ISRAELE/PALESTINA, |
Incontro
organizzato da:
Limes Club Roma, Limes, Cisci e IILA
in Palazzo Santa Croce - Piazza Benedetto Cairoli
3 - Roma
il 13 febbraio 2001 - ore 17.30
Sono intervenuti:
Lucio Caracciolo - direttore di Limes
Gad Lerner - Giornalista
Andrea Riccardi - Presidente della Comunità di S. Egidio
RELAZIONE
di Livio Zaccagnini
La rivista Limes ha presentato il suo nuovo numero “Israele/Palestina, la terra stretta” in un incontro pubblico organizzato nella sede dell’Istituto Italo-Latino Americano cui hanno preso parte Gad Lerner, giornalista, Andrea Riccardi, Presidente della Comunità di S. Egidio e Lucio Caracciolo, direttore di Limes.
Il dibattito ha naturalmente preso spunto dalle recentissime elezioni israeliane che hanno visto il “falco” Sharon prevalere sul premier in carica, il laburista Barak: ciò deve essere considerato, ha affermato Caracciolo, non come la causa della fine del processo di pace, bensì la sua conseguenza; israeliani e palestinesi, infatti, quando parlano di Israele e Palestina immaginano più o meno lo stesso territorio; per precedere in un percorso di pacificazione si era battuta la strada della “terra in cambio di pace”, ma i nodi più importanti non erano stati toccati delle consultazioni: Gerusalemme e il ritorno dei profughi palestinesi a casa. Quando le due questioni sono state messe sul tavolo dei negoziati di Camp David senza un soluzione precedentemente concordata, il piano di pace non poteva far altro che naufragare: su Gerusalemme non è infatti il solo Arafat che possa deciderne lo status, esso riguarda tutti gli Stati musulmani, dal Marocco all’Indonesia, che ovviamente non possono rimanere al di fuori delle trattative, anche quelle non ufficiali. Il rientro dei profughi palestinesi crea veramente grandi problemi all’una e all’altra parte, problemi che appaiono inconciliabili: per gli israeliani il ritorno dei profughi significherebbe la fine dello Stato di Israele, per i palestinesi, se essi non dovessero rientrare, sarebbe la resa totale. Un ulteriore problema è stato l’indebolimento della stabilità israeliana e palestinese: da una parte gli arabo-israeliani, tradizionalmente fedeli alla stella di David e ora schierati con i palestinesi, dall’altra la leadership di Arafat, messa per la prima volta in discussione da giovani personaggi come Barguti. Ad aggravare poi la situazione di instabilità c’è poi il fattore demografico: nel territorio che comprende Israele e Palestina, se verranno confermate le attuali tendenze, i palestinesi raggiungeranno nel numero gli israeliani nel 2010 fino ad essere il loro doppio 40 anni dopo; il ritorno dei profughi in questo scenario diviene ovviamente addirittura impensabile per gli Israeliani.
Da altra parte, ha aggiunto Lerner, è da considerare anche che sul piano demografico le comunità in maggiore espansione nelle due popolazioni sono quelle degli ebrei ultra-ortodossi e dei palestinesi di Gaza, dove è più forte il radicalismo islamico: un ulteriore esempio di come la situazione stia peggiorando. Un dato è certo: con la vittoria di Sharon, si è tornati al punto di partenza, un aspetto accolto con sollievo da moltissimi israeliani. Barak prometteva terre in cambio di un confine stabile, ma le concessioni fatte ad Arafat ha Camp David non furono accettate dal leader palestinese: risultato la disillusione nel processo di pace e la “rassicurante” vittoria di Sharon. Anche i palestinesi hanno visto disattese le loro speranze: le idee di cooperazione affermate ad Oslo non sono state attuate e il livello di vita dei palestinesi è sceso del 15% in conseguenza delle politiche dei governi Netanihau e Barak. Israele poi si è ricompattata sotto la bandiera del Likud; anche l’atteggiamento rispetto all’intifada è cambiato: se durante la prima rivolta dei palestinesi l’opinione pubblica israeliana era divisa e turbata e leader militari come Rabin erano indotti a fare concessioni, oggi gli israeliani hanno una sola risposta all’intifada di Al Aqsa, quella di fare muro. È vero che ci si sta avviando ad una situazione o di conflitto aperto o di “né pace né guerra”, ma non si riparte da zero; c’è infatti una conoscenza reciproca dei due establishment: Arafat e Sharon si sono sentiti per telefono, si parlano, un fattore questo, che nel panorama mediorientale deve essere preso come la speranza, per piccola che sia, di riprendere l’iniziativa della pace.
Riccardi ha invece voluto sottolineare quanto la frammentazione dei due contendenti sia un fattore da tenere bene a mente: Israele va infatti considerato uno Stato multietnico essendovi un considerevole numero di ebrei di origine russa (con una componente quindi russo-cristiana nell’identità culturale) ma anche di arabo-israeliani (che vanno distinti dai palestinesi per la loro profonda cultura della concretezza). Ovviamente i palestinesi risultano meno frammentati, anche se è importante considerare non solo la divisione tra laici e fondamentalisti, ma anche tra i poveri, cui è proibito, ad esempio, accedere in Israele, e “vip” che possono fare tutto con grande libertà. Bisogna poi tenere conto, come non è stato mancato di sottolineare precedentemente, che i palestinesi nelle loro rivendicazioni non rappresentano solamente loro stessi, ma bisogna tener conto di tutto il mondo arabo; così per i profughi (basti pensare che nel piccolo Libano ve ne sono 370.000), così per Gerusalemme. Israele a Camp David aveva offerto molto, ma Arafat ha rifiutato: sintomo questo di un clima diverso. In questa nuova situazione i negoziati non sono più sufficienti, bisogna cercare di svelenire il clima e provare a far considerare vicendevolmente i due interlocutori come affidabili.