APPUNTI
DI
ANTROPOLOGIA TEOLOGICA
(Elaborazione dei miei appunti integrati da
sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)
PARTE
BIBLICA
Scarica PDF
Premessa
L'antropologia teologica sviluppa un discorso
cristiano sull'uomo, colto fin dalle sue origini e, via via, lungo
la storia, fino alla sua fine. Tra la protologia, quindi, che
affronta l'uomo nelle sue origini, e l'escatologia, che lo
coglie nelle sue realtà ultime, si pone di mezzo l'uomo visto e
pensato in una prospettiva squisitamente cristiana.
La storia del pensiero umano ha proposto varie
visioni della vita dell'uomo, percepita talvolta come "un'avventura
che si chiude tragicamente", "una partita a carte che si
cerca di giocare al meglio con ciò che si ha"; e ancora: "L'uomo
è ciò che mangia", "L'uomo è un animale ragionevole",
ecc. Ogni epoca, dunque, ha cercato di dare una definizione,
un'interpretazione dell'uomo secondo una propria visione culturale e
storica del momento.
In tutto questo grande gioco di comprensioni
sull'uomo, che cosa ha da dirci Dio e la sua Parola? Proprio perché
noi affrontiamo lo studio dell'uomo da un punto di vista cristiano,
è giocoforza riferirci alla Bibbia e, qui, all'inno cristologico
tratto dalla lettera di Paolo agli Efesini.
L'inno cristologico di Ef.
1,3-12
Il testo di questo inno cristologico, ma che si muove
su di uno sfondo chiaramente trinitario, si aggancia al genere
letterario delle "berakah" della tradizione giudaica il cui
contesto, soprattutto nel periodo postesilico, è liturgico.
L'attore principale di tutto l'inno è Dio, che viene
qualificato come il "Padre del Signore nostro Gesù Cristo".
Significativa è quest'ultima espressione in cui la figura di Gesù
viene associata ai titoli di Cristo, che lo colloca nella
prospettiva messianica , e di Signore, titolo che proietta Gesù
nella dimensione di esaltazione postpasquale.
L'azione del Padre, poi, si sviluppa tutta lungo il
corso dell'intero inno attraverso il solo Cristo: per ben 10 volte
si dice "in lui", "nel quale", "in Cristo", "per
opera di Gesù Cristo", significando che il Padre è il motore
dell'intera salvezza, ma che questa è interamente attuata in e per
Cristo, qualificato come suo Figlio.
Sull'intera opera del Padre attuata dal Figlio viene
posto il sigillo dello Spirito, che diviene caparra, cioè anticipo
impegnativo da parte di Dio delle realtà future in cui i credenti
sono già inseriti, anche se non ancora pienamente.
Infine, l'inno possiede in sé un dinamismo: l'azione
del Padre espressa nel Figlio ha delle finalità che vengono
testimoniate da quei sette "affinché, perché, per". L'operare
del Padre, quindi ha un obiettivo: ricondurre la storia nel proprio
ciclo vitale per mezzo di Cristo che viene costituito, in conformità
al disegno salvifico, centro ricapitolatore dell'intera creazione e
dell'intera azione salvifica del Padre nello Spirito. Questo
significa che l'umanità e la sua storia non sono state abbandonate a
loro stesse. Per questo i cristiani sanno di avere delle buone
ragioni per ringraziare Dio e ricolmarlo con quella benedizione con
cui sono stati loro stessi, per primi, benedetti.
L'inno è una "euloghia" che ha carattere
comunitario (frequente, infatti, è l'uso del pronome "noi": 8
volte) ed è strutturata in tre parti:
a) Un'introduzione
(v.3) in cui Dio è oggetto e soggetto di benedizione e in cui
viene delineato fin da subito l'orizzonte trinitario in cui l'inno
si muove: Dio, che è Padre di Gesù Cristo che ci benedice con ogni "benedizione
spirituale", cioè per mezzo dello Spirito. Su questo schema
trinitario si snoda tutto il disegno della storia della salvezza che
va da una elezione pretemporale ad un orizzonte escatologico,
passando attraverso la rivelazione cristologica e la dimensione
ecclesiale.
E' un inno che racchiude in sé tutta l'antropologia
cristiana, vista in un orizzonte cristologico. Infatti Cristo, qui,
è posto sia all'inizio dell'avventura umana che alla sua fine, posta
sotto il segno della redenzione: "in lui ci ha scelti prima della
creazione del mondo ... predestinandoci", "nel quale abbiamo
la redenzione per mezzo del suo sangue e la remissione dei peccati",
"il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose".
b) Una parte
centrale (vv. 4-10) In questa parte ci vengono
esposte le ragioni della benedizione:
- la nostra elezione ("ci ha scelti),
quale primo atto creativo di Dio che si pone ancor prima
della creazione stessa ed è finalizzata alla nostra
santificazione, cioè alla nostra incorporazione nel ciclo
vitale di Dio stesso.
- la nostra predestinazione ad essere
suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo e il tutto
avviene secondo il beneplacito della sua volontà, cioè
secondo un disegno precostituito, si può dire nato insieme a
Dio.
Già in questi primi due atti (elezione e
predestinazione) rileviamo in sintesi l'intera azione salvifica
di Dio, che viene operata in Cristo per mezzo dello Spirito.
Ed ecco che il disegno concepito da Dio al di là
dello spazio e del tempo (elezione e predestinazione), si fa
ora azione concreta nella storia e ci investe tutti quanti; e questo
è un altro motivo di benedizione:
- abbiamo la redenzione mediante il suo
sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza
della sua grazia che ha abbondantemente riversata su di noi.
c) Nella terza parte (11-14)
l'azione di benedizione-ringraziamento si dispiega in senso
ecclesiologico e celebra l'impatto storico salvifico della nostra
benedizione in Cristo. Essa si è riversata su due soggetti: un "noi",
che sono i cristiani provenienti dal giudaismo, fatti eredi e
beneficiari della predestinazione secondo il disegno divino,
richiamandosi così a Israele; e un "voi", che si
riferisce ai cristiani provenienti, invece, dal paganesimo e per i
quali vengono ricordate le tre tappe del cammino di conversione: "l'ascolto
della parola di verità", da cui è nata la fede "l'aver in
essa creduto" a seguito della quale fu conferito il "suggello
dello Spirito Santo", cioè il battesimo.
Questa terza parte si chiude con il v.14 in una
prospettiva escatologica in cui è lanciata la comunità cristiana,
tutta contrassegnata dalla "caparra", cioè dal dono di quello
Spirito che segnerà e caratterizzerà i cieli nuovi e la terra nuova.
Anche la "Gaudium et Spes", nel
paragrafo 22, dal significativo titolo di "Cristo, uomo nuovo",
evidenzia il carattere cristologico dell'antropologia cristiana: "In
realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce
il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura
di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo che è il nuovo
Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore,
svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua
altissima vocazione"
Cristo, quindi, si pone come la chiave interpretativa
dell'uomo e del suo esistere; in lui l'uomo trova il suo senso: è,
infatti, nel vivere e nel morire di Cristo, che l'uomo ritrova il
senso del suo vivere e del suo morire.
Essa al par. 41 riprende: "Ma soltanto Dio ... può
offrire a tali problemi una risposta pienamente adeguata, e ciò per
mezzo della rivelazione compiuta nel figlio suo fatto uomo. Chiunque
segue Cristo, l'uomo perfetto, si fa lui pure più uomo".
Cristo, dunque, è la risposta del Padre ai problemi
dell'uomo. Egli si costituisce come l'uomo perfetto, poiché è l'uomo
così come lo ha pensato il Padre, così come lo ha concepito nel suo
disegno originale. Per questo seguire Cristo, accoglierlo nella
propria vita l'umanità dell'uomo viene esaltata e trova il suo pieno
compimento.
C'è, quindi, come si può ben vedere, uno stretto
legame tra antropologia e cristologia: la prima va letta alla luce
della seconda.
Ma anche l'AT si è interrogato sulla natura
dell'uomo, del suo destino e del senso del suo vivere.
In tal senso si propone il Salmo 8, una
delle pagine più toccanti dell'AT. Questo salmo canta la
magnificenza del nome di Dio, che si rivela nei cieli e nella
mirabile opera della creazione; mentre sulla terra l'uomo diventa la
celebrazione stessa di Dio ed è costituito, quale immagine di Dio,
signore di tutto il creato.
Questo salmo può essere considerato come una serena e
gioiosa meditazione di Gen.1. Nato per la liturgia, è un inno di
lode a Dio che viene celebrato nella sua creazione.
Il v.2 "O Signore, nostro Dio, quanto è
grande il tuo nome su tutta la terra" forma inclusione con
l'identico v.10 . Quanto ci sta di mezzo, la grandezza della
creazione colta nella sua magnificenza e nel suo splendore, diventa
tutto celebrazione di lode.
I vv.3-4 cantano della grandezza di Dio, che
afferma la sua potenza contro i suoi avversari "con la bocca dei
bambini e dei lattanti".
I vv.5-9 sono riservati all'uomo intronizzato
nel creato: "Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria
e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle
tue mani, tutto hai posto sotto ai suoi piedi" (vv.6-7).
Il salmista, dopo aver considerato la grandezza del
creato e la sua magnificenza, si interroga sull'uomo, che con il
v.5 è posto significativamente al centro dell'inno di lode per
dire che egli è al centro del creato: "che cos'è l'uomo perché te
ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?"
Di fronte all'immensità dello spazio popolato dalle
innumerevoli stelle e avvolto nel suo profondo mistero, come si pone
l'uomo? Esso in confronto è una nullità. Ma non così la pensa il
salmista, che riconosce come la grandezza di Dio ha investito
l'uomo, intronizzandolo nel creato e dandogli ogni potere e dignità
regali. La grandezza dell'uomo, quindi, dipende soltanto da Dio,
autore primo ed unico della glorificazione dell'uomo.
Le azioni dei verbi, infatti, "ricordi", "curi",
"l'hai fatto", "l'hai coronato", "gli hai dato
potere" hanno per soggetto Dio stesso ed esprimono la sua
attenzione e il suo operare per l'uomo. La dignità dell'uomo,
pertanto, proviene e dipende unicamente da Dio, che si prende
cura e si ricorda dell'uomo; un
ricordarsi che è finalizzato al fare (Zakar=
ricordarsi; Paqad= prendersi cura).
All'azione di Dio su di lui, l'uomo è chiamato a
riconoscerla, perché essa si pone all'origine della sua dignità e
del senso del suo esistere. L'uomo, dunque, va visto sempre in
rapporto a Dio e questo è il senso di ogni antropologia teologica.
Il rinnovamento
dell'antropologia teologica
Nei vecchi manuali di teologia, l'antropologia
teologica era il prodotto finale di quattro filoni confluenti: 1) La
creazione; 2) il peccato originale; 3) la grazia; 4) i novissimi e
si sviluppava su di una base prevalentemente ragionativa e
filosofica, secondo gli schemi della neoscolastica.
A partire dal Vaticano II, essa ha subito un processo
di rinnovamento e di sviluppo, al punto tale da diventare una
scienza a parte.
Ciò che ha promosso tale rinnovamento furono tre
elementi fondamentali: 1) un rinnovamento biblico che si
stacca dalla filosofia; 2) una maggiore attenzione alla storia,
percepita, ora, come un insieme di eventi da cui traspare l'azione
di Dio e ne diventa il luogo privilegiato di incontro e di dialogo
con l'uomo; 3) la riscoperta della centralità della figura di
Cristo, che diventa la nuova chiave di lettura dell'uomo e della
sua storia.
Il dato biblico
Proprio perché "teologica", l'antropologia va
letta alla luce della Parola di Dio che, unica, sa svelare il
mistero dell'uomo all'uomo. Vedremo la questione dal punto di vista
del N.T. e più precisamente da quello dei Sinottici,
di S.Paolo e della Scuola giovannea.
I SINOTTICI
Come viene visto l'uomo nei Sinottici? La chiave,
attorno a cui tutto gira, è il Regno di Dio. Non a caso il vangelo
di Marco si apre con l'annuncio: "Il tempo è compiuto, il regno
di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15),
mentre Luca dirà: "Il Regno di Dio è in mezzo a voi". Questo
è l'annuncio entro cui leggere l'uomo. Ma come si colloca l'uomo
all'interno di questo annuncio?
Prima di rispondere a questa domanda, bisogna capire
che cos'è questo Regno. Ai discepoli di Giovanni che lo
interrogavano se era lui che doveva venire o dovessero aspettare un
altro, Gesù risponde: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete
visto e udito: i ciechi riacquistano la vista,, gli zoppi camminano,
i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai
poveri è annunziata la buona novella" (Lc 7,22).
Con questa risposta Gesù qualifica se stesso e la sua
missione nei confronti dell'uomo: egli è l'inviato del Padre, "o
ercomenoV" (titolo messianico), per rigenerare l'uomo alla
vita stessa di Dio. Il lungo elenco che Luca fa delle varie
disgrazie che affliggono l'uomo, indica lo stato di degrado in cui
l'umanità, decaduta e travolta dal peccato, viveva. Gesù, dunque si
manifesta come l'azione rigenerante del Padre sull'uomo.
Le guarigioni costituiscono il segnale del ritorno di
Dio in mezzo agli uomini, la cacciata del "principe di questo
mondo" (Gv 12,31) e la ricostituzione del Regno di Dio: "Se
invece io caccio i demoni con il dito di Dio, è giunto dunque a voi
il regno di Dio." (Lc 11,20).
Il Regno di Dio, dunque, è la ricostituita signoria
di Dio in mezzo agli uomini e in cui l'uomo, rigenerato a Dio, è
inserito nello stesso ciclo vitale di Dio.
Con queste guarigioni, segno del ristabilito rapporto
tra Dio e gli uomini, Gesù restituisce la dignità, perduta con il
peccato, all'uomo. Una dignità che affonda le sue stesse radici in
Dio e da qui trae la sua linfa vitale. Gesù fa capire all'uomo, da
un lato, che egli ha molti limiti impostigli dal peccato, limiti che
lo mortificano e ne impediscono lo sviluppo; dall'altro, che egli è
destinato ad orizzonti completamente diversi da quelli in cui è
vissuto fino ad ora.
L'intera missione di Gesù si manifesta come una lotta
dura contro questi limiti dell'uomo, simbolicamente espressi nelle
sue tentazioni: qui Gesù fa capire che è possibile vincere e lui ha
vinto per conto nostro e ci ha regalato la sua vittoria, ci ha
inserito in essa.
L'uomo, pertanto, viene liberato dal male che lo
mortifica e da tutti quegli aspetti che lo imprigionano: leggi,
osservanze dei sabati, ecc.
La finalità dell'intervento di Gesù è quello di
costituire l'uomo come figlio che ha come padre il
Padre stesso di Gesù, che ce lo rende disponibile e lo condivide con
noi e vuole che il rapporto sia di paternità-figliolanza: "Io
salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20,
17). Per far meglio comprendere questo speciale rapporto, che Gesù è
venuto ad instaurare tra noi e suo Padre, egli ci narra la parabola
del "Figliol prodigo" (Lc 15,11-32), quella dei "due figli"
(Mt 21,28). Egli, inoltre, ci ha insegnato come rivolgerci al Padre
nella preghiera del "Padre nostro" (Mt 6,5-13))
La figura dell'uomo che si prospetta all'interno di
questo Regno, oltre che di figlio, è di servo. La
nostra grandezza sta proprio nel metterci al servizio di Dio e che
trova la sua attuazione in quello verso ai fratelli.
Significativo, in tal senso, è il racconto della
guarigione della suocera di Pietro (Mc 1,29-31), liberata da una
febbre vorace che non le dava scampo. Guarita "si mise a
servirli". Essa è l'immagine dell'uomo redento da Cristo,
ricostituito nei suoi rapporti con Dio e che, proprio per questo,
testimonia il suo rinnovamento interiore nel mettersi al servizio
dell'altro.
Gesù stesso, del resto, ha dichiarato di non essere
venuto per essere servito, ma per servire. Un servizio che si è
fatto obbedienza fino alla morte di croce (Fil 2,8).
Il servizio, per sua natura, chiede il mettersi da
parte per lasciare spazio agli altri; è un condividere il pane della
propria vita, celebrando in tal modo la propria eucaristia, in modo
simile a quella di Gesù, che si è fatto pane spezzato per gli altri.
Altro aspetto che appare nei Sinottici è quello
dell'uomo come creatura. Gesù ci illustra come il
Padre si pone nei confronti della nostra creaturalità: egli è uno
che si prende cura di noi: "Non affannatevi, dunque, dicendo: Che
cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? ... Il Padre
vostro celeste sa che ne avete bisogno" (Mt 6,31). E' un Padre
che pone una particolare attenzione, quasi pignolesca, verso i suoi
figli: "Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono
contati; non abbiate dunque timore: voli valete più di molti passeri"
(Mt 10,30-31).
Gesù, dunque, è venuto a ridarci la nostra dignità,
offesa dal peccato, come figli, come servi del Regno, come creature
di Dio.
In Marco 12, 14-17, circa "il tributo a Cesare"
c'è un passaggio importante sul concetto di uomo. Come la moneta
porta impressa l'immagine di Cesare e quindi è di Cesare, così
l'uomo è immagine di Dio (Gen 1,26) e, mundi, è di Dio, gli
appartiene. In tal senso è significativo quanto si dice nel libro
dell'Esodo: "Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete
la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli"
(Es 19,5). Proprietà di Dio, dunque, è l'uomo; egli fa parte di Dio
ed è sua porzione, i suoi destini sono legati a quelli di Dio, così
come Dio ha legato i propri a quelli dell'uomo (Fil 2,6-11)
In Matteo 19,6-11 Gesù affronta la questione del
divorzio e conclude con un esplicito atto di accusa: "Per la
durezza del vostro cuore Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre
mogli, ma da principio non fu così" (Mt 19,8).
E', dunque, per la "durezza di cuore" che si
concesse il divorzio. Ebbene, Gesù è venuto a guarire anche tale
durezza.
Il cuore è il centro della vita, dei sentimenti e del
pensiero. Il cuore si pone come un modo di stare al mondo. La
durezza di cuore, pertanto, indica la nostra difficoltà di
progettare la nostra vita secondo la prospettiva e le logiche di
Dio.
In Matteo 10,28 Gesù afferma: "E non abbiate paura
di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere
l'anima; temete, piuttosto, colui che ha il potere di fa perire
l'anima e il corpo nella Geenna"
Contrariamente all'antropologia semitica che
concepiva l'uomo come una profonda unione di carne spiritualizzata e
spirito incarnato, Gesù sembra distinguere nell'uomo una parte
materiale e una spirituale. In realtà, Gesù qui non intende sposare
la dicotomia platonica di anima e corpo tra loro contrapposti. Che
cosa si intende, dunque, per anima? Essa è intesa come l'elemento di
congiunzione tra Dio e l'uomo; colei che consente un rapporto e una
comunione dell'uomo con Dio. Qui Gesù sembra voler dire che il
nostro corpo passa, ma il nostro rapporto con Dio rimane, per questo
va salvaguardato in assoluto.
Inoltre, Gesù nelle sue parabole ci presenta anche
scenari terminali, escatologici in cui ci viene prefigurata la
nostra condizione futura. Tutto ciò è sempre strettamente legato ad
una sua "venuta", ad un suo "ritorno". Si pensi, in
tal senso, alla parabola delle "Dieci vergini" (Mt 25,1ss) o
a quella dei "talenti" (Mt 25,14-30). In questo frangente c'è
sempre una "separazione" come nel caso delle "pecore e dei
capri" (Mt 25,31-46) o delle "dieci vergini" o dei "servi
operosi e quello infedele" (Mt 25,14-30).
Ci viene, infine, parlato del Paradiso. Al "buon
ladrone" crocifisso con lui egli risponderà: "Oggi sarai con
me in paradiso" (Lc 23,43). Il Paradiso, pertanto, viene a
costituirsi non come un luogo, ma un "essere con Gesù". Si
tratta, dunque, di una relazione.
S.PAOLO
Per ben comprendere Paolo bisogna partire dalla
centralità della pasqua. Egli non ha mai avuto rapporti con il Gesù
della storia, ma soltanto con il Cristo risorto. Tutto il pensiero
di Paolo è, quindi, influenzato dalla risurrezione di Cristo, tutto
è compreso nella sua luce.
Anche l'antropologia paolina è posta sotto il segno
del Cristo risorto e l'uomo in esso viene completamente ricompreso.
Nasce, dunque, con Paolo una nuova antropologia che conosce un'unica
dimensione: quella cristologica e si muove nell'orizzonte della
risurrezione.
L'uomo nuova creatura in Cristo
Paolo afferma che l'uomo può accedere ad una nuova
dimensione in Cristo soltanto per mezzo della fede, quale unica
risposta adeguata alla proposta salvifica di Dio manifestata in
Cristo: "Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza
di Dio per la salvezza di chiunque crede." (Rm 1,16). Il
vangelo, che qui Paolo annuncia, è il "Cristo crocifisso". In
esso è stata riposta la potenza salvifica di Dio a cui si accede
mediante la fede, che in quel "chiunque" acquista una
dimensione universale.
La fede, dunque, inserisce l'uomo nel Cristo risorto
e in lui diviene una nuova creatura: "Quindi, se uno è in Cristo,
è una creatura nuova" (2Cor 5,17) per cui ciò che conta ora non
è più l'essere o non essere circoncisi, ma l' "essere nuova
creatura" in Cristo, a cui si accede soltanto mediante la fede.
L'uomo credente, segnato dal battesimo, viene
rivestito di Cristo (Gal 3,27) e diventa, per ciò stesso, un essere
nuovo: "Vi siete, infatti, spogliati dell'uomo vecchio con le sue
azioni e avete rivestito l'uomo nuovo" (Col 3,10).
Per questo, l'uomo ricreato in Cristo, in lui
accorpato per mezzo del battesimo, acquisisce di diritto la
figliazione divina: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio
mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per
riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo
l'adozione a figli" (Gal 4,5). Proprio perché figli "noi non
abbiamo ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura,
ma abbiamo ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del
quale gridiamo: "Abbà, Padre" " (Rm 8,15-16).
Grazie a questa figliazione divina, l'uomo diventa
erede delle promesse della gloria messianica. Infatti, "Se siamo
figli, siamo anche eredi : eredi di Dio, coeredi di Cristo, se
veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche
alla sua gloria." (Rm 8,17).
Chi è "in Cristo" (e la formula "in Cristo"
è emblematica di tutto l'esistere cristiano e lo caratterizza)
riceve anche lo Spirito, che gli dà la liberazione interiore dal
peccato e dalle prescrizioni coartanti della legge: "Poiché la
legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato
dalla legge del peccato e della morte ... così che ... si
adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo
Spirito" (Rm 8,2.4).
In virtù del battesimo, poi, che lo ha incorporato a
Cristo, il credente forma un solo corpo, che è lo stesso corpo di
Cristo: "E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo
Spirito per formare un solo corpo ... così che ... ora, noi
siamo corpo di Cristo e sua membra, ciascuno per la sua parte"
(1Cor 12,13.27). Rivestiti, pertanto, di Cristo e in lui incorporati
per mezzo del battesimo, siamo divenuti un'unica realtà. Infatti, "Non
c'è più né Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è
più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù"
(Gal. 3,28). Per l'uomo cristificato non c'è più alcuna barriera
sociale, ogni distinzione di razza, cultura e sesso viene a cadere e
perde qualsiasi significato di fronte all'essere in Cristo Gesù.
I credenti, infine, sono già cittadini del cielo, in
quanto, con-morti con Cristo, sono anche con lui con-risorti: "E'
lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha
trasferiti nel regno di suo Figlio diletto" (Col. 1,13); essi,
pertanto, hanno in prospettiva l'eredità di questo stesso regno.
Camminare secondo lo Spirito
Questo nuovo modo di essere dell'uomo non è
indifferente per il suo vivere concreto, ma è gravido di
conseguenze. L' "essere in e con Cristo" si traduce di fatto
in un nuovo modo di operare, di pensare, di relazionarsi e di
guardare alle cose e agli altri. Nuovi parametri di valutazione si
impongono all'uomo rigenerato in Cristo.
La nuova etica, conseguente alla nuova situazione, si
radica nella nuova situazione ontologica venutasi a creare con il
proprio "essere in Cristo". Pertanto il cristiano deve vivere
in maniera degna e conforme alla sua vocazione, per questo Paolo ci
sollecita "... a comportarci in maniera degna della vocazione che
abbiamo ricevuto" (Ef. 4,1).
In Cristo, inoltre, abbiamo ricevuto anche il suo
Spirito, da cui traiamo la nostra nuova vita, per cui "Se
riceviamo vita dallo Spirito camminiamo anche secondo lo Spirito"
(Gal 5,25); e che cosa significhi concretamente questo, Paolo ce lo
dice nella sua lettera ai Galati: "Il frutto dello Spirito è
l'amore, gaudio, pace, longanimità, benevolenza, bontà, fede,
mitezza e speranza" (Gal. 5,22).
Se è nato allo Spirito, l'uomo rinnovato dalla
risurrezione di Cristo deve ritenersi morto al peccato e condurre
una vita conseguente. Infatti, se "siamo stati sepolti nella sua
morte ... consideriamoci, quindi, morti al peccato ... offriamo noi
stessi a Dio come viventi destati dai morti." (Rm 6,4-13).
Pertanto, lo Spirito Santo, che è lo Spirito del
Cristo risorto, è la vera legge interiore del credente che si attua
e si manifesta nella carità e, insieme a questa, la fede e la
speranza. Questa triade, fede-speranza-carità, costituisce la
dinamica del nuovo vivere cristiano e lo caratterizza: "Ringraziamo
sempre Dio ... memori del vostro impegno nella fede, della vostra
operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore
nostro Gesù Cristo" (1Ts 1,2-3).
Questo nuovo modo di vivere investe e informa anche i
rapporti sociali creando un nuovo modo di relazionarci agli altri:
tra padroni e schiavi, tra marito e moglie, tra genitori e figli,
imprimendo così alle comunità cristiane un ruolo profetico che
prefigura una nuova umanità e getta le basi per un nuovo ordine di
cose.
Alcuni capisaldi della nuova
antropologia paolina
"Grazia", "giustizia", "giustificazione",
"peccato", "universalità e solidarietà", "salvezza",
"fede in Cristo", "vita animata dallo Spirito"
costituiscono il nuovo vocabolario paolini su cui si sviluppa la
nuova antropologia, che si radica sulla novità del Cristo risorto.
La grazia
"Egli mi ha detto: <<Ti basta la mia grazia;>>"
(2Cor 12,9). Così si sente rispondere Paolo da Gesù, a cui si era
rivolto perché lo liberasse da una dolorosa "spina nella carne".
"Ti basta la mia grazia". E' questa
un'affermazione fondamentale in Paolo che vede proprio nella sola "grazia"
l'elemento da cui scaturisce l'intera azione salvifica di Dio in
Cristo. Essa esprime la gratuità della salvezza che ci viene donata
quando ancora eravamo, a causa del peccato, suoi nemici, diventando
così espressione di dono d'amore, inteso come la totale apertura di
Dio all'uomo, la sua totale accoglienza che si è fatta totale
donazione di se stesso in Cristo Gesù, divenuto lo spazio vitale in
cui il Padre ha realizzato il suo disegno di salvezza: recuperare
l'uomo alla dimensione divina da cui proveniva.
Pura grazia, dunque, che viene testimoniata
dall'amore gratuito di Dio, poiché essa ci è stata donata quando
ancora eravamo peccatori: "Infatti, mentre noi eravamo ancora
peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. ...
Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo
ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,6.8).
Da ciò si evince che questa grazia non è un qualcosa,
bensì un "qualcuno": Cristo stesso, dono del Padre
all'umanità peccatrice, perché l'uomo aderendo a lui nella fede sia
salvato.
L'uomo, pertanto, è preceduto dalla gratuità divina,
a cui non deve fare altro che aderire esistenzialmente per mezzo
della fede, l'unica risposta adeguata a tanto amore gratuito e che
inserisce l'uomo nel ciclo vitale di Dio.
La giustizia che si fa
giustificazione
Strettamente legata alla grazia, che è Cristo stesso,
dono gratuito di amore del Padre, è la "giustizia". Essa non
va intesa come un "dare a ciascuno il suo". Il termine
giustizia in Paolo acquisisce una duplice valenza: se riferita a
Dio, essa ne esprime la fedeltà a se stesso e la sua conformità
nell'operare secondo le promesse fatte ai Padri; se riferita,
invece, all'uomo, significa "salvezza", che si attua nel
vangelo per mezzo della fede: "Io infatti non mi vergogno del
vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede,
del Giudeo prima e poi del Greco. E' in esso che si rivela la
giustizia di Dio, di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà
mediante la fede." (Rm 1,16-17).
Questa giustizia divina, che esprime la fedeltà di
Dio al suo piano di salvezza e che diventa per l'uomo salvezza,
acquisita per mezzo della fede, si traduce in giustificazione.
La giustificazione , come dice la parola stessa "iustum
facere", va intesa come l'azione di Dio finalizzata a rendere
l'uomo giusto, cioè nuovamente configurato a lui e capace di
intendere nuovamente il linguaggio e il pensiero di Dio, così come
lo era nei primordi.
Tale giustificazione avviene attraverso due elementi
essenziali: Gesù Cristo, in cui si manifesta e si attua la giustizia
di Dio; e la fede, cioè la totale apertura e accoglienza
esistenziali della proposta salvifica di Dio, operata per mezzo di
Cristo, da parte dell'uomo. Solo dall'incontro di questi due
elementi scaturisce la giustificazione.
Ma il rifiuto da parte dell'uomo comporta lo
scatenarsi dell'ira di Dio che, però, non è mai rivolta verso
l'uomo, bensì verso il peccato: "In realtà l'ira di Dio si rivela
dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini, che
soffocano la verità nell'ingiustizia" (Rm 1,18).
E' questa una costante dell'agire di Dio: egli non si
scaglia mai contro l'uomo, ma soltanto contro il peccato. Come qui,
così anche nella Genesi Dio maledirà il suolo da cui l'uomo trarrà
il suo sostentamento, ma non l'uomo: "All'uomo disse: << ...
maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e
mangerai l'erba campestre>>" (Gen. 3,17-18).
Ed ecco che Paolo, dopo aver proclamato solennemente
nei vv. 1,16-17 che il vangelo è potenza di Dio per la salvezza di
chiunque crede; e dopo aver percorso un lungo cammino da 1,18 a
3,20, durante il quale ha dimostrato, attraverso un complesso
castello ragionativo, che sia i pagani che i giudei sono tutti
accomunati sotto il dominio del peccato, senza prospettive di
salvezza per nessuno, Paolo riprende e sviluppa, portandolo a
conclusione con i vv. 3,21-31, il proclama iniziale (1,16-17) e ne
illustra le conseguenze: la giustificazione avviene per tutti per
mezzo della fede in Gesù Cristo, che è stato costituito da Dio quale
strumento di espiazione nel sangue (ilasthrion o Kapporet).
Conclude, dunque, Paolo affermando: "E non c'è
distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio,
ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia" (Rm 3,24).
La giustificazione, pertanto, non avviene per merito,
ma per grazia, cioè per mezzo di Gesù Cristo. Ed ecco, ora, il cuore
della teologia della giustificazione di Paolo: "Noi riteniamo
infatti che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente
dalle opere della legge" (Rm 3,28).
L'uomo come immagine di
Dio
Mentre il tema dell'uomo, quale immagine di Dio,
viene trattato a più riprese nell'A.T., in particolar modo nella
Genesi, nei Proverbi e nella Sapienza, nel N.T. è solo brevemente e
vagamente accennato da Marco nel riportarci il detto di Gesù: "Rendete
a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc
12,17).
Paolo, invece, si sofferma a lungo su questo tema,
che recupera a piene mani da Gen. 1,26 e gli attribuisce un valore
cristologico.
Sul tema dell'immagine Paolo sembra sviluppare una
sorta di sillogismo, partendo da Cristo, immagine di Dio, per
arrivare all'uomo in cui l'immagine di Dio si attua soltanto in
Cristo.
Paolo, pertanto, parte affermando che:
· La
vera immagine di Dio è Cristo, egli infatti "è immagine del
Dio invisibile, generato prima di ogni creatura" (Col.
1,15); e ancora "... perché non vedano lo splendore del
glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio" (2Cor
4,4). Paolo, dunque, afferma che Cristo è la vera immagine di
Dio.
· In
secondo luogo, svelando il segreto piano di Dio sull'uomo, Paolo
afferma che noi siamo sempre stati pensati e voluti ad immagine
di Cristo: "Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li
ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio
suo" (Rm 8,29) e ancora: "E noi tutti ... riflettendo
come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati
in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo
l'azione dello Spirito del Signore" (2Cor 3,18).
·
In terza battuta, Paolo conclude,
di conseguenza, che solo così, cioè solo in Cristo, l'uomo può
dirsi veramente immagine di Dio: "Vi siete infatti spogliati
dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo,
che si rinnova ... ad immagine del suo Creatore" (Col.
3,10).
Con questo sintetico ragionamento, Paolo afferma che
l'uomo è recuperato nuovamente come immagine di Dio, ma ciò si attua
solo attraverso Cristo, nuova immagine di Dio. Non più, quindi, in
maniera diretta, come lo fu nei suoi primordi, ma mediata.
Questo essere nuovamente immagine di Dio, per mezzo
di Cristo, in quanto a lui configurati nel battesimo, comporta un
risvolto etico: far corrispondere con le scelte di vita la nuova
realtà impressa in noi dal battesimo. In Cristo, infatti, siamo
diventati nuove creature, da lui rigenerate ad una vita nuova, che
comporta un rinnovato modo di agire anche nei nostri rapporti
sociali, caratterizzati dall'amore.
E proprio perché ormai siamo nuove creature, dobbiamo
porre un continuo impegno nel nostro rinnovamento esistenziale, per
adeguarci alla nuova realtà che vive in noi. In tal senso, Paolo ci
sollecita ad un nuovo stile di vita, tutto sacerdotale, tutto
liturgico: "Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di
Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi
alla mentalità di questo secolo,ma trasformatevi rinnovando la
vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è
buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,1-2).
Tale immagine di Dio, a cui siamo stati configurati
in Cristo, acquisisce anche una coloritura escatologica: "E come
abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo
l'immagine dell'uomo celeste" (1Cor 15,49). Sarà, quindi,
soltanto questo il momento in cui si compirà e apparirà pienamente
il nostro essere configurati a Cristo, immagine di Dio, volto del
Padre, e per questo noi pure, come nei primordi, nuovamente immagine
e somiglianza di Dio, in Cristo. Solo allora si rivelerà la nostra
vera natura di figli di Dio, quando saremo, assieme alla creazione,
liberati definitivamente dalla corruzione (Rm 8,19-25).
Universalità e solidarietà
nel peccato
"Abbiamo infatti dimostrato precedentemente che
Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del peccato ... E non
c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di
Dio" (Rm 3,9.23).
Paolo, dunque, è convinto che la realtà del peccato
abbia contaminato l'umanità intera e che, pertanto, nessuno può
dirsi fuori e lo dimostra con un lungo e complesso ragionamento, in
cui sia i pagani, per un verso, sia i Giudei per un altro, sono
tutti sottoposti alla legge del peccato. Gli uni, infatti, pur
potendo cogliere Dio dalla creazione, hanno preferito adorare la
creatura piuttosto che il Creatore (Rm 1,18-32); gli altri, pur
possedendo la Legge, l'hanno ignorata, ponendosi così alla pari di
quelli che non l'hanno mai conosciuta (Rm. 2,1-3,20).
Questo universale accomunamento sotto il peccato
rende l'uomo solidale in questo peccato: "Quindi, come a causa di
un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la
morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché
tutti hanno peccato." (Rm 5,12). Nel sottolineare questa
universalità e solidarietà nel peccato, Paolo vuole garantire
l'universalità e la solidarietà della salvezza in Cristo: nessuno
può illudersi di salvarsi senza Cristo e senza la solidarietà con
lui, poiché la colpa di Adamo ha raggiunto tutti.
Ed è a tal punto che Paolo crea un parallelismo tra
Adamo e Cristo, un parallelismo che è decisamente sbilanciato a
favore di Cristo, che con la sua grazia sovrasta la colpa di Adamo,
che ha travolto l'intera umanità. "Molto di più la grazia di Dio",
"si sono riversati in abbondanza" sono espressioni, infatti,
che indicano la potenza soverchianti di Cristo sul potere del
peccato.
Il fondamento biblico del peccato originale,
pertanto, non si trova in Gen.3, ma in Rm 5,12-21, in cui viene
esposta la dottrina della solidarietà nel peccato, ma, come abbiamo
visto, ancor più in Cristo.
"Adamo è figura di colui che doveva venire"
(Rm 5,14). Con questa espressione Paolo relativizza la figura di
Adamo, vedendo in esso soltanto una prefigurazione di colui che
doveva venire. Il primo Adamo, quindi, in funzione di Cristo, il
vero Adamo, il vero punto "A - W" da cui defluisce una nuova
creazione e verso cui confluisce l'intera storia, poiché questo è il
disegno del Padre: "...ricapitolare in Cristo tutte le cose,
quelle del cielo come quelle della terra." (Ef. 1,10).
L'interesse di Paolo per Adamo, quindi, è
strettamente legato a quello di Cristo, a cui è legato e in funzione
del quale è letto il primo Adamo.
Questa dicotomia tra i due Adamo, l'uno fautore della
caduta, l'altro rigeneratore di una nuova umanità, si ritrova anche
nel quotidiano vivere dell'uomo, che vede il bene, ma, a causa della
sua fragilità ereditata dal vecchio Adamo, sceglie il male. E'
proprio questo il dramma di Paolo: "Io non riesco a capire
neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma
quello che detesto; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato
che abita in me. ... Io infatti non compio il bene che voglio, ma il
male che non voglio. ... Sono uno sventurato! Chi mi libererà da
questo corpo votato alla morte?" (Rm 7,15-24).
Il tempo si è fatto breve:
un'escatologia paolina
Un'escatologia personale
La risurrezione di Cristo ha impresso alla storia un
movimento accelerato e vorticoso verso l'eschaton finale. Questa
ansia della fine imminente Paolo la esprime nella sua prima lettera
ai Corinti: "Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto
breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non
l'avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che
godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non
comprassero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero
appieno: perché passa la scena di questo mondo" (1Cor.7,29-31).
In questa prospettiva il vivere e il morire
non hanno più il senso di prima. Infatti, "Per me il vivere è
Cristo e il morire un guadagno ... Sono messo alle strette, infatti,
tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal
corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; dall'altra
parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne" (Fil.1,21-24).
Una frase questa che va letta nel contesto in cui
Paolo la pronuncia. Egli è prigioniero ad Efeso, intorno al 56-57, e
si sta decidendo sulla sua sorte, per cui egli si prepara e si
dichiara pronto anche a versare il suo sangue in libagione (Fil.2,17).
In questa espressione del vivere e del morire va
rilevato il nuovo senso cristologico che Paolo assegna a due aspetti
fondamentali dell'intera esistenza dell'uomo: il vivere è, per
Paolo, un "vivere per Cristo"; mentre il morire è un "essere
con Cristo". E' proprio questo che dà senso al vivere e al
morire dell'uomo: l'essere relazionati a Cristo. Il resto non conta.
Un'escatologia comunitaria
L'escatologia, che coinvolge il singolo credente, si
estende anche sull'intera comunità, che vive intensamente l'attesa
dell'avvento del Signore e che con il suo "Marana tha" ne
invoca la venuta.
In due suoi testi Paolo esprime in modo significativo
questa ansia di attesa: 1Ts 4,13-18 e 1Cor 15.
In 1Ts 4,13-18 Paolo, di fronte all'ignoranza
e all'afflizione di alcuni, illumina l'intera comunità sul destino
dei defunti e dei vivi nel momento della venuta del Signore. Che
cosa abbia provocato questo intervento di Paolo non ci è dato di
sapere. Probabilmente, dopo la dipartita di Paolo, che aveva
annunciato l'imminente ritorno del Signore, alcuni dei Tessalonicesi
sono morti prima della parusia. Questo doveva suscitare una certa
inquietudine: come si ponevano questi defunti di fronte
all'imminente venuta di Cristo? Questi morti erano esclusi dalla
salvezza finale?
Paolo affronta la questione in quattro battute:
· L'annuncio
del tema (v.13): Paolo vuole
delucidare la propria comunità sul destino di quelli che
sono morti, perché non restino nell'ignoranza;
· Confessione
di fede, che fonda l'argomentazione di Paolo
(v.14): la risurrezione di Cristo è il fondamento della
nostra risurrezione. La nostra dipende dalla sua.
·
Spiegazione e applicazione
fondate "sulla parola del Signore"
(15-17): rispetto alla risurrezione, nessun vantaggio
distingue i vivi dai morti. Quest'ultimi, infatti,
ritorneranno in vita e noi, i vivi, assieme a loro saremo
assunti in cielo con Cristo.
· Invito
finale (v.18): con un'espressione
di tipo parenetico, Paolo esorta i Tessalonicesi a
confortarsi a vicenda con queste parole, traducendo questa
loro fede nel concreto vivere quotidiano e rimanendo
radicati a questa fede.
E', dunque, un evento collettivo che coinvolge vivi e
morti assieme e il cui destino li accomuna tutti in Cristo Gesù.
Con la sua 1Cor.15 Paolo si rivolge a dei
greci, i Corinti, i quali mal sopportano l'idea della risurrezione
del corpo. Infatti tra i Corinti vi sono alcuni che negano la
risurrezione (v.12), qualcun altro si interroga sul come risuscitano
i morti e quale corpo avranno (v.35).
In tutto ciò il punto di partenza è sempre il Cristo
risorto, è lui il parametro di raffronto: "Se non esiste
risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo
non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana
anche la vostra fede ... e voi siete ancora nei vostri peccati"
(1Cor. 15,13-14.16). Paolo è chiaro: la risurrezione dai morti
dipende esclusivamente da quella di Cristo e, qui, il processo è
matematico: negare la risurrezione dai morti equivale a negare
quella di Cristo. Ma se così è, allora anche la nostra fede dovrà
essere messa in discussione, poiché essa si fonda unicamente sulla
risurrezione di Cristo. E' questa, infatti, che ha dato e dà valore
alla figura di Cristo, che lo ha rivelato come Messia e Figlio di
Dio; è questa che ha dato e da valore eterno, e per questo normante,
alla sua predicazione e alla sua opera.
Negare, quindi, la risurrezione dei morti equivale
togliere un fondamento essenziale alla nostra fede, perché essa è
strettamente legata a quella di Cristo, ne è una conseguenza logica.
Nella sua presentazione della risurrezione dai morti,
Paolo, dunque, pone a fondamento quella di Cristo: "Ora, invece,
Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti.
Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un
uomo verrà anche la risurrezione dai morti; e come tutti muoiono in
Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo" (1Cor
15,20-22). Cristo, qui, è presentato come la "primizia", cioè
la fonte e la causa di ogni risurrezione: è lui che ha acceso il
fuoco e la luce di un nuovo processo storico ed esistenziale
destinato a coinvolgere l'intera umanità e l'intero cosmo e a
ricondurli in seno a Dio.
Dopo aver affermato l'essenzialità della
risurrezione, fondamento non solo della nostra fede, ma anche causa
scatenante della risurrezione dai morti, Paolo passa a rispondere
alla seconda questione: "Come risuscitano i morti? Con quale
corpo verranno?" (1Cor.15,35).
Paolo spiega il "come" attraverso la metafora
del "seme" e la "pianta", che nasce dal seme. Il seme
è il corpo fisico, mentre la pianta rappresenta il corpo risorto.
Certo, dice Paolo, c'è continuità tra seme e pianta, ma sono due
realtà diverse. Così tra corpo fisico e quello risorto: l'uno è lo
sviluppo dell'altro. Ma come il seme, una volta trasformato in
pianta, cessa di essere seme; così il corpo fisico, una volta
trasformato dalla potenza dello spirito in corpo spiritualizzato,
cessa di essere fisico. Due realtà diverse, dunque, ma unica è la
matrice: il corpo che tale è e tale rimane, benché ontologicamente
diversa sarà la sua natura.
Infatti, sia Isaia che Giovanni nella sua Apocalisse
parlano di celi nuovi e terra nuova, cioè di realtà che non saranno
altre da quelle da noi oggi conosciute, ma soltanto diverse sul
piano della natura.
Del resto, Gesù stesso si presenta, dopo la sua
risurrezione, con il suo corpo glorioso che da un lato, nessuno più
riconosce e questo sta ad indicare la radicale diversità rispetto a
prima; dall'altro, è ancora segnato dalle piaghe della
crocifissione, segno questo che quel corpo irriconoscibile è quello
di prima, ma trasformato.
Un'escatologia cosmica
L'eschaton finale coinvolge non soltanto l'individuo
e la comunità, ma anche il cosmo stesso che è strettamente
collegato, per mezzo dello stato di corporeità, agli uomini. Vige,
infatti, da sempre un principio di profonda solidarietà che lega
l'uomo al suo habitat naturale, che da sempre ne segue le sorti.
E' significativo, in tal senso, quanto afferma il
cap. 6 della Genesi: "Dio guardò la terra ed ecco essa era
corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla
terra ... la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li
distruggerò insieme alla terra" (Gen.6,12-13). La terra è qui
inquinata dal male a causa dell'uomo, per questa terra e uomo sono
uniti nello stesso destino.
Vige, dunque, questa profonda solidarietà tra cosmo e
umanità, per cui i destini dell'uno sono intimamente legati a quelli
dell'altra.
Paolo elaborerà questo concetto nella sua lettera ai
Romani al cap. 8, 19-22. Egli esordisce affermando che "la
creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di
Dio" (Rm.8,19). In questa prima apertura Paolo mette in stretta
relazione di dipendenza la creazione dall'uomo. Sarà la risurrezione
dell'uomo, in cui egli apparirà nel suo fulgore di figlio di Dio, a
dare il segnale alla risurrezione. Infatti essa è posta in uno stato
di "attesa paziente" rivolta verso l'uomo.
Il motivo di tale attesa viene immediatamente fatto
seguire da Paolo: " essa infatti è stata sottomessa alla
caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha
sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla
schiavitù della corruzione" (Rm 8,20-22). Viene qui affermato
quel principio di solidarietà che già abbiamo trovato in Gen.6,12-13.
Il cosmo, dunque, è stato infettato dalla caducità dell'uomo, ma
sarà anche riscattato dall'uomo rigenerato in Cristo.
Ma nell' "attesa paziente" la
creazione, a pari dell'uomo, "soffre e geme fino ad oggi le
doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi" (Rm
8,22-23). Viene riaffermata ancora una volta con quel "anche noi"
la solidarietà tra uomo e creazione. Interessante, comunque, è quel
"soffre e geme le doglie del parto". Come per l'uomo, avvolto
dalle realtà spirituali in cui è immerso con il battesimo, così
anche la creazione è già coinvolta nella realtà della risurrezione
di Cristo. Egli, infatti, con la sua risurrezione si è posto al di
là dello spazio e del tempo e abbraccia, ora, l'intera creazione che
è stata in lui cristificata. Egli, il risorto, è diventato il Cristo
cosmico che vive nella sua morte e nella sua risurrezione l'intero
cosmo. I gemiti del parto sono i gemiti di una nuova vita che sta
per nascere e che trova la sua origine nel Cristo risorto, da cui
defluiranno, ma già sono presenti anche se nascostamente, celi nuovi
e terra nuova.
Ecco, dirà Giovanni nella sua Apocalisse: "Vidi
poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di
prima erano scomparsi e il mare non c'era più" (Ap.21,1).
GIOVANNI
L'antropologia giovannea
Cosa pensa Giovanni dell'uomo? Chi è per lui l'uomo?
Egli ce lo dice più che a parole, presentandoci l'uomo per
eccellenza: "Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il
mantello di porpora. E Pilato disse loro: <<Ecco l'uomo!>>" (Gv
19,5).
L'uomo inteso da Giovanni è, pertanto, Cristo stesso,
non tanto il Cristo sofferente, ma il Cristo regale: egli infatti,
sia pur di spine, è incoronato; un Cristo che sta per accedere alla
sua glorificazione, verso quell'ora che si sta ormai compiendo e che
troverà il suo epilogo nella risurrezione.
Giovanni, quindi, ci sta parlando di un uomo che è in
divenire verso la sua glorificazione, un uomo che, proprio
attraverso la sofferenza, ha innescato un procedimento evolutivo
verso la sua totale affermazione e il suo totale compimento.
Nel fare questa affermazione "Ecco l'uomo",
Giovanni usa non il termine "aner", che
verrebbe ad indicare l'uomo per eccellenza, bensì l'espressione "anqrwpoj"
che dice l'uomo comune, l'uomo della strada, l'uomo in senso
generale. Ed è proprio questo senso di generalità che è racchiuso
nel Gesù presentatoci da Pilato. In lui, infatti, è racchiusa
l'intera umanità, i cui destini sono legati a questo "uomo comune".
Sarà proprio Gesù che dirà: "Io, quando sarò elevato da terra,
attirerò tutti a me" (Gv 12,32). In lui, dunque, è attratta e
incorporata l'intera umanità, ecco perché egli è l'uomo universale;
e in lui l'intera umanità è accorpata non soltanto alla sua
sofferenza, ma anche alla sua glorificazione.
Gesù, quindi, rappresenta per Giovanni "l'uomo
comune", per questo è l'uomo per eccellenza, perché Gesù è
l'intera umanità e la sua azione di morte-risurrezione avvolge,
permea, compenetra l'intera vita di ogni uomo e i suoi destini. In
lui è indicato all'uomo il suo cammino e il suo destino. Per questo
Gesù si presenterà anche come la "Via, la Verità e la Vita",
per questo egli si dichiarerà "risurrezione e vita" (Gv
11,25) a cui si accede soltanto per mezzo della fede. Infatti "...
chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me,
non morrà in eterno" (Gv 11,25-26). La fede, dunque, diventa
l'unico strumento idoneo per accedere alla novità di vita, l'unico
strumento perché l'uomo trovi la sua piena realizzazione e il suo
compimento.
La vita che viene data per
mezzo della fede
il tema della vita in Giovanni è fondamentale, basti
pensare a quante volte questo termine ricorre lungo tutto il suo
vangelo: ben 41 volte. Un termine che non è quasi mai da solo, ma in
genere è accompagnato da verbi che indicano il credere, sancendo, in
tal modo, una stretta connessione e un profondo connubio tra la vita
e la fede.
Potremmo dire che tutto il vangelo di Giovanni è uno
sviluppo di questi due temi tra loro interconnessi. Non a caso,
infatti, il Vangelo si apre al v.1,4 : "In lui era la vita e la
vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta"; e si chiude con il v. 20,31:
"Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo,
il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome".
In entrambi i versetti si parla di vita, in entrambi
si parla della diversa risposta degli uomini alla vita loro
proposta: nel primo c'è il rifiuto; nel secondo l'accoglienza per
mezzo della fede.
Essi, pertanto, formano una grande ed unica
inclusione che racchiude in sé il tema della vita e il dramma della
diversa risposta dell'uomo, che avrà diverse conseguenze: infatti "chi
crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato
condannato" (Gv 3,18)
Ma che cos'è la vita per Giovanni? Come accedere a
questa vita? Che cosa significa credere? Qual è, infine, l'oggetto
di questa fede?
Alla prima domanda, "che cos'è la vita",
Giovanni risponde: "In lui era la vita" (1,4) e "Io sono
la via, la verità e la vita" (14,6). Gesù Cristo, quindi, viene
indicato come la vera vita che proviene dal Padre. Una vita che
zampilla acqua per la vita eterna (4,14), esprimendo in tal modo la
dinamicità stessa di questa vita: essa non viene data una volta per
tutte, ma è un qualcosa che continua generare vita, rinnovando
sempre più l'uomo interiormente, perché tale vita scaturisce da Dio
stesso e colloca l'uomo nel ciclo vitale di Dio stesso.
E' una vita che non soltanto disseta, ma anche sfama
l'uomo, saziandolo nelle sue aspirazioni più elevate e sublimi e lo
spinge sempre più verso queste: "Io sono il pane della vita; chi
viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete"
(6,35). E', pertanto una vita che sazia e realizza pienamente l'uomo
nella sua umanità, predisponendola in tal modo al suo compimento
finale: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita
eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (6,54); si, la
risurrezione vista come il compimento definitivamente compiuto
dell'uomo in ogni sua dimensione.
Si noti, come Giovanni si esprime: "Chi mangia ...
e beve ... ha la vita": i verbi qui sono al presente per
indicare che questa vita si compie già fin d'ora in questo presente
storico e predispone l'uomo alla vita piena e definitiva che,
invece, dovrà venire, ma che in qualche modo è già presente: "...
io lo risusciterò nell'ultimo giorno".
E' l'escatologia presenziale che percorre tutto il
vangelo di Giovanni e lo caratterizza.
Ma come accedere a questa vita?
La risposta è semplice e chiara: "... perché chiunque crede in
lui abbia la vita eterna" (3,15). La fede, dunque, è l'unica
risposta adeguata per poter accedere a questa vita. Una fede che va
intesa come la totale apertura della propria vita Dio, un'apertura
che si fa accoglienza, un'accoglienza che si fa vita quotidiana.
Si tratta, quindi, di una esistenzializzazione della
fede, così che l'esistenza diventi un "esistere nella fede".
E' quanto Paolo stesso dice di se stesso: "Questa vita che io
vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio" (Gal.
2,20b); e questo porta a dire Paolo: "Non sono più io che vivo,
ma Cristo vive in me" (Gal.2,20a). Una fede, quindi, che pone
Paolo in Cristo, il quale, a sua volta, prende possesso di Paolo. Si
tratta, dunque, di una fede che crea una profonda compenetrazione,
quasi un'osmosi, tra il credente e Cristo.
Ma da dove nasce questa fede?
Giovanni risponde: "... chi ascolta la mia parola e crede a colui
che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio,
ma è passato dalla morte alla vita" (5,24).
In questo breve versetto Giovanni esprime tutta la
dinamica della salvezza: l'ascolto della parola
porta inevitabilmente, quasi come conseguenza logica, al
credere e il credere apre alla vita eterna
e questo fa evitare, da un lato, già da subito,
il giudizio di condanna; dall'altro crea all'interno
del credente una profonda dinamica di evoluzione e di trasformazione,
che lo coinvolge in ogni suo aspetto, riproducendo in se stesso il
morire e il vivere di Cristo stesso, per cui la vita del
credente è un continuo passaggio dalla morte alla vita.
Quando, poi, Giovanni parla di credere "in lui"
usa in greco due particelle che danno un diverso significato al
verbo credere: "en"
e "eiV". La
prima indica stato in luogo, per cui il credere pone il credente in
Cristo, lo rende partecipe della sua vita, lo incorpora a lui così
che egli diventa cristificato. La seconda indica un moto al luogo,
per cui il credere diventa un cammino verso Cristo, un orientarsi
esistenzialmente a lui, un decidere la propria vita per lui.
Le due particelle, pertanto, dicono bene l'idea del
credere: esso è un cammino esistenziale verso Cristo e che trova il
suo pieno appagamento e la sua piena realizzazione in lui, facendo
passare il credente dalla morte alla vita e collocandolo
definitivamente nella vita che è Cristo; e tutto ciò già fin d'ora.
La fede, dunque, colloca l'uomo in Cristo e in lui
gli consente di partecipare alla vita eterna. Ma in che cosa
consiste questa vita eterna?, Giovanni risponde: "Questa
è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che
hai mandato Gesù Cristo" (Gv 17,3). Il credere immette, dunque,
nella conoscenza di Dio. Ma che cosa significa "conoscere"?
Per l'ebreo, dalla mentalità concreta e immediata, il conoscere,
prima ancora di essere un processo intellettivo, è uno sperimentare,
un fare esperienza. Conoscere Dio e Gesù Cristo, suo Figlio,
significa, dunque, esperimentare Dio, avere esperienza di Lui e del
suo mondo offertoci nel Cristo. E il mondo di Dio, che ci è stato
rivelato nel suo Figlio, è un mondo di vita, che esprime tutto il
dinamismo dell'incontro, dello scambio, dell'accoglienza e della
donazione. Un mondo che è comunione proprio perché Dio è Amore, cioè
espressione massima di questa comunione.
Coinvolti in questo mondo divino, che è squisitamente
trinitario e, quindi, di comunione, siamo resi capaci di comunione,
che si esprime nell'amore, nell'accoglienza, nella donazione e che
viene testimoniato nella condivisione. Tutto ciò riesce a
trasformare i nostri rapporti interpersonali e a costituire tra di
noi quella divina comunità di amore, che è la Trinità stessa.
E', ancora, una vita che libera definitivamente dalla
morte, poiché "Io sono la risurrezione e la vita". Gesù,
dunque, si pone come "risurrezione", che esprime la
rigenerazione dell'uomo alla vita stessa di Dio e lo immette nel suo
mondo; una vita che per sua natura, perché divina, è continuamente
rigenerante e per questo vita piena e definitiva, che ci colloca
pienamente e definitivamente in Dio e ci consente di fare comunità
di comunione con Lui.
Il peccato: contrapposizione
alla vita
"In lui era la vita e la vita era la luce degli
uomini; ... ma le tenebre non l'hanno accolta" (Gv 1,4). Ecco,
dunque, il senso del peccato per Giovanni: il rifiuto della luce,
cioè di Cristo, luce degli uomini. E' la risposta sbagliata
dell'uomo all'offerta del Padre: "Dio ha tanto amato il mondo da
dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non
muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). L'amore del Padre è
tale che si fa dono nel Figlio e l'accoglienza di tale dono, per
mezzo della fede, innesta l'uomo nella stessa vita di Dio.
In Dio, infatti, non c'è alcun intento di condanna
per l'uomo, ma tutta la sua azione mira a recuperarlo alla sua
stessa vita. Dio, infatti, è totale accoglienza: "Dio infatti non
ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il
mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,17)
Ma, benché il dono del Figlio non voglia esprime
nessun giudizio sull'uomo, tuttavia spinge l'uomo a prendere
posizione nei confronti di tale dono.
A fronte di ciò si crea una situazione di "krisij",
cioè di giudizio che l'uomo stesso emette su di sé. L'esito di tale
giudizio dipende tutto dalla risposta che l'uomo dà a tale dono, per
cui: "chi crede in lui non è condannato; ma chi non
crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome
dell'unigenito suo Figlio" (Gv 3,18). Il mondo, dunque, di
fronte all'amore del Padre che si fa dono nel Figlio, si spacca in
due: chi crede e chi non crede. Appartenere all'una o
all'altra categoria non dipende da Dio, ma dalla risposta che l'uomo
dà.
Chi non crede, però, è già stato condannato. E questo
è un giudizio di condanna che si attua già nel presente ed è di
condanna per ché l'uomo con la sua incredulità si pone fuori dalla
vita stessa di Dio.
L'incredulità, dunque, è il peccato per eccellenza
che preclude all'uomo ogni possibilità di salvezza. E' questo il
peccato dei Giudei, che si chiudono di fronte a Gesù; è questo il
peccato del mondo. Giudei e Mondo in Giovanni sono sinonimi:
entrambi, infatti, assumono una valenza di chiusura e di lontananza
da Dio che si fanno chiusura di rifiuto.
In questo orizzonte anche il credente è sottoposto ad
un duplice peccato: un peccato che conduce alla morte e uno che non
conduce alla morte (1Gv 5,16-17). Soltanto il primo è veramente
mortale, perché pone fuori da Dio: è il rifiuto di Dio, il
rinnegarlo nel suo Cristo.
Ogni altro peccato è frutto dell'iniquità, di cui è
pervaso l'uomo per la sua fragilità, ma questo non conduce alla
morte, perché, dirà Paolo, "Non vi è più nessuna condanna per
coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).
L'importante, dunque, è rimanere in Cristo, è
l'accoglierlo nella propria vita, benché questa sia pervasa di
fragilità. L'importante è camminare sempre in Cristo, anche se per
la caducità del nostro essere, talvolta si cade. Questo è il peccato
che non conduce alla morte.
In tal senso, è significativo quanto dice Gesù agli
scribi e ai farisei che gli conducono un'adultera, perché emetta su
di lei un giudizio: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo
la pietra" (Gv 8,7). Ma chi è senza peccato? Nessuno. Infatti: "...
se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani, fino agli
ultimi" (Gv 8,9).
Questo sta a significare che la condizione di peccato
è propria dell'uomo e fa parte, suo malgrado, della sua natura
decaduta. Un concetto questo che verrà ripreso anche da Paolo: "E
non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria
di Dio" (Rm 3,23).
Ma l'incredulità e il rifiuto di Dio
esistenzializzati hanno già scritto in loro stessi la propria
condanna. E questo è il peccato che conduce alla morte.
L'escatologia giovannea
In contrapposizione alle attese future del giudaismo
e ad un certo atteggiamento cristiano volto prevalentemente al
futuro, quasi che la salvezza piena fosse riservata alla fine dei
tempi, Giovanni sviluppa in tutto il suo vangelo un'escatologia che
ha radici già qui nel presente. E' ciò che viene definito come "escatologia
presenziale", cioè le realtà ultime, che già hanno incominciato
a rendersi presenti con la venuta di Gesù.
In questa escatologia presenziale, punto di partenza
rimane la volontà salvifica di Dio, che "non ha mandato il Figlio
nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per
mezzo di lui" (Gv 3,17) e Gesù riprenderà questo concetto, lo
farà proprio confermandolo: "non sono venuto per condannare il
mondo, ma per salvare il mondo" (Gv 12,47).
In questa prospettiva il discorso della salvezza,
cioè del compimento definitivo e pieno dell'uomo, assume una
connotazione marcatamente cristologica: è lui l'alfa e l'omega (Ap
22,13). Nella sua lettera agli Efesini, Paolo vedrà Cristo come il
punto ricapitolatore di tutte le cose (Ef 1,10) e il centro
attuatore del disegno salvifico del Padre. Per ben dieci volte,
infatti, in questo inno cristologico (Ef 1,3-14) si dirà "in lui",
"per opera di Gesù Cristo", "nel suo Figlio diletto",
"nel quale", "in lui", "in Cristo", mettendo in
netto rilevo la centralità della figura di Cristo nell'attuazione
della salvezza, cioè del recupero dell'uomo alla sua dimensione
primordiale.
Ma questa salvezza e questa condanna, due aspetti
contrapposti di un'unica realtà: la vita eterna, che è la vita
stessa di Dio offerta anche all'uomo, trovano la loro origine già
qui nel presente: "Chi crede in lui non è condannato; ma chi non
crede è già stato condannato" (Gv 3,18). I verbi qui usati da
Giovanni sono tutti al presente e condizionano la salvezza al "credere",
cioè all'aderire esistenzialmente, ora, alla proposta di salvezza
del Padre, che si è fatta dono nel Figlio.
La salvezza o la condanna, pertanto, l'uomo se le
gioca qui in questa vita, ora, in questo presente: egli ha partita
vinta se aderisce esistenzialmente, ora, al "Verbo della vita";
sarà dichiarato il suo fallimento se rigetta questo "Verbo" e
si chiude esistenzialmente a Lui.
Paradiso, Inferno, Giudizio, mondo dello Spirito,
mondo di Dio sono realtà già presenti e pesano sull'uomo come un
giudizio già avvenuto. Sono realtà che si impongono all'uomo fin
d'ora e già, fin d'ora, l'uomo è chiamato a prendere
esistenzialmente posizione nei confronti di queste realtà. Infatti,
"chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi
ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al
giudizio, ma è passato dalla morte alla vita" (Gv 5,24).
Se osserviamo attentamente, i verbi qui sono tutti
rigorosamente al presente; ciò significa che il gioco della salvezza
o della condanna si compie in questo momento e l'uomo è chiamato,
ora, a decidersi esistenzialmente; e nell'istante che egli si decide
per il Cristo "è passato dalla morte alla vita". Il verbo
greco, qui usato, è un perfetto (metabebhken)
che indica un'azione che si è già compiuta (è il momento della
nostra scelta), ma che continua il suo processo di evoluzione
nel presente, caratterizzando il vivere dell'uomo. Questo significa
che ciò che determina la nostra evoluzione verso la vita o verso la
morte trova la sua origine in una opzione fondamentale, che
qualifica l'uomo per la vita o per la morte e che delinea il suo
stile di vita, già fin d'ora.
E' il "credere", cioè l'aderire
esistenzialmente a Cristo, il decidersi per lui con la propria vita,
che consente all'uomo di "conoscere", cioè di essere fin
d'ora inserito nella vita divina, di condividerla e di
sperimentarla.
Per Giovanni, dunque, non c'è da aspettare la fine
del mondo e il realizzarsi pienamente delle realtà ultime, ma il
giudizio è già si compie ora.
Ma da dove nasce questa escatologia presenziale di
Giovanni?
Giovanni compie un semplice ragionamento, che espone
all'inizio del suo vangelo: "In principio era il Verbo, e il
Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria"
(Gv 1,1-2.14). In altre parole: il mondo di Dio, le realtà di Dio,
da cui proveniamo e verso cui siamo chiamati, si sono fatte carne e
sono venute ad abitare in mezzo a noi.
Quindi, l'eschaton finale, verso cui l'uomo e
la sua storia sono incamminati, si è già reso presente in mezzo a
noi, fa parte ormai di noi, cammina in mezzo a noi. Questo
eschaton finale si chiama Cristo. Non dobbiamo, pertanto,
aspettare la fine dei tempi per entrare in questo eschaton
poiché esso è già in mezzo a noi e con la sua presenza ci interpella
e ci spinge a prendere posizione nei suoi confronti. L'ultimo
giorno, pertanto, non sarà diverso da questo giorno che stiamo
vivendo ora.
In questo "Eschaton finale" noi già siamo
inseriti fin dall'eternità. In tal senso Paolo non ha dubbi: "In
lui ci ha scelti prima della creazione del mondo" (Ef 1,4).
Questa elezione è stata ora resa stabile e definitiva da Cristo: "nel
quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione
dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,7).
L'uomo, pertanto, vive già, ora, in questo "Eschaton
finale", per cui qualsiasi scelta che egli opererà non sarà
indifferente sul suo esito definitivo, perché l'uomo si muove già
nei tempi ultimi.
Pertanto, chi crede è già passato ora dalla morte
alla vita. Vita eterna e Giudizio, quindi, sono realtà che si
pongono già qui nel nostro presente. La nostra opzione fondamentale
racchiude già in sé un giudizio, che può essere o di condanna o di
salvezza, a seconda della posizione che l'uomo prende nei confronti
di questo "Eschaton finale": adesione esistenziale o rifiuto
esistenziale, adesione o rifiuto, cioè che si compiono con il nostro
vivere, lo qualificano delineando in esso un nostro stile di vita.
Sarà proprio questo nostro stile di vita che compirà
il nostro giudizio finale, poiché noi saremo ciò che siamo stati
ora. Non dobbiamo pensare che, alla fine, la misericordia di Dio ci
salverà tutti, poiché, in quel momento, Dio non potrà farci più
niente, perché quello che doveva fare lo ha già fatto. Proprio
perché noi viviamo, ora, nell' "Eschaton finale" noi
stessi ci costituiamo giudizio a noi stessi e, qui, Dio non centra
proprio niente: Egli si limiterà, suo malgrado, a constatare la
nostra scelta esistenziale, resa definitiva nell'Aldilà.
Il giudizio
Dio, pertanto, non giudicherà nessuno e tanto meno
condannerà nessuno, perché Dio è pura accoglienza, soltanto amore e
l'inferno che l'uomo si è scelto nella sua vita costituirà anche
l'inferno di Dio.
"Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il
suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma
abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo
per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di
lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato
condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha
creduto" (Gv 3,16-18)
A differenza dei Sinottici che pongono il giudizio
alla fine dei tempi con il ritorno del Signore, Giovanni anticipa
questo evento e lo fa coincidere con la decisione di fede: "chi
crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato
condannato" per la sua incredulità.
La scelta di fede è l'opzione fondamentale, è il
decidersi esistenzialmente per Dio, è ciò che Paolo chiama "vivere
per il Signore" ( ). Per questo con la sua scelta di fondo
l'uomo già emette su se stesso un giudizio di salvezza o di
condanna, per cui si autoesclude, fin da subito, dalla "Vita
eterna".
Al contrario "chi ascolta la mia parola e crede a
colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al
giudizio, ma è passato dalla morte alla vita" (Gv 5,24).
Tutto si attua e tutto si gioca qui nel presente,
anche se non manca in Giovanni la dimensione di un giudizio legato
all'ultimo giorno: "Chi mi respinge e non accoglie le mie parole,
ha chi lo condanna: La parola che ho annunziato lo condannerà
nell'ultimo giorno" (Gv 12,48).
Si noti bene come in questa espressione si giochi
escatologia finale e presenziale insieme: "Chi mi respinge ... ha
chi lo condanna". In altri termini, il rifiuto che si attua oggi
porta in sé già la condanna: rifiuto e condanna vanno sempre di pari
passo; entrambi i verbi sono al presente.
Nella seconda parte dell'espressione, Gesù pone la
condanna nell'ultimo giorno. Non si tratta, di certo, di un'altra
condanna: è sempre quella che già si attua oggi, ma che allora sarà
resa definitiva: sarà per sempre, perché l' "oggi", nel suo
divenire storico, si farà "ultimo giorno", quando i giochi,
compiuti nell'oggi, diventeranno definitivi.
PARTE TEOLOGICA
INTRODUZIONE
ALLA
ANTROPOLOGIA TEOLOGICA
(Sunto e Riflessioni sul testo di Luis Ladaria
Ed. Piemme
-
Traduzione di Giuseppe Occhipinti)
Introduzione
Si può parlare dell'uomo sotto vari punti di vista:
filosofico, psicologico, medico, sociologico e, perché no, anche
teologico. In quest'ultimo caso l'uomo è visto nell'orizzonte
divino: l'uomo nel suo rapporto con Dio; l'uomo posto in relazione
con Dio, che in Cristo ha assunto il volto del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo. Un uomo, quindi, che si comprende alla luce di
un Dio che si è fatto uomo per rivelargli il suo mistero e la sua
più profonda vocazione: quella di essere ricostituito nel ciclo
vitale di Dio da cui proviene.
L'antropologia cristiana, cioè la visione dell'uomo e
la sua ricomprensione alla luce del Cristo risorto, si fonda su
quattro pilastri fondamentali:
· L'uomo
trova la sua origine primordiale in un semplice atto di amore
creativo del Padre, da cui tutto proviene e in cui tutto trova
la sua giustificazione. Egli è fatto ad immagine di questo Dio,
cioè è stato reso partecipe della sua stessa vita, una vita che
è totale apertura; apertura che si fa totale donazione;
donazione che si fa accoglienza e che lo lega agli stessi
destini di Dio.
· Quest'uomo
è posto in un giardino perché lo coltivi e lo custodisca. Egli è
costituito in tal modo il partner di Dio nella creazione e, come
ultimo atto della stessa, ne è costituito suo rappresentante,
voce del creato. La sua dignità è qualificata dalla libertà,
cioè dalla capacità di autodeterminarsi e di porsi davanti a
Dio, divenendo, così, il suo primo interlocutore. Infatti, solo
nell'incontro di due libere volontà, che si fanno reciproco dono
e accoglienza, ci può essere l'incorporazione della creatura nel
suo Creatore. Diversamente, c'è prevaricazione che pone Dio e
l'uomo fuori dalle logiche dell'amore.
· Sfortunatamente
questi due aspetti del progetto divino vengono a cozzare contro
un uomo decaduto e degradato dalla colpa originale, frutto di un
malinteso senso della libertà, che ha spinto l'uomo non a
donarsi a Dio, ma a prevaricarlo. Fu così che l'uomo si scopre
nudo, privo cioè dello Spirito di Dio che lo conformava a Lui;
e, tragicamente, si ritrova rivestito da una pelle di animale,
segno inequivocabile della sua decadenza. Una colpa originale
non soltanto perché posta all'origine della sua avventura
divina, ma anche perché tale colpa è all'origine di ogni
peccato, espressione concreta di quello originale. Da questo
momento in poi per lui nulla è più come prima e con lui è
travolta anche l'intera creazione con la quale forma un tutt'uno
inscindibile.
· Ma
Dio non si rassegna alla perdita del suo partner e fin
dall'origine gli fa capire che non lo abbandona al suo triste
destino. Ha così inizio la storia della salvezza, cioè il
tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione
primordiale. Essa troverà la sua attuazione nel Cristo risorto,
l'uomo nuovo, ricreato ad immagine e somiglianza di Dio. Il
nuovo Adamo da cui discende una nuova umanità, nuovamente
conformata al suo Creatore. Nel Cristo risorto l'uomo e la
creazione sono ricondotti, questa volta definitivamente e per
sempre, nel ciclo vitale di Dio in cui vivono e si muovono. Una
vita che è segnata, qui nella storia, da una profonda e dinamica
relazione con il mondo di Dio, scandita dalla fede, che apre
l'uomo a Dio e lo spinge a decidersi per Lui; dalla carità,
testimonianza sacramentale dell'amore divino, che è costitutivo
della vita stessa di Dio, di cui l'uomo fin d'ora è partecipe;
dalla speranza, che è promessa certa della sua ricongiunzione
piena e definitiva a quelle realtà che aveva miseramente
perduto. E tutto ciò in Cristo, per Cristo e con Cristo, a cui
la lode e la gloria nei secoli. Amen.
LA TEOLOGIA DELLA CREAZIONE
Premessa
E' inevitabile quando si parla dell'uomo fare
riferimento anche alla creazione. Tra i due, infatti, vige un
profondo legame di solidarietà testimoniato fin da principio.
Innanzitutto, la creazione dell'uomo viene posta nel sesto giorno,
quale vertice della creazione stessa alla quale l'uomo è
strettamente legato non soltanto per natura, ma anche da
responsabilità nei suoi confronti. Dio, infatti, gli affida il
giardino perché lo coltivi e lo custodisca, ma anche perché domini
sui pesci del mare e gli uccelli del cielo. E dopo la colpa "Dio
guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva
pervertito la sua condotta sulla terra ... la terra, per causa loro,
è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra"
(Gen. 6,12-13). La terra, dunque, l'intero cosmo sono
profondamente vincolati in solido tra di loro. Lo ricorderà
anche Paolo nella sua lettera ai Romani in cui "la creazione
stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio ...
e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù
della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli
di Dio" (Rm 8, 19-21). Il destino dell'uomo è quello
della creazione, di cui l'uomo è la parte più elevata di un tutto a
cui appartiene.
La mediazione di Cristo
Non si può parlare della creazione senza porla in
relazione alla storia della salvezza, che trova il suo culmine in
Cristo. Essa già si pone come mistero di salvezza e come primo atto
rivelativo di questo mistero. In essa l'uomo può ritrovare Dio e
intuire il suo disegno con la sola forza del suo intelletto.
Infatti, "dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni
invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere
da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità" (Rm
1,20).
Sarà così anche per Israele, il quale sa leggere
teologicamente la storia e vede nella sua liberazione l'intervento
di Dio e gli farà capire come il Dio che lo ha eletto tra i popoli è
anche il Dio di quei popoli che egli domina e si serve per condurre
la sua storia. Un Dio che universalmente estende il suo dominio su
tutti i popoli non può non essere anche il creatore. E sarà proprio
nel ripensamento sapienziale della propria storia che Israele
attribuirà la creazione dell'intero cosmo a Dio: "Certo, non
aveva difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo
da una materia senza forma ..." (Sap. 11,17); e ancora "Come
potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu
non l'avessi chiamata all'esistenza? Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte sono tue, Signore, amante della vita" (Sap.
11,25-26).
C'e, quindi, una continuità logica tra la creazione
del mondo e l'azione storica di Dio, il cui fondamento è lo stesso
amore di Dio, definito "amante della vita" e si manifesta
nella cura quotidiana per ogni vivente: "... dà il cibo ad ogni
vivente, perché eterno è il suo amore" (Sal.136,25).
Giunti, pertanto, alle soglie del N.T., l'origine
divina della creazione e la storia come il luogo privilegiato del
manifestarsi dell'azione di Dio sono un dato, ormai, già
definitivamente acquisito.
Negli scritti neotestamentari il Dio creatore è
ricompreso come "... il Padre, dal quale tutto proviene e noi
siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale
esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui" (1Cor. 8,6).
Questo Cristo, poi, è visto come " ... l'immagine del Dio
invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose, quelle dei cieli e quelle della
terra ... Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e
in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono
in lui. " (Col.1,15-17). A questa azione mediatrice del Cristo
nella creazione corrisponde, nel disegno del Padre, in chiave
escatologica, anche la sua funzione ricapitolatrice. Infatti il
Padre "... ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà ...
il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo
come quelle della terra" (Ef. 1,9-10).
Questa azione creatrice e ricapitolatrice del Padre
in Cristo è vista, alla luce dell'evento pasquale, in una funzione
squisitamente soteriologica e riconciliatrice. Infatti, "...
piacque a Dio far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui
conciliare a sé tutte le cose ... rappacificando con il sangue della
sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e
quelle nei cieli" (Col.1,20). Con ciò il progetto di salvezza
viene esteso a tutta la creazione e in Cristo, azione del Padre
nella storia, si vede la chiave interpretativa di tutta la realtà
cosmica.
In questa prospettiva, la creazione non è una realtà
neutra, ma il presupposto per lo sviluppo dell'azione redentrice del
Padre in Cristo; ciò significa che la creazione è l'inizio di questa
storia di salvezza che culminerà con Cristo, in cui tutti sono
attratti: "quando sarò innalzato attirerò tutti a me" (Gv
12,32).
Nell'ambito di tale logica il mondo, l'intera
creazione è vista come un armonioso disegno di salvezza che
defluisce dal Padre e si attua nel suo Cristo; per questo il mondo
non è qualcosa di caotico, ma è ordinato, anzi preordinato a trovare
il suo pieno compimento in Cristo, ragione e armonia dell'universo;
una ragione che si estende e ingloba l'intera umanità; per questo
ogni uomo nella creazione può cogliere questo progetto e questa
azione di Dio, che lo coinvolge e lo interpella.
La fedeltà di Dio alla sua
opera
Secondo la teoria del Bing-Bang l'universo è in
continua espansione, mentre quella evoluzionistica ci insegna che il
mondo è in continua evoluzione. Teilhard de Chardin ribadisce che
tutto il cosmo e con lui l'intera umanità tendono alla loro pienezza
verso il "Punto Omega". Da questo "Centro divino di
convergenza" si emana un'energia che pervade l'intero cosmo che
lo sostiene, lo stimola, lo spinge e lo attrae verso di sé e che
solo gli spiriti mistici, secondo Teilhard, sono in grado di
recepire; questi spiriti mistici che sono la punta più evoluta
dell'intera umanità e dello stesso Universo.
Questa visione intuitiva di un archeologo, dalle
forti spinte mistiche, si associa alla visione
evoluzionistico-escatologica dell'intero cosmo e della stessa
umanità offertaci da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: "Cristo
è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché
se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche
la risurrezione dai morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti
riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno, però, nel suo ordine: prima
Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di
Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio
Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e potestà
e potenza ... L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte,
perché ogni cosa sarà posta sotto i suoi piedi. ... E quando tutto
gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a
Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti"
(1Cor 15,20-28).
Alla base di questa grandiosa visione ci sta la
potenza della stessa risurrezione di Cristo, principio motore di
ogni evoluzionismo che spinge con forza l'intero cosmo e l'umanità
verso i cieli nuovi e la terra nuova, vaticinati da Isaia e
contemplati da Giovanni nella sua Apocalisse e che già si sono
compiuti proprio nella risurrezione di Cristo.
Il Cristo risorto, che proprio in virtù della sua
risurrezione è diventato il Cristo cosmico, permea l'intera
creazione, la sostiene nel suo cammino evolutivo verso il mondo
dello Spirito, i cui segni qualificanti sono l'amore e la comunione.
La creazione, pertanto, ultimata nel sesto giorno, è
in cammino verso il suo settimo giorno, il tempo del compimento
nello Spirito, il tempo del suo definitivo ritorno in Dio da cui è
scaturita.
Tra la creazione iniziale e la nuova creazione si
pone la "creazione continua". Dio, infatti, non finisce di
agire nel mondo e nella storia e la sua azione creatrice si
manifesta nel sostenere l'uomo nel suo cammino verso il compimento
della storia, in cui egli assume il volto della Provvidenza, che
pervade il cuore di ogni singolo uomo e lo sostiene con la forza del
suo Spirito, prospettandogli sempre mete nuove e rinnovatrici.
Ed è proprio questa azione persistente e silenziosa
di Dio, che si svolge nel cuore del mondo e nel cuore di ogni
singolo uomo, che prende forma e consistenza il volto della stessa
fedeltà di Dio verso l'uomo. Un uomo che non è mai abbandonato al
suo destino, ma che Dio, fattosi storia, incontra nella sua storia,
che si fa, in tal modo, stria della salvezza.
Ma l'opera di Dio presuppone anche la necessaria
opera dell'uomo, anzi, è proprio attraverso l'opera dell'uomo che
prende forma e concretezza quella di Dio. Non va mai dimenticato che
fin dalle origini Dio, dopo il suo primo atto creativo, ha
costituito l'uomo suo partner nel giardino cosmico. Da questo
momento in poi Dio opera nella creazione per mezzo del suo partner,
che è stato elevato alla dignità divina e costituito un essere
libero, capace di offrire, ma anche di rifiutare la sua
collaborazione. Ma è soltanto nel suo prestarsi a Dio che l'uomo
trova il senso del proprio mistero e della propria compiutezza. Il
mito della Torre di Babele si erge alto nei secoli ad ammonimento
per l'intera umanità. Esso è il mito dei un'umanità che vuole
costruire la propria evoluzione e il proprio progresso
indipendentemente da Dio, anzi contro Dio. L'esito è fatale: la
confusione delle lingue. E' l'uomo che non è più capace di intendere
se stesso, di relazionarsi agli altri; un uomo che ha perso la
propria identità perché ha perso la sua origine, di cui era stato
costituito "immagine e somiglianza".
Dio ha
creato il mondo liberamente e per la sua gloria
"In principio Dio creò il cielo e la terra"
(Gen 1,1). "In principio Dio". Dio, quindi, si pone quale
principio di tutto: egli è il principio emanatore di ogni creazione
e da cui tutto discende e promana. Quindi la Bibbia legge Dio come
puro atto creatore. Al principio, dunque, si pone soltanto Dio. E'
certo, pertanto, che la sua azione creatrice fu ed è un'azione
perfettamente libera dettata soltanto dall'amore, elemento
costitutivo di Dio. L'amore in Dio si pone come totale apertura,
totale donazione e totale accoglienza.
In questa prospettiva l'intera creazione diventa
conseguenza di questo atto di amore che, proprio perché di amore,
non può che essere libero; una libertà che si fa donazione e
accoglienza nello stesso tempo. E il primo atto creativo è proprio,
e non a caso, la luce. Essa non va confusa con il sole, la luna e le
stelle, che vengono create successivamente nel quarto giorno. La
luce, infatti, esprime l'essenza stessa di un Dio che si rivela e si
manifesta nelle creature e che le illumina e le pervade con la sua
presenza e infonde in loro la sua impronta.
Se la creazione è espressione di un atto libero che
si radica nell'amore, questo amore trova la sua concretezza nel
secondo atto creativo di Dio a cui il primo è finalizzato: il suo
Cristo che viene, come la prima creazione, liberamente donato
all'umanità, perché liberamente accogliendolo sia incorporata a Lui
e in Lui definitivamente in Dio, così che Dio sia nuovamente tutto
in tutti.
Ma proprio perché l'uomo è impronta di Dio, esso è
stato creato perfettamente libero; diversamente l'uomo sarebbe stato
tutto fuorché partner di Dio; avrebbe fatto tutto, fuorché dialogare
con Dio. Soltanto nella libertà, che si esprime nell'amore, è
possibile un rapporto realizzante. Solo così Dio può riconoscersi e
ritrovarsi nell'uomo e l'uomo scoprire in sé la propria divinità
donata, che lo rende capace di piena realizzazione e di piena
umanità.
Ed è proprio attraverso questa umanità, liberamente
accogliente e divinizzata nel suo Cristo, che il Padre continua la
sua opera creatrice nel mondo e spinge l'uomo verso una sempre più
perfetta umanizzazione, che è realizzazione piena della prima
creazione e che trova nel Cristo risorto il modello di una nuova e
definitiva umanità, aperta a Dio e con lui collaborante.
Dio nel creare l'uomo libero ha, in qualche modo,
rinunciato ad una propria totale e piena libertà per dare spazio a
quella dell'uomo, così che l'uomo si pone nel mondo come il
proseguimento della libertà di Dio. La libertà umana, quindi, altro
non è che lo spazio divino che Dio ha riservato al proprio partner
perché operando nella creazione la porti a compimento.
Ed è nella libertà, quale scintilla divina in lui
posta, che l'uomo è costituito responsabile verso la creazione, di
cui non solo è il rappresentante, ma anche ne è parte integrante.
Questo deve far ricordare all'uomo che il destino della creazione
coincide con il proprio destino e che ogni abuso che egli opera
nella creazione restringe fatalmente i suoi spazi vitali.
La Trinità
e la creazione
In una lettura e ricomprensione cristiana dell'atto
creativo, che si pone agli inizi della Bibbia, vediamo come questo è
un atto squisitamente trinitario. Dio, del resto non può che operare
trinitariamente, poiché la sua natura rivelataci è trinitaria. Non
esiste Dio in sé e per sé, ma soltanto il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo, che sono Dio; o, se si vuole, esiste Dio che è Padre,
Figlio e Spirito Santo.
Infatti, già agli inizi vediamo lo Spirito di Dio che
aleggia sul caos primordiale (Gen 1,2). Ma ecco che "Dio disse:
<<Sia la luce!>>. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona."
(Gen 1,3).
Osserviamo attentamente: tra quel "Dio", cioè
il Padre, e la luce si pone di mezzo quel "disse". Essa è la
Parola del Padre, una Parola rivelatrice, in quanto svela la volontà
del Padre; e creatrice, in quanto attua ciò che dice. Tra il
rivelare e il dire non ci sono spazi intermedi, ma perfetta
identità. Essa, infatti, è una Parola "viva ed efficace" (Eb
4,12), cioè è un essere vivente; ed è efficace, cioè produce ciò che
dice.
Vediamo, quindi, come la creazione sia un'azione
trinitaria. Tommaso d'Aquino stesso, del resto, vede la creazione
come un prolungamento delle processioni trinitarie: la generazione
del Figlio e la processione dello Spirito sono "ratio e causa"
della creazione, che è collocata, quindi, nel cuore stesso della
vita trinitaria, che è vita di relazione e di amore.
La creazione, pertanto, si pone come atto generativo
di Dio. Il Padre, infatti, non è tale perché crea, ma crea proprio
perché è Padre, cioè potenza generativa da cui ogni vita sgorga e
defluisce. Ed è tale perché da sempre si comunica al Figlio e da
sempre è a lui unito in una profonda compenetrazione ed osmosi di
amore, che è lo stesso Spirito. Ebbene, è proprio questa sua
capacità di amore, che rende la Trinità potenza effusiva da cui
sgorga, da atto puramente libero, l'intera creazione, impronta del
suo libero amore, in cui Dio si fa ritrovare dall'uomo (Rm 1,20).
L'UOMO IMMAGINE DI DIO
Premessa
Dopo aver contemplato la maestosa grandiosità di Dio
e la sua magnificenza, il Salmista rivolge lo sguardo sull'uomo e si
interroga: "... che cos'è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio
dell'uomo perché te ne curi?" (Sal 8,5) e vede in lui riflessa
la stessa gloria di Dio e la sua potenza. L'uomo, dunque, si pone
quale impronta del mistero di Dio in seno alla creazione. Un mistero
che trova la sua luce in quello del Cristo risorto, nuovo Adamo che
ha restituito all'uomo la sua originale immagine di Dio, rendendolo
nuovamente conforme a Lui per mezzo della potenza dello Spirito.
Il tema
dell'immagine nell'AT e NT
La Genesi ci tramanda una doppia creazione dell'uomo:
l'una di tradizione sacerdotale (Gen 1,26-28); l'altra tradizione
jawista (Gen 2,7-18). Le due tradizioni ci danno un'idea completa
sull'uomo, spiegandoci in che cosa consiste il suo essere "immagine
e somiglianza".
Nella tradizione sacerdotale, vediamo come
questa "immagine e somiglianza" si costituisce, innanzitutto,
con uno specifico atto deliberativo di Dio: "Facciamo l'uomo a
nostra immagine, a nostra somiglianza". Così facendo la Bibbia
pone subito l'uomo in una stretta relazione con Dio; ne fa una sorta
di sua copia sulla terra e ne specifica i contenuti.
Tre sono gli elementi che la qualificano:
·
"maschio e femmina li creò":
sono i due principi che se da un lato configurano l'uomo come
maschio e come femmina, dall'altro ne esprimono la sua socialità.
Questi due principi sono entrambi presenti in Dio e ne fanno la
fonte prima della vita. Infatti, soltanto quando il maschio e la
femmina diventano una sola carne generano la vita; una vita che,
proprio per questo duplice aspetto, si qualifica come vita
essenzialmente di comunione e soltanto in questa comunione essa può
continuare ad essere vita che si autogenera.
· "Dio
li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra>>". Qui l'uomo viene qualificato come
benedizione di Dio, cioè come principio di fecondità che si fa
fertilità, moltiplicando la vita sulla terra e riempiendola di vita.
La fecondità indica la capacità generativa, mentre la fertilità
esprime l'attuarsi della fecondità. Fecondità e fertilità sono
anch'esse qualità proprie di Dio, dalle quali defluisce con irruenza
e prepotenza la vita che riempie tutta la terra. Una terra, quindi,
pervasa dalla vita è una terra permeata dalla presenza stessa di
Dio.
· "Soggiogatela
e dominate sui pesci del mare s sugli uccelli del cielo e su ogni
essere vivente, che striscia sulla terra". E' il terzo aspetto
con cui si attua l'immagine di Dio, la quale rende l'uomo a Lui
somigliante; ne fa una copia fedele di Dio, rappresentativa
dell'originale in terra, dove esercita, quasi per procura, la
signoria universale sul creato.
Da questi brevi cenni vediamo come questa immagine,
che rende l'uomo somigliante a Dio, non solo lo relazione al suo
Creatore, ma fonda e motiva teologicamente il rapporto con il mondo,
che è un rapporto di signoria, ed è fondamento e giustificazione del
rapporto degli uomini tra di loro.
Se la tradizione sacerdotale assimila le funzioni
dell'uomo a quelle di Dio, la tradizione jawista lo qualifica
per altri tre aspetti:
·
"Il Signore Dio plasmò l'uomo con
polvere del suolo". Se l'uomo è fatto ad immagine e somiglianza
di Dio, qui lo jawista ci ricorda che esso è e rimane pur sempre una
creatura, il cui elemento costitutivo è la "povere del suolo".
Vedremo, infatti, come quando l'uomo si dimenticherà di questa sua
dimensione creaturale ponendosi in diretta concorrenza con il suo
Creatore, esso cadrà miseramente.
· "Soffiò
nelle sue nari un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente".
Benché creatura costituita di polvere, l'uomo viene assimilato alla
stessa vita divina ed è ciò che lo fa immagine e somiglianza di Dio.
Soltanto due volte in tutta la Bibbia vediamo un Dio che soffia: qui
e in Gv 20,22: "Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse:
<<Ricevete lo Spirito Santo ...>>." Il soffio di Dio, quindi, è
lo stesso Spirito di Dio che assimila l'uomo a Dio e lo accorpa nel
suo stesso ciclo vitale. E' la divinizzazione stessa dell'uomo.
Questa è la sua dignità.
·
"Il Signore Dio prese l'uomo e lo
pose nel giardino dell'Eden perché lo coltivasse e lo custodisse".
L'uomo, fatto di polvere e incorporato nella stessa vita divina,
viene qui costituito quale partner privilegiato di Dio, il quale gli
affida l'intera creazione perché continui la sua opera creativa, che
egli ha iniziato, e ne affida la piena responsabilità.
L'uomo, dunque, opera nella creazione, a cui è
vincolato in solido, in nome e per conto di Dio e ne è responsabile;
e in quanto interlocutore primo di Dio nel creato, è parte attiva
nella storia, che il Signore ha iniziato e che vuole portare a
termine con la libera collaborazione della sua creatura.
Non si tratta, dunque, di vedere l'immagine di Dio in
questa o quella qualità che caratterizzano l'uomo, ma ci troviamo di
fronte alla definizione fondamentale dell'uomo, che abbraccia tutte
le sue dimensioni a motivo del germe divino che abita in lui e che
tutto lo permea e lo qualifica.
Nel N.T. il messaggio così pregnante della Genesi è
stato reinterpretato alla luce del Cristo risorto. Infatti,
l'immagine di Dio è lo stesso Gesù così come ci suggerisce la 2Cor
4,4: "il glorioso vangelo di Cristo, immagine di Dio"; e la
lettera ai Colossesi: "Egli è l'immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura" (Col 1,15). Di conseguenza chi
accetta, accogliendolo nella fede, il Cristo è a lui accorpato,
diventando, a sua volta, immagine di Cristo, l'uomo nuovo rinnovato
con la potenza dello Spirito mediante la risurrezione. In lui siamo
stati tutti ricreati ad immagine e somiglianza di Dio; in lui siamo
stati rimessi nel circolo vitale della stessa vita di Dio; in lui
siamo stati nuovamente configurati a Dio. Infatti, il Cristo risorto
è il nuovo e definitivo Adamo, da cui discende una nuova umanità,
rinnovata per mezzo della potenza santificatrice dello Spirito, che
proprio attraverso questa sua azione ci ha nuovamente accorpati alla
stessa Trinità.
Nel Signore risorto l'uomo decaduto ritrova la sua
primordiale dimensione. Essere uomini, oggi, significa passare dalla
condizione del vecchio Adamo a quella di Cristo. Si realizza,
pertanto, il progetto salvifico di Dio pensato fin dall'eternità
appositamente per noi: "In lui ci ha scelti prima della creazione
del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella
carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di
Gesù Cristo" (Ef 1,4-5). Viene qui specificata una elezione "ab
aeterno" che ci pone in Cristo coeterni a Dio stesso e la cui
finalità è quella di essere incorporati nella stessa vita divina.
Una elezione che si fa "predestinazione", cioè progetto che
ci vede generati dallo stesso Padre nel suo Figlio per la potenza
dello Spirito, che ha operato nella risurrezione di Gesù anche la
nostra rigenerazione a Dio.
Cristologia
e antropologia
Sussiste una qualche relazione tra antropologia e
cristologia? Ed eventualmente, come si pone tale relazione? Se è
vero che il primo Adamo è figura del secondo e che il primo è
finalizzato al secondo, in cui trova la sua realizzazione e la sua
ricomprensione nonché il suo riscatto, allora dobbiamo dire che il
secondo Adamo è la chiave di lettura e interpretativa del primo. In
questo caso non solo antropologia e cristologia sono tra loro
strettamente vincolate, ma sono altresì coincidenti.
Nella prospettiva cristiana, pertanto, fare
antropologia significa fare cristologia, cioè rileggere l'uomo alla
luce del Cristo risorto, l'uomo per eccellenza, l'uomo rigenerato a
Dio per la potenza dello Spirito.
In proposito, vediamo, ora, quattro diverse posizioni
sulla relazione tra antropologia e cristologia.
Karl Barth
Barth vede in Cristo la rivelazione piena di Dio
fatta all'uomo, in cui l'uomo si rilegge e si ricomprende. Infatti,
chi è e che cosa è l'uomo ci viene detto dalla stessa Parola di Dio,
così che nella misura in cui Gesù è la rivelazione del Padre,
diventa fonte della nostra conoscenza; anzi, proprio perché lui
nella risurrezione si rivela l'uomo perfetto, così come pensato e
voluto da Dio, egli diventa anche la chiave di lettura e di
comprensione del nostro essere uomini.
Gesù si pone nell'ambito della storia della salvezza
come il prototipo dell'uomo pensato dal Padre e in lui egli ci
accoglie ancora prima di esistere, ancora prima dell'atto creativo:
"In lui, infatti, ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù
Cristo" (Ef 1,4-5). L'uomo, pertanto, non solo è stato pensato
da Dio ancor prima di essere creato, ma egli fu già prefigurato, in
un certo qual modo, nel Figlio coeterno.
Karl Rahner
Secondo Rahner la cristologia è l'inizio e la fine
dell'antropologia. In quanto inizio, egli afferma che non si dava
umanità se il Figlio non si fosse incarnato. Così dicendo il Rahner
vede in Gesù il motivo di esistere della stessa umanità. Una
posizione che trova fondamento nello stesso Paolo, quando afferma
che "Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista
di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono"
(Col 1,16-17). Una visione questa squisitamente cristocentrica, in
cui non solo tutto viene visto come ricapitolato in Cristo (Ef
1,10), ma anche il tutto trova ragione della sua sussistenza
soltanto in Cristo.
Così si può ben dire, continua il Rahner, che il
Logos creatore ha stabilito nella creazione la grammatica, le
condizioni per la sua incarnazione. La definizione di uomo,
pertanto, viene data e compresa soltanto alla luce dell'incarnazione
del Logos creatore, poiché se tutto è stato creato "in vista di
lui", è evidente che lui si pone come chiave di lettura e di
decifrazione dell'uomo stesso.
In quanto fine dell'antropologia, la cristologia
diventa il momento in cui il Logos incarnato, trasformato dalla
potenza dello Spirito, diviene il punto di arrivo dell'intera
umanità, così che ogni uomo è per sua natura orientato a Cristo e in
lui trova la risposta ai suoi interrogativi e alle sue inquietudini.
W. Kasper
Kasper concepisce l'uomo come un'essenza aperta in
cerca di una propria definizione. Il Diogene, che in pieno giorno
con la sua lanterna, cerca l'uomo, è un'immagine emblematica
dell'uomo che va alla ricerca della propria identità. Una ricerca
che ha prodotto numerosi tentativi di comprensioni, ma tutti
fatalmente incompleti e insoddisfacenti.
Questa indeterminatezza dell'uomo, alla ricerca della
propria identità, trova il suo approdo nella figura di Cristo che,
nella sua morte e risurrezione, si costituisce quale essenza stessa
dell'uomo, quale sua irrinunciabile identità: l'uomo è un essere
costituito da un amore che si autotrascende e si aliena perché
l'altro venga affermato. Questa è la lettura che Gesù ha dato con la
sua incarnazione al suo essere uomo; un uomo che, proprio perché
coinvolto nella risurrezione, diviene l'uomo per eccellenza, l'uomo
definitivo, il prototipo di ogni uomo e in cui l'intera umanità
ritrova la sua definitiva identità.
Il Cristo risorto, pertanto, diviene la
determinazione escatologica dell'uomo, verso cui l'uomo è aperto e
orienta il suo cammino nella storia, che diventa così un cammino di
senso che illumina tutto il suo esistere.
W.
Pannenberg
Il Pannenberg attribuisce alla figura di Cristo un
senso protologico. Non il primo Adamo si pone all'inizio della
storia dell'umanità, bensì colui che storicamente, ma soltanto
storicamente, viene per secondo. In lui, infatti, è avvenuta la
nostra elezione ancor prima della creazione (Ef 1,4). Soltanto
Cristo è per Paolo l'uomo vero, fatto ad immagine di Dio (2Cor 4,4);
"irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza"
(Eb 1,3).
Gli uomini vengono configurati a Cristo e, quindi,
diventano vera immagine di Dio e a Lui somiglianti, soltanto per
mezzo del battesimo, che li riveste di Cristo come di un abito
nuovo, spogliandoli del loro vecchio Adamo e costituendoli, già fin
d'ora, immagine di Dio, anche se non ancora pienamente (Col. 3,10).
L'uomo, pertanto, si ricomprende come storia
orientata alla salvezza manifestata in Cristo e la sua natura
originale si apre ad un diverso destino prospettato dalla stessa
umanità del Cristo risorto.
Il passaggio, però, dal vecchio al nuovo Adamo non si
fa senza la croce. E' necessario che il vecchio Adamo, segnato dal
peccato, sia distrutto per lasciar spazio ad una nuova umanità
rigenerata dalla potenza dello Spirito; così che fin d'ora il
vecchio Adamo è sottoposto a giudizio dal nuovo Adamo.
La
costituzione dell'uomo: il suo essere personale e sociale
Si tratta, ora, di vedere come nelle differenti
dimensioni dell'uomo, l'uomo visto in rapporto a se stesso e agli
altri, si manifesti la condizione di "immagine di Dio" e come
questa sua nuova condizione integri e completi il suo essere uomo.
Va da sé che né l'AT né il NT hanno la pretesa di
sviluppare un'antropologia, costituendosi come testimonianza di fede
e lettura teologica della storia, pi che una scienza su cui
speculare. Tuttavia essi presuppongono l'uomo, che viene colto come
"uomo in dialogo con Dio" ed è proprio all'interno di questo
dialogo che l'uomo si ricomprende, trova il senso del proprio
esistere e scopre la sua vera identità.
L'uomo, che qui viene considerato, è l'uomo nella sua
unità e integrità, così come lo incontriamo quotidianamente per la
strada e lungo il cammino della nostra vita. E', in buona sostanza,
l'uomo di tutti i giorni. E' l'uomo che se, da un lato, sa rifiutare
Dio o gli rimane indifferente; dall'altro è capace di mostrarsi
ricettivo nei confronti di Dio e aperto alla sua volontà. Ed è
proprio quest'ultimo aspetto che mette in evidenza in lui l'azione
dello Spirito. Pertanto, il potere di bene che l'uomo ha non gli
viene dalla sua natura corrotta dal peccato, ma è lo stesso potere
di Dio, cioè l'azione dello Spirito, che opera in lui e piega la sua
natura, rendendola docile al suo volere, che è un volere di
affermazione piena dell'uomo e non un suo asservimento.
Nel NT l'uomo viene visto come una continua
contrapposizione dello spirito alla carne, di cui abbiamo un esempio
in Mt 26,41; Mc 14,38; Gv 3,6 e 6,63; Rm 8,1-11; Gal 5,16-26 e in
altri ancora. E' un uomo, pertanto, colto nella sua situazione
concreta di adesione o di rifiuto di Gesù. Un uomo la cui
comprensione risente del pensiero ellenistico, in particolare
platonico, che propone la visione di un uomo, il cui spirito è
prigioniero del corpo e con lui lotta per liberarsene. Una
contrapposizione questa che verrà, poi, ampiamente recepita dal
pensiero cristiano e che, certamente, deve in qualche modo aver
influenzato gli stessi scritti neotestamentari. In tal senso basti
pensare al loghion di Gesù propostoci da Mt 10,28: "Non vi
spaventate per quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono
uccidere l'anima. Temete, piuttosto, colui che ha il potere di far
perire nella Geenna e l'anima e il corpo". Ma è soprattutto
Paolo, personaggio dalla polivalente cultura, a risentirne
maggiormente.
Una dicotomia e una contrapposizione sconosciuta al
mondo ebraico che concepisce l'uomo come una unità di anima e corpo
che si compenetrano profondamente, così che l'uomo è concepito come
una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato.
Secondo i parametri della moderna antropologia,
l'uomo è visto non come un possessore di un'anima e di un corpo, ma
egli è anima e corpo, visti quali elementi costitutivi del suo
essere nella dimensione spazio temporale.
In quanto corpo, egli è parte di questo cosmo e va
verso la distruzione finale, che coincide con la sua morte, quale
momento culminante di un morire che si protrae lungo tutta la sua
vita, così che il suo vivere è in realtà un lento e progressivo
morire; e ciò che egli chiama "divenire" è in realtà un "morire"
che inizia già dal suo concepimento.
In quanto anima, l'uomo trascende i condizionamenti
di questo mondo e si apre ad un futuro che da senso al suo "vivere-morire",
lo apre alla speranza, che assume il sapore dell'immortalità e lo fa
"essere per Dio" in cui riscatta il suo morire.
Solo così ha senso la concezione dell'uomo quale "immagine
di Dio", chiamato alla comunione con Dio, già attuata nel suo
essere configurato al Cristo risorto, anche se non ancora pienamente
compiuta. Ed è proprio questo suo "già, ma non ancora" che lo
pone, fin d'ora, in una forte tensione escatologica, che illumina il
suo presente come un cammino verso il pieno compimento di questa
immagine divina, garantitagli dallo Spirito, che gli è stato donato
come caparra di quelle realtà future e definitive verso cui si sta
dirigendo e che si qualifica come la sua personale risposta alla
chiamata dello Spirito.
Infatti, l'uomo è fin dall'inizio un essere chiamato
dallo Spirito, una chiamata che si identifica con la sua parte
spirituale e che lo spinge a trascendersi continuamente e a non
rimanere vittima della sua stessa corporeità. Questa chiamata si
realizza storicamente con il suo "stare con Cristo" e con il
suo "vivere per il Signore", sicché fin d'ora egli realizza,
anche se non ancora compiutamente, la sua comunione con Dio nello
Spirito.
E' proprio questo suo "stare con Cristo" e "vivere
per il Signore" che lo colloca nella prospettiva della
risurrezione, che è rivelazione e testimonianza ultima del suo
essere vissuto come configurato a Cristo.
La chiamata dell'uomo a configurarsi a Cristo è una
chiamata strettamente personale, in cui l'uomo trova il senso del
suo vivere e del suo morire, rendendolo un essere unico e
irrepetibile tra tutti gli uomini. Questa chiamata unica e
irrepetibile, individuale e personale, propria di ogni singolo uomo,
si attua con il suo essere chiamato all'esistenza, un'esistenza che
si fa storia personale di salvezza. Non esiste, infatti, una
salvezza in senso generale, ma essa è strettamente personalizzata e
si individua nel "mio concreto vivere quotidiano", che è
segnato dalla libertà. Essa, qui, non si qualifica come la
possibilità che l'uomo ha di scegliere una cosa piuttosto che
un'altra, bensì come capacità che l'uomo ha di scegliere su se
stesso, cioè se configurarsi o no a Cristo nel suo concreto vivere
quotidiano. In questa prospettiva, la libertà diventa risposta alla
chiamata che Dio gli rivolge in ogni istante della sua vita, così
che con le nostre libere decisioni forgiamo il nostro essere e ci
qualifichiamo davanti a Dio.
Questa libertà, dal sapore squisitamente teologico,
trova il suo modello nella libertà di Gesù che si è consegnato alla
morte per amore di tutti gli uomini. Si tratta, dunque, di una
libertà sacrificale, che, radicandosi nell'amore, ci aiuta a
liberarci da noi stessi per affermare l'altro. Del resto questa è la
stessa libertà originaria di Dio, da cui è defluita la creazione,
che testimonia l'uscire di Dio da se stesso per donarsi alle
creature, un atto di amore che diventa una sorta di alienazione di
Dio.
Ed è proprio questo libero porsi dell'uomo per
l'altro che testimonia il suo aspetto sociale, insito nella sua
stessa natura bipolare di maschio e femmina. Essa trova la sua
matrice originaria nel nostro relazionarci con Dio e che,
sacramentalmente, assume una configurazione ecclesiale e
comunionale. Ed è proprio in questo superare noi stessi per andare
verso l'altro, che incontriamo nell'altro lo stesso Cristo, la cui
presenza ci è stata da lui garantita: "In verità vi dico: ogni
volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l'avete fatta a me" (Mt 25,40).
La
questione soprannaturale
Parlare di soprannaturalità dell'uomo ci richiama
alle medievali disquisizioni della scolastica, che oggi, in un mondo
pregno di materialismo e improntato ad un utilitaristico pragmatismo
esistenziale, ci sembrano del tutto fuori moda. Tuttavia, la
questione non è semplicemente speculativa o artificiale.
Infatti, già l'aver parlato dell'uomo quale immagine
di Dio e a Lui somigliante, ci pone di fronte a delle questioni che
vanno ben al di là della sua semplice creaturalità. Abbiamo visto
come l'uomo è collocato in uno stretto rapporto con il suo Creatore
e con Lui è chiamato ad un costante dialogo esistenziale, che lo
spinge a superarsi continuamente oltre il limite del proprio
orizzontale.
Ed è proprio la natura di questo dialogo e gli
effetti che esso produce che apre l'uomo ad una dimensione
squisitamente trascendentale. E' Paolo stesso che ci sollecita in
tal senso: "Se, dunque, siete risorti con Cristo, cercate le cose
di lassù, dove si trova Cristo ...; pensate alle cose di
lassù, non a quelle della terra" (Col. 3,1-2).
Il principio della nostra soprannaturalità viene qui
riposto da Paolo nella risurrezione stessa: "se siete risorti con
Cristo". Essa presuppone, a sua volta, la nostra configurazione
a Cristo per mezzo del battesimo: "Per mezzo del battesimo siamo
stati dunque sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo
fu risuscitato dai morti ... così anche noi possiamo camminare in
una nuova vita. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con
una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione"
(Rm 6,4-5). Il battesimo, quindi, ci configura intimamente a Cristo
al punto tale, afferma sempre Paolo, che "Sono stato crocifisso
con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me"
(Gal 2,20).
Vediamo, dunque, come il veterotestamentario concetto
dell'uomo immagine di Dio, trova la sua piena attuazione nella
configurazione di ciascuno di noi a Cristo, al punto tale che siamo
cristificati, così che il nostro vivere e il nostro operare è lo
stesso vivere e operare di Cristo in noi.
Tutto ciò ci pone in una stretta e intima comunione
con il Padre, che ci accoglie e si dona a noi per mezzo di suo
Figlio nello Spirito Santo. Pertanto, grazie a Cristo e alla potenza
dello Spirito, siamo inseriti nello stesso ciclo vitale trinitario.
Questi sono aspetti che vanno ben al di là del nostro
essere semplici creature e che hanno un'incidenza sul nostro stesso
modo di essere e di vivere, così che pur essendo cittadini della
terra possediamo già una nostra configurazione celeste.
L'UOMO PECCATORE
IL PECCATO ORIGINALE
Premessa
Dopo aver parlato dell'uomo quale immagine di Dio, a
Lui somigliante; dopo averlo contemplato come libera creatura che
instaura con il suo Creatore un dialogo di vita; dopo averlo
meditato come figlio costituito nella comunione con Dio, suo Padre,
per mezzo di Cristo, lo considereremo, ora, nel tragico uso che egli
fece della propria libertà, mettendosi in una fallimentare
concorrenza con Dio.
Si, parliamo di quell'uomo che, permeato del Soffio
di Dio, che lo aveva assimilato alla stessa vita divina, rendendolo
lui stesso divino, viene ora rivestito di semplici pelli di animali,
testimonianza della sua decadenza, che decreta la sua cacciata dal
paradiso terrestre, cioè la sua uscita dalla dimensione di Dio.
Tra il prima e il dopo ci sta di mezzo quello che la
tradizione cattolica definisce come "peccato originale". Esso
è definito impropriamente "peccato". Infatti, il termine "peccato"
richiama sempre una colpa morale, che rende personalmente
responsabile l'uomo di fronte a Dio e agli altri. Saremmo stati,
dunque, vittime di una grave iniquità se questa colpa morale, da noi
non commessa, ci fosse stata, comunque, addebitata da Dio. Ma questo
"peccato" non esprime, in realtà, una colpa morale, bensì uno
stato di vita, una condizione di essere decaduto e che caratterizza
il nostro essere di uomini e il nostro vivere quotidiano.
Perché, dunque, "peccato originale"? Il
termine "peccato", nella sua accezione originale greca,
amartia, indica uno sbaglio, un errore; il
verbo, amartanw, da cui il sostantivo
deriva, lo specifica ancor meglio. Esso indica il deviare, il non
cogliere, il fallire, il non raggiungere, il perdere, l'essere
privato, l'allontanarsi dalla verità, dal giusto, da ciò che è
onesto.
Sono tutte specificazioni che testimoniano le varie
sfaccettature di questo "peccato", anche se in modo
incompleto, ma sufficiente per darci una sia pur pallida idea di ciò
che può essere capitato ai nostri progenitori.
Questa "colpa" viene definita, poi, come
originale, non soltanto perché è posta all'origine dell'umanità, ma
anche perché essa è all'origine di ogni nostro peccato personale, di
ogni nostra sofferenza, di ogni nostra difficoltà. Essa ci qualifica
e ci marchia come "esseri decaduti".
Sarà la venuta di Cristo che ci darà un'idea pi
precisa di quanto ci è rovinato addosso e lo stato penoso e
umiliante in cui siamo costretti a trascinare la nostra vita ancor
oggi. La croce posta sulle sue spalle di Gesù ci dice che cosa è
stato posto sulle nostre spalle; mentre la sua passione, che lo ha
reso un essere che provoca ribrezzo, rovinato e privo di ogni
dignità, ci indica lo stato e la condizione in cui noi viviamo da
allora.
L'insegnamento biblico
La dottrina sul "peccato originale" non si
deduce certo dai cap. 2-3 della Genesi, ma dall'interpretazione che
il N.T. ha dato di questi, in particolar modo su quanto Paolo dice
nella sua lettera ai Romani ai vv. 5,12-21, il brano
neotestamentario senz'altro il pi importante.
E', tuttavia, interessante seguire da vicino lo
sviluppo dottrinale che l'A.T. ci offre proprio sul concetto di
peccato e del suo sviluppo nella storia, quale conseguenza di quello
"originale". Pertanto, il racconto di Gen. 2-3 non va preso
isolatamente, ma collocato nell'insieme delle idee di peccato e
della sua universalità nell'A.T.
Esso ci testimonia innanzitutto l'universalità
del peccato, che non lascia scampo a nessun vivente e lo rende
iniquo e ingiustificabile davanti a Dio:
· "Ecco
nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito
mia madre" (Sal. 51,7);
· "Non
chiamare in giudizio il tuo servo, nessun vivente davanti a
te è giusto" (Sal.143,2);
· "Può
il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente
l'uomo davanti al suo creatore?" (Gb 4,17).
I profeti, poi, denunciano come questo peccato viene
trasmesso nella storia: dai padri ai figli, che seguono il cammino
di peccato tracciato dai loro genitori:
· "Quale
ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da
me? Essi seguirono ciò che è vano, diventarono loro stessi
vanità. ... Per questo intenterò ancora un processo contro di
voi ... e farò causa ai vostri nipoti" (Ger.2,5.9);
· "Mi
disse: <<Figlio dell'uomo, io ti mando agli Israeliti, a un
popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i
loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi>>" (Ez.
2,3);
· "Così
dice il Signore: <<Per tre misfatti d'Israele e per quattro non
revocherò il mio decreto, perché hanno disprezzato la legge del
Signore e non ne hanno osservato i decreti; si sono lasciati
traviare dai loro idoli che i loro padri avevano seguito>>"
(Am 2,4);
· "Abbiamo
peccato come i nostri padri, abbiamo fatto il male, siamo stati
empi" (Sal.106,6).
E' un peccato che non sottrae l'uomo alla sua
responsabilità personale, anche quando la colpa ha una dimensione
sociale:
·
"In quei giorni non si dirà più:
i padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono
allegati! Ma ognuno morirà per la sua propria iniquità;..."
(Ger. 31,29-30);
· "Perché
andate ripetendo questo proverbio sul paese d'Israele: i padri
hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono
allegati? ... la vita del padre e quella de figlio è mia: chi
pecca morirà" (Ez. 18,2.4)
Di fronte al dilagare del male lo jawista cerca una
spiegazione eziologica di questo male, risalendo alle origini
dell'umanità; e scopre come un atto peccaminoso, un atto di
ribellione a Dio ha determinato una inarrestabile cascata di peccati
che sta travolgendo l'intera umanità. Il male, dunque, non viene da
Dio, ma dall'uomo che si è posto in concorrenza con Dio, ha tentato
contro di Lui una sorta di colpo di stato, si è dichiarato
autosufficiente e autonomo da Dio, non lo ha più voluto riconoscere
come suo partner. Come dire: ognuno per la sua strada.
L'uomo, privo dello Spirito di Dio, rivestito delle
sole pelli di animali, si ritrova perduto e disorientato nel suo
nuovo stato di vita di essere decaduto, il cui vivere è un continuo
generare peccato, che inquina e travolge l'intera umanità e con lei
l'intera creazione. Le lunghe genealogie, fornitici dai primi
capitoli della Genesi, ci stanno ad indicare come il peccato
rimbalza di generazione in generazione, dilagando, ormai
inarrestabilmente, nella storia, che diventa una storia di peccato.
Vige, quindi, un principio di solidarietà che lega i
destini dell'uomo e del suo habitat, di cui la Genesi ci dà
testimonianza: "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta,
perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra.
Allora Dio disse a Noé: <<E' venuta per me la fine di ogni uomo,
perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li
distruggerò insieme con la terra>> (Gen. 6,12-13).
Questa lunga riflessione sull'origine del peccato e
delle sue tragiche conseguenze sull'umanità e la creazione,
propostaci dall'A.T., viene ripresa nel N.T. da Paolo nella già
citata lettera ai Romani, 5,12-21.
Qui, Paolo pone a confronto due economie, tra loro
parallele, ma dagli esiti decisamente opposti: quella del peccato e
quella della grazia. Il confronto tra Adamo e Cristo non viene posto
su di un piano paritario, ma di contrapposizione per far emergere
come "se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più
la grazia di Dio e il dono concesso in virtù di un solo uomo, Gesù
Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini".
Adamo, poi, l'uomo del peccato, non acquista in Paolo
molta importanza, poiché esso è solo visto come "figura di colui
che doveva venire". Adamo, quindi, è in funzione di Cristo, ma
ciò che conta è soltanto Cristo. Una economia della grazia, quindi,
che è squisitamente cristocentrica: tutto converge in Cristo, anche
il peccato che verrà distrutto sulla croce e, definitivamente, dalla
risurrezione.
Espressioni che si ripetono numerose in questi pochi
versetti, quali "molto di più la grazia", "si sono
riversati in abbondanza", "molto di più quelli che ricevono
l'abbondanza della grazia" stanno ad indicare la netta e
indiscutibile superiorità dell'azione e della figura di Cristo su
Adamo, che di Cristo era soltanto una pallida ombra.
Viene, anche qui, riconfermata l'universalità e la
solidarietà degli uomini nella colpa: "la morte ha raggiunto
tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato"; "per la caduta
di uno solo morirono tutti"; ma proprio grazie a questa
solidarietà e universalità, la grazia di Dio ha nuovamente pervaso
l'intera umanità: "molto di più la grazia di Dio e il dono
concesso in virtù di un solo uomo, Gesù Crsito, si sono riversati in
abbondanza su tutti gli uomini"
Lo sviluppo
storico della dottrina
Nella storia della dottrina del "peccato originale"
due sono i punti fondamentali: quello prospettato da S.Agostino
(354-430) nella lotta contro i pelagiani e quello del Concilio di
Trento (1545-1563).
I pelagiani erano sostanzialmente degli ottimisti e
ritenevano che l'uomo fosse in grado di soddisfare la volontà di Dio
con le sue sole forze. In questa prospettiva Adamo e Cristo erano
due figure valide soltanto sul piano della esemplarità: l'uno ci ha
dato il cattivo esempio, da evitare; mentre l'altro ci porta a
conoscenza della volontà di Dio che noi, con la nostra buona volontà
e determinazione, siamo in grado di soddisfare.
Viene, in tal modo svuotato il contenuto salvifico
delle due figure, poiché ciò che conta è solo l'impegno della
volontà a realizzare le esigenze di Dio.
Agostino, di controbattuta, afferma che se Cristo ci
ha salvati con la sua morte e risurrezione, ciò sta a significare la
nostra incapacità di autosalvarci con la nostra sola buona volontà.
Se così non fosse, infatti, noi potremmo dire con Paolo che "se
la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano"
(Gal. 2,21).
Pertanto, Agostino conclude che senza grazia noi non
possiamo salvarci, anche se rimane vero che l'uomo senza la sua
disponibilità alla grazia non si salva. Infatti, quel "Dio,
affermerà Agostino, che ci ha creati senza di noi non ci salva
senza di noi"; pertanto, "grazia di Dio e libertà dell'uomo
si sostengono a vicenda".
Quindi, grazia di Dio e libertà dell'uomo sono
produttrici di salvezza quando l'uomo, incontrandosi con Dio, si
apre liberamente a Lui. In questo quadro, Agostino si muove
nell'ambito della grazia, mentre Pelagio in quello della natura.
La vicenda del pelagianesimo si conclude con un
sinodo tenuto da papa Zosimo nel 418 a Roma, in cui si ribadiscono
contro il pelagianesimo tre punti fondamentali:
·
La morte non è un fatto naturale
per l'uomo, ma è conseguenza del peccato; si tratta della morte
così come l'uomo la sperimenta;
·
Il battesimo è necessario per la
salvezza; mentre Pelagio affermava che i sacramenti erano
semplici atti di pietà verso Dio;
·
La Grazia di Dio è assolutamente
necessaria per salvarsi.
Accanto alla posizione agostiniana, che insiste molto
sulla concupiscenza e il disordine interno portato dal peccato
originale, si affianca anche quella di S.Anselmo che vede
l'essenza del peccato originale nella privazione della giustizia
originaria. S.Tommaso realizzerà la sintesi di entrambe le
posizioni, facendo consistere il peccato originale formalmente nella
privazione della giustizia originaria e materialmente nella
concupiscenza.
L'altro momento importante nella storia dottrinale
del peccato originale è il Concilio di Trento. La situazione
in cui viene a trovarsi il Concilio è esattamente all'opposto di
quella pelagiana. Infatti, se questi mostravano una ottimistica
fiducia nella natura umana, in grado da sola ad accedere alla
salvezza, Lutero nutriva, per contro, una totale pessimistica
sfiducia nella stessa, considerandola totalmente corrotta a partire
dalla colpa originale.
Il Concilio dovrà, pertanto, affermare che sebbene la
natura umana sia ferita dal peccato essa, con l'aiuto insostituibile
e determinante della grazia, è capace di aderire alla salvezza, in
quanto che l'uomo investito dalla grazia è interiormente
trasformato. Pertanto, il peccato originale non può essere
identificato con la concupiscenza, che rimane comunque nel
battezzato, ma che non nuoce a chi combatte contro di essa con
l'aiuto della grazia (can.5).
L'intera dottrina tridentina sul peccato originale
può riassumersi in quattro livelli:
·
Cristologico,
in cui si afferma che non c'è salvezza per gli uomini se non per
mezzo di Gesù Cristo;
·
Ecclesiologico-sacramentale,
in cui si afferma che la salvezza di cristo si realizza per e nella
Chiesa a cui si accede attraverso il battesimo, che ci inserisce in
Cristo;
· Antropologico,
con cui si riconosce che l'umanità non incorporata a Cristo è
isolata da Dio, vive in uno stato di peccato, di privazione di
santità e di giustizia, in cui Dio, invece, aveva inizialmente
creato l'uomo;
· Etiologico,
con cui si tratta della causa dello stato di miseria in cui
l'umanità si trova. Si riconosce che ciò è dovuto ad un'azione
peccaminosa dell'uomo, che si pone all'origine della storia e che
non ha danneggiato soltanto Adamo, ma tutti gli uomini, i quali, per
questo fatto, sono diventati tutti, indistintamente, peccatori.
La dottrina del peccato originale non viene formulata
per se stessa, ma per mettere in evidenza l'azione salvifica e
santificatrice di Gesù Cristo.
I problemi attuali
L'espressione "peccato originale" ha creato in
passato notevole confusione e tutt'ora la crea tra la gente comune.
Va precisato subito che questo è chiamato "peccato" solo
analogicamente rispetto al peccato personale, ma va ben distinto da
quest'ultimo. Infatti, il peccato personale è un atto che si pone
all'interno di un certo codice morale che viene violato, per
l'appunto, da questo atto.
Quello originale, invece, ha segnato in modo
irrevocabile e definitivo la comunione dell'uomo con Dio, intaccando
la stessa natura dell'uomo, modificandola irrimediabilmente. Quel "si
accorsero di essere nudi", di cui ci parla la Genesi al cap.3,7
sta a significare che la natura iniziale dell'uomo, rivestita e
permeata di Spirito Santo, che associava l'uomo alla vita stessa di
Dio, in una profonda comunione di vita, è andata perduta. La prima
reazione, che ciò ha prodotto, è stato il "nascondersi dal
Signore Dio" (Gen.3,8). Qui Dio non è più percepito come un
amico con cui si condivideva la stessa vita, ma come un estraneo da
cui fuggire, come una minaccia. Il mutamento della natura originale
dell'uomo viene espressa, poi, da Dio che vestì di pelli di animale
l'uomo e la donna (Gen. 3,21) e dalla loro cacciata dal paradiso
terrestre, cioè dalla loro fuoriuscita dalla dimensione stessa di
Dio, a cui, ormai, non appartenevano più.
Come si può ben vedere, i due concetti di peccato,
personale e originale, si differenziano notevolmente nella loro
stessa sostanza.
In proposito, la teologia tradizionale, parlando di "peccato
originale", distingue tra il "peccato originale
originante" e il "peccato originale originato". Il
primo è il peccato commesso all'origine della storia, che ha
originato il male in cui noi, ora, viviamo e sperimentiamo; il
secondo sono proprio queste conseguenze negative in noi che ci
condizionano dolorosamente nel nostro vivere quotidiano; la nostra
condizione di isolamento da Dio, che ha nel ha nel primo la sua
causa e ha decretato il nostro fallimento.
L'interesse, pertanto, per il "peccato originale
originante" non ha altro senso che quello di chiarire la nostra
attuale situazione, cioè perché siamo ridotti in queste condizioni
di separazione da Dio, con tutto ciò che ne consegue anche da un
punto di vista esistenziale. Infatti, è importante capire da che
cosa Gesù ci ha salvati e che senso ha la sua venuta tra di noi,
dato che questo tipo di peccato non è soltanto la trasgressione di
una legge del Creatore, ma il radicale e connaturato nostro rifiuto
dell'amore offertoci da Dio. In buona sostanza, l'interesse per il "peccato
originale", per noi cristiani, è essenzialmente cristologico.
Se per Israele la consapevolezza del proprio peccato
è stata acquisita attraverso l'alleanza e la Legge, che ha
evidenziato la pochezza e la fragilità congenita della natura umana;
per il cristiano tale consapevolezza appare soltanto alla luce della
croce di Gesù, che ci dice tutta la dimensione e la gravità del
peccato umano.
La redenzione di Cristo e il battesimo, che ci
incorpora a Lui e alla Chiesa, vanno letti in questo orizzonte;
mentre la solidarietà e l'universalità della colpa e della sua
redenzione trovano la loro spiegazione e il loro fondamento nel
Cristo crocifisso: egli, infatti, incarnandosi ha assunto su di sé
l'intera umanità peccatrice, l'ha integralmente ricapitolata nella
sua umanità, l'ha definitivamente "morta" sulla croce,
rigenerandola nella risurrezione. E' Gesù stesso che ce ne da
testimonianza nel vangelo di Giovanni: "Io, quando sarò elevato
da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32). L'elevazione di Gesù
da terra acquista in Giovanni il doppio senso di "elevato sulla
croce" e "elevato dalla morte", cioè risorto. Gesù,
pertanto, diviene il punto di attrazione e convergenza della vecchia
umanità, segnata dal peccato e distrutta sulla croce, e il principio
unico rigenerante da cui defluisce una nuova umanità rigenerata con
la potenza dello Spirito e riconciliata definitivamente con il
Padre.
Possiamo comprendere, quindi, la condizione di
peccaminosità solo alla luce del Cristo morto-risorto e da ciò che
essa nega ed ostacola: l'unione degli uomini in Cristo e di questi
fra di loro. Le schizofrenie personali e sociali, con tutto ciò che
ne consegue, sono per l'appunto la negazione e il rifiuto della
riconciliazione offertaci dal Padre nel Cristo per mezzo dello
Spirito. E questa è la condizione in cui vive ogni uomo per il solo
fatto di venire al mondo. Una condizione di peccato che, se da un
lato intacca la nostra natura rendendola decaduta e fragile,
dall'altro ce ne rende responsabili ogniqualvolta che liberamente ci
conformiamo nel nostro vivere a questa situazione. In tal modo il
peccato originale diventa il nostro peccato personale, che
testimonia il nostro orientamento esistenziale sbagliato.
Non va, poi, sottovalutato l'aspetto sociale e
universale del peccato. Infatti come la grazia e il bene defluiscono
da Dio attraverso tutti gli uomini, creando un flusso di bene che di
uomo in uomo, di società in società si estende all'intera umanità
creando un clima positivo di orientamento verso Dio, così il peccato
e le strutture sociali di peccato interrompono questo flusso,
favorendo lo scollamento tra Dio e gli uomini e di questi tra di
loro.
In tal senso, non va dimenticato il mito della Torre
di Babele che narra la storia del progresso dell'uomo rivolto contro
Dio. L'esito letale fu la confusione delle lingue, cioè l'uomo che
non riesce più capire se stesso, che non capisce più, per questo,
neppure gli altri e che lo ha portato alla schizofrenia personale e
sociale; è l'uomo che ha perso la propria identità perché ha perso
la sua comunione con Dio.
La condizione di peccato non è un qualcosa che si
pone al di fuori dell'uomo, ma si annida in lui profondamente e si
riversa al suo esterno, prendendo corpo nelle istituzioni, nei
costumi, nelle mode, nel modo di ragionare e di pensare, rendendolo
incapace di vedere il male, che viene scambiato per il bene (v.
le leggi sull'aborto, sul divorzio, il riconoscimento delle coppie
di fatto, dei matrimoni gay, le guerre, ecc.).
Queste situazioni sono provocate dalla somma di tutti
i peccati degli uomini, che determinano lo stato di peccaminosità in
cui vive l'intera umanità e che trova la sua matrice originaria
nella prima colpa originante, cioè da quel primo scollamento tra Dio
e l'uomo. Ogni nostro peccato personale è un contributo alla
formazione di questo peccato del mondo.
In questa visione sconsolante della triste condizione
dell'uomo colpito dal peccato e generatore, a sua volta, di peccato
non va mai dimenticato che il potere di Cristo è più forte di ogni
peccato. Paolo ci viene incontro e ci apre il cuore alla speranza: "Non
c'è, dunque, più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo
Gesù. Poiché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti
ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm. 8,1-2).
Gli effetti del peccato
originale
La narrazione biblica del paradiso terrestre ci
presenta un uomo creato si con la polvere del suolo, ma questa viene
pervasa interamente dal Soffio divino che attrae l'uomo nella
dimensione di Dio e lo rende partecipe della sua stessa vita,
condividendo con lui tutte le sue qualità divine compatibili con lo
stato di creaturalità proprio dell'uomo.
Queste "qualità divine" in teologia sono state
definite come i "beni preternaturali" che l'uomo avrebbe
continuato a possedere se non fosse decaduto e che non gli sono
stati ridati con la grazia di Cristo.
Nel magistero della Chiesa troviamo soprattutto
riferimenti a due di questi beni perduti: l'assenza di concupiscenza
e l'immortalità.
Tradizionalmente, quando si parla di concupiscenza si
intende l'insubordinazione delle tendenze inferiori dell'uomo a
quelle superiori o razionali; mentre l'integrità è la perfetta
sottomissione delle tendenze inferiori a quelle superiori.
Da un punto di vista teologico la concupiscenza va
intesa come una diminuita capacità dell'uomo a compiere il bene,
dovuta ad una notevole limitazione della libertà dell'uomo, che lo
appesantisce e gli rende difficile il vivere correttamente e a
livelli spirituali superiori; inoltre, essa costituisce una barriera
agli impulsi dello Spirito. Potrebbe essere, in buona sostanza,
identificata con la nostra stessa connaturata fragilità.
Quanto allo stato di immortalità, il collegamento tra
il peccato e la morte è chiaro sia nelle Scritture che nel magistero
della Chiesa, anche se nella Bibbia il concetto di morte non è
sempre univoco. Talvolta è inteso come morte biologica, altre ancora
come separazione da Dio. Forse le cose vanno congiunte, nel senso
che è proprio la separazione da Dio che provoca la morte biologica.
Del resto la despiritualizzazione dell'uomo, di cui si parla nel
cap. 3,7 della Genesi ("si accorsero di essere nudi") ha
avuto come conseguenza una serie di guai che la Bibbia non lesina
nell'elencare: la maledizione del serpente e di tutto il bestiame,
l'inimicizia tra il serpente e la donna, la moltiplicazione dei
dolori in genere e di quelli del parto per la donna, il sentirsi
questa succube del suo uomo, non c'è più, dunque, un rapporto di
amore; la maledizione del suolo che produrrà spine e cardi, il
dolore per procurarsi il cibo e la dura fatica di un lavoro che
delude e uccide. E alla fine di tutto ecco il destino di una carne
despiritualizzata: "polvere tu sei e in polvere ritornerai!".
Questa immortalità di vita con tutto ciò che ne
consegue, ora, ci è stata garantita dalla risurrezione di Cristo,
primizia di coloro che risorgeranno.
L'UOMO NELLA GRAZIA DI CRISTO
Premessa
Sotto questo titolo si vuol riflettere sull'uomo
nella sua relazione con Dio. Già dagli inizi della sua storia,
l'uomo era posto in una stretta comunione con Dio, garantita dal
Soffio Dio, e con lui condivideva la stessa vita, compatibilmente
con il suo stato di creatura, e ne era diventato il partner nella
gestione della creazione, che gli era stata affidata e di cui fu
reso responsabile. Era divenuto immagine stessa di Dio e a Lui
somigliante.
Tutto ciò fu dono e grazia. Il dono di cui si parla è
Dio stesso, che si è fatto dono per quest'uomo.
E Dio, nonostante le delusioni creategli dalla sua
creatura, non smise mai di esserle dono, sicché lungo la storia
questo dono divenne promessa, si concretizzò in elezione, si fece
alleanza, divenne parola dimorante in mezzo al suo popolo, apparve
come luce di celi nuovi e terra nuova nel buio dell'esilio, finché "il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi"
(Gv. 1,14a).
Tutto ciò è grazia!
Dio non si è mai rassegnato alla perdita della sua
immagine, del suo partner e fin dall'inizio lo ha cercato e
chiamato: "Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: <<Dove
sei?>>" (Gen. 3,9). Per questo Egli "pur essendo di natura
divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo
simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil
2,6-8).
E tutto ciò è grazia!
Parliamo, dunque, di un Dio che si comunica all'uomo
nel suo amore infinito.
Questa grazia ha assunto nel corso della storia della
salvezza il volto di Gesù Cristo. Stare nella grazia, quindi,
significa stare in Cristo in cui siamo stati incorporati,
cristificati e in cui abbiamo la redenzione, che si fa
riconciliazione e perdono, accoglienza e trasformazione. In Lui, con
Lui e per Lui siamo stati reinmessi nel ciclo vitale stesso di Dio,
che è Padre, Figlio e Spirito Santo.
La volontà salvifica
universale di Dio
Un aspetto della grazia, fattasi dono in Cristo, è la
volontà salvifica di Dio che investe universalmente l'intera
umanità. La Bibbia presenta una numerosa testimonianza di tale
volontà, che qui ci limitiamo a citare in qualche passo per ovvie
ragioni di brevità:
· "Dio,
infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito,
perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna"
(Gv 3,16)
· "Io,
quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32)
· "...
Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano
salvati" (1Tm 2,4)
· "Io
non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per chiunque
crede" (Rm 1,16).
La Chiesa stessa nel suo dogma di fede proclama che
egli "è disceso dal cielo per noi uomini e per la nostra salvezza".
Questa offerta di grazia in Cristo, seppur gratuita,
chiede all'uomo una risposta, lo spinge a prendere una posizione: "Il
tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete
al vangelo" (Mc 1,15). Nessuno, pertanto, può rimanere
indifferente, poiché la stessa indifferenza è giudicata come
rifiuto: "Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo ...
Ma poiché sei tiepido, non sei né freddo né caldo, sto per vomitarti
dalla mia bocca" (Ap 3,16).
Proprio perché la salvezza manifestatasi in Cristo è
universale, il suo ambito trascende la Chiesa visibile stessa e si
lascia trovare ovunque l'uomo la cerchi con cuore sincero: "Pietro
prese la parola e disse: <<In verità mi sto rendendo conto che Dio
non fa preferenza di persone, ma chiunque lo teme e pratichi la
giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto>>."
(At. 10,34-35).
Un principio questo ormai ampiamente accolto anche
nel magistero della Chiesa in cui si afferma che anche "quelli
che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, in vari modi sono ordinati
al popolo di Dio" (LG 16a); e ancora "Dio non è neppure
lontano dagli altri che cercano il dio ignoto nei fantasmi e negli
idoli ... infatti, quelli che senza colpa ignorano Cristo e la sua
Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramente Dio ... possono
conseguire la salute eterna" (LG 16b).
La salvezza, quindi, non appartiene soltanto all'uomo
cristiano, ma alla stessa nozione cristiana dell'uomo.
Nella storia della teologia, la volontà di salvezza
universale di Dio si è imbattuta con il problema della
predestinazione. Esso, a mio avviso, è sempre stato male
interpretato quando si è pensato, in qualche modo, che Dio avesse
già deciso tutto indipendentemente dall'uomo; per cui l'uomo, faccia
bene o faccia male, il suo destino era, comunque, già segnato.
Questo è fatalismo, non predestinazione.
Il concetto di predestinazione nel N.T. racchiude in
sé un'idea ben diversa da come comunemente la intendiamo noi nel
nostro comune linguaggio umano. Il NT usa il termine di
predestinazione quale sinonimo di disegno salvifico di Dio posto a
favore dell'uomo e non quale giudizio emesso a priori sull'uomo. In
tal senso si veda Rm 8,29; 1Cor 2,7; Ef. 1,5.11. E che questo
progetto salvifico sia di natura soltanto ed esclusivamente positiva
per l'uomo ne fa chiaro cenno la stessa lettera agli Efesini : "In
lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e
immacolati nella carità" (Ef 1,4). L'elezione "ab aeterno"
dell'uomo in Cristo è finalizzata soltanto all' "essere santi e
immacolati".
Questa predestinazione-disegno, pertanto, è posta
solo a favore dell'uomo, ma non è coercitiva nei suoi confronti,
poiché essa ha a che fare con la libertà dell'uomo, che può anche
rifiutare questo progetto di salvezza riservatogli ancor prima della
creazione. In tal senso S.Agostino, con un'espressione scultorea,
afferma che quel "Dio che ci ha creati senza di noi, non può
salvarci senza di noi".
Il primato della grazia nella
salvezza dell'uomo.
La giustificazione del
peccatore
Un altro aspetto della grazia è la giustificazione.
Essa è il favore di Dio che viene concesso di fatto all'uomo
peccatore, che per mezzo di Cristo è messo nella giusta relazione
con Lui e reinserito nel ciclo vitale di Dio stesso. In ciò si
manifesta l'iniziativa divina e, pertanto, il primato della grazia.
Nell'AT la giustificazione dell'uomo peccatore si
manifesta nella fedeltà di Dio all'Alleanza nonostante le infedeltà
dell'uomo. Questa giustizia di Dio, che per molti secoli ha come
unico destinatario Israele, a partire dal deutero e trito Isaia
diventa universale: la salvezza non sarà più la restaurazione di
un'esclusiva alleanza con Israele, ma la sua estensione a tutti i
popoli e nazioni (Is 42,4; 45,21; 51,5; 56,4; 62,2).
Nel NT sarà Paolo che porrà un'ampia e complessa
trattazione sulla giustificazione dell'uomo peccatore nella sua
lettera ai Romani (Rm.1,16 - 5,21).
Paolo apre la questione con un'affermazione
perentoria, che costituisce il tema della lettera: "Io infatti
non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza
di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. E' in esso che
si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il
giusto vivrà per fede" (Rm 1,16-17).
Subito dopo, Paolo compie un'ampia digressione con
cui vuole dimostrare che sia i pagani, che pur potendo conoscere Dio
per mezzo della creazione, hanno preferito adorare le creature
anziché il loro creatore; sia i giudei che, pur possedendo la Legge
e la circoncisione, di fatto non le osservano, sono tutti posti
sullo stesso piano davanti a Dio. Per cui, conclude Paolo, "...
tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio" (Rm
3,19).
Concluso questo complesso castello ragionativo, Paolo
riprenderà il tema enunciato all'inizio e affermerà "Ora invece,
indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio
... per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che
credono. ... Noi riteniamo, infatti, che l'uomo è giustificato per
la fede, indipendentemente dalla opere della legge. ... Poiché non
c'è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i
circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi" (Rm
3, 21-31).
Per Paolo il vangelo di cui non si vergogna è il
Cristo crocifisso, che si trasforma in potenza salvifica e
rigenerante per chiunque aderisce a lui nella fede. Ed è proprio
questo "chiunque" anonimo che dà un tono di universalità
alla salvezza, raggiungibile per la sola adesione esistenziale a
Cristo crocifisso. In lui, afferma Paolo, si è rivelata la giustizia
di Dio, cioè la sua fedeltà nei confronti dell'uomo. Cristo diventa,
pertanto, per Paolo la stessa giustizia di Dio da cui promana
un'energia che giustifica e rigenera l'uomo a Dio. E tutto ciò lo ha
compiuto indipendentemente dalle opere dell'uomo e quando lui era
ancora peccatore.
La questione della giustificazione viene affrontata
anche da S.Agostino nell'ambito dello scontro con i pelagiani, che
affermavano la radicale bontà della creazione e, quindi, dell'uomo,
capace con le sue sole forze di rifiutare il male e aderire alla
volontà di Dio. Infatti, Pelagio sembra temere che se la libertà
umana è sostenuta dalla grazia, non sia più libertà. L'uomo, dunque,
per Pelagio è un essere eticamente perfetto e capace.
Di fronte a tanto ottimismo pelagiano Agostino
reagirà duramente, evidenziando che l'uomo, invece, è schiavo del
peccato, dal quale soltanto Cristo lo può salvare per pura grazia e
senza alcun merito da parte sua. Da qui la necessità della grazia
per compiere il bene. Pertanto, tutto ciò che l'uomo fa di buono, lo
fa Dio in lui e per lui.
Quale reazione alla dottrina agostiniana sulla
grazia, fortemente restrittiva per quanto riguarda la libertà e la
capacità dell'uomo a compiere il bene, si sviluppò nel sud della
Francia il semipelagianesimo, secondo il quale il primo movimento
dell'uomo verso Dio e verso la fede non sarebbe dono della grazia,
ma movimento autonomo dell'uomo stesso. Una visione questa che
toglie a Dio il primato della salvezza: non è Dio che va verso
l'uomo, ma questi che va verso Dio.
La questione della giustificazione per fede e del
primato della grazia divennero questioni scottanti nella Riforma
luterana.
Lutero parte dalla considerazione che l'uomo è un
essere totalmente corrotto dal peccato originale e incapace di
compiere un qualche bene e di muoversi nella libertà. Ma Gesù ci
riconcilia interamente al Padre e ci rende giusti davanti a Lui. La
giustificazione, pertanto, è l'opera di Gesù su di noi che ci mette
nel giusto rapporto con Dio.
Siamo, dunque, giustificati "solus Christus",
cioè soltanto grazie all'azione di Cristo su di noi; "sola fide",
cioè soltanto per mezzo della fede in Cristo possiamo accedere alla
salvezza; e "sola gratia", cioè attraverso la sola iniziativa
di Dio.
Il Concilio di Trento prende posizione nei confronti
di Lutero e formula l'insegnamento cattolico sulla dottrina della
giustificazione.
Si insiste sulla universalità del peccato originale e
sulla necessità che gli uomini hanno della redenzione di Cristo. Si
afferma, poi, che solamente in virtù della grazia di Dio avviene
l'inizio della giustificazione, con l'esclusione radicale di ogni
precedente merito da parte dell'uomo. Tuttavia si rende necessaria
la collaborazione dell'uomo, che è, essa stessa, frutto della
grazia. Si precisa, infine, che la giustificazione non è soltanto la
remissione dei peccati, ma comporta anche la santificazione e il
rinnovamento interiore dell'uomo.
La grazia
come dono della filiazione divina
L'uomo per mezzo del battesimo viene configurato a
Cristo, in cui si compie il disegno di Dio su di lui, cioè quello di
essere accorpato, per mezzo dello stesso Cristo, alla stessa vita
divina.
L'identità di Gesù si manifesta soprattutto nel suo
essere Figlio di Dio, per cui l'uomo configurato a Cristo è chiamato
a condividere la sua unica e irrepetibile relazione con il Padre,
divenendo lui stesso, per partecipazione, figlio di Dio.
Parimenti a molte religioni, anche l'AT considera
l'uomo quale figlio di Dio, non per creazione, ma in rapporto alla
sua elezione a popolo di Dio, benché Malachia leghi la figliolanza
dell'uomo al suo essere creato da Dio: "Non abbiamo forse tutti
noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio?" (Mal.
3,10). Il re, inoltre, è considerato al momento della sua
intronizzazione figlio di Dio, in quanto da lui generato: "Annunzierò
il decreto del Signore. Egli mi ha detto: <<Tu sei mio figlio, io
oggi ti ho generato>>" (Sal.2,7). Nei Libri sapienziali, infine,
si parla di Dio come padre del giusto, che in alcune occasioni viene
anche invocato come tale.
Ma sarà nel NT che ci viene rivelata la novità che
Gesù ha per Padre Dio stesso e non in senso metaforico, ma reale.
Egli è l'unigenito che esce dal senso del Padre, per cui si può
permettere di chiamare Dio con l'appellativo di "Abba" (Mc
14,36), lasciandoci intravedere un'intimità e una profonda relazione
con Dio, da cui proviene.
Ma è soprattutto nel Quarto Vangelo che troviamo
specificata la vera natura di questa relazione tra Gesù e Dio e che
ci viene detto in che cosa consiste il suo essere figlio di Dio. Tra
lui e il Padre c'è una profonda comunione, una sorta di
compenetrazione reciproca così che chi vede lui vede il Padre,
poiché lui e il Padre sono una cosa sola, mentre le cose che lui
dice è il Padre che le dice e le compie in lui; e ciò è possibile
perché "Tu Padre sei in me e io sono in te". Gesù, in tal
modo viene ad essere il volto del Padre nella storia, la sua
identità.
Ma se Gesù si è dichiarato Figlio di Dio, chiamando
Dio con il nome di "Abba", denunciandone così il profondo e
intimo rapporto che lo lega a Lui, questo Padre ci viene offerto da
Gesù stesso come Padre nostro e ci invita a chiamarlo proprio così "Padre
nostro", insegnandoci come rivolgersi a Lui (Mt 6,9) . Ma è Gesù
stesso, poi, che parlando di suo Padre lo chiama anche "Padre
vostro" (Mt 5,48; Mc11,25).
Anche Paolo conosce il tema della filiazione divina
di colui che crede in Gesù e definisce ripetutamente Dio come "Padre
nostro" (1Ts 3,11-13; 2Ts 1,1 e 2,16; 2Cor 1,2; Gal 1,3).
In tal senso si rivela particolarmente importante la
lettera ai Galati al cap.4,4-7: "Ma quando venne la pienezza dei
tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la
legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché
ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il
fatto che Dio ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del suo Figlio
che grida: Abba, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se
figlio, sei anche erede per volontà di Dio" . Lo stesso tema,
ripetuto quasi con le stesse parole, viene trattato in Rm 8, 14-17.
E', dunque, il Figlio che ci fa figli, partecipando
alla sua filiazione per mezzo dello Spirito. Infatti, è lo Spirito
il frutto della relazione tra Padre e Figlio; è lui la comunione tra
Padre e Figlio. Pertanto, l'essere inabitati dallo Spirito, ci
costituisce immediatamente figli dello comune Padre che condividiamo
con Gesù e ci inserisce nella profonda relazione che intercorre tra
il Padre e il suo unigenito Figlio. Per questo l'invocazione a Dio
con l'appellativo di "Abba" può essere fatta solo in virtù
dello Spirito, che ci costituisce anche eredi dei beni propri del
Figlio. Lo Spirito, quindi, è colui che ci rende possibile la
filiazione divina, come partecipazione a quella relazione unica e
irrepetibile che Gesù ha con il Padre, per questo non è possibile
viverla senza la comunione con Gesù e senza essere a lui
configurati.
La nostra filiazione divina in Gesù, acquista una
connotazione concreta nell'ambito del nostro vivere quotidiano. Essa
si esprime, innanzitutto, come sequela ed è segnata dal vivere,
morire e risorgere con Cristo e nel permanere in lui, nel suo amore.
Un aspetto di questa nostra filiazione è
l'inabitazione di Dio in noi, di cui Giovanni ci dà testimonianza
nel suo vangelo: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il
Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di
lui" (Gv 14,23). Dio, quindi, secondo il NT abita in noi e ci
elegge a sua dimora. Mentre Paolo ci pensa come "tempio dello
Spirito Santo" : “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo
Spirito di Dio abita in voi?” (1Cor 3,16).
La grazia
come trasformazione interiore dell'uomo.
La nuova
creazione
La redenzione, operata da Cristo con la sua morte e
risurrezione, apre nuove prospettive ad una nuova antropologia, in
cui l'uomo è ricompreso alla luce del Cristo morto-risorto.
Il fondamento di questa nuova antropologia è, dunque,
il Cristo morto e risorto.
Come ciò sia possibile e quali conseguenze ciò abbia
prodotto sull'uomo ci viene prospettato dallo stesso Paolo nella sua
lettera ai Romani: "O non sapete che quanti siamo stati
battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?
Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui
nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo
della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una
vita nuova. ... Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma
viventi per Dio, in Cristo Gesù" (Rm.6,3-4.11).
Punto di partenza del rinnovamento dell'uomo è
l'essere inserito in Cristo per mezzo del battesimo. Esso opera una
duplice azione nell'uomo: da un lato lo rende morto al peccato e
alle sue logiche, cioè non vi appartiene più, anche se per la sua
fragilità, che con il battesimo non gli è stata tolta, continua a
frequentarlo.
Un effetto questo che fu prodotto dalla morte di Gesù
in croce, sulla quale fu distrutto il vecchio corpo adamitico e in
questo tutti noi, che sulla croce di Gesù siamo stati da lui
attirati e uniti, in modo misterioso, ma reale (Gv 12,32). Paolo
stesso ce lo conferma: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio
è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del
peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato" (Rm 6,6).
Dall'altro, siamo risuscitati con lui, cioè siamo stati inseriti in
una nuova realtà che ci chiede un nuovo stile di vita, un nuovo modo
di pensare, un nuovo modo di porci nella storia e nei rapporti
sociali.
In altre parole, il battesimo ci ha uniti così
profondamente a Cristo da renderci anche partecipi al suo mistero di
redenzione. Ebbene gli effetti di questa redenzione si producono
nella nostra capacità di camminare in una vita nuova, secondo le
logiche di Dio, nel nostro interesse per le sue cose al punto tale
da essere capaci di consacrargli completamente e concretamente la
nostra vita; al punto tale da darci una nuova chiave di lettura non
solo delle nostre vite, ma della stessa storia e creazione.
Con Cristo e in Cristo niente è più come prima.
Quando Paolo afferma: "perché come Cristo fu
risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre ...", noi
ci saremmo aspettati come conseguenza logica "così anche noi
possiamo risorgere". Invece, no. Paolo completa: "così anche
noi possiamo camminare in una vita nuova". Ciò sta a significare
che se la morte di Gesù in croce ci ha resi estranei al mondo del
peccato, la sua risurrezione ci consente di camminare e di vivere
secondo nuove logiche. In altri termini siamo stati resi nuove
creature in Cristo. Infatti, "... se uno è in Cristo, è una
creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono sorte di
nuove" (2Cor 6,17).
La nostra vita ha subito un nuovo e radicale
orientamento: dal peccato al mondo di Dio: "Così anche voi
consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù"
(Rm 6,11). Questo ci impone di non comportarci più "come pagani
nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei
alla vita di Dio" (Ef 4,17-18), ma dobbiamo, invece, "rinnovarci
nello spirito della nostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato
secondo Dio nella giustizia e nella santità vera" (Ef 4,23).
Questo nuovo modo di essere dell'uomo si traduce
spontaneamente in un nuovo modo di operare che scaturisce dalle
radici dell'essere rinnovato. Non a caso tutta l'etica di Paolo è
consequenziale alla nuova situazione ontologica in cui si pone
l'uomo in Cristo. Per questo il cristiano deve vivere in maniera
degna e conforme alla vocazione a cui è stato chiamato (Ef 4,1; Col
1,10; 1Ts 2,12), poiché "... se riceviamo vita dallo Spirito,
camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,25). Lo Spirito
Santo, che è lo Spirito di Cristo, è, dunque, la vera e nuova legge
interiore del cristiano.
L'azione dello Spirito, poi, spinge l'uomo nuovo,
ricreato in Cristo, a vivere la propria vita nella carità, che è
testimonianza e sacramento dell'amore stesso di Dio, nel cui ciclo
vitale siamo stati reinmessi. Ma insieme alla carità, la fede e la
speranza formano la grande triade distintiva del vivere cristiano,
così che ne viene modificato lo stile di azione e vengono creati
nuovi rapporti sociali, imprimendo in tal modo alle comunità
cristiane e ad ogni suo singolo membro un ruolo profetico,
prefigurazione di una nuova umanità e di un nuovo ordine di cose.
ESCATOLOGIA
COMPIMENTO DELL'OPERA DI DIO
PIENEZZA DELL'UOMO
(Sunto e riflessioni su "L'orizzonte speranza" di
Giacomo Panteghini Ed. Messaggero
Padova)
Premessa
Il termine "escatologia" fu coniato dal
teologo luterano Abraham Calov, morto bel 1686. Esso è composto da
due parole greche: "escata"
e "logos", cioè studio delle cose ultime. L'escatologia, dunque, è
lo studio delle ultime realtà che chiuderanno l'intera vita
dell'umanità. Viene anche comunemente intesa nella mentalità
cristiana come lo studio dell'aldilà; mentre nella teologia
dogmatica è indicato con il termine latino "novissima".
Nei manuali scolastici l'escatologia viene divisa in
due parti fondamentali: l'escatologia individuale, che studia le
ultime realtà riguardanti la fine di ogni singola persona (morte,
giudizio particolare, paradiso, inferno e purgatorio) e
l'escatologia universale o cosmica, che studia la fine dell'intera
umanità e del cosmo, comprendente la parusia o ritorno di Cristo, la
risurrezione della carne, il giudizio universale e la
fine-rinnovamento del mondo.
L'escatologia personale è detta anche "intermedia"
in quanto si occupa del tempo che intercorre tra la morte della
singola persona e la venuta finale di Cristo. (da
"Nuovo dizionario di teologia - voce: Escatologia - Parte I -
Introduzione - pag.389 - Ed. Paoline- Milano - 1988)
L'escatologia trova il suo fondamento
nell'interrogarsi dell'uomo sul senso del proprio esistere e sul suo
futuro. Un futuro che non è indifferente al presente, ma che già in
esso vive sotto forma di interrogativi, di preoccupazioni, di ansie,
di sogni, di aspettative e di speranze, che spingono l'uomo a
superare gli angusti spazi del suo presente e a proiettarsi in
avanti. Un futuro, quindi, che è capace di influenzare e
condizionare l'oggi dell'uomo, di modificare i suoi attuali
comportamenti e ad orientarlo in un modo diverso e completamente
nuovo rispetto all'eredità del suo passato.
Il futuro, quindi, si costituisce come un potente
motore che da senso al vivere dell'uomo e lo polarizza verso nuovi
spazi di speranza. Ed è proprio lo "spazio speranza", in cui
si inserisce la promessa di Dio di "cieli nuovi e terra nuova",
che spinge l'uomo a trovare in questi spazi, inaugurati dalla
risurrezione di Cristo, il proprio compimento finale.
Una speranza per l'intera
creazione
La tradizione cristiana, che ha risentito
notevolmente della dicotomia platonica, ci insegna che l'uomo è un
essere composto di anima e corpo. Ci insegna, inoltre, che l'anima è
immortale e che sopravvive al disfacimento del corpo e, per questo,
acquista un valore enorme rispetto al corpo che, invece, va perduto
con la morte.
In una simile prospettiva il corpo, influenzati anche
da duemila anni di platonismo, viene sostanzialmente deprezzato e
percepito, talvolta, come un nemico dell'anima. Ci si dimentica che
l'uomo è tale proprio perché è anche corpo e che la salvezza
inaugurata da Cristo riguarda l'uomo nella sua integralità.
Favorire, quindi, un aspetto dell'uomo sull'altro significa, in
buona sostanza, negare l'uomo stesso.
Una diversa prospettiva, invece, ci viene offerta
dall'antropologia ebraica che considera l'uomo non un composto di
anima e corpo, bensì una carne spiritualizzata e uno spirito
incarnato. Questa profonda compenetrazione osmotica, che non
distingue l'anima dal corpo, ma ne fa un'unica realtà, consente
anche di vedere l'uomo strettamente legato e integrato, grazie al
suo aspetto corporeo, all'intera creazione di cui egli è la punta
emergente.
Vige, infatti, una profonda solidarietà tra l'uomo e
l'intero creato, la quale li lega in un unico destino. Un aspetto
fondamentale questo dell'intera economia della salvezza, che ci
viene testimoniato sia dall' A.T. che nel N.T.
Afferma, infatti, Genesi 6,12-13: "Dio guardò la
terra ed essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua
condotta sulla terra. ... la terra per causa loro è piena di
violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra".
Le fa eco Paolo nella sua lettera ai Romani. "La
creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di
Dio; essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità - non per suo
volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la
speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della
corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio"
(Rm. 8,19-21).
Non v'è dubbio, dunque, che i destini del creato sono
strettamente coincidenti con quelli dell'uomo.
Stabilita questa profonda solidarietà, sorge la
domanda: quale influenza l'operare dell'uomo ha sulla salvezza del
creato? Quale spazio ha l'uomo nel concorrere ai cieli nuovi e alla
terra nuova?
C'è chi ritiene che l'avvento del regno di Dio non
sia influenzato dall'operare dell'uomo, ma soltanto dalla sua
predisposizione interiore, cioè nel coltivare i valori che lo
favoriscono. Una simile posizione non sembra tener conto che Dio ha
condannato alla distruzione la terra perché corrotta dall'operare
dell'uomo. Ciò significa che l'azione dell'uomo nel suo operare
storico non è ininfluente sui destini della creazione stessa. E' da
pensare, pertanto, che ciò che l'uomo fa per l'umanizzazione delle
strutture terrestri e per la costruzione di un mondo migliore
contribuisce concretamente e oggettivamente alla realizzazione del
progetto di Dio. In altri termini, il mondo nuovo che Dio prepara,
lo costruisce anche con la nostra collaborazione. Infatti, l'uomo è
visto, fin dal suo sorgere, come il partner privilegiato di Dio: "Il
Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino dell'Eden, perché lo
coltivasse e lo custodisse" (Gen. 2,15). L'uomo, quindi, è visto
come il prosecutore dell'atto creativo di Dio ed è capace di tale
responsabilità perché costituito ad immagine e somiglianza di Dio e
tale è stato ricostituito nel Cristo risorto.
Ma quale destino è dato all'uomo e alla creazione?
C'è una continuità tra la loro condizione attuale e il loro assetto
finale?
La Bibbia parla di "cieli nuovi e terra nuova",
parla cioè di realtà che sono da noi conosciute e rientrano nella
nostra quotidiana esperienza. Pertanto, non si tratta di spazi
sconosciuti all'uomo, ma a lui familiari. Certo questi non sono
posti nelle identiche condizioni che noi oggi conosciamo, poiché si
tratta di realtà "nuove", ma questa novità non è contraria
all'identità.
Credo che per capire bene tale concetto sia opportuno
riferirsi alla risurrezione di Cristo, con cui questi "celi nuovi
e terra nuova" hanno a che fare. Quando Gesù fu risorto per la
potenza dello Spirito non gli fu dato un altro corpo, lasciando
quello precedente a marcire nella tomba; ma fu proprio quest'ultimo
ad essere recuperato dal Padre e restituito al Figlio. La prova di
questo fu, da un lato, la tomba vuota, dall'altro, Gesù stesso che
si presentò a Tommaso con un corpo piagato dalla crocifissione ... e
tutti lo hanno riconosciuto come quello di prima e Gesù stesso ha
coscienza di essere quello di prima e non un'altra persona: "Perché
siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?Guardate le
mie mani e i piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate" (Lc
24, 38-39).
E' da pensare che, parimenti, Dio non getterà nel
cestino la prima creazione, ma sarà proprio questa ad essere
recuperata e trasformata per mezzo della potenza dello Spirito, così
come è avvenuto per lo stesso Gesù, che è stato costituito nella
risurrezione primizia di coloro che risorgeranno (1Cor 15,23). Si
tratterà, quindi, di una trasformazione che consisterà in una
rispiritualizzazione di questa carne e di questa materia
despiritualizzate con la colpa originale. In tal senso parla la
Lettera ai Filippesi: "La nostra patria, invece, è nei cieli e di
là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale
trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo
glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le
cose" (Fil. 4,20-21). Questa trasformazione verrà da Paolo
maggiormente specificata nella sua prima lettera ai Corinti: "Così
anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge
incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina
debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge
un corpo spirituale" (1Cor. 15,42-44). E', quindi, lo stesso
corpo che verrà trasformato e trasfigurato.
La fine dei tempi
Ma quando verranno tutte queste cose? Secondo la
Bibbia, il futuro promesso da Dio si dispiegherà totalmente alla
fine dei tempi per la stessa iniziativa di Dio. Ciò implica la fine
della storia presente. Come ciò avvenga, se in modo catastrofico
sullo stile apocalittico o di rinnovamento secondo quello profetico,
ha un'importanza del tutto marginale. Entrambe le immagini, infatti,
sono portatrici del medesimo messaggio: ciò che c'era prima, dopo
non ci sarà più per lasciare spazio alla nuova creazione, che già e
stata posta nel Cristo risorto e che in lui ha già avuto inizio. Si
può ben dire, quindi, che gli ultimi tempi sono, di fatto, già
incominciati e che la salvezza, per quanto operi già nella storia,
irromperà in modo definitiva dall'alto, anche se ciò non esclude,
anzi, postula la cooperazione dell'uomo. E questo dà un senso
all'impegno del credente per la trasformazione del mondo in
direzione del regno.
Le immagini catastrofiche, offerteci dalle Scritture
che risentono del clima apocalittico e delle situazioni storiche del
loro tempo, vogliono soltanto dirci non il come avverrà, ma la
necessità che questa realtà venga a cessare. E forse questo non sarà
del tutto indolore, se consideriamo la passione e morte di Gesù, che
ha preceduto la sua risurrezione, come un elemento profetico . La
morte non è mai stata vista dall'uomo come una cosa piacevole e
augurabile, e il morire è sempre accompagnato dalla sofferenza e da
uno spasmodico attaccamento alla vita, per quanto misera questa
possa essere. Del resto lo stesso Paolo ci parla di una creazione
che soffre e geme le doglie del parto (Rm 8,22).
La parusia di Cristo alla
fine dei tempi
L'ultimo libro del NT termina con un'invocazione
rivolta a Cristo: "Marana tha" (Ap 22,20) che raccoglie in sé
le attese delle primi comunità cristiane, tutte tese verso la venuta
finale di Cristo e la fine della storia. Esse, infatti, avevano
intuito che con la risurrezione di Gesù non solo il Padre aveva
compiuto il suo disegno di salvezza: reinserire l'uomo nel ciclo
vitale di Dio, ma che la stessa risurrezione di Gesù aveva
inaugurato "i cieli nuovi e la terra nuova" di cui, ora, ci
si aspettava la piena e definitiva affermazione.
Quel "Marana tha", quindi, risuonava come un
sollecito a Dio a manifestare pienamente e definitivamente quello
che già aveva compiuto nella persona di suo Figlio. Del resto lo
stesso Gesù aveva invitato i suoi discepoli a pregare il Padre in
tal senso: "Padre nostro, ... venga il tuo regno, sia fatta la
tua volontà come in cielo così in terra ..." (Mt 6,10).
La venuta di Gesù, più che un vero e proprio ritorno,
era sentito come una manifestazione delle realtà compiute nel Cristo
risorto e, pertanto, l'affermazione della definitiva signoria di Dio
nella storia.
Questa diffusa attesa della definitiva affermazione
di Cristo, la cui manifestazione avrebbe posto fine alla storia e a
tutte le sue logiche, ci viene illustrata, con una pennellata
veramente suggestiva dal sapore cosmico, dallo stesso Paolo nella
sua prima lettera ai Corinti, in cui ci vengono presentati, con una
scansione quasi ritmica, il compiersi graduale degli eventi finali,
secondo un prestabilito progetto divino: "Ora, invece, Cristo è
risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. ...
Ciascuno, però, nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia;
poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine,
quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al
nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Bisogna,
infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici
sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la
morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. ... E quando
tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà
sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché
Dio sia tutto in tutti." (1Cor 15, 23-26.28).
In questa stupenda visione escatologica le prime
comunità cristiane vedevano l'affermarsi della stessa signoria di
Dio sugli uomini e sull'intero cosmo, ricondotti in seno al Padre,
come il dispiegarsi della potenza della risurrezione di Cristo.
Eschaton finale o eschaton
che si compie?
L'ascensione al cielo di Gesù, più che una vera e
propria dipartita, ci vuole indicare che il tempo della permanenza
fisica di Gesù nella storia e l'esperienza storica di Gesù da parte
dei suoi discepoli è terminato per lasciar posto, da ora in poi, al
tempo della fede (Lc 24,51). Infatti, Gesù rassicura i suoi
discepoli che lui non li abbandonerà mai: "Ecco, io sono con voi
tutti i giorno, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20).
Gesù, quindi, non è svanito nel nulla, ma garantisce
e assicura la sua presenza in mezzo ai suoi discepoli, non più
fisicamente, ma sacramentalmente, ma per questo in un modo non meno
vero e meno efficace. Significativo, in tal senso è l'episodio dei
discepoli di Emmaus che narrano lo sconcerto della chiesa nascente
di fronte alla morte di Gesù, ma che ritrovano lungo il cammino
della storia sotto forma di parola e di pane, attorno a cui si
riaggrega nuovamente la chiesa (Lc 24,13-35).
L'eschaton finale, pertanto, sarà soltanto il nuovo
manifestarsi di una realtà che è già presente. L'eschaton finale è
soltanto una modalità di porsi di Cristo nella storia e nei nostri
confronti. In verità, questo "eschaton finale" è una realtà
già presente che interpella continuamente gli uomini attraverso il
sacramento della Chiesa, la quale si attua nei sacramenti e
nell'annuncio della Parola. Infatti, questo "eschaton finale"
è Cristo stesso, che è "finale" non solo perché si porrà in
termini percepibili e chiari a tutti alla fine dei tempi, ma anche
perché in lui si è compiuto definitivamente il disegno del Padre e
in lui il Padre ci ha detto tutto quello che ci doveva dire e ha
compiuto tutto ciò che doveva compiere. Per questo Cristo è
l'eschaton finale.
L' "eschaton finale", però, conosce una
dilazione nella storia, una sua evoluzione all'interno della
stessa. Questa si esplicita in una lenta e graduale incarnazione di
questo eschaton nella storia stessa, finché l'intera umanità, la sua
storia e la creazione non saranno riassorbite in lui. Solo allora l'
"eschaton finale" sarà veramente finale, quando "Dio
sarà nuovamente tutto in tutti". Ma nel frattempo, è un "eschaton"
che è affidato a ciascuno di noi e la cui incarnazione nella storia
e nel cosmo dipende anche da noi. Ogni suo seguace si pone come "eschaton"
nella storia e nel mondo, imprimendo in essi una forte tensione e
una forte spinta evolutiva.
Il presente, pertanto, è già di per sé escatologico e
compito di ogni credente e di ogni uomo di buona volontà, di ogni
latitudine e di ogni epoca, è scoprire i segni della sua presenza e
lasciarsi configurare alla nuova realtà che in lui è annunciata.
Il giudizio finale: la verità
svelata
Dalle immagini bibliche, rafforzate da terrificanti
visioni medievali , abbiamo acquisito nel nostro immaginario
religioso il giudizio finale e quello personale in termini
squisitamente forensi.
Ma in che cosa consisterà, in realtà, questo
giudizio? E chi sarà, poi, il nostro giudice?
Va subito detto che il giudizio non va compreso
secondo i nostri schemi umani: un tribunale con un imputato, un
giudice, avvocato difensore, pubblica accusa, sentenza di
assoluzione o condanna.
Esso si pone, innanzitutto, come un momento di
svelamento del nostro essere, costituito dal nostro modo di pensare,
di operare, da tutto ciò che, in ultima analisi, costituisce il
nostro orientamento esistenziale. Questo si manifesterà di fronte
alla luce divina. Sarà, quindi, un momento di verità, in cui noi
appariremo per quello che realmente siamo nei confronti di Dio e
della sua proposta salvifica, offertaci nel suo Cristo. Apparirà
chiaro tutto il peso del nostro essere vissuti per Cristo o contro
di Lui.
In tal senso Paolo, nella sua prima lettera,
rimproverando i Corinti afferma: "Non vogliate perciò giudicare
nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce
i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori;
allora ciascuno avrà la sua lode da Dio." (1Cor. 4,5)
Sarà, dunque, questo il momento in cui Dio farà
conoscere il suo pensiero (questo è il giudizio) su tutto il
corso della creazione, svelerà compiutamente il suo progetto sulla
storia e sul cosmo. E su questo l'intera umanità dovrà raffrontarsi
e misurarsi. Non si tratterà, comunque, di un qualcosa di
completamente nuovo, per cui noi possiamo dire "ma noi non
sapevamo". Ci sarà data soltanto una piena e definitiva
comprensione di ciò che il Padre ci ha già detto definitivamente nel
suo Cristo, a fronte del quale noi abbiamo compiuto la nostra
scelta.
Nella parusia, pertanto, ci sarà un giudizio sulla
storia, ma visto soltanto come una illuminazione del suo intero
tragitto, talvolta rimasto oscuro e incomprensibile. Allora Dio
uscirà dal suo "nascondimento" e tutto apparirà chiaro.
Come si può ben vedere, il giudizio non è un fatto
forense, ma è lo svelamento della dinamica interna di questa storia
che si regge su due elementi fondamentali: l'offerta di salvezza da
parte di Dio e l'accoglienza o il rifiuto della stessa.
Dall'insieme di quanto si è fin qui detto, già si
intuisce come l'uomo si costituisce giudice di se stesso.
Non dobbiamo pensare a un Dio giudice che condanna.
Dio non si costituisce giudice di nessuno e tanto meno condanna
qualcuno. Egli è totale apertura, totale accoglienza e non può
essere diversamente, poiché questa è la sua natura. Dio è Amore. Ma
è il modo di porsi dell'uomo nei confronti di Dio, giusto o
sbagliato, che determinerà la sua figura di salvato o meno.
In tal senso si esprime chiaramente Giovanni nel suo
vangelo: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il
mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in
lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato."
(Gv 3,16-18).
Il giudizio, quindi, è una questione di fede, cioè di
accoglienza o rifiuto di Dio nella propria vita. Non dipende da
Dio, ma da noi, dalla nostra risposta alla sua proposta di salvezza
offertaci nel suo Cristo.
In definitiva, l'uomo diventa giudice di se stesso,
ma Cristo non condanna. Ciò che condanna l'uomo è il rifiuto di
Cristo nei suoi fratelli.
E' significativo, a mio avviso, quanto Matteo ci
racconta sul giudizio: "... saranno riunite davanti a lui tutte
le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore
separa le pecore dai capri" (Mt 25,32). Si noti bene che
l'azione di giudizio si limita a separare le pecore dai capri, ma
non stabilisce chi è pecora o capro; non c'è una sentenza che
stabilisce che questi sono pecore e quelli, invece, capri. Ma sono
le stesse genti che si presentano già come "pecore" o "capri",
a Dio non resta che prenderne atto, suo malgrado. E ciò che ci fa
pecore o capri è il nostro orientamento esistenziale che si pone
verso o contro Dio; un orientamento che si va a costituire lungo il
corso di tutta la nostra vita e che diviene definitivo soltanto
nell'aldilà. In altri termini, la salvezza ce la giochiamo tutta qui
nella storia e, purtroppo, non ci sono tempi supplementari.
Ma se la sorte dei singoli già si è decisa al momento
della morte, che senso può avere un giudizio universale?
Nel giudizio universale ogni uomo sarà visto nel suo
vincolo profondo che lo ha legato a tutti gli altri uomini. Nessun
uomo, infatti, è un'isola, ma è in stretta comunione, nel bene o nel
male, con gli altri uomini e apparirà in ciò il peso della sua
responsabilità nella storia, per quella parte di storia che gli era
stata affidata. Pertanto, dobbiamo vedere il nostro giudizio
personale in una stretta relazione dinamica con il giudizio finale.
La risurrezione alla fine dei
tempi
La risurrezione è il nucleo centrale della fede
cristiana, senza la quale la stessa fede sarebbe priva di ogni
contenuto. In proposito Paolo è esplicito e non lascia dubbi: "Ma
se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed
è vana anche la vostra fede ... e voi siete ancora nei vostri
peccati" (1Cor 15, 14.17). La risurrezione si pone, dunque, come
elemento essenziale non solo della nostra fede, ma anche della
nostra salvezza, poiché senza risurrezione noi saremmo ancora nei
nostri peccati.
La risurrezione è un evento da mettere in conto alla
venuta stessa di Gesù: egli è venuto per rigenerare l'uomo a Dio e
restituirlo alla vita divina. Questo è il senso della risurrezione.
Infatti, ai discepoli di Giovanni che erano venuti a
chiedergli se era lui che doveva venire o se dovevano aspettare un
altro, Gesù risponde loro: "<<Andate e riferite a Giovanni ciò
che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi
camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti
risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella>>" (Lc
7,22).
Da questo passo vediamo come la risurrezione è posta
tra le attività proprie di Gesù e costituisce l'elemento rigenerante
di un'umanità colpita dal peccato e simboleggiata da ciechi, zoppi,
lebbrosi sordi e morti. Tutti sono guariti e restituiti alla vita,
quale segno di una nuova vita che Gesù è venuto a portare con il suo
annuncio: "... ai poveri è annunziata la buona novella", cioè
a questa umanità, variamente colpita dal peccato e definita come "povera",
viene annunciata la parola rigenerante di Gesù, una "parola viva
ed efficace" (Eb 4,12) che produce ciò che dice. La guarigione
fisica di questa povera umanità è segno e testimonianza di un'altra
guarigione spirituale, diversamente non percepibile, che si
concretizza nella riconciliazione dell'uomo con Dio.
Significativo in tal senso è il racconto del
paralitico (Mt 9,1-8). Esso gli viene presentato perché lo guarisse
e Gesù gli dice: "... ti sono rimessi i tuoi peccati". Il
primo atto di guarigione che Gesù compie su quell'uomo è la
remissione dei peccati, cioè la sua riconciliazione con Dio. Subito
dopo, a testimonianza dell'avvenuta rigenerazione in quell'uomo e
della sua giustificazione, Gesù lo guarisce anche fisicamente.
L'intera attività di Gesù, parole ed opere, è
un'attività squisitamente rigenerativa dell'umanità, che preannuncia
la sua risurrezione e il nuovo stato di vita in cui l'uomo verrà a
trovarsi. Egli, infatti, si definisce come la risurrezione e la vita
a cui si può accedere soltanto per mezzo della fede: "Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà;
chiunque vive e crede in me non morirà in eterno" (Gv 11,25)
Già fin dagli inizi della sua attività, pertanto,
Gesù incomincia a spiegare il senso della sua risurrezione, in cui
sarà coinvolta l'intera umanità che si apre a Dio per mezzo della
fede: si tratta di una rigenerazione dell'uomo alla stessa vita di
Dio, in cui l'uomo verrà reso nuovamente capace di un giusto e
corretto rapporto con Dio. Una risurrezione che è capace di attrarre
l'intera persona, anche con il suo corpo, nella sfera di Dio. La
guarigione di quei corpi erano una testimonianza della nuova vita in
cui l'uomo è stato inserito. L'intero uomo, pertanto, in ogni sua
espressione e dimensione, verrà rigenerato a Dio e condividerà la
sua vita.
La risurrezione dell'uomo è conseguente a quella di
Gesù, è una sua partecipazione. In tal senso Matteo ci riferisce che
i morti "... uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione,
entrarono nella città santa e apparvero a molti" (Mt 27, 53).
Dopo, dunque la sua risurrezione, quale conseguenza logica di quella
di Gesù, quale partecipazione alla sua risurrezione.
La risurrezione di Gesù, pertanto, precede la nostra
e la preannuncia: "E' risuscitato dai morti e ora vi precede in
Galileia" (Mt 28,7). E' il risorto che con la sua risurrezione
ci precede. In tal senso Paolo nella sua prima lettera ai Corinti
afferma che "Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro
che sono morti." (1Cor 15,20).
Cristo risorto, pertanto, si pone come primizia, cioè
come il principio rigenerante dell'intera umanità; una rigenerazione
che già è incominciata, come abbiamo visto, con la sua venuta e che
ha come elemento essenziale la fede, cioè l'aprirsi
esistenzialmente, e che continua nel tempo. La risurrezione,
infatti, non è soltanto una realtà che si pone esclusivamente alla
fine dei tempi, ma essa è già presente in noi e ad essa noi siamo
stati associati in virtù del battesimo: "Per mezzo del battesimo
siamo stati dunque sepolti insieme a lui nella morte, perché come
Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre,
così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. ... non
offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato,
ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti e le vostre
membra come strumenti di giustizia per Dio" (Rm 6,4.13).
Il primo effetto della risurrezione di Cristo, alla
quale noi siamo resi partecipi fin d'ora, è un radicale mutamento
interiore che ci consente di "... camminare in una vita nuova"
e ci spinge a "non offrire le nostre membra quali strumenti di
ingiustizia al peccato", ma ci fa esseri viventi, "tornati
dai morti", e capaci di "offrire noi stessi a Dio".
Continua Paolo su questo tema: "Se dunque siete
risorti con Cristo, cercate le cose di lassù ... pensate alle cose
di lassù, non a quelle della terra. Voi, infatti, siete morti e la
vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si
manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete
manifestati con lui nella gloria" (Col. 3,1-4). La risurrezione,
dunque, è una realtà già presente, a cui siamo stati assimilati in
virtù del battesimo, e ci condiziona nel nostro vivere, nelle nostre
scelte, nel nostro orientamento esistenziale. E' una realtà che ci
interpella e con cui dobbiamo fare quotidianamente i conti. Infatti,
"Dio, ricco di misericordia, ... da morti che eravamo per i
peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo. ... Con lui ci ha anche
risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù ..."
(Ef.2,4-6).
La risurrezione, pertanto, ci ha inseriti in una
nuova realtà per mezzo di Cristo e che Paolo definisce come "cieli"
che sono la nostra vera dimora; infatti, si parla di "sedere nei
cieli". Di conseguenza dobbiamo conformare la nostra vita.
Paolo, però, precisa che soltanto quando si
manifesterà Cristo, alla sua venuta, anche il nostro stato di
risorti si manifesterà pienamente con una risurrezione simile alla
sua (Rm 6,5). Ora risorti lo siamo soltanto nella speranza.
Si viene, pertanto, a costituire per il cristiano un
forte stato di tensione tra il "già" e il "non ancora".
Tra questi due poli si pone l'intera dinamica della vita cristiana,
che pur legata alle realtà presente, subisce, tuttavia, una forte
spinta in avanti che le fa trascendere, poiché il senso della
risurrezione, a giochi finiti, è l'intimità definitiva con il
Signore: "... per andare incontro al Signore ... e così saremo
sempre con il Signore" (1Ts 4,17). Il nostro attuale stato di
risorti è, pertanto, un camminare incontro al Signore per essere,
poi, definitivamente con lui.
Con
quale corpo risorgeremo?
Alla domanda "Come risuscitano i morti? Con quale
corpo vengono?" (1Cor 15,35) Paolo affronta la questione del "come"
avviene la risurrezione. Egli, infatti, sta parlando a dei greci che
mal sopportano la risurrezione del corpo. Infatti, la dicotomia e
contrapposizione platonica di anima e corpo, e il concetto negativo
di corpo, quale prigione dell'anima, spingono il greco a rifiutare
la risurrezione del corpo. Ma vi è, inoltre, un'altra questione da
affrontare: il concetto giudaico di risurrezione. Infatti,la
credenza giudaica si rappresentava la risurrezione come la
continuità di questa vita terrena. E' significativo, in tal senso,
la questione che i sadducei, che per altro non credevano affatto
alla risurrezione, posero a Gesù: "Alla risurrezione, di quale
dei sette essa sarà moglie? Poiché tutti l'hanno avuta" (Mt 22,
28).
La questione, pertanto, è duplice: da un lato,
dimostrare che il corpo sarà recuperato nella risurrezione;
dall'altro, affermare lo stacco netto tra il corpo mortale e il
corpo risorto.
Paolo ha come base di partenza la risurrezione di
Gesù. Per Paolo, infatti, il corpo di Gesù è stato trasformato per
la potenza dello Spirito, così che da corpo materiale divenne corpo
spirituale: "... riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di
Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza
secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dei
morti" (Rm1,3-4). Gesù, dunque, nato nella carne, viene
santificato per mezzo dello Spirito mediante la risurrezione dai
morti. L'espressione "santificazione" significa "sanctum
facere", cioè assimilare a Dio e alla sua vita grazie all'azione
dello Spirito. E' lo Spirito, quindi, che trasforma il Gesù di carne
in Gesù rivestito e compenetrato dallo Spirito, accorpandolo alla
vita stessa di Dio e inserendolo nel suo stesso ciclo vitale, tant'è
che Paolo sottolinea che proprio nella risurrezione Gesù è "costituito
Figlio di Dio", cioè viene manifestato e rivelato per quello che
egli è veramente: Figlio di Dio, da lui generato. Il Gesù della
storia, pertanto, è confluito interamente nel Cristo risorto.
Tutto ciò Paolo lo spiega con il paragone del chicco:
esso, dice, non è la pianta, ma per diventare tale deve prima
morire. Tra il chicco e la pianta, quindi, si pone di mezzo la morte
la cui finalità è distruggere il chicco per lasciare spazio ad una
nuova realtà, che non è più quella di prima. Pertanto, egli
continua, così avviene anche nella risurrezione: "si semina un
corpo corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e
risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si
semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale"
(1Cor 15,43-44)
Si tratta, come si vede, di una vera e propria
trasformazione che dà uno stacco netto alla realtà precedente.
Ma anche i vangeli ci dicono qualcosa su ciò che è
avvenuto nel corpo risorto di Gesù:
· Gesù,
dopo la sua risurrezione, non è riconosciuto da nessuno;
· Entra
in un luogo completamente chiuso dove si trovavano i discepoli;
· Risorge
a Gerusalemme e precede i discepoli in Galileia, che dista a
circa 150 Km da Gerusalemme.
Da tutto ciò si evince che il corpo di Gesù è stato
trasformato al punto tale da non essere più riconosciuto come quello
di prima. Possiede, quindi, dei tratti somatici nuovi che non lo
rendono più riconoscibile. Questo sta ad indicare che il nuovo corpo
di Gesù, pur essendo quello di prima (a Tommaso, infatti,
mostrerà le piaghe della crocifissione) possiede caratteristiche
del tutto nuove che non sono riscontrabili nel suo corpo precedente.
Si crea, quindi, una scissura netta tra il prima e il dopo.
Inoltre, ci viene presentato un corpo che non
obbedisce più alle leggi spazio-temporali.
Si può concludere, dunque, che il concetto
fondamentale di risurrezione si identifica con quello di
trasformazione, che rende radicalmente e sostanzialmente nuova la
realtà precedente al punto tale da poter parla di una nuova
generazione, di una nuova creazione, che avviene per mezzo della
potenza dello Spirito.
Corpo mortale, corpo
risuscitato: quale identità?
Si pone, ora, la questione dell'identità tra il corpo
mortale e il corpo risuscitato. In proposito la teologia parla di
una triplice identità: identità materiale, identità
formale, identità personale.
L'identità materiale
Questa teoria ritiene che il corpo risuscitato sia
costituito della stessa materia del corpo materiale. Una posizione,
questa, difficilmente sostenibile, poiché se così fosse non si
potrebbe più parlare di trasformazione, ma di semplice recupero del
precedente corpo mortale, posto che ciò sia possibile visto che
questo si dissolve nel tempo. E con il recupero del corpo mortale si
porrebbero gli identici problemi precedenti: la corruttibilità, la
morte, il dolore, la sofferenza, la dissoluzione. La risurrezione,
qui, sarebbe una risuscitazione di cadavere, sempre che sia
possibile recuperare il cadavere.
Sostenere una tesi simile significa vanificare il
senso stesso della risurrezione che diventerebbe qualcosa di molto
simile alla reincarnazione.
L'identità formale
Una svolta importante avviene con l'antropologia
tomista che concepisce l'anima come la forma del corpo. L'anima,
pertanto, in quanto forma del corpo mantiene uno stretto legame con
il corpo stesso, in quanto ne è la sua forma. L'identità del corpo,
quindi, viene data esclusivamente dalla sua forma, che è l'anima. E'
per questo che il corpo mantiene sempre viva la sua identità
nonostante il variare dei suoi elementi.
Vista in questa prospettiva la questione, non assume
più alcun valore la trasformazione a cui è soggetto un cadavere,
poiché ciò che ne garantirà la riconoscibilità sarà l'anima, che ne
è la sua forma.
L'identità personale
Se l'anima garantisce è la forma del corpo e ne
garantisce nel tempo l'identità, tuttavia questa teoria non spiega
l'identità del corpo materiale con quello spirituale e, soprattutto,
non spiega quale relazione c'è tra il primo e il secondo.
Se da un lato va detto che l'anima rimane coordinata
al corpo, garantendone la forma, dall'altra non si deve pensare che
l'identità del corpo significhi necessariamente identità materiale.
L'identità del corpo risorto non va, pertanto, ricercata nella
identità di quello materiale, bensì nella identità personale.
Personalmente ritengo, sulla base della risurrezione
di Gesù e sulla scorta dei dati forniti dai Vangeli, che il corpo
risorto altro non sia che il precedente corpo materiale che ha
subito una trasformazione per opera dello Spirito. Gesù risorto,
infatti, mostra a Tommaso il suo corpo glorioso piagato dalle ferite
della passione. Inoltre, Gesù ha la perfetta coscienza di essere
sempre lui, quello di prima. E' il Gesù della storia che è, in buona
sostanza, confluito nel Cristo risorto. Infatti, in tal senso, Luca
ci racconta che "Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse:
<<Pace a voi>>. Stupiti e spaventati credevano di vedere un
fantasma. Ma egli disse: <<Perché siete turbati, e perché sorgono
dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono
proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa
come vedete che io ho>>." (Lc 24,36-39).
Ancora una volta, il Gesù risorto viene presentato
con il corpo segnato dalla croce, cioè il corpo di prima, mentre
Gesù dice un qualcosa di importante da un punto di vista
psicologico: "Sono proprio io!". Questa affermazione indica
che Gesù ha la perfetta coscienza di essere quello di prima e mostra
il suo corpo piagato, come prova della sua identità. C'è, dunque,
identità e continuità tra il prima e il dopo sia su di un piano di
corporeità che di coscienza.
Del resto sia Isaia (Is 65,17.22) che Giovanni nella
sua Apocalisse (Ap 21,1) parlano di "cieli nuovi e terra nuova",
cioè di una realtà che è nuova si, ma non diversa da quella che noi
sperimentiamo quotidianamente.
Una risurrezione nella morte?
Che cosa avviene tra la morte e la risurrezione
finale? L'antropologia platonizzante risolveva la questione con
l'immortalità dell'anima, ma a caro prezzo, riducendo l'uomo ad
anima e svalutando radicalmente la sua dimensione corporea. Con
questa dottrina, di fatto, veniva eliminata la risurrezione dato che
tutto veniva risolto con il ritorno definitivo dell'anima nell'iperuranio
da dove proveniva.
Dall'altra parte, Tommaso con la sua anima "forma
corporis" poneva l'anima in uno stato di continua tensione verso
il corpo, a cui si sarebbe ricongiunta nella risurrezione finale, ma
nel contempo non si poteva parlare di una condizione escatologica
pienamente realizzata. L'anima veniva così posta in uno stato di
sospensione e di attesa.
Per risolvere la questione, alcuni autori moderni (Barth,
Rahner, Boff,ecc.) definirono che la speranza escatologica
consiste nell' "essere in Cristo", stato questo che si
raggiunge pienamente nella morte. Ipotizzarono, quindi, una "risurrezione
nella morte". Per sostenere tale tesi si rese necessario
abbandonare le varie antropologie platoniche e aristoteliche e
abbracciare quella biblica, che concepisce l'uomo come un insieme
unitario di "corpo, anima e spirito", che lo rende capace di
relazionarsi con Dio, il prossimo e il cosmo.
In questa prospettiva, la morte non è più concepita
come un momento puntuale nel tempo, ma come un divenire continuo,
posto sotto il segno della caducità. Il vivere dell'uomo, pertanto,
è, in realtà, un continuo morire, un continuo evolversi di una morte
graduale che è insita nella stessa caducità dell'uomo, fin dalla sua
nascita, e troverà il suo momento culminante e definitivo nella
morte fisica.
Tale momento culminante del suo morire viene
concepito assimilato ad una nuova nascita: come il nascere in questo
mondo comporta il distaccarsi dal rassicurante seno materno, e ciò
avviene non senza un profondo trauma, così questa seconda nascita
comporta il distacco da un mondo che abbiamo assimilato lungo il
corso di tutta la nostra vita, ma ci introduce in una realtà
totalmente nuova e accogliente in cui ogni limitazione
spazio-temporale, conosciuta in questa nostra dimensione, sarà
definitivamente tolta, così che possiamo esprimerci pienamente e
liberamente in una totalità pienamente realizzante di rapporti con
Dio, gli altri e il cosmo.
La vita terrena, pertanto, viene concepita come un
periodo di gestazione verso un Aldilà pienamente realizzante e in
cui la morte è assimilata al momento del parto.
Con la morte, pertanto, è tutto l'uomo che entra
nella sua condizione definitiva dove non ha più senso l'attesa di
una fine del mondo. In questa prospettiva, ovviamente, l'identità
del corpo non significa più identità materiale, ma soltanto
personale.
ESCATOLOGIA INDIVIDUALE
LA MORTE E LA VITA
OLTRE LA MORTE
Premessa
"Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi
domandi ragione della speranza che è in voi." (1Pt 3,15).
Il credente è chiamato a dare ragione, cioè a
spiegare le motivazioni su cui egli fonda la propria speranza, che
per sua natura apre l'uomo a nuovi orizzonti, proiettandolo al di là
dei limiti e delle sconfitte quotidianamente sperimentate. Tra
tutti, limite insuperabile, vi è la morte che, in realtà, sembra
spegnere ogni speranza. Ma la speranza cristiana, proprio perché
tale, si fonda sul Cristo risorto e sulla certezza che "se siamo
stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo
saremo anche con la sua risurrezione." (Rm 6,5). La morte per il
cristiano, dunque, va letta come compartecipazione a quella di Gesù,
una morte che non termina nella tomba, ma apre alla luce della
risurrezione.
La morte come problema perenne
La morte è insita in ogni cosa, nasce congenita con
l'uomo: dal momento si nasce, si incomincia anche a morire. E'
inevitabile: tutto ha un inizio e tutto una fine; fa parte della
normale logica delle cose. La morte, pertanto, mette tutta la realtà
esistente sotto il segno della precarietà.
Assoggettato a questo grave limite, l'uomo cerca in
qualche modo di lottare e là, dove possibile, di aggirarlo con
qualche strategia di difesa: rimuovendola dai propri pensieri e
stordendosi nella fragilità del vivere quotidiano; idealizzandola o
semplicemente accettandola come realtà inevitabile e ineluttabile.
Oggi, nella nostra
società positivistica e materialistica, il pensiero della morte non
trova spazi. Essa viene chiusa in un ospedale, spettacolarizzata,
rimossa ed esorcizzata da una vita frenetica, che spesso fa le sue
vittime. Comunque sia, la morte viene privata del suo aspetto
metafisico, al quale una società saldamente radicata in una
materialità ubriacante non sa dare risposta. Ma negare la morte
significa disconoscere un aspetto fondamentale della vita.
Anche la filosofia cerca in qualche modo di
dominare questo inevitabile problema che convive con l'uomo.
Pensiamo a Platone che concepiva l'uomo come uno spirito immortale
tenuto prigioniero da un corpo corruttibile. In questa prospettiva
la morte era vista come una realtà liberante che apriva l'uomo alla
sua piena realizzazione.
Così pure lo stoicismo: vede nella morte lo strumento
attraverso cui la particella divina, che vive nascosta e prigioniera
del corpo, viene liberata così che essa si ricongiunge al Tutto da
cui proviene.
Non vanno, poi, sottaciute le religioni orientali che
vedono la morte come il definitivo momento di quel distacco
praticato lungo tutta la vita.
Rimossa o idealizzata, la morte rimane, comunque,
sempre un fatto drammatico nella vita dell'uomo, che mette in
discussione il senso stesso del vivere e operare dell'uomo.
Heidegger, in aperto
contrasto con questa frenetica rimozione della morte, sollecita a
vedere la morte come la chiave interpretativa di tutto il vivere e
non soltanto come la sua parte terminale: il morire fa parte del
vivere dell'uomo, così che il suo vivere, in realtà, è un lento e
progressivo morire, che trova il suo apice definitivo nella morte
fisica; un morire che inizia con il concepimento stesso dell'uomo.
Il divenire delle cose e della vita è espressione concretamente
percepibile del morire. Tutto ciò deve spingere l'uomo a vivere con
saggezza la propria vita.
Anche le scienze antropologiche oggi tentano di
spiegare la morte e, in qualche modo, di possederla e dominarla. Si
pensi allo studio sul moribondo effettuato dalla Kubler-Ross: esso
passa dallo choc, che genera incredulità, rabbia, ribellione,
all'accettazione del suo morire.
Uno squarcio, di non poco conto, sul mistero del
morire ci è stato aperto dal medico americano Raymond Moody che, per
la prima volta nella storia dell'umanità, presenta 150 casi clinici
di premorte in cui vengono narrate le esperienze di chi, in qualche
modo, è riuscito a superare la prima barriera spazio-temporale, ma
non in modo definitivo poiché egli riesce, poi, a ritornare. E' una
conferma di quanto le più antiche religioni, cristianesimo in testa,
ci stanno dicendo da almeno duemila anni a questa parte: esiste una
vita oltre la vita. L'uomo non si spegne nella tomba. E ciò da un
nuovo senso al proprio vivere.
La morte nel pensiero
teologico attuale
La riflessione teologica trae il suo contenuto dalla
morte di Gesù, che ne ha cambiato il volto, caricandola di un nuovo
significato soteriologico e facendone l'alba di una nuova vita. Una
morte che si fa pasqua, passaggio ad una nuova dimensione divina.
Così che questa morte diventa il riscatto dell'intero vivere umano e
gli attribuisce un nuovo valore e significato.
La teologia tradizionale incentrava il suo interesse
sulla morte considerandola prevalentemente come il frutto del
peccato, la fine di una prova, per la quale ora si poteva accedere
alla propria ricompensa. Era semplicemente concepita come il
distacco dell'anima dal corpo e il morire come un momento passaggio
nell'aldilà. L'attenzione, invece, era incentrata sul dopo morte,
cioè sull'Aldilà.
Pur non rinnegando nulla della teologia tradizionale,
la nuova teologia sposta la sua attenzione sul morire dell'uomo e
del senso del suo vivere in rapporto alla morte, che diventa oggetto
di riflessioni teologiche e viene posta in stretta relazione alla
morte redentiva di Cristo. Una morte che, ora, viene pensata alla
luce della risurrezione di Cristo. L'attuale teologia apre nuove
prospettive sulla morte e spinge a viverla attivamente come evento
escatologico personale di salvezza, proprio perché il vivere e il
morire del cristiano è un con-vivere e un con-morire con Cristo.
L'ipotesi dell'opzione finale
Questa idea di "vivere attivamente la morte"
ha portato alcuni pensatori a vedere la morte, non senza una certa
idealizzazione della stessa, come il momento della decisione
finale, della illuminazione e dell'offerta di sé.
Secondo il Glorieux l'uomo nel momento
del suo trapasso si troverebbe in un nuovo stato di vita,
caratterizzato da una libertà di tipo angelico. Qui, illuminato
dalla grazia di Dio farebbe la sua scelta definitiva, che è,
comunque, influenzata dall'orientamento esistenziale dell'uomo, per
cui è molto improbabile che l'anima opti per una direzione diversa.
Personalmente non mi sento di condividere questa
tesi. Ritengo che non vi sia nessuna opzione fondamentale posta
nell'Aldilà, ma che, al contrario, questa si ponga nel nostro vivere
quotidiano, nel nostro "Aldiquà". E' il nostro orientamento
esistenziale, che ha caratterizzato tutto il nostro vivere, che, una
volta superata la barriera spazio-temporale, diventa definitivo
nell'Aldilà; per cui noi saremo nell'Aldilà ciò che abbiamo deciso e
siamo sempre stati qui sulla terra. L'Aldilà ratificherà soltanto
ciò che noi siamo stati nell'Aldiquà. In altri termini, la salvezza
ce la giochiamo tutta qui: nell'Aldilà non ci sono i tempi
supplementari.
In una visione platonizzante, il Troisfontaines
ritiene che l'anima, liberata dalla prigione del corpo, venga a
trovarsi in una nuova realtà in cui, priva di ogni ostacolo e
illuminante, possa esercitare la sua scelta fondamentale, in cui le
opzioni terrene assumono un valore educativo e propedeutico che
incideranno sull'opzione finale,posta nell'Aldilà.
Il punto debole di queste teorie teologiche sta
proprio nell'opzione fondamentale, operata nel momento in cui
l'anima si libera dal gravame del corpo; un'opzione che è
influenzata, in qualche modo, dalle scelte terrene, viste come
propedeutiche a quella finale. Infatti, o la decisione finale
rappresenta la conclusione coerente di un'opzione fondamentale
precedente, in tal caso risulterebbe inutile; od offre una scelta
nuova e indipendente da quelle precedenti, in tal caso diventa
l'unico momento veramente decisivo, relegando la vita ad un semplice
esercizio preparatorio.
La vita oltre la morte nell'A.T.
Il pensiero sulla morte nell'AT ha subito
un'evoluzione piuttosto complessa che va dalla credenza nello
sheol alla fede nella risurrezione e nell'immortalità.
Per l'ebreo il vivere è esistere in pienezza, per cui
tutto ciò che limita questa pienezza (malattie, disgrazie, ecc.)
sconfina nel regno della non-vita. Dio è concepito come pienezza di
vita, pertanto l'uomo vive nella misura in cui è in comunione con
Dio, fonte della vita. L'uomo vive perché ha ricevuto lo spirito di
Dio (ruah) e quando questo gli è sottratto da Dio, l'uomo
muore e torna alla polvere. La vita, pertanto, è strettamente
dipendente da Dio. Da qui la stretta connessione della morte con il
peccato. Quest'ultimo, infatti, è opposizione e allontanamento da
Dio. La morte fisica in sé, quindi, non fa paura perché viene
percepita come un fatto ineluttabile che fa parte della vita.
La vita affidata alla fedeltà di
Dio
Anche in Israele la morte non ha l'ultima parola. La
fede nello sheol, questo grande contenitore, riempito di
spiriti spenti (rephaim) che vivono una vita grigia e larvale
all'insegna dell'oblio dei viventi e lontani da Dio, garantisce in
qualche modo la sopravvivenza dopo la morte.
Ammettere una sopravvivenza, sia pur larvale e
triste, alla morte consentiva lo sviluppo di una riflessione
successiva: può forse Dio essere vinto dallo Sheol? Forse che
la morte è più forte di Dio, che è l'autore e la fonte della vita?
Lo Sheol è davvero un limite all'onnipotenza di Dio?
Si rendeva necessario, quindi, una successiva
riflessione che porta a vedere in Jhwh, fonte della vita, come colui
che può vincere lo Sheol, nemico dell'uomo. Un pensiero
questo che già incomincia affiorare nei salmi 16 e 73: Dio è fedele
e ricompensa il giusto, che non condividerà la sorte dei malvagi per
la sua fedeltà a Dio. Il giusto non vedrà la sua vita abbandonata
nel sepolcro, né vedrà la sua corruzione; ma camminerà per il
sentiero della vita, che il Signore gli ha indicato, gioia piena
alla sua presenza.
Questo porta a pensare alla morte come ad un momento
di purificazione e di trasformazione per il giusto, che vivrà alla
presenza di Dio.
L'evidente divario tra i giusti e i malvagi qui sulla
terra, sottolineato dal Sal. 73, porta, da un lato, al pessimismo e
scetticismo di Qoelet, che vede la vita come un inutile affaticarsi;
dall'altro, alla fede riconfermata di Giobbe: Dio sa quel che fa ed
opera per il bene dell'uomo.
Questa tormentata riflessione apre sia ad una
interiorizzazione della vita, per cui l'amore per Dio vale più di
ogni bene di questo mondo, che all'attesa di una ricompensa che Dio
certamente riserverà, dopo la morte, al giusto e in cui verranno
pienamente compiute le promesse e l'alleanza.
Un po' alla volta si fa sempre più strada la
convinzione che la profonda comunione, che lega il giusto a Dio e
che egli esperimenta anche nella sofferenza, non verrà spezzata
neppure dopo la morte. Ma sarà nel periodo della persecuzione di
Antioco IV Epifane (periodo maccabaico del 167-164 a.C) che andrà
facendosi strada, in modo più chiaro ed esplicito, il concetto di
risurrezione, intesa come quello spazio di vita che Dio si riserva a
favore del giusto che gli è rimasto fedele fino al sacrificio della
propria vita: "Molti di quelli che dormono nella polvere della
terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla
vergogna e per l'infamia" A tal punto, proprio verso la fine del
periodo veterotestamentario, faranno il loro ingresso ufficiale i
due capisaldi dell'escatologia: la risurrezione e l'immortalità. Non
si tratta qui di un'immortalità naturale, connessa alla condizione
dell'anima secondo i parametri della filosofia greca, bensì di
un'immortalità donata da Dio. In buona sostanza, qui, risurrezione e
immortalità vogliono indicare il perdurare della vita oltre la morte
per effetto della fedeltà di Dio alla sua opera e alla sua promessa.
Questi concetti, arditamente espressi in modo così
esplicito e per la prima volta nei Libri dei Maccabei, vengono
ripresi dal Libro della Sapienza, databile intorno al 50 a.C.,
quindi a ridosso del N.T.
Significativi ed emblematici di tale pensiero, ormai
definito, sono i seguenti passi:
· "Si,
Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece ad immagine della
propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del
diavolo e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono." (Sap.
2,23-24)
· "Le
anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà"
(Sap. 3,1)
· "I
giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è il
Signore e l'Altissimo ha cura di loro" (Sap. 5,15)
Questa nuova prospettiva di una vita oltre la morte
fa sì che ai giusti non appaiano più incomprensibili la sofferenza e
gli eventi negativi di questo mondo.
Accanto a questa nuova prospettiva sorge, quasi
naturalmente, l'idea del giudizio divino che si esprimerà dopo la
morte e che aprirà, secondo il giudaismo rabbinico, due vie: la
prima conduce all'Eden o al "seno di Abramo", l'altra alla
Geenna.
Si conclude così il plurisecolare e complesso cammino
veterotestamentario verso la speranza, che preparerà il terreno ai
nuovi concetti neotestamentari di "regno di Dio". Esso
costituirà la discriminante di giudizio posta sull'intera umanità,
chiamata, ora, a prendere posizione di fronte a questo annuncio: "Il
tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete
al Vangelo" (Mc 1,15). Nessuna indifferenza è ammessa, poiché
essa è già una risposta negativa (Ap. 3,15-16)
Il "vivere con Cristo" oltre la
morte nel NT
Mentre Platone vede nella morte la liberazione
dell'anima verso spazi infiniti di libertà e perfezione; la Bibbia,
una discesa agli Inferi; il cristianesimo allegorizza la sete di
vivere dell'uomo e vede in essa la sete di Dio, quale pienezza e
fonte di vita piena e perfetta.
Nel cristianesimo la morte, vista dalla prospettiva
della croce, è concepita come un momento drammatico che l'uomo è
chiamato a vivere, ma che nel contempo lo apre a infinti spazi di
luce e di vita.
Tutta la vita di Gesù è un cammino verso la croce:
incompreso da sua madre, dai suoi parenti, dai suoi discepoli che lo
abbandonano, perseguitato e tradito finirà sulla croce, umiliato da
una morte che era riservata a ribelli e delinquenti. Anche in questo
momento estremo, che vivrà in modo drammatico nel Getsemani (Lc
22,42-44), egli si vedrà abbandonato dai suoi fedelissimi e nel
momento supremo anche dal Padre. Una morte, quindi, vissuta nella
più drammatica solitudine e che sembra sancire il fallimento della
sua missione. Ma proprio in questo momento così drammatico, la sua
morte si fa dono di amore e di perdono, si fa atto di
riconciliazione: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che
fanno" (Lc 23,34).
La vita dopo la morte: l'essere
con Cristo
Mentre l'A.T. prospettava dopo la morte un periodo
intermedio provvisorio di un'attesa non ben definita del futuro
escatologico, il N.T. introduce un fatto nuovo: il Cristo risorto,
che con la sua risurrezione anticipa le realtà escatologiche,
rendendole già presenti nell'oggi; realtà che già qui interpellano
l'uomo e lo spingono a dare una risposta a livello esistenziale.
Tale aspetto viene ripreso da Giovanni quando afferma
che "chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già
stato condannato" (Gv 3,18). E' l'escatologia presenziale,
secondo la quale le realtà future sono già state rese presenti con
la risurrezione di Cristo. Già fin d'ora, pertanto, l'uomo è
chiamato a prendere posizione nei confronti di Dio, poiché già
nell'oggi è stato emesso il giudizio su di lui.
Il passaggio nell'Aldilà, operato per mezzo della
morte, diventa pertanto una continuazione logica e definitiva di ciò
che siamo stati nell'Aldiquà. Se siamo stati con Cristo e in Cristo,
lo saremo anche dopo in termini di pienezza e completezza;
diversamente subiremo in pieno e in modo definitivo il giudizio di
condanna già emesso su di noi: "chi non crede è già stato
condannato" e continuerà ad esserlo.
Ma che cosa succederà, dunque, dopo la morte e fino
alla risurrezione finale?
Luca e Paolo tentano di dare una risposta e aprono il
dibattito. Da parte sua Luca prospetta due soluzioni: la
prima, sulla scorta della logica della ricompensa, nella parabola di
Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31): nell'aldilà le sorti si
capovolgeranno da subito, per cui i primi saranno ultimi e gli
ultimi primi. La seconda, più interessante e innovativa, ce la offre
nel dialogo di Gesù e il "buon ladrone" (Lc 23, 39-43): "E
aggiunse: << Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno>>.
Gesù gli rispose: <<In verità ti dico, oggi sarai con me nel
paradiso" (Lc 23,43). La domanda del "buon ladrone" pone
la sua salvezza nel futuro escatologico, quando Dio avrà realizzato
pienamente il suo regno in mezzo agli uomini e ricostituita la sua
signoria. La risposta che Gesù gli dà ricolloca questa realtà
escatologica nell' "oggi": la sua morte e risurrezione
anticipano quelle realtà e convocano già nel presente l'uomo a
giudizio. A quell' "oggi" Gesù fa seguire "con me"
indicando che il regno di Dio si concretizza nell' "essere con
Cristo", mentre il termine "paradiso" esprime lo stato
definitivo di beatitudine in Dio e che Giovanni chiama "vita
eterna".
Questa breve analisi di alcuni passi di Luca non
sembra porre una situazione intermedia provvisoria dopo la morte, ma
sottolineano, al contrario, uno stato definitivo di cose.
Ma anche Paolo prospetta la realtà dopo la
morte come l' "essere con Cristo": "Sono messo alle
strette, infatti, tra queste due cose: da una parte il desiderio di
essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che
sarebbe assai meglio;" (Fil.1,23). Questo suo "essere con
Cristo" sembra essere in Paolo invincibile: "... sono
persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente
né avvenire ... potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo
Gesù, nostro Signore" (Rm 8,38-39); e ancora: "Siamo pieni di
fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il
Signore" (2Cor 5,8).
Immortalità e risurrezione nella
tradizione cristiana
Se guardiamo attentamente al kerigma iniziale,
notiamo come in esso non si parli mai di immortalità dell'anima, ma
soltanto di fede nella risurrezione dei morti. E' questa, infatti,
che esprime la vittoria sulla morte. L'immortalità, pertanto,
diventa una conseguenza di tale vittoria, ne è il frutto naturale. "L'ultimo
nemico ad essere annientato sarà la morte" (1Cor 15,26): questa
è la premessa dell'immortalità. "La morte è stata ingoiata per la
vittoria." (1Cor 15,54): questa vittoria è l'immortalità, è
l'essere per sempre in Cristo e con Cristo.
La risurrezione, pertanto, apre le porte
all'immortalità. Essa opera direttamente sull'uomo, concepito come
un'unità di corpo, anima e spirito. E' proprio quest'ultima
dimensione spirituale, quella che apre e regge il rapporto dell'uomo
con Dio, che impregna definitivamente la dimensione psichica (stato
di coscienza personale, la soggettività) e corporea, consente il
rapporto con gli altri e il cosmo. L'uomo, pertanto, risorge come "corpo
spirituale", che non va inteso come contrapposto a quello
materiale, ma esprime il modo di essere compiuto e definitivo del
corpo stesso.
Il corpo spirituale dà definitiva compiutezza al
vivere dell'uomo, liberandolo da ogni limitazione precedente, a cui
era soggetto in quanto vincolato ad un corpo corruttibile. In tal
senso l'uomo risuscita non alla vita biologica, bensì alla vita
eterna, cioè ad una vita stabilmente duratura, in quanto è la stessa
vita di Dio che permea l'uomo, ormai totalmente e definitivamente
assimilato a Dio.
L'elemento che determina ogni risurrezione e innesca
ogni trasformazione verso il compimento e il perfezionamento
dell'essere dell'uomo, è la risurrezione stessa di Cristo, che
anticipa fin d'ora le realtà future, spingendo verso queste l'uomo
nel su cammino lungo la storia.
IL PARADISO COME COMPIMENTO
DEL REGNO E DELL'UOMO
Il paradiso come compimento
dell'uomo
Paradiso, cielo, vita eterna sono dei sinonimi per
indicare un definitivo stato di pieno compimento dell'uomo,
pienamente e definitivamente realizzato in Cristo, in ogni sua
dimensione, poiché il compimento dell'uomo non può che essere una
piena realizzazione di tutte le sue dimensioni: personale, sociale,
cosmica. E' l'uomo che ha ritrovato totalmente se stesso nel suo "essere
in Cristo"; ha raggiunto la sua piena identità, ormai
completamente libero da vincoli terrestri che gliela avevano
oscurata e talvolta deturpata, rendendogliela di difficile
individuazione e realizzazione. Ed è ciò che ha portato ad esclamare
Paolo. "c'è in me il desiderio di bene, ma non la capacità di
attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che
non voglio. ... Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo
votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo
nostro Signore!" (Rm 7, 18-19.24). Paolo trova, dunque, la sua
piena realizzazione liberante in Cristo con cui già si identificava:
"Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me" (Gal.2,20). Il paradiso per Paolo, cioè il
suo "essere con Cristo", già era incominciato qui sulla
terra; infatti, continua: "Questa vita che vivo nella carne, io
la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se
stesso per me" (Gal.2,20). Il cielo, quindi, comincia già sulla
terra nella misura in cui il mio vivere è un con-vivere e un
con-morire con Cristo e in Cristo.
Si pone, dunque, già fin d'ora una stretta
connessione tra le vicende terrene dell'uomo e la vita eterna, così
che quest'ultima si pone come una naturale evoluzione di quelle.
L'elemento determinante di congiunzione è il Cristo risorto, in cui
già nel presente siamo immersi e di cui siamo rivestiti come di un
abito nuovo. In lui già viviamo o forse è meglio dire che lui già ci
vive tutti, perché tutti in lui siamo stati cristificati, in virtù
del battesimo.
Il paradiso nella Bibbia
I primi passi verso una realtà definitivamente
stabile, in cui ogni promessa di Dio sia pienamente realizzata e
dove l'alleanza, espressione di un ritrovato rapporto con Dio, sia
finalmente compiuta e posseduta, fanno la loro prima comparsa nella
storia di Israele. Per molto tempo la speranza di Israele fu una
speranza legata alla storia. L'immagine del paradiso terrestre (Gen.2-3)
esprime la nostalgia di un passato e l'attesa di un futuro storico
segnato dalla benedizione divina e costituisce lo stimolo interiore,
che spinge sempre oltre alle difficoltà del presente e a sperare
nella restaurazione di questo sogno edenico nel "giorno di Jhwh",
quando "il lupo dimorerà insieme all'agnello, la pantera si
sdraierà accanto al capretto; vitello e il leoncello pascoleranno
insieme e un fanciullo li guiderà ... perché la saggezza del Signore
riempirà il paese come le acque ricoprono il mare" (Is. 11,6.9).
Nell'ambito di questa cornice incomincia a delinearsi
la figura di un messia, di discendenza davidica, che dovrà liberare
Israele dai suoi nemici e ricostituire le antiche glorie del regno
di Salomone. Ma le delusioni non mancano: la distruzione del regno
di Israele ad opera di Sargon II nel 722 a.C. e di quello di Giuda
poi, ad opera di Nabucodonosor nel 597, spengono ogni speranza.
Ma nel lungo ed amaro esilio babilonese Israele,
sospinto dalla predicazione di Ezechiele, comincia a intravedere un
futuro che trascende i limiti della storia: "Vi prenderò dalle
genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi
aspergerò con acqua pura e sarete purificati; ... vi darò un cuore
nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il
cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito
dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti ... voi
sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio" (Ez.36,24-28); e
ancora: "Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle
vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele ...
Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete" (Ez.37,12.14).
Ed ecco apparire all'orizzonte una Gerusalemme
completamente nuova, verso cui affluiranno tutti i popoli a lodare
il nome del Signore.
Ma non è tutto, le continue afflizioni a cui i giusti
sono sottoposti di continuo, mentre i malvagi ingrassano e
prosperano, spingono Israele a riconsiderare il principio della
giusta retribuzione. I libri sapienziali di Qoelet e Giobbe e quelli
storici dei Maccabaei segnano un passaggio importante: la felicità e
la ricompensa del giusto non consiste in una abbondanza di beni qui
sulla terra, ma nell'essere per sempre con il Signore, che viene
pensato anche oltre la morte.
Il paradiso come l' "essere
con Cristo"
L'evento "Cristo risorto" dà una sterzata
definitiva: i beni terrene come realizzazione di un sogno pieno di
speranza e felicità, vengono sostituiti dall' "essere con Cristo".
Lui è la terra promessa, lui è la realizzazione di ogni promessa,
lui la nuova ed eterna alleanza che ha definitivamente ricongiunto
l'uomo con Dio e lo ha inserito nel suo ciclo vitale, così che le
cose passate sono considerate soltanto un'ombra di quelle future,
poiché la realtà da esse preannunciate è Cristo stesso (Col.2,17).
Si apre, quindi, un nuovo futuro che ha come centro
vivificante Gesù Cristo, ricapitolatore di tutte le cose (Ef.1,10).
Sarà lui che, alla fine, dopo aver assoggettato tutto a sé,
riconsegnerà tutto il creato rinnovato al Padre, così che Dio sia
nuovamente tutto in tutti (1Cor. 15,28).
La nuova creazione generata dal Cristo risorto viene
individuata con le metafore più caratteristiche della felicità umana
sia individuale che collettiva: festa
nuziale, banchetto, dimora eterna, vita eterna, città nuova, nuova
Gerusalemme.
Giovanni vede il realizzarsi della vita eterna nel
conoscere il Padre e colui che il Padre ha mandato (Gv. 17,3), in
cui l'espressione "conoscere" sta per "sperimentare,
vivere, essere in"; mentre "vita eterna" indica una vita
ormai resa stabile e duratura in Dio, perché essa è la stessa vita
di Dio in cui, per mezzo di Cristo, il credente è inserito, vi
partecipa e condivide.
Paolo, poi, vede l' "essere con Cristo" non
come una felicità individualistica, che chiude l'uomo in se stesso,
ma come un'esperienza comunitaria e comunionale in cui la comunione
si fa condivisione, accoglienza e diaconia (v. colletta: 2Cor.
8-9). E non può essere diversamente considerato che la vita di
Dio, in cui il credente è inserito, è squisitamente comunitaria e
comunionale, in cui un flusso di amore pervade tutto e tutti.
Ma in questo processo di trasformazione e
rigenerazione, scatenato dalla risurrezione di Cristo, non è
coinvolto soltanto l'uomo, ma l'intera creazione che "soffre e
geme nelle doglie del parto ... essa non è la sola, ma anche noi che
possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente
aspettando l'adozione a figli." (Rm 8,22-23). Anch'essa "attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm 8,19).
Questa visione di salvezza cosmica e collettiva viene
espressa dallo stesso concetto di "Regno di Dio", visto come
la ristabilita signoria di Dio su tutti gli uomini, che Gesù è
venuto a convocare in un grande movimento di raccolta escatologica
per reindirizzarli nuovamente a Dio (Mt 23,37).
Ma è certamente l'espressione "essere in Cristo"
che meglio indica la concezione cristocentrica della vita presente e
futura. E' lui che forma da trait-d'union tra il presente e il
futuro e da ad essi continuità e concretezza.
Già fin d'ora, infatti, il credere in Gesù, ascoltare
la sua parola, mangiare la sua carne significa avere la "vita
eterna", cioè essere pienamente inseriti nella vita stessa di
Dio al punto tale di diventare dimora stessa della Trinità e suo
possesso. Una vita eterna che, però, non prende il posto della vita
terrena, ma inizia già in essa. Non è un sostituto della vita
attuale, ma il suo compimento.
Tutto ciò viene espresso da Paolo come un laconico "abitare
presso il Signore" (2Cor 5,8). Questo modo di concepire l' "essere
con Cristo" come realtà futura posta già nell'oggi, proprio di
Paolo, pone nella vita del cristiano una forte tensione
escatologica, in cui il "già" contende le realtà future del "non
ancora.
Non è da meno Luca che ci presenta un Gesù rivolto al
"buon ladrone" con parole piene di consolazione e speranza: "Oggi
sarai con me in paradiso" (Lc.23,43) in cui "essere con"
interpreta il mito del "paradiso terrestre" e ne indica il
concreto contenuto.
La beatitudine in Cristo
La condizione paradisiaca o "beatitudine in Cristo"
interessa l'uomo nella sua interezza e in ogni sua dimensione:
personale, sociale e cosmica. Tale "beatitudine" veniva
considerata spesso come una visione di tipo intellettuale,
contemplativo che poneva in diretto rapporto l'uomo con Dio, per cui
anche la presenza di Cristo poteva diventare scomoda o ingombrante.
Una simile concezione è alquanto limitata e si basa
su una visione distorta dell'Aldilà e del concetto di Dio.
Va detto subito che Dio, in sé e per sé, non esiste.
Esso, pertanto, non va considerato come una realtà che sorpassa ogni
altra realtà celeste, compresa Cristo e lo Spirito. Ripeto: Dio non
esiste, ma esistono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che sono
Dio o, se vogliamo, esiste Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo.
Sono le tre Persone che formano la Triade divina in cui noi siamo
inseriti grazie a Cristo. E' grazie a lui che noi siamo accorpati
non a Dio, ma alla Trinità e partecipi, già fin d'ora, della sua
vita e del suo dinamismo di amore.
Dio, pertanto, non è un'entità a se stante,
indipendente dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo; ma è il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che per semplicità chiamiamo
Dio, e lo sono veramente.
Pertanto, il nostro paradiso non consisterà in una
eremitica o conventuale contemplazione della suprema entità divina,
tra profumi d'incensi e suoni d'organo o di arpa, canti e lodi a
tutte le ore e questo per l'eternità. Una mattonata simile
disincentiva subito il pensare al paradiso, né credo che Dio abbia
inviato il suo Figlio per introdurci in un simile stato di vita.
Non si tratterà di contemplazione, bensì di
partecipazione della natura e, pertanto, della vita stessa di Dio in
Cristo. Non è pensabile, infatti, concepire un fai da te con il
Padre, escludendo Cristo o lo Spirito, divenute realtà inutili alla
nostra salvezza, ormai raggiunta. Anzi, al contrario, la nostra
salvezza e la nostra partecipazione alla vita stessa di Dio, il
nostro accorpamento alla vita trinitaria e alla sua dinamica di
amore, vanno pensati soltanto ed esclusivamente in quanto siamo
stati incorporati a Cristo. E' soltanto lui che ci consente di
essere riconosciuti come figli e, pertanto, sentiti dalla Trinità
come da Lei generati alla sua vita e riconoscere come nelle nostre
vene scorra la sua linfa vitale.
In tal senso, la lettera agli Efesini è chiara: "In
lui ci ha scelti prima della creazione del mondo" (Ef.1,4).
Tutto, dunque, è avvenuto e avviene in Cristo, che Paolo ci presenta
come il ricapitolatore di tutte le cose (Ef.1,10). Noi, pertanto,
non possiamo essere partecipi della vita trinitaria
indipendentemente da Cristo, ma proprio perché siamo in lui e,
soltanto, nella misura in cui noi siamo e rimaniamo in lui possiamo
considerarci salvi e salvati e, di conseguenza, partecipi della vita
stessa della Trinità.
Non è da pensare che la Trinità si stringa un po' per
fare posto anche a noi, che formiamo il quarto incomodo. Noi,
invece, vivremo e parteciperemo alla sua stessa vita, saremo inclusi
nel suo ciclo vitale di amore proprio perché siamo inseriti e
incorporati a Cristo.
Non si può parlare, quindi, nell'Aldilà di una vita
contemplativa, tra musiche, canti di lode e fumi d'incensi, vivremo
una vita piena perché pieni della stessa vita Trinitaria, che è una
vorticosa vita di amore e di luce, in cui siamo immersi non
indipendentemente da Cristo, ma proprio grazie a Lui.
Infatti, la comunione personale con Cristo è
simultaneamente relazione immediata con il Padre e con lo Spirito,
dal momento che il Figlio è tale solo in relazione con il Padre e lo
Spirito. Soltanto, quindi, con il nostro "essere in Cristo"
possiamo Dio così come egli è: Padre, Figlio e Spirito Santo, in cui
noi viviamo e di cui viviamo.
Visione e divinizzazione
Quando parliamo di incorporazione a Cristo e alla
Trinità, grazie a Cristo, bisogna fare attenzione al pericolo di
concepire tale accorpamento come una assimilazione a Dio al punto
tale da perdere la nostra identità. Se così fosse, la vita eterna
non sarebbe l'affermazione e il compimento pieno dell'uomo e del suo
universo, bensì la sua negazione e la sua distruzione; sarebbe una
sorta di Nirvana, in cui l'uomo sfocia nel nulla eterno.
La vita divina, al contrario, va concepita come dono
che afferma la mia individualità, portandola a pieno compimento, e
non come evento alienante. Se così fosse, Dio avrebbe reso inutile
tutto il suo progetto di salvezza e si troverebbe, ora, tra le mani
un giocattolo rotto.
L'amore è per l'affermazione dell'altro, non per il
suo annientamento. Saremo, pertanto divinizzati, ma non annullati
nella nostra identità.
Dimensione sociale e cosmica
dell'uomo
Abbiamo detto sopra che la nostra vita in Cristo sarà
una vita pervasa dal quella della Trinità, in cui pulsa una perfetta
vita di amore, inteso come totale e reciproca apertura dell'uno agli
altri due; come totale e reciproca donazione dell'uno agli altri
due; come totale e reciproca accoglienza dei due in se stesso.
Questo tipo di vita divina si esprime in una perfetta comunione, che
si fa reciproca compenetrazione dell'uno negli altri due e
viceversa, quasi un'osmosi divina.
Se tale è la vita divina che scorre nelle vene del
nostro essere e lo permea fin nel profondo, noi non potremmo
esistere se non in tal modo. La nostra socialità umana viene qui
esaltata e trova la sua piena realizzazione, il suo pieno
compimento. Per questo la salvezza non è mai un fatto individuale,
anche se interessa la singola persona, ma ci abbraccia
collettivamente.
Tale collegialità comunionale trova la sua origine e
la sua giustificazione in Cristo per cui, afferma Paolo, "Non c'è
più né giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero;non c'è più
uomo né donna, poiché voi tutti siete uno in Cristo" (Gal.
3,28). Ogni barriera sociale, culturale, razziale e sessuale viene a
cadere o, quanto meno, perde completamente di valore di fronte
all'unica cosa che conta l' "essere in Cristo".
Questo "essere in Cristo" non abbraccia,
tuttavia solo i "trapassati", ma l'intera realtà creata, così
che tutti e tutto formano un tutt'uno in Cristo; tutti e tutto sono
posti, grazie a Cristo, in comunione di vita. In tal senso la chiesa
è una vera "ekklesia",
cioè una vera assemblea di comunione in cui ogni barriera culturale,
sociale, storica e spazio-temporale è venuta a cadere. Grazie a
Cristo e al nostro essere in lui possiamo parla di una vera "comunione
dei santi" nel cui ambito esistono diversi modi di vivere
l'unica vera vita.
In tale vita comunionale non può non essere presente
il cosmo a cui noi apparteniamo per nascita e di cui facciamo parte
e a cui noi siamo legati attraverso la nostra corporeità redenta.
Proprio grazie a questa corporeità redenta, anche il
cosmo, l'intera creazione sarà recuperata alla dimensione divina.
Infatti, afferma Paolo, "la creazione stessa attende con
impazienza la rivelazione dei figli di Dio ... e nutre la speranza
di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per
entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio." (Rm
8,20-21).
La rivelazione, infatti, ci parla non solo di una
risurrezione del corpo, ma anche, in diretta connessione, di una "nuova
creazione", di "cieli nuovi e terra nuova" in cui l'uomo
risorto, nuovamente ricreato ad immagine e somiglianza di Dio, verrà
posto come nell'antico giardino e in cui vivrà il suo compimento
definitivo (Gen. 2,15).
Paradiso e vita terrena
Considerato, pertanto, il legame indissolubile tra
uomo-creazione e salvezza-compimento non è più possibile pensare ad
un paradiso come una realtà totalmente altra dalla realtà storica e
da essa totalmente svincolata. Infatti, nella concezione biblica la
vita eterna è il compimento della vicenda terrena segnata, in modo
indelebile e irreversibile, dalla grazia.
Immagine, testimonianza e anticipazione di tale
profondo vincolo tra vita terrena e paradiso è l'evento Cristo
stesso. Egli, infatti, dalla sua dimensione storica passò a quella
di risorto. Il Gesù della storia è confluito nel Cristo risorto, in
lui totalmente e definitivamente assorbito. L'intera vita terrena di
Gesù, vissuta totalmente e pienamente per la causa del Padre, trova
nel momento della risurrezione la sua piena attuazione e
realizzazione, per cui la salvezza annunciata nella storia si fa,
ora, salvezza attuata.
Pertanto, il paradiso o l'inferno incominciano già
fin d'ora nella dimensione storia e troveranno la loro piena e
definitiva attuazione nel nostro confluire nell'Aldilà, in cui
saremo pienamente e definitivamente ciò che siamo stati
nell'Aldiquà. La salvezza, dunque, ce la giochiamo tutta in questa
dimensione spazio-temporale.
In tale prospettiva l'Aldilà incomincia già
nell'Aldiquà e il paradiso non si pone più come una meta
trascendente, ma comincia a prendere forma là dove riusciamo
cogliere Cristo negli uomini; là dove gli uomini vivono gli uni per
gli altri, dove ci si impegna per la giustizia, per la liberazione
dell'uomo, per la pace, in una parola per la costruzione di un mondo
corrispondente al piano divino.
Si viene a costituire, pertanto, una "escatologia
presenziale", che caratterizza l'intera opera giovannea: la
realtà ultima è in qualche modo anticipata nell'oggi della storia e
già, sia pure in modo imperfetto, è presente. Così che "Chi crede
in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato"
(Gv. 3,18).
Paradiso e Inferno, pertanto, si vanno formando già
fin d'ora. La vita eterna non prende il posto della vita terrena, ma
già comincia in essa e ne costituisce una sua naturale evoluzione,
ne diviene il suo naturale compimento.
L’INFERNO COME POSSIBILITà
del
fallimento eterno dell’uomo
Interrogativi inquietanti
Dio, per sua natura, è totale apertura e accoglienza
nei confronti dell'uomo. Ma l'uomo può anche rifiutare la proposta
di comunione di Dio e questo segna il fallimento della sua
esistenza. L'inferno, pertanto, è lì a testimoniarci la possibilità
di questo fallimento dell'esistenza umana.
Vien da porci subito alcuni interrogativi su questa
realtà inquietante: come può Dio buono e misericordioso, lento
all'ira e grande nell'amore, tollerare che le sue creature, per le
quali ha profuso in abbondanza il sangue di suo Figlio, siano
definitivamente e per sempre condannate all'infelicità e al
fallimento eterno? Come potrebbe Dio creare uomini di cui prevede la
dannazione eterna? Come potrebbe un Dio che si è rivelato come
amore, perdono e accoglienza del peccatore consentire che questo,
per sua fragilità, si perda per sempre?
A tal punto ci si può chiedere se esistano veramente
degli uomini dannati o se questi, invece, siano comunque perdonati e
accolti nel seno di Dio.
Gli interrogativi fin qui posti, per salvaguardare
l'immenso amore e la grande misericordia di Dio, ci spingerebbero a
dire che l'inferno non esiste o se esiste non ha il carattere di
eternità.
Eppure Gesù parla dell'inferno come reale possibilità
del fallimento eterno dell'uomo, che liberamente e in piena
coscienza rifiuta la proposta di quell'imperativo di salvezza: "convertitevi
e credete al vangelo" (Mc 1,15). In tal senso, S.Agostino
ammonisce che "quel Dio che ti ha creato senza di te, non ti
salverà senza di te".
Il concorso dell'uomo, quindi, è un elemento
essenziale nel gioco della salvezza. Dio in Cristo ha reso
accessibile la salvezza all'uomo, ma spetta a questi aderirvi o
meno.
Esistendo, pertanto, il libero arbitrio nell'uomo,
esiste anche la concreta possibilità che l'uomo fallisca l'obiettivo
principale: la sua piena realizzazione che si attua nella comunione
con Dio in Cristo.
Ciò che fa eterno tale fallimento è la totale caduta
delle categorie spazio-temporali nell'Aldilà. Infatti, sono queste
che rendono relative le scelte dell'uomo e garantiscono il divenire
nell'Aldiquà. Toglierle significa rendere definitiva ogni nostra
scelta. Ed è ciò che accade nel momento in cui noi superiamo, con la
nostra morte, la barriera spazio-temprale.
La dottrina
biblica
Per poter comprendere bene il concetto di inferno
bisogna collocarlo nell'ambito dell'annuncio della salvezza. In essa
è posto come alternativa inevitabile per chi non vi aderisce.
Va detto subito che è indiscutibile la volontà
salvifica di Dio. La Bibbia ce ne dà ampia testimonianza.
Il primo atto rivelativo di Dio è la stessa
creazione, in cui Dio riconosce la bontà della creatura: "Dio
vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona" (Gen
1,31). E' Dio che si riconosce nella bontà della sua creatura, fatta
a sua immagine e somiglianza.
Ci viene presentato ancora un Dio che è per la vita e
non per la morte: " ... perché Dio non ha creato la morte e non
gode per la rovina dei viventi. Egli, infatti, ha creato tutto per
l'esistenza" (Sap 1,13-14). Infatti, egli ama "tutte le cose
esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato; se avesse odiato
qualche cosa non l'avrebbe neppure creata" (Sap.11,24).
Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si
salvi: "Forse che io ho il piacere della morte del malvagio ... e
non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?" (Ez.
18,23).
In modo più esplicito il N.T. definisce Dio come
amore (1Gv 4,8) e gli attribuisce la volontà di salvare tutti gli
uomini: "... Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli
uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità"
(1Tm 2,4). Un principio questo che viene sancito anche dal nostro
simbolo di fede: "egli discese dal cielo per noi uomini e per la
nostra salvezza".
Una volontà salvifica che viene rimarcata da Gesù
stesso: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il
mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui." (Gv 3,17).
Purtroppo, tutto ciò non esclude la possibilità di un
rifiuto della salvezza da parte dell'uomo. Si tratta di una
possibilità strettamente connessa con la stessa libertà dell'uomo e
con il fatto che la salvezza non è una fatalità imposta all'uomo, ma
un'offerta. In tal senso, Giovanni è esplicito: "Chi crede in lui
non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché
non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio suo" (Gv 3,18).
Da qui la questione dell'inferno.
Le immagini
e il pensiero dell'inferno nella Bibbia
Il nome "inferno", che indica un luogo
sotterraneo o inferiore, traduce il termine greco "Aidhj"
(Ade, soggiorno dei morti) che a sua volta traduce
l'espressione ebraica "sheol".
Lo sheol era concepito come il luogo della
raccolta delle anime dei defunti, nel quale esse vivevano in uno
stato larvale. Ancora non era stato concepito un premio e un castigo
nell'Aldilà, come conseguenza di una vita buona o malvagia.
Premio e castigo sono agganciati al concetto di
retribuzione, che trova la sua attuazione nella vita presente, per
cui i buoni prosperano e i malvagi deperiscono sotto l'ira di Dio.
L'esperienza quotidiana, tuttavia, si incarica di
smentire questa concezione troppo terrena e diretta. Questo spinge
ad una evoluzione del concetto di sheol, non più visto come
un luogo anonimo in cui le anime, ormai private di ogni spranza,
sono giunte alla loro destinazione definitiva e vengono, per così
dire, archiviate. Lo sheol viene, ora, concepito come il
luogo della ricompensa ultraterrena, che differenzia i buoni dai
cattivi. Ma i termini sono ancora vaghi.
Bisognerà aspettare verso la fine dell'AT perché il
premio o il castigo escatologico venga posto chiaramente oltre la
vita terrena e in stretta connessione alla risurrezione, per cui: "Molti
di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno:
gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e all'infamia
eterna." (Dn. 12,2).
Ma già ai tempi di Gesù l'idea di una punizione o di
un premio nell'altra vita era diffusa, come ci è testimoniato anche
dalla parabola di "Lazzaro e il ricco epulone" (Lc 16,19-31).
Inoltre Gesù stesso ci parla di un "fuoco inestinguibile, di una
fornace, di pianto e stridore di denti, tenebre e tormenti, verme
che corrode". Concetti questi che vengono rimarcati dalla stessa
Apocalisse che parla, a modo suo, di un "lago di fuoco e zolfo"
(Ap 14,10; 19,20; 20,10). La stessa prima lettera di Pietro ci parla
di un "carcere tetro".
Paolo e Giovanni ci parlano, invece, in modo meno
figurato e più concettuale, di "impenitenza, perdizione, morte
seconda o definitiva, consegna alla collera divina".
Comunque sia, immagini o concetti, il senso non
cambia: c'è una concreta possibilità per l'uomo di perdersi per
sempre. Questo determina il fallimento definitivo ed ultimo
dell'esistenza umana.
Una particolare attenzione va rivolta all'immagine
prevalente del "fuoco eterno", un fuoco che si è concepito
come un qualcosa di reale. Un'immagine dell'inferno, questa, che non
va presa alla lettera, ma va collocata all'interno del linguaggio
biblico.
Secondo tale linguaggio, il fuoco esprime la
consumazione eterna di un qualcosa che è diventato del tutto inutile
e inservibile, in quanto che ha fallito il proprio obiettivo,
frustrando il senso stesso del proprio esistere. Esso, pertanto,
diviene l'immagine efficace di una vita sprecata, condannata alla
sterilità e alla solitudine eterna, esclusa definitivamente dalla
comunione con Dio.
In tal senso, si pensi, ad esempio, alle parole del
Battista, secondo cui l'albero che non dà frutto sarà gettato nel
fuoco (Mt 3,10), così come avverrà per la pula, una volta separata
dal grano, "brucerà con un fuoco inestinguibile" (Mt 3,12).
Anche Gesù si esprime similmente: "Ogni albero che non dà buon
frutto sarà gettato nel fuoco" (Mt 7,19). Lo stesso avverrà per
la zizzania (Mt 13,30-42). Sono tutte immagini ed espressioni che
indicano soltanto una cosa: l'uomo che conduce una vita sterile,
priva cioè di frutti buoni, sarà tolto dalla comunione con
Dio e brucerà nella sterilità del suo
fallimento.
La vera
natura del castigo
Il N.T. per spiegare la condizione del dannato
ricorre soprattutto al concetto di esclusione.
In tal senso, si pensi alle espressioni come la "porta
chiusa" nella parabola delle dieci vergini (Mt 25,10); o ancora
"lontano da me maledetti" (Mt 25,41); o a quel "gettatelo
fuori" nella parabola dei talenti (Mt 25,30). Così, lo stesso
Paolo, nella sua prima lettera ai Corinti, parla di "essere
squalificati" (1Cor 9,27).
La perdizione consiste, dunque, nello "star fuori",
nell' "essere esclusi" dalla comunione con Dio. E ciò
significa frustrazione e fallimento esistenziali radicali e
definitivi. Infatti, se è vero che l'uomo trovando Dio trova se
stesso; vero è anche che perdendo Dio perde totalmente se stesso.
E ciò è la logica conseguenza dell'indirizzo che
l'uomo ha dato alla propria vita: verso le creature anziché verso a
Dio. S.Agostino definisce bene questo concetto, che sta alla radice
del peccato, con l'espressione: "aversio a Deo et conversio ad
creaturas", per cui chi vota la sua vita alla terrestrità,
destinata alla consumazione e alla caducità, sarà associato
fatalmente al suo destino.
Collocato in quest'ambito di relazione mancata con
Dio, l'inferno non va più concepito come un luogo. Esso è
essenzialmente una relazione pervertita con Dio, con i suoi simili e
con l'intera creazione; significa fallimento totale dell'essere
umano, la cui sanzione è intrinseca al modo di vivere stesso, per
cui il vivere in un certo modo diventa, di per se stesso, un luogo
di perdizione.
Posto in questa prospettiva, l'inferno non diventa
più la retribuzione escatologica di una vita spesa nell'inutilità,
ma si colloca nel libero e cosciente vivere dell'uomo, che diventa
un vivere di peccato, non più orientato a Dio, ma alle cose. In tal
senso, la vita dell'uomo diventa un vivere l'inferno già fin d'ora e
troverà la sua codificazione definitiva e piena nell'Aldilà.
Stridenti situazioni di ingiustizia, legalizzata o
meno, violenze, guerre, sopprusi, stragi, faide, vendette, odii
familiari, rancori sono espressioni vive ed autentiche di un vivere
fallimentare, che pone l'uomo già, fin d'ora, in una condizione di
vita sbagliata, cioè di inferno.
Inferno e
speranza cristiana
Paolo, dopo un lungo e deprimente ragionamento
sull'inefficacia della legge ai fini della salvezza protratto per
tutto il capitolo 7 della sua lettera ai Romani, apre il capitolo 8
con un messaggio di grande speranza: "Non c'è, dunque, più
nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. Poiché
la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato
dalla legge del peccato e della morte" (Rm 8,1-2); e ancora: "Dio,
infatti, ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti
misericordia" (Rm 11,32).
Sono affermazioni che aprono il cuore alla speranza e
ci vengono direttamente dalla stessa Parola di Dio, che ci conferma,
ancora una volta di più che là "dove ha abbondato il peccato, ha
sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20). Il vangelo è un lieto
annuncio di salvezza e non di condanna.
Tale abbondante offerta di salvezza, se da un lato ci
rincuora, dall'altro, non esclude la drammatica possibilità del
rifiuto. Dio, infatti, non impone all'uomo la salvezza, ma la offre
lasciandolo libero nella sua scelta, pur assistendolo in essa con il
suo Spirito e con la sua grazia.
La possibilità del rifiuto e del conseguente
fallimento esistenziale non vogliono essere dei deterrenti
terrorizzanti, ma un invito a prendere in seria considerazione la
nostra responsabilità di fronte alla chiamata di Dio e, quindi,
l'urgenza della conversione.
Di conseguenza, l'inferno non è una punizione che Dio
infligge all'uomo, ma una possibilità interna dell'uomo, insita
nella sua stessa fragile libertà. Una possibilità che l'uomo può
sperimentare in questo mondo, quando vive chiuso nel suo egoismo,
che genera divisioni, guerre, oppressioni, ingiustizie,
emarginazioni, isolamento. Espressioni tutte queste di una vita
condotta senza amore e priva di un'autentica comunicazione.
IL PURGATORIO
INCONTRO PURIFICATORE CON DIO
Il fondamento biblico del purgatorio
La negazione luterana di un
fondamento biblico circa l'esistenza del purgatorio, portò la parte
cattolica ad una ricerca di prove bibliche in tal senso. Ma spesso i
testi rilevati erano sostanzialmente delle forzature; erano,
inoltre, isolati e staccati dal loro reale contesto.
Due sono sostanzialmente i passi
biblici che, in qualche modo, possono sostenere l'esistenza del
purgatorio: 2Mac 12,43-46 e 1Cor 3,10-17. Vediamoli più da vicino.
Il senso di 2Mac 12,43-46
Siamo in un contesto di fine battaglia. Dei soldati
raccolgono i loro caduti e scoprono sotto le loro vesti degli idoli
trafugati da Iamnia. Allora, comprendono la loro morte non più come
accidentale, ma come un castigo di Dio. Ricorrono, pertanto, alla
preghiera, supplicando che il gravissimo peccato commesso fosse loro
perdonato. Poi fu inviata a Gerusalemme una colletta perché fosse
offerto un sacrificio espiatorio per il peccato di questi caduti. E
questo è suggerito dal pensiero della risurrezione.
La preghiera e la colletta per il sacrificio
espiatorio presuppongono la certezza che i vivi possano, in qualche
modo, operare favorevolmente per i defunti. Tali azioni sembrano,
comunque, considerate come un'intercessione che avrà il suo peso
nella risurrezione.
C'è, pertanto, la convinzione che un'azione cultuale
può aiutare i credenti che sono morti on una condizione
oggettivamente di peccato.
Il senso
di 1Cor 3,10-17
Paolo, parlando qui dei predicatori che edificano la
chiesa, afferma che le loro opere saranno sottoposte alla prova del
fuoco che proverà la qualità dell'opera stessa. Se l'opera supererà
tale prova, egli sarà premiato, diversamente punito: "tuttavia,
egli si salverà, però come attraverso il fuoco". Tuttavia,
questa affermazione Paolo la pone in un contesto escatologico,
quando tutto sarà definitivamente compiuto. Non sembra, pertanto,
possibile sostenere l'esistenza del purgatorio con tale passo, che
pare voglia esprimere, più che altro, la condanna a cui sono
sottoposti i predicatori poco zelanti.
Questi testi, nel loro insieme, sembrano costituire
degli indizi sul purgatorio, non certamente delle prove chiare e
certe.
Dio come
purificatore
Una migliore contestualizzazione biblica del
purgatorio potrebbe essere meglio individuata più che sui singoli
passi, alquanto discutibili, nell'insieme dell'esperienza biblica di
Dio quale "fuoco divorante", che mette in questione l'uomo
nel confronto finale individuale. In tale posizione di confronto con
la Luce suprema è illuminato nella sua fragilità e nella sua
peccaminosità.
Nel confronto con la santità e l'amore di Dio, libero
dai legami inibitori e limitanti del corpo, l'uomo coglie
perfettamente, con consapevolezza la propria malvagità e la propria
miseria.
Sarà proprio tale confronto della propria miseria con
lo splendore divino che costituirà il purgatorio, cioè una
sofferenza purificatrice che distrugge in noi ogni sovrastruttura
che ci impedisce di beneficiare del pieno rapporto di comunione con
Dio.
L'uomo, nel suo vivere questa dimensione terrestre,
facilmente si conforma anche spiritualmente a questa terrestrità, di
cui, a seconda delle esperienze vissute e del proprio modo di
vivere, difficilmente se ne libera pienamente. Essa costituisce in
tal modo una sorta di palla al piede che non gli consente di
librarsi alto e liberamente in Dio e di goderne la piena comunione
di vita.
Si rende, pertanto, necessaria una purificazione, la
quale più che un atto unico e immediato, costituisce una sorta di
cammino di evoluzione spirituale dalle cose, di cui ancora è
invischiato, alla piena luce divina. Si tratta, dunque, di
riorientare pienamente la propria vita a Dio e in Dio, liberandosi
degli ultimi orpelli che impediscono o, quanto meno, rendono
difficoltoso il libero e pieno librarsi verso Dio.
Il
ritorno all'essenziale
Abbiamo visto come sia l'incontro con Dio e
nell'ambito di questo che l'uomo si scopre ancora prigioniero della
propria terrestrità, di cui deve definitivamente liberarsi e ciò
avviene in uno stretto rapporto con Dio che lo accompagna nel
cammino verso di Lui.
Tale cammino, squisitamente spirituale, coinvolge
l'uomo, sia pur in modi diversi, già in questa vita. Essa, pertanto,
può essere vissuta in tal senso, come un processo di purificazione
ed evoluzione spirituali. Non vi è, infatti, un netto scollamento
tra la vita nell'Aldiquà e quella nell'Aldilà, ma vi è un continuo
logico, sia pur se diverse siano le modalità nel porsi nelle due
posizioni. Tale "continuo logico differenziato" viene
testimoniato, in qualche modo, dalla stessa liturgia dei defunti
quando afferma che "vita mutatur non tollitur"; in altri
termini viene cambiato soltanto il modo di vivere, senza che ciò
comporti una qualche frattura. Questo ci consente di dire che già
nel nostro vivere terreno si dà inizio non soltanto a ciò che saremo
definitivamente nell'altra dimensione, ma anche a quella evoluzione
spirituale e di avvicinamento a Dio che caratterizza lo stato di
purgatorio.
In quest'orizzonte, il purgatorio diventa ad essere
il momento finale di un cammino di crescita e di evoluzione
spirituale già iniziato qui sulla terra. Le sofferenze, di ogni
specie e dimensione, sono elementi importanti in questo processo
evolutivo di purificazione esistenziale verso Dio, purché esse siano
vissute e accolte nella coscienza di questo cammino purificatore e
di evoluzione spirituale rivolto a Dio. Diversamente sono soltanto
sofferenze.
Il
purgatorio non è un inferno a termine
Spesso il purgatorio veniva presentato come una sorta
di "inferno a termine". Nulla di più aberrante. Infatti, se
l'inferno sancisce il fallimento del compimento dell'uomo,
totalmente fuori dalla comunione con Dio che si fa avversione e odio
nei suoi confronti, nel purgatorio non vi è nulla di tutto questo.
Nel purgatorio c'è la comunione con Dio anche se
questa, per essere definitivamente, piena deve liberarsi dalla
pesantezza della terrestrità che ancora, in qualche modo, inquina il
nostro spirito. Si tratta, pertanto, di una comunione non ancora
perfetta, ma perfettibile. Qui l'orientamento esistenziale è rivolto
decisamente a Dio, anche se con qualche, più o meno accentuata,
incertezza, dettataci dal nostro livello di legame con la
terrestrità.
Come si vede, non si può parlare di "inferno a
termine". Siamo su due dimensioni decisamente opposte. Tuttavia,
non va dimenticato l'elemento sofferenza, sempre presente nel ciclo
della purificazione. Si tratta, infatti, di scardinare dal nostro
spirito, in modo definitivo, i nostri legami con la terrestrità che
ancora permea, in qualche modo, il nostro spirito.
Tale sofferenza già si pone nella presa di coscienza
nel momento del confronto con la Luce divina, in cui vengono messe
in rilievo tutta la nostra fragilità e imperfezione. Ad essa va
aggiunta, inoltre, quella che si produce nel cammino di
perfezionamento spirituale, durante il quale il fuoco vivo della
nostra comunione con Dio brucia la nostra terrestrità residua. Si
tratta di compiere definitivamente e pienamente un parto rimasto
incompleto.
Non c'è, pertanto, bisogno di aggiungere ulteriori
pene. Il purgatorio non è un luogo di sadismo dove Dio si diverte a
tormentare chi non lo ha amato pienamente, una sorta di resa di
conti e di vendetta servita a freddo. Un simile Dio risulterebbe
soltanto ripugnante e odioso.
Il
purgatorio: gioiosa purificazione dell'amore
Ciò che caratterizza il purgatorio è la condizione di
speranza ormai già raggiunta, ma non ancora pienamente realizzata.
In tale prospettiva la purificazione si pone nell'ottica dell'amore
verso cui si è attratti e non del castigo. Se di fiamme proprio si
vuol parlare, queste sono di nostalgia e di un amore indicibile.
In questo cammino di evoluzione spirituale lo spirito
del defunto non è mai abbandonato a se stesso, ma viene accompagnato
dalle preghiere della Chiesa la quale, benché ancora pellegrinante
sulla terra, sa abbracciare ancora il suo figlio trasmigrato verso
Dio e gli infonde forza spirituale perché questo cammino si compia
il più rapidamente possibile.
Infatti, l'incontro dell'uomo con Dio nel momento
della morte non va visto come un affare privato, ma come un evento
che si svolge nella chiesa, la quale, benché suddivisa in chiesa
pellegrinante, purgante e celeste, di fatto forma un'unica realtà in
Cristo, grazie al quale trae origine quella che viene definita la
comunione dei santi.
Purgatorio e giudizio particolare
Il purgatorio, concepito come incontro purificatore
con Dio e cammino di evoluzione spirituale verso una piena comunione
con Lui, costituisce lo stato di vita conseguente ad un avvenuto
giudizio individuale. Esso, sostanzialmente, si identifica con
questo ed esprime anche il livello di rapporto con Dio, che segna il
progresso e il ritmo di questo cammino evolutivo.
In tale prospettiva, la purificazione non è più una
questione di tempo, bensì di grado di intensità di rapporto con Dio.
|