LE PREMESSE AL MEDIOEVO E I SUOI CARDINI FONDAMENTALI
Nessuna epoca muore senza preannunciare in sé quella successiva.
Nessuna epoca nuova nasce senza affondare le sue radici in quella
precedente.
Così, dunque, avvenne anche per il Medioevo.
I presupposti dell’epoca medievale si profilano già nella
tarda antichità. Essi si possono sintetizzare nei seguenti punti:
- La divisione del grandioso Impero Romano Cristiano,
inaugurato da Costantino, in Impero d’Oriente e Impero
d’Occidente. Tale divisione affonda le sue radici
nella decisione di Costantino di trasferire la
capitale dell’Impero da Roma a Costantinopoli l’ 11 maggio
313 e che diviene definitiva dopo la porte di Teodosio il
Grande nel 395.
- Politica dei papi romani del IV e V secolo che,
richiamandosi all’apostolo Pietro, si sono attribuiti un potere
sempre più grande nella Chiesa, esteso anche allo Stato
a seguito del vuoto politico e di presenza
lasciato dagli imperatori che dal 330 avranno sede stabile a
Costantinopoli, la nuova Roma.
- La grande teologia di S.Agostino (354-430), padre del pensiero occidentale.
Questi elementi, tuttavia, non sarebbero stati di per sé
sufficienti se ad essi non se ne fossero aggiunti degli altri, che si
rivelarono determinanti per la fondazione di una nuova epoca, quali:
- Le migrazioni dei popoli germanici del V e VI
secolo con il conseguente crollo dell’Impero romano (476) e il
battesimo del re merovingio dei Franchi Clodoveo (498).
- La comparsa sulla scena della storia di Maometto
(622) e dell’Islam con le sue conquiste dei paesi del
Mediterraneo appartenenti al vecchio Impero d’Occidente.
- La rifondazione del sacro Romano Impero da parte di
Carlo Magno nella notte del Natale dell’800, in cui potere sacro
e profano si fondono in un connubio che porterà ad un
invischiamento della Chiesa nel potere temporale ed ha, come
contropartita, una decadenza spirituale della stessa; nonché
alle lotte per l’investitura, con le quali la Chiesa
cercherà di sottrarsi all’asfissiante teocrazia imperiale,
e che si chiuderanno con il “Concordato di Worms” del 23
settembre 1122 tra papa Clemente II ed Enrico V.
- Ma sarà con la riforma gregoriana
dell’XI secolo (Gregorio VII - 1073-1085), che avrà il suo
apogeo tra l’XII e il XIII secolo in Innocenzo III (1198-1216),
che il Medioevo troverà il suo culmine così che,
già con i secoli XIV e XV, si troverà in piena crisi e
metterà le premesse ad una nuova epoca: quella moderna.
CHE COSA SI INTENDE PER MEDIOEVO
Con il termine Medioevo si delinea quel periodo che va,
all’incirca, tra il 400 e il 1500 d.C., cioè dal periodo
Tardoantico all’Umanesimo e pieno Rinascimento.
Tale termine sorge nel XVI sec. tra gli umanisti ed è già presente in Petrarca (1304-1374).
La valutazione di tale periodo da parte degli Umanisti è
decisamente negativa perché vedono in esso la fine del mondo
classico, decretato dal suo imbarbarimento a seguito delle invasioni
barbariche. Così, pure, negativo fu giudicato dai Protestanti,
nel periodo della Riforma, che in esso videro la decadenza della Chiesa.
Negativo fu, anche, il giudizio degli Illuministi che in esso videro l’oscuramento della Ragione.
Uniche voci fuori del coro furono il Romanticismo e la moderna
Storiografia che vedono, invece, nel Medioevo l’affiorare di
nuovi popoli e culture, nonché la culla dell’Europa
moderna.
Non tempo di oscurantismo, dunque, ma inizio e gestazione di una nuova era e di un nuovo mondo: quello Occidentale.
È il periodo questo in cui nel mondo si vanno delineando tre
grandi civiltà: la bizantina, l’islamica e quella
germanica, da cui, poi, nasceranno i tre grandi poli: Oriente,
Occidente e Arabo-islamico.
Benché non ci sia ancora un accordo tra gli storici, il Medioevo
lo si fa iniziare verso la fine dl IV sec. con le migrazioni delle
popolazioni germaniche.
Grande importanza riveste, inoltre, il VII sec. in cui nacque
l’Islam (622) che porterà, poi, alla spaccatura del mondo
in due grandi blocchi: cristiano-occidentale e arabo-islamico.
Nell’ambito della Chiesa il Concilio Trullano (692) segna la fine
delle lunghissime controversie sorte dopo il Concilio di Calcedonia
(451) sul monofisismo.
DIVISIONE DELLA STORIA MEDIEVALE
La storia medievale può essere divisa idealmente in quattro parti:
I Parte: 400 – 700 (l’incubazione)
È questo il periodo della formazione del Medioevo: le cultura
romana e germanica si incontrano. L’incontro tra le due
civiltà è ancora del tutto superficiale e avvenne per
mezzo dell’attività missionaria della Chiesa.
Benché Clodoveo fosse battezzato (469) e con lui tutto il suo
popolo, tuttavia, dovette passare molto tempo prima che i valori
cristiani e della romanità venissero assimilati.
È questo, dunque, il periodo in cui, grazie alla mediazione
della Chiesa, l’Antichità romana si incontra con le
giovani popolazioni germaniche.
II Parte: 700 - 1050 (la coesione)
È questo il periodo in cui si verifica la maggiore
compenetrazione tra le culture romana e germanica che porterà
alla formazione e alla strutturazione della società con
caratteristiche tipicamente medievali (principi, nobili, liberi,
semi-liberi, schiavi e servi della gleba) che influenzeranno anche la
struttura e la vita stessa della Chiesa.
È il periodo in cui Bonifacio e Carlo Magno, stipulando
un’alleanza tra Chiesa e Stato, gettarono le basi per la
formazione dell’Occidente. È in questo periodo che la
figura della Chiesa si associa a a quella della proprietà
terriera e territoriale.
La suddivisione della società in classi si ripercosse anche
all’interno della Chiesa che suddivise il Clero in
“alto” e “basso”.
L’animosità combattiva dei Germani si riflette nella
formazione delle figure del cavaliere cristiano e delle crociate.
La regalità assume toni decisamente sacri e religiosi: il re
è unto, consacrato dalla Chiesa e si riserva di interferire
nelle sue vicende interne fino a giungere alla lotta per le investiture.
Sacro e Profano si supportano a vicenda, si fondano e si confondono.
III Parte: 1050 - 1300 (la diastasi)
L’eccessiva ingerenza degli imperatori nelle faccende interne
della Chiesa provoca la decisa reazione di questa e l’estremo
tentativo di Bonifacio VIII (1294-1303) di imporsi sul francese Filippo
il Bello con la bolla “Unam Sanctam”, ma inutilmente.
Fu questa un’epoca alquanto agitata e inquieta che vede Papato e
Impero in lotta tra loro:Enrico IV contro Gregorio VII, Barbarossa
contro Alessandro III, Federico II contro Innocenzo III; furono queste
le punte massime del conflitto.
Con Innocenzo III il papato divenne il polo catalizzatore dell’intera cristianità occidentale.
È l’epoca delle crociate, ma anche dello sviluppo degli
ordini monastici, della spiritualità e della cultura: nascono le
prime università europee, ma si sviluppano molto anche le
eresie; l’arte si esprime nel romanico e nel gotico.
IV Parte: 1300 - 1500 (nuova incubazione)
Le grandi lotte tra il Papato e l’Impero hanno scosso
profondamente la struttura dell’Impero stesso, che si basava
essenzialmente su una intima alleanza tra Chiesa e Stato. La
grande rivalità e i tentativi di egemonia di una parte
sull’altra minarono profondamente l’unità
dell’Impero e l’autorità della Chiesa che
all’impero era strettamente connessa.
A questi fattori si aggiunsero altri elementi che determinarono la
spaccatura tra Chiesa e Impero e prepararono, all’interno della
Chiesa stessa, lo scisma luterano del XVI sec. Questi furono:
- I nascenti stati nazionali che si sottraggono al potere papale e imperiale.
- L’unitaria cultura dell’Alto Medioevo
(400-1050), che accomunava tutti i popoli, incominciava a
differenziarsi e a caratterizzarsi.
- Progressiva emergenza del Laicato che si sottraeva sempre più al governo del Clero.
- Forti tensioni tra Papato ed Episcopato che si
esprime nel conciliarismo, che tende nelle sue forme estreme di dare
una base democratica e “parlamentare” alla
Chiesa.
- Lo spirito critico dell’Umanesimo e la
Riforma protestante concluderanno un’epoca: il Medioevo che, per
un lungo millennio, realizzò “Un solo gregge, un solo
Pastore”.
LE CARATTERISTICHE DEL MEDIOEVO
I tratti che caratterizzarono il Medioevo si possono così sintetizzare:
- La comunità occidentale di tutti i popoli
condivideva, incontestabilmente, l’unica convinzione che un unico
legame religioso e metafisico univa tutti a Dio. Esisteva
un’unica verità e un’unica
morale, che obbligava e univa tutti gli uomini e in cui tutti si
riconoscevano; un’unica autorità morale a cui tutti si
sottoponevano: la
Chiesa.
Quanto a peccatori ed eretici, questi erano controllati e repressi con
gravi penitenze e/o perseguitati dall’Inquisizione perché
non inquinassero la Cristianità e l’Impero su cui si
fondava.
- La vita dell’intera comunità dei
popoli si riconosceva e dipendeva dalla simbiosi tra Stato e Chiesa,
tra Papato e Impero.
Mentre in Oriente la vita dei popoli era governata da un unico potere,
quello imperiale, in Occidente si configurò, fin
dall’inizio, un dualismo di poteri che sarà di
fondamentale importanza per lo sviluppo del pensiero e del sentire
futuri.
Impero e Papato erano due potenze che si erano tra loro condizionate, plasmando l’unità occidentale.
- Rigida suddivisione delle classi sociali, ritenuta
pienamente rispondente al volere divino. IL feudalesimo si fondò
su tale ordine.
- La cultura, fino al XIII secolo, fu monopolio
ecclesiastico. Ogni attività culturale e spirituale era in mano
ai Chierici e le Università nacquero intorno al 1200 come
fondazioni ecclesiastiche. Il Laicato dovrà attendere la fine
del Medioevo per raggiungere una loro autonomia culturale.
IL DISTACCO DI ROMA DA COSTANTINOPOLI
LE CAUSE DEL DISTACCO
Diverse furono le cause della nascita del Medioevo, tra queste riveste
particolare importanza il connubio tra la Chiesa e le popolazioni
barbariche, favorito dal progressivo distacco di Roma da Costantinopoli
durante il secolo VIII.
Il lento e progressivo distacco tra Oriente e Occidente affonda le sue radici gia nel V sec.
Fino al 397, morte di S.Ambrogio, la Chiesa è uniforme in tutto
l’Impero Romano, che forma da collante. Ma già dal V sec.
vengono a crearsi delle forti tensioni tra le chiese di area Orientale
e quelle di area Occidentale.
Le cause che favorirono la separazione tra l’Oriente e l’Occidente furono essenzialmente tre:
- Diversificazione linguistica: dal greco, lingua
ufficiale della Chiesa, si passa al latino. La Chiesa occidentale
incomincerà ad ignorare il greco introducendo al proprio interno
il latino. In tal senso, papa Damaso (380) introduce la lingua latina
nella liturgia occidentale e affiderà a S.Girolamo la traduzione
dal greco in latino della Bibbia dei Settanta. Nasce così la
“Vulgata”.
Ma il cambio di lingua modifica il linguaggio e il modo di intendere le
cose. Si verifica così un cambio di cultura e di prospettiva.
Così l’Oriente rimane bizantino, mentre l’Occidente
diventa latino.
- Frattura politica: l’Occidente, come impero,
finisce subito sotto la spinta delle invasioni barbariche.
L’Oriente, invece, durerà fino al XV sec. e termina con la
caduta di Costantinopoli (1453) sotto la spinta degli arabi.
Si creerà, inoltre, una forte avversione dell’Occidente
nei confronti dell’Oriente che per alleggerire la pressione dei
barbari concede agli stessi degli stanziamenti in Occidente, che
dall’Oriente è ritenuto, ormai, imbarbarito e, quindi,
culturalmente inferiore.
- Diversa struttura ecclesiale: con l’ 11
maggio 330 la sede imperiale viene spostata da Roma a Costantinopoli,
la nuova Roma, da Costantino. In Occidente, pertanto, viene a crearsi
un vuoto politico e amministrativo che viene tacitamente e lentamente
riempito dalla Chiesa, che diventa la naturale erede dell’ex
Impero di Occidente, abbandonato di fatto dall’Imperatore. Roma,
e con lei l’Occidente, ritiene di poter operare autonomamente,
abbandonando di fatto l’Imperatore e il suo Impero
d’Oriente.
Inoltre, un diverso modo di sentire la chiesa separa l’Oriente dall’Occidente:
- Per l’Oriente la struttura è
quadripatriarcale (Antiochia, Alessandria, Costantinopoli,
Gerusalemme), mentre Roma è il quinto patriarcato.
- Inoltre, per l’Oriente le decisioni devono
essere sempre comunitarie e concordi. Non era, pertanto, pensabile che
Roma da sola decidesse per tutti e sopra tutti. Da ciò ne nasce
che l’Oriente è comunitario, mentre l’Occidente
è monarchico.
Comunque, al di là di tutto, è il clima che, ormai, era
cambiato: l’Oriente è, per suo modo di essere,
contemplativo; mentre l’Occidente ha una visione pratica e
concreta delle cose. Questo diverso modo di sentire si riflette molto
bene nelle diverse liturgie: coreografiche e ricche di simbolismo
quelle orientali; sobrie e concrete quelle occidentali.
Queste diverse cause di frizione tra Oriente ed Occidente si
concretizzarono già nel V secolo in due rotture nei rapporti: la
prima di 11 anni (404-415), la seconda di 50 anni (484-534), causata,
quest’ultima, dall’emanazione dell’Enoticon (482) di
Zenone, nell’intento di sedare le controversie cristologiche tra
monofisiti e difisiti, conseguenti al Concilio di Calcedonia (451).
Dal V sec. in poi l’Oriente e l’Occidente percorsero strade
che li estraniarono sempre più, in particolar modo sulle
questioni monofisite e difisite, lasciate in eredità da
Calcedonia e da cui si sviluppò il monotelismo e il
monoenergismo. L’Oriente, infatti, non riusciva a combinare la
suprema purezza di Dio con la natura decaduta dell’uomo. Questa
diatriba monotelita venne ricomposta ne Trullano I (680), ricomponendo
i rapporti tra le due Chiese.
A turbare questa difficile pace ci si mise Giustiniano II (685-695) che
volle immischiarsi nelle faccende interne della Chiesa relativamente
alla disciplina ecclesiastica. Pertanto, egli convocò nel 692 un
concilio, il Trullano II, senza consultarsi con il papa Sergio I
(687-701). Un concilio che nell’idea dell’imperatore doveva
completare l’opera dei due precedenti concili, il V° o
Costantinopolitano II del 553 e il VI° o Costantinopolitano III del
680, detto Trullano I. Per questo il Trullano II venne anche chiamato
Concilio Quininsesto.
Dei 102 canoni approvati molti erano in aperto contrasto con le usanze
della Chiesa d’Occidente, per cui Sergio I si rifiutò di
sottoscriverli, respingendo anche la copia a lui riservata, nonostante
le forti pressioni imperiali su lui esercitate.
Un accordo su questi canoni si raggiunse solo con papa Costantino I
(708-715) che ne accettò solo una cinquantina, dopo essersi
recato a Costantinopoli dove vennero rinnovati i privilegi alla Chiesa
romana.
NUOVE CONTROVERSIE: LEONE III E I PAPI GREGORIO II E GREGORIO III
Definita la questione dei 102 canoni del Trullano II o Quininsesto
(692), la pace tra Stato e Chiesa venne nuovamente turbata da due
contenziosi scoppiati tra l’imperatore Leone III e i papi
Gregorio II (715-731) e Gregorio III (731-741).
Salito al trono, Leone III dovette sostenere un notevole sforzo bellico
per vincere gli Arabi e domare la ribellione in Sicilia. Queste guerre
prosciugarono le casse erariali e spinsero Leone III a imporre pesanti
tasse anche alla Chiesa di Roma, violandone, in tal modo, i privilegi.
Gregorio II si oppose fermamente a queste angherie imperiali,
ritenendole una grave offesa alla Chiesa d’Occidente; mentre
Leone III interpretò il rifiuto papale come un atto di
ribellione che cercò di reprimere, ma invano, sia per una
insurrezione popolare, sia per l’inaspettato schierarsi dei
Longobardi a favore del papa.
LA LOTTA ICONOCLASTA
Un altro motivo di lite tra Impero e Papato fu la lotta iconoclasta,
che si sviluppò in due momenti e durò circa un secolo:
La prima fase (726-787) ebbe inizio con l’ordine di Leone III di
distruggere le immagini di Costantinopoli e di perseguitare i monaci
che le custodivano. Fu in questa prima fase che intervenne Giovanni
Damasceno che pose la distinzione tra adorazione e venerazione .
La lotta iconoclasta venne condannata dalla Chiesa di Roma i cui
rapporti con Costantinopoli si aggravarono quando Leone III,
nell’ambito di una riorganizzazione dell’Impero
decurtò notevolmente la giurisdizione territoriale del
Patriarcato Romano a favore di quello di Costantinopoli. Roma perse
l’Italia meridionale, la Sicilia, la Grecia, la Macedonia e la
penisola balcanica.
Lo scontro continuò aspro con il figlio di Leone III, Costantino
V, che si intestardì nella lotta alle immagini facendo elaborare
una teologia iconoclasta.
Le cose si rappacificarono con il Concilio Niceno II (787), indetto
dall’imperatrice Irene in accordo con il papa Adriano (772-795),
benché questo, per un malinteso, non venisse approvato dal
sinodo di Francoforte, riunito da Carlo Magno che si era visto escluso
dalla decisione conciliare.
La seconda fase (814-843)
Una seconda fase si ebbe con Leone V che scatenò una nuova
offensiva iconoclasta, attribuendo all’allentamento della lotta
contro le immagini le pessime condizioni dell’impero.
Ma l’imperatrice Teodora, come fece Irene, convocò
nell’ 843 un nuovo concilio in cui si riammise il culto delle
immagini e si istituì la Festa del Trionfo
dell’ortodossia, celebrata ancor oggi nella prima domenica di
Quaresima.
Le motivazioni della iconoclastia
Le motivazioni che hanno sostenuto la iconoclastia risiedono non solo
in Es. 20,4 e Dt. 4,15 in cui si proibisce il culto delle immagini, ma
anche nella cultura ebraica e islamica che ritengono le immagini una
violazione della trascendenza di Dio che, in quanto tale, non
può essere rappresentato.
A ciò va aggiunta anche la tradizione della Chiesa primitiva,
contraria alle immagini, nonché il timore dei vescovi di un
ritorno all’idolatria e al paganesimo.
L’insieme di questi motivi trovarono anche un loro fondamento teologico nel concilio di Hieria (754)
Contro il fronte iconoclasta si schierò Giovanni Damasceno che
pose l’importante distinzione tra “adorazione”,
dovuta solo a Dio, e la “venerazione”, dovuta, invece, solo
ai santi.
Venne, inoltre, evidenziato come Dio stesso, con l’incarnazione,
assunse l’immagine dell’uomo a cui, pertanto, è
concesso di usare per il proprio culto le immagini che, ben lungi dal
racchiudere la divinità o rappresentarla, rimandano, invece, ad
essa.
EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI GERMANICI
NEL PERIODO DELLE TRASMIGRAZIONI
PREMESSA
Le invasioni barbariche o migrazioni dei popoli del nord, i quali si
costituirono in regni approfittando della debolezza dell'Impero romano
tardo antico, modificarono notevolmente l'assetto politico-militare di
quest'ultimo, ma incisero profondamente anche sul cristianesimo.
Nell’ambito di questo grande movimento di popoli, il regno che
meglio si impose, raggruppando in sé la maggior parte delle
popolazioni germaniche, fu quello dei Franchi, fondato da Clodoveo
(451-481).
Il cristianesimo, trasmesso e assimilato da questi popoli, fu
adattato alla loro mentalità e ne subì l'influenza al
punto da costituire una chiesa nobiliare che faceva capo al re (periodo
teocratico), provocando, nel tempo, la reazione della chiesa stessa
che, a partire dalla riforma gregoriana (1073-1085) e passando
attraverso il Concordato di Worms (1122), si impose con Innocenzo III
(1198-1216), rovesciando le posizioni di forza: da una teocrazia
imperiale ad una ierocrazia papale.
L’IMPATTO CON L’IMPERO ROMANO E LA CRISTIANIZZAZIONE
Spinti, pertanto, dalla loro crescita demografica e dal desiderio di
sedenterizzazione, già nel IV secolo, si affacciarono
all’orizzonte dell’Impero Romano interi popoli di razza
germanica.
Nel 410 Alarico con i suoi Goti entrò in Roma, preannunciando la definitiva caduta dell’Impero del 476.
Nel frattempo altre popolazioni germaniche si stabilirono nell’area occidentale come segue:
- i Visigoti in Acquitania e Spagna;
- i Franchi nella Gallia del Nord;
- gli Ostrogoti in Italia;
- i Vandali nell’Africa del Nord;
- i Burgundi nella valle del Rodano.
L’impatto di queste popolazioni germaniche pagane con
l’Impero Romano cristiano pose il problema della loro
cristianizzazione, grazie alla quale esse vennero assorbite nella
cultura dell’Impero Romano e in esse integrate attraverso
un’ampia e capillare azione missionaria che si irradiò in
tutta l’Europa occidentale.
L’ATTIVITÀ MISSIONARIA
Già tra il IV e il VI secolo una rete di missionari diffusero il
cristianesimo tra queste popolazioni così che verso la fine del
600 le principali popolazioni germaniche erano, ormai, cattoliche.
Solo alcuni nomi significativi di missionari di questo primo periodo della cristianizzazione:
- il vescovo Ulfilo (311-383) per i Goti;
- S.Martino (316-397) di Tour per la Gallia;
- S.Patrizio (389-461) per l’Inghilterra e Irlanda;
- Il papa S.Gregorio Magno (590-604) invia S.Agostino di Caterbury con 40 monaci nella Bretagna.
Le chiese qui formatesi, ovviamente, non erano ancora legate a quella
di Roma, ma erano autonome e dipendenti dal re locale. Sarà solo
con S.Bonifacio (675-754) che si creerà la grande unificazione
di tutte queste chiese sotto Roma.
I METODI MISSIONARI
Ma come avveniva questa cristianizzazione? Come si muovevano questi
missionari per ottenere risultati così eclatanti in mezzo a
questi popoli barbari?
Nel medioevo solo la nobiltà godeva di libertà e diritti
politici. Era giocoforza, quindi, puntare per la conversione dei popoli
sulla nobiltà e in particolare sul re. Infatti, convertito il
re, a cascata si convertivano i nobili; mentre i ceti inferiori, in
totale dipendenza dei nobili, dovevano semplicemente eseguire un cambio
di religione, sostituendo riti e culti pagani con quelli cristiani e le
loro divinità con il Dio immortale dei cristiani.
Il cambio di divinità, poi, non costituiva un problema, dato che
tali cambi erano abbastanza frequenti. Inoltre le comunità
cristiane avevano anche acquisito prestigio nel campo della vita
pubblica, sociale e culturale in quanto unite nella fede, nella
dottrina e nella vita disciplinata dal diritto e dalla legge.
Lo stesso Clodoveo per l'amministrazione del suo regno dipendeva dalla chiesa gallica.
Nell'ambito di questo quadro, pertanto, si ebbe un'enorme espansione del cristianesimo con conversioni e battesimi di massa.
Tuttavia a questo cristianesimo di superficie e di convenienza politica
doveva seguire un lungo periodo di assimilazione esistenziale, non
sempre facile e scontato.
La catechesi era ridotta all'insegnamento delle preghiere fondamentali
e alla confessione, che conteneva il catalogo dei doveri cristiani.
LA CRISTIANIZZAZIONE DEI GERMANI, CELTI E SLAVI
Durante i mille anni del Medioevo i popoli germanici furono
cristianizzati dapprima con conversioni individuali, poi di massa a
seguito della conversione del re e, infine, con quelle forzate condotte
a fil di spada.
Il cristianesimo assorbito dai Visigoti, Vandali, Burgundi e Longobardi
era segnato dall'arianesimo e costituì per queste
popolazioni una sorta di caratterizzazione che le distingueva dalle
popolazioni da loro conquistate di origine ortdossa-cattolica. Ma
questo arianesimo impedì loro di avere un ruolo duraturo ed
efficace nella formazione dell'occidente cattolico. Tale ruolo, invece,
fu assunto da Clodoveo, battezzato nel 498 da Remigio, vescovo di
Reims; mentre al cattolicesimo spagnolo di Recaredo, re dei Visigoti,
vennero tarpate le ali dalle invasioni arabe del 711.
L'ATTIVITÀ MISSIONARIA IN EUROPA NELL'ALTO MEDIOEVO
Nel corso del V sec. tutta la Gallia passò al cristianesimo che
si rafforzò con la conversione dei nobili. L'impulso missionario
partì inizialmente ad opera dei vescovi, ma ben presto si estese
e si affermò sempre più presso i monasteri, tant'è
che tra il VII e l'VIII sec. protagonisti della missione furono i
monaci che divennero un importante supporto al cristianesimo in Europa
e fonte di un continuo rinnovamento della Chiesa.
La cristianizzazione comportò sempre più il
coinvolgimento del Regno dei Franchi che videro in questa
attività missionaria l'occasione per poter espandere i propri
territori e le proprie influenze politiche sulle popolazioni
cristianizzate. Purtroppo questo comportò anche che il
cristianesimo venisse visto come la religione dei vincitori e,
pertanto, respinto o combattuto.
I principali attori di questa ampia azione missionaria che si
diramò in tutta Europa furono dapprima i monaci iro-scozzesi e
gallo-franchi, poi gli anglosassoni e i franchi.
LE MISSIONI IRO-SCOZZESI
I missionari iro-scozzesi provenivano dalle isole britanniche dove, in
Irlanda, si era costituita una chiesa celtica, che ebbe un taglio
nettamente monastico così che, ben presto, i conventi si
sostituirono ai vescovati nell'attività pastorale al punto che
si parla di una "chiesa conventuale celtica".
Lo slancio missionario, pertanto, ebbe origini monastiche. Infatti
monaci, mossi dall'idea della "Peregrinatio pro Christo", lasciavano la
loro patria e si dedicavano con profonda fede e convinzione alla
diffusione del cristianesimo in Europa dove fondavano numerosi
monasteri a cui veniva dato impulso dai signori locali e dai re
merovingi. Nell'ambito di questo quadro va ricordato uno dei più
celebri monasteri: quello di Luxeuil, fondato da S.Colombano.
LE MISSIONI ANGLOSASSONI
Dal 750, a fianco dei monaci iro-scozzesi, incominciarono ad evangelizzare anche quelli anglosassoni.
Probabilmente comunità cristiane,giunte con le invasioni di
Roma, sopravvissero al ritiro degli eserciti romani e diffusero il
cristianesimo con l'aiuto delle missioni iro-scozzesi.
Centri di cristianesimo furono, come al solito, i monaci, tra cui si distinse Beda il Venerabile (735).
Loro territorio fu il continente europeo e, in particolare, le terre
inesplorate dei Frisoni, Turingi e Sassoni. Le missioni erano compiute
sotto la protezione di re e signori.
Il maggiore esponente di questi missionari anglosassoni fu Winfrido che
assunse il nome di Bonifacio. La sua opera fu sempre strettamente
legata a Roma e, grazie a lui, le chiese locali vennero sempre
più legate al papa così che il cristianesimo assunse
sempre più in tutta Europa la coloritura della romanità.
Winfrido, dopo una sua prima missione presso i Frisoni, di scarso
successo, nel 718 riprese la sua attività missionaria che mise
sotto il mandato papale di Gregorio II, che lo inviò ad
evangelizzare i "popoli selvaggi della Germania". In questa occasione,
come di consuetudine tra i monaci missionari, egli assunse il nome di
un martire romano: Bonifacio.
Nel 722 prestò giuramento di fedeltà al papa e da allora
rimase sempre fedele e legato a Roma e con lui tutti i territori da lui
evangelizzati.
Ricevuto il titolo di "Missus Sancti Petri per Germaniam" con
l'incarico di costituire una provincia ecclesiastica, pensò ad
una riforma della Chiesa in Gallia, ma fallì perché tale
progetto urtava gli interessi politici di Carlo Martello.
Per contro, la cosa riuscì alla morte di Carlo Martello, sotto
Carlomanno e Pipino il Breve. Tuttavia, nuove tensioni politiche gli
impedirono gli impedirono la piena realizzazione del suo progetto.
L'ultima missione da lui compiuta fu la ripresa della sua iniziale missione presso i Frisoni dai quali venne assassinato.
LE MISSIONI NEL REGNO CAROLINGIO
Sotto Carlo Magno e suo figlio Ludovico il Pio (814-840) il
cristianesimo franco si estese a Sud-Est , verso la Bassa Austria e la
Stiria-Carinzia e a nord-est verso i sassoni che si rifiutarono di
accogliere il cristianesimo a cui era connessa la franchizzazione dei
territori.
Carlo Magno, dopo lunghe guerre, riuscì a spezzare la resistenza
di re Viduchindo che accolse, suo malgrado, il cristianesimo a cui ci
si oppose con lotte locali fino al IX sec.
Sotto Carlo Magno la Chiesa franca ricevette una propria
organizzazione, mentre il vescovato era diventato il centro della
coordinazione delle chiese.
Le riforme carolinge finalmente riuscirono ad attuare il sogno di
Bonifacio: eliminare gli abusi delle chiese autonome e porre freno al
loro decadimento locale.
Tra il VII e il IX secolo, grazie anche alla pressione
politico-militare del Regno Franco, il cristianesimo ebbe una rapida
diffusione tra i popoli germanici.
LA MISSIONE NEL REGNO GERMANICO
Mentre nel IX secolo l'espansione del cristianesimo legato al regno
franco subì una stasi per la crisi di questo, nel X sec. le
tribù germaniche si fusero formando il Regno germanico. Da qui
riprese il movimento missionario, che si espanse verso est anche con
forme violente e sanguinarie di cristianizzazione.
Magdburg divenne un centro missionario per la Polonia che venne annessa, in tal modo, all'impero germanico.
LA CHIESA IRLANDESE
Tra queste numerose chiese una merita una particolare attenzione: quella irlandese.
Questa, fondata da S.Patrizio nel V secolo, venne ripresa nel VI sec.
dal monachesimo irlandese sviluppatosi intorno al 500 e che fu di
grande importanza non solo per l’Irlanda, ma per l’intera
Europa.
Il cristianesimo irlandese, pertanto, assunse una coloritura e un
ascetica tipicamente monastiche, mentre i monasteri divennero centri di
spiritualità e di cristianità, sostituendosi,
gradualmente, alle parrocchie e alle stesse diocesi. Molti vescovi
dell’epoca erano monaci e, pertanto, soggetti al priore del
convento di appartenenza, sicché tutta la chiesa irlandese
assunse un’impronta marcatamente monastica.
Tra le varie caratteristiche che distinsero la chiesa irlandese da
quella romana vi fu la data della Pasqua e la penitenza privata,
sconosciuta quest’ultima nella chiesa romana, ma non a quella
irlandese e ai suoi monaci. Essa fu portata anche in Europa assieme ai
“Libri penitentiales” in cui per ogni tipo di peccato erano
designate determinate penitenze, cosa che risultò molto utile e
pratica per i confessori.
LA GRADUALE UNIFICAZIONE DELLE CHIESE SOTTO ROMA
Ma fu proprio questo elemento “monacale” della chiesa
irlandese, caratterizzato dall’individualismo chiuso e ascetico,
che ne decretò anche la sua marginalità in occidente in
cui, invece, grande influsso ebbe la chiesa inglese, fondata da
S.Agostino di Canterbury, inviato in Inghilterra da Gregorio Magno
(590-605) con 40 monaci.
Da qui ne uscì S.Bonifacio (Winfrido di York) che condusse la
sua missione per tutto l’Occidente, legando e unificando tutte le
chiese e, quindi, tutto l’Occidente alla Sede di Roma. Infatti,
prima di ciò, le chiese erano strettamente locali e sotto la
diretta influenza dei re che rivestivano anche una figura sacra e
religiosa.
In questa prima fase di cristianizzazione (IV-VI sec.) si assiste alla
nascita di chiese che sono un intreccio e un amalgama di
cristianità, di romanità e germanesimo.
Si veniva, dunque, formando il primo tessuto cristiano di queste
popolazioni e si gettarono le basi per un nuovo impero e un nuovo
Occidente che lentamente e gradualmente si staccherà sempre
più dall’Impero d’Oriente.
La prima fase di questa azione missionaria (IV-VI sec.) fu
caratterizzata da uomini di grande livello ascetico e spirituale che,
spontaneamente e mossi solo dall’amore per Cristo, si dedicarono
alla missione definita come un “peregrinari pro Christo” .
Ma a questa spontaneità e slancio missionari mancarono un coordinamento e un accentramento.
Nel frattempo , intorno all’ VIII secolo, emersero sulla scena
politica tre potenze con cui il papato si destreggiava assumendo sempre
più un ruolo centrale, grazie anche all’azione missionaria
anglosassone e, in particolare, di S.Bonifacio che riunì la
cristianità sotto Roma. Le tre potenze furono il Regno dei
Longobardi, l’Impero Bizantino e il Movimento popolare italico
riunito attorno al papa e sempre più distanziato
dall’esosa Costantinopoli e dai Longobardi ritenuti barbari.
LA CRISTIANIZZAZIONE DELL’OCCIDENTE ATTRAVERSO LA MISSIONE
Fino all’avvento dei Carolingi (752-987), la missionarietà
era spontanea, non organizzata e, ancor meno, centralizzata. Ognuno si
muoveva spinto dall’amore di Cristo e della diffusione del
Vangelo. In genere si puntava a convertire i capi e i principi a cui si
associava, per fedeltà, il popolo. Ma in tal modo
l’aspetto religioso si fuse, ben presto, con quello politico. Le
popolazioni vinte erano assoggettate al cristianesimo e affidate ai
predicatori. Il battesimo, di conseguenza, diventava un segno di
sudditanza e obbedienza la conquistatore. E quando affioravano le
resistenze al cristianesimo, le armi appianavano la strada; non
mancavano, infatti, i predicatori che minacciavano il ricorso al
principe in caso di resistenza alla conversione.
Una delle più grandi e significative figure della
missionarietà di quest’epoca, tra il VII e l’VIII
secolo, fu il monaco Vinfrido (S.Bonifacio 675-754), vescovo di York.
Questi a 40 anni parte l’evangelizzazione dei Frisoni, purtroppo
fallita. Per questo si rivolse a Gregorio II. Questo suo rivolgersi a
Roma fu una costante del suo apostolato e ne divenne il suo leit-motive
conduttore. Venne dal papa confermato nella missione ai Frisoni che
condusse assieme a Villibrando per tre anni. Venne, dunque, consacrato
vescovo dal papa che gli chiese di sottoporsi alla tutela di Carlo
Martello.
Da questo momento Bonifacio si dedicò all’organizzazione
della chiesa germanica, scegliendo come vescovi monaci anglosassoni e
fondando abbazie maschili e femminili.
Venne, dunque, nominato arcivescovo della Germania e legato papale per le riforme in Gallia.
Morì assassinato durante una missione in Frisia nel 754, quasi ottantenne.
L’opera di S.Bonifacio si fondò su tre pilastri:
- dipendenza da Roma;
- protezione ufficiale dei maggiordomi franchi;
- costante collegamento con la madre patria che gli fornì materiale e personale per la sua missione.
Il lavoro di S.Bonifacio fu importante per l’unificazione
religiosa dell’Occidente che ricondusse sotto il papato che
diveniva così, sempre più, il polo catalizzatore
dell’intero Occidente cristiano.
Con l’avvento di Carlo Magno il metodo missionario assunse lo
stile di una conquista militare, in particolar modo contro i Sassoni,
contro cui lottò per trent’anni, convinto che senza
unità religiosa non si potesse fondare il Regno franco-sassone.
In questo periodo Angario (801-865) venne nominato vescovo di Amburgo
per l’evangelizzazione dei paesi scandinavi, iniziando
così un’opera missionaria che si sarebbe completata in
seguito nel 1103.
LE CARATTERISTICHE DELLA RELIGIOSITÀ NELL'ALTO MEDIOEVO
Se da un lato Germani, Celti e Slavi si lasciarono cristianizzare,
dall'altro questi cristiani adattarono il cristianesimo alle loro
esigenze e alla loro cultura.
Caratteristica del cristianesimo medievale fu l'assenza di una vera e
propria comunità ecclesiale contrapposta o, comunque, diversa da
quella profana. Le due società si identificavano dando origine
ad un monismo sociale, religioso e politico che sarà alla base
delle varie teocrazie imperiali e ierocrazie papali che portarono a
confusioni di ruoli e perdita di senso delle rispettive missioni.
Il nuovo cristiano, pertanto, non apparteneva alla comunità
ecclesiale, ma rimaneva inserito in quella civile in cui si trovava al
momento della conversione, e il suo vivere era finalizzato alla
santificazione della società stessa e alla sua organizzazione e
stabilizzazione politica.
Nel Medioevo venne meno, pertanto, quello che caratterizzò la
Chiesa antica in cui il cristiano era cittadino di due comunità:
quella ecclesiale e quella imperiale che prima di Costantino si
contrapponevano in duelli spesso mortali.
Nell'ambito di un cristianesimo diffusosi rapidamente, ma privo di
radici profonde, l'aspetto teologico e dottrinale era spesso sostituito
da quello sacramentale, più visibile e facilmente comprensibile.
Il sacramento era visto come una mediazione di grazia e quasi un
oggetto sacro a cui erano legati aspetti trascendentali. Così
esorcismi e benedizioni erano sacri riti sentiti più come atti
magici che come sacramentali.
Sempre nell'ambito di questa concezione del sacro rientravano anche
altri sacramenti quali la Messa, il Sacerdozio e la Comunione a cui ci
si rapportava come a strumenti di mediazione e di presenza del sacro
dai quali il popolo, ritenuto indegno perché non consacrato e
immerso nella profanità del quotidiano ne rimaneva distaccato o
se ne accostava eccezionalmente.
Al clero, che svolgeva nella chiesa antica una funzione di guida
spirituale della comunità, ora che tale funzione è
assorbita dallo stato, rimane riservato prevalentemente l'ambito della
ritualità e del culto da adempiersi con scrupolosità
rituale. Mentre un sacro timore reverenziale definiva il popolo nei
confronti della Comunione e della Messa, celebrata per il popolo, ma
senza la sua partecipazione.
Tutta la vita cristiana era avvolta dalla sacralità a cui ci si
avvicinava con timore perché mediatrice del divino, ma a cui si
guardava forse anche in una prospettiva di magico e di misterico che,
non di rado, poteva scadere anche in superstizione.
Quanto alla Penitenza, questa era legata all'articolazione:
comandamento, trasgressione ed espiazione. Essa era finalizzata alla
espiazione che ristabiliva la giustizia e la pace.
Era necessario, pertanto, stabilire l'esatto prezzo (tariffa
penitenziale) da "versare" per ristabilire gli equilibri violati dalla
trasgressione. In tal senso famosi erano i "tarrifari" dei monaci
iro-scozzesi.
Strettamente legata alla penitenza fu la Confessione che nel medioevo
si privatizzò. Non più, quindi, davanti al vescovo con
pubblica ammenda, ma nel segreto del confessionale. Tale prassi fu
importata dai monaci iro-scozzesi.
LA CHIESA ALTOMEDIEVALE (400-1050) O CHIESA DEL RE
PREMESSA POLITICO-RELIGIOSA AL SACRO ROMANO IMPERO
Con il trasferimento della sede imperiale da Roma a Costantinopoli
(11.5.330) e con il successivo disfacimento dell'Impero d'Occidente ad
opera dei barbari (476), nonché a seguito della rapida
cristianizzazione delle nuove popolazioni germaniche, grazie alla quale
esse assimilarono la cultura latina, il papato, erede della
latinità, dell'organizzazione e della cultura imperiali, divenne
il polo catalizzatore dell'incipiente mondo occidentale.
Il legame con Roma si fondava su due idee principali: una religioso-ecclesiale, l'altra religioso-politica.
Quanto alla prima va detto che nella tarda antichità la
latinità della Chiesa e dell'Occidente era situata nell'Africa
del nord, che fu patria di grandi martiri, teologi ed apologeti. Ma con
la conquista di questa da parte dell'Islam, essa venne persa per il
mondo occidentale, che trovò il suo naturale punto di
riferimento nella Chiesa di Roma e nel papato.
Tali vincoli religiosi con Roma furono in particolar modo creati e rafforzati dal monaco anglosassone Bonifacio.
L'intera Europa cattolica, pertanto, guardava a Roma come punto di
riferimento per la propria identità cristiana in cui tutti si
riconoscevano.
Non era, ovviamente, una dipendenza giuridica, ma morale e vedremo come
nel pieno medioevo sotto Innocenzo III si avviò anche
un'affermazione di diritto.
Quanto alla seconda idea, essa si affermerà con Carlo Magno nel
tentativo di riesumare l'Impero romano, il cui intento era quello di
abbracciare l'intero Occidente sotto un'unica guida politica e
religiosa. Si realizzava, così, il sogno agostiniano della
"Civitas Dei", il Regno di Dio sulla terra.
FORMAZIONE DELLO STATO DELLA CHIESA
Finché l’Impero Romano formò da coagulo dei popoli,
la Chiesa non aveva bisogno di potere materiale perché
appoggiata all’Impero. Ma quando questo cominciò a
sgretolarsi anche la Chiesa si frantumò in varie chiese locali.
Sorse, allora, l’esigenza di una autonomia politica del papa a
difesa di quella spirituale.
Al tempo di Gregorio I (590-604), grazie al “Codice
Giustinianeo”, i papi già detenevano il potere su Roma e
ai vescovi si riconosceva un ruolo pubblico.
Due avvenimenti aumentarono la forza del papato al tempo di Gregorio I :
- il possesso di grandi estensioni di terreni,
ricevuti in donazione (il cosiddetto “Patrimonium Petri”)
- la supplenza di governo dell’esarca di
Ravenna, incapace di gestire il suo potere. I papi divennero ben presto
i veri padroni di Roma.
LA CHIESA ROMANA E I FRANCHI
La nascita dell'Occidente cristiano ebbe il suo nucleo originale nei rapporti tra il Regno Franco e la Chiesa.
Già con Clodoveo si costituì una prima concentrazione di
signorie su di una vasta area, ma fu sotto i Carolingi che il potere si
concentrò sotto una sola persona.
Questi, già nel 680, erano maggiordomi sotto i Merovingi e accentrarono un forte potere nell'area della Mosa e del Reno.
La vittoria, poi, di Carlo Martello a Poitiers nel 732 contro gli arabi
rafforzò la posizione dei Carolingi così che fu
pressoché un gioco la deposizione dell'ultimo dei Merovingi,
Childerico III, da parte di Pipino il Breve, che si fece proclamare re
dai grandi del regno e tale si fece consacrare dai vescovi franchi.
Si andava così formando il regno dei Franchi che primeggiavano
fra le varie potenze europee ed erano divenuti campioni della
Cristianità per aver fermato a Poitiers l’avanzata araba.
A questi si rivolse tra il 739-740 Gregorio III (731-741) per opporsi
ai Longobardi, sottoporsi ai quali significava per i papi diventare
semplici vescovi territoriali alle loro dipendenze.
Questa mossa di Gregorio III fu storicamente rilevante poiché
indicava il nuovo orientamento della Chiesa d’Occidente: un primo
passo questo che la staccherà definitivamente
dall’Oriente, creandosi, qui in Occidente, un proprio impero.
La data decisiva della separazione può essere idealmente
indicata nel 741, anno in cui scomparvero, quasi contemporaneamente, la
figura di Gregorio II, sostituito da papa Zaccaria, per la Chiesa;
Carlo Martello, sostituito dai figli Carlomanno e Pipino III, per i
Franchi; e Leone III, sostituito dal figlio Costantino V, per
l’impero di Oriente.
Carlomanno si ritirò dalla scena politica lasciando il posto al
fratello Pipino III, il quale si rivolse al papa Zaccaria per avere
rassicurazioni sulla legalità della sua ascesa al trono dei
Franchi. Zaccaria risolse la questione pragmaticamente affermando che
era meglio chiamare re chi deteneva effettivamente il potere piuttosto
chi era rimasto privo di autorità.
Pipino, pertanto, viene eletto re e come tale unto. Tale unzione, che
si ispirava a quella di Saul e Davide, assunse un carattere sacro e
religioso e si creò una teologia sacramentarle di tale unzione.
Con tale unzione consacrante sembrò, pertanto, legittima
l’ingerenza dei re negli affari della Chiesa e così
viceversa. Si andava, in tal modo formando un profondo connubio tra
potere temporale e spirituale al punto tale che Innocenzo III (1202)
affermava che solo a lui competeva l’esame di chi era stato
eletto re. Il re, pertanto, diventava un sovrano teocratico e
può reggere la Chiesa la quale, a sua volta, incorporata nel
Regno, si riservava di approvare l’elezione del re.
Dopo la morte del longobardo Liutprando (744), il re Astolfo riprese la
politica espansionistica e si spinse fino a Roma con l’intento di
conquistarla e farne la capitale d’Italia. Papa Stefano II
(752-757), chiesto inutilmente aiuto all’imperatore Costantino V,
tutto preso dalla lotta iconoclasta, si rivolse a Pipino III che non
solo gli promise aiuto, ma anche la restituzione dell’Esarcato di
Ravenna.
La pronta accoglienza dell’invito da parte di Pipino III
nascondeva la segreta aspirazione di estendere la sua influenza
sull’Italia e annettere al regno dei Franchi i Longobardi stessi.
Dopo un primo fallimento della dieta di Bernacum, che si concluse con
un nulla di fatto, Pipino III riesce a far approvare l’aiuto al
papa con la dieta di Quierzy e promette al papa vasti territori
dell’Italia.
Fu così che, dopo un inutile tentativo diplomatico con re
Astolfo, in cui si cercava di convincerlo a restituire i terreni al
papa, egli, in due interventi militari, fu ripetutamente sconfitto e
costretto a cedere un terzo del suo tesoro e ampi terreni al papa.
Con tale donazione di Pipino ebbe luogo la nascita dello Stato della Chiesa.
Con la costituzione dello Stato della Chiesa si scatenò da
subito una corsa al potere per cui, deceduto Paolo I, fratello di
Stefano II, i vari nobili e partiti nobiliari posero sul trono di
Pietro dapprima Costantino, il cui pontificato durò un anno, e
poi Filippo, che fu destituito dopo pochi mesi. Infine, venne
regolarmente eletto Stefano III (768-772).
Dopo questi inconvenienti, si resero necessarie delle regole per
l’elezione del papa che andarono sempre più
perfezionandosi nel corso dei secoli fino alla richiesta dei due terzi
dell’assemblea dei cardinali (1179).
Già con Adriano I la Chiesa incominciò a battere moneta
propria e a datare i diplomi secondo gli anni del pontificato.
Il distacco definitivo da Costantinopoli avverrà con Carlo Magno e la costituzione del Sacro Romano Impero.
LA DONATIO CONSTANTINI
Per sancire una maggiore autonomia e potere allo Stato della Chiesa,
comparve il falso più famoso della storia: la “Donatio
Constantini” o “Constitutum Constantini”. Esso,
probabilmente, nacque sotto il pontificato di Stefano II (750) e si
compone di due parti: una “Confessio” in cui Costantino fa
professione di fede e racconta come egli fu miracolosamente guarito
dalla lebbra da papa Silvestro; e la “Donatio” in cui
Costantino, prima di partire per Costantinopoli, riconobbe la
supremazia del vescovo di Roma sui patriarcati di Alessandria e
Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli. Il pontefice ottenne, inoltre,
le insegne di «basileus» vale a dire il manto purpureo, lo
scettro e la scorta a cavallo. Ciò gli conferiva automaticamente
la potestà temporale sull'impero d'Occidente e lo rendeva
indipendente da quello d'Oriente. Il clero fu equiparato al Senato e
autorizzato a bardare le cavalcature con gualdrappe bianche;
l'imperatore depose personalmente l'atto di donazione sulla tomba di s.
Pietro.
Il testo integro della “Donatio” appare per la prima volta
verso la metà del secolo IX nelle “Decretali
pseudo-isidoriane”, altro falso medievale, e per molto tempo
venne ritenuto autentico. Solo gli umanisti del ‘400
Nicolò Cusano e Lorenzo Valla riuscirono a dimostrarne la
falsità. Tuttavia, ancor oggi, non sono chiari il tempo, il
luogo e lo scopo di tale falsificazione.
Probabilmente tale falsificazione è nata negli ambienti
pontifici al fine di giustificare sia l’autonomia di Roma da
Bisanzio che la fondazione di uno stato della Chiesa.
Ecco il contenuto della “Donatio Constantini”: “Nel
314 un prete di nome Silvestro fu consacrato «vescovo di
Roma», proprio negli anni in cui la città era terrorizzata
da un dragone puzzolente che con il fetore del suo alito ne sterminava
gli abitanti. Il mostro abitava in una caverna ai piedi della rupe
Tarpea, alla quale si accedeva attraverso una scala di
trecentosessantasei scalini. Nessuno osava affrontare il dragone,
finché un giorno il papa si calò disarmato nella tana del
mostro e lo catturò. Dopo alcuni giorni l'Urbe fu colpita da una
calamità ben più grave: l'imperatore Costantino aveva
bandito la persecuzione contro i cristiani; lo stesso Silvestro fu
costretto a fuggire ed a cercare rifugio in una grotta nei pressi del
monte Soratto. Qui lo raggiunse la notizia che l'imperatore era stato
colpito dalla lebbra. I medici di corte erano disperati perché
nulla riusciva a lenire le sofferenze di Costantino, al cui capezzale
furono convocati i più grandi maghi dell'impero; costoro gli
ordinarono di immergersi in una vasca piena di sangue spremuto dal
ventre di bimbi appena nati. Costantino rifiutò di sottomettersi
a tale rimedio atroce e la notte stessa gli apparvero in sogno i santi
Pietro e Paolo che gli diedero l'indirizzo di Silvestro. L'imperatore
credendo che si trattasse di un medico, lo mandò a cercare, ma
il pontefice accorso al suo capezzale gli somministrò i primi
rudimenti della fede cristiana. Dopo una breve penitenza in cilicio
Costantino fu battezzato nel palazzo lateranense: l'imperatore,
indossata la veste bianca del catecumeno, fu calato in una vasca dalla
quale riemerse completamente guarito. Le piaghe che gli dilaniavano il
corpo erano scomparse, le ulcere si erano cicatrizzate. La persecuzione
fu immediatamente revocata e il Cristianesimo diventò religione
ufficiale dell'impero. Nuove chiese cominciarono ad essere costruite a
spese dello stato, e di alcune l'imperatore gettò personalmente
le fondamenta.
Un giorno Costantino ricevette dalla Bitinia una lettera della moglie
Elena, nella quale l'imperatrice gli suggeriva di adottare il
giudaismo, l'unica vera religione. Costantino convocò il Papa e
il Rabbino: i tre disputarono a lungo, ma non riuscendo a mettersi
d'accordo, decisero di ricorrere al giudizio di Dio. L'imperatore
allora ordinò che fosse condotto un toro: si avvicinò per
primo al rabbino, che sussurrò all'orecchio dell'animale un
versetto della Bibbia. Il toro, come fulminato, piombò a terra,
e tutti gridarono al miracolo. Quando fu il suo turno, Silvestro si
accostò alla vittima e pronunciò il nome di Cristo.
Immediatamente il toro morto alzò la coda e fuggì.
L'imperatore, sconvolto del prodigio abbandonò l'Urbe e
partì per l'Oriente, dove fondò la città che da
lui prese il nome. Ma prima di imbarcarsi donò la giurisdizione
civile dell'Occidente a Silvestro e successivamente riconobbe la
supremazia del vescovo di Roma sui patriarcati di Alessandria e
Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli. Il pontefice ottenne pure le
insegne di «basileus» vale a dire il manto purpureo, lo
scettro e la scorta a cavallo. Ciò gli conferiva automaticamente
la potestà temporale sull'impero d'Occidente e lo rendeva
indipendente da quello d'Oriente. Il clero fu equiparato al Senato e
autorizzato a bardare le cavalcature con gualdrappe bianche;
l'imperatore depose personalmente l'atto di donazione sulla tomba di s.
Pietro.” (Da Pietro al Papato - il potere temporale dei papi
– di Fausto Salvoni. Da Internet).
RAPPORTO TRA CHIESA E CARLO MAGNO
LA PREMESSA
Il forte impulso missionario anglosassone e di S.Bonifacio (Vinfrido),
nonché la costituzione dello Stato della Chiesa avevano
concentrato nelle mani del papa un grande potere che si estendeva su
quasi tutto l’Occidente.
Alla morte di Adriano I (772-795) gli succedette Leone III (795-816),
un presbitero di umili origini, che rimase impigliato nelle maglie
degli intrighi di corte: venne accusato di spergiuro e adulterio e
arrestato.
Riuscito a fuggire, ricorse a Carlo Magno che giunse a Roma nel
novembre dell’800 per por fine alla controversia papale e mettere
ordine a Roma. Qui si tenne un sinodo anche per esaminare le accuse sul
papa. Ma tale sinodo si dichiarò incompetente invocando il
principio del “Prima sedes a nemine iudicatur” sorto da un
altro falso, quello Simmachiano (da papa Simmaco, 498-514). Tale
falsificazione fabbricò gli atti di un inventato concilio di
Sinuessa del 303 in cui si affermò tale principio.
Due giorni dopo il sinodo di Roma, conclusosi il 23.12.800, Carlo Magno
veniva acclamato e incoronato imperatore con una cerimonia che
ricalcava il modello bizantino dell’elezione imperiale.
Benché all’apparenza improvvisa e inaspettata, tuttavia
sembra, da alcuni indizi, che l’incoronazione fosse premeditata:
accoglienza festosa e imperiale che venne fatta a Carlo Magno nel suo
giungere a Roma dove era già pronta una preziosissima corona.
Inoltre, già prima di Carlo Magno vi erano state forti spinte
imperiali in cui si reclamava la pari dignità tra Carlo Magno e
l’imperatore di Costantinopoli.
Il tutto, probabilmente, venne concordato tra papa Leone III (795-816) e lo stesso Carlo Magno nell’incontro di Paderborn.
L’incoronazione segnò, di fatto, il punto definitivo di
rottura tra Roma e Costantinopoli e diede inizio ad una nuova era nella
Cristianità, con due capi: il papa e l’imperatore.
Ma essa segnò anche una svolta decisiva nei rapporti tra
l’Impero e la Chiesa; infatti, l’unzione,
l’incoronazione e la consacrazione da parte del papa divennero
elementi fondamentali e costitutivi della dignità imperiale.
CARLO MAGNO E LA FONDAZIONE DEL SACRO ROMANO IMPERO
Con l'avvento di Carlo Magno (768-814) e la sua incoronazione prende
corpo l'idea della rifondazione dell'Impero romano. Egli
consolidò il suo potere all'interno e lo estese all'esterno.
L'incoronazione del 25.12.800, quale "Imperator Romanorum",
consolidò definitivamente il suo potere anche sull'Occidente.
Tale titolo, con appositi accordi, gli venne riconosciuto anche da
Bisanzio.
Ma a Carlo Magno più che i titoli importava la dignità
imperiale, libera da rivendicazioni romane. Egli già pensava ad
un nuovo "Imperium Romanum" sulla falsa riga di quello di Bisanzio e
centralizzato nel cuore del regno carolingio della Mosa e del Reno.
Pertanto, due anni dopo la sua elezione, Carlo Magno chiese un
giuramento di fedeltà alla sua persona e pretese da
Costantinopoli un riconoscimento del titolo che, in successivi accordi,
stipulati tra l'810 e 814, Bisanzio gli riconobbe. Con tali accordi
Bisanzio uscì definitivamente dagli orizzonti occidentali.
Dopo tali accordi Carlo Magno nell'813 incoronò ad Aquisgrana il
figlio Ludovico il Pio, significativamente, secondo il rito degli
imperatori bizantini. L'incoronazione venne ripetuta nell'816 a Reims
da papa Stefano V, richiamandogli, così, alla memoria l'origine
romana del titolo di imperatore, che era in funzione della difesa della
Chiesa.
Carlo Magno lavorò intensamente per dare una solida unità
all'impero: si impose una scrittura unica (la minuscola carolina); si
orientò il latino sul modello patristico; si impose un'unica
liturgia, nata dalla fusione della gallo-franca con quella romana; si
unificarono le varie regole monastiche, sostituendole con la Regola di
S.Benedetto.
Ma il vasto impero ebbe basi fragili in quanto che Carlo Magno, morto
nell'814, non ebbe il tempo per consolidarlo e, inoltre, l'impero
trovò la fine proprio nelle regole franche per la successione,
che prevedevano la compartecipazione al potere degli eredi.
Fu così che successivamente alla morte di Carlo Magno il Sacro Romano Impero fu diviso in tre parti e altrettanti regni.
Infatti, a Carlo Magno succedette il figlio Ludovico il Pio che,
secondo le regole franche della successione, assegnò ai propri
figli tre parti dell’Impero, cosa che fu sancita con il
patto di Verdun (843): l’Impero venne definitivamente diviso in
tre parti e cessava così l’unità del Sacro Romano
Impero d’Occidente.
Da questo momento l’Impero sarà soggetto a gravi
sconquassi e pressioni esterne così che Carlo il Grosso, uno dei
tre figli di Carlo Magno, fu costretto a dimettersi per
incapacità di difendere l’Impero, che venne
definitivamente diviso in cinque parti: Germania, Francia, Italia,
Borgogna Inferiore e Superiore, mentre il titolo di imperatore venne a
cessare con Berengario I, assassinato a Verona nel 924.
Concomitante alla caduta dell’Impero, a cui la Chiesa era strettamente legata, fu la decadenza del papato.
In Italia, infatti, il papato, grazie al "Pactum Laudivicianum" ottenne
la propria autonomia, staccandosi definitivamente dall'ormai decaduto
Impero carolingio. La cosa che in sé non poteva essere che
positiva, scatenò, purtroppo, una folle corsa al potere e il
papato, istituzione ecclesiastica molto ambita tra i nobili romani e
quelli dell'Italia meridionale, divenne l'oggetto di aspre e sanguinose
contese.
Ebbe pertanto inizio quello che fu definito il "Saeculum obsucurum"
della Chiesa, durante il quale i papi si succedettero con
rapidità fulminea e a seconda del prevalere di una fazione su di
un'altra così che più papi si contrapposero tra loro.
UNA RIFLESSIONE SULLA TEOCRAZIA NELL’IMPERO CAROLINGIO
Va subito posta una distinzione tra i termini “teocrazia”, “ierocrazia” e “cesaropapismo” .
Con il termine teocrazia si intende l’intrusione dei sovrani in
questioni religiose di competenza della Chiesa. Viceversa, la
ierocrazia è l’intromissione della Chiesa in questioni di
pertinenza dello Stato. Il cesaropapismo, invece, è
l’intromissione dello Stato nelle questioni amministrative e
organizzative interne della Chiesa.
La teocrazia diventa caratterizzante il periodo carolingio e si
manifesta prevalentemente nella riforma liturgica, che viene agganciata
a quella romana e stemperata da elementi locali, così che nacque
la liturgia franco-romana. Una riforma questa voluta e perseguita non
dalla Chiesa, ma dai sovrani stessi. Da qui, poi, nascerà la
liturgia latina.
Nel campo del diritto venne confermata la “Collezione
Dionisyo-Adriana”, integrata da nuova legislazione per adattarla
alle nuove situazioni.
Gli episcopati, poi, vennero incorporati nel Regno mediante il diritto feudale.
Gli strumenti legislativi usati in epoca carolingia furono:
- i Concili misti, cioè riunioni
ecclesiastiche composte da ecclesiastici e laici con compiti di
legiferare sia in campo sociale che ecclesiastico.
- I Capitolari, cioè leggi che andavano a completare il capitolo ordinario.
- I Missi dominaci, cioè ispettori in missione
nell’Impero. Essi erano formati da gruppi di vescovi e laici.
Da questo breve excursus si può ben vedere come
nell’organizzazione carolingia competenze sacre e profane erano
tra loro strettamente intrecciate. E ciò a tal punto che Carlo
Magno intervenne anche in questioni teologiche come l’Adozionismo
che riteneva Gesù figlio di Dio in quanto da lui adottato; come
nella Iconoclastia, conclusasi in un primo tempo con il Concilio di
Nicea II indetto dall’imperatrice Irene, ma la cui conclusione
Carlo Magno rifiutò perché la Chiesa franca non ebbe
parte nel concilio. Così pure per la questione del Filioque,
ereditata dal Concilio di Costantinopoli (381).
In tutte queste questioni Carlo Magno ebbe un ruolo importante, ma a
differenza degli imperatori di Costantinopoli, egli rispettò
sempre l’autorità papale, poiché nell’ambito
della gestione unitaria dell’impero era sempre distinto il potere
religioso da quello statale, consentendo in tal modo una certa
autonomia ecclesiale.
Erano, dunque, due i poteri principali che, pur nelle loro autonomie
reciprocamente subordinate, si intrecciavano tra loro e tra loro si
sostenevano: quello religioso e quello civile.
Questa idea di poteri uniti, ma distinti, propugnata con chiarezza da
papa Gelasio (492-496) in una lettera all’imperatore Anastasio
nel 494 e che condizionò il pensiero politico occidentale per
oltre un millennio, portò a identificare la Chiesa con il mondo.
Questa non era sentita come la mediatrice tra Dio e gli Uomini, ma come
una “Societas fidelium” in cui ognuno, secondo le proprie
competenze, era impegnato a difendere il Regno di Dio ed acquisire
tutti gli uomini a Dio. In tal senso la Chiesa assunse una connotazione
di universalità, diventando l’ Ecclesia universalis.
Il Cristo Pantocrator della chiesa antica, creatore di tutto, assume
nel Medioevo un’impronta terrena: Cristo è, per
eccellenza, il Sacerdote e il Re che governa l’Ecclesia
universalis che incorpora l’intera umanità cristiana, in
cui papa e re sono i due rappresentanti sacramentali di un’unica
realtà: il Cristo che in loro vive e si esprime.
Già nell’ VIII secolo, però, si vede un progressivo
distacco tra laicato e sacerdozio a partire da ciò che per
eccellenza esprime la vita della Chiesa: la liturgia. Solo nel Re,
laico consacrato, la sacralità si conserva ed egli è,
pertanto, il legittimo rappresentante di Cristo sulla terra.
AGOSTINISMO POLITICO
Spesso si è inteso che nel Medioevo la Chiesa, il cui pensiero
fu informato da quello di Agostino nella sua “Civitas Dei”,
prevaricando lo Stato, avesse imposto il suo dominio su questo e
l’intero Occidente. In realtà non vi fu prevaricazione
alcuna, ma paritaria compenetrazione di poteri tra Stato e Chiesa.
L’ideale fondamentale era quello di fondare il Regno di Dio sulla
terra con il concorso autonomo, ma ben amalgamato, dei due poteri: il
Sacerdozio e il Regno.
Infatti Carlo Magno concepì la sua missione regale con spirito
del tutto cristiano. Davanti a sé stava l’ideale del
“Regno di Dio” proposto da S.Agostino di cui amava sentirsi
leggere a tavola quelle pagine che, nel suo immaginario, lo
riguardavano.
Carlo Magno si dedicò alla elevazione culturale e religiosa dei
suoi popoli che, nel suo disegno, sognava di riunire tutti in
un’unica e grande Cristianità.
Si realizzava così l’Agostinismo politico che vedeva il re
quale ministro e sostenitore della Chiesa, concepita come il Regno di
Dio sulla terra.
Tuttavia, la dottrina agostiniana sullo stato, elaborata nel “De
civitate Dei”, aveva coloriture più teologiche che
politiche. Furono Gregorio Magno (590-604) e Isidoro di Siviglia che
dettero un taglio nettamente politico al “De civitate Dei”
che perdurò fino al XIV secolo.
La situazione cambierà con la riforma gregoriana, tra il 1050 e
il 1124, quando i re saranno considerato alla stregua degli altri laici.
LA RINASCITA DELL’OCCIDENTE
Nonostante il crollo dell’Impero Romano d’Occidente,
accompagnato dalla decadenza della Chiesa, che sull’impero si
appoggiava, l’Occidente non si sfaldò, anzi
completò la sua configurazione geografica e politica con
l’acquisizione delle regioni del Nord al cristianesimo.
Due furono i fattori di ripresa dell’Occidente:
- la cultura e la religione cristiane, in cui tutti
si riconoscevano. Esse formarono da amalgama culturale su cui si
fonderà una nuova politica unificatrice.
- Ottone I di Germania che, sentitosi l’erede
naturale di Carlo Magno, fattosi per questo incoronare ad Acquisgrana
nel 936, riprese le fila dello sfilacciato Impero e della decaduta
Chiesa. Avviò una riforma radicale che portò alla ripresa
di entrambi.
Quanto alla politica interna, Ottone I ridusse il potere di duchi e
conti riconoscendo pubblici diritti a vescovi ed abati; si
riservò di eleggere i vescovi, così che vescovi ed abati
divennero le colonne su cui poggiava il Regno della Germania.
Quanto alla politica estera, Ottone I nel 951 scese in Italia per
liberare Adelaide da Berengario II e per sposarla. Con
l’occasione assunse il titolo di Re d’Italia e di Pavia.
Successivamente papa Giovanni XII (955-963) chiese il suo aiuto
perché assediato da Berengario II. In questo frangente gli venne
riconosciuto il titolo di imperatore e come tale venne consacrato nel
962.
In questa occasione concede al papato il “Privilegium
Ottonianum” che riprendeva gli antichi privilegi ecclesiastici
fino a Carlo Magno, mentre nella seconda parte era previsto che il papa
neoeletto prestasse giuramento di fedeltà all’Imperatore.
Ma le trame di Giovanni XII portarono Ottone I a restringere
l’autonomia papale nel senso che nessun papa poteva essere eletto
senza il suo consenso. Giovanni XII venne, pertanto, deposto e al suo
posto venne eletto Leone VIII.
Se da un lato il papato perse con Ottone I la sua autonomia, tuttavia
ciò consentì di far ripartire il papato e farlo uscire da
quella buia crisi che fu il “Saeculum obscurum”.
L’IDEA DI IMPERO IN OTTONE I E DEL DIRITTO ALLA CORONA
Ottone I, fattosi incoronare ad Acquisgrana nel 936, si ritenne l’erede naturale di Carlo Magno e del sacro Romano Impero.
Benché fosse proprio dei re tedeschi governare su regni propri
senza sconfinare, tuttavia va detto che Ottone I acquisì da
Carlo Magno il senso della “dignitas imperialis” che lo
faceva sentire responsabile dell’intera Cristianità
occidentale. Egli considerò sempre la consacrazione imperiale e
l’incoronazione come un sacramento che lo univa intimamente alla
Chiesa e lo faceva partecipe del Sacerdozio. Egli si sentì
sempre personalmente responsabile del papato e della Chiesa e
ciò fu sempre la base della sua idea politico-religiosa
dell’Impero.
Stato e Chiesa con Ottone I non solo sono intimamente uniti, ma formano quasi un’unica identità.
Con l’andar del tempo, da parte imperiale, si passò ad un
diritto alla corona, dando così l’idea che il papato si
limitasse al prenderne atto. Ma in realtà non fu così.
Sulla questione si divisero le parti, quella germanica e quella romana.
La prima, quella germanica, affermava che era la forza a fare
l’imperatore e che l’elezione da parte dei “Grandi di
Germania” era espressione della volontà di Dio, per cui il
papa doveva solo prenderne atto. Da parte romana, invece, si
controbatteva che il papa doveva dare il suo placet all’elezione
che avveniva solo con la consacrazione e che questa, quindi, non era un
semplice atto burocratico di tipo notarile.
La questione si ripresentò nell’XI sec. quando sorse una
nuova disputa tra il Barbarossa e Adriano IV, che richiamò il
Barbarossa ad un atto di riconoscenza verso il papato per la sua
investitura imperiale. Il Barbarossa gli rispose che la nomina
l’aveva già ricevuta da Dio con la sua elezione da parte
dei principi tedeschi.
Sorse così la questione teologico-politica se la nomina derivi
direttamente da Dio o per mezzo del papa. Si formarono due
schieramenti: i canonisti, che affermavano la mediazione papale; e
l’altro partito che, invece, sosteneva che la nomina veniva
direttamente da Dio al momento dell’elezione da parte dei
principi tedeschi, mentre il papa si limitava a conferire il titolo
imperiale, prendendo atto dell’elezione.
La questione, comunque, trovò la sua soluzione con Gregorio VII
(1073-1085) che nel suo “Dictatus papae” (1075) si
riservò di esaminare la dignità dell’imperatore e
di approvarne la nomina.
POTERE TEMPORALE E POTERE SPIRITUALE NEL PRIMO E ALTO MEDIOEVO
Ma perché tutte queste dispute teologiche e giuridiche? Fu solo
una questione di poteri che cercavano di prevaricarsi l’un
l’altro? La risposta va ricercata nell’ambito della visione
teologica e religiosa in cui Chiesa, Impero e l’intera
società medievale si muovevano.
Da Carlo Magno ad Enrico III il potere imperiale assunse sempre più importanza nell'ambito della Chiesa.
Questo non era concepito come un'indebita intrusione in questioni che
non lo riguardavano, bensì costituiva un esercizio di diritto in
questioni di competenza.
Infatti, la sovranità imperiale veniva conferita non solo
attraverso l'elezione politica, ma anche e soprattutto attraverso una
vera e propria consacrazione con carattere sacramentale.
La persona del re, pertanto, risultava essere consacrata e investita da
Dio stesso di un potere che il re esercitava in nome e per conto di Dio
stesso. Era, quindi, un potere sacro che lo qualificava, di diritto,
all'interno della Chiesa come "Sacra potestas regalis", che lo
abilitava ad interferire nelle questioni ecclesiastiche a cui era
preposto e di cui condivideva le responsabilità con il clero.
Due erano gli elementi che costituivano questa "Sacra potestas
regalis": la religiosità politica, per cui tutto ciò che
è religioso è pubblico, e tutto ciò che è
pubblico è anche religioso; la mentalità della "chiesa
propria" per cui ogni potere considerava se stesso come sacro e per
ciò stesso conferiva una responsabilità sulle "res
sacrae".
Questi due aspetti contribuirono in modo rilevante a formare l'idea della "potestas regalis".
LA POSIZIONE DEL RE NELLA CHIESA
Posta la sacralità del re nell'ambito della Chiesa, quale
rapporto intercorre tra l' "auctoritas pontificalis" e la "potestas
regalis"?
La questione può essere ricondotta a due teorie che si compenetrano: il monismo teocratico e il dualismo teocratico.
Quanto al "monismo teocratico", esso afferma la supremazia della
regalità sul Sacerdozio. La teoria, a base cristologica,
sostiene che la regalità di Cristo sul mondo viene prima del suo
sacerdozio dato che la regalità è legata all'esistenza
eterna di Cristo; solo successivamente egli divenne sacerdote,
cioè pontefice tra Dio e gli uomini.
Tali prerogative di Cristo, sovranità sul mondo e sacerdozio, si
incarnano nella Chiesa, corpo di Cristo, in cui il re è
l'immagine e il rappresentante della sovranità di Cristo, ne
è il vicario. Funzione prima del sacerdozio è il
santificare e redimere.
Quanto al "dualismo teocratico", esso è formulato nella teoria
delle "due spade" derivata da Lc. 22,38. Esse esprimono simbolicamente
i due poteri: quello temporale e quello spirituale. Entrambi provengono
dalla stessa fonte, Dio, e hanno il medesimo scopo: mantenere il
diritto e l'ordine. Differenti, tuttavia, sono le funzioni e le
modalità: alla monarchia compete la difesa e la diffusione della
fede; al sacerdozio la santificazione e la redenzione.
Ma considerati i diversi mezzi per esercitare il potere, la monarchia
aveva la supremazia sul sacerdozio, per cui si tornava al "monismo
teocratico".
LA CULTURA DELLA CHIESA DEL RE
Nell'ambito di questa concezione teocratica del potere l'arte e la
cultura erano affidate alla Chiesa verso la quale i sovrani esprimevano
appieno il loro mecenatismo. Esse avevano carattere nobiliare e il
fasto della loro produzione esprimevano lo splendore del potere regale,
inteso come "splendor Christi"; mentre la "potestas" del re o del
signore era vista come compartecipazione a quella di Cristo.
Nell'ambito dell'armonia tra Regalità e Sacerdozio rientrava
anche quella tra i "potentes" e i "pauperes", cioè l'armonia
delle classi sociali.
In questo grande Impero-Chiesa ognuno occupava il posto assegnatogli
dalla Provvidenza. In questo grande disegno divino ai potenti veniva
inculcata la responsabilità verso i poveri, a cui si dedicava
grande attenzione per mezzo delle strutture ecclesiastiche, in
particolar modo per mezzo dei conventi a cui erano affidate mansioni
sociali e caritative.
QUALE CONCETTO DI CHIESA? I PERCHÉ DI UNA TEOCRAZIA IMPERIALE
Dopo alcune considerazioni sulla nascita del Sacro Romano Impero (800),
sulla sua decadenza e sulla sua rinascita, grazie ad Ottone I (962),
nonché sui rapporti tra Impero e Chiesa, viene spontaneo
chiedersi: quale fu il concetto di Chiesa nel medioevo? Perché
gli imperatori pretendevano di estendere il loro potere anche sulla
Chiesa? Fu solo prepotenza o la cosa si radicava nel diritto?
Perché si arrivò alle lotte per le investiture? E,
infine, come si strutturava e come si muoveva la Chiesa
all’interno dell’Impero?
La risposta affonda le sue radici nella tarda antichità (IV-V sec.).
Infatti, dalle riforme dell'Impero romano del IV-V sec. ne sortì
un'involuzione sociale che riportò l'impero al predominio dei
proprietari terrieri che legarono il loro potere alla proprietà
posseduta, trasferendo su di essa poteri e diritti che prima
appartenevano all'amministrazione statale e cittadina.
Ognuno poteva esercitare nell'ambito della sua proprietà il
potere su cose e persone presenti nella sua proprietà e
trarne di conseguenza benefici e utilità.
Nasceva, in tal modo, la "signoria fondiaria" in cui il rapporto tra uomini liberi e privi di diritti era definito "mundio".
Nocciolo della signoria fondiaria, quindi, era la sovranità sulle cose e sulle persone.
Il possesso delle terre rendeva nobili i proprietari, mentre senza
proprietà esisteva solo il mundio, grazie al quale la vita dei
servi era garantita dal padrone.
Di conseguenza anche chiese, conventi, vescovati, cimiteri, preti,
vescovi, religiosi, tutto l'apparato ecclesiale, mancando il concetto
morale e giuridico di persona, intesa come individualità
portatrice di valori e di diritti intrinseci, rientravano nel possesso
e sotto la protezione del signore nell'ambito del territorio in cui si
trovavano.
CONCETTO E NATURA DI "CHIESA PROPRIA"
Sorse, pertanto, il concetto di "chiesa propria" intesa come "Casa di
Dio" che si ergeva sulla proprietà del signore fondiario, il
quale poteva esercitare su di essa un diritto amministrativo, correlato
ad un diritto patrimoniale, unitamente ad un potere di guida spirituale.
Quindi legato al patrimonio c'era il pieno diritto e potere su cose e persone su cui si esercitava piena sovranità.
In epoca carolingia le leggi obbligarono il "signore fondiario" a
scorporare parte del suo patrimonio a favore della chiesa, ferma,
comunque, la proprietà del patrimonio scorporato che rimaneva al
signore.
Tale scorporo divenne una sorta di investimento che il signore faceva
sulla "chiesa di proprietà". Tuttavia rimanendo il fondo di
proprietà del signore, questi continuava a conservare il suo
diritto sulle cose e sulle persone, nonché il pieno potere di
guida spirituale.
LA "DOMUS EPISCOPALIS" E LA SUA EVOLUZIONE
Il termine "Domus episcopalis" esprimeva il complesso delle competenze
del vescovo: disponibilità del patrimonio ecclesiastico, potere
sul clero che in genere stipendiava, e cura pastorale sul contado.
Ma l'ampliamento della chiesa sul terriotrio costrinse il vescovo a
decentrare la cura delle anime. Si costituiscono, pertanto, dei centri
per l'assistenza spirituale a cui vennero dati "diritti vescovili".
Questi centri si resero ben presto autonomi con patrimonio proprio,
derivato da lasciti ed eredità. Si costituirono così le
parrocchie che si staccarono dalla "Domus episcopalis" pur rimanendo
vincolate pastoralmente al vescovo.
Nell'XI sec. la "Domus episcopalis" si dissolse completamente.
A fronte di una sempre maggiore delega dell'attività pastorale
propria, il vescovo gradualmente assumeva mansioni e compiti che
riguardavano la sfera secolare. La figura del vescovo assunse sempre
più connotati aristocratici così che si andò
delineando una nuova figura di vescovo, in particolar modo in Germania:
Vescovo, signore della città, signore di una chiesa propria e
detentore di sovranità regale.
IL VESCOVO, SIGNORE DELLA CITTÀ
Con la decadenza dello Stato nella tarda antichità dell'Impero
romano venne meno la tutela verso la cittadinanza ce si vide, in tal
modo, costretta ad autogestirsi. A ciò provvide il vescovo che,
in un'epoca di decadenza, era l'unica struttura in grado di
autogestirsi autonomamente con proprio patrimonio, regole e leggi. A
questo si riferivano, pertanto, le "civitates".
La cosa assunse proporzioni tali che i re Merovingi riconobbero
l'amministrazione dei vescovi e ne potenziarono i diritti, così
che l'episcopato divenne ben presto appetibile anche dalle classi
nobili. Si era, pertanto, verificata una aristocratizzazione
dell'episcopato che sarà, ormai, congiunto alla nobiltà e
ai suoi giochi politici e di potere per tutto il medioevo.
IL VESCOVO, SIGNORE DELLA "CHIESA PROPRIA"
Alla pari dei signori laici, anche il vescovo, divenuto proprietario di
patrimonio terriero su cui sorgevano chiese e conventi, esercitava la
sua autorità su cose e persone ivi collocate.
Il vescovo, pertanto, divenne signore di "chiese proprie" che gestiva
alla stregua e con diritti pari a quelli dei signori laici.
Ad incrementare tale patrimonio vi furono le espropriazioni intese come
prestito forzato fatto a terzi su ingiunzione di leggi, ma di cui il
vescovo conservava la proprietà e ne traeva i conseguenti
benefici. e le donazioni, cioè trasferimenti di proprietà
o di "chiese proprie" che i signori laici facevano ai vescovi. In tal
modo il patrimonio e il potere vescovili ed ecclesiastici aumentarono
enormemente.
IL VESCOVO, DETENTORE DI SOVRANITÀ REGALE
Premesse alla "sovranità regale" del vescovo furono la signoria
della città e quella delle "chiese proprie". Il tutto si
incorniciava in un incipiente feudalesimo, una struttura di tipo
giuridico che regolava i rapporti tra "Signore e servo", tra il
"Sovrano e il Signore" del fondo, cioè del beneficio
patrimoniale concesso dal re al signore per particolari servigi resi.
I re per sostenere e rafforzare il proprio potere affidavano i loro
patrimoni a vescovi ed abati con i relativi poteri di amministrazione e
diritti di sovranità.
Un primo passo si fece concedendo l'immunità regale sui beni della chiesa a cui si aggiunsero le regalie.
L'immunità era un privilegio regale grazie al quale
l'amministrazione dei beni ecclesiastici veniva sottratta ai funzionari
regi e sottoposti direttamente al re che li affidava a persone di sua
fiducia.
Le regalie, poste su questi beni, consistevano in diritti sovrani pubblici, come diritti doganali, monetari, fiscali, ecc.
Patrimonio del re e della Chiesa si intrecciavano, pertanto, tra loro
con diritti e benefici reciproci. Inoltre, con l'affermazione del
feudalesimo i signori trattavano i feudi come loro proprietà
così che nel tempo esse venivano alienate dal patrimonio reale.
Al re, pertanto, non rimase che affidare i feudi alla Chiesa, fedele
tradizionalmente al re.
Fu così che con l'investitura ai vescovi veniva assegnato il
beneficio patrimoniale o feudo, unitamente alla mansione spirituale di
pastore. Nel vescovo, pertanto, si incentravano due cariche: quella di
signore-sovrano e di pastore del popolo affidatogli con il feudo.
I beni della Chiesa divennero, quindi, del re; mentre alla Chiesa competeva il profitto di tali beni.
Ma la proprietà di tali beni rimanendo al re, consentiva allo
steso di beneficiare del diritto di "mundio" proprio come i diritti dei
signori su di una chiesa propria. Il re, pertanto, poteva intervenire
di diritto e di fatto sulle questioni secolari e spirituali, entrambe
legate al patrimonio.
TRASFORMAZIONE DEL MONACHESIMO IN SIGNORIA
Anche i monasteri, come per le "chiese proprie", vennero coinvolti nel
fenomeno della signoria che si esprimeva, in questo caso, sui conventi.
In tal modo il convento, rifugio dalle cose del mondo, ne venne
riportato al centro.
Il convento, infatti, svolgeva anche una fondamentale "funzione
sostitutiva". In altri termini, i signori, preoccupati per la propria
salvezza eterna e per il bene pubblico, fondarono dei conventi dove i
monaci li sostituivano nella preghiera e nella penitenza.
E ancora, ai conventi vennero elargite donazioni ai fini di una "intercessione sostitutiva".
Ben presto i conventi si ritrovarono, da un lato, proprietari di beni
su cui esercitarono un reale diritto di sovranità; dall'altro,
erano vincolati al loro fondatore e proprietario dal diritto di
"mundio". Su tali beni, poi, esisteva un diritto reale che li
incorporava alla chiesa del re.
In questo ingarbugliato intreccio di beni, poteri e sovranità,
ben presto i monasteri si trasformarono in centri di cultura, di
educazione, di formazione scolastica e di attività secolari.
In tal modo, i conventi costituirono un centro di attrazione per la
nobiltà, che aristocratizzò i conventi stessi e il loro
tenore di vita.
In particolar modo nel periodo carolingio il legame tra convento e
regno si fece più stretto e, in quanto abbazie del regno, ne
godevano del beneficio e dei diritti.
Fu così che nei monasteri penetrò la mentalità
propria della "Signoria fondiaria" che portò alla "Signoria
degli abati", appartenenti alla classe dirigente dei nobili.
L’OCCIDENTE SI APRE AD EST
L’Occidente cristiano è ormai diventato un bacino di
raccolta di popoli e regni tra loro indipendenti, ma unificati da
un’unica cultura e un unico modo di sentire: quello cristiano.
Ampliatosi nel X sec. ai popoli del Nord, ora l’Occidente si
allarga ad Est e accoglie nell’unica cultura cristiana, grazie
alla persistente azione missionaria, anche le popolazioni slave come la
Boemia, l’Ungheria e la Polonia, con qualche apertura e puntata
verso la Russia.
I grandi santi fondatori del cristianesimo slavo furono i fratelli Cirillo e Metodio e S.Adalberto di Praga.
CIRILLO E METODIO
La conversione degli Slavi occidentali (Moravi e Boemi) è legata
al nome di due grandi santi missionari bizantini, che si possono
considerare come i fondatori del cristianesimo slavo. Essi furono
Cirillo e Metodio, due fratelli originari di Tessalonica, inviati
nell’ 863 dall’imperatore Michele III e il patriarca Fozio
nella Grande Moravia, dove, con grande azione missionaria, culturale e
sociale riunirono quelle popolazioni alla comune religione e cultura
Occidentale: Cirillo, dotto filosofo e linguista, inventò
l’alfabeto slavo che fu chiamato, in suo onore,
“cirillico”; entrambi i fratelli tradussero Bibbia e
liturgia in lingua slava; si dedicarono allo sviluppo del sacerdozio
slavo; in una parola: impiantarono il cristianesimo slavo,
evangelizzando l’intera società.
L’azione missionaria di questi due grandi personaggi si
rivelò un fattore di riconciliazione fra la Chiesa
d’Oriente e quella d’Occidente
S.ADALBERTO DI PRAGA
Verso la fine del IX secolo l’Europa venne sconvolta
dall’invasione dei Magiari, di conseguenza una parte
dell’evangelizzazione andò perduta. Tuttavia, con la
sconfitta di questi ad opera di Ottone I nel 955 e la loro conseguente
sedentarizzazione consentì la ripresa dell’opera
evangelizzatrice da parte della Chiesa grazie all’azione di
Sant’Adalberto di Praga (983-997), il più grande
missionario del X sec.
Nacque intorno al 956 dalla famiglia principesca degli Slavinikidi. Fu
molto attivo nella sua patria a Praga, ma gli insuccessi pastorali e le
ostilità del duca Boleslao della famiglia dei Premislidi, rivali
di quella degli Slavinikidi, spinsero ripetutamente
Sant’Adalberto a lasciare la propria sede episcopale per condurre
vita monastica a S.Alessio di Roma. Lo sterminio della sua famiglia e
il rifiuto del duca Boleslao di riaccoglierlo, lo spinse
all’evangelizzazione dei pagani Prussiani sulle rive del Baltico,
dopo essersi impegnato come evangelizzatore presso la corte di
Ungheria. Subì il martirio il 23 aprile 997 e venne canonizzato
da Silvestro II nel 999. La sua tomba divenne meta di pellegrinaggio
dell’imperatore Ottone III, che conobbe a Roma, e punto di
riferimento della Polonia che lo consacrò proprio patrono.
LA CHIESA PAPALE NEL PIENO MEDIOEVO
PREMESSA
Nel corso del XII secolo le singole chiese nobiliari, monastiche,
vescovili si amalgamarono attorno alla guida del papa, così che,
lentamente, con l'aiuto anche dei canonisti, legati al papato, che
formularono sempre più precisamente l'identità giuridica
della Chiesa e le sue funzioni, si delineò il principio della
libertà e dell'autonomia della Chiesa, che portò alla
rivendicazione della guida del papato all'interno della Chiesa.
Competeva, dunque, al papa assolvere le questioni della Chiesa, la
quale, comunque, poteva delegare l'esecuzione all'autorità
temporale.
Significativa in tal senso fu la riforma Gregorio VII (1073-1085) che
con il suo "Dictatus papae" (1075) darà una forte spinta alla
supremazia papale su quella imperiale, che troverà la sua
massima espressione in Innocenzo III (1198-1216) al punto tale che le
parti si capovolsero, passando da una teocrazia imperiale ad una
ierocrazia papale.
Prima tuttavia, era necessario per la Chiesa compiere al proprio
interno una radicale pulizia e mettere fine a gravi disordini morali
che intaccavano alla radice qualsiasi tentativo di riforma: il
nicolaismo e la simonia.
NICOLAISMO, SIMONIA E REGIME TEOCRATICO DEI SOVRANI
Intorno alla metà dell’XI secolo vennero presi di mira due
vizi che imperversavano nella Chiesa e, in particolar modo, nel clero:
il Nicolaismo e la Simonia che si muovevano in un orizzonte teocratico
dei sovrani e da questi favorito.
Erano una mentalità ed un atteggiamento sbagliati che si erano
venuti a formare all’interno della Chiesa per l’eccessivo
invischiamento terreno della Chiesa stessa.
Quanto al nicolaismo, questo è un’eresia di cui si parla
solo nell’Apocalisse (Ap.2,6.15) e di cui non conosciamo quasi
nulla se non che ha tendenze gnostiche e libertine e con cui si
designava anche il concubinato nel Clero a cui era stato fatto obbligo
di celibato nel VI secolo.
Quanto alla simonia, derivante dall’episodio di Simon Mago
(At.8,18-24), si intende la compravendita e la mercificazione di cose e
uffici sacri.
Gregorio Magno (590-604) ne distinse tre tipi: “munus a
manu”, cioè le bustarelle; “munus a lingua”,
cioè le raccomandazioni; e il “munus ab ossequio”,
consistente in servizi resi o da rendere.
Questi comportamenti deviati degradavano la figura morale della Chiesa
e contro i quali si levarono dei movimenti di protesta
all’interno della Chiesa stessa (tra i vari vescovi che vi si
opposero vi fu anche Raterio, vescovo di Verona tra il 931-968).
Si trattava di creare una nuova coscienza morale più sensibile ai valori dello spirito.
Molto vicina alla simonia fu la teocrazia dei sovrani dell’epoca
(XI sec.) i quali si arrogarono il diritto di elezione dei vescovi,
abati e di altre cariche ecclesiastiche a cui legavano un beneficio
terriero.
La questione dell’investitura ecclesiastica, reclamata di diritto
dal sovrano o da un signore, si radicava nel diritto istituzionale
dell’epoca per cui la chiesa, il monastero, la parrocchia che
risiedevano su di un terreno privato era di proprietà del
possidente il quale godeva dei benefici degli stessi ed esercitava
l’autorità su questi. Pertanto l’elezione dei
vescovi o di altre cariche ecclesiastiche passavano solo con il
consenso del re o del signore.
Alla elezione seguivano due atti: l’investitura, con
l’omaggio, e la consacrazione. Ben presto si arrivò ad
identificare le due cose per cui legato all’omaggio vi era
connesso anche l’ufficio; così che chi riceveva
l’omaggio doveva anche svolgere l’ufficio proprio legato a
quell’omaggio.
Il tutto rientrava nella concezione giuridica e istituzionale della feudalità e del vassallaggio.
La feudalità era composta da due elementi: il beneficio feudale
e il vassallaggio, cioè dall’atto di fedeltà che
legava il vassallo al suo signore.
Tale stato di cose cessò con la riforma gregoriana (Gregorio
VII, 1073-1085) che pose un distinguo tra le “regalia” e le
“spiritualia”: le une aspettavano al sovrano, le altre alla
Chiesa.
ENRICO III E IL SINODO DI SUTRI
Con Carlo Magno e gli Ottoni di Germania Impero e Papato erano due
realtà giustapposte, l’una accanto all’altra
nell’ambito della “Ecclesia Universalis” con funzioni
distinte, ma complementari.
Con l’avvento del giovanissimo imperatore Ottone III nasce
l’idea della “Renovatio Imperii Romanorum” in chiave
cristiana: voleva costituire una federazione di nazioni uguali e
indipendenti con capitale Roma. Il suo sogno, però, finì
con la sua morte, dopo essere stato cacciato da Roma da una sommossa
popolare.
Nel frattempo sulla sede papale si susseguirono una serie di papi
simoniaci e scandalosi finché non intervenne Enrico III,
ispirato ad alte idealità religiose e riformatore convinto della
Chiesa. Questi riprese il controllo della gerarchia ecclesiastica e
impose di accettare come pontefice il candidato designato
dall’imperatore.
Si avrà, così, con Enrico III il trionfo dell’
Imperium sul Sacerdotium, ma anche un ricostituito ordine
all’interno della Chiesa, il cui papato venne sottratto alle
continue lotte delle famiglie nobili romane.
In tal senso, il 20 dicembre 1046, Enrico III indice a Sutri un sinodo,
l’apice della riforma imperiale della Chiesa, in cui depone due
papi tra loro rivali, Silvestro III e Gregorio VI, nonché, in un
secondo sinodo tenuto a Roma tre giorni dopo, Benedetto IX, e ne elesse
un quarto Clemente II.
Si sta ormai profilando all’orizzonte la grande riforma
gregoriana, precorsa un profondo rinnovamento spirituale
all’interno della Chiesa, irradiatosi dall’abbazia di
Cluny, monastero fondato nel 910 e sottomesso direttamente al papa,
sottraendolo, quindi, ai poteri locali.
Cluny riattivò la regola di S.Benedetto, ebbe 300 monaci e quasi
duemila monasteri da lui dipendenti in tutta la Cristianità e fu
fermento spirituale di una ritrovata e rinnovata spiritualità
cristiana che coinvolse tutto l’Occidente in cui costituì
il giusto clima per un rinnovamento spirituale e morale che
sancì il successo della grandiosa riforma di Gregorio VII
(1073-1085).
LA RIFORMA GREGORIANA
L'eccessiva sudditanza della Chiesa all'Impero, che la privava della
sua vera identità e le impediva di svolgere la propria missione,
che le era da sempre connaturale, provocò al suo interno un
movimento di riscossa che si concretizzò con la riforma di
Gregorio VII (1073-1085) la cui finalità era quella di
restituire alla Chiesa la sua vera identità spirituale
attraverso l'affermazione della propria autonomia: la "LIbertas
Ecclesiae".
Si trattava, inoltre, di moralizzare il clero e di rinnovare
spiritualmente la Chiesa. In tal senso una svolta sul piano
critico-sistematico fu apportato dal cardinale Umberto da Silvacandida
che impostò un rifiuto del sistema di "chiese proprie" e "chiese
del re".
Del nicolaismo, simonia e teocrazia imperiale, che avevano portato la
Chiesa alla perdita di autonomia e ad un alto degrado morale e
spirituale, se ne occupò la riforma gregoriana, che idealmente
potremmo suddividere in quattro fasi.
La prima fase (1046-1057) partì come riforma morale dei costumi
all’interno della Chiesa, contro il nicolaismo e la simonia, con
l’appoggio di Enrico III che già con il suo sinodo di
Sutri incominciò a mettere ordine nel papato, presupposto per un
riordino generale della Chiesa stessa.
Questi nominò in successione quattro papi tedeschi, che si
mostrarono degni e zelanti, tra i quali va ricordato Leone IX
(1049-1054) che promosse con grande energia e determinazione la riforma.
La seconda fase (1057-1073) si ebbe quando con Umberto da Silvacandida
ed altri riformatori si comprese che la riforma sarebbe stata inutile
se non fossero state abbattute le istituzioni proprie del Medioevo: la
compravendita di chiese, beni sacri e investiture.
Il primo passo si compì nel 1059 con un sinodo romano che
proibì ogni investitura ecclesiastica da parte del laicato e
stabilì i criteri della elezione papale, affidata ad un collegio
cardinalizio.
Sempre in tale data la Chiesa firmò la pace con i Normanni, che
divennero vassalli della Chiesa stessa e si impegnarono a difenderla e
ad appoggiare la riforma in atto.
La terza fase (1073-1085) si ebbe con l’avvento di Gregorio VII,
un papa energico e illuminato, appassionato servitore della Chiesa, che
in modo radicale e determinato, pose fine ai mali dell’epoca,
vietando ogni investitura laica e già nel 1075, con il suo
“Dictatus papae” delineò in 27 articoli la nuova
figura del papato.
La cosa non fu gradita ad Enrico IV, un sovrano tedesco che procedeva
in modo simoniaco nella distribuzione dei vescovadi, il quale non
poteva rinunciare ad intervenire nelle elezioni dei vescovi che
costituivano la base della sua potenza; e, del resto, essendo egli
consacrato, portava in sé una dignità sacra che gli dava
diritto di intervento.
Gregorio VII, con il determinismo che lo caratterizzava, lo
scomunicò e sciolse i sudditi dal vincolo di fedeltà e
proibì loro di ubbidirgli con decreto del 1076.
Al decreto Enrico IV rispose con il sinodo di Worms, a cui
parteciparono 26 vescovi tedeschi, e dichiarò decaduto il papa.
Ma gli si opposero i principi tedeschi, per cui ad Enrico IV, rimasto
solo, non restò che compiere in tutta fretta e umiltà il
pellegrinaggio al castello di Canossa dove, penitente, chiese perdono
al papa che glielo accordò.
La riconciliazione, tuttavia, durò poco per cui, scomunicato una
seconda volta nel 1080, tornò in Italia, depose Gregorio VII e
nominò papa Clemente III, che regnò dal 1080 al 1100,
mentre Gregorio VII mori in esilio nel 1085.
La quarta fase (1085-1124) ebbe inizio con la morte di Gregorio VII. La
lotta contro il nicolaismo, la simonia e la teocrazia imperiale ebbe
finalmente termine dopo un lungo periodo, iniziato a Sutri nel 1046 e
terminato con il concordato di Worms il 23 settembre del 1122, uno
scambio di lettere e di reciproche concessioni tra papa Callisto II
(1119-1124) ed Enrico V (1106-1125).
La Chiesa, finalmente, dopo otto secoli, recuperava la sua originaria
autonomia, persa da Costantino (313) fino ad Enrico V (1122).
Il Concordato prevedeva la libera elezione dei vescovi da parte del
clero e la rinuncia dell’Imperatore all’investitura con
anello e pastorale; il conferimento dei feudi ai vescovi eletti da
parte dell’imperatore con la consegna dello scettro e, infine, il
giuramento dei vescovi come feudatari.
Con il concordato di Worms termina la teocrazia imperiale, ma nasce la
ierocrazia ecclesiale, già delineata nel “Dictatus
papae” (1075) di Gregorio VII e che troverà la sua
massima espressione in Innocenzo III (1198-1216): il papa imperatore.
Le sorti si sono rovesciate.
LA BASE TEOLOGICO-GIURIDICA DELLA RIFORMA
La Chiesa non si limitò a pretendere la propria autonomia e ad
affermare la propria identità spirituale, ma dette una base
teologica alla sua giusta pretesa.
La Chiesa venne considerata l'opera di Dio sulla terra, fondata da
Cristo e affidata al Clero e non ai re. Nei vescovi si prolunga
l'unione di Cristo con la sua Chiesa: l'anello simboleggia tale unione,
mentre il pastorale esprime la missione spirituale della Chiesa.
Venne, pertanto, evidenziato il carattere spirituale della missione e
affermata l'investitura come atto ecclesiale. La guida della Chiesa da
parte del re venne considerata un atto di arroganza e di sovvertimento
dell'ordine divino.
Si doveva, dunque, porre fine all'asservimento della Chiesa, di cui
simonia e nicolaismo erano chiaro segno e diretta conseguenza. Si
bollò, pertanto, l'intervento laico alle elezioni come simonia e
si riattivò la vita sinodale all'interno della Chiesa,
espressione questa di vita propria e momento importante di
autoriflessione e autodeterminazione.
IL PAPA RIVENDICA LA FUNZIONE DI GUIDA
Il concetto di "libertas ecclesiae" non era disgiunto dal principio
petrino-apostolico, cioè dal papato come funzione primaria di
guida all'interno della Chiesa.
Tale principio fu messo in evidenza già dal IV sec. con passi
scritturistici nella rivalità tra i patriarcati di Roma e
Costantinopoli. Esso fu ancor più evidenziato da papa Gelasio
nel suo contrapporre l' "auctoritas sacrata pontificum" alla "potestas
regalis", individuando nella teoria delle due spade la presenza di due
poteri. Una teoria questa che si prolungò fino al medioevo
inoltrato.
Pur di difendere tale principio si fecero autentiche "carte false" non
risparmiando alterazioni di testi autentici, inserzioni di fantasia,
tagli di testi non favorevoli. Un esempio di ciò furono le
"Decretali pseuoisidoriane", una raccolta di lettere papali e decreti
conciliari che vanno dal I sec. all'VIII sec. Esse sono sorte nel IX
sec. ad opera di Isidoro Mercatore, che nel Medioevo fu identificato in
Isidoro di Siviglia (636).
Fondamentale per la supremazia del papato, quasi una "cartha magna", fu
il "Dictatus papae" (1075) di Gregorio VII, un enunciato di ventisette
tesi che delineava la nuova identità della Chiesa, affermandone
massimamente l'autonomia e la supremazia, delineando i nuovi rapporti i
nuovi rapporti Chiesa-Impero.
PERCHÉ LA LOTTA PER LE INVESTITURE?
La lotta per le investiture nasceva da due diverse idee contrapposte: quella imperiale e quella ecclesiastica.
Con Costantino (313) la Chiesa venne elevata alla massima
dignità sociale e imperiale, ma fu anche, nel contempo,
incorporata nella struttura amministrativa e giuridica
dell’impero di cui, da Carlo Magno in poi, fu parte integrante,
realizzando il sogno agostiniano del “Regnum Dei” sulla
terra. Ma con questa integrazione la Chiesa rimase succube
dell’imperatore e ciò si realizzò, in particolar
modo, sotto gli Ottoni e gli Enrico tedeschi in mano ai quali era
diventata uno strumento e una base importante del potere imperiale. In
tal modo la Chiesa, però, serviva l’imperatore tradendo la
sua primaria e intima vocazione e missione che le provenivano da Dio.
La sua figura morale, inoltre, si era notevolmente degradata con le
lotte per la corsa la papato, con la simonia e il nicolaismo, il tutto
contorniato dalla teocrazia imperiale, favorita da questa insostenibile
situazione.
Scalzare la situazione, ormai istituzionalizzata dal diritto e di
fatto, era estremamente difficile anche perché doveva prima
cambiare il clima spirituale e morale che informava le coscienze e la
cultura dell’epoca.
Una decisiva spinta venne dalla fondazione dell’abbazia di Cluny
(910) che si diramò in tutta Europa con oltre duemila monasteri
alle dirette dipendenze dell’abate di Cluny e, quindi, del papa,
venendo così sottratta al potere imperiale.
L’aspetto più evidente della subordinazione della Chiesa
all’Impero furono le investiture ecclesiastiche, sottratte al
potere della Chiesa a favore dell’Imperatore, secondo le sue
esigenze.
Lo scontro su questa delicata e vitale questione sia per la Chiesa che
per l’Impero ebbe la sua punta massima tra Enrico IV e Gregorio
VII (1073-1085) che nel suo “Dictatus papae” delineava non
solo il futuro e nuovo papato, indipendente dall’imperatore, ma
rovesciava le posizioni, passando così da una teocrazia
imperiale ad una marcata ierocrazia ecclesiale.
Infatti il canone XII recita: “A lui (cioè al papa)
è concesso deporre l’imperatore”; e ancora, il
canone XXVII: “Egli (il papa) in caso di delitto, può
dispensare i sudditi dal giuramento di fedeltà”.
Pertanto, poste le basi teologiche e giuridiche della separazione tra
Chiesa e Impero, si trattava, ora, di passare alla pratica.
L'occasione venne quando Enrico IV nominò alcuni vescovi.
Gregorio VII si rifiutò di riconoscere le nomine. L'imperatore
gli rispose deponendolo con il concilio di Worms (1076) a cui il papa
fece seguire la scomunica, costringendo Enrico IV a penitenza presso
Canossa.
Con tale atto di apparente sottomissione al papa, Enrico IV ottenne la
riabilitazione a imperatore e si mostrò davanti a tutti un "rex
iustus". Pertanto, l'apparente sconfitta si tramutò in una
vittoria politica che ringalluzzì Enrico IV che, nuovamente
scomunicato, fece questa volta, riuscendovi, deporre Gregorio VII che
morì in esilio nel 1085.
Ma per Enrico IV fu solo un'apparente vittoria. Infatti, la fronda
riformista della Chiesa non si dette per vinta e il nuovo papa eletto
dall'imperatore, Clemente III (1084), non venne riconosciuto e in sua
vece fu eletto Urbano II, dopo un brevissimo pontificato di Vittore III.
Con Urbano II riprese la riforma gregoriana, mentre Enrico IV veniva
deposto dal figlio dal figlio Enrico V. Questi concluse un patto con
Pasquale II: l'imperatore rinunciava all'elezione, i vescovi al
patrimonio. L'accordo, però, fallì per la forte
opposizione dei vescovi, che in tal modo si videro ridotti sul lastrico.
L'accordo, invece, ebbe successo con il concordato di Worms (23.9.1122)
tra Callisto II ed Enrico V: al papa aspettava la nomina,
all'imperatore competevano le regalie.
Il concordato fu importante perché sanciva la separazione dei
poteri e delle competenze, ma fu anche un compromesso poiché con
le regalie imperiali il vescovo rimaneva legato all'imperatore con un
giuramento di fedeltà.
Ma i tempi erano ormai maturi, e già con Francia e Inghilterra
la Chiesa concluse dei concordati con cui questi regni rinunciavano
alle investiture ecclesiastiche sostituite con un giuramento di
fedeltà.
Più difficile fu la questione con la Germania perché
all’investitura erano legati veri e propri diritti di
sovranità che non potevano, tout-court, passare al patrimonio
della Chiesa. Tutta la vicenda, comunque, si chiuse, come sopra
accennato, con il Concordato di Worms (1122) tra Callisto II ed Enrico
V.
Con questo atto un consolidato diritto imperiale si conformava alla
ormai cresciuta autorità e diritto della Chiesa. Il Concordato,
poi, fu sancito dalla dieta di Bomberga e dal concilio Lateranense I
nel 1123.
EFFETTI DEL CONCORDATO DI WORMS SULLA “ECCLESIA UNIVERSALIS”
Con il concordato di Worms si riconobbe alla Chiesa la competenza
diretta nella elezione delle cariche ecclesiastiche. Questo
portò, all’interno della Chiesa stessa, il concentrarsi
del Clero e della Cristianità attorno al papa che divenne il
polo catalizzatore della Cristianità occidentale.
Ma benché la Chiesa avesse assunto una maggiore autonomia e
compattezza al proprio interno, tuttavia non si era ancora giunti in
Occidente ad una netta distinzione sul piano ontologico tra Stato e
Chiesa, ma si persisteva ancora nell’unità tra
Sacerdozio e Regno. In questo quadro complesso, i sovrani, ormai
destituiti di ogni potere nell’ambito ecclesiastico, furono
relegati al rango di “Laici” e, in quanto tali, soggetti
alla sovranità della Chiesa.
Si andava, così, delineando la funzione spirituale della Chiesa
in tutta la Cristianità, trasformandosi in una Chiesa universale
in cui il Sacerdozio diventava la guida dell’Occidente cristiano.
Si stavano, dunque, rovesciando le parti: si passa da una teocrazia
imperiale ad una ierocrazia ecclesiale. La Chiesa si veniva a trovare,
pertanto, in una strana situazione: una ritrovata unità interna
stretta attorno al papato; e una divisione sempre più ampia in
due ambiti, quello del diritto ecclesiastico e quello statale.
In questi secoli XII e XIII si accrescerà sempre più la
distinzione tra Sacerdozio e Regno, mentre la Cristianità si
compatterà sempre più attorno al papa, che acquisisce in
questo periodo maggiori competenze sia in campo ecclesiale che
temporale.
In questo tempo il papa rappresenta l’unità
dell’intero Occidente, basato su di un’unica fede e
un’unica cultura cristiana.
All’interno della sfera temporale vanno delineandosi due
concezioni: quella della “potestas directa in
temporalibus”, che prevedeva l’intervento diretto del papa
nella gestione delle cose terrene; e quella della “potestas
indirecta in temporalibus”, che prevedeva l’intervento
diretto del papa nelle cose terrene là dove vi erano delle
questioni ecclesiali, ma che avevano riflessi anche in campo sociale,
se il Regno non fosse intervenuto.
Questa dottrina dell’ “intervento indiretto”
caratterizzerà la politica di questi due secoli (XII e XIII). Si
scontravano, così, le due concezioni: quella ierocratica, che
prevedeva l’intervento papale nelle cose terrene; e quella
secondo la quale il Regno aveva una sua autonomia.
COMPETENZE DEL PAPATO DOPO IL CONCORDATO DI WORMS
Dopo la riforma gregoriana l’asse teocratico imperiale si
spostò su quello ierocratico ecclesiale. Ora le competenze del
papato, divenuto guida della Cristianità, non riguardavano solo
l’ambito ecclesiastico-temporale, ma anche quello temporale.
Nell’ambito ecclesiale il papa era il vertice del sacerdozio e il
principio visibile dell’unità della Cristianità.
Nell’ambito temporale il papa, quale vicario di Cristo, rivestiva
nei secoli XII e XIII un’uguale importanza. Il papa, infatti,
regnava come sovrano sullo Stato della Chiesa e nei confronti degli
Stati feudali vassalli; gli spettava il conferimento della corona
imperiale e, infine, godeva di un’ampia facoltà di comando
nei confronti di ogni potere terreno.
In buona sostanza, il temporale risultava sottomesso allo spirituale,
mentre al temporale spettava la difesa della Chiesa e la preservazione
della giustizia. In altri termini, lo Stato doveva figurare come il
braccio secolare della Chiesa, sia pur nell’autonomia delle parti.
Non si trattava, comunque, di una prevaricazione di un potere su di un
altro, bensì di un ordine di precedenze. Tale rapporto era
espresso in immagini di “anima e corpo”, si “sole e
luna”. In tal senso Crociate e Lotta agli eretici
costituivano due aspetti complementari del nuovo rapporto tra Stato e
Chiesa, dopo la riforma gregoriana e il Concordato di Worms.
IL PAPATO DOPO IL CONCORDATO DI WORMS
Con il Concordato di Worms (1122) si cercò di risolvere il
problema delle investiture, promovendo l’idea di una duplice
investitura: al Re spettava l’investitura temporale, legata ai
beni e diritti secolari, simboleggiati nella consegna dello scettro;
mentre alla Chiesa spettava l’elezione e la nomina con la
consegna dell’anello e del pastorale. Inoltre,
l’investitura era conseguente alla nomina ecclesiale.
Il Concordato di Worms risolse il contrasto delle investiture, ma non
quello del rapporto tra i due poteri. La Chiesa mantenne la sua
struttura feudale per tutto il Medioevo, mentre la riforma gregoriana
equiparò, dapprima, i due poteri, temporale e spirituale, ma ben
presto sancì la superiorità dello spirituale sul
temporale. Tale superiorità fu schematizzata nel marzo del 1075
nel “Dictatus papae” e, appoggiandosi sulla “Donatio
constantini”, all’epoca ritenuta autentica,
rivendicò al papato il dominio del mondo.
Da questo momento in poi, tale concezione di potere dominerà il
conflitto tra Stato e Chiesa troverà il suo apice in Innocenzo
III (1198-1216). Significativo in tal senso fu il conflitto tra
Federico Barbarossa e Alessandro III (1159-1181). L’imperatore
volle ripristinare la supremazia imperiale sulla Chiesa, portando ad un
sanguinoso scontro tra Imperium e Sacerdotium, durato ben
vent’anni e che causò molti lutti e lacerazioni nella
Cristianità. La lotta si concluse con la pace di Venezia nel
1177.
Due anni dopo, con il concilio Lateranense III (1179) si stabilì
per l’elezione papale la norma dei 2/3 della maggioranza del
collegio cardinalizio.
Ma che cosa sta alla base di questa lotta tra poteri? Alla base di tutto ci sta una duplice idea:
- Cristo è il Signore di tutta la Cristianità;
- mentre da Lc. 22,38 (“Ecco, Signore, due
spade”) si deduceva l’esistenza di due poteri simboleggiati
da due spade che Cristo aveva destinato a governare il mondo: una
spada, potere temporale, era impugnata dall’Imperatore;
l’altra, quella spirituale, era tenuta dal papa.
Sennonché, teologi e canonisti gregoriani interpretarono in
termini diversi la “teoria delle due spade”: entrambe
appartenevano alla Chiesa; quella spirituale era nelle mani della
Chiesa e si esprimeva attraverso la scomunica, mentre quella temporale
era concessa all’imperatore affinché la usasse nel nome
della Chiesa.
Sarà con Innocenzo III (1198-1216) che si avrà la massima
espressione di questo potere spirituale e temporale della Chiesa.
CONSOLIDAMENTO ISTITUZIONALE E SUO RICONOSCIMENTO
Con la riforma gregoriana (1073-1085) e il successivo concordato di
Worms (1122), il papato aveva ottenuto una notevole spinta
autonomistica al proprio interno, liberandosi, per quanto riguardava la
propria gestione interna, dal giogo imperiale.
La chiesa, pertanto, si consolidò internamente organizzandosi in
un efficiente apparato burocratico al cui vertice stava il collegio
cardinalizio che condivideva le responsabilità e le decisioni
papali, stemperandone il potere assoluto. Esso si considerava "pars
corporis Papae".
Tra tutti i papi di questa chiesa ormai liberata, giganteggiò la
figura di Innocenzo III (1198-1216) che portò al massimo potere
e splendore il papato del Medioevo, realizzando il grande sogno di
Gregorio VII: porre la chiesa e il papato al vertice della
cristianità occidentale e del potere spirituale e politico.
Fu questo però il sogno di un momento a motivo della modesta
levatura dei suoi successori e per la reazione di Federico II che
respingeva un simile concetto di chiesa.
L’APOGEO DEL PAPATO: INNOCENZO III
Quella che fu, quindi, la massima aspirazione di Gregorio VII
(1073-1085), affidata al suo “Dictatus papae” (1075), si
materializzò con Innocenzo III, il più potente papa di
tutto il Medioevo.
Con lui il papato consolidò il suo primato in tutta la Chiesa
occidentale e la sua autorità, non solo morale, su tutti gli
stati europei.
Con Innocenzo III si realizzò il concetto agostiniano della
“Civitas Dei”, rafforzato dalla “Donatio
Constantini”, ritenuta, all’epoca, autentica.
La Chiesa, allora, apparve come il vero “Imperium romanum”
e che al papato spettasse il potere assoluto sul mondo. Il papa
divenne, dunque, il “Caput Christianitatis” composta da
molti popoli, ma tutti uniti nell’unica fede.
Quella di Innocenzo III è la figura di un uomo interiormente
ricco e profondamente religioso, dedito ad una vera ascesi,
restò sempre un pastore e sacerdote.
Lotario, della casa dei conti Signi, nacque nel 1160. Compiuti gli
studi di teologia e diritto canonico a Parigi e a Bologna, fu accolto
nel collegio cardinalizio dallo zio Clemente III.
Benché di piccola statura e di salute precaria, fu un uomo di
vasta cultura che si accompagnava ad una eccezionale forza morale e di
acume. Ebbe un grande animo aperto a tutti i problemi. Se intervenne
nelle questioni temporali, fu solo per salvaguardale l’autonomia
della Chiesa e che diventasse un feudo imperiale alle sudditanze
dell’imperatore.
Egli non rivendicava a sé l’elezione
dell’imperatore, ma si riservava di esprimere il suo parere sulle
qualità morali dello stesso.
Ai suoi occhi le cose di questo mondo dovevano sottomettersi
all’ordine voluto da Dio; pertanto, anche sovrani e principi
erano tenuti a piegarsi a Dio. Il mondo, dunque, gli appariva come una
grande gerarchia rappresentata dalla Cristianità al cui vertice
c’era il papa, in una posizione intermedia tra Dio e
l’uomo. Giudica su tutti, ma non giudicabile da nessuno se non da
Dio.
Intuì l’importanza degli ordini mendicanti
all’interno della Chiesa e approvò quello di S.Francesco.
Egli, infatti, comprese che proprio da questi ordini sarebbe giunto il
rinnovamento della Chiesa, eccessivamente invischiata e soffocata dalla
temporalità.
Egli ebbe in comune con loro il distacco interiore dalla ricchezza e dal fasto, da cui si astenne sempre.
Tutto il suo operato si può raggruppare in quattro grandi aree:
- Aspetti politici: mise ordine a Roma e nello Stato
pontificio, difendendolo dalle minacce espansionistiche e dalle pretese
imperiali
- Organizzò la IV Crociata e tentò la riunificazione con la Chiesa d’Oriente.
- Lottò contro i movimenti eretici dei Catari e Valdesi.
- Riformò con Il Concilio Lateranense IV nel
suo capo e nelle sue membra. Tale Concilio fu la sintesi di tutta la
sua attività di riforma e l’apogeo del suo papato. Un
Concilio grandioso, composto da 500 vescovi e 800 abati, e fu il
più importante di tutto il Medioevo.
I temi più importanti furono la riforma della Chiesa; la IV Crociata; lotte alle eresie e moralizzazione del Clero.
INNOCENZO III E LA SFIDA DEGLI SVEVI
Il pontificato di Innocenzo III e con lui tutto il XIII sec. furono
segnati dalla lotta tra il papato e gli Svevi che osteggiarono le sue
pretese, così che la "libertas ecclesiae" ne venne
minacciata e l'impero tentò di ricondurre la situazione ai tempi
degli Ottoni.
Dopo alterne e intricate vicende, Innocenzo III destituì
l'imperatore Ottone IV, che non aveva mantenuto le promesse di una
politica favorevole al papato, e favorì la salita al trono di
Federico II, eletto re di Germania nel 1212.
Ben presto però anche Federico II ritenne la chiesa come un
prolungamento del suo potere relegandola ad un attività
meramente spirituale. Il suo ideale era "potere religioso e politico
nella stessa persona dell'imperatore".
Gregorio IX (1227-2141) volle risolvere la questione con un concilio che Federico II impedì con la forza.
Il suo successore Innocenzo IV (1243-1254) convocò a Lione un
concilio che scomunicava e destituiva Federico II e, con l'aiuto di
Carlo d'Angiò, gli Svevi vennero definitivamente sconfitti e
l'ultimo erede, Corradino di Svevia, venne giustiziato a Napoli.
Ma anche Carlo d'Angiò non si mostrò ben orientato verso il papato.
LA CRISI DEL SISTEMA
La lunga lotta con gli Svevi per tutto il XIII sec. aveva creato
profonde divisioni all'interno dell'Italia, divisa in Guelfi (per il
papato) e Ghibellini (per l'imperatore) ed una frantumazione delle
forze politiche.
Tale situazione si rispecchiava nel collegio cardinalizio in cui si
andava formando una netta prevalenza di cardinali francesi, iniziata
con Urbano V (1362-1370). Una situazione, questa, che mise le basi al
periodo avignonese del papato.
A questa frantumazione politica all'interno del collegio, si aggiunsero
complicazioni date da interessi personali delle famiglie nobili dei
Colonna e degli Orsini attorno a cui si raggruppavano i cardinali.
Il risultato di questa indecente situazione furono difficili elezioni
papali, accompagnate da lunghi periodi di sede vacante.
Nell’ambito di questo quadro si ricorreva spesso ad un escamotage
poco edificante: eleggere un candidato decrepito che garantiva
brevità di pontificato o, in alternativa, uno privo di potere o
casato, cosi da poter manovrare lasciando inalterati gli equilibri.
All’interno di queste logiche venne eletto il monaco eremita
Pietro di Morrone con il nome di Celestino V (1241), tra l'entusiasmo e
l'illusione dei francescani e degli spirituali che vedevano in lui un
ritorno alla chiesa primitiva. Ma egli, dopo pochi mesi di pontificato,
su pressante consiglio di Benedetto Gastoni, abdicò.
Il collegio cardinalizio elesse lo stesso Gastoni che prese il nome di
Bonifacio VIII (1294-1303), un papa di grande levatura culturale,
morale e politica, che seppe imporsi e riordinare la chiesa;
cercò, inoltre, di riappacificare le fazioni in Italia e si
interpose come pacificatore nella lotta tra Francia ed Inghilterra.
Purtroppo entrò in conflitto con Filippo IV e ciò gli
costò il pontificato e l'umiliazione di Anagni.
Con Bonifacio VIII terminano anche le glorie del papato alto medievale.
LA RIVENDICAZIONE DEL PAPATO ALLA GUIDA GERARCHICA
Dopo Gregorio VII, dopo il concordato di Worms e, infine, con Innocenzo
III, la chiesa aveva finalmente acquisito la sua autonomia interna,
liberandosi dal potere imperiale.
Tale autonomia si estendeva anche agli aspetti temporali della chiesa:
• allo stato della chiesa
• agli stati feudo
• al conferimento della corona imperiale
• alla facoltà di dare ordini a chiunque esercitasse un'autorità.
L'imperium papale del Medioevo, pertanto, si esplicitò in questi
quattro aspetti. Ma quali sono i principi e la visione del mondo che
consentirono e giustificarono l'imperium papale?
Si è visto, infatti, come, dalla teocrazia imperiale, che
considerava la chiesa e il suo potere spirituale come un prolungamento
di sé o una diversa esplicitazione di sé, si è
passati ad una ierocrazia papale. Non è qui da intendersi come
la prevaricazione di un potere su un altro, bensì come il
passaggio da un modo di pensare le relazioni e la visione del mondo ad
un altro. Si tratta dunque di un ordine di precedenza nell'ambito di
una creazione che è preordinata alla redenzione operata da
Cristo, che si esplicita nella chiesa la quale ha il suo vertice nel
papa.
Il potere di Cristo non soppiantava quello degli uomini, ma nell'ordine
della salvezza, a cui tutto deve confluire, esso aveva il primato e,
pertanto, non poteva esistere un potere temporale autonomo che invece
era preordinato al servizio e alla difesa della chiesa.
La prevalenza del potere spirituale su quello temporale era motivato
dalla triplice subordinazione, quale conseguenza della visione di una
creazione subordinata alla redenzione:
• ogni potere è al servizio della chiesa e a sua difesa;
• quanto ai sudditi, essi sono subordinati a Cristo e, quindi, al sacerdozio
• ogni potere, per sua fragilità,
è esposto al peccato, per questo necessitano il controllo e la
correzione della chiesa.
LA TEORIA DELLE DUE SPADE
Il rapporto tra potere spirituale e temporale fu descritto con diverse
immagini: corpo-anima, sole-luna, spada spirituale e spada temporale.
Quanto a quest'ultima, tratta da Lc. 22,38, fu la più utilizzata
dai papi, forse perché a base scritturistica. La questione,
tuttavia, va capita bene.
Nell'ambito del "gladius spiritualis" vi erano due livelli: uno
propriamente spirituale, che mirava alla santificazione delle persone;
l'altro, visibile, si esprimeva attraverso il diritto, cioè nel
potere giuridico, coercitivo e punitivo.
A tal punto si poneva la questione: come applicare il diritto ai
violenti che non volevano sottomettersi? Ecco allora il "gladius
temporalis" che possedeva i mezzi materiali coercitivi adatti ad
imporre il diritto e le decisioni ecclesiastiche. Tuttavia, anche qui,
si pongono due livelli di distinzione: il potere temporale propriamente
detto, che apparteneva al re per diritto naturale; e il "gladius
materialis" cioè il potere del diritto ecclesiastico la cui
esecuzione era affidata al "gladius temporalis".
E' importante dunque capire questo intreccio di poteri per comprendere la dinamica attraverso cui si esplicitava l'Inquisizione.
LE CROCIATE
PREMESSA
Dopo la rivendicata "libertas ecclesiae" di Gregorio VII, che ha avuto
il suo apogeo sotto Innocenzo III, il compito di diffondere ed
affermare la fede (negotium fidei) ricadde interamente sulla chiesa che
se ne doveva fare promotrice.
Tra questi aspetti rientravano sia le crociate che le lotte contro gli
eretici. Il tutto si muoveva secondo una logica precisa: il potere
spirituale della Chiesa (gladius spiritualis) esprimeva per mezzo di
bolle e decreti (gladius spiritualis materialis) la necessità di
compiere determinate imprese che venivano affidate al re (gladius
temporalis). Il tutto si muoveva nell'ambito di un ordinamento storico
e sociale percepito come divino, cioè voluto da Dio per fini
salvifici.
FORMAZIONE DELL’IDEA DELLE CROCIATE E LORO MOTIVAZIONE
Il movimento delle crociate per la liberazione dei luoghi santi
dall'Islam poggiava su due elementi fondamentali: uno
religioso-politico, cioè il "pellegrinaggio a Gerusalemme" e la
"libertas ecclesiae". L'altro di ordine operativo: eliminare gli
ostacoli frapposti dai mussulmani ai pellegrini che, in gran numero, si
recavano in Terra Santa.
Le crociate ebbero la loro premessa nelle scorte armate che
accompagnavano i pellegrini, inserendosi, in tal modo, nell'idea di
pellegrinaggio armato.
Esse trovarono, inoltre, il loro fondamento politico nella "Libertas
ecclesiae" della riforma gregoriana: ora, era compito del papa
provvedere alla sicurezza della Chiesa liberandola non solo dagli
eretici, dai simoniaci, nicolaiti, ma anche dagli infedeli che
assediavano Gerusalemme, sentita come un prolungamento della chiesa
stessa.
Le prime crociate, pertanto, furono una sorta di esercizio politico
della nuova "libertas ecclesiae" che configurava la chiesa della
riforma gregoriana
Va detto, inoltre, che la Chiesa di fronte alle guerre assunse sempre
un atteggiamento passivo, ma tra i secoli X e XI essa si vide costretta
a prendere posizione contro le quotidiane disgrazie, angherie, soprusi,
violenze e faide che infestavano l’Occidente cristiano.
In particolare, nella Francia del Sud dove sorsero due movimenti
“pacifisti” : “La Pace di Dio” e “La
Tregua di Dio” che compare al concilio di Elne nel 1027 in cui si
stabilirono dei tempi in cui era fatto divieto di provocare violenze.
Ma lo sforzo pacifista non sortì apprezzabili effetti. Si
incominciò, pertanto, a creare delle misure di sicurezza,
guidate da vescovi e finalizzate a reprimere le violenze e i
trasgressori delle tregue.
Inoltre, al cavaliere veniva affidata la difesa dei deboli, formando, in tal modo, l’idea del cavaliere cristiano.
Nella seconda metà dell’ XI secolo anche il papato
riformatore cercò di influire sull’etica della
nobiltà, assumendo lo strumento della guerra santa.
Il papa che rivelò un accentuato spirito guerriero fu Gregorio
VII, il quale animò la “Militia Sancti Petri” e
incominciò a collegare i pellegrinaggi in Terra Santa con la
libertà della Chiesa.
Tutto ciò fece maturare all’interno della Chiesa
l’idea della Guerra Santa, cioè di una guerra spesa ai
fini religiosi e per gli interessi della Chiesa e della
Cristianità e che prevedeva l’uso meritorio delle armi e
della violenza se usata per fini giusti.
Pertanto, la. guerra in difesa della chiesa e il pellegrinaggio a
Gerusalemme erano entrambi opere meritorie per il perdono dei
peccati.
Da questo insieme di sacralizzazione della guerra derivò che la
sua competenza era del clero. Spettava, dunque, al papa stabilire
quando le guerre fossero "giuste", nel quale caso egli concedeva
l'indulgenza e la remissione dei peccati, giustificando inoltre i
partecipanti per le violenze in essa compiute.
Per comprendere bene il fenomeno delle Crociate, inoltre, bisogna
tenere presente il clima spirituale della “Christianitas”
creato in Occidente dalla riforma gregoriana. Solo in seno ad una
Cristianità animata da un forte ideale religioso e di fede
potevano crearsi quelle condizioni psicologiche, morali e spirituali
che permisero le Crociate.
L’idea di crociata si ricollega all’idea dei pellegrinaggi
alla Terra Santa, quasi un ritorno alla culla della fede e del
cristianesimo.
Le Crociate hanno una base essenzialmente religiosa e furono concepite
come azioni militari per rendere sicuri il cammino e la permanenza
cristiana nei luoghi santi. Non va dimenticato, infine, il clima
storico che si andava formando: Roma guardava con preoccupazione la
situazione dell’Oriente dopo la sconfitta bizantina a Marikert
nel 1071 e la conquista turca di Gerusalemme e Damasco nel 1076. Cosa
sarebbe, dunque, successo all’Occidente e alla Cristianità
se l’impero romano d’Oriente fosso crollato?
Un altro aspetto che concorse alla formazione delle crociate fu la
cavalleria. Questa, dopo la dissoluzione dell’impero carolingio,
divenne sinonimo di rapina, saccheggio e sopraffazione. Fu la paziente
opera educatrice della Chiesa che incanalò queste deviate
energie negli alti ideali di protezione dei deboli e delle donne.
Infine, il cavaliere, mediante una consacrazione liturgica, assunse la
configurazione di cavaliere cristiano, una sorta di militare religioso.
Nella cavalleria incominciò a confluire la nobiltà.
Incominciarono a sorgere ordini cavallereschi a cui il papa si
appellerà per la difesa della Cristianità e del Santo
Sepolcro.
LE CROCIATE: ASPETTI STORICI
È indubbio che gli ideali che mossero le Crociate furono essenzialmente cristiani e missionari.
Ciò che decise il papa e la Cristianità occidentale a
creare questi movimenti militari di conquista e liberazione fu la
preoccupante situazione venutasi a creare in Oriente: la conquista di
Gerusalemme da parte dei Turchi (1071) e le continue lagnanze dei
pellegrini per le continue angherie subite da Turchi stessi.
Inoltre, le armate dell’Islam premevano su Costantinopoli tanto
che l’Imperatore Alessio I chiese aiuto all’Occidente.
Urbano II non rimase insensibile e, nei sinodi di Piacenza e
Clérmont, rivolse un appassionato appello alla
Cristianità che, all’unanime grido di “Deus lo
volt”, si mosse in soccorso dell’Oriente bizantino e in
liberazione dei luoghi santi.
Toccò al papa guidare questo vasto movimento, considerato che sia Enrico IV che Filippo I erano scomunicati.
Tutto ciò solo dopo 50 anni dal sinodo di Sutri (1046) che,
grazie ad Enrico III, salvò il papato e lo incamminò
verso al grandezza universale.
1° Crociata (1096 – 1099)
Il magistrale discorso di Urbano II al sinodo di Clérmont,
diffuso da zelanti predicatori in tutta Europa, infiammò gli
animi: la risposta popolare fu straripante.
La Crociata fu preceduta da un’enorme folla di contadini e
popolani guidati da Pietro l’Eremita. Gente fanatica e senza
disciplina si abbandonava, nella loro esaltazione, a sanguinosi
massacri di ebrei; si resero, inoltre, colpevoli di saccheggi, rapine e
violenze verso le popolazioni indigene che incontravano sul loro
cammino. Essi furono completamente sbaragliati dai Turchi al primo
scontro.
Il grosso dell’esercito, diviso in quattro corpi, confluì
a Costantinopoli nel 1097 e nel luglio 1099 conquistarono Gerusalemme,
abbandonandosi ad un vergognoso saccheggio e ad incredibili stragi
della popolazione.
L’esito di questa prima Crociata fu la fondazione del Regno
cristiano di Gerusalemme, istituito sul modello feudale con piccoli
principati.
2° Crociata (1147 – 1149)
Fu bandita per soccorrere i cristiani d’Oriente contro i Turchi, che si erano impadroniti di Emessa (1144).
Sotto l’infiammata predicazione di Bernardo di Chiaravalle, si
ricompattarono gli eserciti di Francia e Germania, ma subirono delle
forti perdite e ritornarono indietro sconfitti e delusi, lasciando
isolato e debole il Regno di Gerusalemme che il potente Saladino
conquistò nel 1187.
Fu questa la premessa alla terza Crociata.
3° Crociata (1189 – 1192)
Alla conquista di Gerusalemme da parte di Saladino rispose questa terza
Crociata, ben organizzata e che ad Iconio ottenne una brillante
vittoria. Ma la morte improvvisa dell’imperatore Federico
Barbarossa privò la spedizione della sua guida e non
conseguì altri successi. Tuttavia riuscì a stipulare un
armistizio, grazie al quale, i cristiani potevano entrare in
Gerusalemme.
4° Crociata (1202 – 1204)
La morte di Saladino (1192) incoraggerà l’Occidente ad
un’altra crociata, promossa da Innocenzo III. Purtroppo la
spedizione, finanziata da Venezia che aveva mire espansionistiche e
commerciali in Oriente, deviò su Costantinopoli dove, dopo un
orrendo massacro, che approfondì la spaccatura tra Oriente ed
Occidente, si fondò l’Impero latino, suscitando amarezza e
sdegno in tutto l’Occidente.
Questa Crociata fu una tragedia sotto il profilo religioso e politico
tant’è che si dubitò dell’opportunità
di proseguire queste “spedizioni cristiane”.
Cominciò, allora, farsi strada l’idea che Dio preferisse
servirsi di vergini indifese e di fanciulli, piuttosto che di guerrieri.
Sull’onda di quest’idea si ebbe la cosiddetta
“Crociata dei fanciulli” (1212), composta da ragazzi
provenienti da Francia e Germania, ma naufragò miseramente.
5° Crociata (1217 – 1221)
Fu questa un’impresa privata di Federico II, peraltro
scomunicato, e fu un sostanziale fallimento. Presero Damietta in Egitto
con l’idea di barattarla con Gerusalemme; invece vi rimasero
bloccati e dovettero ritirarsi precipitosamente per potersi salvare.
Francesco, proprio qui a Damietta nel 1219, tenterà, ma inutilmente la conversione del sultano Al Kamil.
6° Crociata (1228 – 1229)
Fu l’unica, dopo la prima, che ottenne dei risultati positivi.
Guidata da Federico II, mediante trattative con il sultano Al Kamil,
ottenne Gerusalemme, Nazaret e Betlemme e un armistizio di 10 anni. La
Cristianità stimò il fatto empio, ma Gerusalemme rimase
ai cristiani fino al 1244.
7° Crociata (1249 – 1254)
Luigi IX si assunse il compito di liberare la Terra Santa, ma dopo la
conquista di Damietta il re rimase prigioniero e ritornò in
patri dopo quattro anni di prigionia e un forte riscatto.
Egli tentò, poi, un’ottava crociata (1270), finita,
però, miseramente per la decimazione delle forze a causa delle
malattie. Il re morì davanti a Tunisi. Vent’anni
più tardi seguì l’abbandono di tutti i possedimenti
latini in Oriente.
LE CONSEGUENZE DELLE CROCIATE
Benché le crociate si fossero concluse con un sostanziale
fallimento militare, tuttavia ebbero una grande ripercussione in campo
sociale, culturale, politico e religioso.
Per quasi due secoli (1095- 1291) l’Europa scoperse la propria
“Christianitas” che la riunì attorno al papato,
quale guida spirituale, religiosa e politica dell’Occidente,
facendole superare i confini dei propri Stati.
Si formò, quindi, in questi secoli un’unica coscienza
europea e occidentale che trovava il suo punto di riferimento e
coesione nel papato.
Vi fu, inoltre, un risveglio religioso e spirituale delle coscienze,
che vissero le crociate come una “Peregrinatio religiosa”
che aveva il suo ideale nella vita povera del “Redentore
crocifero” che portò all’idea dell’imitazione
di Cristo nella povertà e nella penitenza.
Da qui incominciarono a sorgere i primi movimenti pauperisti.
Un altro aspetto fu l’aumento dell’autorità
religiosa e politica del papato, divenuto polo catalizzatore e collante
di tutta la cristianità occidentale.
Esse, inoltre, riavvicinarono l'Occidente all'Oriente in una sorta di ritorno alle origini.
Portarono all'incontro con la cultura araba e in particolare con la
filosofia arabo-aristotelica, che aprirono nuove prospettive anche in
campo teologico.
Se ne avvantaggiò certamente il commercio, in particolare
Venezia che sulle crociate costruì il suo impero commerciale.
Infine, esse portarono un tangibile rilassamento delle tensioni sociali
e un convogliamento delle quotidiane violenze verso una giusta causa:
violenti, facinorosi, spiantati, avventurieri trovarono nelle crociate
uno sfogo alla loro instabilità esistenziale.
Gli aspetti negativi delle crociate furono gli scarsi, deludenti e
pressoché inesistenti risultati: gli obiettivi propostisi
sostanzialmente fallirono; vi furono montagne enormi di morti e
inconcepibili violenze che ferirono le coscienze sia
dell’Occidente che dell’Oriente.
Da un punto di vista evangelico esse furono un disastro e aprirono una
profonda ferita spirituale e morale all’interno della Chiesa che,
in tempi recenti, sentì la necessità di chiedere perdono
a Dio per gli enormi, sconsiderati massacri e le grandi sofferenze
inflitte ad una parte dell’umanità.
LA CHIESA OCCIDENTALE TRA TARDO MEDIOEVO ED ETÀ NUOVA
DALLA CRISI DEL PAPATO A BONIFACIO VIII
Dalla metà del XIII sec. il papato cadde in una profonda crisi
che si manifestò anche nella breve durata dei pontificati
stessi, intervallati da lunghi periodi di sede vacante.
Lo spirito che caratterizzò l’ultima parte del XIII sec.
è quello di un tempo di stanchezza politica ed esaltazione
religiosa; di lotte spirituali nell’Ordine francescano e di
attesa apocalittica di un “papa angelicus”. Nei conclavi si
andava alla ricerca del candidato eccezionale che rispondeva alle
attese. Questi fu trovato in Pietro Angeleri da Morrone, un eremita
abruzzese che prese il nome di Celestino V (1294). Un pontificato che
durò sei mesi e si concluse con l’abdicazione del
pontefice.
Al suo posto fu eletto Bonifacio VIII (1294-1303) e con lui ricompare
sulla scena politica un uomo capace e fermo, deciso a recuperare il
potere tradizionale del papato in tempi in cui i Regni tendevano
all’autonomia e tra questi, prima fra tutti, la Francia.
Ma fu poco lungimirante: non aveva capito che, ormai, i tempi erano
cambiati; così che il suo pontificato fu caratterizzato dalla
lotta con Filippo IV, il Bello.
Questi era in lotta con l’Inghilterra per il trono di Scozia.
Bonifacio VIII vedeva in questa lotta fratricida la decadenza della
“Christianitas”. Dopo inutili richiami alla
rappacificazione, con bolla “Clericis laicos” del 1296
proibì al clero francese di pagare le tasse al Re, sottraendogli
i mezzi per continuare la guerra. Filippo IV rispose vietando qualsiasi
esportazione di denaro dalla Francia, sottraendo così la maggior
parte delle entrate alla Camera Apostolica. Bonifacio VIII fu costretto
a cedere.
La pace, però, fu di breve durata. Infatti, Filippo IV fece
imprigionare un legato pontificio. Bonifacio VIII lo citò
dinnanzi al suo tribunale con bolla “Ausculta, fili”, che
Filippo IV respinse. In risposta Bonifacio VIII emanò la celebre
bolla “Unam Sanctam” con cui si sosteneva la teoria delle
due spade e della supremazia del Sacerdotium sul Regnum. Filippo IV, in
risposta, avviò una campagna diffamatoria contro il papa che,
nel frattempo, ad Anagni, stava preparando la scomunica contro Filippo
IV; quando questi, con un manipolo di soldati, aggredì il papa e
lo tenne prigioniero nella sua stessa dimora dove venne liberato due
giorni dopo dalla folla.
Ma la grave offesa al papa non venne vendicata da nessuno, segno questo
che la figura papale era decaduta e la religione si era trasformata in
una mera questione politica.
Era la fine della Christianitas.
Bonifacio VIII, tornato a Roma, vi morì dopo breve tempo e con lui i sogni di dominio papale sul mondo.
Con Bonifacio VIII ebbe definitivamente termine la supremazia universale del papato.
LE CONSEGUENZE DI UNO SCHIAFFO
Il processo di subordinazione della chiesa allo stato, iniziato con
Costantino, approfonditosi sotto Carlo Magno e gli Ottoni, venne
interrotto e la rotta invertita con Gregorio VII, il concordato di
Worms e Innocenzo III: dalla teocrazia imperiale si passò a
quella papale.
Ma con la significativa aggressione a Bonifacio VIII (1308) da parte di
Filippo IV di Francia (Schiaffo di Anagni) ebbe inizio il tramonto del
potere papale che trovò una decisa opposizione dai nuovi stati
europei che andavano formandosi.
A seguito di ciò nel tardo Medioevo si andò delineando
una netta opposizione e rifiuto alle pretese papali di potere temporale
sugli stati, mentre il suo potere fu sentito sempre più come
spirituale in ordine alla salvezza.
Nell'ambito di questo quadro si delinearono tre tendenze: il governo
della chiesa nella sua espressione temporale passò gradualmente
ai principes, mentre il clero nelle amministrazione pubbliche e
giudiziarie fu sostituito dai laici.
Si venne quindi a costituire una nuova classe burocratica e di potere
dalla quale sempre più dipendeva il clero per l'attuazione delle
sue finalità. Non si tratto, comunque, di una laicizzazione
della vita statale, bensì la ricerca di una indipendenza del
potere papale.
La superiorità del "gladius spiritualis e materialis", non era
più accettata sic et simpliciter, ma venne contestata e respinta.
Le reazioni per l'indipendenza dal potere papale furono altresì
provocate dalle eccessive pretese ierocratiche, accentuate proprio dal
nascere di questo spirito di indipendenza dal potere ecclesiale. Non si
trattava comunque ancora di una laicizzazione del potere, bensì
della pretesa di poter accedere al sacro potere temporale della chiesa.
La visone del mondo come organizzazione storica del divino non era
ancora tramontata. Tuttavia già si metteva in discussione la
liceità del possesso e delle proprietà della chiesa,
coinvolta da un processo di autonomia amministrativa e gestionale delle
città.
Significativa era, in tal senso, la "vexata quaestio" su cui si
scatenavano le forze della chiesa: Cristo aveva detenuto il possesso e
la proprietà delle sue vesti o ne aveva solo l'uso?
I Francescani sostenevano la posizione del solo "usus", mentre i
teorici della povertà, contestando la proprietà e il
possesso dei beni da parte della chiesa, ne rivendicavano il
mantenimento da parte dell'autorità statale.
Dall'insieme di questo quadro traspare come il risveglio politico del
potere temporale, inteso a riconquistare le posizioni perdute con
l'affermazione della ierocrazia, si estendeva sempre più nelle
competenze temporali ed ecclesiastiche, rivendicandone
l'amministrazione e la propria autonomia, atteggiamento questo che non
tardò ad estendersi anche agli aspetti spirituali intesi come
patrimonio del bene comune.
IL PAPATO AD AVIGNONE
Dopo la morte di Bonifacio VIII, si accentuò fortemente
l’influsso francese sul papato. Sotto pressione della Francia
furono accolti nel Collegio cardinalizio numerosi cardinali francesi.
Di conseguenza, fu giocoforza che in questo periodo vi fossero numerosi
papi francesi.
Il primo di questa serie fu Clemente V (1305-1314), succeduto a
Benedetto XI (1303-1304) di breve pontificato, a sua volta succeduto a
Bonifacio XIII.
Clemente V ritenne opportuno spostare la sede papale da Roma ad
Avignone, che apparteneva assieme alla contea di Venaissin, allo Stato
della Chiesa. Questo sia perché la situazione dello Stato
pontificio e dell’Italia era poco rassicurante; sia perché
riteneva, in tal modo, di poter svolgere più facilmente un ruolo
di intermediazione tra i due belligeranti di Francia e Inghilterra che
si contendevano il trono di Scozia.
Ben presto, però, Avignone, a partire dal 1309, divenne la sede
definitiva del papato per circa un settantennio. Fu questo un chiaro
segno che l’asse di equilibrio si era spostata verso la Francia:
l’autonomia della Chiesa sancita dal “Dictatus papae”
(1075) di Gregorio VII, rimarcata dal Concordato di Worms (1122) e
incarnata da Innocenzo III si frantumò completamente.
In questo settantennio (1309-1378) il papato fu uno strumento di potere
in mano ai sovrani francesi. Clemente V si mostrò molto
arrendevole nei confronti di Filippo IV, che gli impose
l’annullamento della bolla “Unam Sanctam”
nonché la soppressione dei Templari, sancita nel Concilio di
Vienne (1312) e, da ultimo, fu costretto ad aprire un processo contro
il defunto Bonifacio VIII.
Solo con l’avvento di Gregorio XI (1370-1378), su pressioni
popolari, di cui furono voci rappresentative S.Caterina da Siena e
S.Brigida di Svezia, il papato fu ritrasferito a Roma.
Da questo momento in poi avrà origine il papato moderno.
LE CONSEGUENZE DELL’ESILIO AVIGNONESE
Valutato nel suo complesso, l’esilio avignonese arrecò
immensi e irreparabili danni al papato e alla Chiesa: scosse
profondamente la fiducia di cui aveva goduto fino a Innocenzo III; fu
all’origine dello scisma d’occidente durato un
quarantennio; spinse verso il conciliarismo e, infine, mise le premesse
allo scisma sorto dalla Riforma luterana.
Infatti, l’influenza francese sul papato avignonese ebbe
ripercussioni nefaste durante il pontificato di Giovanni XXII
(1316-1334) per quanto riguarda politica pontificia verso
l’impero tedesco. Il papa depose dal trono nel 1323
l’Imperatore Ludovico il Bavaro, assumendo nei suoi confronti un
atteggiamento di ostilità, rendendosi, in tal modo, complice
degli interessi francesi.
Questo atto non fu privo di conseguenze e pose la Germania in un
atteggiamento di forte contrasto con il papato ed ebbe per
quest’ultimo degli esiti fatali.
Infatti, per la prima volta nella storia, il contrattacco imperiale non
ebbe come obiettivo la figura di un pontefice, bensì
l’istituzione stessa del papato il cui strapotere, ormai,
travalicava ogni limite.
Nel 1324 l’imperatore Ludovico fece appello ad un concilio contro
Giovanni XXII. All’imperatore si unirono tutti i religiosi ostili
al papa. Tra questi ne vanno annoverati due, Marsilio da Padova e
Giovanni di Jandun, che elaborarono una teoria rivoluzionaria che
darà origine al “conciliarismo” e alimenterà
la polemica protestante contro l’istituzione del papato, tuttora
perdurante.
Tale teoria, esposta nel libro “Defensor pacis” metteva in
dubbio l’ordinamento gerarchico della Chiesa e proponeva una
struttura a base democratica. Si negò l’origine divina del
primato papale e si attribuì, invece, al popolo il potere
sovrano nella chiesa. Una priorità del clero sui laici, quindi,
non esiste. Papa, vescovi e clero in genere adempiono un mandato che
proviene loro dalla “Congregatio fidelium” che è
rappresentata dal Concilio ecumenico.
Questa concezione di Chiesa faceva del papa un puro organo esecutivo
del concilio, subordinandolo a quest’ultimo costringendolo ad
obbedire alle sue decisioni.
Tale teoria. Che subordina il papato al concilio è designata con
il termine di “conciliarismo” che troverà piena
attuazione nel concilio di Costanza con la bolla “Haec
sancta”.
Il periodo avignonese si distinse anche per il fortissimo incremento
del regime fiscale portato avanti con metodi e misure alquanto
aberranti e furono fattori di disordini e scandali. Vi erano tasse che
venivano riscosse talvolta con dispense di privilegi e grazie
pontificie; talvolta estorte con minaccia di censura o scomunica.
Comportamenti simili aumentarono l’ostilità verso la curia
e soprattutto si fece sentire in Germania per l’atteggiamento
antitedesco del papa verso Ludovico il Bavaro e si acuì nel
corso del tempo trovando la sua massima espressione nei
“Gravamina nationis Germanicae” e produsse ancor più
i suoi effetti nel XVI sec. nell’ambito della Riforma.
IL CONCILIO DI VIENNE E I TEMPLARI
Sotto il pontificato di Clemente V, papa francese debole e in totale
balia del prepotente e demoniaco Filippo IV, avvenne la vergognosa
soppressione dei Templari.
Istituiti ai tempi delle Crociate per la difesa dei luoghi santi e di
Gerusalemme da Ugo di Payen e Goffredo di St.Omer, vivevano sotto una
regola redatta da S.Bernardo: ai tre voti religiosi aggiunsero quello
della difesa di Gerusalemme.
Facevano a capo al Gran Maestro, configurandosi come una cavalleria
ecclesiastica che si distinse in azioni eroiche. Col tempo divennero
dei banchieri di intermediazione tra l’Oriente e
l’Occidente.
Filippo IV, prepotente e geloso della loro autonomia, nonché
bramoso delle loro ricchezze, ordì contro di loro delle
infamanti accuse. Fece arrestare 2000 templari, confiscò i loro
beni e li affidò all’Inquisitore di Francia, peraltro suo
confessore.
Tale infame congiura ottenne anche una forma giuridica con il Concilio
di Vienne (1312). A ciò seguì una vera e propria strage
di Templari, senza che il pavido ed imbelle Clemente V, fantoccio nelle
mani del re, osasse protestare.
Si concluse così una gloriosa istituzione che si coprì di
glorie e di onore e che sempre aveva fedelmente servito la Chiesa e la
Cristianità.
LO SCISMA D’OCCIDENTE
Dopo la morte di Gregorio XI (1370-1378), ultimo dei papi avignonesi
che, poco prima di morire, su pressione popolare, di S.Caterina da
Siena e S.Brigida di Svezia, riportò la sede a Roma, si
procedette alla elezione di un altro papa da un collegio cardinalizio
composto da 16 cardinali di cui 11 francesi.
Il timore che venisse eletto un altro papa francese e che Roma venisse
nuovamente disertata, spinse il popolo a fare forti e violenti
pressioni sui cardinali perché eleggessero un papa romano o,
quantomeno, italiano. Questi, intimoriti, elessero il cardinale di Bari
che assunse il nome di Urbano VI a cui prestarono giuramento di
fedeltà.
Ma dopo tre mesi, sia per il carattere dispotico e fanatico con tratti
di crudeltà mentale, tanto che si pensò che
l’elezione papale l’avesse sconvolto; sia perché si
pensò nulla l’elezione in quanto realizzata sotto minaccia
e violenza; sia, infine, per le forti ed egoistiche pressioni della
Francia, i cardinali abbandonarono Urbano VI e a Fonti, sotto
protezione della Francia, elessero un altro papa, cugino del re di
Francia, che si chiamò Clemente VII (1378-1397). Questi
tentò di occupare militarmente Roma, senza riuscirvi,
perciò ripiegò su Avignone.
Da questo momento in poi vi fu un doppio papato che provocò una
profonda e scandalosa spaccatura nella Cristianità e
nell’Occidente, che si ripercosse anche nella vita delle diocesi
e delle parrocchie e che durò ben quarant’anni.
Entrambi i papi si ritenevano legittimi e pensavano all’altro
come l’usurpatore. Non si risparmiarono reciproche scomuniche ai
seguaci dell’uno e dell’altro sicché, in breve,
l’intera Europa risultò essere scomunicata.
L’Università di Parigi propose una triplice soluzione alla vergognosa e incredibile situazione:
- la “via cessionis” , cioè la volontaria abdicazione:
- la “via compromissi” o il rimando della questione ad un tribunale arbitrale;
- la “via concilii” ossia il ricorso alla decisione di un concilio.
Purtroppo, tutto fu inutile.
I due papi costituirono le loro sedi pontificie con tutto il proprio
apparato amministrativo e organizzativo, e alla loro morte ebbero i
loro successori.
IL CONCILIO DI COSTANZA E IL CONCILIARISMO
Dopo inutili tentativi, durati 30 anni, di ristabilire l’ordine
(nessuno dei due papi volle abdicare o sottoporsi ad un arbitrato) si
fece sempre più strada che un concilio ecumenico potesse
risolvere la questione (è la terza via). Fu così che a
Pisa venne convocato nel 1409 un concilio nel quale si deposero i due
papi e se ne elesse un altro: Alessandro V, che ebbe breve vita,
lasciando il posto a Giovanni XXIII. Ma Gregorio XII e il suo
antagonista Benedetto XIII si rifiutarono di sottostare alle decisioni
conciliari, per cui si ebbero in quell’epoca ben tre papi, tutti
legittimi e tutti illegittimi.
Giovanni XXIII fu appoggiato dal re tedesco Sigismondo il quale, per
por fine ad una situazione scandalosa e vergognosa, fu autorizzato da
Giovanni XXIII a convocare a Costanza un concilio nella segreta
speranza di essere riconosciuto come legittimo papa.
Ma quando, per neutralizzare la superiorità del gruppo italiano,
fu stabilito che il voto non doveva essere “per capita
singulorum”, ma “per nationes” Giovanni XXIII
comprese che per lui non c’erano più speranze e
fuggì di notte, nella speranza che il concilio, senza la sua
presenza, sarebbe stato sospeso.
Ma l’imperatore prese in mano la situazione e, confortato con il
discutibile decreto conciliare “Haec sancta” (V sessione
conciliare) con cui si dichiarava la superiorità del concilio
sul papa, i lavori ripresero su tre punti:
- ricomposizione dello scisma;
- condanna delle eresie di Wycliffe e Hus; (VIII e XV sessione conciliare )
- la riforma della Chiesa “in capite et membris”
Inoltre con il decreto “Frequens” (XXXIX sessione
conciliare) si stabilì la cadenza regolare dei concili in 5, 7 e
10 anni, costituendo di fatto il “Concilio” come organo di
controllo del papato.
Il concilio di Costanza durò quattro anni con oltre 300 vescovi
e prelati, 30 cardinali e 33 arcivescovi e molti esponenti della
nobiltà politica. Cinque le nazioni presenti: Italia, Francia,
Spagna, Germania e Inghilterra.
Quanto alla triade di papi: Giovanni XXIII venne arrestato; Gregorio
XII, ormai novantenne, abdicò; Benedetto XIII fu deposto come
eretico e si ritirò in Spagna dove morì. Venne, infine,
eletto un nuovo papa Martino V (1417-1431).
LE RADICI DELLE TEORIE CONCILIARI
Al di là degli aspetti storici, il conciliarismo affonda le sue
radici nella canonistica altomedievale. Questa, per assicurare la
"libertas ecclesiae" dall'imperatore e dalla nobiltà, aveva
configurato la chiesa come una "corporazione" di persone aventi diritto
d'azione e capacità sovrana.
Secondo tale teoria il vescovo con il capitolo formava una corporazione
capace di azione autonoma. Ma il vescovo, in quanto caput, era
vincolato al totum, senza il quale perdeva la sua identità
corporativa e quindi di persona giuridicamente capace. Per cui si
definivano assiomi significativi del tipo "Totum est maior sua parte"
che evidenziavano la superiorità del totum sul caput.
Parimenti il collegio cardinalizio pensava il suo rapporto con il papa.
Secondo tale concezione corporativa, il papa riceveva dal collegio i
poteri che erano del collegio così che il papa ne diventava un
amministratore autorizzato.
Alla teoria della corporazione si affiancò la concezione
giuridico-personalistica. In tale concezione si distingueva la potestas
ordini, trasmessa da Cristo a tutti gli apostoli, dalla potestas
iurisdictionis, affidata solo a Pietro. Da ciò deriva che il
potere giurisdizionale della chiesa proveniva dal papa e non più
dalla corporazione. Quindi nella elezione papale il collegio non
trasferiva poteri propri ad un delegato, ma semplicemente eleggeva la
persona che deteneva la plenitudo potestatis conferita da Cristo a
Pietro e ai suoi successori. Quindi Cristo e non il collegio era il
vero detentore del potere ecclesiale.
La questione, quiescente durante il periodo della lotta tra regnum e
sacerdozio, si ripropose in tutta la sua vitalità nel periodo
del conciliarismo.
Quindi la "Haec sancta" non fu una sorta di colpo di stato,
bensì una applicazione canonistica della teoria corporativistica
che trovò la sua esasperazione nelle "Tres veritates fidei
cattholicae" che proclamavano:
• La superiorità del concilio sul papa;
• L'incompetenza del papa a trasferire o sospendere un concilio senza l'assenso conciliare
• Ogni ostinata opposizione alle presenti proposizioni è considerata eresia.
JAN HUS E JOHN WYCLIFFE
Jan Hus nacque ad Husinec nella Boemia meridionale nel 1370.
All’età di 30 anni venne ordinato sacerdote e intorno al
1400 aveva incominciato a conoscere le idee dell’inglese John
Wycliffe che fin dal 1374 aveva mosso dei violenti attacchi contro i
metodi del papato avignonese, contro la ricchezza dei prelati e contro
la gerarchia.
A questa decadenza aveva opposto la sua concezione spiritualistica
della “chiesa dei predestinati” che avrebbe dovuto
rinunciare ad ogni possesso e vivere in povertà apostolica. In
questa chiesa ideale, secondo Wycliffe, doveva vivere solo chi era in
uno stato di grazia; nessuno, pertanto, che fosse in peccato mortale vi
poteva accedere e tanto meno porsi alla guida della comunità
cristiana, sia nella chiesa che nello stato. Un papa, un vescovo o un
qualsiasi religioso che fosse in stato di peccato mortale non aveva
alcun potere; analogamente i governanti perdevano il proprio.
Una teoria questa molto simile, se non coincidente, all’eresia
del donatismo, già ampiamente combattuta da S.Agostino tra il IV
e il V sec.
Benché gli intenti dello Wycliffe fossero buoni, tuttavia la sua
teoria, se applicata, era fortemente destabilizzanti del potere
costituito, sia religioso che politico. Infatti chi può mai
dirsi in grazia di Dio? Chi può mai dirsi così puro,
santo e perfetto da poter essere considerato membro permanente di una
tale chiesa e società?
Come per Donato, anche per Wycliffe vi fu un eccesso di rigorismo ascetico.
Jan Hus sostenne e diffuse tali teorie dello Wycliffe trovando larghi
consensi non solo per questioni religiose e ascetiche, ma soprattutto
per motivazioni politiche. Infatti in Boemia la maggior parte dei
prelati era tedesca, per cui la sua aspra critica a questi mosse una
forte tendenza antitedesca, la quale sollevò tutta la Boemia che
si unì alle tendenze religiose dello Wycliffe, sposate e
sostenute da Hus.
Sennonché, quando il tedesco vescovo di Praga, incaricato dal
papa Alessandro V di trattare la delicata questione religiosa, prese
severe misure repressive contro l’eresia, tale posizione fu letta
in chiave squisitamente politica e Hus si rifiutò di
sottomettersi al prelato tedesco e ricorse al papa Giovanni XXIII a cui
si rivolse, a sua volta, anche l’arcivescovo. Il papa, dopo aver
inutilmente convocato a Roma Jan Hus, lo scomunicò e, in
seguito, proditoriamente imprigionato dai cardinali, venne processato e
condannato al rogo come eretico, dopo aver ripetutamente e inutilmente
cercato di convincere Hus ad abiurare le proprie teorie. Del suo caso,
come di quello dello Wycliffe, si occupò il Concilio di Costanza
che nelle sezioni VIII e XV condannò le teorie di entrambi come
eretiche.
Il 17 dicembre 1999 in un discorso rivolto ai partecipanti al convegno
internazionale sulla figura di Jan Hus, Giovanni Paolo II ebbe parole
di comprensione per questo pensatore e ne rivalutò la sua figura
morale, stigmatizzando, sia pur velatamente, le crudeli ingiustizie da
questi subite ad opera della Chiesa.
I CONCILI DI BASILEIA, FERRARA E FIRENZE (1431-1442)
In conformità a quanto stabilito dal decreto di Costanza
“Frequens”, trascorsi cinque anni dalla chiusura di
Costanza (1418), Martino V convocò un concilio a Pavia, poi
spostato a Siena a causa della peste; ma vista la scarsa partecipazione
lo si rimandò a Basileia nel 1431. Qui, in tale anno, venne
aperto da Eugenio IV, succeduto nello stesso anno a Martino V.
I partecipanti, forti del decreto “Haec sancta”, invocarono
per sé il potere supremo di decisione e limitarono fortemente il
potere papale.
Eugenio IV, per por fine ai continui contrasti, trasferì nel
1437 trasferì il concilio a Ferrara. In tale frangente vi fu un
tentativo scismatico, fortunatamente fallito e con esso fallì
anche il conciliarismo, anche se in modo latente fu sempre presente e
temuto.
Il concilio riprese a Ferrara nel 1438 da dove fu quasi subito
trasferito a Firenze per pericolo di peste, da dove proseguì dal
1439 fino alla chiusura del 1442.
L’obiettivo primario del concilio fu l’unificazione delle
due Chiese di Oriente e di Occidente, previo chiarimento di alcuni
punti controversi:
- la questione del “Filioque”;
- il primato del pontefice;
- il Purgatorio;
- l’uso latino del pane azzimo e altre questioni liturgiche.
Alla base del desiderio di unificazione tra le due Chiese stava
l’estrema necessità di aiuto contro i Turchi che stavano
prendendo Costantinopoli. Solo una forte crociata avrebbe potuto
salvare Costantinopoli da una triste fine.
Dopo lunghe discussioni si raggiunse un accordo concretizzatosi nel
decreto “Laetentur coeli”, che durò ben poco sia per
le forti avversità trovate al ritorno a Costantinopoli, sia
perché l’Occidente rifiutò gli aiuti, abbandonando
Costantinopoli in mano ai Turchi, che nel 1453 fu conquistata e
distrutta decretando, in tal modo, la fine dell’Impero bizantino
d’Oriente.
L’eredità di Costantinopoli fu assunta nel 1459 da Mosca,
che fu ben presto designata come la “Terza Roma”
LE RIFORME MONASTICHE E I NUOVI ORDINI
I MONASTERI: DALLA REGOLA MISTA A QUELLA DI S.BENEDETTO
Durante il periodo carolingio i monasteri conobbero due fasi: quella
della regola mista, cioè una mescolanza di regole occidentali,
tra le quali molto diffusa fu quella dei monaci iroscozzesi e
benedettini; e quella di unificazione sotto la Regola benedettina e
l’opera di S.Benedetto di Aniane (Francia).
Fino all’VIII secolo giravano una trentina di regole e ogni monastero aveva la sua tradizione.
Già con S.Bonifacio (Vinfrido) si cercò di unificare i
monasteri sotto l’unica regola benedettina, ma inutilmente.
La cosa, invece, riuscì bene al nuovo imperatore Carlo Magno che
vide nell’unificazione dei monasteri sotto l’unica regola
una garanzia di unità anche per l’Impero e, quindi, la
impose a tutti i monasteri.
Accanto ai monasteri sorsero anche delle Confraternite di preghiera,
diffusesi dall’ VIII secolo. Erano forme di aggregazioni tra
monaci o monasteri sia per un reciproco aiuto che per commemorare
membri e benefattori, vivi e defunti, dei monasteri.
S.Benedetto di Aniane, sotto il regno di Ludovico il Pio, figlio di
Carlo Magno, continuò la riforma, che aveva trovato un suo
inizio nell’unificazione di tutti i monasteri sotto l’unica
Regola di S.Benedetto e che lui stesso applicò ai 25 monasteri
da lui fondati, creando tra loro un sistema di aggregazioni che
formerà da matrice al monachesimo di Cluny, che in tutta Europa
sfornò ben 2000 conventi sotto la direzione papale e accentrati
alla casa madre di Cluny.
Compose due opere: “Codex Regularum” e “Concordia
Regularum” che formarono un compendio delle regole fino allora
esistenti.
L’unificazione del monachesimo sotto l’unica bandiera non
significò la realizzazione della riforma dei monasteri che,
legati strettamente all’Impero, ne subirono le sorti alla sua
decadenza.
LA RIFORMA MONASTICA
La riforma, che a Brogne (Belgio) interessò 11 monasteri e
influenzò indirettamente l’Inghilterra, toccando anche
Montecassino, era caratterizzata da tre elementi:
- Indipendenza dei monasteri dal vescovo;
- Presenza di un abate regolare;
- Adozione della Regola di S.Benedetto.
Particolare rilievo ebbe la nascita e la diffusione del monastero di Cluny, nel sud della Francia.
CLUNY: STORIA E IMPORTANZA
Passata la crisi carolingia, in cui fu travolta anche la Chiesa,
strettamente legata all’impero, presero il via dei movimenti di
riforma dei monasteri, da cui si irradiò un profondo
rinnovamento spirituale e culturale che investì l’intero
Occidente e spianò la strada, favorendola, alla riforma
gregoriana.
Il monachesimo ebbe il compito di testimoniare il distacco cristiano
dal mondo e di vigilare contro i pericoli della secolarizzazione; fu,
inoltre, un potente richiamo all’interno della Chiesa,
decisamente invischiata in una terrestrità senza speranza. Fu,
dunque, una forte voce profetica all’interno della Chiesa e della
Cristianità.
A differenza di quello Orientale, chiuso nella sua contemplazione e nel
suo misticismo, il monachesimo Occidentale si interessò ai
problemi dell’intera Cristianità.
Tra i numerosi movimenti di riforma monastici che animarono il X
secolo, va menzionato quello di Cluny, posto ad est della Francia
centrale, certamente il più importante in assoluto.
Nel 910 il duca Guglielmo il Pio fondò a Cluny un monastero che
sottomise all’obbedienza papale, assicurandogli, in tal modo, la
piena libertà e indipendenza dai vescovi e signorotti locali.
Ciò che caratterizzò Cluny fu la libera elezione
dell’abate, a cui tutto era rigorosamente sottomesso e solo a lui
si doveva obbedienza. In particolar modo quando il monachesimo
cluniacense si diffuse generando, direttamente o per aggregazione,
altri 2000 monasteri in tutto l’Occidente, gli abati di questi
erano sottomessi e vincolati da giuramento all’unico abate della
Casa madre di Cluny che influenzava direttamente l’intera vita
monastica degli altri monasteri aggregati e dipendenti.
Un altro aspetto caratterizzante la vita di Cluny fu la liturgia, che
occupava gran parte della vita dei monaci e che si sentiva come una
partecipazione a quella del cielo.
Si crearono, inoltre, dei seminari monastici per i candidati alla vita monacale.
Accanto a quello cluniacense si affiancarono altri movimenti
riformatori che concorsero al rinnovamento spirituale della Chiesa e
della Cristianità occidentali, in particolare si ricorda Brogne.
La riforma cluniacense si espanse anche in Italia dal 936 in cui
sorsero diversi centri, caratterizzati dai loro stretti legami con
Cluny, in particolar modo nell’Italia centrale e meridionale.
Tuttavia, il monachesimo italiano ebbe caratteristiche proprie che si
possono così sintetizzare: risveglio dell’ideale
eremitico; grande entusiasmo missionario e ricerca del martirio
connesso alla missione.
LA RIFORMA CANONICALE
A fianco dei monasteri si sviluppava con caratteristiche proprie la
vita canonicale, separata dalla vita monastica da regole proprie: la
“institutio canonicorum” o Regola di Acquisgrana
dell’ 816.
I Compiti principali stabiliti dalla regola furono: Preghiera corale;
vita legata al “claustrum”, con mensa e dormitorio comuni.
All’interno del “claustrum” si poteva abitare in case
singole e con diritto su proprietà privata, cosa che non piacque
al sinodo di Acquisgrana che, invece, perseguiva un ideale di
povertà; cosa fattibile là dove Capitolo e Monastero
convivevano.
Con il rinnovamento, però, dei Monasteri anche i Capitoli ne
furono coinvolti. Tuttavia la riforma dei Capitoli non durò a
lungo poiché nei Capitoli, gestiti collegialmente, mancò
l’elemento determinante nei monasteri: l’abate.
IL MOVIMENTO CARISMATICO: UN RITORNO ALLA CHIESA PRIMITIVA
Il risveglio spirituale, che investì monaci e canonici,
coinvolse anche i laici. In tutti si accentuò la ricerca di una
nuova spiritualità, caratterizzata da un ritorno alle origini
della Chiesa primitiva, così come delineata degli Atti degli
Apostoli: una chiesa che viveva in comunità, che condivideva i
beni e tutto metteva in comune. Una chiesa che era essenzialmente
povera e basata sull’amore comune.
Preponderate, comunque, era l’ideale di povertà in un
contesto in cui i monasteri, mentre imponevano ai singoli la
povertà, trasudavano abbondanza e ricchezza. Secondo tale
ideale, invece, si doveva rinunciare e staccarsi da beni terreni.
In questo orizzonte gli uomini del movimento evangelico si staccarono
da tutto e si ritiravano a vivere nei boschi per darsi alla
contemplazione di Dio.
Spinti da questo clima di alta spiritualità dai canonici
secolari si staccarono altri canonici, detti regolari, che si dettero a
vivere lo spirito di povertà della chiesa primitiva, ricalcando
lo stile del monachesimo. Questo movimento nacque spontaneamente ed era
a base carismatica. Esso si avvicinò molto alla riforma
gregoriana e la favorì, preparandole il terreno,
poiché con questa aveva in comune la lotta al nicolaismo,
alla simonia e l’aspirazione alla povertà evangelica.
Tuttavia, tale movimento ebbe una vita propria non sempre
opportunamente sostenuta da un’adeguata teologia, per cui ben
presto in alcuni componenti vi furono delle deviazioni dottrinali e
delle esagerazioni che nascevano da stati di eccessiva esaltazione
spirituale, che li staccarono gradualmente dalla stessa Chiesa.
Ciò avvenne, soprattutto, tra i predicatori itineranti, detti
anche “Pauperes Christi” .
Lo stretto contatto che questo movimento ebbe con il popolo,
suscitò in molti laici il desiderio di vivere, per imitazione,
la vita monastica, portandoli tra l’ VIII e il X secolo a
stanziarsi intorno ai conventi. Nacquero, così, i
“Fratelli laici”, i cosiddetti Conversi, che nell’ XI
secolo entrarono nei conventi, conducendo una vita monastica insieme ai
veri e propri monaci con i quali condividevano, quasi in tutto,
la loro vita, compresi i voti.
DIFFERENZIAZIONE MONASTICA E NUOVI ORDINI: CERTOSINI E CISTERCENSI
A un periodo di grande vivacità spirituale, durante il quale
sorsero numerose fondazioni nuove (1059-1123), seguì un
ventennio di assestamento e di differenziazione dei monasteri. Durante
tale processo due sono gli esempi da evidenziare: i Certosini, che
prediligono la vita monastica alla cenobiti; e i Cistercensi, che,
invece, accentuano quest’ultima.
La fondazione dei Certosini fu dovuta a un certo Bruno di Colonia
(1032-1101). Questi, divenuto direttore della scuola della cattedrale
di Reims, dopo una lunga e sofferta opposizione con l’arcivescovo
della città, si ritirò verso il deserto della Certosa con
sei compagni, ove condusse una vita eremitica e dove istituì la
vita certosina (1084).
Con la costituzione delle “Regole della Certosa” (1127) si
dette una forma giuridica ad una istituzione destinata ad avere lunga
vita fino ai nostri giorni.
Diversa impostazione ebbero, invece, i Cistercensi. Nati a Citeaux
(Cistercium) nel 1098 con approvazione papale, questo ordine affonda le
sue radici e le sue origini a Cluny, ed è una radicalizzazione
della “Regola di S.Benedetto”, rendendo, così,
più rigorosa la vita cenobitica.
Essa è caratterizzata da un equilibrato alternarsi nel corso
della giornata dal lavoro manuale, dall’ascesi, dal silenzio e la
solitudine.
Citeaux si diede una configurazione giuridica con la “Carta
Caritatis”, che persegue unicamente la carità e il bene
delle anime. Essa fu redatta da Stefano Harding, suo fondatore.
Al posto del ferreo centralismo di Cluny si sostituì il
reciproco scambio di doveri, come lo scambio delle visite annuali che
abbazie madri e figlie si scambiavano.
Questo ordine, nato in Francia, ebbe una rapida diffusione in Occidente
con oltre 700 monasteri che promossero uno stile architettonico sobrio
e semplice, ripreso, poi, da quello francescano e che rispecchia lo
stile di vita di queste grandi istituzioni ecclesiali.
IL MONACHESIMO FEMMINILE
Il fermento spirituale da cui nacquero numerosi movimenti ispirati alla
spiritualità della chiesa primitiva, cantata da Luca negli Atti
degli Apostoli, coinvolse anche numerose donne che, all’ombra dei
grandi movimenti monastici, vissero ed espressero la loro
spiritualità secondo la loro propria sensibilità,
arricchendo, in tal modo, il movimento monastico di nuovi aspetti e di
nuove istituzioni prettamente femminili.
Di fronte a questa esuberanza, la Chiesa cercò di promuovere la
monacalizzazione delle donne, preferendo per queste la vita di clausura
ed altre osservanze che caratterizzavano i monasteri maschili.
Tuttavia, le monache rivendicarono una loro specificità che
rispetti la loro identità di donne. Infatti, all’epoca,
non esistevano ancora regole monastiche propriamente femminili, ma solo
maschili che, pur adattate, non rispondevano bene alla
spiritualità femminile. Si dovrà attendere S.Chiara per
avere una regola scritta da una donna per le donne.
Nell’ambito dei monasteri femminili erano rappresentati un po’ tutti gli strati sociali.
CANONICI REGOLARI: I PREMOSTRATENSI
I monaci regolari o riformati basavano la loro vita non solo sulla
regola fondamentale di Atti 4,32, ma anche su delle indicazioni dei
Padri. Tra questi si privilegiava S.Agostino con la sua “Regola
di S.Agostino”; un ordinamento composto di due parti:
- la prima l’ “Ordo monasterii” o
“Regula Secunda”, più breve, ma decisamente
più severa;
- la seconda “Regula Tertia” o “Ad servos Dei”, più mite e moderata.
Si trattava, in realtà, di due ordini di regole, riconosciuti
come tali nel 1120; data questa che portò ad una fondamentale
divisione dei Canonici regolari in “Ordo novus”, che
seguiva la “Regula seconda”, la più severa e che
cercava di svilire quella più mite affermando che era stata
scritta per le donne e,quindi, non adatta a dei canonici; e in
“Ordo antiquus”, che, invece, seguiva la “Regula
Tertia”, quella più mite.
Tutto ciò portò a delle contrapposizioni e a delle
contese tra i due ordini. Tra questi un ricordo va dato
all’ordine più diffuso: i Premostratensi, fondati in
Francia da Norberto Xanten, canonico e cappellano di Enrico V. Questi,
ritiratosi, fonda con 40 chierici una comunità canonicale sulla
“Regola di S.Agostino”.
Inizialmente contemplativi, si orienteranno, successivamente, alla cura delle anime e alla predicazione.
S.Norberto, agli inizi, aprì anche alle donne che vivevano in
rigorosissima clausura, ma, poi, vennero progressivamente escluse.
I MOVIMENTI ERETICALI DALL’XI AL XIII SECOLO
L’INQUISIZIONE
PREMESSA
La chiesa, invischiata nella vita dell'impero al punto da diventarne
parte costitutiva e fondamentale, fu coinvolta anche in uno stile di
vita caratterizzato dal lusso sfrenato e dai piaceri che da questo
derivavano.
Simonia e nicolaismo ne denunciavano il degrado morale e la decadenza
spirituale, che la portarono a perdere la sua identità e
il senso della propria missione.
Ma dalla seconda metà dell'XI sec. nacquero dall'interno stesso
della chiesa, anche in ambiente laicale, dei movimenti spiritualistici
e di rigorismo ascetico che puntarono alla sua trasformazione e al suo
rinnovo spirituale, mirando alla sua purezza di vita e ad una
essenzialità di vita evangelica sull'esempio della chiesa
primitiva descritta negli Atti.
Questi movimenti pauperistici e ascetici furono dei forti alleati della
riforma gregoriana e di tutti quei papi che se ne occuparono. Va
tuttavia rilevato che, talvolta, la spontanea formazione di questi
gruppi, non possedendo essi una adeguata formazione teologica e
culturale, mossi prevalentemente dallo spontaneismo e dallo sdegno
contro un vergognoso modo di vivere della chiesa, cadevano spesso in
comportamenti deviati anche dottrinalmente.
Tuttavia, tali movimenti, sia nel bene che nel male, furono un chiaro
segno che la chiesa non poteva più proseguire in tal modo e
furono un motivo di riflessione che la portò ad un graduale
distacco dall'impero e a ritrovare la propria identità e il
senso della sua missione.
Tra questi, degni di menzione per la loro diffusione, furono i Valdesi, i Catari o Albigesi e i Patarini.
I VALDESI
Ebbero origine dal ricco mercante Pietro Valdès di Lione.
Questi, partendo da una meditazione di Mt. 10,5ss, egli vendette tutto
e sposò l’ideale della povertà. I suoi seguaci
furono chiamati “Pauperes Christi”. La sua predicazione non
fu esente da esagerazioni: mosse critiche al culto dei santi e delle
reliquie; inoltre sosteneva, sotto pena di peccato, la necessità
di vivere la povertà evangelica.
Il vescovo gli proibì la predicazione che, invece, il concilio
Lateranense III, dopo essersi appellato al papa Alessandro III, gli
restituì.
Questo permesso, tuttavia, gli venne revocato dal successore di
Alessandro III (1159-1181), Lucio III (1181-1185) a cui si
ribellò e per questo venne scomunicato.
Il Valdismo si costituì in due correnti: una a Lione
e una in Lombardia dove i seguaci vennero perseguitati e
costretti a rifugiarsi nelle vallate del torinese, chiamate anche Valli
Valdesi.
I CATARI O ALBIGESI
Trassero la loro origine da una forma di manicheismo. Essi insegnavano
che il mondo era stato creato dal diavolo, cioè dal Dio cattivo
dell’A.T., contro il quale il Dio buono del N.T. aveva inviato il
suo angelo Gesù Cristo per insegnare agli uomini come liberarsi
dalla materia cattiva e diventare, così, dei puri, cioè
kaqaroi. Di conseguenza tutta la creazione era cattiva, come il proprio
corpo, il matrimonio e il rapporto sessuale. Tutte cose da evitare.
Alla Chiesa cattolica, ricca di beni, contrapposero la loro chiesa povera, organizzata sulla falsariga di quella cattolica.
Con la stessa risolutezza i Catari combatterono contro lo Stato, il cui
imperatore era definito il “proconsole di Satana”.
Essi si diffusero prevalentemente in Francia, ad Albi, da cui presero
il nome di Albigesi. La loro grande diffusione in Francia li
portò ad allearsi con i baroni, che si stavano preparando alle
lotte contro il Regno di Francia. Stato e Chiesa, dunque, si unirono
per combatterli con le armi l’uno, con l’Inquisizione
l’altra.
Contro di essi Innocenzo III (1198-1216) indisse una crociata che
scatenò una guerra di vent’anni con un enorme spargimento
di sangue.
I PATARINI
Furono un movimento politico-religioso affermato”si a Milano
verso la metà dell’ XI secolo contro le oppressioni
dell’alto Clero corrotto. Di esso fece parte il popolo più
umile, così che essi vennero chiamati Patarini dal mercato
milanese degli stracci. Sorse come opposizione all’elezione di
Guido da Velate ad arcivescovo di Milano
L’INQUISIZIONE
PREMESSA
Nel medioevo vi era una forte solidarietà, che con Carlo Magno e
gli Ottoni di Germania arrivò anche all'identificazione, tra
stato e chiesa, tra religione e politica.
Nell'ambito di questo concetto, per cui la fede non era qualcosa di
diverso dal proprio essere cittadino, ogni deviazione dottrinale era
concepita anche come un attentato allo stato, proprio per il forte
connubio che legava i due. L'eresia, pertanto, non era vista come una
semplice deviazione dottrinale, ma anche come opposizione alla chiesa e
all'ordine costituito.
Nel Medioevo, nell'ambito delle eresie, vanno distinte le
"eterodossie", cioè opinioni erronee che si sviluppavano in
ambiente scolastico e intellettuale e lì rimanevano, dai
movimenti ereticali sorti in mezzo al popolo e caratterizzati da un
rigorismo ascetico e da un biblicismo popolare.
Essi costituirono una risposta, spesso deviata e abnorme, allo stile di
vita lussuoso e lussurioso della chiesa. Il loro intento era quello di
una "renovatio ecclesiae", ma condotto in modo sbagliato; per questo,
ponendosi contro la chiesa, ledevano l'armonioso mondo della chiesa dei
nobili e, di conseguenza, l'ordine costituito.
LOTTA ALLE ERESIE ED INQUISIZIONE
Fintanto che l'eresia rimase un fenomeno sporadico e limitato
all'ambiente scolastico, che prevedeva già in sé dei
sistemi repressivi, o essa era in mezzo al popolo sottoforma di errore
di credenza, l'eresia non creava particolari problemi.
Il problema invece si pose quando essa si diffuse rapidamente tra il
popolo e si strutturò in movimenti e organizzazioni ereticali
che si traducevano spesso in rivolte e turbamenti della pace sociale a
partire dal 1150 c.a.
Questo portò il papa ad emanare severe disposizioni contro
l'eresia, qualificata come reato di lesa maestà e di turbamento
della pace sociale.
La lotta contro gli eretici, quindi, era finalizzata alla salvaguardia
e al ripristino della pace sociale e dell'ordine pubblico.
Un notevole impulso alla lotta fu dato dall'inserimento nel sistema
procedurale del metodo accertativo: il giudice non si limitava
più a procedere solo su denuncia, ma si faceva parte attiva
effettuando accertamenti d'ufficio finalizzati all'accusa. Da qui si
sviluppò il procedimento inquisitorio o dell'Inquisizione.
In una prima fase l'Inquisizione era gestita dai singoli vescovi che
nominarono degli "inquisitores" che non si mostrarono, però,
particolarmente efficaci.
Fu Gregorio IX (1227-1241) e con Innocenzo IV (1243-1254) che
l'Inquisizione subì un forte impulso a livello operativo e
giuridico: l'Inquisizione da vescovile divenne papale, gli
"inquisitores" ebbero ampi poteri assommando in sé le funzioni
di accusatori, giudici con facoltà di sentenza e l'eresia
divenne un crimine di esclusiva competenza papale.
I processi si svolgevano a porte chiuse e gli imputati erano privati di ogni diritto.
L'inquisitore, inoltre, tendeva a veder confermati i propri
accertamenti, per cui non si esitava a ricorrere alla tortura. In
questo clima le sentenze erano emesse in processi-spettacolo ed erano
in genere aprioristicamente già determinate.
I paesi dove maggiormente si affermò furono: Italia, Spagna e Francia.
Essa venne affidata ai Domenicani e ai Francescani da Gregorio IX.
Vi furono due tipi di Inquisizione: uno di origine papale, ebbe inizio
con Innocenzo III (1198-1216); e uno di origine spagnola, indetta dai
sovrani di Spagna nel 1478 e divenne uno strumento di potere in mano al
Re contro le minoranze ebree, islamiche ed eterodosse.
Da un punto di vista giuridico, due erano le procedure inquisitorie:
una “ex officio, cioè dei legati papali andavano, motu
proprio, alla ricerca di eretici; una “per denuncia”.
Accertata l’eresia, l’eretico veniva invitato a desistere
dall’errore, diversamente era consegnato al braccio secolare, che
lo condannava a morte, in genere, al rogo.
Con Innocenzo IV (1243-1254) si autorizzò anche la tortura per estorcere la confessione di eresia.
Oltre agli eretici, l’Inquisizione si occupò anche di stregoneria, altra ossessione di quel tempo.
GLI ORDINI MENDICANTI
PREMESSA
Sotto il pontificato di Innocenzo III (1198-1216), la vita monastica
tradizionale (Benedettini, Cistercensi e Canonici regolari)
entrò in profonda crisi sia religiosa che economica. Innocenzo
III cercò di rianimare questi ordini, favorì il sorgere
di altri e cercò di guadagnare alla Chiesa le forze del
movimento pauperistico. In questo contesto rientrano i due grandi
Ordini dei Mendicanti: i Domenicani e i Francescani.
Essi furono una risposta di Dio ad una Chiesa e società
soffocate dal benessere e sorde alla voce dei poveri e a quella di Dio.
Domenico (1170) e Francesco (1181) furono la grande voce di Dio, la cui eco è giunta fino ai nostri giorni.
I DOMENICANI O “FRATI PREDICATORI”
Già nel nome si intuisce la loro origine e la loro
finalità. Il loro fondatore fu Domenico di Caleruega. Nato in
Pastiglia nel 1170, durante un viaggio verso Roma ebbe modo di vedere
le conseguenze nefaste del movimento cataro per cui decise, in
povertà apostolica, a dedicarsi alla conversione degli eretici.
Egli sposò sostanzialmente l’idea di povertà
francescana, ma vi aggiunse un tocco personale e caratterizzante: la
predicazione, quale strumento di catechesi alla cui base ci doveva
stare una buona formazione teologica e culturale.
Innocenzo III riconobbe l’ordine, ma gli ingiunse di adottare una
regola già esistente. La scelta cadde sulla Regola di
S.Agostino.
A Prouille venne fondato nel 1217 l’ordine femminile delle domenicane.
I Domenicani si dedicarono prevalentemente alla predicazione, operarono
nei tribunali dell’Inquisizione e si affermarono nel campo degli
studi teologici e universitari.
I FRANCESCANI
S.Francesco nato ad Assisi nel 1181, dopo aver trascorso una
gioventù spensierata, venne colto dall’ideale della
povertà a seguito di una malattia. Cacciato dal padre nel 1206,
percorse l’Umbria predicando la povertà e l’amore di
Dio. Nel 1208 nella chiesetta della Porziuncola udì il passo di
Mt. 10,5-16 e comprese qual’era la sua vocazione: predicatore
itinerante e nella povertà apostolica, annunciatore
dell’amore di Dio.
Unitisi a lui alcuni discepoli, si recò a Roma da Innocenzo III
nel 1210 per ottenere l’approvazione della sua regola e del suo
ordine. Sembra che in questa occasione egli abbia ricevuto il diaconato.
Suo intento era convertire i Catari e gli Islamici con la forza
dell’amore, con umiltà e semplicità come si
addiceva a dei fratelli minori, e tali furono chiamati i suoi seguaci.
Ben presto il suo ordine si diffuse e godeva della fiducia della gente semplice, ma anche delle alte gerarchie ecclesiastiche.
Si unì alla IV Crociata indetta da Innocenzo III e, mentre
infuriava la battaglia per la conquista di Damietta, egli si
presentò, ma senza successo, al sultano per parlargli
dell’amore di Cristo.
Al suo rientro Francesco, a causa delle difficoltà interne al
suo ordine, venne esonerato, così che egli poté dedicarsi
alla contemplazione e alla preghiera, colpito nel frattempo da
cecità e forti dolori allo stomaco.
È proprio durante questo periodo che egli compone il canto delle creature e riceverà le stigmate .
Parallelo a quello dei Francescani sorse l’ordine femminile delle
Clarisse, fondato da S.Chiara sotto la guida spirituale di S.Francesco,
che si pose a S.Damiano.
GIOACCHINO DA FIORE
Nato nel 1135, dopo un viaggio in Terra Santa, entrò nei
cistercensi all’età di 25 anni. Ordinato sacerdote,
divenne, poi, abate del monastero di Corazzo in Calabria.
Nel 1192, separatosi dai cistercensi, fondò un nuovo ordine, il
Forense, formato da comunità eremitiche e posto sotto la
protezione di S.Giovanni Battista.
Delle sue opere si ricordano dei commenti all’Apocalisse e
“Concordia Vetus et Novi Testamenti” Quanto ai suoi
commenti sull’Apocalisse, esposti nella sua opera
“Expositio in Apocalypsim” egli presentò il suo
metodo interpretativo, facendo leva sui quattro sensi delle scritture:
- Letterale, che fa conoscere gli avvenimenti;
- Allegorico, che dice cosa credere;
- Morale, che dice come devi agire;
- Anagogico o dell’orientamento di vita.
Ebbe anche una singolare visione teologica della storia di chiara
coloritura escatologica e che egli divide in tre grandi età:
- L’età del Padre o della Legge antica di Israele;
- L’età del Figlio o della Legge nuova: la chiesa di Pietro p del papato;
- L’età dello Spirito Santo o del Terzo
Regno che sta per arrivare. Si tratta della chiesa di Giovanni, il cui
arrivo era previsto per il 1260, ed è, ovviamente, una chiesa
monastica, in cui scompare il profeta e il Vangelo viene vissuto nella
sua genuinità. Alla chiesa della gerarchia si succederà
quella della libertà nello Spirito.
Teoria, questa, che venne combattuta e condannata dal IV Lateranense.
I MOVIMENTI DI OSSERVANZA
Spinti sempre da una maggiore spiritualità e vicinanza a Dio
attraverso un radicale distacco dalle cose terrene, testimoniato da un
continuo affinamento dell’ideale di povertà, sorsero
all’interno degli stessi monasteri, tra il 1250 e il 1530, dei
tentativi di riforma degli stesi monasteri che, quanto a impegno
spirituale, stavano languendo. Questi tentativi si concretarono nelle
“Congregazioni di Osservanza”, costituite da monaci che
desideravano vivere in modo stretto e rigoroso la regola propria del
monastero di appartenenza.
Il Movimento di Osservanza ebbe una duplice partenza: dalla base e dal vertice.
L’unico tentativo partito dalla base fu quello dei Francescani e
fu promosso dal fratello laico Paoluccio Trinci da Foligno (1309-1391)
che, ritiratosi a Brogliano (VI), visse la più stretta
osservanza della Regola.
Nella prima metà del quattrocento questa forma di osservanza
francescana ebbe un’ampia diffusione per opera di S.Bernardino da
Siena, S.Giovanni da Capestrano, S.Giacomo della Marca e il beato
Alberto da Sarteano, chiamati le “Quattro colonne
dell’Osservanza”. Quelli che non vi parteciparono furono
chiamati i Conventuali.
Con bolla “Ut Sacra” Eugenio IV li autorizzò ad
avere una gerarchia propria (1431-1447) tra le proteste dei
Conventuali. Di fatto e di diritto si sancì una divisione
all’interno dell’ordine.
Negli altri ordini di mendicanti la riforma partì, invece,
dall’alto come nel caso dei Domenicani in cui l’abate diede
ordine che in ogni provincia si riservasse un convento per quei
Domenicani che erano desiderosi di vivere la Regola in stretta
osservanza.
A capo di tali conventi l’abate pose dei vicari da lui
dipendenti; il movimento non produsse, come per i Francescani, nessuna
divisione interna.
Tutte queste riforme ebbero come conseguenza l’osservanza
rigorosa della Regola, un ritorno e un recupero di quei valori propri
della vita monastica, come la preghiera, la solitudine, il silenzio, la
vita comunitaria, l’ascesi e la vita penitenziale. Fu, in
sostanza, una riscoperta e un ritorno alla spiritualità delle
origini.
DALLA RINASCITA CAROLINGIA ALL’UMANESIMO E RINASCIMENTO
LA RINASCITA CAROLINGIA
Il termine rinascita è un’espressione poco felice
perché essa fa pensare al Rinascimento, che portò alla
rivivificazione dei classici e della cultura profana, mentre quella
carolingia si riferì agli autori cristiani, alla Bibbia e ai
Padri. Con essa si posero i primi fondamenti della cultura occidentale
che risultò, pertanto, squisitamente cristiana.
Essa operò in una molteplicità di campi, come quello del
diritto, dello sviluppo dell’istruzione, romanizzazione della
liturgia.
Anche lo sviluppo del monachesimo si unificò sotto la prevalente regola di S.Benedetto.
Si approntò un sistema scolastico di istruzione pubblica
sponsorizzato da Carlo Magno, benché egli sapesse solo legge, ma
non scrivere.
Fu questa anche l’epoca dei grandi teologi il cui pensiero era
impregnato di neoplatonismo. Questi dettero alla teologia una notevole
profondità che trovò la sua definitiva sistemazione
scientifica nel secolo d’oro della scolastica, il XIII, grazie a
S.Tommaso d’Aquino (1227-1277).
LA TEOLOGIA DEL PERIODO CAROLINGIO
Uno dei campi maggiormente innovati durante l’epoca carolingia fu
la teologia. Essa affonda le sue radici nell’incontro del
cristianesimo con le nuove popolazioni germaniche e
dall’elaborazione di nuovi elementi scaturiti da tale incontro.
Si presentò prevalentemente come spiegazione della Sacra
Scrittura e una profonda connessione con i Padri della Chiesa. In
quest’ambito nascono le prime enciclopedie teologiche.
La più importante raccolta del periodo carolingio furono le
“Decretali pseudoisidoriane”, attribuite a Isidoro di
Siviglia; sorsero in Francia tra l’ 847 e 852 in cui sono
raccolti vari testi, chiaramente falsi, che avevano l’intento di
consolidare la riforma carolingia, di superare l’influsso
secolare della Chiesa, di favorire la disciplina ecclesiastica,
riordinare la gerarchia e favorire la vita cristiana del popolo. Il suo
influsso si farà sentire prevalentemente nella riforma
gregoriana (1073-1085).
La teologia carolingia, tuttavia, non fu rivolta soltanto alla Bibbia e
ai Padri, ma affrontò anche problematiche molto dibattute
nell’antichità e ancora presenti, come
l’adozionismo, la questione del Filioque, l’iconoclastia,
la predestinazione, questioni sull’Eucaristia, ecc.
LA RINASCITA OTTONIANA
Nell’Alto Medioevo la cultura era detenuta prevalentemente dalle
istituzioni ecclesiastiche, le quali beneficiavano da parte
dell’Impero di mezzi materiali e mecenatismo in genere, anche se
tutto ciò andava a beneficio dei sovrani teocratici.
La rinascita carolingia fu ripresa e sviluppata da quella ottoniana
durante la quale ebbero grande sviluppo le arti liberali, definite in
numero di sette e si articolavano nel trivio di grammatica, dialettica,
retorica; e in un quadrivio di aritmetica, geometria, astronomia e
musica. Riguardò ancora la storiografia, i testi liturgici, la
geografia e l’esegesi biblica.
XII SECOLO: LO SVILUPPO DELLA TEOLOGIA SCIENTIFICA
La teologia, che fino al XII sec. era di tipo monastico, caratterizzata
dal riferimento alla patristica e da una riflessione sapienziale, si
trasformò in teologia scientifica tra il XII e il XIII sec., che
si può ben definire come il secolo d'oro della scolastica.
Ancora una volta propugnatori di questa nuova teologia furono i
conventi, le fondazioni canoniche, le scuole e, infine, le
università.
Ogni scienza del tempo aveva un suo testo come "auctoritas" da cui
partiva e a cui si riferiva. Nella teologia esso era rappresentato
dalla scrittura e dalla tradizione dei padri.
La Bibbia era interpretata secondo le regole della tradizione dei padri.
Da un punto di vista tecnico-scientifico si ricorse alla "glossa",
cioè ai commenti che i magistri facevano a lato del testo,
metodo che già iniziò in epoca Carolingia (VIII-IX sec.).
Questo metodo trovò il suo ampliamento nel XII sec. attraverso
il triplice passaggio interpretativo: littera, sensus, sententia.
Attraverso l'interpretazione della lettera si arrivava a cogliere il
senso che, sottoforma di nuova glossa (sententia), era trasferito nel
patrimonio della tradizione, che in tal modo veniva arricchita.
L'interpretazione si basava su un duplice senso del testo: letterale e spirituale.
Molto diffuso era lo schema dei quattro significati: letterale,
allegorico, morale e anagogico. Nell'ambito dell'esegesi ebbero un
notevole spazio i commenti dei padri.
Questa teologia venne qualificata come "monastica", espressione della fioritura monastica del XII sec.
La cesura tra una teologia patristico-sapienziale e una scientifica fu
rappresentata da Abelardo (1142), che puntò ad una teologia
scientifica attraverso la speculazione. Le questioni intellettuali
dovevano essere risolte non per mezzo di citazioni di autori, la quale
cosa non portava a nessuno sviluppo di pensiero, ma attraverso uno
sforzo intellettuale.
L’inquieto quanto geniale Pietro Abelardo (1079-1142) nacque a
Nantes, in Normandia, studiò teologia con famosi maestri
dell’epoca. Fu il primo che affrontò lo studio delle
Scritture con il metodo dialettico critico che espose nella sua opera
“Sic et Non” (il Pro e il Contro) in cui elaborò
alcune regole di interpretazione, evidenziando i diritti della ragione
nella ricerca teologica.
Le sue ricerche e affermazioni innovative non sempre furono bene
accolte, ma spesso contrastate e condannate anche nel Concilio di Sens
(1140). Suo determinato oppositore fu S.Bernardo di Chiaravalle
(1090-1153).
Come movimentata fu la sua vita intellettuale, così lo fu anche
quella sentimentale. Benché chierico, sedusse e sposò
Eloisa da cui ebbe un figlio. Per questo subì la vendetta dello
zio, il canonico Fulberto, che lo evirò.
Per la vergogna si ritirò in convento nella solitudine, mentre
la bella Eloisa divenne monaca e badessa del monastero del Paracleto.
Si passa, così, da dopo Abelardo, da una scuola monastica,
orientata all’edificazione, ad una nuova scuola tenuta da
canonici e laici che mettono le premesse alle “Univeristates
studentium et magistrorum”
Logica e dialettica erano, pertanto, gli strumenti di base della nuova
teologia e utili anche per superare le discordanze interpretative ed
adattarle alle esigenze del presente. Vennero creati trattati di
dogmatica, tra i quali il più famoso fu quello di Pietro
Lombardo che fece scuola ben tre secoli: "Quattuor libri sententiarum".
Nell'ambito della teologia fu S.Tommaso d'Aquino (1224-1274) a dare una
sistematizzazione scientifica alla teologia e con lui la scolastica
raggiunse il massimo splendore.
Sorsero nuovi generi letterari: la "lectio", formata da commentarii
alla scrittura e ai testi di padre Lombardo; la"disputatio" in cui il
"magister" affrontava in chiave intellettuale questioni attuali. La
"predicatio" scolastica che recepiva in sé la "lectio" e la
"disputatio".
Tutti questi notevoli e nuovi sforzi teologici non dovevano
dimenticare, però, le loro finalità pastorali ed
edificanti per una maggiore comprensione della Scrittura. A questo
provvidero le "Summae theologicae", che erano sintesi di tutto il
lavoro teologico-scientifico dei maestri, che dovevano rendere
accessibile il sapere a tutti.
Questi studi di approfondimento portarono ben presto ad una autonomia
di pensiero, così che maestri e studenti si unirono in libere
corporazioni di studi generali, dando origine alle "Universitates
studentium et magistrorum", che si definirono sempre più anche
da un punto di vista istituzionale giuridico.
LE UNIVERSITÀ
Già in epoca carolingia si ebbe una forte spinta verso la
formazione intellettuale del popolo. Gli studi venivano svolti nelle
“Scuole Monastiche”, presso le abbazie, o nelle
“Scuole Cattedrali”, tenute da canonici.
Ma ecco che nel XII secolo incomincia a modificarsi il tipo di
insegnamento, favorito e promosso da Abelardo e dal suo metodo critico,
basato prevalentemente sulla ragione. Si andava, pertanto, formando la
rivoluzione culturale del XIII secolo: Parigi e Bologna furono i primi
due grandi centri della nuova cultura.
Gia nel 1200 a Parigi i Magistri di diverse scuole si riunirono in
corporazione, la cosiddetta “Universitas magistrorum”, che
ebbe ben presto approvazione ecclesiastica e statale e che da Gregorio
IX, nel 1231, fu resa indipendente dal vescovo e le conferì
numerosi privilegi.
A Bologna si sviluppò un’analoga Università, formata, però, da studenti.
Sulla falsariga di queste Universitates sorsero, un po’ ovunque in Europa, centri qualificati di insegnamento.
La massima autorità nel campo degli studi e
dell’insegnamento fu Parigi, in cui ebbero la loro culla la
filosofia e la teologia; mentre Bologna splendeva per la scienza del
diritto canonico e civile.
Si era così venuto a costituirsi il secondo polo del potere
autonomo accanto al Sacrdotium e l’Imperium: lo Studium.
Così che il canonico di Colonia, Alessandro de Roes,
attribuì a i tre Stati principali dell’Europa cristiana le
principali funzioni di servizio alla Cristianità:
all’Italia il Sacerdotium, alla Germania l’Imperium, alla
Francia lo Studium. Il conseguimento del dottorato in una di queste
Universitates equiparava il “dottore” alla nobiltà.
La scienza, dunque, nobilitava.
LE FORME DI DEVOZIONE
Durante il XII-XIII sec., nonostante un grande e nuovo sviluppo del
pensiero teologico, la vita devozionale e religiosa nella chiesa rimase
legata alla letteratura edificante, al sentimento religioso, all'amore
di Dio, alla meditazione sulla vita e sulla passione di Gesù che
divenne esempio di imitazione esistenziale e spirituale.
La devozione era pertanto legata alla tradizione. Poiché la
devozione nei suoi vari aspetti fu coltivata e sviluppata nei conventi,
essa ebbe una coloritura prevalentemente monastica.
In base all'ideale monastico di una preghiera costante e diffusa, si
ricorse alla preghiera dei salmi che scandiva i sette momenti della
giornata: Mattutino, Lodi, Ora terza, Ora sesta, Ora nona, Vespri e
Compieta.
Di questi salmi si crearono dei florilegi, cioè raccolte di
parti di salmi per la preghiera dei laici. La liturgia delle ore, sorta
nei conventi, si tradusse così in "Breviarium" per consentire
l'accesso a tutti.
Perché poi la preghiera fosse preservata dalla monotonia si
univa ad essa una gestualità corporea che l'accompagnava e la
vivacizzava.
Sorsero nell'ambito della "devotio" inni, preghiere, litanie che enumeravano ed enunciavano santi e attributi divini e mariani.
Nei "precum libelli" di epoca carolingia erano raccolte preghiere di
vario genere, che erano produzioni in forma nuova di vecchi libelli,
quindi sempre nella scia dell'antica tradizione. Divenne oggetto di
particolare attenzione la vita di Gesù nei suoi vari aspetti, e
in particolare la sua passione, le sue piaghe, il suo cuore, ecc.
Accanto alla devozione cristocentrica si accompagnò quella mariana sotto forma di orazioni, inni e litanie.
Le origini della devozione a Gesù, nelle sue varie forme, si
ritrovano nei conventi dove si associò la contemplazione alla
imitazione della vita storica e spirituale di Gesù dalla quale
non va dissociata la meditazione sulla chiesa antica, nonché
l'entusiasmo per le crociate, grazie alle quali la Terra Santa divenne
un tema religioso di rilevante importanza.
Grazie a questi aspetti di fervida religiosità dai toni
affettivi e meditativi, si produsse anche un'ampia letteratura
devozionale piena di spiritualità, di sentimenti e
sensibilità. Il desiderio di amore di Dio divenne il tema
principale della sensibilità religiosa e spirituale.
Era tenuta in rilievo anche la formazione spirituale e interiore di cui
si occupavano prevalentemente gli ordini mendicanti. Ne discende che
questa è anche l'epoca dei vari "Tractatus de modo orandi seu
meditandi", che insegnavano il modo di accostarsi alla preghiera e alla
meditazione.
Vi furono grandi maestri di mistica tra i quali va ricordato il tedesco
Meister Eckhart (1328) che vedeva nella "scintilla animae" il
fondamento ontologico della divinizzazione dell'uomo.
Sempre nel XIII sec. si ebbe anche un'intensa pastorale femminile che
ebbe profonde conseguenze nella religiosità della chiesa e del
popolo.
Il culto mariano e la canonizzazione di molte donne favorirono una
rivalutazione della figura femminile che incominciava a trovare propri
spazi e riconoscimenti all'interno della Chiesa.
Nei conventi femminili le religiose perseguivano la "conformitas Jesu"
per mezzo delle virtù monastiche della povertà,
umiltà e penitenza.
La meditazione e la contemplazione della passione di Gesù
divennero le principali caratteristiche della santità a cui
tendevano le numerose suore consacrate a Dio.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
Una fase importante del Medioevo e della Chiesa furono
l’Umanesimo e il Rinascimento, che costituirono la preparazione
al passaggio verso l’età moderna. È, quindi, una
fase di crescita e di evoluzione verso un mondo in cui non
c’è più, almeno in termini predominanti, il
carattere del sacro e del religioso. Un mondo che dalle Teocrazie
imperiali e Ierocrazie papali si evolve verso una realtà
storico-culturale in cui l’uomo, prendendo coscienza del proprio
valore come individuo razionale, si evolve verso l’affermazione
della propria autonomia dal mondo del sacro e del religioso e,
talvolta, in contrapposizione ad esso.
Il termine “Rinascimento” fu usato per la prima volta da
Balzac nel 1829, ma in senso appropriato da Michelet nel 1855.
Convenzionalmente abbraccia il periodo che va dal Petrarca (1304) alla
metà del XIV sec. (1550). Nell’ambito del Rinascimento, la
cui definizione è problematica, si inserisce l’Umanesimo,
quale sua componente letteraria e culturale. L’Umanesimo,
pertanto, più che una corrente filosofica è una sorta di
ampio movimento culturale che investì l’uomo nella sua
totalità e trova la sua origine nella riscoperta dei classici
latini e greci, più latini che greci, e in una rivivificazione
del loro mndo antico.
Pertanto, potremmo dire che la risuscitazione del mondo degli antichi
porta all’Umanesimo, da cui sfocia una diversa visione del mondo,
della vita, della società e della politica, per cui si potrebbe
definire anche “Rinascita” o “Rinascimento” che
proviene da una “Riscoperta”
L’Umanesimo ebbe la sua origine in Italia e ricevette un forte
impulso dagli eruditi greci, venuti in Occidente al tempo dei concili
riformatori e dopo la caduta di Costantinopoli (1453).
Nell’ambito del cristianesimo, la vera corrente
dell’umanesimo cristiano si espresse significativamente
nell’accademia platonica di Firenze, fondata da Cosimo de’
Medici.
Tre sono le caratteristiche di questo Umanesimo cristiano:
- La “Docta pietas”, intesa come forma di fede interiore.
- Il culto degli studi e della vita in rapporto
all’uomo e a Dio. L’interesse degli umanisti, infatti,
è l’uomo religioso e la sua crescita, tanto da disprezzare
le scienze logiche e apprezzare, invece, quelle morali che favoriscono
la crescita morale dell’uomo.
- Romanità latina come gusto del latino
classico in contrapposizione ad una scienza moderna che, invece, si
esprime in volgare. Un culto dell’antichità latina che si
esprimeva, talvolta, in una vera e propria imitazione di vita e costumi.
Si può parlare, dunque, di umanesimo cristiano grazie anche a
figure come Marsilio Ficino e al suo allievo Pico della Mirandola, che
praticarono uno stile di vita ispirato a Platone, ma non senza una
coloritura cristiana.
Non va, poi, dimenticato Lorenzo Valle, un “anticlericale” mosso da un profondo amore per il cristianesimo.
Lo spirito critico degli umanisti si sprigionò nei confronti
degli abusi del clero e di una vita dissoluta di certi papi e della
Curia romana, prospettando un nuovo cristianesimo come un ritorno al
Vangelo e alla Chiesa primitiva.
L’Umanesimo si qualificò per il suo studio e la riscoperta
delle antichità latine, viste come un’epoca d’oro
per l’umanità. Un’umanità verso la quale gli
umanisti volsero la loro attenzione per un suo miglioramento,
scrollandosi di dosso la pesante cappa di una società feudale e
fortemente condizionante la libera espressione
dell’individualità umana.
In questo contesto l’Umanesimo scopre il pluralismo religioso e
morale, completamente assente nella cristianità medievale. Da
qui scaturisce l’idea di tolleranza verso le altre religioni
evidenziando, invece, la primarietà dell’uomo e le sue
esigenze.
CHIESA E GERARCHIA IN EPOCA RINASCIMENTALE
Roma e lo Stato pontificio, di cui era capitale, decaddero vistosamente
durante il settantennio avignonese (1305-1376) e il quarantennio del
Grande Scisma occidentale (1378-1477) conseguente da quello.
Fu giocoforza per il papato servirsi degli artisti e dello
strumento del mecenatismo per abbellire Roma, sede del papato, e in cui
riflettere un’immagine di ritrovata potenza della Chiesa.
Il Rinascimento, quindi, fu l’occasione per una ricerca di
prestigio del papato da dopo il Concilio di Costanza che con la sua
“Haec sancta” aveva cercato di spodestare il papato.
Nicolò V (1447-1455) fondò la prestigiosa Biblioteca
Vaticana, mentre Pio II (1458-1464) fu tra gli umanisti più
convinti. Il papato, pertanto, attraverso l’arte e la cultura
perseguiva la propria affermazione e l’esaltazione della Chiesa,
così che Roma, in pieno Rinascimento, ricoprì il ruolo di
città universale.
Ma in questa ricerca di splendore temporale la Chiesa perse quello
spirituale, così che la civiltà rinascimentale, con i
suoi aspetti mondani e scolastici, finì per dominare la
gerarchia ecclesiastica. Sono, infatti, proprio di questo periodo i
papi che ebbero una condotta morale che potremmo eufemisticamente
definire disdicevole e vergognosa.
LO SPIRITO RIFORMATORE: GIROLAMO SAVONAROLA
La vita del papato rinascimentale non fu proprio esemplare, ma
toccò decisamente il fondo della decadenza morale con Alessandro
VI (1492-1503); un papa eletto grazie a sfacciate manovre simoniache da
un Collegio cardinalizio totalmente corrotto.
Abusò sfrontatamente del suo ministero con una totale assenza di
responsabilità morali, subordinando tutto ai suoi personali
disegni politici e nepotistici, gestiti nell’ambito di una vita
dissoluta e immorale da cui gli nacquero quattro figli, oltre quelli
avuti da cardinale con altre donne.
In un clima e in un ambiente così corrotti nacquero spontanei,
per reazione, movimenti spiritualisti che puntavano ad una riforma
generale della Chiesa e ad una sua moralizzazione.
“Pro refomatione Ecclesiae Dei in capite et in membris” fu
lo slogan di questi movimenti che affondavano le loro radici nella
profonda religiosità popolare sostenuta dall’Osservanza
degli Ordini dei Mendicanti e dei Benedettini.
All’interno di questi movimenti spiritualisti e riformatori
spiccarono le figure di Girolamo Savonarola, Caterina Fieschi, Paolo
Giustiniani e Pietro Quirini, i maggiori esponenti dello spirito
riformatore.
Tra questi, un’attenzione particolare va rivolta a Girolamo
Savonarola (1452-1498). Entrato nei Domenicani, si segnalò per
la sua predicazione infuocata e profetica sulla necessità di un
rinnovamento nella Chiesa.
Il suo forte richiamo alla penitenza e alla conversione provocò
un profondo mutamento nei costumi dei fiorentini e, dopo la caduta dei
Medici (1494), mutò il volto alla città.
L’attività del Savonarola fu di tipo espansivo: da una
propria vita interiore forte ed austera, passò a riformare il
convento benedettino di S.Marco di cui era diventato priore; si
espanse, poi, alla città di Firenze e, infine, raggiunse il
papato di Alessandro VI che richiamò il Savonarola e lo ridusse,
ma inutilmente, al silenzio. Alessandro VI minacciò, allora, di
interdetto la città di Firenze se non avesse provveduto a
tacitare il Savonarola. Cosa che avvenne nella notte dell’ 8
aprile 1498: il convento di S.Marco venne assalito dagli avversari del
Savonarola, che fu preso con altri due suoi confratelli, torturati,
giudicati e condannati come “eretici, scismatici e spregiatori
della Santa Sede”.
Queste alte grida, benché talvolta eccessive e smodate, rimasero
inascoltate nella Chiesa che, immersa nel suo lusso rinascimentale che
la rendeva insensibile ai richiami, non si accorse che si stava
preparando in Germania il grande scisma di Lutero che avrebbe spaccato
nettamente in due l’ormai esausto Impero Romano e la
Cristianità occidentale.