Incontro organizzato da:
Limes Club Roma, Limes e Sioi 
in Palazzetto Venezia - Piazza San Marco, 51 - Roma
il 23 ottobre 1998 - ore 17.30

Sono intervenuti:

Lucio Caracciolo - direttore di Limes

Gianni De Michelis - già Ministro degli Esteri

Arjan Konomi - giornalista albanese

Miodrag Lekic - Ambasciatore jugoslavo

 


 

RELAZIONE
di Livio Zaccagnini

Venerdì 23 ottobre il liMes Club Roma, in collaborazione con liMes, la rivista italiana di geopolitica, e con la Sioi (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale) ha organizzato l’incontro-dibattito Kosovo la guerra vicina, presso la sede della Sioi a Roma.

Attorno al tavolo si sono ritrovati Gianni De Michelis (già Ministro degli Esteri), Arjan Konomi (giornalista albanese), Miodrag Lekic (ambasciatore jugoslavo), con Lucio Caracciolo (direttore di liMes) moderatore.

Dopo il gradito saluto iniziale dell’ambasciatore La Rocca, presidente della Sioi, la parola è passata a Gianni De Michelis, che con vivacità e rigore ha ripercorso la storia della crisi nella ex-Jugoslavia, di cui la questione del Kosovo è figlia, facendo rivevere le drammatiche vicende di quei giorni che lo vedevano protagonista alla Farnesina. Ha ricordato infatti la successione dei vari modelli con cui la crisi era stata affrontata: primo quello scaturito dagli accordi di Helsinki, secondo cui i confini continentali erano intoccabili, e che determinava conseguentemente l’impossibilità (secondo De Michelis, voluta e giusta) di riconoscere le repubbliche jugoslave come Stati autonomi. Più che altro erano invece necessari, nelle parole dell’ex Ministro, degli aiuti economici indispensabili a fermare le correnti nazionalistiche e ad aiutare il governo Markovic, essenziale per un progetto di pacifica coabitazione tra i popoli allora jugoslavi. Ma lo "scellerato" patto tra Tudjman e Milosovic, con l’errato appoggio di alti settori politici occidentali, tra cui l’internazionale popolare e i radicali, portarono al passaggio dal modello di Helsinki a quello dell’autodeterminazione dei popoli, preludio ineluttabile alla pulizia etnica. La questione in Bosnia si è poi conclusa, dopo gli innumerevoli eccidi commessi da ogni parte in causa, con gli accordi di Dayton, senza però una soluzione di quella che già da allora era prevista come focolaio di nuova crisi: la questione del Kosovo. De Michelis ha poi ricordato il primo tra i due recenti interventi italiani in Albania, che con il Kosovo è fortemente legata: l’operazione Pellicano, che gettò le basi della transizione verso l’apertura di quel Paese al mondo esterno. Fu quella, come ha evidenziato l’ex Ministro, un’operazione anche fortemente politica per la creazione di un governo di coalizione tra le forze postcomuniste di Nano ed i democratici. Con l’ultima operazione Alba, invece, si è voluto che l’Albania andasse alle urne, creando le premesse per una nuova dolorosa crisi politica che non può non ripercuotersi nel Kosovo, aggravando non poco la situazione in quella terra. Probabilmente, come ha affermato De Michelis concludendo il suo intervento, visti i precedenti, uno negativo come il caso jugoslavo, e uno invece positivo come il pacchetto dell’Alto-Adige (la cui situazione, pur con le dovute differenze, non era poi così dissimile da quella kosovara attuale), si dovrebbe concedere al Kosovo una larga fetta di autonomia, sostenuta da consistenti aiuti economici indispensabili anch’essi a stabilizzarne in modo decisivo la situazione.

La parola è quindi passata all’ambasciatore jugoslavo Miodrag Lekic, il cui intervento è stato "vivacizzato" da numerose interruzioni di persone presenti in sala. L’ambasciatore ha ribadito il concetto secondo cui niente poteva essere più deleterio della disintegrazione della Jugoslavia, vista non già come prigione dei popoli, ma come garanzia di pacifica convivenza, mentre, secondo lui, la scelta dell’autodeterminazione ha innescato un processo che non poteva che portare alla balcanizzazione dello scacchiere jugoslavo ed alla mutua distruzione, come testimonia, d’altra parte, l’intervento croato in Kraijna. Arrivando a parlare del problema del Kosovo, Lekic ha affermato che le tensioni preesistenti purtroppo sono state strumentalizzate dalle frange nazionalistiche degli Albanesi dai quali non è riconosciuta né la Jugoslavia e la sua Costituzione, né gli accordi internazionali che la vedono parte in causa, innescando così un’escalation di violenza (dolorosa e deprecabile per tutti, dice l’ambasciatore) che ha provocato la dura reazione serba e aumentato la portata del conflitto. La soluzione della crisi del Kosovo, che getterebbe le fondamenta per una nuova pagina di integrazione nella tormentata storia balcanica, sarà possibile, conclude Lekic, solo concordando un piano di autonomia che preveda un forte supporto economico.

L’ultimo intervento è stato quello del giornalista albanese Arjan Konomi, fine conoscitore degli avvenimenti dell’area. La situazione creatasi, ci dice Konomi sottolineando un concetto già espresso negli altri interventi, sarebbe stata certamente prevista se si fosse guardato con più attenzione alle tentazioni nazionalistiche serbe ed albanesi. Tra queste ultime è certamente in primo piano il progetto di un’unità nazionale albanese (proprio perché l’Albania è definita come lo Stato che confina con se stesso) che è ormai divenuta la bandiera dei nazionalisti, tornati ad esporre le proprie idee dopo il silenzio loro imposto dalla dittatura comunista. Osserva però Konomi che l’unità albanese è resa alquanto improbabile sia per le divisioni interne agli indipendentisti kosovari (che antepongono alla costruzione della Grande Albania quella del Kosovo) con le due fazioni dell’Uçk e del Lpk tra cui è difficile instaurare un’intesa (e che creano un problema in più alla comunità internazionale per la mancanza di un interlocutore certo), sia per le divisioni nello Stato albanese stesso, con il Nord schierato con Berisha ed il Sud in balia di bande armate. Ad esacerbare ancor di più la situazione, secondo Konomi, si è aggiunta la repressione politica, culturale e militare di Belgrado che ha provveduto ad estremizzare le posizioni, dando sempre maggior peso nelle file albanesi ai nazionalisti ed al loro progetto di Grande Albania. Questo a dimostrare la complessità e la gravità della situazione che potrebbe produrre una balcanizzazione a domino dagli effetti imprevedibili, ma certamente destabilizzanti per la regione mediterranea.

 


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