arabo-islamico.

Nell’ambito della Chiesa il Concilio Trullano (692) segna la fine delle lunghissime controversie sorte dopo il Concilio di Calcedonia (451) sul monofisismo.


DIVISIONE DELLA STORIA MEDIEVALE

La storia medievale può essere divisa idealmente in quattro parti:

I Parte:   400 – 700  (l’incubazione)

È questo il periodo della formazione del Medioevo: le cultura romana e germanica si incontrano. L’incontro tra le due civiltà è ancora del tutto superficiale e avvenne per mezzo dell’attività missionaria della Chiesa.

Benché Clodoveo fosse battezzato (469) e con lui tutto il suo popolo,  tuttavia, dovette passare molto tempo prima che i valori cristiani e della romanità venissero assimilati.

È questo, dunque, il periodo in cui, grazie alla mediazione della Chiesa, l’Antichità romana si incontra con le giovani popolazioni germaniche.

II Parte:   700  -  1050  (la coesione)

È questo il periodo in cui si verifica la maggiore compenetrazione tra le culture romana e germanica che porterà alla formazione e alla strutturazione della società con caratteristiche tipicamente medievali (principi, nobili, liberi, semi-liberi, schiavi e servi della gleba) che influenzeranno anche la struttura e la vita stessa della Chiesa.

È il periodo in cui Bonifacio e Carlo Magno, stipulando un’alleanza tra Chiesa e Stato, gettarono le basi per la formazione dell’Occidente. È in questo periodo che la figura della Chiesa si associa a a quella della proprietà terriera e territoriale.

La suddivisione della società in classi si ripercosse anche all’interno della Chiesa che suddivise il Clero in “alto” e “basso”.

L’animosità combattiva dei Germani si riflette nella formazione delle figure del cavaliere cristiano e delle crociate.

La regalità assume toni decisamente sacri e religiosi: il re è unto, consacrato dalla Chiesa e si riserva di interferire nelle sue vicende interne fino a giungere alla lotta per le investiture.

Sacro e Profano si supportano a vicenda, si fondano e si confondono.

III Parte:   1050  -  1300  (la diastasi)

L’eccessiva ingerenza degli imperatori nelle faccende interne della Chiesa provoca la decisa reazione di questa e l’estremo tentativo di Bonifacio VIII (1294-1303) di imporsi sul francese Filippo il Bello con la bolla “Unam Sanctam”, ma inutilmente.

Fu questa un’epoca alquanto agitata e inquieta che vede Papato e Impero in lotta tra loro:Enrico IV contro Gregorio VII, Barbarossa contro Alessandro III, Federico II contro Innocenzo III; furono queste le punte massime del conflitto.

Con Innocenzo III il papato divenne il polo catalizzatore dell’intera cristianità occidentale.

È l’epoca delle crociate, ma anche dello sviluppo degli ordini monastici, della spiritualità e della cultura: nascono le prime università europee, ma si sviluppano molto anche le eresie; l’arte si esprime nel romanico e nel gotico.

IV Parte:    1300  -  1500  (nuova incubazione)

Le grandi lotte tra il Papato e l’Impero hanno scosso profondamente la struttura dell’Impero stesso, che si basava essenzialmente su una intima alleanza tra Chiesa e Stato.  La grande rivalità e i tentativi di egemonia di una parte sull’altra minarono profondamente l’unità dell’Impero e l’autorità della Chiesa che all’impero era strettamente connessa.

A questi fattori si aggiunsero altri elementi che determinarono la spaccatura tra Chiesa e Impero e prepararono, all’interno della Chiesa stessa, lo scisma luterano del XVI sec. Questi furono:

-    I nascenti stati nazionali che si sottraggono al potere papale e imperiale.
-    L’unitaria cultura dell’Alto Medioevo (400-1050), che accomunava tutti i popoli, incominciava a differenziarsi e a caratterizzarsi.
-    Progressiva emergenza del Laicato che si sottraeva sempre più al governo del Clero.
-    Forti tensioni tra Papato ed Episcopato che si esprime nel conciliarismo, che tende nelle sue forme estreme di dare una base democratica e “parlamentare” alla              Chiesa.
-    Lo spirito critico dell’Umanesimo e la Riforma protestante concluderanno un’epoca: il Medioevo che, per un lungo millennio, realizzò “Un solo gregge, un solo          Pastore”.


LE CARATTERISTICHE DEL MEDIOEVO


I tratti che caratterizzarono il Medioevo si possono così sintetizzare:

-    La comunità occidentale di tutti i popoli condivideva, incontestabilmente, l’unica convinzione che un unico legame religioso e metafisico univa tutti a Dio. Esisteva      un’unica verità e un’unica morale, che obbligava e univa tutti gli uomini e in cui tutti si riconoscevano; un’unica autorità morale a cui tutti si sottoponevano: la              Chiesa.
Quanto a peccatori ed eretici, questi erano controllati e repressi con gravi penitenze e/o perseguitati dall’Inquisizione perché non inquinassero la Cristianità e l’Impero su cui si fondava.

-    La vita dell’intera comunità dei popoli si riconosceva e dipendeva dalla simbiosi tra Stato e Chiesa, tra Papato e Impero.
Mentre in Oriente la vita dei popoli era governata da un unico potere, quello imperiale, in Occidente si configurò, fin dall’inizio, un dualismo di poteri che sarà di fondamentale importanza per lo sviluppo del pensiero e del sentire futuri.
Impero e Papato erano due potenze che si erano tra loro condizionate, plasmando l’unità occidentale.
-    Rigida suddivisione delle classi sociali, ritenuta pienamente rispondente al volere divino. IL feudalesimo si fondò su tale ordine.
-    La cultura, fino al XIII secolo, fu monopolio ecclesiastico. Ogni attività culturale e spirituale era in mano ai Chierici e le Università nacquero intorno al 1200 come fondazioni ecclesiastiche. Il Laicato dovrà attendere la fine del Medioevo per raggiungere una loro autonomia culturale.



IL DISTACCO DI ROMA DA COSTANTINOPOLI




LE CAUSE DEL DISTACCO


Diverse furono le cause della nascita del Medioevo, tra queste riveste particolare importanza il connubio tra la Chiesa e le popolazioni barbariche, favorito dal progressivo distacco di Roma da Costantinopoli durante il secolo VIII.

Il lento e progressivo distacco tra Oriente e Occidente affonda le sue radici gia nel V sec.

Fino al 397, morte di S.Ambrogio, la Chiesa è uniforme in tutto l’Impero Romano, che forma da collante. Ma già dal V sec. vengono a crearsi delle forti tensioni tra le chiese di area Orientale e quelle di area Occidentale.

Le cause che favorirono la separazione tra l’Oriente e l’Occidente furono essenzialmente tre:

-    Diversificazione linguistica: dal greco, lingua ufficiale della Chiesa, si passa al latino. La Chiesa occidentale incomincerà ad ignorare il greco introducendo al proprio interno il latino. In tal senso, papa Damaso (380) introduce la lingua latina nella liturgia occidentale e affiderà a S.Girolamo la traduzione dal greco in latino della Bibbia dei Settanta. Nasce così la “Vulgata”.
Ma il cambio di lingua modifica il linguaggio e il modo di intendere le cose. Si verifica così un cambio di cultura e di prospettiva. Così l’Oriente rimane bizantino, mentre l’Occidente diventa latino.
-    Frattura politica: l’Occidente, come impero, finisce subito sotto la spinta delle invasioni barbariche. L’Oriente, invece, durerà fino al XV sec. e termina con la caduta di Costantinopoli (1453) sotto la spinta degli arabi.
Si creerà, inoltre, una forte avversione dell’Occidente nei confronti dell’Oriente che per alleggerire la pressione dei barbari concede agli stessi degli stanziamenti in Occidente, che dall’Oriente è ritenuto, ormai, imbarbarito e, quindi, culturalmente inferiore.
-    Diversa struttura ecclesiale: con l’ 11 maggio 330 la sede imperiale viene spostata da Roma a Costantinopoli, la nuova Roma, da Costantino. In Occidente, pertanto, viene a crearsi un vuoto politico e amministrativo che viene tacitamente e lentamente riempito dalla Chiesa, che diventa la naturale erede dell’ex Impero di Occidente, abbandonato di fatto dall’Imperatore. Roma, e con lei l’Occidente, ritiene di poter operare autonomamente, abbandonando di fatto l’Imperatore e il suo Impero d’Oriente.

Inoltre, un diverso modo di sentire la chiesa separa l’Oriente dall’Occidente:

-    Per l’Oriente la struttura è quadripatriarcale (Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, Gerusalemme), mentre Roma è il quinto patriarcato.
-    Inoltre, per l’Oriente le decisioni devono essere sempre comunitarie e concordi. Non era, pertanto, pensabile che Roma da sola decidesse per tutti e sopra tutti. Da ciò ne nasce che l’Oriente è comunitario, mentre l’Occidente è monarchico.

Comunque, al di là di tutto, è il clima che, ormai, era cambiato: l’Oriente è, per suo modo di essere, contemplativo; mentre l’Occidente ha una visione pratica e concreta delle cose. Questo diverso modo di sentire si riflette molto bene nelle diverse liturgie:  coreografiche e ricche di simbolismo quelle orientali; sobrie e concrete quelle occidentali.

Queste diverse cause di frizione tra Oriente ed Occidente si concretizzarono già nel V secolo in due rotture nei rapporti: la prima di 11 anni (404-415), la seconda di 50 anni (484-534), causata, quest’ultima, dall’emanazione dell’Enoticon (482) di Zenone, nell’intento di sedare le controversie cristologiche tra monofisiti e difisiti, conseguenti al Concilio di Calcedonia (451).

Dal V sec. in poi l’Oriente e l’Occidente percorsero strade che li estraniarono sempre più, in particolar modo sulle questioni monofisite e difisite, lasciate in eredità da Calcedonia e da cui si sviluppò il monotelismo e il monoenergismo. L’Oriente, infatti, non riusciva a combinare la suprema purezza di Dio con la natura decaduta dell’uomo. Questa diatriba monotelita venne ricomposta ne Trullano I (680), ricomponendo i rapporti tra le due Chiese.

A turbare questa difficile pace ci si mise Giustiniano II (685-695) che volle immischiarsi nelle faccende interne della Chiesa relativamente alla disciplina ecclesiastica. Pertanto, egli convocò nel 692 un concilio, il Trullano II, senza consultarsi con il papa Sergio I (687-701). Un concilio che nell’idea dell’imperatore doveva completare l’opera dei due precedenti concili, il V° o Costantinopolitano II del 553 e il VI° o Costantinopolitano III del 680, detto Trullano I. Per questo il Trullano II venne anche chiamato Concilio Quininsesto.

Dei 102 canoni approvati molti erano in aperto contrasto con le usanze della Chiesa d’Occidente, per cui Sergio I si rifiutò di sottoscriverli, respingendo anche la copia a lui riservata, nonostante le forti pressioni imperiali su lui esercitate.

Un accordo su questi canoni si raggiunse solo con papa Costantino I (708-715) che ne accettò solo una cinquantina, dopo essersi recato a Costantinopoli dove vennero rinnovati i privilegi alla Chiesa romana.


NUOVE CONTROVERSIE: LEONE III E I PAPI GREGORIO II E GREGORIO III


Definita la questione dei 102 canoni del Trullano II o Quininsesto (692), la pace tra Stato e Chiesa venne nuovamente turbata da due contenziosi scoppiati tra l’imperatore Leone III e i papi Gregorio II (715-731) e Gregorio III (731-741).

Salito al trono, Leone III dovette sostenere un notevole sforzo bellico per vincere gli Arabi e domare la ribellione in Sicilia. Queste guerre prosciugarono le casse erariali e spinsero Leone III a imporre pesanti tasse anche alla Chiesa di Roma, violandone, in tal modo, i privilegi.
Gregorio II si oppose fermamente a queste angherie imperiali, ritenendole una grave offesa alla Chiesa d’Occidente; mentre Leone III interpretò il rifiuto papale come un atto di ribellione che cercò di reprimere, ma invano, sia per una insurrezione popolare, sia per l’inaspettato schierarsi dei Longobardi a favore del papa.

LA LOTTA ICONOCLASTA

Un altro motivo di lite tra Impero e Papato fu la lotta iconoclasta, che si sviluppò in due momenti e durò circa un secolo:

La prima fase (726-787) ebbe inizio con l’ordine di Leone III di distruggere le immagini di Costantinopoli e di perseguitare i monaci che le custodivano. Fu in questa prima fase che intervenne Giovanni Damasceno che pose la distinzione tra adorazione e venerazione .

La lotta iconoclasta venne condannata dalla Chiesa di Roma i cui rapporti con Costantinopoli si aggravarono quando Leone III, nell’ambito di una riorganizzazione dell’Impero decurtò notevolmente la giurisdizione territoriale del Patriarcato Romano a favore di quello di Costantinopoli. Roma perse l’Italia meridionale, la Sicilia, la Grecia, la Macedonia e la penisola balcanica.

Lo scontro continuò aspro con il figlio di Leone III, Costantino V, che si intestardì nella lotta alle immagini facendo elaborare una teologia iconoclasta.

Le cose si rappacificarono con il Concilio Niceno II (787), indetto dall’imperatrice Irene in accordo con il papa Adriano (772-795), benché questo, per un malinteso, non venisse approvato dal sinodo di Francoforte, riunito da Carlo Magno che si era visto escluso dalla decisione conciliare.

La seconda fase  (814-843)

Una seconda fase si ebbe con Leone V che scatenò una nuova offensiva iconoclasta, attribuendo all’allentamento della lotta contro le immagini le pessime condizioni dell’impero.

Ma l’imperatrice Teodora, come fece Irene, convocò nell’ 843 un nuovo concilio in cui si riammise il culto delle immagini e si istituì la Festa del Trionfo dell’ortodossia, celebrata ancor oggi nella prima domenica di Quaresima.

Le motivazioni della iconoclastia

Le motivazioni che hanno sostenuto la iconoclastia risiedono non solo in Es. 20,4 e Dt. 4,15 in cui si proibisce il culto delle immagini, ma anche nella cultura ebraica e islamica che ritengono le immagini una violazione della trascendenza di Dio che, in quanto tale, non può essere rappresentato.
A ciò va aggiunta anche la tradizione della Chiesa primitiva, contraria alle immagini, nonché il timore dei vescovi di un ritorno all’idolatria e al paganesimo.

L’insieme di questi motivi trovarono anche un loro fondamento teologico nel concilio di Hieria (754)

Contro il fronte iconoclasta si schierò Giovanni Damasceno che pose l’importante distinzione tra “adorazione”, dovuta solo a Dio, e la “venerazione”, dovuta, invece, solo ai santi.

Venne, inoltre, evidenziato come Dio stesso, con l’incarnazione, assunse l’immagine dell’uomo a cui, pertanto, è concesso di usare per il proprio culto le immagini che, ben lungi dal racchiudere la divinità o rappresentarla, rimandano, invece, ad essa.



EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI GERMANICI
NEL PERIODO DELLE TRASMIGRAZIONI




PREMESSA



Le invasioni barbariche o migrazioni dei popoli del nord, i quali si costituirono in regni approfittando della debolezza dell'Impero romano tardo antico, modificarono notevolmente l'assetto politico-militare di quest'ultimo, ma incisero profondamente anche sul cristianesimo.

Nell’ambito di questo grande movimento di popoli, il regno che meglio si impose, raggruppando in sé la maggior parte delle popolazioni germaniche, fu quello dei Franchi, fondato da Clodoveo (451-481).

Il cristianesimo,  trasmesso e assimilato da questi popoli, fu adattato alla loro mentalità e ne subì l'influenza al punto da costituire una chiesa nobiliare che faceva capo al re (periodo teocratico), provocando, nel tempo, la reazione della chiesa stessa che, a partire dalla riforma gregoriana (1073-1085) e passando attraverso il Concordato di Worms (1122), si impose con Innocenzo III (1198-1216), rovesciando le posizioni di forza: da una teocrazia imperiale ad una ierocrazia papale.


L’IMPATTO CON  L’IMPERO ROMANO E LA CRISTIANIZZAZIONE



Spinti, pertanto, dalla loro crescita demografica e dal desiderio di sedenterizzazione, già nel IV secolo, si affacciarono all’orizzonte dell’Impero Romano interi popoli di razza germanica.

Nel 410 Alarico con i suoi Goti entrò in Roma, preannunciando la definitiva caduta dell’Impero del 476.

Nel frattempo altre popolazioni germaniche si stabilirono nell’area occidentale come segue:

-    i Visigoti in Acquitania e Spagna;
-    i Franchi nella Gallia del Nord;
-    gli Ostrogoti in Italia;
-    i Vandali nell’Africa del Nord;
-    i Burgundi nella valle del Rodano.

L’impatto di queste popolazioni germaniche pagane con l’Impero Romano cristiano pose il problema della loro cristianizzazione, grazie alla quale esse vennero assorbite nella cultura dell’Impero Romano e in esse integrate attraverso un’ampia e capillare azione missionaria che si irradiò in tutta l’Europa occidentale.

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA

Già tra il IV e il VI secolo una rete di missionari diffusero il cristianesimo tra queste popolazioni così che verso la fine del 600 le principali popolazioni germaniche erano, ormai,  cattoliche.

Solo alcuni nomi significativi di missionari di questo primo periodo della cristianizzazione:

-    il vescovo Ulfilo (311-383) per i Goti;
-    S.Martino (316-397) di Tour per la Gallia;
-    S.Patrizio (389-461) per l’Inghilterra e Irlanda;
-    Il papa S.Gregorio Magno (590-604) invia S.Agostino di Caterbury con 40 monaci nella Bretagna.

Le chiese qui formatesi, ovviamente, non erano ancora legate a quella di Roma, ma erano autonome e dipendenti dal re locale. Sarà solo con S.Bonifacio (675-754) che si creerà la grande unificazione di tutte queste chiese sotto Roma.

I METODI  MISSIONARI

Ma come avveniva questa cristianizzazione? Come si muovevano questi missionari per ottenere risultati così eclatanti in mezzo a questi popoli barbari?
Nel medioevo solo la nobiltà godeva di libertà e diritti politici. Era giocoforza, quindi, puntare per la conversione dei popoli sulla nobiltà e in particolare sul re. Infatti, convertito il re, a cascata si convertivano i nobili; mentre i ceti inferiori, in totale dipendenza dei nobili, dovevano semplicemente eseguire un cambio di religione, sostituendo riti e culti pagani con quelli cristiani e le loro divinità con il Dio immortale dei cristiani.

Il cambio di divinità, poi, non costituiva un problema, dato che tali cambi erano abbastanza frequenti. Inoltre le comunità cristiane avevano anche acquisito prestigio nel campo della vita pubblica, sociale e culturale in quanto unite nella fede, nella dottrina e nella vita disciplinata dal diritto e dalla legge.

Lo stesso Clodoveo per l'amministrazione del suo regno dipendeva dalla chiesa gallica.

Nell'ambito di questo quadro, pertanto, si ebbe un'enorme espansione del cristianesimo con conversioni e battesimi di massa.

Tuttavia a questo cristianesimo di superficie e di convenienza politica doveva seguire un lungo periodo di assimilazione esistenziale, non sempre facile e scontato.

La catechesi era ridotta all'insegnamento delle preghiere fondamentali e alla confessione, che conteneva il catalogo dei doveri cristiani.

LA CRISTIANIZZAZIONE DEI GERMANI, CELTI E SLAVI

Durante i mille anni del Medioevo i popoli germanici furono cristianizzati dapprima con conversioni individuali, poi di massa a seguito della conversione del re e, infine, con quelle forzate condotte a fil di spada.

Il cristianesimo assorbito dai Visigoti, Vandali, Burgundi e Longobardi era segnato dall'arianesimo e  costituì per queste popolazioni una sorta di caratterizzazione che le distingueva dalle popolazioni da loro conquistate di origine ortdossa-cattolica. Ma questo arianesimo impedì loro di avere un ruolo duraturo ed efficace nella formazione dell'occidente cattolico. Tale ruolo, invece, fu assunto da Clodoveo, battezzato nel 498 da Remigio, vescovo di Reims; mentre al cattolicesimo spagnolo di Recaredo, re dei Visigoti, vennero tarpate le ali dalle invasioni arabe del 711.

L'ATTIVITÀ MISSIONARIA IN EUROPA NELL'ALTO MEDIOEVO

Nel corso del V sec. tutta la Gallia passò al cristianesimo che si rafforzò con la conversione dei nobili. L'impulso missionario partì inizialmente ad opera dei vescovi, ma ben presto si estese e si affermò sempre più presso i monasteri, tant'è che tra il VII e l'VIII sec. protagonisti della missione furono i monaci che divennero un importante supporto al cristianesimo in Europa e fonte di un continuo rinnovamento della Chiesa.

La cristianizzazione comportò sempre più il coinvolgimento del Regno dei Franchi che videro in questa attività missionaria l'occasione per poter espandere i propri territori e le proprie influenze politiche sulle popolazioni cristianizzate. Purtroppo questo comportò anche che il cristianesimo venisse visto come la religione dei vincitori e, pertanto, respinto o combattuto.

I principali attori di questa ampia azione missionaria che si diramò in tutta Europa furono dapprima i monaci iro-scozzesi e gallo-franchi, poi gli anglosassoni e i franchi.

LE MISSIONI IRO-SCOZZESI

I missionari iro-scozzesi provenivano dalle isole britanniche dove, in Irlanda, si era costituita una chiesa celtica, che ebbe un taglio nettamente monastico così che, ben presto, i conventi si sostituirono ai vescovati nell'attività pastorale al punto che si parla di una "chiesa conventuale celtica".

Lo slancio missionario, pertanto, ebbe origini monastiche. Infatti monaci, mossi dall'idea della "Peregrinatio pro Christo", lasciavano la loro patria e si dedicavano con profonda fede e convinzione alla diffusione del cristianesimo in Europa dove fondavano numerosi monasteri a cui veniva dato impulso dai signori locali e dai re merovingi. Nell'ambito di questo quadro va ricordato uno dei più celebri monasteri: quello di Luxeuil, fondato da S.Colombano.

LE MISSIONI ANGLOSASSONI

Dal 750, a fianco dei monaci iro-scozzesi, incominciarono ad evangelizzare anche quelli anglosassoni.

Probabilmente comunità cristiane,giunte con le invasioni di Roma, sopravvissero al ritiro degli eserciti romani e diffusero il cristianesimo con l'aiuto delle missioni iro-scozzesi.

Centri di cristianesimo furono, come al solito, i monaci, tra cui si distinse Beda il Venerabile (735).

Loro territorio fu il continente europeo e, in particolare, le terre inesplorate dei Frisoni, Turingi e Sassoni. Le missioni erano compiute sotto la protezione di re e signori.

Il maggiore esponente di questi missionari anglosassoni fu Winfrido che assunse il nome di Bonifacio. La sua opera fu sempre strettamente legata a Roma e, grazie a lui, le chiese locali vennero sempre più legate al papa così che il cristianesimo assunse sempre più in tutta Europa la coloritura della romanità.

Winfrido, dopo una sua prima missione presso i Frisoni, di scarso successo, nel 718 riprese la sua attività missionaria che mise sotto il mandato papale di Gregorio II, che lo inviò ad evangelizzare i "popoli selvaggi della Germania". In questa occasione, come di consuetudine tra i monaci missionari, egli assunse il nome di un martire romano: Bonifacio.

Nel 722 prestò giuramento di fedeltà al papa e da allora rimase sempre fedele e legato a Roma e con lui tutti i territori da lui evangelizzati.

Ricevuto il titolo di "Missus Sancti Petri per Germaniam" con l'incarico di costituire una provincia ecclesiastica, pensò ad una riforma della Chiesa in Gallia, ma fallì perché tale progetto urtava gli interessi politici di Carlo Martello.
Per contro, la cosa riuscì alla morte di Carlo Martello, sotto Carlomanno e Pipino il Breve. Tuttavia, nuove tensioni politiche gli impedirono gli impedirono la piena realizzazione del suo progetto.

L'ultima missione da lui compiuta fu la ripresa della sua iniziale missione presso i Frisoni dai quali venne assassinato.

LE MISSIONI NEL REGNO CAROLINGIO

Sotto Carlo Magno e suo figlio Ludovico il Pio (814-840) il cristianesimo franco si estese a Sud-Est , verso la Bassa Austria e la Stiria-Carinzia e a nord-est verso i sassoni che si rifiutarono di accogliere il cristianesimo a cui era connessa la franchizzazione dei territori.

Carlo Magno, dopo lunghe guerre, riuscì a spezzare la resistenza di re Viduchindo che accolse, suo malgrado, il cristianesimo a cui ci si oppose con lotte locali fino al IX sec.

Sotto Carlo Magno la Chiesa franca ricevette una propria organizzazione, mentre il vescovato era diventato il centro della coordinazione delle chiese.

Le riforme carolinge finalmente riuscirono ad attuare il sogno di Bonifacio: eliminare gli abusi delle chiese autonome e porre freno al loro decadimento locale.

Tra il VII e il IX secolo, grazie anche alla pressione politico-militare del Regno Franco, il cristianesimo ebbe una rapida diffusione tra i popoli germanici.

LA MISSIONE NEL REGNO GERMANICO   

Mentre nel IX secolo l'espansione del cristianesimo legato al regno franco subì una stasi per la crisi di questo, nel X sec. le tribù germaniche si fusero formando il Regno germanico. Da qui riprese il movimento missionario, che si espanse verso est anche con forme violente e sanguinarie di cristianizzazione.

Magdburg divenne un centro missionario per la Polonia che venne annessa, in tal modo, all'impero germanico.

LA CHIESA IRLANDESE

Tra queste numerose chiese una merita una particolare attenzione: quella irlandese.
Questa, fondata da S.Patrizio nel V secolo, venne ripresa nel VI sec. dal monachesimo irlandese sviluppatosi intorno al 500 e che fu di grande importanza non solo per l’Irlanda, ma per l’intera Europa.

Il cristianesimo irlandese, pertanto, assunse una coloritura e un ascetica tipicamente monastiche, mentre i monasteri divennero centri di spiritualità e di cristianità, sostituendosi, gradualmente, alle parrocchie e alle stesse diocesi. Molti vescovi dell’epoca erano monaci e, pertanto, soggetti al priore del convento di appartenenza, sicché tutta la chiesa irlandese assunse un’impronta marcatamente monastica.

Tra le varie caratteristiche che distinsero la chiesa irlandese da quella romana vi fu la data della Pasqua e la penitenza privata, sconosciuta quest’ultima nella chiesa romana, ma non a quella irlandese e ai suoi monaci. Essa fu portata anche in Europa assieme ai “Libri penitentiales” in cui per ogni tipo di peccato erano designate determinate penitenze, cosa che risultò molto utile e pratica per i confessori.

LA GRADUALE UNIFICAZIONE DELLE CHIESE SOTTO ROMA

Ma fu proprio questo elemento “monacale” della chiesa irlandese, caratterizzato dall’individualismo chiuso e ascetico, che ne decretò anche la sua marginalità in occidente in cui, invece, grande influsso ebbe la chiesa inglese, fondata da S.Agostino di Canterbury, inviato in Inghilterra da Gregorio Magno (590-605) con 40 monaci.

Da qui ne uscì S.Bonifacio (Winfrido di York) che condusse la sua missione per tutto l’Occidente, legando e unificando tutte le chiese e, quindi, tutto l’Occidente alla Sede di Roma. Infatti, prima di ciò, le chiese erano strettamente locali e sotto la diretta influenza dei re che rivestivano anche una figura sacra e religiosa.

In questa prima fase di cristianizzazione (IV-VI sec.) si assiste alla nascita di chiese che sono un intreccio e un amalgama di cristianità, di romanità e germanesimo.

Si veniva, dunque, formando il primo tessuto cristiano di queste popolazioni e si gettarono le basi per un nuovo impero e un nuovo Occidente che lentamente e gradualmente si staccherà sempre più dall’Impero d’Oriente.

La prima fase di questa azione missionaria (IV-VI sec.) fu caratterizzata da uomini di grande livello ascetico e spirituale che, spontaneamente e mossi solo dall’amore per Cristo, si dedicarono alla missione definita come un “peregrinari pro Christo” .

Ma a questa spontaneità e slancio missionari mancarono un coordinamento e un accentramento.

Nel frattempo , intorno all’ VIII secolo, emersero sulla scena politica tre potenze con cui il papato si destreggiava assumendo sempre più un ruolo centrale, grazie anche all’azione missionaria anglosassone e, in particolare, di S.Bonifacio che riunì la cristianità sotto Roma. Le tre potenze furono il Regno dei Longobardi, l’Impero Bizantino e il Movimento popolare italico riunito attorno al papa e sempre più distanziato dall’esosa Costantinopoli e dai Longobardi ritenuti barbari.


LA CRISTIANIZZAZIONE DELL’OCCIDENTE ATTRAVERSO LA MISSIONE


Fino all’avvento dei Carolingi (752-987), la missionarietà era spontanea, non organizzata e, ancor meno, centralizzata. Ognuno si muoveva spinto dall’amore di Cristo  e della diffusione del Vangelo. In genere si puntava a convertire i capi e i principi a cui si associava, per fedeltà, il popolo. Ma in tal modo l’aspetto religioso si fuse, ben presto, con quello politico. Le popolazioni vinte erano assoggettate al cristianesimo e affidate ai predicatori. Il battesimo, di conseguenza, diventava un segno di sudditanza e obbedienza la conquistatore. E quando affioravano le resistenze al cristianesimo, le armi appianavano la strada; non mancavano, infatti, i predicatori che minacciavano il ricorso al principe in caso di resistenza alla conversione.

Una delle più grandi e significative figure della missionarietà di quest’epoca, tra il VII e l’VIII secolo, fu il monaco Vinfrido (S.Bonifacio 675-754), vescovo di York.

Questi a 40 anni parte l’evangelizzazione dei Frisoni, purtroppo fallita. Per questo si rivolse a Gregorio II. Questo suo rivolgersi a Roma fu una costante del suo apostolato e ne divenne il suo leit-motive conduttore. Venne dal papa confermato nella missione ai Frisoni che condusse assieme a Villibrando per tre anni. Venne, dunque, consacrato vescovo dal papa che gli chiese di sottoporsi alla tutela di Carlo Martello.

Da questo momento Bonifacio si dedicò all’organizzazione della chiesa germanica, scegliendo come vescovi monaci anglosassoni e fondando abbazie maschili e femminili.

Venne, dunque, nominato arcivescovo della Germania e legato papale per le riforme in Gallia.

Morì assassinato durante una missione in Frisia nel 754, quasi ottantenne.

L’opera di S.Bonifacio si fondò su tre pilastri:

-    dipendenza da Roma;
-    protezione ufficiale dei maggiordomi franchi;
-    costante collegamento con la madre patria che gli fornì materiale e personale per la sua missione.

Il lavoro di S.Bonifacio fu importante per l’unificazione religiosa dell’Occidente che ricondusse sotto il papato che diveniva così, sempre più, il polo catalizzatore dell’intero Occidente cristiano.

Con l’avvento di Carlo Magno il metodo missionario assunse lo stile di una conquista militare, in particolar modo contro i Sassoni, contro cui lottò per trent’anni, convinto che senza unità religiosa non si potesse fondare il Regno franco-sassone.
In questo periodo Angario (801-865) venne nominato vescovo di Amburgo per l’evangelizzazione dei paesi scandinavi, iniziando così un’opera missionaria che si sarebbe completata in seguito nel 1103.

LE CARATTERISTICHE DELLA RELIGIOSITÀ NELL'ALTO MEDIOEVO

Se da un lato Germani, Celti e Slavi si lasciarono cristianizzare, dall'altro questi cristiani adattarono il cristianesimo alle loro esigenze e alla loro cultura.

Caratteristica del cristianesimo medievale fu l'assenza di una vera e propria comunità ecclesiale contrapposta o, comunque, diversa da quella profana. Le due società si identificavano dando origine ad un monismo sociale, religioso e politico che sarà alla base delle varie teocrazie imperiali e ierocrazie papali che portarono a confusioni di ruoli e perdita di senso delle rispettive missioni.

Il nuovo cristiano, pertanto, non apparteneva alla comunità ecclesiale, ma rimaneva inserito in quella civile in cui si trovava al momento della conversione, e il suo vivere era finalizzato alla santificazione della società stessa e alla sua organizzazione e stabilizzazione politica.

Nel Medioevo venne meno, pertanto, quello che caratterizzò la Chiesa antica in cui il cristiano era cittadino di due comunità: quella ecclesiale e quella imperiale che prima di Costantino si contrapponevano in duelli spesso mortali.

Nell'ambito di un cristianesimo diffusosi rapidamente, ma privo di radici profonde, l'aspetto teologico e dottrinale era spesso sostituito da quello sacramentale, più visibile e facilmente comprensibile.

Il sacramento era visto come una mediazione di grazia e quasi un oggetto sacro a cui erano legati aspetti trascendentali. Così esorcismi e benedizioni erano sacri riti sentiti più come atti magici che come sacramentali.

Sempre nell'ambito di questa concezione del sacro rientravano anche altri sacramenti quali la Messa, il Sacerdozio e la Comunione a cui ci si rapportava come a strumenti di mediazione e di presenza del sacro dai quali il popolo, ritenuto indegno perché non consacrato e immerso nella profanità del quotidiano ne rimaneva distaccato o se ne accostava eccezionalmente.

Al clero, che svolgeva nella chiesa antica una funzione di guida spirituale della comunità, ora che tale funzione è assorbita dallo stato, rimane riservato prevalentemente l'ambito della ritualità e del culto da adempiersi con scrupolosità rituale. Mentre un sacro timore reverenziale definiva il popolo nei confronti della Comunione e della Messa, celebrata per il popolo, ma senza la sua partecipazione.

Tutta la vita cristiana era avvolta dalla sacralità a cui ci si avvicinava con timore perché mediatrice del divino, ma a cui si guardava forse anche in una prospettiva di magico e di misterico che, non di rado, poteva scadere anche in superstizione.

Quanto alla Penitenza, questa era legata all'articolazione: comandamento, trasgressione ed espiazione. Essa era finalizzata alla espiazione che ristabiliva la giustizia e la pace.

Era necessario, pertanto, stabilire l'esatto prezzo (tariffa penitenziale) da "versare" per ristabilire gli equilibri violati dalla trasgressione. In tal senso famosi erano i "tarrifari" dei monaci iro-scozzesi.

Strettamente legata alla penitenza fu la Confessione che nel medioevo si privatizzò. Non più, quindi, davanti al vescovo con pubblica ammenda, ma nel segreto del confessionale. Tale prassi fu importata dai monaci iro-scozzesi.



LA CHIESA ALTOMEDIEVALE (400-1050) O CHIESA DEL RE




PREMESSA POLITICO-RELIGIOSA  AL  SACRO ROMANO IMPERO

Con il trasferimento della sede imperiale da Roma a Costantinopoli (11.5.330) e con il successivo disfacimento dell'Impero d'Occidente ad opera dei barbari (476), nonché a seguito della rapida cristianizzazione delle nuove popolazioni germaniche, grazie alla quale esse assimilarono la cultura latina, il papato, erede della latinità, dell'organizzazione e della cultura imperiali, divenne il polo catalizzatore dell'incipiente mondo occidentale.

Il legame con Roma si fondava su due idee principali: una religioso-ecclesiale, l'altra religioso-politica.

Quanto alla prima va detto che nella tarda antichità la latinità della Chiesa e dell'Occidente era situata nell'Africa del nord, che fu patria di grandi martiri, teologi ed apologeti. Ma con la conquista di questa da parte dell'Islam, essa venne persa per il mondo occidentale, che trovò il suo naturale punto di riferimento nella Chiesa di Roma e nel papato.

Tali vincoli religiosi con Roma furono in particolar modo creati e rafforzati dal monaco anglosassone Bonifacio.

L'intera Europa cattolica, pertanto, guardava a Roma come punto di riferimento per la propria identità cristiana in cui tutti si riconoscevano.

Non era, ovviamente, una dipendenza giuridica, ma morale e vedremo come nel pieno medioevo sotto Innocenzo III si avviò anche un'affermazione di diritto.

Quanto alla seconda idea, essa si affermerà con Carlo Magno nel tentativo di riesumare l'Impero romano, il cui intento era quello di abbracciare l'intero Occidente sotto un'unica guida politica e religiosa. Si realizzava, così, il sogno agostiniano della "Civitas Dei", il Regno di Dio sulla terra.

FORMAZIONE DELLO STATO DELLA CHIESA

Finché l’Impero Romano formò da coagulo dei popoli, la Chiesa non aveva bisogno di potere materiale perché appoggiata all’Impero. Ma quando questo cominciò a sgretolarsi anche la Chiesa si frantumò in varie chiese locali. Sorse, allora, l’esigenza di una autonomia politica del papa a difesa di quella spirituale.

Al tempo di Gregorio I (590-604), grazie al “Codice Giustinianeo”, i papi già detenevano il potere su Roma e ai vescovi si riconosceva un ruolo pubblico.

Due avvenimenti aumentarono la forza del papato al tempo di Gregorio I :

-    il possesso di grandi estensioni di terreni, ricevuti in donazione (il cosiddetto “Patrimonium Petri”)
-    la supplenza di governo dell’esarca di Ravenna, incapace di gestire il suo potere. I papi divennero ben presto i veri padroni di Roma.

LA CHIESA ROMANA E I FRANCHI

La nascita dell'Occidente cristiano ebbe il suo nucleo originale nei rapporti tra il Regno Franco e la Chiesa.

Già con Clodoveo si costituì una prima concentrazione di signorie su di una vasta area, ma fu sotto i Carolingi che il potere si concentrò sotto una sola persona.
Questi, già nel 680, erano maggiordomi sotto i Merovingi e accentrarono un forte potere nell'area della Mosa e del Reno.

La vittoria, poi, di Carlo Martello a Poitiers nel 732 contro gli arabi rafforzò la posizione dei Carolingi così che fu pressoché un gioco la deposizione dell'ultimo dei Merovingi, Childerico III, da parte di Pipino il Breve, che si fece proclamare re dai grandi del regno e tale si fece consacrare dai vescovi franchi.

Si andava così formando il regno dei Franchi che primeggiavano fra le varie potenze europee ed erano divenuti campioni della Cristianità per aver fermato a Poitiers l’avanzata araba. A questi si rivolse tra il 739-740 Gregorio III (731-741) per opporsi ai Longobardi, sottoporsi ai quali significava per i papi diventare semplici vescovi territoriali alle loro dipendenze.

Questa mossa di Gregorio III fu storicamente rilevante poiché indicava il nuovo orientamento della Chiesa d’Occidente: un primo passo questo che la staccherà definitivamente dall’Oriente, creandosi, qui in Occidente, un proprio impero.

La data decisiva della separazione può essere idealmente indicata nel 741, anno in cui scomparvero, quasi contemporaneamente, la figura di Gregorio II, sostituito da papa Zaccaria, per la Chiesa; Carlo Martello, sostituito dai figli Carlomanno e Pipino III, per i Franchi; e Leone III, sostituito dal figlio Costantino V, per l’impero di Oriente.

Carlomanno si ritirò dalla scena politica lasciando il posto al fratello Pipino III, il quale si rivolse al papa Zaccaria per avere rassicurazioni sulla legalità della sua ascesa al trono dei Franchi. Zaccaria risolse la questione pragmaticamente affermando che era meglio chiamare re chi deteneva effettivamente il potere piuttosto chi era rimasto privo di autorità.

Pipino, pertanto, viene eletto re e come tale unto. Tale unzione, che si ispirava a quella di Saul e Davide, assunse un carattere sacro e religioso e si creò una teologia sacramentarle di tale unzione. Con tale unzione consacrante sembrò, pertanto, legittima l’ingerenza dei re negli affari della Chiesa e così viceversa. Si andava, in tal modo formando un profondo connubio tra potere temporale e spirituale al punto tale che Innocenzo III (1202) affermava che solo a lui competeva l’esame di chi era stato eletto re. Il re, pertanto, diventava un sovrano teocratico e può reggere la Chiesa la quale, a sua volta, incorporata nel Regno, si riservava di approvare l’elezione del re.

Dopo la morte del longobardo Liutprando (744), il re Astolfo riprese la politica espansionistica e si spinse fino a Roma con l’intento di conquistarla e farne la capitale d’Italia. Papa Stefano II (752-757), chiesto inutilmente aiuto all’imperatore Costantino V, tutto preso dalla lotta iconoclasta, si rivolse a Pipino III che non solo gli promise aiuto, ma anche la restituzione dell’Esarcato di Ravenna.

La pronta accoglienza dell’invito da parte di Pipino III nascondeva la segreta aspirazione di estendere la sua influenza sull’Italia e annettere al regno dei Franchi i Longobardi stessi.

Dopo un primo fallimento della dieta di Bernacum, che si concluse con un nulla di fatto, Pipino III riesce a far approvare l’aiuto al papa con la dieta di Quierzy e promette al papa vasti territori dell’Italia.

Fu così che, dopo un inutile tentativo diplomatico con re Astolfo, in cui si cercava di convincerlo a restituire i terreni al papa, egli, in due interventi militari, fu ripetutamente sconfitto e costretto a cedere un terzo del suo tesoro e ampi terreni al papa.

Con tale donazione di Pipino ebbe luogo la nascita dello Stato della Chiesa.

Con la costituzione dello Stato della Chiesa si scatenò da subito una corsa al potere per cui, deceduto Paolo I, fratello di Stefano II, i vari nobili e partiti nobiliari posero sul trono di Pietro dapprima Costantino, il cui pontificato durò un anno, e poi Filippo, che fu destituito dopo pochi mesi. Infine, venne regolarmente eletto Stefano III (768-772).

Dopo questi inconvenienti, si resero necessarie delle regole per l’elezione del papa che andarono sempre più perfezionandosi nel corso dei secoli fino alla richiesta dei due terzi dell’assemblea dei cardinali (1179).

Già con Adriano I la Chiesa incominciò a battere moneta propria e a datare i diplomi secondo gli anni del pontificato.

Il distacco definitivo da Costantinopoli avverrà con Carlo Magno e la costituzione del Sacro Romano Impero.

LA DONATIO CONSTANTINI

Per sancire una maggiore autonomia e potere allo Stato della Chiesa, comparve il falso più famoso della storia: la “Donatio Constantini” o “Constitutum Constantini”. Esso, probabilmente, nacque sotto il pontificato di Stefano II (750) e si compone di due parti: una “Confessio” in cui Costantino fa professione di fede e racconta come egli fu miracolosamente guarito dalla lebbra da papa Silvestro; e la “Donatio” in cui Costantino, prima di partire per Costantinopoli, riconobbe la supremazia del vescovo di Roma sui patriarcati di Alessandria e Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli. Il pontefice ottenne, inoltre, le insegne di «basileus» vale a dire il manto purpureo, lo scettro e la scorta a cavallo. Ciò gli conferiva automaticamente la potestà temporale sull'impero d'Occidente e lo rendeva indipendente da quello d'Oriente. Il clero fu equiparato al Senato e autorizzato a bardare le cavalcature con gualdrappe bianche; l'imperatore depose personalmente l'atto di donazione sulla tomba di s. Pietro.
Il testo integro della “Donatio” appare per la prima volta verso la metà del secolo IX nelle “Decretali pseudo-isidoriane”, altro falso medievale, e per molto tempo venne ritenuto autentico. Solo gli umanisti del ‘400 Nicolò Cusano e Lorenzo Valla riuscirono a dimostrarne la falsità. Tuttavia, ancor oggi, non sono chiari il tempo, il luogo e lo scopo di tale falsificazione.
Probabilmente tale falsificazione è nata negli ambienti pontifici al fine di giustificare sia l’autonomia di Roma da Bisanzio che la fondazione di uno stato della Chiesa.
Ecco il contenuto della “Donatio Constantini”: “Nel 314 un prete di nome Silvestro fu consacrato «vescovo di Roma», proprio negli anni in cui la città era terrorizzata da un dragone puzzolente che con il fetore del suo alito ne sterminava gli abitanti. Il mostro abitava in una caverna ai piedi della rupe Tarpea, alla quale si accedeva attraverso una scala di trecentosessantasei scalini. Nessuno osava affrontare il dragone, finché un giorno il papa si calò disarmato nella tana del mostro e lo catturò. Dopo alcuni giorni l'Urbe fu colpita da una calamità ben più grave: l'imperatore Costantino aveva bandito la persecuzione contro i cristiani; lo stesso Silvestro fu costretto a fuggire ed a cercare rifugio in una grotta nei pressi del monte Soratto. Qui lo raggiunse la notizia che l'imperatore era stato colpito dalla lebbra. I medici di corte erano disperati perché nulla riusciva a lenire le sofferenze di Costantino, al cui capezzale furono convocati i più grandi maghi dell'impero; costoro gli ordinarono di immergersi in una vasca piena di sangue spremuto dal ventre di bimbi appena nati. Costantino rifiutò di sottomettersi a tale rimedio atroce e la notte stessa gli apparvero in sogno i santi Pietro e Paolo che gli diedero l'indirizzo di Silvestro. L'imperatore credendo che si trattasse di un medico, lo mandò a cercare, ma il pontefice accorso al suo capezzale gli somministrò i primi rudimenti della fede cristiana. Dopo una breve penitenza in cilicio Costantino fu battezzato nel palazzo lateranense: l'imperatore, indossata la veste bianca del catecumeno, fu calato in una vasca dalla quale riemerse completamente guarito. Le piaghe che gli dilaniavano il corpo erano scomparse, le ulcere si erano cicatrizzate. La persecuzione fu immediatamente revocata e il Cristianesimo diventò religione ufficiale dell'impero. Nuove chiese cominciarono ad essere costruite a spese dello stato, e di alcune l'imperatore gettò personalmente le fondamenta.
Un giorno Costantino ricevette dalla Bitinia una lettera della moglie Elena, nella quale l'imperatrice gli suggeriva di adottare il giudaismo, l'unica vera religione. Costantino convocò il Papa e il Rabbino: i tre disputarono a lungo, ma non riuscendo a mettersi d'accordo, decisero di ricorrere al giudizio di Dio. L'imperatore allora ordinò che fosse condotto un toro: si avvicinò per primo al rabbino, che sussurrò all'orecchio dell'animale un versetto della Bibbia. Il toro, come fulminato, piombò a terra, e tutti gridarono al miracolo. Quando fu il suo turno, Silvestro si accostò alla vittima e pronunciò il nome di Cristo. Immediatamente il toro morto alzò la coda e fuggì. L'imperatore, sconvolto del prodigio abbandonò l'Urbe e partì per l'Oriente, dove fondò la città che da lui prese il nome. Ma prima di imbarcarsi donò la giurisdizione civile dell'Occidente a Silvestro e successivamente riconobbe la supremazia del vescovo di Roma sui patriarcati di Alessandria e Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli. Il pontefice ottenne pure le insegne di «basileus» vale a dire il manto purpureo, lo scettro e la scorta a cavallo. Ciò gli conferiva automaticamente la potestà temporale sull'impero d'Occidente e lo rendeva indipendente da quello d'Oriente. Il clero fu equiparato al Senato e autorizzato a bardare le cavalcature con gualdrappe bianche; l'imperatore depose personalmente l'atto di donazione sulla tomba di s. Pietro.” (Da Pietro al Papato - il potere temporale dei papi – di Fausto Salvoni. Da Internet).


RAPPORTO TRA CHIESA E CARLO MAGNO


LA PREMESSA

Il forte impulso missionario anglosassone e di S.Bonifacio (Vinfrido), nonché la costituzione dello Stato della Chiesa avevano concentrato nelle mani del papa un grande potere che si estendeva su quasi tutto l’Occidente.

Alla morte di Adriano I (772-795) gli succedette Leone III (795-816), un presbitero di umili origini, che rimase impigliato nelle maglie degli intrighi di corte: venne accusato di spergiuro e adulterio e arrestato.

Riuscito a fuggire, ricorse a Carlo Magno che giunse a Roma nel novembre dell’800 per por fine alla controversia papale e mettere ordine a Roma. Qui si tenne un sinodo anche per esaminare le accuse sul papa. Ma tale sinodo si dichiarò incompetente invocando il principio del “Prima sedes a nemine iudicatur” sorto da un altro falso, quello Simmachiano (da papa Simmaco, 498-514). Tale falsificazione fabbricò gli atti di un inventato concilio di Sinuessa del 303 in cui si affermò tale principio.

Due giorni dopo il sinodo di Roma, conclusosi il 23.12.800, Carlo Magno veniva acclamato e incoronato imperatore con una cerimonia che ricalcava il modello bizantino dell’elezione imperiale.

Benché all’apparenza improvvisa e inaspettata, tuttavia sembra, da alcuni indizi, che l’incoronazione fosse premeditata: accoglienza festosa e imperiale che venne fatta a Carlo Magno nel suo giungere a Roma dove era già pronta una preziosissima corona. Inoltre, già prima di Carlo Magno vi erano state forti spinte imperiali in cui si reclamava la pari dignità tra Carlo Magno e l’imperatore di Costantinopoli.

Il tutto, probabilmente, venne concordato tra papa Leone III (795-816) e lo stesso Carlo Magno nell’incontro di Paderborn.

L’incoronazione segnò, di fatto, il punto definitivo di rottura tra Roma e Costantinopoli e diede inizio ad una nuova era nella Cristianità, con due capi: il papa e l’imperatore.
Ma essa segnò anche  una svolta decisiva nei rapporti tra l’Impero e la Chiesa; infatti, l’unzione, l’incoronazione e la consacrazione da parte del papa divennero elementi fondamentali e costitutivi della dignità imperiale.

CARLO MAGNO E LA FONDAZIONE DEL SACRO ROMANO IMPERO

Con l'avvento di Carlo Magno (768-814) e la sua incoronazione prende corpo l'idea della rifondazione dell'Impero romano. Egli consolidò il suo potere all'interno e lo estese all'esterno. L'incoronazione del 25.12.800, quale "Imperator Romanorum", consolidò definitivamente il suo potere anche sull'Occidente. Tale titolo, con appositi accordi, gli venne riconosciuto anche da Bisanzio.

Ma a Carlo Magno più che i titoli importava la dignità imperiale, libera da rivendicazioni romane. Egli già pensava ad un nuovo "Imperium Romanum" sulla falsa riga di quello di Bisanzio e centralizzato nel cuore del regno carolingio della Mosa e del Reno.

Pertanto, due anni dopo la sua elezione, Carlo Magno chiese un giuramento di fedeltà alla sua persona e pretese da Costantinopoli un riconoscimento del titolo che, in successivi accordi, stipulati tra l'810 e 814, Bisanzio gli riconobbe. Con tali accordi Bisanzio uscì definitivamente dagli orizzonti occidentali.

Dopo tali accordi Carlo Magno nell'813 incoronò ad Aquisgrana il figlio Ludovico il Pio, significativamente, secondo il rito degli imperatori bizantini. L'incoronazione venne ripetuta nell'816 a Reims da papa Stefano V, richiamandogli, così, alla memoria l'origine romana del titolo di imperatore, che era in funzione della difesa della Chiesa.

Carlo Magno lavorò intensamente per dare una solida unità all'impero: si impose una scrittura unica (la minuscola carolina); si orientò il latino sul modello patristico; si impose un'unica liturgia, nata dalla fusione della gallo-franca con quella romana; si unificarono le varie regole monastiche, sostituendole con la Regola di S.Benedetto.

Ma il vasto impero ebbe basi fragili in quanto che Carlo Magno, morto nell'814, non ebbe il tempo per consolidarlo e, inoltre, l'impero trovò la fine proprio nelle regole franche per la successione, che prevedevano la compartecipazione al potere degli eredi.

Fu così che successivamente alla morte di Carlo Magno il Sacro Romano Impero fu diviso in tre parti e altrettanti regni.

Infatti, a Carlo Magno succedette il figlio Ludovico il Pio che, secondo le regole franche della successione, assegnò ai propri figli  tre parti dell’Impero, cosa che fu sancita con il patto di Verdun (843): l’Impero venne definitivamente diviso in tre parti e cessava così l’unità del Sacro Romano Impero d’Occidente.
Da questo momento l’Impero sarà soggetto a gravi sconquassi e pressioni esterne così che Carlo il Grosso, uno dei tre figli di Carlo Magno, fu costretto a dimettersi per incapacità di difendere l’Impero, che venne definitivamente diviso in cinque parti: Germania, Francia, Italia, Borgogna Inferiore e Superiore, mentre il titolo di imperatore venne a cessare con Berengario I, assassinato a Verona nel 924.

Concomitante alla caduta dell’Impero, a cui la Chiesa era strettamente legata, fu la decadenza del papato.

In Italia, infatti, il papato, grazie al "Pactum Laudivicianum" ottenne la propria autonomia, staccandosi definitivamente dall'ormai decaduto Impero carolingio. La cosa che in sé non poteva essere che positiva, scatenò, purtroppo, una folle corsa al potere e il papato, istituzione ecclesiastica molto ambita tra i nobili romani e quelli dell'Italia meridionale, divenne l'oggetto di aspre e sanguinose contese.

Ebbe pertanto inizio quello che fu definito il "Saeculum obsucurum" della Chiesa, durante il quale i papi si succedettero con rapidità fulminea e a seconda del prevalere di una fazione su di un'altra così che più papi si contrapposero tra loro.

UNA RIFLESSIONE SULLA TEOCRAZIA  NELL’IMPERO CAROLINGIO

Va subito posta una distinzione tra i termini “teocrazia”, “ierocrazia” e “cesaropapismo” .

Con il termine teocrazia si intende l’intrusione dei sovrani in questioni religiose di competenza della Chiesa. Viceversa, la ierocrazia è l’intromissione della Chiesa in questioni di pertinenza dello Stato. Il cesaropapismo, invece, è l’intromissione dello Stato nelle questioni amministrative e organizzative interne della Chiesa.

La teocrazia diventa caratterizzante il periodo carolingio e si manifesta prevalentemente nella riforma liturgica, che viene agganciata a quella romana e stemperata da elementi locali, così che nacque la liturgia franco-romana. Una riforma questa voluta e perseguita non dalla Chiesa, ma dai sovrani stessi. Da qui, poi, nascerà la liturgia latina.

Nel campo del diritto venne confermata la “Collezione Dionisyo-Adriana”, integrata da nuova legislazione per adattarla alle nuove situazioni.

Gli episcopati, poi, vennero incorporati nel Regno mediante il diritto feudale.

Gli strumenti legislativi usati in epoca carolingia furono:

-    i Concili misti, cioè riunioni ecclesiastiche composte da ecclesiastici e laici con compiti di legiferare sia in campo sociale che ecclesiastico.
-    I Capitolari, cioè leggi che andavano a completare il capitolo ordinario.
-    I Missi dominaci, cioè ispettori in missione nell’Impero. Essi erano formati da gruppi di vescovi e laici.

Da questo breve excursus si può ben vedere come nell’organizzazione carolingia competenze sacre e profane erano tra loro strettamente intrecciate. E ciò a tal punto che Carlo Magno intervenne anche in questioni teologiche come l’Adozionismo che riteneva Gesù figlio di Dio in quanto da lui adottato; come nella Iconoclastia, conclusasi in un primo tempo con il Concilio di Nicea II indetto dall’imperatrice Irene, ma la cui conclusione Carlo Magno rifiutò perché la Chiesa franca non ebbe parte nel concilio. Così pure per la questione del Filioque, ereditata dal Concilio di Costantinopoli (381).

In tutte queste questioni Carlo Magno ebbe un ruolo importante, ma a differenza degli imperatori di Costantinopoli, egli rispettò sempre l’autorità papale, poiché nell’ambito della gestione unitaria dell’impero era sempre distinto il potere religioso da quello statale, consentendo in tal modo una certa autonomia ecclesiale.

Erano, dunque, due i poteri principali che, pur nelle loro autonomie reciprocamente subordinate, si intrecciavano tra loro e tra loro si sostenevano: quello religioso e quello civile.

Questa idea di poteri uniti, ma distinti, propugnata con chiarezza da papa Gelasio (492-496) in una lettera all’imperatore Anastasio nel 494 e che condizionò il pensiero politico occidentale per oltre un millennio, portò a identificare la Chiesa con il mondo. Questa non era sentita come la mediatrice tra Dio e gli Uomini, ma come una “Societas fidelium” in cui ognuno, secondo le proprie competenze, era impegnato a difendere il Regno di Dio ed acquisire tutti gli uomini a Dio. In tal senso la Chiesa assunse una connotazione di universalità, diventando l’ Ecclesia universalis.

Il Cristo Pantocrator della chiesa antica, creatore di tutto, assume nel Medioevo un’impronta terrena: Cristo è, per eccellenza, il Sacerdote e il Re che governa l’Ecclesia universalis che incorpora l’intera umanità cristiana, in cui papa e re sono i due rappresentanti sacramentali di un’unica realtà: il Cristo che in loro vive e si esprime.

Già nell’ VIII secolo, però, si vede un progressivo distacco tra laicato e sacerdozio a partire da ciò che per eccellenza esprime la vita della Chiesa: la liturgia. Solo nel Re, laico consacrato, la sacralità si conserva ed egli è, pertanto, il legittimo rappresentante di Cristo sulla terra.

AGOSTINISMO POLITICO

Spesso si è inteso che nel Medioevo la Chiesa, il cui pensiero fu informato da quello di Agostino nella sua “Civitas Dei”, prevaricando lo Stato, avesse imposto il suo dominio su questo e l’intero Occidente. In realtà non vi fu prevaricazione alcuna, ma paritaria compenetrazione di poteri tra Stato e Chiesa.

L’ideale fondamentale era quello di fondare il Regno di Dio sulla terra con il concorso autonomo, ma ben amalgamato, dei due poteri: il Sacerdozio e il Regno.

Infatti Carlo Magno concepì la sua missione regale con spirito del tutto cristiano. Davanti a sé stava l’ideale del “Regno di Dio” proposto da S.Agostino di cui amava sentirsi leggere a tavola quelle pagine che, nel suo immaginario, lo riguardavano.

Carlo Magno si dedicò alla elevazione culturale e religiosa dei suoi popoli che, nel suo disegno, sognava di riunire tutti in un’unica e grande Cristianità.

Si realizzava così l’Agostinismo politico che vedeva il re quale ministro e sostenitore della Chiesa, concepita come il Regno di Dio sulla terra.

Tuttavia, la dottrina agostiniana sullo stato, elaborata nel “De civitate Dei”, aveva coloriture più teologiche che politiche. Furono Gregorio Magno (590-604) e Isidoro di Siviglia che dettero un taglio nettamente politico al “De civitate Dei” che perdurò fino al XIV secolo.

La situazione cambierà con la riforma gregoriana, tra il 1050 e il 1124, quando i re saranno considerato alla stregua degli altri laici.


LA RINASCITA  DELL’OCCIDENTE

Nonostante il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, accompagnato dalla decadenza della Chiesa, che sull’impero si appoggiava, l’Occidente non si sfaldò, anzi completò la sua configurazione geografica e politica con l’acquisizione delle regioni del Nord al cristianesimo.

Due furono i fattori di ripresa dell’Occidente:

-    la cultura e la religione cristiane, in cui tutti si riconoscevano. Esse formarono da amalgama culturale su cui si fonderà una nuova politica unificatrice.
-    Ottone I di Germania che, sentitosi l’erede naturale di Carlo Magno, fattosi per questo incoronare ad Acquisgrana nel 936, riprese le fila dello sfilacciato Impero e della decaduta Chiesa. Avviò una riforma radicale che portò alla ripresa di entrambi.

Quanto alla politica interna, Ottone I ridusse il potere di duchi e conti riconoscendo pubblici diritti a vescovi ed abati; si riservò di eleggere i vescovi, così che vescovi ed abati divennero le colonne su cui poggiava il Regno della Germania.

Quanto alla politica estera, Ottone I nel 951 scese in Italia per liberare Adelaide da Berengario II e per sposarla. Con l’occasione assunse il titolo di Re d’Italia e di Pavia.

Successivamente papa Giovanni XII (955-963) chiese il suo aiuto perché assediato da Berengario II. In questo frangente gli venne riconosciuto il titolo di imperatore e come tale venne consacrato nel 962.

In questa occasione concede al papato il “Privilegium Ottonianum” che riprendeva gli antichi privilegi ecclesiastici fino a Carlo Magno, mentre nella seconda parte era previsto che il papa neoeletto prestasse giuramento di fedeltà all’Imperatore.

Ma le trame di Giovanni XII portarono Ottone I a restringere l’autonomia papale nel senso che nessun papa poteva essere eletto senza il suo consenso. Giovanni XII venne, pertanto, deposto e al suo posto venne eletto Leone VIII.

Se da un lato il papato perse con Ottone I la sua autonomia, tuttavia ciò consentì di far ripartire il papato e farlo uscire da quella buia crisi che fu il “Saeculum obscurum”.

L’IDEA DI IMPERO IN OTTONE I E DEL DIRITTO ALLA CORONA

Ottone I, fattosi incoronare ad Acquisgrana nel 936, si ritenne l’erede naturale di Carlo Magno e del sacro Romano Impero.

Benché fosse proprio dei re tedeschi governare su regni propri senza sconfinare, tuttavia va detto che Ottone I acquisì da Carlo Magno il senso della “dignitas imperialis” che lo faceva sentire responsabile dell’intera Cristianità occidentale. Egli considerò sempre la consacrazione imperiale e l’incoronazione come un sacramento che lo univa intimamente alla Chiesa e lo faceva partecipe del Sacerdozio. Egli si sentì sempre personalmente responsabile del papato e della Chiesa e ciò fu sempre la base della sua idea politico-religiosa dell’Impero.

Stato e Chiesa con Ottone I non solo sono intimamente uniti, ma formano quasi un’unica identità.

Con l’andar del tempo, da parte imperiale, si passò ad un diritto alla corona, dando così l’idea che il papato si limitasse al prenderne atto. Ma in realtà non fu così. Sulla questione si divisero le parti, quella germanica e quella romana.
La prima, quella germanica, affermava che era la forza a fare l’imperatore e che l’elezione da parte dei “Grandi di Germania” era espressione della volontà di Dio, per cui il papa doveva solo prenderne atto. Da parte romana, invece, si controbatteva che il papa doveva dare il suo placet all’elezione che avveniva solo con la consacrazione e che questa, quindi, non era un semplice atto burocratico di tipo notarile.

La questione si ripresentò nell’XI sec. quando sorse una nuova disputa tra il Barbarossa e Adriano IV, che richiamò il Barbarossa ad un atto di riconoscenza verso il papato per la sua investitura imperiale. Il Barbarossa gli rispose che la nomina l’aveva già ricevuta da Dio con la sua elezione da parte dei principi tedeschi.

Sorse così la questione teologico-politica se la nomina derivi direttamente da Dio o per mezzo del papa. Si formarono due schieramenti: i canonisti, che affermavano la mediazione papale; e l’altro partito che, invece, sosteneva che la nomina veniva direttamente da Dio al momento dell’elezione da parte dei principi tedeschi, mentre il papa si limitava a conferire il titolo imperiale, prendendo atto dell’elezione.

La questione, comunque, trovò la sua soluzione con Gregorio VII (1073-1085) che nel suo “Dictatus papae” (1075) si riservò di esaminare la dignità dell’imperatore e di approvarne la nomina.

POTERE TEMPORALE E POTERE SPIRITUALE NEL PRIMO E ALTO MEDIOEVO

Ma perché tutte queste dispute teologiche e giuridiche? Fu solo una questione di poteri che cercavano di prevaricarsi l’un l’altro? La risposta va ricercata nell’ambito della visione teologica e religiosa in cui Chiesa, Impero e l’intera società medievale si muovevano.

Da Carlo Magno ad Enrico III il potere imperiale assunse sempre più importanza nell'ambito della Chiesa.

Questo non era concepito come un'indebita intrusione in questioni che non lo riguardavano, bensì costituiva un esercizio di diritto in questioni di competenza.

Infatti, la sovranità imperiale veniva conferita non solo attraverso l'elezione politica, ma anche e soprattutto attraverso una vera e propria consacrazione con carattere sacramentale.

La persona del re, pertanto, risultava essere consacrata e investita da Dio stesso di un potere che il re esercitava in nome e per conto di Dio stesso. Era, quindi, un potere sacro che lo qualificava, di diritto, all'interno della Chiesa come "Sacra potestas regalis", che lo abilitava ad interferire nelle questioni ecclesiastiche a cui era preposto e di cui condivideva le responsabilità con il clero.

Due erano gli elementi che costituivano questa "Sacra potestas regalis": la religiosità politica, per cui tutto ciò che è religioso è pubblico, e tutto ciò che è pubblico è anche religioso; la mentalità della "chiesa propria" per cui ogni potere considerava se stesso come sacro e per ciò stesso conferiva una responsabilità sulle "res sacrae".

Questi due aspetti contribuirono in modo rilevante a formare l'idea della "potestas regalis".

LA POSIZIONE DEL RE NELLA CHIESA

Posta la sacralità del re nell'ambito della Chiesa, quale rapporto intercorre tra l' "auctoritas pontificalis" e la "potestas regalis"?

La questione può essere ricondotta a due teorie che si compenetrano: il monismo teocratico e il dualismo teocratico.

Quanto al "monismo teocratico", esso afferma la supremazia della regalità sul Sacerdozio. La teoria, a base cristologica, sostiene che la regalità di Cristo sul mondo viene prima del suo sacerdozio dato che la regalità è legata all'esistenza eterna di Cristo; solo successivamente egli divenne sacerdote, cioè pontefice tra Dio e gli uomini.

Tali prerogative di Cristo, sovranità sul mondo e sacerdozio, si incarnano nella Chiesa, corpo di Cristo, in cui il re è l'immagine e il rappresentante della sovranità di Cristo, ne è il vicario. Funzione prima del sacerdozio è il santificare e redimere.

Quanto al "dualismo teocratico", esso è formulato nella teoria delle "due spade" derivata da Lc. 22,38. Esse esprimono simbolicamente i due poteri: quello temporale e quello spirituale. Entrambi provengono dalla stessa fonte, Dio, e hanno il medesimo scopo: mantenere il diritto e l'ordine. Differenti, tuttavia, sono le funzioni e le modalità: alla monarchia compete la difesa e la diffusione della fede; al sacerdozio la santificazione e la redenzione.

Ma considerati i diversi mezzi per esercitare il potere, la monarchia aveva la supremazia sul sacerdozio, per cui si tornava al "monismo teocratico".

LA CULTURA  DELLA  CHIESA  DEL RE

Nell'ambito di questa concezione teocratica del potere l'arte e la cultura erano affidate alla Chiesa verso la quale i sovrani esprimevano appieno il loro mecenatismo. Esse avevano carattere nobiliare e il fasto della loro produzione esprimevano lo splendore del potere regale, inteso come "splendor Christi"; mentre la "potestas" del re o del signore era vista come compartecipazione a quella di Cristo.

Nell'ambito dell'armonia tra Regalità e Sacerdozio rientrava anche quella tra i "potentes" e i "pauperes", cioè l'armonia delle classi sociali.

In questo grande Impero-Chiesa ognuno occupava il posto assegnatogli dalla Provvidenza. In questo grande disegno divino ai potenti veniva inculcata la responsabilità verso i poveri, a cui si dedicava grande attenzione per mezzo delle strutture ecclesiastiche, in particolar modo per mezzo dei conventi a cui erano affidate mansioni sociali e caritative.

QUALE CONCETTO DI CHIESA? I PERCHÉ DI UNA  TEOCRAZIA IMPERIALE

Dopo alcune considerazioni sulla nascita del Sacro Romano Impero (800), sulla sua decadenza e sulla sua rinascita, grazie ad Ottone I (962), nonché sui rapporti tra Impero e Chiesa, viene spontaneo chiedersi: quale fu il concetto di Chiesa nel medioevo? Perché gli imperatori pretendevano di estendere il loro potere anche sulla Chiesa? Fu solo prepotenza o la cosa si radicava nel diritto? Perché si arrivò alle lotte per le investiture? E, infine, come si strutturava e come si muoveva la Chiesa all’interno dell’Impero?

La risposta affonda le sue radici nella tarda antichità (IV-V sec.).

Infatti, dalle riforme dell'Impero romano del IV-V sec. ne sortì un'involuzione sociale che riportò l'impero al predominio dei proprietari terrieri che legarono il loro potere alla proprietà posseduta, trasferendo su di essa poteri e diritti che prima appartenevano all'amministrazione statale e cittadina.

Ognuno poteva esercitare nell'ambito della sua proprietà il potere su cose  e persone presenti nella sua proprietà e trarne di conseguenza benefici e utilità.

Nasceva, in tal modo, la "signoria fondiaria" in cui il rapporto tra uomini liberi e privi di diritti era definito "mundio".

Nocciolo della signoria fondiaria, quindi, era la sovranità sulle cose e sulle persone.

Il possesso delle terre rendeva nobili i proprietari, mentre senza proprietà esisteva solo il mundio, grazie al quale la vita dei servi era garantita dal padrone.

Di conseguenza anche chiese, conventi, vescovati, cimiteri, preti, vescovi, religiosi, tutto l'apparato ecclesiale, mancando il concetto morale e giuridico di persona, intesa come individualità portatrice di valori e di diritti intrinseci, rientravano nel possesso e sotto la protezione del signore nell'ambito del territorio in cui si trovavano.

CONCETTO E NATURA DI "CHIESA PROPRIA"

Sorse, pertanto, il concetto di "chiesa propria" intesa come "Casa di Dio" che si ergeva sulla proprietà del signore fondiario, il quale poteva esercitare su di essa un diritto amministrativo, correlato ad un diritto patrimoniale, unitamente ad un potere di guida spirituale.

Quindi legato al patrimonio c'era il pieno diritto e potere su cose e persone su cui si esercitava piena sovranità.

In epoca carolingia le leggi obbligarono il "signore fondiario" a scorporare parte del suo patrimonio a favore della chiesa, ferma, comunque, la proprietà del patrimonio scorporato che rimaneva al signore.

Tale scorporo divenne una sorta di investimento che il signore faceva sulla "chiesa di proprietà". Tuttavia rimanendo il fondo di proprietà del signore, questi continuava a conservare il suo diritto sulle cose e sulle persone, nonché il pieno potere di guida spirituale.

LA "DOMUS EPISCOPALIS" E LA SUA EVOLUZIONE

Il termine "Domus episcopalis" esprimeva il complesso delle competenze del vescovo: disponibilità del patrimonio ecclesiastico, potere sul clero che in genere stipendiava, e cura pastorale sul contado.

Ma l'ampliamento della chiesa sul terriotrio costrinse il vescovo a decentrare la cura delle anime. Si costituiscono, pertanto, dei centri per l'assistenza spirituale a cui vennero dati "diritti vescovili".

Questi centri si resero ben presto autonomi con patrimonio proprio, derivato da lasciti ed eredità. Si costituirono così le parrocchie che si staccarono dalla "Domus episcopalis" pur rimanendo vincolate pastoralmente al vescovo.

Nell'XI sec. la "Domus episcopalis" si dissolse completamente.

A fronte di una sempre maggiore delega dell'attività pastorale propria, il vescovo gradualmente assumeva mansioni e compiti che riguardavano la sfera secolare. La figura del vescovo assunse sempre più connotati aristocratici così che si andò delineando una nuova figura di vescovo, in particolar modo in Germania: Vescovo, signore della città, signore di una chiesa propria e detentore di sovranità regale.

IL VESCOVO, SIGNORE DELLA CITTÀ

Con la decadenza dello Stato nella tarda antichità dell'Impero romano venne meno la tutela verso la cittadinanza ce si vide, in tal modo, costretta ad autogestirsi. A ciò provvide il vescovo che, in un'epoca di decadenza, era l'unica struttura in grado di autogestirsi autonomamente con proprio patrimonio, regole e leggi. A questo si riferivano, pertanto, le "civitates".

La cosa assunse proporzioni tali che i re Merovingi riconobbero l'amministrazione dei vescovi e ne potenziarono i diritti, così che l'episcopato divenne ben presto appetibile anche dalle classi nobili. Si era, pertanto, verificata una aristocratizzazione dell'episcopato che sarà, ormai, congiunto alla nobiltà e ai suoi giochi politici e di potere per tutto il medioevo.

IL VESCOVO, SIGNORE DELLA "CHIESA PROPRIA"

Alla pari dei signori laici, anche il vescovo, divenuto proprietario di patrimonio terriero su cui sorgevano chiese e conventi, esercitava la sua autorità su cose e persone ivi collocate.

Il vescovo, pertanto, divenne signore di "chiese proprie" che gestiva alla stregua e con diritti pari a quelli dei signori laici.

Ad incrementare tale patrimonio vi furono le espropriazioni intese come prestito forzato fatto a terzi su ingiunzione di leggi, ma di cui il vescovo conservava la proprietà e ne traeva i conseguenti benefici. e le donazioni, cioè trasferimenti di proprietà o di "chiese proprie" che i signori laici facevano ai vescovi. In tal modo il patrimonio e il potere vescovili ed ecclesiastici aumentarono enormemente.

IL VESCOVO, DETENTORE DI SOVRANITÀ REGALE

Premesse alla "sovranità regale" del vescovo furono la signoria della città e quella delle "chiese proprie". Il tutto si incorniciava in un incipiente feudalesimo, una struttura di tipo giuridico che regolava i rapporti tra "Signore e servo", tra il "Sovrano e il Signore" del fondo, cioè del beneficio patrimoniale concesso dal re al signore per particolari servigi resi.

I re per sostenere e rafforzare il proprio potere affidavano i loro patrimoni a vescovi ed abati con i relativi poteri di amministrazione e diritti di sovranità.

Un primo passo si fece concedendo l'immunità regale sui beni della chiesa a cui si aggiunsero le regalie.

L'immunità era un privilegio regale grazie al quale l'amministrazione dei beni ecclesiastici veniva sottratta ai funzionari regi e sottoposti direttamente al re che li affidava a persone di sua fiducia.

Le regalie, poste su questi beni, consistevano in diritti sovrani pubblici, come diritti doganali, monetari, fiscali, ecc.

Patrimonio del re e della Chiesa si intrecciavano, pertanto, tra loro con diritti e benefici reciproci. Inoltre, con l'affermazione del feudalesimo i signori trattavano i feudi come loro proprietà così che nel tempo esse venivano alienate dal patrimonio reale. Al re, pertanto, non rimase che affidare i feudi alla Chiesa, fedele tradizionalmente al re.

Fu così che con l'investitura ai vescovi veniva assegnato il beneficio patrimoniale o feudo, unitamente alla mansione spirituale di pastore. Nel vescovo, pertanto, si incentravano due cariche: quella di signore-sovrano e di pastore del popolo affidatogli con il feudo.

I beni della Chiesa divennero, quindi, del re; mentre alla Chiesa competeva il profitto di tali beni.

Ma la proprietà di tali beni rimanendo al re, consentiva allo steso di beneficiare del diritto di "mundio" proprio come i diritti dei signori su di una chiesa propria. Il re, pertanto, poteva intervenire di diritto e di fatto sulle questioni secolari e spirituali, entrambe legate al patrimonio.

TRASFORMAZIONE DEL MONACHESIMO IN SIGNORIA

Anche i monasteri, come per le "chiese proprie", vennero coinvolti nel fenomeno della signoria che si esprimeva, in questo caso, sui conventi. In tal modo il convento, rifugio dalle cose del mondo, ne venne riportato al centro.

Il convento, infatti, svolgeva anche una fondamentale "funzione sostitutiva". In altri termini, i signori, preoccupati per la propria salvezza eterna e per il bene pubblico, fondarono dei conventi dove i monaci li sostituivano nella preghiera e nella penitenza.
E ancora, ai conventi vennero elargite donazioni ai fini di una "intercessione sostitutiva".

Ben presto i conventi si ritrovarono, da un lato, proprietari di beni su cui esercitarono un reale diritto di sovranità; dall'altro, erano vincolati al loro fondatore e proprietario dal diritto di "mundio". Su tali beni, poi, esisteva un diritto reale che li incorporava alla chiesa del re.

In questo ingarbugliato intreccio di beni, poteri e sovranità, ben presto i monasteri si trasformarono in centri di cultura, di educazione, di formazione scolastica e di attività secolari.

In tal modo, i conventi costituirono un centro di attrazione per la nobiltà, che aristocratizzò i conventi stessi e il loro tenore di vita.

In particolar modo nel periodo carolingio il legame tra convento e regno si fece più stretto e, in quanto abbazie del regno, ne godevano del beneficio e dei diritti.

Fu così che nei monasteri penetrò la mentalità propria della "Signoria fondiaria" che portò alla "Signoria degli abati", appartenenti alla classe dirigente dei nobili.

L’OCCIDENTE SI APRE AD EST

L’Occidente cristiano è ormai diventato un bacino di raccolta di popoli e regni tra loro indipendenti, ma unificati da un’unica cultura e un unico modo di sentire: quello cristiano. Ampliatosi nel X sec. ai popoli del Nord, ora l’Occidente si allarga ad Est e accoglie nell’unica cultura cristiana, grazie alla persistente azione missionaria, anche le popolazioni slave come la Boemia, l’Ungheria e la Polonia, con qualche apertura e puntata verso la Russia.

I grandi santi fondatori del cristianesimo slavo furono i fratelli Cirillo e Metodio e S.Adalberto di Praga.

CIRILLO E METODIO

La conversione degli Slavi occidentali (Moravi e Boemi) è legata al nome di due grandi santi missionari bizantini, che si possono considerare come i fondatori del cristianesimo slavo. Essi furono Cirillo e Metodio, due fratelli originari di Tessalonica, inviati nell’ 863 dall’imperatore Michele III e il patriarca Fozio nella Grande Moravia, dove, con grande azione missionaria, culturale e sociale riunirono quelle popolazioni alla comune religione e cultura Occidentale: Cirillo, dotto filosofo e linguista, inventò l’alfabeto slavo che fu chiamato, in suo onore, “cirillico”; entrambi i fratelli tradussero Bibbia e liturgia in lingua slava; si dedicarono allo sviluppo del sacerdozio slavo; in una parola: impiantarono il cristianesimo slavo, evangelizzando l’intera società.

L’azione missionaria di questi due grandi personaggi si rivelò un fattore di riconciliazione fra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente

S.ADALBERTO DI PRAGA

Verso la fine del IX secolo l’Europa venne sconvolta dall’invasione dei Magiari, di conseguenza una parte dell’evangelizzazione andò perduta. Tuttavia, con la sconfitta di questi ad opera di Ottone I nel 955 e la loro conseguente sedentarizzazione consentì la ripresa dell’opera evangelizzatrice da parte della Chiesa grazie all’azione di Sant’Adalberto di Praga (983-997), il più grande missionario del X sec.

Nacque intorno al 956 dalla famiglia principesca degli Slavinikidi. Fu molto attivo nella sua patria a Praga, ma gli insuccessi pastorali e le ostilità del duca Boleslao della famiglia dei Premislidi, rivali di quella degli Slavinikidi, spinsero ripetutamente Sant’Adalberto a lasciare la propria sede episcopale per condurre vita monastica a S.Alessio di Roma. Lo sterminio della sua famiglia e il rifiuto del duca Boleslao di riaccoglierlo, lo spinse all’evangelizzazione dei pagani Prussiani sulle rive del Baltico, dopo essersi impegnato come evangelizzatore presso la corte di Ungheria. Subì il martirio il 23 aprile 997 e venne canonizzato da Silvestro II nel 999. La sua tomba divenne meta di pellegrinaggio dell’imperatore Ottone III, che conobbe a Roma, e punto di riferimento della Polonia che lo consacrò proprio patrono.



LA CHIESA PAPALE NEL PIENO MEDIOEVO




PREMESSA

Nel corso del XII secolo le singole chiese nobiliari, monastiche, vescovili si amalgamarono attorno alla guida del papa, così che, lentamente, con l'aiuto anche dei canonisti, legati al papato, che formularono sempre più precisamente l'identità giuridica della Chiesa e le sue funzioni, si delineò il principio della libertà e dell'autonomia della Chiesa, che portò alla rivendicazione della guida del papato all'interno della Chiesa.

Competeva, dunque, al papa assolvere le questioni della Chiesa, la quale, comunque, poteva delegare l'esecuzione all'autorità temporale.

Significativa in tal senso fu la riforma Gregorio VII (1073-1085) che con il suo "Dictatus papae" (1075) darà una forte spinta alla supremazia papale su quella imperiale, che troverà la sua massima espressione in Innocenzo III (1198-1216) al punto tale che le parti si capovolsero, passando da una teocrazia imperiale ad una ierocrazia papale.

Prima tuttavia, era necessario per la Chiesa compiere al proprio interno una radicale pulizia e mettere fine a gravi disordini morali che intaccavano alla radice qualsiasi tentativo di riforma: il nicolaismo e la simonia.

NICOLAISMO, SIMONIA E REGIME TEOCRATICO DEI SOVRANI

Intorno alla metà dell’XI secolo vennero presi di mira due vizi che imperversavano nella Chiesa e, in particolar modo, nel clero: il Nicolaismo e la Simonia che si muovevano in un orizzonte teocratico dei sovrani e da questi favorito.

Erano una mentalità ed un atteggiamento sbagliati che si erano venuti a formare all’interno della Chiesa per l’eccessivo invischiamento terreno della Chiesa stessa.

Quanto al nicolaismo, questo è un’eresia di cui si parla solo nell’Apocalisse (Ap.2,6.15) e di cui non conosciamo quasi nulla se non che ha tendenze gnostiche e libertine e con cui si designava anche il concubinato nel Clero a cui era stato fatto obbligo di celibato nel VI secolo.

Quanto alla simonia, derivante dall’episodio di Simon Mago (At.8,18-24), si intende la compravendita e la mercificazione di cose e uffici sacri.

Gregorio Magno (590-604) ne distinse tre tipi: “munus a manu”, cioè le bustarelle; “munus a lingua”, cioè le raccomandazioni; e il “munus ab ossequio”, consistente in servizi resi o da rendere.

Questi comportamenti deviati degradavano la figura morale della Chiesa e contro i quali si levarono dei movimenti di protesta all’interno della Chiesa stessa (tra i vari vescovi che vi si opposero vi fu anche Raterio, vescovo di Verona tra il 931-968).
Si trattava di creare una nuova coscienza morale più sensibile ai valori dello spirito.

Molto vicina alla simonia fu la teocrazia dei sovrani dell’epoca (XI sec.) i quali si arrogarono il diritto di elezione dei vescovi, abati e di altre cariche ecclesiastiche a cui legavano un beneficio terriero.

La questione dell’investitura ecclesiastica, reclamata di diritto dal sovrano o da un signore, si radicava nel diritto istituzionale dell’epoca per cui la chiesa, il monastero, la parrocchia che risiedevano su di un terreno privato era di proprietà del possidente il quale godeva dei benefici degli stessi ed esercitava l’autorità su questi. Pertanto l’elezione dei vescovi o di altre cariche ecclesiastiche passavano solo con il consenso del re o del signore.

Alla elezione seguivano due atti: l’investitura, con l’omaggio, e la consacrazione. Ben presto si arrivò ad identificare le due cose per cui legato all’omaggio vi era connesso anche l’ufficio; così che chi riceveva l’omaggio doveva anche svolgere l’ufficio proprio legato a quell’omaggio.

Il tutto rientrava nella concezione giuridica e istituzionale della feudalità e del vassallaggio.

La feudalità era composta da due elementi: il beneficio feudale e il vassallaggio, cioè dall’atto di fedeltà che legava il vassallo al suo signore.

Tale stato di cose cessò con la riforma gregoriana (Gregorio VII, 1073-1085) che pose un distinguo tra le “regalia” e le “spiritualia”: le une aspettavano al sovrano, le altre alla Chiesa.

ENRICO III E IL SINODO DI SUTRI

Con Carlo Magno e gli Ottoni di Germania Impero e Papato erano due realtà giustapposte, l’una accanto all’altra nell’ambito della “Ecclesia Universalis” con funzioni distinte, ma complementari.

Con l’avvento del giovanissimo imperatore Ottone III nasce l’idea della “Renovatio Imperii Romanorum” in chiave cristiana: voleva costituire una federazione di nazioni uguali e indipendenti con capitale Roma. Il suo sogno, però, finì con la sua morte, dopo essere stato cacciato da Roma da una sommossa popolare.

Nel frattempo sulla sede papale si susseguirono una serie di papi simoniaci e scandalosi finché non intervenne Enrico III, ispirato ad alte idealità religiose e riformatore convinto della Chiesa. Questi riprese il controllo della gerarchia ecclesiastica e impose di accettare come pontefice il candidato designato dall’imperatore.

Si avrà, così, con Enrico III il trionfo dell’ Imperium sul Sacerdotium, ma anche un ricostituito ordine all’interno della Chiesa, il cui papato venne sottratto alle continue lotte delle famiglie nobili romane.

In tal senso, il 20 dicembre 1046, Enrico III indice a Sutri un sinodo, l’apice della riforma imperiale della Chiesa, in cui depone due papi tra loro rivali, Silvestro III e Gregorio VI, nonché, in un secondo sinodo tenuto a Roma tre giorni dopo, Benedetto IX, e ne elesse un quarto Clemente II.

Si sta ormai profilando all’orizzonte la grande riforma gregoriana, precorsa un profondo rinnovamento spirituale all’interno della Chiesa, irradiatosi dall’abbazia di Cluny, monastero fondato nel 910 e sottomesso direttamente al papa, sottraendolo, quindi, ai poteri locali.

Cluny riattivò la regola di S.Benedetto, ebbe 300 monaci e quasi duemila monasteri da lui dipendenti in tutta la Cristianità e fu fermento spirituale di una ritrovata e rinnovata spiritualità cristiana che coinvolse tutto l’Occidente in cui costituì il giusto clima per un rinnovamento spirituale e morale che sancì il successo della grandiosa riforma di Gregorio VII (1073-1085).

LA RIFORMA GREGORIANA

L'eccessiva sudditanza della Chiesa all'Impero, che la privava della sua vera identità e le impediva di svolgere la propria missione, che le era da sempre connaturale, provocò al suo interno un movimento di riscossa che si concretizzò con la riforma di Gregorio VII (1073-1085) la cui finalità era quella di restituire alla Chiesa la sua vera identità spirituale attraverso l'affermazione della propria autonomia: la "LIbertas Ecclesiae".

Si trattava, inoltre, di moralizzare il clero e di rinnovare spiritualmente la Chiesa. In tal senso una svolta sul piano critico-sistematico fu apportato dal cardinale Umberto da Silvacandida che impostò un rifiuto del sistema di "chiese proprie" e "chiese del re".

Del nicolaismo, simonia e teocrazia imperiale, che avevano portato la Chiesa alla perdita di autonomia e ad un alto degrado morale e spirituale, se ne occupò la riforma gregoriana, che idealmente potremmo suddividere in quattro fasi.

La prima fase (1046-1057) partì come riforma morale dei costumi all’interno della Chiesa, contro il nicolaismo e la simonia, con l’appoggio di Enrico III che già con il suo sinodo di Sutri incominciò a mettere ordine nel papato, presupposto per un riordino generale della Chiesa stessa.
Questi nominò in successione quattro papi tedeschi, che si mostrarono degni e zelanti, tra i quali va ricordato Leone IX (1049-1054) che promosse con grande energia e determinazione la riforma.

La seconda fase (1057-1073) si ebbe quando con Umberto da Silvacandida ed altri riformatori si comprese che la riforma sarebbe stata inutile se non fossero state abbattute le istituzioni proprie del Medioevo: la compravendita di chiese, beni sacri e investiture.
Il primo passo si compì nel 1059 con un sinodo romano che proibì ogni investitura ecclesiastica da parte del laicato e stabilì i criteri della elezione papale, affidata ad un collegio cardinalizio.

Sempre in tale data la Chiesa firmò la pace con i Normanni, che divennero vassalli della Chiesa stessa e si impegnarono a difenderla e ad appoggiare la riforma in atto.

La terza fase (1073-1085) si ebbe con l’avvento di Gregorio VII, un papa energico e illuminato, appassionato servitore della Chiesa, che in modo radicale e determinato, pose fine ai mali dell’epoca, vietando ogni investitura laica  e già nel 1075, con il suo “Dictatus papae” delineò in 27 articoli la nuova figura del papato.

La cosa non fu gradita ad Enrico IV, un sovrano tedesco che procedeva in modo simoniaco nella distribuzione dei vescovadi, il quale non poteva rinunciare ad intervenire nelle elezioni dei vescovi che costituivano la base della sua potenza; e, del resto, essendo egli consacrato, portava in sé una dignità sacra che gli dava diritto di intervento.

Gregorio VII, con il determinismo che lo caratterizzava, lo scomunicò e sciolse i sudditi dal vincolo di fedeltà e proibì loro di ubbidirgli con decreto del 1076.
Al decreto Enrico IV rispose con il sinodo di Worms, a cui parteciparono 26 vescovi tedeschi, e dichiarò decaduto il papa. Ma gli si opposero i principi tedeschi, per cui ad Enrico IV, rimasto solo, non restò che compiere in tutta fretta e umiltà il pellegrinaggio al castello di Canossa dove, penitente, chiese perdono al papa che glielo accordò.

La riconciliazione, tuttavia, durò poco per cui, scomunicato una seconda volta nel 1080, tornò in Italia, depose Gregorio VII e nominò papa Clemente III, che regnò dal 1080 al 1100, mentre Gregorio VII mori in esilio nel 1085.

La quarta fase (1085-1124) ebbe inizio con la morte di Gregorio VII. La lotta contro il nicolaismo, la simonia e la teocrazia imperiale ebbe finalmente termine dopo un lungo periodo, iniziato a Sutri nel 1046 e terminato con il concordato di Worms il 23 settembre del 1122, uno scambio di lettere e di reciproche concessioni tra papa Callisto II (1119-1124) ed Enrico V (1106-1125).

La Chiesa, finalmente, dopo otto secoli, recuperava la sua originaria autonomia, persa da Costantino (313) fino ad Enrico V (1122).

Il Concordato prevedeva la libera elezione dei vescovi da parte del clero e la rinuncia dell’Imperatore all’investitura con anello e pastorale; il conferimento dei feudi ai vescovi eletti da parte dell’imperatore con la consegna dello scettro e, infine, il giuramento dei vescovi come feudatari.

Con il concordato di Worms termina la teocrazia imperiale, ma nasce la ierocrazia ecclesiale, già delineata nel “Dictatus papae”  (1075) di Gregorio VII e che troverà la sua massima espressione in Innocenzo III (1198-1216): il papa imperatore. Le sorti si sono rovesciate.

LA BASE  TEOLOGICO-GIURIDICA DELLA RIFORMA

La Chiesa non si limitò a pretendere la propria autonomia e ad affermare la propria identità spirituale, ma dette una base teologica alla sua giusta pretesa.

La Chiesa venne considerata l'opera di Dio sulla terra, fondata da Cristo e affidata al Clero e non ai re. Nei vescovi si prolunga l'unione di Cristo con la sua Chiesa: l'anello simboleggia tale unione, mentre il pastorale esprime la missione spirituale della Chiesa.

Venne, pertanto, evidenziato il carattere spirituale della missione e affermata l'investitura come atto ecclesiale. La guida della Chiesa da parte del re venne considerata un atto di arroganza e di sovvertimento dell'ordine divino.

Si doveva, dunque, porre fine all'asservimento della Chiesa, di cui simonia e nicolaismo erano chiaro segno e diretta conseguenza. Si bollò, pertanto, l'intervento laico alle elezioni come simonia e si riattivò la vita sinodale all'interno della Chiesa, espressione questa di vita propria e momento importante di autoriflessione e autodeterminazione.

IL PAPA RIVENDICA LA FUNZIONE DI GUIDA

Il concetto di "libertas ecclesiae" non era disgiunto dal principio petrino-apostolico, cioè dal papato come funzione primaria di guida all'interno della Chiesa.

Tale principio fu messo in evidenza già dal IV sec. con passi scritturistici nella rivalità tra i patriarcati di Roma e Costantinopoli. Esso fu ancor più evidenziato da papa Gelasio nel suo contrapporre l' "auctoritas sacrata pontificum" alla "potestas regalis", individuando nella teoria delle due spade la presenza di due poteri. Una teoria questa che si prolungò fino al medioevo inoltrato.

Pur di difendere tale principio si fecero autentiche "carte false" non risparmiando alterazioni di testi autentici, inserzioni di fantasia, tagli di testi non favorevoli. Un esempio di ciò furono le "Decretali pseuoisidoriane", una raccolta di lettere papali e decreti conciliari che vanno dal I sec. all'VIII sec. Esse sono sorte nel IX sec. ad opera di Isidoro Mercatore, che nel Medioevo fu identificato in Isidoro di Siviglia (636).

Fondamentale per la supremazia del papato, quasi una "cartha magna", fu il "Dictatus papae" (1075) di Gregorio VII, un enunciato di ventisette tesi che delineava la nuova identità della Chiesa, affermandone massimamente l'autonomia e la supremazia, delineando i nuovi rapporti i nuovi rapporti Chiesa-Impero.

PERCHÉ LA LOTTA PER LE INVESTITURE?

La lotta per le investiture nasceva da due diverse idee contrapposte: quella imperiale e quella ecclesiastica.

Con Costantino (313) la Chiesa venne elevata alla massima dignità sociale e imperiale, ma fu anche, nel contempo, incorporata nella struttura amministrativa e giuridica dell’impero di cui, da Carlo Magno in poi, fu parte integrante, realizzando il sogno agostiniano del “Regnum Dei” sulla terra. Ma con questa integrazione la Chiesa rimase succube dell’imperatore e ciò si realizzò, in particolar modo, sotto gli Ottoni e gli Enrico tedeschi in mano ai quali era diventata uno strumento e una base importante del potere imperiale. In tal modo la Chiesa, però, serviva l’imperatore tradendo la sua primaria e intima vocazione e missione che le provenivano da Dio.
La sua figura morale, inoltre, si era notevolmente degradata con le lotte per la corsa la papato, con la simonia e il nicolaismo, il tutto contorniato dalla teocrazia imperiale, favorita da questa insostenibile situazione.

Scalzare la situazione, ormai istituzionalizzata dal diritto e di fatto, era estremamente difficile anche perché doveva prima cambiare il clima spirituale e morale che informava le coscienze e la cultura dell’epoca.

Una decisiva spinta venne dalla fondazione dell’abbazia di Cluny (910) che si diramò in tutta Europa con oltre duemila monasteri alle dirette dipendenze dell’abate di Cluny e, quindi, del papa, venendo così sottratta al potere imperiale.

L’aspetto più evidente della subordinazione della Chiesa all’Impero furono le investiture ecclesiastiche, sottratte al potere della Chiesa a favore dell’Imperatore, secondo le sue esigenze.

Lo scontro su questa delicata e vitale questione sia per la Chiesa che per l’Impero ebbe la sua punta massima tra Enrico IV e Gregorio VII (1073-1085) che nel suo “Dictatus papae” delineava non solo il futuro e nuovo papato, indipendente dall’imperatore, ma rovesciava le posizioni, passando così da una teocrazia imperiale ad una marcata ierocrazia ecclesiale.
Infatti il canone XII recita: “A lui (cioè al papa) è concesso deporre l’imperatore”; e ancora, il canone XXVII: “Egli (il papa) in caso di delitto, può dispensare i sudditi dal giuramento di fedeltà”.

Pertanto, poste le basi teologiche e giuridiche della separazione tra Chiesa e Impero, si trattava, ora, di passare alla pratica.

L'occasione venne quando Enrico IV nominò alcuni vescovi. Gregorio VII si rifiutò di riconoscere le nomine. L'imperatore gli rispose deponendolo con il concilio di Worms (1076) a cui il papa fece seguire la scomunica, costringendo Enrico IV a penitenza presso Canossa.

Con tale atto di apparente sottomissione al papa, Enrico IV ottenne la riabilitazione a imperatore e si mostrò davanti a tutti un "rex iustus". Pertanto, l'apparente sconfitta si tramutò in una vittoria politica che ringalluzzì Enrico IV che, nuovamente scomunicato, fece questa volta, riuscendovi, deporre Gregorio VII che morì in esilio nel 1085.

Ma per Enrico IV fu solo un'apparente vittoria. Infatti, la fronda riformista della Chiesa non si dette per vinta e il nuovo papa eletto dall'imperatore, Clemente III (1084), non venne riconosciuto e in sua vece fu eletto Urbano II, dopo un brevissimo pontificato di Vittore III.

Con Urbano II riprese la riforma gregoriana, mentre Enrico IV veniva deposto dal figlio dal figlio Enrico V. Questi concluse un patto con Pasquale II: l'imperatore rinunciava all'elezione, i vescovi al patrimonio. L'accordo, però, fallì per la forte opposizione dei vescovi, che in tal modo si videro ridotti sul lastrico.

L'accordo, invece, ebbe successo con il concordato di Worms (23.9.1122) tra Callisto II ed Enrico V: al papa aspettava la nomina, all'imperatore competevano le regalie.

Il concordato fu importante perché sanciva la separazione dei poteri e delle competenze, ma fu anche un compromesso poiché con le regalie imperiali il vescovo rimaneva legato all'imperatore con un giuramento di fedeltà.

Ma i tempi erano ormai maturi, e già con Francia e Inghilterra la Chiesa concluse dei concordati con cui questi regni rinunciavano alle investiture ecclesiastiche sostituite con un giuramento di fedeltà.

Più difficile fu la questione con la Germania perché all’investitura erano legati veri e propri diritti di sovranità che non potevano, tout-court, passare al patrimonio della Chiesa. Tutta la vicenda, comunque, si chiuse, come sopra accennato, con il Concordato di Worms (1122) tra Callisto II ed Enrico V.
Con questo atto un consolidato diritto imperiale si conformava alla ormai cresciuta autorità e diritto della Chiesa. Il Concordato, poi, fu sancito dalla dieta di Bomberga e dal concilio Lateranense I nel 1123.

EFFETTI DEL CONCORDATO DI WORMS SULLA “ECCLESIA UNIVERSALIS”

Con il concordato di Worms si riconobbe alla Chiesa la competenza diretta nella elezione delle cariche ecclesiastiche. Questo portò, all’interno della Chiesa stessa, il concentrarsi del Clero e della Cristianità attorno al papa che divenne il polo catalizzatore della Cristianità occidentale.

Ma benché la Chiesa avesse assunto una maggiore autonomia e compattezza al proprio interno, tuttavia non si era ancora giunti in Occidente ad una netta distinzione sul piano ontologico tra Stato e Chiesa, ma si persisteva ancora nell’unità tra Sacerdozio  e Regno. In questo quadro complesso, i sovrani, ormai destituiti di ogni potere nell’ambito ecclesiastico, furono relegati al rango di “Laici” e, in quanto tali, soggetti alla sovranità della Chiesa.
Si andava, così, delineando la funzione spirituale della Chiesa in tutta la Cristianità, trasformandosi in una Chiesa universale in cui il Sacerdozio diventava la guida dell’Occidente cristiano.
Si stavano, dunque, rovesciando le parti: si passa da una teocrazia imperiale ad una ierocrazia ecclesiale. La Chiesa si veniva a trovare, pertanto, in una strana situazione: una ritrovata unità interna stretta attorno al papato; e una divisione sempre più ampia in due ambiti, quello del diritto ecclesiastico e quello statale.

In questi secoli XII e XIII si accrescerà sempre più la distinzione tra Sacerdozio e Regno, mentre la Cristianità si compatterà sempre più attorno al papa, che acquisisce in questo periodo maggiori competenze sia in campo ecclesiale che temporale.

In questo tempo il papa rappresenta l’unità dell’intero Occidente, basato su di un’unica fede e un’unica cultura cristiana.

All’interno della sfera temporale vanno delineandosi due concezioni: quella della “potestas directa in temporalibus”, che prevedeva l’intervento diretto del papa nella gestione delle cose terrene; e quella della “potestas indirecta in temporalibus”, che prevedeva l’intervento diretto del papa nelle cose terrene là dove vi erano delle questioni ecclesiali, ma che avevano riflessi anche in campo sociale, se il Regno non fosse intervenuto.

Questa dottrina dell’ “intervento indiretto” caratterizzerà la politica di questi due secoli (XII e XIII). Si scontravano, così, le due concezioni: quella ierocratica, che prevedeva l’intervento papale nelle cose terrene; e quella secondo la quale il Regno aveva una sua autonomia.
COMPETENZE DEL PAPATO DOPO IL CONCORDATO DI WORMS

Dopo la riforma gregoriana l’asse teocratico imperiale si spostò su quello ierocratico ecclesiale. Ora le competenze del papato, divenuto guida della Cristianità, non riguardavano solo l’ambito ecclesiastico-temporale, ma anche quello temporale.

Nell’ambito ecclesiale il papa era il vertice del sacerdozio e il principio visibile dell’unità della Cristianità.
Nell’ambito temporale il papa, quale vicario di Cristo, rivestiva nei secoli XII e XIII un’uguale importanza. Il papa, infatti, regnava come sovrano sullo Stato della Chiesa e nei confronti degli Stati feudali vassalli; gli spettava il conferimento della corona imperiale e, infine, godeva di un’ampia facoltà di comando nei confronti di ogni potere terreno.

In buona sostanza, il temporale risultava sottomesso allo spirituale, mentre al temporale spettava la difesa della Chiesa e la preservazione della giustizia. In altri termini, lo Stato doveva figurare come il braccio secolare della Chiesa, sia pur nell’autonomia delle parti.
Non si trattava, comunque, di una prevaricazione di un potere su di un altro, bensì di un ordine di precedenze. Tale rapporto era espresso in immagini di “anima e corpo”, si “sole e luna”. In tal senso Crociate e Lotta agli eretici  costituivano due aspetti complementari del nuovo rapporto tra Stato e Chiesa, dopo la riforma gregoriana e il Concordato di Worms.

IL PAPATO DOPO IL CONCORDATO DI WORMS

Con il Concordato di Worms (1122) si cercò di risolvere il problema delle investiture, promovendo l’idea di una duplice investitura: al Re spettava l’investitura temporale, legata ai beni e diritti secolari, simboleggiati nella consegna dello scettro; mentre alla Chiesa spettava l’elezione e la nomina con la consegna dell’anello e del pastorale. Inoltre, l’investitura era conseguente alla nomina ecclesiale.

Il Concordato di Worms risolse il contrasto delle investiture, ma non quello del rapporto tra i due poteri. La Chiesa mantenne la sua struttura feudale per tutto il Medioevo, mentre la riforma gregoriana equiparò, dapprima, i due poteri, temporale e spirituale, ma ben presto sancì la superiorità dello spirituale sul temporale. Tale superiorità fu schematizzata nel marzo del 1075 nel “Dictatus papae” e, appoggiandosi sulla “Donatio constantini”, all’epoca ritenuta autentica, rivendicò al papato il dominio del mondo.

Da questo momento in poi, tale concezione di potere dominerà il conflitto tra Stato e Chiesa troverà il suo apice in Innocenzo III (1198-1216). Significativo in tal senso fu il conflitto tra Federico Barbarossa e Alessandro III (1159-1181). L’imperatore volle ripristinare la supremazia imperiale sulla Chiesa, portando ad un sanguinoso scontro tra Imperium e Sacerdotium, durato ben vent’anni e che causò molti lutti e lacerazioni nella Cristianità. La lotta si concluse con la pace di Venezia nel 1177.
Due anni dopo, con il concilio Lateranense III (1179) si stabilì per l’elezione papale la norma dei 2/3 della maggioranza del collegio cardinalizio.

Ma che cosa sta alla base di questa lotta tra poteri? Alla base di tutto ci sta una duplice idea:

-    Cristo è il Signore di tutta la Cristianità;
-    mentre da Lc. 22,38 (“Ecco, Signore, due spade”) si deduceva l’esistenza di due poteri simboleggiati da due spade che Cristo aveva destinato a governare il mondo: una spada, potere temporale, era impugnata dall’Imperatore; l’altra, quella spirituale, era tenuta dal papa.

Sennonché, teologi e canonisti gregoriani interpretarono in termini diversi la “teoria delle due spade”: entrambe appartenevano alla Chiesa; quella spirituale era nelle mani della Chiesa e si esprimeva attraverso la scomunica, mentre quella temporale era concessa all’imperatore affinché la usasse nel nome della Chiesa.

Sarà con Innocenzo III (1198-1216) che si avrà la massima espressione di questo potere spirituale e temporale della Chiesa.

CONSOLIDAMENTO ISTITUZIONALE E SUO RICONOSCIMENTO

Con la riforma gregoriana (1073-1085) e il successivo concordato di Worms (1122), il papato aveva ottenuto una notevole spinta autonomistica al proprio interno, liberandosi, per quanto riguardava la propria gestione interna, dal giogo imperiale.
La chiesa, pertanto, si consolidò internamente organizzandosi in un efficiente apparato burocratico al cui vertice stava il collegio cardinalizio che condivideva le responsabilità e le decisioni papali, stemperandone il potere assoluto. Esso si considerava "pars corporis Papae".

Tra tutti i papi di questa chiesa ormai liberata, giganteggiò la figura di Innocenzo III (1198-1216) che portò al massimo potere e splendore il papato del Medioevo, realizzando il grande sogno di Gregorio VII: porre la chiesa e il papato al vertice della cristianità occidentale e del potere spirituale e politico.
Fu questo però il sogno di un momento a motivo della modesta levatura dei suoi successori e per la reazione di Federico II che respingeva un simile concetto di chiesa.

L’APOGEO DEL PAPATO:  INNOCENZO III

Quella che fu, quindi, la massima aspirazione di Gregorio VII (1073-1085), affidata al suo “Dictatus papae” (1075), si materializzò con Innocenzo III, il più potente papa di tutto il Medioevo.

Con lui il papato consolidò il suo primato in tutta la Chiesa occidentale e la sua autorità, non solo morale, su tutti gli stati europei.

Con Innocenzo III si realizzò il concetto agostiniano della “Civitas Dei”, rafforzato dalla “Donatio Constantini”, ritenuta, all’epoca, autentica.

La Chiesa, allora, apparve come il vero “Imperium romanum” e che al papato spettasse il potere assoluto sul mondo. Il papa divenne, dunque, il “Caput Christianitatis” composta da molti popoli, ma tutti uniti nell’unica fede.

Quella di Innocenzo III è la figura di un uomo interiormente ricco e profondamente religioso, dedito ad una vera ascesi, restò sempre un pastore e sacerdote.

Lotario, della casa dei conti Signi, nacque nel 1160. Compiuti gli studi di teologia e diritto canonico a Parigi e a Bologna, fu accolto nel collegio cardinalizio dallo zio Clemente III.
Benché di piccola statura e di salute precaria, fu un uomo di vasta cultura che si accompagnava ad una eccezionale forza morale e di acume. Ebbe un grande animo aperto a tutti i problemi. Se intervenne nelle questioni temporali, fu solo per salvaguardale l’autonomia della Chiesa e che diventasse un feudo imperiale alle sudditanze dell’imperatore.

Egli non rivendicava a sé l’elezione dell’imperatore, ma si riservava di esprimere il suo parere sulle qualità morali dello stesso.

Ai suoi occhi le cose di questo mondo dovevano sottomettersi all’ordine voluto da Dio; pertanto, anche sovrani e principi erano tenuti a piegarsi a Dio. Il mondo, dunque, gli appariva come una grande gerarchia rappresentata dalla Cristianità al cui vertice c’era il papa, in una posizione intermedia tra Dio e l’uomo. Giudica su tutti, ma non giudicabile da nessuno se non da Dio.

Intuì l’importanza degli ordini mendicanti all’interno della Chiesa e approvò quello di S.Francesco. Egli, infatti, comprese che proprio da questi ordini sarebbe giunto il rinnovamento della Chiesa, eccessivamente invischiata e soffocata dalla temporalità.

Egli ebbe in comune con loro il distacco interiore dalla ricchezza e dal fasto, da cui si astenne sempre.

Tutto il suo operato si può raggruppare in quattro grandi aree:

-    Aspetti politici: mise ordine a Roma e nello Stato pontificio, difendendolo dalle minacce espansionistiche e dalle pretese imperiali
-    Organizzò la IV Crociata e tentò la riunificazione con la Chiesa d’Oriente.
-    Lottò contro i movimenti eretici dei Catari e Valdesi.
-    Riformò con Il Concilio Lateranense IV nel suo capo e nelle sue membra. Tale Concilio fu la sintesi di tutta la sua attività di riforma e l’apogeo del suo papato. Un Concilio grandioso, composto da 500 vescovi e 800 abati, e fu il più importante di tutto il Medioevo.
I temi più importanti furono la riforma della Chiesa; la IV Crociata; lotte alle eresie e moralizzazione del Clero.

INNOCENZO III E LA SFIDA DEGLI SVEVI

Il pontificato di Innocenzo III e con lui tutto il XIII sec. furono segnati dalla lotta tra il papato e gli Svevi che osteggiarono le sue pretese, così che la "libertas ecclesiae"  ne venne minacciata e l'impero tentò di ricondurre la situazione ai tempi degli Ottoni.

Dopo alterne e intricate vicende, Innocenzo III destituì l'imperatore Ottone IV, che non aveva mantenuto le promesse di una politica favorevole al papato, e favorì la salita al trono di Federico II, eletto re di Germania nel 1212.

Ben presto però anche Federico II ritenne la chiesa come un prolungamento del suo potere relegandola ad un attività meramente spirituale. Il suo ideale era "potere religioso e politico nella stessa persona dell'imperatore".

Gregorio IX (1227-2141) volle risolvere la questione con un concilio che Federico II impedì con la forza.
Il suo successore Innocenzo IV (1243-1254) convocò a Lione un concilio che scomunicava e destituiva Federico II e, con l'aiuto di Carlo d'Angiò, gli Svevi vennero definitivamente sconfitti e l'ultimo erede, Corradino di Svevia, venne giustiziato a Napoli.
Ma anche Carlo d'Angiò non si mostrò ben orientato verso il papato.

LA CRISI DEL SISTEMA

La lunga lotta con gli Svevi per tutto il XIII sec. aveva creato profonde divisioni all'interno dell'Italia, divisa in Guelfi (per il papato) e Ghibellini (per l'imperatore) ed una frantumazione delle forze politiche.

Tale situazione si rispecchiava nel collegio cardinalizio in cui si andava formando una netta prevalenza di cardinali francesi, iniziata con Urbano V (1362-1370). Una situazione, questa, che mise le basi al periodo avignonese del papato.

A questa frantumazione politica all'interno del collegio, si aggiunsero complicazioni date da interessi personali delle famiglie nobili dei Colonna e degli Orsini attorno a cui si raggruppavano i cardinali.

Il risultato di questa indecente situazione furono difficili elezioni papali, accompagnate da lunghi periodi di sede vacante. Nell’ambito di questo quadro si ricorreva spesso ad un escamotage poco edificante: eleggere un candidato decrepito che garantiva brevità di pontificato o, in alternativa, uno privo di potere o casato, cosi da poter manovrare lasciando inalterati gli equilibri.

All’interno di queste logiche venne eletto il monaco eremita Pietro di Morrone con il nome di Celestino V (1241), tra l'entusiasmo e l'illusione dei francescani e degli spirituali che vedevano in lui un ritorno alla chiesa primitiva. Ma egli, dopo pochi mesi di pontificato, su pressante consiglio di Benedetto Gastoni, abdicò.

Il collegio cardinalizio elesse lo stesso Gastoni che prese il nome di Bonifacio VIII (1294-1303), un papa di grande levatura culturale, morale e politica,  che seppe imporsi e riordinare la chiesa; cercò, inoltre, di riappacificare le fazioni in Italia e si interpose come pacificatore nella lotta tra Francia ed Inghilterra. Purtroppo entrò in conflitto con Filippo IV e ciò gli costò il pontificato e l'umiliazione di Anagni.

Con Bonifacio VIII terminano anche le glorie del papato alto medievale.

LA RIVENDICAZIONE DEL PAPATO ALLA GUIDA GERARCHICA

Dopo Gregorio VII, dopo il concordato di Worms e, infine, con Innocenzo III, la chiesa aveva finalmente acquisito la sua autonomia interna, liberandosi dal potere imperiale.
Tale autonomia si estendeva anche agli aspetti temporali della chiesa:

•    allo stato della chiesa
•    agli stati feudo
•    al conferimento della corona imperiale
•    alla facoltà di dare ordini a chiunque esercitasse un'autorità.
 

L'imperium papale del Medioevo, pertanto, si esplicitò in questi quattro aspetti. Ma quali sono i principi e la visione del mondo che consentirono e giustificarono l'imperium papale?

Si è visto, infatti, come, dalla teocrazia imperiale, che considerava la chiesa e il suo potere spirituale come un prolungamento di sé o una diversa esplicitazione di sé, si è passati ad una ierocrazia papale. Non è qui da intendersi come la prevaricazione di un potere su un altro, bensì come il passaggio da un modo di pensare le relazioni e la visione del mondo ad un altro. Si tratta dunque di un ordine di precedenza nell'ambito di una creazione che è preordinata alla redenzione operata da Cristo, che si esplicita nella chiesa la quale ha il suo vertice nel papa.
Il potere di Cristo non soppiantava quello degli uomini, ma nell'ordine della salvezza, a cui tutto deve confluire, esso aveva il primato e, pertanto, non poteva esistere un potere temporale autonomo che invece era preordinato al servizio  e alla difesa della chiesa.

La prevalenza del potere spirituale su quello temporale era motivato dalla triplice subordinazione, quale conseguenza della visione di una creazione subordinata alla redenzione:

•    ogni potere è al servizio della chiesa e a sua difesa;
•    quanto ai sudditi, essi sono subordinati a Cristo e, quindi, al sacerdozio
•    ogni potere, per sua fragilità, è esposto al peccato, per questo necessitano il controllo e la correzione della chiesa.

LA TEORIA DELLE DUE SPADE

Il rapporto tra potere spirituale e temporale fu descritto con diverse immagini: corpo-anima, sole-luna, spada spirituale e spada temporale. Quanto a quest'ultima, tratta da Lc. 22,38, fu la più utilizzata dai papi, forse perché a base scritturistica. La questione, tuttavia, va capita bene.

Nell'ambito del "gladius spiritualis" vi erano due livelli: uno propriamente spirituale, che mirava alla santificazione delle persone; l'altro, visibile, si esprimeva attraverso il diritto, cioè nel potere giuridico, coercitivo e punitivo.

A tal punto si poneva la questione: come applicare il diritto ai violenti che non volevano sottomettersi? Ecco allora il "gladius temporalis" che possedeva i mezzi materiali coercitivi adatti ad imporre il diritto e le decisioni ecclesiastiche. Tuttavia, anche qui, si pongono due livelli di distinzione: il potere temporale propriamente detto, che apparteneva al re per diritto naturale; e il "gladius materialis" cioè il potere del diritto ecclesiastico la cui esecuzione era affidata al "gladius temporalis".

E' importante dunque capire questo intreccio di poteri per comprendere la dinamica attraverso cui si esplicitava l'Inquisizione.



LE  CROCIATE



PREMESSA

Dopo la rivendicata "libertas ecclesiae" di Gregorio VII, che ha avuto il suo apogeo sotto Innocenzo III, il compito di diffondere ed affermare la fede (negotium fidei) ricadde interamente sulla chiesa che se ne doveva fare promotrice.

Tra questi aspetti rientravano sia le crociate che le lotte contro gli eretici. Il tutto si muoveva secondo una logica precisa: il potere spirituale della Chiesa (gladius spiritualis) esprimeva per mezzo di bolle e decreti (gladius spiritualis materialis) la necessità di compiere determinate imprese che venivano affidate al re (gladius temporalis). Il tutto si muoveva nell'ambito di un ordinamento storico e sociale percepito come divino, cioè voluto da Dio per fini salvifici.


FORMAZIONE DELL’IDEA DELLE CROCIATE E LORO MOTIVAZIONE

Il movimento delle crociate per la liberazione dei luoghi santi dall'Islam poggiava su due elementi fondamentali: uno religioso-politico, cioè il "pellegrinaggio a Gerusalemme" e la "libertas ecclesiae". L'altro di ordine operativo: eliminare gli ostacoli frapposti dai mussulmani ai pellegrini che, in gran numero, si recavano in Terra Santa.

Le crociate ebbero la loro premessa nelle scorte armate che accompagnavano i pellegrini, inserendosi, in tal modo, nell'idea di pellegrinaggio armato.

Esse trovarono, inoltre, il loro fondamento politico nella "Libertas ecclesiae" della riforma gregoriana: ora, era compito del papa provvedere alla sicurezza della Chiesa liberandola non solo dagli eretici, dai simoniaci, nicolaiti, ma anche dagli infedeli che assediavano Gerusalemme, sentita come un prolungamento della chiesa stessa.

Le prime crociate, pertanto, furono una sorta di esercizio politico della nuova "libertas ecclesiae" che configurava la chiesa della riforma gregoriana

Va detto, inoltre, che la Chiesa di fronte alle guerre assunse sempre un atteggiamento passivo, ma tra i secoli X e XI essa si vide costretta a prendere posizione contro le quotidiane disgrazie, angherie, soprusi, violenze e faide che infestavano l’Occidente cristiano.

In particolare, nella Francia del Sud dove sorsero due movimenti “pacifisti” : “La Pace di Dio” e “La Tregua di Dio” che compare al concilio di Elne nel 1027 in cui si stabilirono dei tempi in cui era fatto divieto di provocare violenze.

Ma lo sforzo pacifista non sortì apprezzabili effetti. Si incominciò, pertanto, a creare delle misure di sicurezza, guidate da vescovi e finalizzate a reprimere le violenze e i trasgressori delle tregue.
Inoltre, al cavaliere veniva affidata la difesa dei deboli, formando, in tal modo, l’idea del cavaliere cristiano.

Nella seconda metà dell’ XI secolo anche il papato riformatore cercò di influire sull’etica della nobiltà, assumendo lo strumento della guerra santa.

Il papa che rivelò un accentuato spirito guerriero fu Gregorio VII, il quale animò la “Militia Sancti Petri” e incominciò a collegare i pellegrinaggi in Terra Santa con la libertà della Chiesa.
Tutto ciò fece maturare all’interno della Chiesa l’idea della Guerra Santa, cioè di una guerra spesa ai fini religiosi e per gli interessi della Chiesa e della Cristianità e che prevedeva l’uso meritorio delle armi e della violenza se usata per fini giusti.
Pertanto, la. guerra in difesa della chiesa e il pellegrinaggio a Gerusalemme erano  entrambi opere meritorie per il perdono dei peccati.

Da questo insieme di sacralizzazione della guerra derivò che la sua competenza era del clero. Spettava, dunque, al papa stabilire quando le guerre fossero "giuste", nel quale caso egli concedeva l'indulgenza e la remissione dei peccati, giustificando inoltre i partecipanti per le violenze in essa compiute.

Per comprendere bene il fenomeno delle Crociate, inoltre, bisogna tenere presente il clima spirituale della “Christianitas” creato in Occidente dalla riforma gregoriana. Solo in seno ad una Cristianità animata da un forte ideale religioso e di fede potevano crearsi quelle condizioni psicologiche, morali e spirituali che permisero le Crociate.

L’idea di crociata si ricollega all’idea dei pellegrinaggi alla Terra Santa, quasi un ritorno alla culla della fede e del cristianesimo.

Le Crociate hanno una base essenzialmente religiosa e furono concepite come azioni militari per rendere sicuri il cammino e la permanenza cristiana nei luoghi santi. Non va dimenticato, infine, il clima storico che si andava formando: Roma guardava con preoccupazione la situazione dell’Oriente dopo la sconfitta bizantina a Marikert nel 1071 e la conquista turca di Gerusalemme e Damasco nel 1076. Cosa sarebbe, dunque, successo all’Occidente e alla Cristianità se l’impero romano d’Oriente fosso crollato?

Un altro aspetto che concorse alla formazione delle crociate fu la cavalleria. Questa, dopo la dissoluzione dell’impero carolingio, divenne sinonimo di rapina, saccheggio e sopraffazione. Fu la paziente opera educatrice della Chiesa che incanalò queste deviate energie negli alti ideali di protezione dei deboli e delle donne.

Infine, il cavaliere, mediante una consacrazione liturgica, assunse la configurazione di cavaliere cristiano, una sorta di militare religioso. Nella cavalleria incominciò a confluire la nobiltà. Incominciarono a sorgere ordini cavallereschi a cui il papa si appellerà per la difesa della Cristianità e del Santo Sepolcro.

LE CROCIATE: ASPETTI STORICI

È indubbio che gli ideali che mossero le Crociate furono essenzialmente cristiani e missionari.

Ciò che decise il papa e la Cristianità occidentale a creare questi movimenti militari di conquista e liberazione fu la preoccupante situazione venutasi a creare in Oriente: la conquista di Gerusalemme da parte dei Turchi (1071) e le continue lagnanze dei pellegrini per le continue angherie subite da Turchi stessi.
Inoltre, le armate dell’Islam premevano su Costantinopoli tanto che l’Imperatore Alessio I chiese aiuto all’Occidente. Urbano II non rimase insensibile e, nei sinodi di Piacenza e Clérmont, rivolse un appassionato appello alla Cristianità che, all’unanime grido di “Deus lo volt”, si mosse in soccorso dell’Oriente bizantino e in liberazione dei luoghi santi.

Toccò al papa guidare questo vasto movimento, considerato che sia Enrico IV che Filippo I erano scomunicati.

Tutto ciò solo dopo 50 anni dal sinodo di Sutri (1046) che, grazie ad Enrico III, salvò il papato e lo incamminò verso al grandezza universale.

1° Crociata  (1096 – 1099)

Il magistrale discorso di Urbano II al sinodo di Clérmont, diffuso da zelanti predicatori in tutta Europa, infiammò gli animi: la risposta popolare fu straripante.

La Crociata fu preceduta da un’enorme folla  di contadini e popolani guidati da Pietro l’Eremita. Gente fanatica e senza disciplina si abbandonava, nella loro esaltazione, a sanguinosi massacri di ebrei; si resero, inoltre, colpevoli di saccheggi, rapine e violenze verso le popolazioni indigene che incontravano sul loro cammino. Essi furono completamente sbaragliati dai Turchi al primo scontro.

Il grosso dell’esercito, diviso in quattro corpi, confluì a Costantinopoli nel 1097 e nel luglio 1099 conquistarono Gerusalemme, abbandonandosi ad un vergognoso saccheggio e ad incredibili stragi della popolazione.

L’esito di questa prima Crociata fu la fondazione del Regno cristiano di Gerusalemme, istituito sul modello feudale con piccoli principati.

2° Crociata  (1147 – 1149)

Fu bandita per soccorrere i cristiani d’Oriente contro i Turchi, che si erano impadroniti di Emessa (1144).
Sotto l’infiammata predicazione di Bernardo di Chiaravalle, si ricompattarono gli eserciti di Francia e Germania, ma subirono delle forti perdite e ritornarono indietro sconfitti e delusi, lasciando isolato e debole il Regno di Gerusalemme che il potente Saladino conquistò nel 1187.

Fu questa la premessa alla terza Crociata.

3° Crociata  (1189 – 1192)

Alla conquista di Gerusalemme da parte di Saladino rispose questa terza Crociata, ben organizzata e che ad Iconio ottenne una brillante vittoria. Ma la morte improvvisa dell’imperatore Federico Barbarossa privò la spedizione della sua guida e non conseguì altri successi. Tuttavia riuscì a stipulare un armistizio, grazie al quale, i cristiani potevano entrare in Gerusalemme.

4° Crociata  (1202 – 1204)

La morte di Saladino (1192) incoraggerà l’Occidente ad un’altra crociata, promossa da Innocenzo III. Purtroppo la spedizione, finanziata da Venezia che aveva mire espansionistiche e commerciali in Oriente, deviò su Costantinopoli dove, dopo un orrendo massacro, che approfondì la spaccatura tra Oriente ed Occidente, si fondò l’Impero latino, suscitando amarezza e sdegno in tutto l’Occidente.

Questa Crociata fu una tragedia sotto il profilo religioso e politico tant’è che si dubitò dell’opportunità di proseguire queste “spedizioni cristiane”.

Cominciò, allora, farsi strada l’idea che Dio preferisse servirsi di vergini indifese e di fanciulli, piuttosto che di guerrieri.

Sull’onda di quest’idea si ebbe la cosiddetta “Crociata dei fanciulli” (1212), composta da ragazzi provenienti da Francia e Germania, ma naufragò miseramente.

5° Crociata  (1217 – 1221)

Fu questa un’impresa privata di Federico II, peraltro scomunicato, e fu un sostanziale fallimento. Presero Damietta in Egitto con l’idea di barattarla con Gerusalemme; invece vi rimasero bloccati e dovettero ritirarsi precipitosamente per potersi salvare.

Francesco, proprio qui a Damietta nel 1219, tenterà, ma inutilmente la conversione del sultano Al Kamil.

6° Crociata  (1228 – 1229)

Fu l’unica, dopo la prima, che ottenne dei risultati positivi. Guidata da Federico II, mediante trattative con il sultano Al Kamil, ottenne Gerusalemme, Nazaret e Betlemme e un armistizio di 10 anni. La Cristianità stimò il fatto empio, ma Gerusalemme rimase ai cristiani fino al 1244.

7° Crociata  (1249 – 1254)

Luigi IX si assunse il compito di liberare la Terra Santa, ma dopo la conquista di Damietta il re rimase prigioniero e ritornò in patri dopo quattro anni di prigionia e un forte riscatto.

Egli tentò, poi, un’ottava crociata (1270), finita, però, miseramente per la decimazione delle forze a causa delle malattie. Il re morì davanti a Tunisi. Vent’anni più tardi seguì l’abbandono di tutti i possedimenti latini in Oriente.

LE CONSEGUENZE DELLE CROCIATE

Benché le crociate si fossero concluse con un sostanziale fallimento militare, tuttavia ebbero una grande ripercussione in campo sociale, culturale, politico e religioso.

Per quasi due secoli (1095- 1291) l’Europa scoperse la propria “Christianitas” che la riunì attorno al papato, quale guida spirituale, religiosa e politica dell’Occidente, facendole superare i confini dei propri Stati.

Si formò, quindi, in questi secoli un’unica coscienza europea e occidentale che trovava il suo punto di riferimento e coesione nel papato.

Vi fu, inoltre, un risveglio religioso e spirituale delle coscienze, che vissero le crociate come una “Peregrinatio religiosa” che aveva il suo ideale nella vita povera del “Redentore crocifero” che portò all’idea dell’imitazione di Cristo nella povertà e nella penitenza.

Da qui incominciarono a sorgere i primi movimenti pauperisti.

Un altro aspetto fu l’aumento dell’autorità religiosa e politica del papato, divenuto polo catalizzatore e collante di tutta la cristianità occidentale.

Esse, inoltre, riavvicinarono l'Occidente all'Oriente in una sorta di ritorno alle origini.
Portarono all'incontro con la cultura araba e in particolare con la filosofia arabo-aristotelica, che aprirono nuove prospettive anche in campo teologico.
Se ne avvantaggiò certamente il commercio, in particolare Venezia che sulle crociate costruì il suo impero commerciale.
Infine, esse portarono un tangibile rilassamento delle tensioni sociali e un convogliamento delle quotidiane violenze verso una giusta causa: violenti, facinorosi, spiantati, avventurieri trovarono nelle crociate uno sfogo alla loro instabilità esistenziale.

Gli aspetti negativi delle crociate furono gli scarsi, deludenti e pressoché inesistenti risultati: gli obiettivi propostisi sostanzialmente fallirono; vi furono montagne enormi di morti e inconcepibili violenze che ferirono le coscienze sia dell’Occidente che dell’Oriente.
 
Da un punto di vista evangelico esse furono un disastro e aprirono una profonda ferita spirituale e morale all’interno della Chiesa che, in tempi recenti, sentì la necessità di chiedere perdono a Dio per gli enormi, sconsiderati massacri e le grandi sofferenze inflitte ad una parte dell’umanità.


LA CHIESA OCCIDENTALE TRA TARDO MEDIOEVO ED ETÀ NUOVA



DALLA CRISI DEL PAPATO A BONIFACIO VIII

Dalla metà del XIII sec. il papato cadde in una profonda crisi che si manifestò anche nella breve durata dei pontificati stessi, intervallati da lunghi periodi di sede vacante.

Lo spirito che caratterizzò l’ultima parte del XIII sec. è quello di un tempo di stanchezza politica ed esaltazione religiosa; di lotte spirituali nell’Ordine francescano e di attesa apocalittica di un “papa angelicus”. Nei conclavi si andava alla ricerca del candidato eccezionale che rispondeva alle attese. Questi fu trovato in Pietro Angeleri da Morrone, un eremita abruzzese che prese il nome di Celestino V (1294). Un pontificato che durò sei mesi e si concluse con l’abdicazione del pontefice.

Al suo posto fu eletto Bonifacio VIII (1294-1303) e con lui ricompare sulla scena politica un uomo capace e fermo, deciso a recuperare il potere tradizionale del papato in tempi in cui i Regni tendevano all’autonomia e tra questi, prima fra tutti, la Francia.

Ma fu poco lungimirante: non aveva capito che, ormai, i tempi erano cambiati; così che il suo pontificato fu caratterizzato dalla lotta con Filippo IV, il Bello.

Questi era in lotta con l’Inghilterra per il trono di Scozia. Bonifacio VIII vedeva in questa lotta fratricida la decadenza della “Christianitas”. Dopo inutili richiami alla rappacificazione, con bolla “Clericis laicos” del 1296 proibì al clero francese di pagare le tasse al Re, sottraendogli i mezzi per continuare la guerra. Filippo IV rispose vietando qualsiasi esportazione di denaro dalla Francia, sottraendo così la maggior parte delle entrate alla Camera Apostolica. Bonifacio VIII fu costretto a cedere.

La pace, però, fu di breve durata. Infatti, Filippo IV fece imprigionare un legato pontificio. Bonifacio VIII lo citò dinnanzi al suo tribunale con bolla “Ausculta, fili”, che Filippo IV respinse. In risposta Bonifacio VIII emanò la celebre bolla “Unam Sanctam” con cui si sosteneva la teoria delle due spade e della supremazia del Sacerdotium sul Regnum. Filippo IV, in risposta, avviò una campagna diffamatoria contro il papa che, nel frattempo, ad Anagni, stava preparando la scomunica contro Filippo IV; quando questi, con un manipolo di soldati, aggredì il papa e lo tenne prigioniero nella sua stessa dimora dove venne liberato due giorni dopo dalla folla.
Ma la grave offesa al papa non venne vendicata da nessuno, segno questo che la figura papale era decaduta e la religione si era trasformata in una mera questione politica.

Era la fine della Christianitas.

Bonifacio VIII, tornato a Roma, vi morì dopo breve tempo e con lui i sogni di dominio papale sul mondo.
Con Bonifacio VIII ebbe definitivamente termine la supremazia universale del papato.

LE CONSEGUENZE DI UNO SCHIAFFO

Il processo di subordinazione della chiesa allo stato, iniziato con Costantino, approfonditosi sotto Carlo Magno e gli Ottoni, venne interrotto e la rotta invertita con Gregorio VII, il concordato di Worms e Innocenzo III: dalla teocrazia imperiale si passò a quella papale.

Ma con la significativa aggressione a Bonifacio VIII (1308) da parte di Filippo IV di Francia (Schiaffo di Anagni) ebbe inizio il tramonto del potere papale che trovò una decisa opposizione dai nuovi stati europei che andavano formandosi.
A seguito di ciò nel tardo Medioevo si andò delineando una netta opposizione e rifiuto alle pretese papali di potere temporale sugli stati, mentre il suo potere fu sentito sempre più come spirituale in ordine alla salvezza.

Nell'ambito di questo quadro si delinearono tre tendenze: il governo della chiesa nella sua espressione temporale passò gradualmente ai principes, mentre il clero nelle amministrazione pubbliche e giudiziarie fu sostituito dai laici.
Si venne quindi a costituire una nuova classe burocratica e di potere dalla quale sempre più dipendeva il clero per l'attuazione delle sue finalità. Non si tratto, comunque, di una laicizzazione della vita statale, bensì la ricerca di una indipendenza del potere papale.

La superiorità del "gladius spiritualis e materialis", non era più accettata sic et simpliciter, ma venne contestata e respinta.

Le reazioni per l'indipendenza dal potere papale furono altresì provocate dalle eccessive pretese ierocratiche, accentuate proprio dal nascere di questo spirito di indipendenza dal potere ecclesiale. Non si trattava comunque ancora di una laicizzazione del potere, bensì della pretesa di poter accedere al sacro potere temporale della chiesa.

La visone del mondo come organizzazione storica del divino non era ancora tramontata. Tuttavia già si metteva in discussione la liceità del possesso e delle proprietà della chiesa, coinvolta da un processo di autonomia amministrativa e gestionale delle città.

Significativa era, in tal senso, la "vexata quaestio" su cui si scatenavano le forze della chiesa: Cristo aveva detenuto il possesso e la proprietà delle sue vesti o ne aveva solo l'uso?
I Francescani sostenevano la posizione del solo "usus", mentre i teorici della povertà, contestando la proprietà e il possesso dei beni da parte della chiesa, ne rivendicavano il mantenimento da parte dell'autorità statale.

Dall'insieme di questo quadro traspare come il risveglio politico del potere temporale, inteso a riconquistare le posizioni perdute con l'affermazione della ierocrazia, si estendeva sempre più nelle competenze temporali ed ecclesiastiche, rivendicandone l'amministrazione e la propria autonomia, atteggiamento questo che non tardò ad estendersi anche agli aspetti spirituali intesi come patrimonio del bene comune.

IL PAPATO AD AVIGNONE

Dopo la morte di Bonifacio VIII, si accentuò fortemente l’influsso francese sul papato. Sotto pressione della Francia furono accolti nel Collegio cardinalizio numerosi cardinali francesi. Di conseguenza, fu giocoforza che in questo periodo vi fossero numerosi papi francesi.

Il primo di questa serie fu Clemente V (1305-1314), succeduto a Benedetto XI (1303-1304) di breve pontificato, a sua volta succeduto a Bonifacio XIII.

Clemente V ritenne opportuno spostare la sede papale da Roma ad Avignone, che apparteneva assieme alla contea di Venaissin, allo Stato della Chiesa. Questo sia perché la situazione dello Stato pontificio e dell’Italia era poco rassicurante; sia perché riteneva, in tal modo, di poter svolgere più facilmente un ruolo di intermediazione tra i due belligeranti di Francia e Inghilterra che si contendevano il trono di Scozia.

Ben presto, però, Avignone, a partire dal 1309, divenne la sede definitiva del papato per circa un settantennio. Fu questo un chiaro segno che l’asse di equilibrio si era spostata verso la Francia: l’autonomia della Chiesa sancita dal “Dictatus papae” (1075) di Gregorio VII, rimarcata dal Concordato di Worms (1122) e incarnata da Innocenzo III si frantumò completamente.

In questo settantennio (1309-1378) il papato fu uno strumento di potere in mano ai sovrani francesi. Clemente V si mostrò molto arrendevole nei confronti di Filippo IV, che gli impose l’annullamento della bolla “Unam Sanctam” nonché la soppressione dei Templari, sancita nel Concilio di Vienne (1312) e, da ultimo, fu costretto ad aprire un processo contro il defunto Bonifacio VIII.

Solo con l’avvento di Gregorio XI (1370-1378), su pressioni popolari, di cui furono voci rappresentative S.Caterina da Siena e S.Brigida di Svezia, il papato fu ritrasferito a Roma.
Da questo momento in poi avrà origine il papato moderno.

LE CONSEGUENZE DELL’ESILIO AVIGNONESE

Valutato nel suo complesso, l’esilio avignonese arrecò immensi e irreparabili danni al papato e alla Chiesa: scosse profondamente la fiducia di cui aveva goduto fino a Innocenzo III; fu all’origine dello scisma d’occidente durato un quarantennio; spinse verso il conciliarismo e, infine, mise le premesse allo scisma sorto dalla Riforma luterana.

Infatti, l’influenza francese sul papato avignonese ebbe ripercussioni nefaste durante il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334) per quanto riguarda politica pontificia verso l’impero tedesco. Il papa depose dal trono nel 1323 l’Imperatore Ludovico il Bavaro, assumendo nei suoi confronti un atteggiamento di ostilità, rendendosi, in tal modo, complice degli interessi francesi.

Questo atto non fu privo di conseguenze e pose la Germania in un atteggiamento di forte contrasto con il papato ed ebbe per quest’ultimo degli esiti fatali.

Infatti, per la prima volta nella storia, il contrattacco imperiale non ebbe come obiettivo la figura di un pontefice, bensì l’istituzione stessa del papato il cui strapotere, ormai, travalicava ogni limite.

Nel 1324 l’imperatore Ludovico fece appello ad un concilio contro Giovanni XXII. All’imperatore si unirono tutti i religiosi ostili al papa. Tra questi ne vanno annoverati due, Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun, che elaborarono una teoria rivoluzionaria che darà origine al “conciliarismo” e alimenterà la polemica protestante contro l’istituzione del papato, tuttora perdurante.

Tale teoria, esposta nel libro “Defensor pacis” metteva in dubbio l’ordinamento gerarchico della Chiesa e proponeva una struttura a base democratica. Si negò l’origine divina del primato papale e si attribuì, invece, al popolo il potere sovrano nella chiesa. Una priorità del clero sui laici, quindi, non esiste. Papa, vescovi e clero in genere adempiono un mandato che proviene loro dalla “Congregatio fidelium” che è rappresentata dal Concilio ecumenico.

Questa concezione di Chiesa faceva del papa un puro organo esecutivo del concilio, subordinandolo a quest’ultimo costringendolo ad obbedire alle sue decisioni.

Tale teoria. Che subordina il papato al concilio è designata con il termine di “conciliarismo” che troverà piena attuazione nel concilio di Costanza con la bolla “Haec sancta”.

Il periodo avignonese si distinse anche per il fortissimo incremento del regime fiscale portato avanti con metodi e misure alquanto aberranti e furono fattori di disordini e scandali. Vi erano tasse che venivano riscosse talvolta con dispense di privilegi e grazie pontificie; talvolta estorte con minaccia di censura o scomunica. Comportamenti simili aumentarono l’ostilità verso la curia e soprattutto si fece sentire in Germania per l’atteggiamento antitedesco del papa verso Ludovico il Bavaro e si acuì nel corso del tempo trovando la sua massima espressione nei “Gravamina nationis Germanicae” e produsse ancor più i suoi effetti nel XVI sec. nell’ambito della Riforma.

IL CONCILIO DI VIENNE E I TEMPLARI

Sotto il pontificato di Clemente V, papa francese debole e in totale balia del prepotente e demoniaco Filippo IV, avvenne la vergognosa soppressione dei Templari.

Istituiti ai tempi delle Crociate per la difesa dei luoghi santi e di Gerusalemme da Ugo di Payen e Goffredo di St.Omer, vivevano sotto una regola redatta da S.Bernardo: ai tre voti religiosi aggiunsero quello della difesa di Gerusalemme.

Facevano a capo al Gran Maestro, configurandosi come una cavalleria ecclesiastica che si distinse in azioni eroiche. Col tempo divennero dei banchieri di intermediazione tra l’Oriente e l’Occidente.

Filippo IV, prepotente e geloso della loro autonomia, nonché bramoso delle loro ricchezze, ordì contro di loro delle infamanti accuse. Fece arrestare 2000 templari, confiscò i loro beni e li affidò all’Inquisitore di Francia, peraltro suo confessore.

Tale infame congiura ottenne anche una forma giuridica con il Concilio di Vienne (1312). A ciò seguì una vera e propria strage di Templari, senza che il pavido ed imbelle Clemente V, fantoccio nelle mani del re, osasse protestare.

Si concluse così una gloriosa istituzione che si coprì di glorie e di onore e che sempre aveva fedelmente servito la Chiesa e la Cristianità.

LO SCISMA D’OCCIDENTE

Dopo la morte di Gregorio XI (1370-1378), ultimo dei papi avignonesi che, poco prima di morire, su pressione popolare, di S.Caterina da Siena e S.Brigida di Svezia, riportò la sede a Roma, si procedette alla elezione di un altro papa da un collegio cardinalizio composto da 16 cardinali di cui 11 francesi.

Il timore che venisse eletto un altro papa francese e che Roma venisse nuovamente disertata, spinse il popolo a fare forti e violenti pressioni sui cardinali perché eleggessero un papa romano o, quantomeno, italiano. Questi, intimoriti, elessero il cardinale di Bari che assunse il nome di Urbano VI a cui prestarono giuramento di fedeltà.

Ma dopo tre mesi, sia per il carattere dispotico e fanatico con tratti di crudeltà mentale, tanto che si pensò che l’elezione papale l’avesse sconvolto; sia perché si pensò nulla l’elezione in quanto realizzata sotto minaccia e violenza; sia, infine, per le forti ed egoistiche pressioni della Francia, i cardinali abbandonarono Urbano VI e a Fonti, sotto protezione della Francia, elessero un altro papa, cugino del re di Francia, che si chiamò Clemente VII (1378-1397). Questi tentò di occupare militarmente Roma, senza riuscirvi, perciò ripiegò su Avignone.

Da questo momento in poi vi fu un doppio papato che provocò una profonda e scandalosa spaccatura nella Cristianità e nell’Occidente, che si ripercosse anche nella vita delle diocesi e delle parrocchie e che durò ben quarant’anni.

Entrambi i papi si ritenevano legittimi e pensavano all’altro come l’usurpatore. Non si risparmiarono reciproche scomuniche ai seguaci dell’uno e dell’altro sicché, in breve, l’intera Europa risultò essere scomunicata.

L’Università di Parigi propose una triplice soluzione alla vergognosa e incredibile situazione:

-    la “via cessionis” , cioè la volontaria abdicazione:
-    la “via compromissi” o il rimando della questione ad un tribunale arbitrale;
-    la “via concilii” ossia il ricorso alla decisione di un concilio.

Purtroppo, tutto fu inutile.

I due papi costituirono le loro sedi pontificie con tutto il proprio apparato amministrativo e organizzativo, e alla loro morte ebbero i loro successori.

IL CONCILIO DI COSTANZA E IL CONCILIARISMO

Dopo inutili tentativi, durati 30 anni, di ristabilire l’ordine (nessuno dei due papi volle abdicare o sottoporsi ad un arbitrato) si fece sempre più strada che un concilio ecumenico potesse risolvere la questione (è la terza via). Fu così che a Pisa venne convocato nel 1409 un concilio nel quale si deposero i due papi e se ne elesse un altro: Alessandro V, che ebbe breve vita, lasciando il posto a Giovanni XXIII. Ma Gregorio XII e il suo antagonista Benedetto XIII si rifiutarono di sottostare alle decisioni conciliari, per cui si ebbero in quell’epoca ben tre papi, tutti legittimi e tutti illegittimi.

Giovanni XXIII fu appoggiato dal re tedesco Sigismondo il quale, per por fine ad una situazione scandalosa e vergognosa, fu autorizzato da Giovanni XXIII a convocare a Costanza un concilio nella segreta speranza di essere riconosciuto come legittimo papa.

Ma quando, per neutralizzare la superiorità del gruppo italiano, fu stabilito che il voto non doveva essere “per capita singulorum”, ma “per nationes” Giovanni XXIII comprese che per lui non c’erano più speranze e fuggì di notte, nella speranza che il concilio, senza la sua presenza, sarebbe stato sospeso.

Ma l’imperatore prese in mano la situazione e, confortato con il discutibile decreto conciliare “Haec sancta” (V sessione conciliare) con cui si dichiarava la superiorità del concilio sul papa, i lavori ripresero su tre punti:

-    ricomposizione dello scisma;
-    condanna delle eresie di Wycliffe e Hus; (VIII e XV sessione conciliare )
-    la riforma della Chiesa “in capite et membris”

Inoltre con il decreto “Frequens” (XXXIX sessione conciliare) si stabilì la cadenza regolare dei concili in 5, 7 e 10 anni, costituendo di fatto il “Concilio” come organo di controllo del papato.

Il concilio di Costanza durò quattro anni con oltre 300 vescovi e prelati, 30 cardinali e 33 arcivescovi e molti esponenti della nobiltà politica. Cinque le nazioni presenti: Italia, Francia, Spagna, Germania e Inghilterra.

Quanto alla triade di papi: Giovanni XXIII venne arrestato; Gregorio XII, ormai novantenne, abdicò; Benedetto XIII fu deposto come eretico e si ritirò in Spagna dove morì. Venne, infine, eletto un nuovo papa Martino V (1417-1431).

LE RADICI DELLE TEORIE CONCILIARI

Al di là degli aspetti storici, il conciliarismo affonda le sue radici nella canonistica altomedievale. Questa, per assicurare la "libertas ecclesiae" dall'imperatore e dalla nobiltà, aveva configurato la chiesa come una "corporazione" di persone aventi diritto d'azione e capacità sovrana.

Secondo tale teoria il vescovo con il capitolo formava una corporazione capace di azione autonoma. Ma il vescovo, in quanto caput, era vincolato al totum, senza il quale perdeva la sua identità corporativa e quindi di persona giuridicamente capace. Per cui si definivano assiomi significativi del tipo "Totum est maior sua parte" che evidenziavano la superiorità del totum sul caput.

Parimenti il collegio cardinalizio pensava il suo rapporto con il papa. Secondo tale concezione corporativa, il papa riceveva dal collegio i poteri che erano del collegio così che il papa ne diventava un amministratore autorizzato.

Alla teoria della corporazione si affiancò la concezione giuridico-personalistica. In tale concezione si distingueva la potestas ordini, trasmessa da Cristo a tutti gli apostoli, dalla potestas iurisdictionis, affidata solo a Pietro. Da ciò deriva che il potere giurisdizionale della chiesa proveniva dal papa e non più dalla corporazione. Quindi nella elezione papale il collegio non trasferiva poteri propri ad un delegato, ma semplicemente eleggeva la persona che deteneva la plenitudo potestatis conferita da Cristo a Pietro e ai suoi successori. Quindi Cristo e non il collegio era il vero detentore del potere ecclesiale.

La questione, quiescente durante il periodo della lotta tra regnum e sacerdozio, si ripropose in tutta la sua vitalità nel periodo del conciliarismo.
Quindi la "Haec sancta" non fu una sorta di colpo di stato, bensì una applicazione canonistica della teoria corporativistica che trovò la sua esasperazione nelle "Tres veritates fidei cattholicae"  che proclamavano:

•    La superiorità del concilio sul papa;
•    L'incompetenza del papa a trasferire o sospendere un concilio senza l'assenso conciliare
•    Ogni ostinata opposizione alle presenti proposizioni è considerata eresia.

JAN HUS E JOHN WYCLIFFE

Jan Hus nacque ad Husinec nella Boemia meridionale nel 1370. All’età di 30 anni venne ordinato sacerdote e intorno al 1400 aveva incominciato a conoscere le idee dell’inglese John Wycliffe che fin dal 1374 aveva mosso dei violenti attacchi contro i metodi del papato avignonese, contro la ricchezza dei prelati e contro la gerarchia.
A questa decadenza aveva opposto la sua concezione spiritualistica della “chiesa dei predestinati” che avrebbe dovuto rinunciare ad ogni possesso e vivere in povertà apostolica. In questa chiesa ideale, secondo Wycliffe, doveva vivere solo chi era in uno stato di grazia; nessuno, pertanto, che fosse in peccato mortale vi poteva accedere e tanto meno porsi alla guida della comunità cristiana, sia nella chiesa che nello stato. Un papa, un vescovo o un qualsiasi religioso che fosse in stato di peccato mortale non aveva alcun potere; analogamente i governanti perdevano il proprio.

Una teoria questa molto simile, se non coincidente, all’eresia del donatismo, già ampiamente combattuta da S.Agostino tra il IV e il V sec.

Benché gli intenti dello Wycliffe fossero buoni, tuttavia la sua teoria, se applicata, era fortemente destabilizzanti del potere costituito, sia religioso che politico. Infatti chi può mai dirsi in grazia di Dio? Chi può mai dirsi così puro, santo e perfetto da poter essere considerato membro permanente di una tale chiesa e società?

Come per Donato, anche per Wycliffe vi fu un eccesso di rigorismo ascetico.

Jan Hus sostenne e diffuse tali teorie dello Wycliffe trovando larghi consensi non solo per questioni religiose e ascetiche, ma soprattutto per motivazioni politiche. Infatti in Boemia la maggior parte dei prelati era tedesca, per cui la sua aspra critica a questi mosse una forte tendenza antitedesca, la quale sollevò tutta la Boemia che si unì alle tendenze religiose dello Wycliffe, sposate e sostenute da Hus.

Sennonché, quando il tedesco vescovo di Praga, incaricato dal papa Alessandro V di trattare la delicata questione religiosa, prese severe misure repressive contro l’eresia, tale posizione fu letta in chiave squisitamente politica e Hus si rifiutò di sottomettersi al prelato tedesco e ricorse al papa Giovanni XXIII a cui si rivolse, a sua volta, anche l’arcivescovo. Il papa, dopo aver inutilmente convocato a Roma Jan Hus, lo scomunicò e, in seguito, proditoriamente imprigionato dai cardinali, venne processato e condannato al rogo come eretico, dopo aver ripetutamente e inutilmente cercato di convincere Hus ad abiurare le proprie teorie. Del suo caso, come di quello dello Wycliffe, si occupò il Concilio di Costanza che nelle sezioni VIII e XV condannò le teorie di entrambi come eretiche.

Il 17 dicembre 1999 in un discorso rivolto ai partecipanti al convegno internazionale sulla figura di Jan Hus, Giovanni Paolo II ebbe parole di comprensione per questo pensatore e ne rivalutò la sua figura morale, stigmatizzando, sia pur velatamente, le crudeli ingiustizie da questi subite ad opera della Chiesa.

 I CONCILI DI BASILEIA, FERRARA E FIRENZE (1431-1442)

In conformità a quanto stabilito dal decreto di Costanza “Frequens”, trascorsi cinque anni dalla chiusura di Costanza (1418), Martino V convocò un concilio a Pavia, poi spostato a Siena a causa della peste; ma vista la scarsa partecipazione lo si rimandò a Basileia nel 1431. Qui, in tale anno, venne aperto da Eugenio IV, succeduto nello stesso anno a Martino V.

I partecipanti, forti del decreto “Haec sancta”, invocarono per sé il potere supremo di decisione e limitarono fortemente il potere papale.

Eugenio IV, per por fine ai continui contrasti, trasferì nel 1437 trasferì il concilio a Ferrara. In tale frangente vi fu un tentativo scismatico, fortunatamente fallito e con esso fallì anche il conciliarismo, anche se in modo latente fu sempre presente e temuto.

Il concilio riprese a Ferrara nel 1438 da dove fu quasi subito trasferito a Firenze per pericolo di peste, da dove proseguì dal 1439 fino alla chiusura del 1442.

L’obiettivo primario del concilio fu l’unificazione delle due Chiese di Oriente e di Occidente, previo chiarimento di alcuni punti controversi:

-    la questione del “Filioque”;
-    il primato del pontefice;
-    il Purgatorio;
-    l’uso latino del pane azzimo e altre questioni liturgiche.

Alla base del desiderio di unificazione tra le due Chiese stava l’estrema necessità di aiuto contro i Turchi che stavano prendendo Costantinopoli. Solo una forte crociata avrebbe potuto salvare Costantinopoli da una triste fine.

Dopo lunghe discussioni si raggiunse un accordo concretizzatosi nel decreto “Laetentur coeli”, che durò ben poco sia per le forti avversità trovate al ritorno a Costantinopoli, sia perché l’Occidente rifiutò gli aiuti, abbandonando Costantinopoli in mano ai Turchi, che nel 1453 fu conquistata e distrutta decretando, in tal modo, la fine dell’Impero bizantino d’Oriente.

L’eredità di Costantinopoli fu assunta nel 1459 da Mosca, che fu ben presto designata come la “Terza Roma”



LE RIFORME MONASTICHE E I NUOVI ORDINI



I MONASTERI: DALLA REGOLA MISTA A QUELLA DI S.BENEDETTO

Durante il periodo carolingio i monasteri conobbero due fasi: quella della regola mista, cioè una mescolanza di regole occidentali, tra le quali molto diffusa fu quella dei monaci iroscozzesi e benedettini; e quella di unificazione sotto la Regola benedettina e l’opera di S.Benedetto di Aniane (Francia).

Fino all’VIII secolo giravano una trentina di regole e ogni monastero aveva la sua tradizione.

Già con S.Bonifacio (Vinfrido) si cercò di unificare i monasteri sotto l’unica regola benedettina, ma inutilmente.

La cosa, invece, riuscì bene al nuovo imperatore Carlo Magno che vide nell’unificazione dei monasteri sotto l’unica regola una garanzia di unità anche per l’Impero e, quindi, la impose a tutti i monasteri.

Accanto ai monasteri sorsero anche delle Confraternite di preghiera, diffusesi dall’ VIII secolo. Erano forme di aggregazioni tra monaci o monasteri sia per un reciproco aiuto che per commemorare membri e benefattori, vivi e defunti, dei monasteri.

S.Benedetto di Aniane, sotto il regno di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, continuò la riforma, che aveva trovato un suo inizio nell’unificazione di tutti i monasteri sotto l’unica Regola di S.Benedetto e che lui stesso applicò ai 25 monasteri da lui fondati, creando tra loro un sistema di aggregazioni che formerà da matrice al monachesimo di Cluny, che in tutta Europa sfornò ben 2000 conventi sotto la direzione papale e accentrati alla casa madre di Cluny.

Compose due opere: “Codex Regularum” e “Concordia Regularum” che formarono un compendio delle regole fino allora esistenti.

L’unificazione del monachesimo sotto l’unica bandiera non significò la realizzazione della riforma dei monasteri che, legati strettamente all’Impero, ne subirono le sorti alla sua decadenza.

LA RIFORMA MONASTICA

La riforma, che a Brogne (Belgio) interessò 11 monasteri e influenzò indirettamente l’Inghilterra, toccando anche Montecassino, era caratterizzata da tre elementi:

-    Indipendenza dei monasteri dal vescovo;
-    Presenza di un abate regolare;
-    Adozione della Regola di S.Benedetto.

Particolare rilievo ebbe la nascita e la diffusione del monastero di Cluny, nel sud della Francia.

CLUNY: STORIA E IMPORTANZA

Passata la crisi carolingia, in cui fu travolta anche la Chiesa, strettamente legata all’impero, presero il via dei movimenti di riforma dei monasteri, da cui si irradiò un profondo rinnovamento spirituale e culturale che investì l’intero Occidente e spianò la strada, favorendola, alla riforma gregoriana.

Il monachesimo ebbe il compito di testimoniare il distacco cristiano dal mondo e di vigilare contro i pericoli della secolarizzazione; fu, inoltre, un potente richiamo all’interno della Chiesa, decisamente invischiata in una terrestrità senza speranza. Fu, dunque, una forte voce profetica all’interno della Chiesa e della Cristianità.

A differenza di quello Orientale, chiuso nella sua contemplazione e nel suo misticismo, il monachesimo Occidentale si interessò ai problemi dell’intera Cristianità.

Tra i numerosi movimenti di riforma monastici che animarono il X secolo, va menzionato quello di Cluny, posto ad est della Francia centrale, certamente il più importante in assoluto.

Nel 910 il duca Guglielmo il Pio fondò a Cluny un monastero che sottomise all’obbedienza papale, assicurandogli, in tal modo, la piena libertà e indipendenza dai vescovi e signorotti locali.

Ciò che caratterizzò Cluny fu la libera elezione dell’abate, a cui tutto era rigorosamente sottomesso e solo a lui si doveva obbedienza. In particolar modo quando il monachesimo cluniacense si diffuse generando, direttamente o per aggregazione, altri 2000 monasteri in tutto l’Occidente, gli abati di questi erano sottomessi e vincolati da giuramento all’unico abate della Casa madre di Cluny che influenzava direttamente l’intera vita monastica degli altri monasteri aggregati e dipendenti.

Un altro aspetto caratterizzante la vita di Cluny fu la liturgia, che occupava gran parte della vita dei monaci e che si sentiva come una partecipazione a quella del cielo.
Si crearono, inoltre, dei seminari monastici per i candidati alla vita monacale.

Accanto a quello cluniacense si affiancarono altri movimenti riformatori che concorsero al rinnovamento spirituale della Chiesa e della Cristianità occidentali, in particolare si ricorda Brogne.

La riforma cluniacense si espanse anche in Italia dal 936 in cui sorsero diversi centri, caratterizzati dai loro stretti legami con Cluny, in particolar modo nell’Italia centrale e meridionale. Tuttavia, il monachesimo italiano ebbe caratteristiche proprie che si possono così sintetizzare: risveglio dell’ideale eremitico; grande entusiasmo missionario e ricerca del martirio connesso alla missione.

LA RIFORMA CANONICALE

A fianco dei monasteri si sviluppava con caratteristiche proprie la vita canonicale, separata dalla vita monastica da regole proprie: la “institutio canonicorum” o Regola di Acquisgrana dell’ 816.

I Compiti principali stabiliti dalla regola furono: Preghiera corale; vita legata al “claustrum”, con mensa e dormitorio comuni. All’interno del “claustrum” si poteva abitare in case singole e con diritto su proprietà privata, cosa che non piacque al sinodo di Acquisgrana che, invece, perseguiva un ideale di povertà; cosa fattibile là dove Capitolo e Monastero convivevano.

Con il rinnovamento, però, dei Monasteri anche i Capitoli ne furono coinvolti. Tuttavia la riforma dei Capitoli non durò a lungo poiché nei Capitoli, gestiti collegialmente, mancò l’elemento determinante nei monasteri: l’abate.

IL MOVIMENTO CARISMATICO: UN RITORNO ALLA CHIESA PRIMITIVA

Il risveglio spirituale, che investì monaci e canonici, coinvolse anche i laici. In tutti si accentuò la ricerca di una nuova spiritualità, caratterizzata da un ritorno alle origini della Chiesa primitiva, così come delineata degli Atti degli Apostoli: una chiesa che viveva in comunità, che condivideva i beni e tutto metteva in comune. Una chiesa che era essenzialmente povera e basata sull’amore comune.

Preponderate, comunque, era l’ideale di povertà in un contesto in cui i monasteri, mentre imponevano ai singoli la povertà, trasudavano abbondanza e ricchezza. Secondo tale ideale, invece, si doveva rinunciare e staccarsi da beni terreni.

In questo orizzonte gli uomini del movimento evangelico si staccarono da tutto e si ritiravano a vivere nei boschi per darsi alla contemplazione di Dio.

Spinti da questo clima di alta spiritualità dai canonici secolari si staccarono altri canonici, detti regolari, che si dettero a vivere lo spirito di povertà della chiesa primitiva, ricalcando lo stile del monachesimo. Questo movimento nacque spontaneamente ed era a base carismatica. Esso si avvicinò molto alla riforma gregoriana e la favorì, preparandole il terreno, poiché  con questa aveva in comune la lotta al nicolaismo, alla simonia e l’aspirazione alla povertà evangelica.
Tuttavia, tale movimento ebbe una vita propria non sempre opportunamente sostenuta da un’adeguata teologia, per cui ben presto in alcuni componenti vi furono delle deviazioni dottrinali e delle esagerazioni che nascevano da stati di eccessiva esaltazione spirituale, che li staccarono gradualmente dalla stessa Chiesa. Ciò avvenne, soprattutto, tra i predicatori itineranti, detti anche “Pauperes Christi” .

Lo stretto contatto che questo movimento ebbe con il popolo, suscitò in molti laici il desiderio di vivere, per imitazione, la vita monastica, portandoli tra l’ VIII e il X secolo a stanziarsi intorno ai conventi. Nacquero, così, i “Fratelli laici”, i cosiddetti Conversi, che nell’ XI secolo entrarono nei conventi, conducendo una vita monastica insieme ai veri e propri monaci con i quali condividevano,  quasi in tutto, la loro vita, compresi i voti.

DIFFERENZIAZIONE MONASTICA E NUOVI ORDINI: CERTOSINI E CISTERCENSI

A un periodo di grande vivacità spirituale, durante il quale sorsero numerose fondazioni nuove (1059-1123), seguì un ventennio di assestamento e di differenziazione dei monasteri. Durante tale processo due sono gli esempi da evidenziare: i Certosini, che prediligono la vita monastica alla cenobiti; e i Cistercensi, che, invece, accentuano quest’ultima.

La fondazione dei Certosini fu dovuta a un certo Bruno di Colonia (1032-1101). Questi, divenuto direttore della scuola della cattedrale di Reims, dopo una lunga e sofferta opposizione con l’arcivescovo della città, si ritirò verso il deserto della Certosa con sei compagni, ove condusse una vita eremitica e dove istituì la vita certosina (1084).

Con la costituzione delle “Regole della Certosa” (1127) si dette una forma giuridica ad una istituzione destinata ad avere lunga vita fino ai nostri giorni.

Diversa impostazione ebbero, invece, i Cistercensi. Nati a Citeaux (Cistercium) nel 1098 con approvazione papale, questo ordine affonda le sue radici e le sue origini a Cluny, ed è una radicalizzazione della “Regola di S.Benedetto”, rendendo, così, più rigorosa la vita cenobitica.

Essa è caratterizzata da un equilibrato alternarsi nel corso della giornata dal lavoro manuale, dall’ascesi, dal silenzio e la solitudine.

Citeaux si diede una configurazione giuridica con la “Carta Caritatis”, che persegue unicamente la carità e il bene delle anime. Essa fu redatta da Stefano Harding, suo fondatore.

Al posto del ferreo centralismo di Cluny si sostituì il reciproco scambio di doveri, come lo scambio delle visite annuali che abbazie madri e figlie si scambiavano.

Questo ordine, nato in Francia, ebbe una rapida diffusione in Occidente con oltre 700 monasteri che promossero uno stile architettonico sobrio e semplice, ripreso, poi, da quello francescano e che rispecchia lo stile di vita di queste grandi istituzioni ecclesiali.

IL MONACHESIMO FEMMINILE

Il fermento spirituale da cui nacquero numerosi movimenti ispirati alla spiritualità della chiesa primitiva, cantata da Luca negli Atti degli Apostoli, coinvolse anche numerose donne che, all’ombra dei grandi movimenti monastici, vissero ed espressero la loro spiritualità secondo la loro propria sensibilità, arricchendo, in tal modo, il movimento monastico di nuovi aspetti e di nuove istituzioni prettamente femminili.

Di fronte a questa esuberanza, la Chiesa cercò di promuovere la monacalizzazione delle donne, preferendo per queste la vita di clausura ed altre osservanze che caratterizzavano i monasteri maschili.

Tuttavia, le monache rivendicarono una loro specificità che rispetti la loro identità di donne. Infatti, all’epoca, non esistevano ancora regole monastiche propriamente femminili, ma solo maschili che, pur adattate, non rispondevano bene alla spiritualità femminile. Si dovrà attendere S.Chiara per avere una regola scritta da una donna per le donne.
Nell’ambito dei monasteri femminili erano rappresentati un po’ tutti gli strati sociali.

CANONICI REGOLARI: I PREMOSTRATENSI

I monaci regolari o riformati basavano la loro vita non solo sulla regola fondamentale di Atti 4,32, ma anche su delle indicazioni dei Padri. Tra questi si privilegiava S.Agostino con la sua “Regola di S.Agostino”; un ordinamento composto di due parti:

-    la prima l’ “Ordo monasterii” o “Regula Secunda”, più breve, ma decisamente più severa;
-    la seconda “Regula Tertia” o “Ad servos Dei”, più mite e moderata.

Si trattava, in realtà, di due ordini di regole, riconosciuti come tali nel 1120; data questa che portò ad una fondamentale divisione dei Canonici regolari in “Ordo novus”, che seguiva la “Regula seconda”, la più severa e che cercava di svilire quella più mite affermando che era stata scritta per le donne e,quindi, non adatta a dei canonici; e in “Ordo antiquus”, che, invece, seguiva la “Regula Tertia”, quella più mite.

Tutto ciò portò a delle contrapposizioni e a delle contese tra i due ordini. Tra questi un ricordo va dato all’ordine più diffuso: i Premostratensi, fondati in Francia da Norberto Xanten, canonico e cappellano di Enrico V. Questi, ritiratosi, fonda con 40 chierici una comunità canonicale sulla “Regola di S.Agostino”.

Inizialmente contemplativi, si orienteranno, successivamente, alla cura delle anime  e alla predicazione.

S.Norberto, agli inizi, aprì anche alle donne che vivevano in rigorosissima clausura, ma, poi, vennero progressivamente escluse.


I MOVIMENTI ERETICALI DALL’XI AL XIII SECOLO
 L’INQUISIZIONE




PREMESSA

La chiesa, invischiata nella vita dell'impero al punto da diventarne parte costitutiva e fondamentale, fu coinvolta anche in uno stile di vita caratterizzato dal lusso sfrenato e dai piaceri che da questo derivavano.

Simonia e nicolaismo ne denunciavano il degrado morale e la decadenza spirituale, che  la portarono a perdere la sua identità e il senso della propria missione.

Ma dalla seconda metà dell'XI sec. nacquero dall'interno stesso della chiesa, anche in ambiente laicale, dei movimenti spiritualistici e di rigorismo ascetico che puntarono alla sua trasformazione e al suo rinnovo spirituale, mirando alla sua purezza di vita e ad una essenzialità di vita evangelica sull'esempio della chiesa primitiva descritta negli Atti.

Questi movimenti pauperistici e ascetici furono dei forti alleati della riforma gregoriana e di tutti quei papi che se ne occuparono. Va tuttavia rilevato che, talvolta, la spontanea formazione di questi gruppi, non possedendo essi una adeguata formazione teologica e  culturale, mossi prevalentemente dallo spontaneismo e dallo sdegno contro un vergognoso modo di vivere della chiesa, cadevano spesso in comportamenti deviati anche dottrinalmente.
Tuttavia, tali movimenti, sia nel bene che nel male, furono un chiaro segno che la chiesa non poteva più proseguire in tal modo e furono un motivo di riflessione che la portò ad un graduale distacco dall'impero e a ritrovare la propria identità e il senso della sua missione.

Tra questi, degni di menzione per la loro diffusione, furono i Valdesi, i Catari o Albigesi e i Patarini.

I VALDESI

Ebbero origine dal ricco mercante Pietro Valdès di Lione. Questi, partendo da una meditazione di Mt. 10,5ss, egli vendette tutto e sposò l’ideale della povertà. I suoi seguaci furono chiamati “Pauperes Christi”. La sua predicazione non fu esente da esagerazioni: mosse critiche al culto dei santi e delle reliquie; inoltre sosteneva, sotto pena di peccato, la necessità di vivere la povertà evangelica.
Il vescovo gli proibì la predicazione che, invece, il concilio Lateranense III, dopo essersi appellato al papa Alessandro III, gli restituì.
Questo permesso, tuttavia, gli venne revocato dal successore di Alessandro III (1159-1181), Lucio III (1181-1185) a cui si ribellò e per questo venne scomunicato.

Il Valdismo si costituì in due correnti: una  a Lione e  una in Lombardia dove i seguaci vennero perseguitati e costretti a rifugiarsi nelle vallate del torinese, chiamate anche Valli Valdesi.

I CATARI O ALBIGESI

Trassero la loro origine da una forma di manicheismo. Essi insegnavano che il mondo era stato creato dal diavolo, cioè dal Dio cattivo dell’A.T., contro il quale il Dio buono del N.T. aveva inviato il suo angelo Gesù Cristo per insegnare agli uomini come liberarsi dalla materia cattiva e diventare, così, dei puri, cioè kaqaroi. Di conseguenza tutta la creazione era cattiva, come il proprio corpo, il matrimonio e il rapporto sessuale. Tutte cose da evitare.

Alla Chiesa cattolica, ricca di beni, contrapposero la loro chiesa povera, organizzata sulla falsariga di quella cattolica.

Con la stessa risolutezza i Catari combatterono contro lo Stato, il cui imperatore era definito il “proconsole di Satana”.

Essi si diffusero prevalentemente in Francia, ad Albi, da cui presero il nome di Albigesi. La loro grande diffusione in Francia li portò ad allearsi con i baroni, che si stavano preparando alle lotte contro il Regno di Francia. Stato e Chiesa, dunque, si unirono per combatterli con le armi l’uno, con l’Inquisizione l’altra.

Contro di essi Innocenzo III (1198-1216) indisse una crociata che scatenò una guerra di vent’anni con un enorme spargimento di sangue.

I PATARINI

Furono un movimento politico-religioso affermato”si a Milano verso la metà dell’ XI secolo contro le oppressioni dell’alto Clero corrotto. Di esso fece parte il popolo più umile, così che essi vennero chiamati Patarini dal mercato milanese degli stracci. Sorse come opposizione all’elezione di Guido da Velate ad arcivescovo di Milano


L’INQUISIZIONE



PREMESSA

Nel medioevo vi era una forte solidarietà, che con Carlo Magno e gli Ottoni di Germania arrivò anche all'identificazione, tra stato e chiesa, tra religione e politica.
Nell'ambito di questo concetto, per cui la fede non era qualcosa di diverso dal proprio essere cittadino, ogni deviazione dottrinale era concepita anche come un attentato allo stato, proprio per il forte connubio che legava i due. L'eresia, pertanto, non era vista come una semplice deviazione dottrinale, ma anche come opposizione alla chiesa e all'ordine costituito.

Nel Medioevo, nell'ambito delle eresie, vanno distinte le "eterodossie", cioè opinioni erronee che si sviluppavano in ambiente scolastico e intellettuale e lì rimanevano, dai movimenti ereticali sorti in mezzo al popolo e caratterizzati da un rigorismo ascetico e da un biblicismo popolare.

Essi costituirono una risposta, spesso deviata e abnorme, allo stile di vita lussuoso e lussurioso della chiesa. Il loro intento era quello di una "renovatio ecclesiae", ma condotto in modo sbagliato; per questo, ponendosi contro la chiesa, ledevano l'armonioso mondo della chiesa dei nobili e, di conseguenza, l'ordine costituito.

LOTTA ALLE ERESIE ED INQUISIZIONE

Fintanto che l'eresia rimase un fenomeno sporadico e limitato all'ambiente scolastico, che prevedeva già in sé dei sistemi repressivi, o essa era in mezzo al popolo sottoforma di errore di credenza, l'eresia non creava particolari problemi.
Il problema invece si pose quando essa si diffuse rapidamente tra il popolo e si strutturò in movimenti e organizzazioni ereticali che si traducevano spesso in rivolte e turbamenti della pace sociale a partire dal 1150 c.a.
Questo portò il papa ad emanare severe disposizioni contro l'eresia, qualificata come reato di lesa maestà e di turbamento della pace sociale.
La lotta contro gli eretici, quindi, era finalizzata alla salvaguardia e al ripristino della pace sociale e dell'ordine pubblico.

Un notevole impulso alla lotta fu dato dall'inserimento nel sistema procedurale del metodo accertativo: il giudice non si limitava più a procedere solo su denuncia, ma si faceva parte attiva effettuando accertamenti d'ufficio finalizzati all'accusa. Da qui si sviluppò il procedimento inquisitorio o dell'Inquisizione.

In una prima fase l'Inquisizione era gestita dai singoli vescovi che nominarono degli "inquisitores" che non si mostrarono, però, particolarmente efficaci.
Fu Gregorio IX (1227-1241) e con Innocenzo IV (1243-1254) che l'Inquisizione subì un forte impulso a livello operativo e giuridico: l'Inquisizione da vescovile divenne papale, gli "inquisitores" ebbero ampi poteri assommando in sé le funzioni di accusatori, giudici con facoltà di sentenza e l'eresia divenne un crimine di esclusiva competenza papale.

I processi si svolgevano a porte chiuse e gli imputati erano privati di ogni diritto.
L'inquisitore, inoltre, tendeva a veder confermati i propri accertamenti, per cui non si esitava a ricorrere alla tortura. In questo clima le sentenze erano emesse in processi-spettacolo ed erano in genere aprioristicamente già determinate.

I paesi dove maggiormente si affermò furono: Italia, Spagna e Francia.

Essa venne affidata ai Domenicani e ai Francescani da Gregorio IX.

Vi furono due tipi di Inquisizione: uno di origine papale, ebbe inizio con Innocenzo III (1198-1216); e uno di origine spagnola, indetta dai sovrani di Spagna nel 1478 e divenne uno strumento di potere in mano al Re contro le minoranze ebree, islamiche ed eterodosse.

Da un punto di vista giuridico, due erano le procedure inquisitorie: una “ex officio, cioè dei legati papali andavano, motu proprio, alla ricerca di eretici; una “per denuncia”.

Accertata l’eresia, l’eretico veniva invitato a desistere dall’errore, diversamente era consegnato al braccio secolare, che lo condannava a morte, in genere, al rogo.

Con Innocenzo IV (1243-1254) si autorizzò anche la tortura per estorcere la confessione di eresia.

Oltre agli eretici, l’Inquisizione si occupò anche di stregoneria, altra ossessione di quel tempo.

GLI ORDINI MENDICANTI

PREMESSA

Sotto il pontificato di Innocenzo III (1198-1216), la vita monastica tradizionale (Benedettini, Cistercensi e Canonici regolari) entrò in profonda crisi sia religiosa che economica. Innocenzo III cercò di rianimare questi ordini, favorì il sorgere di altri e cercò di guadagnare alla Chiesa le forze del movimento pauperistico. In questo contesto rientrano i due grandi Ordini dei Mendicanti: i Domenicani e i Francescani.

Essi furono una risposta di Dio ad una Chiesa e società soffocate dal benessere e sorde alla voce dei poveri e a quella di Dio.

Domenico (1170) e Francesco (1181) furono la grande voce di Dio, la cui eco è giunta fino ai nostri giorni.

I DOMENICANI O “FRATI PREDICATORI”

Già nel nome si intuisce la loro origine e la loro finalità. Il loro fondatore fu Domenico di Caleruega. Nato in Pastiglia nel 1170, durante un viaggio verso Roma ebbe modo di vedere le conseguenze nefaste del movimento cataro per cui decise, in povertà apostolica, a dedicarsi alla conversione degli eretici.
Egli sposò sostanzialmente l’idea di povertà francescana, ma vi aggiunse un tocco personale e caratterizzante: la predicazione, quale strumento di catechesi alla cui base ci doveva stare una buona formazione teologica e culturale.
Innocenzo III riconobbe l’ordine, ma gli ingiunse di adottare una regola già esistente. La scelta cadde sulla Regola di S.Agostino.
A Prouille venne fondato nel 1217 l’ordine femminile delle domenicane.
I Domenicani si dedicarono prevalentemente alla predicazione, operarono nei tribunali dell’Inquisizione e si affermarono nel campo degli studi teologici e universitari.

I FRANCESCANI

S.Francesco nato ad Assisi nel 1181, dopo aver trascorso una gioventù spensierata, venne colto dall’ideale della povertà a seguito di una malattia. Cacciato dal padre nel 1206, percorse l’Umbria predicando la povertà e l’amore di Dio. Nel 1208 nella chiesetta della Porziuncola udì il passo di Mt. 10,5-16 e comprese qual’era la sua vocazione: predicatore itinerante e nella povertà apostolica, annunciatore dell’amore di Dio.

Unitisi a lui alcuni discepoli, si recò a Roma da Innocenzo III nel 1210 per ottenere l’approvazione della sua regola e del suo ordine. Sembra che in questa occasione egli abbia ricevuto il diaconato.

Suo intento era convertire i Catari e gli Islamici con la forza dell’amore, con umiltà e semplicità come si addiceva a dei fratelli minori, e tali furono chiamati i suoi seguaci.

Ben presto il suo ordine si diffuse e godeva della fiducia della gente semplice, ma anche delle alte gerarchie ecclesiastiche.

Si unì alla IV Crociata indetta da Innocenzo III e, mentre infuriava la battaglia per la conquista di Damietta, egli si presentò, ma senza successo, al sultano per parlargli dell’amore di Cristo.

Al suo rientro Francesco, a causa delle difficoltà interne al suo ordine, venne esonerato, così che egli poté dedicarsi alla contemplazione e alla preghiera, colpito nel frattempo da cecità e forti dolori allo stomaco.

È proprio durante questo periodo che egli compone il canto delle creature e riceverà le stigmate .

Parallelo a quello dei Francescani sorse l’ordine femminile delle Clarisse, fondato da S.Chiara sotto la guida spirituale di S.Francesco, che si pose a S.Damiano.

GIOACCHINO DA FIORE

Nato nel 1135, dopo un viaggio in Terra Santa, entrò nei cistercensi all’età di 25 anni. Ordinato sacerdote, divenne, poi, abate del monastero di Corazzo in Calabria.

Nel 1192, separatosi dai cistercensi, fondò un nuovo ordine, il Forense, formato da comunità eremitiche e posto sotto la protezione di S.Giovanni Battista.

Delle sue opere si ricordano dei commenti all’Apocalisse e “Concordia Vetus et Novi Testamenti” Quanto ai suoi commenti sull’Apocalisse, esposti nella sua opera “Expositio in Apocalypsim” egli presentò il suo metodo interpretativo, facendo leva sui quattro sensi delle scritture:

-    Letterale, che fa conoscere gli avvenimenti;
-    Allegorico, che dice cosa credere;
-    Morale, che dice come devi agire;
-    Anagogico o dell’orientamento di vita.

Ebbe anche una singolare visione teologica della storia di chiara coloritura escatologica e che egli divide in tre grandi età:

-    L’età del Padre o della Legge antica di Israele;
-    L’età del Figlio o della Legge nuova: la chiesa di Pietro p del papato;
-    L’età dello Spirito Santo o del Terzo Regno che sta per arrivare. Si tratta della chiesa di Giovanni, il cui arrivo era previsto per il 1260, ed è, ovviamente, una chiesa monastica, in cui scompare il profeta e il Vangelo viene vissuto nella sua genuinità. Alla chiesa della gerarchia si succederà quella della libertà nello Spirito.

Teoria, questa, che venne combattuta e condannata dal IV Lateranense.

I MOVIMENTI DI OSSERVANZA

Spinti sempre da una maggiore spiritualità e vicinanza a Dio attraverso un radicale distacco dalle cose terrene, testimoniato da un continuo affinamento dell’ideale di povertà, sorsero all’interno degli stessi monasteri, tra il 1250 e il 1530, dei tentativi di riforma degli stesi monasteri che, quanto a impegno spirituale, stavano languendo. Questi tentativi si concretarono nelle “Congregazioni di Osservanza”, costituite da monaci che desideravano vivere in modo stretto e rigoroso la regola propria del monastero di appartenenza.

Il Movimento di Osservanza ebbe una duplice partenza: dalla base e dal vertice.

L’unico tentativo partito dalla base fu quello dei Francescani e fu promosso dal fratello laico Paoluccio Trinci da Foligno (1309-1391) che, ritiratosi a Brogliano (VI), visse la più stretta osservanza della Regola.

Nella prima metà del quattrocento questa forma di osservanza francescana ebbe un’ampia diffusione per opera di S.Bernardino da Siena, S.Giovanni da Capestrano, S.Giacomo della Marca e il beato Alberto da Sarteano, chiamati le “Quattro colonne dell’Osservanza”. Quelli che non vi parteciparono furono chiamati i Conventuali.

Con bolla “Ut Sacra” Eugenio IV li autorizzò ad avere una gerarchia propria (1431-1447) tra le proteste dei Conventuali. Di fatto e di diritto si sancì una divisione all’interno dell’ordine.

Negli altri ordini di mendicanti la riforma partì, invece, dall’alto come nel caso dei Domenicani in cui l’abate diede ordine che in ogni provincia si riservasse un convento per quei Domenicani che erano desiderosi di vivere la Regola in stretta osservanza.

A capo di tali conventi l’abate pose dei vicari da lui dipendenti; il movimento non produsse, come per i Francescani, nessuna divisione interna.

Tutte queste riforme ebbero come conseguenza l’osservanza rigorosa della Regola, un ritorno e un recupero di quei valori propri della vita monastica, come la preghiera, la solitudine, il silenzio, la vita comunitaria, l’ascesi e la vita penitenziale. Fu, in sostanza, una riscoperta e un ritorno alla spiritualità delle origini.


DALLA RINASCITA CAROLINGIA ALL’UMANESIMO E RINASCIMENTO



LA RINASCITA CAROLINGIA

Il termine rinascita è un’espressione poco felice perché essa fa pensare al Rinascimento, che portò alla rivivificazione dei classici e della cultura profana, mentre quella carolingia si riferì agli autori cristiani, alla Bibbia e ai Padri. Con essa si posero i primi fondamenti della cultura occidentale che risultò, pertanto, squisitamente cristiana.

Essa operò in una molteplicità di campi, come quello del diritto, dello sviluppo dell’istruzione, romanizzazione della liturgia.

Anche lo sviluppo del monachesimo si unificò sotto la prevalente regola di S.Benedetto.

Si approntò un sistema scolastico di istruzione pubblica sponsorizzato da Carlo Magno, benché egli sapesse solo legge, ma non scrivere.

Fu questa anche l’epoca dei grandi teologi il cui pensiero era impregnato di neoplatonismo. Questi dettero alla teologia una notevole profondità che trovò la sua definitiva sistemazione scientifica nel secolo d’oro della scolastica, il XIII, grazie a S.Tommaso d’Aquino (1227-1277).

LA TEOLOGIA DEL PERIODO CAROLINGIO
 
Uno dei campi maggiormente innovati durante l’epoca carolingia fu la teologia. Essa affonda le sue radici nell’incontro del cristianesimo con le nuove popolazioni germaniche e dall’elaborazione di nuovi elementi scaturiti da tale incontro. Si presentò prevalentemente come spiegazione della Sacra Scrittura e una profonda connessione con i Padri della Chiesa. In quest’ambito nascono le prime enciclopedie teologiche.

La più importante raccolta del periodo carolingio furono le “Decretali pseudoisidoriane”, attribuite a Isidoro di Siviglia; sorsero in Francia tra l’ 847 e 852 in cui sono raccolti vari testi, chiaramente falsi, che avevano l’intento di consolidare la riforma carolingia, di superare l’influsso secolare della Chiesa, di favorire la disciplina ecclesiastica, riordinare la gerarchia e favorire la vita cristiana del popolo. Il suo influsso si farà sentire prevalentemente nella riforma gregoriana (1073-1085).

La teologia carolingia, tuttavia, non fu rivolta soltanto alla Bibbia e ai Padri, ma affrontò anche problematiche molto dibattute nell’antichità e ancora presenti, come l’adozionismo, la questione del Filioque, l’iconoclastia, la predestinazione, questioni sull’Eucaristia, ecc.

LA RINASCITA OTTONIANA

Nell’Alto Medioevo la cultura era detenuta prevalentemente dalle istituzioni ecclesiastiche, le quali beneficiavano da parte dell’Impero di mezzi materiali e mecenatismo in genere, anche se tutto ciò andava a beneficio dei sovrani teocratici.

La rinascita carolingia fu ripresa e sviluppata da quella ottoniana durante la quale ebbero grande sviluppo le arti liberali, definite in numero di sette e si articolavano nel trivio di grammatica, dialettica, retorica; e in un quadrivio di aritmetica, geometria, astronomia e musica. Riguardò ancora la storiografia, i testi liturgici, la geografia e l’esegesi biblica.

XII SECOLO: LO SVILUPPO DELLA TEOLOGIA SCIENTIFICA

La teologia, che fino al XII sec. era di tipo monastico, caratterizzata dal riferimento alla patristica e da una riflessione sapienziale, si trasformò in teologia scientifica tra il XII e il XIII sec., che si può ben definire come il secolo d'oro della scolastica.

Ancora una volta propugnatori di questa nuova teologia furono i conventi, le fondazioni canoniche, le scuole e, infine, le università.

Ogni scienza del tempo aveva un suo testo come "auctoritas" da cui partiva e a cui si riferiva. Nella teologia esso era rappresentato dalla scrittura e dalla tradizione dei padri.
La Bibbia era interpretata secondo le regole della tradizione dei padri.

Da un punto di vista tecnico-scientifico si ricorse alla "glossa", cioè ai commenti che i magistri facevano a lato del testo, metodo che già iniziò in epoca Carolingia (VIII-IX sec.). Questo metodo trovò il suo ampliamento nel XII sec. attraverso il triplice passaggio interpretativo: littera, sensus, sententia. Attraverso l'interpretazione della lettera si arrivava a cogliere il senso che, sottoforma di nuova glossa (sententia), era trasferito nel patrimonio della tradizione, che in tal modo veniva arricchita.
L'interpretazione si basava su un duplice senso del testo: letterale e spirituale.

Molto diffuso era lo schema dei quattro significati: letterale, allegorico, morale e anagogico. Nell'ambito dell'esegesi ebbero un notevole spazio i commenti dei padri.

Questa teologia venne qualificata come "monastica", espressione della fioritura monastica del XII sec.

La cesura tra una teologia patristico-sapienziale e una scientifica fu rappresentata da Abelardo (1142), che puntò ad una teologia scientifica attraverso la speculazione. Le questioni intellettuali dovevano essere risolte non per mezzo di citazioni di autori, la quale cosa non portava a nessuno sviluppo di pensiero, ma attraverso uno sforzo intellettuale.

L’inquieto quanto geniale Pietro Abelardo (1079-1142) nacque a Nantes, in Normandia, studiò teologia con famosi maestri dell’epoca. Fu il primo che affrontò lo studio delle Scritture con il metodo dialettico critico che espose nella sua opera “Sic et Non” (il Pro e il Contro) in cui elaborò alcune regole di interpretazione, evidenziando i diritti della ragione nella ricerca teologica.

Le sue ricerche e affermazioni innovative non sempre furono bene accolte, ma spesso contrastate e condannate anche nel Concilio di Sens (1140). Suo determinato oppositore fu S.Bernardo di Chiaravalle (1090-1153).

Come movimentata fu la sua vita intellettuale, così lo fu anche quella sentimentale. Benché chierico, sedusse e sposò Eloisa da cui ebbe un figlio. Per questo subì la vendetta dello zio, il canonico Fulberto, che lo evirò.
Per la vergogna si ritirò in convento nella solitudine, mentre la bella Eloisa divenne monaca e badessa del monastero del Paracleto.

Si passa, così, da dopo Abelardo, da una scuola monastica, orientata all’edificazione, ad una nuova scuola tenuta da canonici e laici che mettono le premesse alle “Univeristates studentium et magistrorum”

Logica e dialettica erano, pertanto, gli strumenti di base della nuova teologia e utili anche per superare le discordanze interpretative ed adattarle alle esigenze del presente. Vennero creati trattati di dogmatica, tra i quali il più famoso fu quello di Pietro Lombardo che fece scuola ben tre secoli: "Quattuor libri sententiarum".

Nell'ambito della teologia fu S.Tommaso d'Aquino (1224-1274) a dare una sistematizzazione scientifica alla teologia e con lui la scolastica raggiunse il massimo splendore.

Sorsero nuovi generi letterari: la "lectio", formata da commentarii alla scrittura e ai testi di padre Lombardo; la"disputatio" in cui il "magister" affrontava in chiave intellettuale questioni attuali. La "predicatio" scolastica che recepiva in sé la "lectio" e la "disputatio".

Tutti questi notevoli e nuovi sforzi teologici non dovevano dimenticare, però, le loro finalità pastorali ed edificanti per una maggiore comprensione della Scrittura. A questo provvidero le "Summae theologicae", che erano sintesi di tutto il lavoro teologico-scientifico dei maestri, che dovevano rendere accessibile il sapere a tutti.

Questi studi di approfondimento portarono ben presto ad una autonomia di pensiero, così che maestri e studenti si unirono in libere corporazioni di studi generali, dando origine alle "Universitates studentium et magistrorum", che si definirono sempre più anche da un punto di vista istituzionale giuridico.

LE UNIVERSITÀ

Già in epoca carolingia si ebbe una forte spinta verso la formazione intellettuale del popolo. Gli studi venivano svolti nelle “Scuole Monastiche”, presso le abbazie, o nelle “Scuole Cattedrali”, tenute da canonici.

Ma ecco che nel XII secolo incomincia a modificarsi il tipo di insegnamento, favorito e promosso da Abelardo e dal suo metodo critico, basato prevalentemente sulla ragione. Si andava, pertanto, formando la rivoluzione culturale del XIII secolo: Parigi e Bologna furono i primi due grandi centri della nuova cultura.

Gia nel 1200 a Parigi i Magistri di diverse scuole si riunirono in corporazione, la cosiddetta “Universitas magistrorum”, che ebbe ben presto approvazione ecclesiastica e statale e che da Gregorio IX, nel 1231, fu resa indipendente dal vescovo e le conferì numerosi privilegi.

A Bologna si sviluppò un’analoga Università, formata, però, da studenti.

Sulla falsariga di queste Universitates sorsero, un po’ ovunque in Europa, centri qualificati di insegnamento.

La massima autorità nel campo degli studi e dell’insegnamento fu Parigi, in cui ebbero la loro culla la filosofia e la teologia; mentre Bologna splendeva per la scienza del diritto canonico e civile.

Si era così venuto a costituirsi il secondo polo del potere autonomo accanto al Sacrdotium e l’Imperium: lo Studium. Così che il canonico di Colonia, Alessandro de Roes, attribuì a i tre Stati principali dell’Europa cristiana le principali funzioni di servizio alla Cristianità: all’Italia il Sacerdotium, alla Germania l’Imperium, alla Francia lo Studium. Il conseguimento del dottorato in una di queste Universitates equiparava il “dottore” alla nobiltà. La scienza, dunque, nobilitava.

LE FORME DI DEVOZIONE

Durante il XII-XIII sec., nonostante un grande e nuovo sviluppo del pensiero teologico, la vita devozionale e religiosa nella chiesa rimase legata alla letteratura edificante, al sentimento religioso, all'amore di Dio, alla meditazione sulla vita e sulla passione di Gesù che divenne esempio di imitazione esistenziale e spirituale.

La devozione era pertanto legata alla tradizione. Poiché la devozione nei suoi vari aspetti fu coltivata e sviluppata nei conventi, essa ebbe una coloritura prevalentemente monastica.

In base all'ideale monastico di una preghiera costante e diffusa, si ricorse alla preghiera dei salmi che scandiva i sette momenti della giornata: Mattutino, Lodi, Ora terza, Ora sesta, Ora nona, Vespri e Compieta.

Di questi salmi si crearono dei florilegi, cioè raccolte di parti di salmi per la preghiera dei laici. La liturgia delle ore, sorta nei conventi, si tradusse così in "Breviarium" per consentire l'accesso a tutti.
Perché poi la preghiera fosse preservata dalla monotonia si univa ad essa una gestualità corporea che l'accompagnava e la vivacizzava.

Sorsero nell'ambito della "devotio" inni, preghiere, litanie che enumeravano ed enunciavano santi e attributi divini e mariani.

Nei "precum libelli" di epoca carolingia erano raccolte preghiere di vario genere, che erano produzioni in forma nuova di vecchi libelli, quindi sempre nella scia dell'antica tradizione. Divenne oggetto di particolare attenzione la vita di Gesù nei suoi vari aspetti, e in particolare la sua passione, le sue piaghe, il suo cuore, ecc.

Accanto alla devozione cristocentrica si accompagnò quella mariana sotto forma di orazioni, inni e litanie.
Le origini della devozione a Gesù, nelle sue varie forme, si ritrovano nei conventi dove si associò la contemplazione alla imitazione della vita storica e spirituale di Gesù dalla quale non va dissociata la meditazione sulla chiesa antica, nonché l'entusiasmo per le crociate, grazie alle quali la Terra Santa divenne un tema religioso di rilevante importanza.

Grazie a questi aspetti di fervida religiosità dai toni affettivi e meditativi, si produsse anche un'ampia letteratura devozionale piena di spiritualità, di sentimenti e sensibilità. Il desiderio di amore di Dio divenne il tema principale della sensibilità religiosa e spirituale.

Era tenuta in rilievo anche la formazione spirituale e interiore di cui si occupavano prevalentemente gli ordini mendicanti. Ne discende che questa è anche l'epoca dei vari "Tractatus de modo orandi seu meditandi", che insegnavano il modo di accostarsi alla preghiera e alla meditazione.
Vi furono grandi maestri di mistica tra i quali va ricordato il tedesco Meister Eckhart (1328) che vedeva nella "scintilla animae" il fondamento ontologico della divinizzazione dell'uomo.

Sempre nel XIII sec. si ebbe anche un'intensa pastorale femminile che ebbe profonde conseguenze nella religiosità della chiesa e del popolo.
Il culto mariano e la canonizzazione di molte donne favorirono una rivalutazione della figura femminile che incominciava a trovare propri spazi e riconoscimenti all'interno della Chiesa.

Nei conventi femminili le religiose perseguivano la "conformitas Jesu" per mezzo delle virtù monastiche della povertà, umiltà e penitenza.
La meditazione e la contemplazione della passione di Gesù divennero le principali caratteristiche della santità a cui tendevano le numerose suore consacrate a Dio.

UMANESIMO E RINASCIMENTO

Una fase importante del Medioevo e della Chiesa furono l’Umanesimo e il Rinascimento, che costituirono la preparazione al passaggio verso l’età moderna. È, quindi, una fase di crescita e di evoluzione verso un mondo in cui non c’è più, almeno in termini predominanti, il carattere del sacro e del religioso. Un mondo che dalle Teocrazie imperiali e Ierocrazie papali si evolve verso una realtà storico-culturale in cui l’uomo, prendendo coscienza del proprio valore come individuo razionale, si evolve verso l’affermazione della propria autonomia dal mondo del sacro e del religioso e, talvolta, in contrapposizione ad esso.

Il termine “Rinascimento” fu usato per la prima volta da Balzac nel 1829, ma in senso appropriato da Michelet nel 1855.

Convenzionalmente abbraccia il periodo che va dal Petrarca (1304) alla metà del XIV sec. (1550). Nell’ambito del Rinascimento, la cui definizione è problematica, si inserisce l’Umanesimo, quale sua componente letteraria e culturale. L’Umanesimo, pertanto, più che una corrente filosofica è una sorta di ampio movimento culturale che investì l’uomo nella sua totalità e trova la sua origine nella riscoperta dei classici latini e greci, più latini che greci, e in una rivivificazione del loro mndo antico.

Pertanto, potremmo dire che la risuscitazione del mondo degli antichi porta all’Umanesimo, da cui sfocia una diversa visione del mondo, della vita, della società e della politica, per cui si potrebbe definire anche “Rinascita” o “Rinascimento” che proviene da una “Riscoperta”

L’Umanesimo ebbe la sua origine in Italia e ricevette un forte impulso dagli eruditi greci, venuti in Occidente al tempo dei concili riformatori e dopo la caduta di Costantinopoli (1453).

Nell’ambito del cristianesimo, la vera corrente dell’umanesimo cristiano si espresse significativamente nell’accademia platonica di Firenze, fondata da Cosimo de’ Medici.

Tre sono le caratteristiche di questo Umanesimo cristiano:

-    La “Docta pietas”, intesa come forma di fede interiore.
-    Il culto degli studi e della vita in rapporto all’uomo e a Dio. L’interesse degli umanisti, infatti, è l’uomo religioso e la sua crescita, tanto da disprezzare le scienze logiche e apprezzare, invece, quelle morali che favoriscono la crescita morale dell’uomo.
-    Romanità latina come gusto del latino classico in contrapposizione ad una scienza moderna che, invece, si esprime in volgare. Un culto dell’antichità latina che si esprimeva, talvolta, in una vera e propria imitazione di vita e costumi.

Si può parlare, dunque, di umanesimo cristiano grazie anche a figure come Marsilio Ficino e al suo allievo Pico della Mirandola, che praticarono uno stile di vita ispirato a Platone, ma non senza una coloritura cristiana.
Non va, poi, dimenticato Lorenzo Valle, un “anticlericale” mosso da un profondo amore per il cristianesimo.

Lo spirito critico degli umanisti si sprigionò nei confronti degli abusi del clero e di una vita dissoluta di certi papi e della Curia romana, prospettando un nuovo cristianesimo come un ritorno al Vangelo e alla Chiesa primitiva.

L’Umanesimo si qualificò per il suo studio e la riscoperta delle antichità latine, viste come un’epoca d’oro per l’umanità. Un’umanità verso la quale gli umanisti volsero la loro attenzione per un suo miglioramento, scrollandosi di dosso la pesante cappa di una società feudale e fortemente condizionante la libera espressione dell’individualità umana.

In questo contesto l’Umanesimo scopre il pluralismo religioso e morale, completamente assente nella cristianità medievale. Da qui scaturisce l’idea di tolleranza verso le altre religioni evidenziando, invece, la primarietà dell’uomo e le sue esigenze.

CHIESA E GERARCHIA IN EPOCA RINASCIMENTALE

Roma e lo Stato pontificio, di cui era capitale, decaddero vistosamente durante il settantennio avignonese (1305-1376) e il quarantennio del Grande Scisma occidentale (1378-1477) conseguente da quello.

Fu giocoforza per il papato servirsi degli artisti  e dello strumento del mecenatismo per abbellire Roma, sede del papato, e in cui riflettere un’immagine di ritrovata potenza della Chiesa.
Il Rinascimento, quindi, fu l’occasione per una ricerca di prestigio del papato da dopo il Concilio di Costanza che con la sua “Haec sancta” aveva cercato di spodestare il papato.

Nicolò V (1447-1455) fondò la prestigiosa Biblioteca Vaticana, mentre Pio II (1458-1464) fu tra gli umanisti più convinti. Il papato, pertanto, attraverso l’arte e la cultura perseguiva la propria affermazione e l’esaltazione della Chiesa, così che Roma, in pieno Rinascimento, ricoprì il ruolo di città universale.

Ma in questa ricerca di splendore temporale la Chiesa perse quello spirituale, così che la civiltà rinascimentale, con i suoi aspetti mondani e scolastici, finì per dominare la gerarchia ecclesiastica. Sono, infatti, proprio di questo periodo i papi che ebbero una condotta morale che potremmo eufemisticamente definire disdicevole e vergognosa.

LO SPIRITO RIFORMATORE: GIROLAMO SAVONAROLA

La vita del papato rinascimentale non fu proprio esemplare, ma toccò decisamente il fondo della decadenza morale con Alessandro VI (1492-1503); un papa eletto grazie a sfacciate manovre simoniache da un Collegio cardinalizio totalmente corrotto.

Abusò sfrontatamente del suo ministero con una totale assenza di responsabilità morali, subordinando tutto ai suoi personali disegni politici e nepotistici, gestiti nell’ambito di una vita dissoluta e immorale da cui gli nacquero quattro figli, oltre quelli avuti da cardinale con altre donne.

In un clima e in un ambiente così corrotti nacquero spontanei, per reazione, movimenti spiritualisti che puntavano ad una riforma generale della Chiesa e ad una sua moralizzazione.

“Pro refomatione Ecclesiae Dei in capite et in membris” fu lo slogan di questi movimenti che affondavano le loro radici nella profonda religiosità popolare sostenuta dall’Osservanza degli Ordini dei Mendicanti e dei Benedettini.
All’interno di questi movimenti spiritualisti e riformatori spiccarono le figure di Girolamo Savonarola, Caterina Fieschi, Paolo Giustiniani e Pietro Quirini, i maggiori esponenti dello spirito riformatore.

Tra questi, un’attenzione particolare va rivolta a Girolamo Savonarola (1452-1498). Entrato nei Domenicani, si segnalò per la sua predicazione infuocata e profetica sulla necessità di un rinnovamento nella Chiesa.

Il suo forte richiamo alla penitenza e alla conversione provocò un profondo mutamento nei costumi dei fiorentini e, dopo la caduta dei Medici (1494), mutò il volto alla città.

L’attività del Savonarola fu di tipo espansivo: da una propria vita interiore forte ed austera, passò a riformare il convento benedettino di S.Marco di cui era diventato priore; si espanse, poi, alla città di Firenze e, infine, raggiunse il papato di Alessandro VI che richiamò il Savonarola e lo ridusse, ma inutilmente, al silenzio. Alessandro VI minacciò, allora, di interdetto la città di Firenze se non avesse provveduto a tacitare il Savonarola. Cosa che avvenne nella notte dell’ 8 aprile 1498: il convento di S.Marco venne assalito dagli avversari del Savonarola, che fu preso con altri due suoi confratelli, torturati, giudicati e condannati come “eretici, scismatici e spregiatori della Santa Sede”.

Queste alte grida, benché talvolta eccessive e smodate, rimasero inascoltate nella Chiesa che, immersa nel suo lusso rinascimentale che la rendeva insensibile ai richiami, non si accorse che si stava preparando in Germania il grande scisma di Lutero che avrebbe spaccato nettamente in due l’ormai esausto Impero Romano e la Cristianità occidentale.