OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB

NUMERO 4/2003

Una proposta di pace per il Medio Oriente di Maurizio Debanne

ANARCHIA e libertà di Massimo Virgilio

Una proposta di pace per il Medio Oriente

di Maurizio Debanne

ISRAELE/PALESTINA

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Questa bozza di progetto di pace prevede due punti fermi: due stati indipendenti con dei confini netti il più possibile. 
I problemi trattati saranno i seguenti:
1- Gerusalemme: una soluzione pacifica o un ritorno al piano Soffer
2- Le colonie
3- I profughi: chi sono quanti sono e dove possono tornare
4- Le risorse idriche: arrivare ad un' equa distribuzione            
 
1 Gerusalemme: ai termini della risoluzione 181 del 1947 Gerusalemme[1] dovrebbe costituire un territorio autonomo. In sostanza, dopo la sua neutralizzazione e demilitarizzazione la città sarebbe divenuta un'enclave internazionalizzata direttamente amministrata dalle Nazioni Unite. Tra i maggiori sostenitori di questa soluzione spiccava la Santa Sede, la quale considerava un regime giuridico internazionale l'unico atto in grado di proteggere i luoghi santi. Ma gli eventi del 1967 provocarono un mutamento nella politica della Santa Sede[2] che, non considerando più l'internazionalizzazione realizzabile, cominciò allora a sostenere la necessità di applicare alla città uno statuto internazionalmente garantito, limitato alla sola città vecchia, mirato alla tutela della libertà di culto, al rispetto e alla conservazione dei luoghi santi. Questa ipotesi mi trova d'accordo, ma andrebbe arricchita di stratagemmi capaci di rendere più appetibile ed interessante la proposta per gli israeliani e per i palestinesi. Clinton aveva proposto a Camp David, nel 2000, di dividere la città vecchia in due: i quartieri cristiano e mussulmano ai palestinesi; quelli ebraico ed armeno agli israeliani. E' possibile unire la proposta di Clinton con quella della Santa Sede? A mio avviso il pieno riconoscimento della sovranità araba e israeliana sui quartieri della città vecchia non esclude l'elaborazione di tutta una serie di normative speciali intese a tutelare il carattere sacro della città. L'ipotetica normativa dovrà trattare della protezione dei luoghi santi e l'accesso agli stessi, della smilitarizzazione dell'area, e, inoltre, di un tribunale giudicante sulle eventuali controversie sui punti sopra descritti, la cui costituzione e gestione sarà di responsabilità del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Infine la parte occidentale di Gerusalemme diventerebbe la capitale d'Israele e la parte orientale, allargata ad alcuni altri villaggi palestinesi adiacenti come Abu Dis, la capitale del futuro stato palestinese ( il problema degli insediamenti di coloni nella parte orientale sarà risolto nel paragrafo riguardante appunto le colonie).Questa soluzione mi appare più auspicabile rispetto al piano Soffer[3] presentato alla commissione Difesa e Esteri della Knesset il 16 luglio del 2001. Soffer avanzò il progetto di erigere un muro tra i Territori e Israele per evitare il sorpasso demografico riportando così al sicuro la maggioranza ebraica. Il muro previsto passerebbe anche all'interno di Gerusalemme sancendo di fatto la separazione tra la Gerusalemme Ovest ebraica e la Gerusalemme Est araba. La ragione di questa concessione sta proprio nella necessità di non intaccare la maggioranza ebraica della città santa. Secondo me un particolare da non sottovalutare che rende inattuabile questo piano, è che la Spianata delle Moschee dovrà rimanere nelle mani degli ebrei «fatta salva la possibilità di ingresso per i palestinesi o attraverso il villaggio arabo di Silwan o attraverso la Porta dei Leoni. In ogni caso agli arabi sarebbe completamente impedito l'accesso alla città vecchia»[4]. Questa intransigenza sarà per sempre destinata al fallimento. 

2. Le colonie: Israele persegue una politica di espansione territoriale tramite colonie dal 1967[5] e, di conseguenza, è molto difficile oggi ipotizzare un azzeramento totale di questi insediamenti. Credo tuttavia che i palestinesi potrebbero concedere le colonie israeliane all'interno dei limiti municipali post 1967 di Gerusalemme in cambio di un corridoio, il cui baricentro potrebbe essere Beer Sheva, che collegherebbe così i due corpi dello Stato palestinese. Inoltre nel distretto amministrativo di Beer Sheva, dove è forte la concentrazione di città e villaggi palestinesi, potrebbe essere concesso un certo grado di autonomia alla popolazione "palestinese". Autonomia che può rifarsi all'esperienza molto positiva dell'Alto Adige dove «i diritti riconosciuti alla maggioranza tedesca dallo Stato italiano, di intesa con l'Austria, rappresentano una delle esperienze più avanzate al mondo nel trattamento delle minoranze etniche e nazionali»[6].Magari sarà proprio su questa città che si svolgerà la fase finale della negoziazione del processo di pace. Infatti, proprio a Beer Sheva, potrà rientrare un certo numero limitato di profughi perché la città «può espandersi a est e ad ovest, e, forse, lungo la costa anche a sud per far posto ai profughi che ritornano»[7]. Va anche ricordato che «la metà meridionale del territorio israeliano con il deserto del Negev è ancora poco popolata anche se comprende ampi spazi abitabili qualora si risolva il problema dell'approvvigionamento d'acqua»[8].  
 
3. I profughi: per una lettura comune del passato bisognerà forse aspettare una rivoluzione culturale, ma nell'immediato occorre trovare un punto di partenza per risolvere il problema relativo ai milioni di profughi. Su chi siano e di quale entità sia il numero esatto ci sono ancora oggi idee contrastanti[9].I dati più rappresentativi sono stimati dall'Unrwa che censisce 3,6 milioni di profughi. Pertanto ritengo che la richiesta araba di rimpatrio in Israele di circa 4 milioni di profughi palestinesi porterebbe ad un azzeramento della personalità ebraica dello Stato d'Israele ed è quindi improponibile. Una soluzione più plausibile può essere uno scambio di territori con un rientro simbolico di profughi a Beer Sheba. Inoltre l'Unione Europea, insieme ad Israele, potrebbe muoversi per risolvere questa situazione, finanziando per esempio l'Unrwa in modo da spezzare l'attività caritatevole di Hamas. Infatti poco prima del 1994 questa organizzazione era ancora debole mentre oggi nell'atmosfera della seconda Intifada il suo consenso è intorno al 40%[10]. Invece uno Stato palestinese autonomo aiutato dall'Unione Europea potrebbe affievolire il consenso di Hamas. 

4. Le risorse idriche: Tutta la regione mediorientale soffre sempre di più, con il passare degli anni, di uno squilibrio tra l'effettiva disponibilità di acqua e i consumi in forte crescita. Se poi si tiene conto dell'andamento demografico e dello sviluppo economico, questo squilibrio diventa ancor più drammatico. 
Le risorse idriche sono state da sempre una tra le maggiori cause di conflitto della regione, basti pensare alle alture del Golan (1176 Kmq). Queste furono occupate da Israele durante la guerra dei sei giorni (1967) e successivamente annesse nel 1981 con una legge della Knesset. 
Il controllo del Golan è fondamentale per due ragioni. In primo luogo la sua posizione strategica permette alle forze israeliane un ottimo controllo della zona soddisfacendo così alle esigenze di sicurezza; in secondo luogo queste alture sono il punto di passaggio e di confluenza di 1/3 delle risorse idriche dello Stato ebraico che per consolidare la sua posizione sul territorio ha costruito più di 150 insediamenti agricoli. 
Risorse idriche della regione[11] 
Il corso superiore del Giordano è formato da tre torrenti: l'Hasbani, il Dan e il Banyias. Il primo nasce in Siria mentre gli altri due dalle alture del Golan. Il corso inferiore del Giordano è alimentato da sorgenti, acque superficiali e dal fiume Yarmuk. Solo il 30% delle risorse idriche proviene da acque superficiali mentre il restante proviene dall'acqua sotterranea. Un altro fiume importante della regione è il Litani: ha una portata minore del Giordano ma il tasso di salinità è notevolmente più basso.
Lo sfruttamento delle falde 
Da una decina di anni sia Israele che la Giordania stanno depauperando le loro falde idriche. Gli israeliani stimano che entro il 2010 il loro deficit idrico salirà a 360 milioni di m3 mentre quello della Giordania ammonterà a quasi 200 milioni di m3 e quello della Cisgiordania a 140 milioni di m3. La questione è la seguente: se il Giordano può garantire solo 1,4 miliardi di m3 l'anno da dove proverrà l'oro blu mancante? 
La Giordania ha da poco elaborato un progetto che prevede lo sfruttamento delle riserve d'acqua del Wadi Ram, il deserto di Lawrence d'Arabia. Nel deserto, a mille metri di profondità, si estende una falda di diversi miliardi di metri cubi di acqua potabile. La falda dovrà rifornire di acqua la città di Amman, una delle più "assetate" del mondo. La Banca mondiale stima che un cittadino giordano ha accesso a 140 mila litri di acqua all'anno mentre il limite minimo accettabile dalle organizzazioni internazionali sarebbe di mille litri. E' per questa ragione che la Giordania ha deciso di sfruttare questa falda nel deserto piena però di acqua fossile, quindi non rinnovabile! (In tempi biblici ovviamente!). L'oro blu sarà estratto con un centinaio di pozzi profondi circa 1000 metri situati a una settantina di chilometri da Aqaba. Arrivata in superficie, l'acqua sarà trasportata attraverso una condotta di acciaio fino ad Amman. Una volta realizzato il progetto, la capitale giordana potrà usufruire di quest'acqua aggiuntiva per una trentina di anni con un costo di circa 500 milioni di dollari, dopodiché la falda si esaurirà. 
Le risorse idriche nel conflitto israelo-palestinese 
Gli accordi di Oslo II del 28 settembre 1995 precisano che «Israele riconosce i diritti dei palestinesi sull'acqua della Cisgiordania». In realtà, secondo la Banca mondiale, il 90% dell'acqua della Cisgiordania è utilizzata da Israele mentre i Palestinesi possono solamente disporre del restante 10%[12]. In particolare «oggi Israele consuma l'80% delle sue risorse idriche per l'agricoltura, il 15% per usi domestici e il 5% per l'industria. Le fonti principali d'acqua sono rappresentate dalle sorgenti sotterranee della striscia di Gaza e dall'acquifero dei territori occupati della Cisgiordania, dove la disparità economica e sociale tra le comunità consente un consumo giornaliero pro capite per gli israeliani di 260 litri e solo di 60 litri ai palestinesi. Inoltre, sono state imposte alcune regole che penalizzano i palestinesi: il divieto di scavare nuovi pozzi senza il possesso dell'autorizzazione militare; l'espropriazione di pozzi e sorgenti ai palestinesi assenti; il divieto di irrigare dopo le ore 16 e una fatturazione dell'acqua senza distinzione tra israeliani e palestinesi, nonostante il diverso tenore di vita»[13]. Va anche tenuto conto del fatto che il contributo al PIL dell'agricoltura di Israele è del solo 2% mentre quello palestinese è del 15%. Questa situazione è sicuramente causa di ingiustizia e non permetterà al futuro Stato palestinese di essere autosufficiente. Un'equa distribuzione delle risorse idriche dovrà passare forzatamente attraverso un accordo più largo comprendente oltre a Israele e il futuro Stato palestinese anche la Giordania, la Siria e il Libano. Credo che sia opportuno avviare delle trattative sulle risorse idriche dell'intera regione solo dopo aver ripreso ed essere arrivati a un buon punto del processo di pace tra israeliani e palestinesi. 
In conclusione, il metodo adottato per ottenere questa bozza di progetto di pace è stato quello di tener conto delle ragioni degli israeliani e dei palestinesi e ha permesso di andare oltre le semplici rivendicazioni fino a superarle perché «la pacificazione è uno dei compiti dell' analisi geopolitica»[14]

Note:
[1] Per un' analisi storica più approfondita si può consultare P. Pieraccini ed E. Dusi, Gerusalemme: un accordo impossibile?, in "Israele/Palestina la terra stretta", Limes, n.1, Gruppo editoriale L'Espresso, 2001, pp. 93-112
[2] cfr. Giovanni Paolo II, Redemptionis Anno, 1984 e P. Ferrari da Passano, L'accordo tra la Santa Sede e l'OLP, in La civiltà cattolica, 2000 I, p.367
[3] cfr. E. Dusi, La tentazione di Salomone: un muro per dividere israeliani e palestinesi, in "Le spade dell'Islam", I quaderni speciali di Limes, n.4, Gruppo Editoriale L'Espresso, 2001, pp.73-86
[4] E. Dusi, op. cit., p.76
[5] Per riscontri topografici si possono consultare i siti Web [www.mideastweb.org/maps.htm] e [www.monde-diplomatiques.fr/cartes] - ultima visita il 6 febbraio 2003
[6] J. Cingoli, Israele di fronte alla sua minoranza palestinese: l'esperienza dell'Alto Adige, in "Israele/Palestina la terra stretta", Limes, n.1, Gruppo Editoriale L'Espresso,2001, pp. 60-61
[7] S. H. Abu-Sitta, Così i profughi potranno rientrare nelle loro terre, in "Guerra santa in terra santa", Limes, n.2, Gruppo editoriale L'Espresso, 2002, pp. 75-96
[8] S. Della Pergola, I figli come arma: la demografia del conflitto, in "Guerra santa in terra santa", Limes, n.2, Gruppo editoriale L'Espresso, 2002, p. 38
[9] Codovini parla di soli 600mila profughi dopo la prima guerra arabo israeliana mentre Aronson e Beveridge parlano di oltre 900mila profughi causati dal medesimo conflitto. cfr. G. Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese, Bruno Mondadori, 2002, pp.252-254; G. Aronson e J. Beveridge, Chi ha paura dei rifugiati palestinesi, in "Israele/Palestina la terra stretta", Limes, n.1, Gruppo editoriale L'Espresso, 2001, pp.165-174
[10] cfr. As'ad 'Abd al-Rahman, Lo stato che verrà, in "Guerra santa in terra santa", Limes, n.2, Gruppo editoriale L'Espresso, 2002, pp.97-108
[11] Fonti: Marq De Villiers, Acqua Storia e destino di una risorsa in pericolo, Sperling & Kupfer Editori; M. Canepa, Tutto comincia dall'acqua, in "Israele/Palestina la terra stretta, liMes, n.1, Gruppo editoriale L'Espresso, 2001, pp. 191-192; Anna Del Freo, Così il deserto disseterà Annan, "Il Sole 24 ore" 3 maggio 2003; l'archivio sul Medio Oriente sul sito Web di "Le monde diplomatique" al seguente url: www.monde-diplomatique.fr/cahier/proche-orient Ultima visita settembre 2003 
[12] cfr. l'archivio sul Medioriente sul sito di "Le monde diplomatique" al seguente url: www.monde-diplomatique.fr/cahier/proche-orient/eau-1. Ultima visita il 6 febbraio 2003
[13] M. Canepa, Tutto comincia dall'acqua, in "Israele/Palestina la terra stretta, liMes, n.1, Gruppo editoriale L'Espresso, 2001, pp. 191-192
[14] Y. Lacoste, Che cosa è la geopolitica, in www.limesonline.com/doc/navigation/?Explecit=3990

Anarchia e libertà

di Massimo Virgilio

recensioni

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Da quando quello della globalizzazione è divenuto un tema di grande attualità le considerazioni del professor Noam Chomsky sulla questione hanno avuto una diffusione senza precedenti. Da autore di culto per una ristretta cerchia di contestatori radicali, si è in pochi anni trasformato in punto di riferimento per tutti coloro che si oppongono al sistema capitalista attualmente imperante. Tanto che il quotidiano britannico The Guardian ha potuto scrivere che "insieme a Marx, Shakespeare e la Bibbia, Chomsky è tra le dieci fonti più citate nella storia della cultura".
Di Chomsky oltre ad essere pubblicati tutti i nuovi lavori vengono anche ristampati i libri più vecchi, ormai esauriti e introvabili. E c'è da aspettarsi che gli scaffali delle librerie di tutto il mondo continuino ancora a lungo ad ospitarne le opere, considerata la vastità della sua produzione. Le fonti dove reperire gli interventi di Chomsky sono le più varie, visto che il professore del M.I.T. non disdegna di pronunciarsi attraverso qualsiasi mezzo di cui possa disporre, dai libri alle riviste, dalla radio alla televisione, dai video a internet. E proprio da internet trae la sua origine il volume "Anarchia e libertà", edito da Datanews. Tutti i testi in esso raccolti, infatti, sono tratti da un sito libertario spagnolo dedicato al pensiero critico dell'illustre intellettuale americano. Come si evince dal titolo del saggio gli interventi in esso contenuti - alcuni molto datati, risalenti agli anni Sessanta, altri più recenti - sono incentrati attorno alle tematiche del socialismo libertario, centrali nella visione del mondo dell'autore.
Alla base di tutto il lavoro di Chomsky c'è il desiderio di mettere a nudo i meccanismi del potere, spogliandoli degli orpelli e degli abbellimenti attraverso i quali quest'ultimo tenta di nascondere la propria spietata essenza.
Nei paesi ricchi i cittadini, abituati a sentirsi liberi e indipendenti, vogliono partecipare alla vita pubblica. Qui il potere, per dispiegare senza ostacoli la sua azione, è costretto a schierare in campo i suoi pensatori migliori. Il loro obiettivo è di far credere alle persone di essere libere, di avere voce in capitolo nella conduzione dello stato. In realtà a comandare sono i grandi gruppi industriali e finanziari, portatori di colossali interessi particolari da difendere con ogni mezzo e a tutti i costi. Interessi ai quali hanno finito per piegarsi gli stessi governi, arrivando al punto di mutare la loro funzione dalla rappresentanza dell'interesse generale alla tutela, attraverso la promulgazione di specifiche leggi e l'utilizzo legale della forza, degli affari dei potentati economici che li sostengono e li finanziano. La finzione messa in piedi dal potere è talmente vasta da coinvolgere lo stesso sistema del libero mercato. Questo, sbandierato come il migliore dei sistemi, in concreto non esiste. Le multinazionali, infatti, inducono i governi a proteggere dalla concorrenza esterna i loro mercati di riferimento attraverso l'adozione di dazi e barriere doganali di ogni tipo. La qual cosa da una parte costringe le popolazioni dei paesi sviluppati a pagare per merci e servizi prezzi artificiosamente alti. Dall'altra impedisce agli abitanti dei paesi poveri di esportare i loro prodotti, precipitandoli così in una miseria sempre più profonda. In caso di crisi, poi, i governi sono chiamati a garantire la sopravvivenza delle aziende transnazionali, addebitando i costi delle pesanti ristrutturazioni necessarie al salvataggio alle casse dello stato, drenando, attraverso il sistema fiscale, denaro dalle tasche dei contribuenti. "Quel che viene chiamato capitalismo -scrive al riguardo l'autore - è nei fatti un sistema mercantile corporativo, con forti (…) tirannie private che esercitano un vasto controllo sui sistemi economici, politici, sociali e culturali; tirannie che operano in stretta collaborazione con gli stati più potenti, che intervengono massicciamente nell'economia nazionale e nella società internazionale".
Nei paesi più avanzati dunque la libertà, quella vera, è assente. La democrazia "è del tutto limitata quando il sistema industriale è controllato da forme di élite autocratica, si tratti di proprietari, di dirigenti, di tecnocrati, di un partito di avanguardia o di una burocrazia statale. Nelle condizioni di dominazione autoritaria, gli ideali libertari (…) non possono diventare realtà". 
Secondo Chomsky la maggior parte degli occidentali, accettando come vere le menzogne del potere, ha finito per barattare la propria libertà con la possibilità di consumare liberamente. Essere equivale a consumare e più si consuma, più ci si realizza. Chi non consuma - i poveri, i disoccupati, i disagiati, i disadattati - non esiste, è escluso dalla comunità. La prospettiva di uno sviluppo economico senza fine e quindi di una ricchezza sempre più grande si è così rivelata "una tecnica molto efficace di controllo sociale. La logica è più o meno questa: l'ideologia dominante afferma che ciascun individuo è semplicemente un consumatore, una persona che vuole fortissimamente consumare e che in questo atto dà un senso alla vita". Ora, se si accetta questa affermazione e si fa propria la convinzione che la produzione materiale è destinata a crescere senza posa, allora si può giungere alla conclusione che "è del tutto inutile combattere una società diseguale, anche quando si soffre a causa sua". E questo perché all'uomo economico la società capitalistica offre sempre la speranza "che in futuro possa godere del consumismo più di quanto non ne goda oggi".
Nei paesi poveri e in quelli in via di sviluppo le cose sono radicalmente diverse. Qui la democrazia non è mai arrivata e le libertà individuali non sono mai state apprezzate. Qui negli ultimi secoli le popolazioni locali hanno conosciuto solamente schiavitù, colonialismo, cruente e corrotte dittature personali, spietati regimi religiosi. Qui non è mai esistita un'opinione pubblica da tenere a bada attraverso un sofisticato e martellante apparato propagandistico, ma solo un'enorme massa di diseredati senza diritti né tutele da gestire con la violenza. Qui il sistema capitalista neoliberista può dunque permettersi di mostrare il suo vero volto, senza bisogno di celarlo dietro finzioni e mistificazioni atte a renderlo umano, senza fastidiose leggi ad ostacolarne i progetti, senza doveri da rispettare.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: povertà e degrado per la stragrande maggioranza delle persone; ricchezze immense e agi per pochi privilegiati; distruzione dell'ecosistema; depauperamento delle risorse naturali.
Gli studiosi legati al potere ci ripetono senza sosta la loro verità: questo sistema è il migliore possibile; esso non ha alternative; per garantire la ricchezza ai più non si può evitare di lasciare pochi nella povertà.
A questi paladini del libero mercato Chomsky si oppone con forza e determinazione. Un'alternativa esiste ed è l'unica praticabile. Essa è data dal socialismo libertario. Che non può essere riassunto in un'ideologia o una teoria generale. E questo perché l'anarchia, che per lo studioso coincide con il socialismo libertario, non è un sistema sociale fisso, chiuso, quanto una tendenza dello sviluppo storico dell'umanità che, per usare le parole dello storico Rudolf Rocker, "aspira a che ogni forza individuale e sociale si sviluppi liberamente nella vita". In ogni situazione e in ogni epoca la sfida resta sempre la stessa: "Liberare l'uomo dallo sfruttamento economico e dalla schiavitù politica e sociale". E ciò può essere fatto non conquistando lo stato né esercitando il potere né per mezzo del "vano parlamentarismo", quanto attraverso la "ricostruzione della vita economica dei popoli, edificandola nello spirito del socialismo".
Secondo Chomsky, al contrario di quanto sostiene il sistema ideologico dominante, non è il capitalismo ma il socialismo libertario il solo "a preservare e diffondere il messaggio umanista dell'Illuminismo e le idee liberali classiche, poi degenerate in sostegno ad un'ideologia destinata a mantenere l'ordine sociale esistente". Il pensiero liberale classico, fondato sull'esigenza umana "della libertà, della diversità e della libera associazione", si oppone all'intervento dello stato nella vita sociale e giudica i rapporti capitalistici di produzione, il lavoro salariato, la competitività, l'ideologia dell'individualismo possessivo profondamente inumani. Esso tuttavia è sprofondato "sotto il peso delle forme concrete dell'economia capitalistica". Ecco perché il socialismo libertario, necessariamente anticapitalista giacché rifiuta lo "sfruttamento dell'uomo sull'uomo ma anche la dominazione dell'uomo sull'uomo", va considerato l'unico vero erede delle idee liberali dell'illuminismo.
L'autore, poi, fa propria la nota formula "il socialismo o sarà libero o non sarà affatto". L'anarchia non è altro che "la parte libertaria del socialismo" e dunque, per dirla con Adolf Fischer, "tutto quel che è anarchico è socialista, ma non tutto quello che è socialista è necessariamente anarchico". Quindi un anarchico per essere coerente deve sì essere socialista, "ma socialista di una classe particolare. Non solo si opporrà al lavoro alienato e specializzato e si batterà per l'appropriazione del capitale da parte dell'insieme dei lavoratori, ma si adopererà affinché l'appropriazione sia diretta, non gestita da una élite che agisce in nome del proletariato. Si opporrà, insomma, all'organizzazione del lavoro da parte dei governanti, perché non si tratterebbe d'altro che di socialismo di Stato". 
Qui emerge tutta l'animosità di Chomsky contro Lenin, definito "uno dei maggiori nemici del socialismo", e contro la vecchia URSS: "La mia reazione alla fine della tirannia sovietica è stata simile a quella per la sconfitta di Hitler e di Mussolini". Il leninismo sostiene che il potere dello stato deve essere assunto dal partito di avanguardia, che in tal modo porta al popolo la ricchezza economica e, "in virtù di chissà quale incomprensibile miracolo", la giustizia e la libertà. Questa dottrina non ha alcuna giustificazione, né logica né storica. "Il socialismo libertario (…) la considera con grandissimo disprezzo. A ragione". Per gli anarchici "il controllo della vita produttiva" è la condizione indispensabile "per una vera liberazione umana (…). Quando ci sono cittadini costretti, nel mercato della mano d'opera, a mettersi al servizio di chi dà loro un lavoro, quando ci sono elementi coercitivi ed oppressivi francamente scandalosi che non invitano certo a parlare di democrazia, il controllo della vita produttiva resta la condizione prioritaria".
L'impresa è difficile ma non impossibile. E' vero che il capitalismo industriale tende a concentrare il potere all'interno di "ristretti imperi economici, in un quadro che somiglia sempre più ad uno stato totalitario". Ma è anche vero che tutto ciò determina "reazioni, tentativi di liberazione personale, di liberazione sociale". E questo per Chomsky è un bene. Chi ama la libertà ha il dovere di "cercare, identificare e combattere le strutture autoritarie, gerarchiche, quelle che dominano tutti gli aspetti della vita". Perché esse non hanno alcun senso, "sono illegittime: l'unico modo per raggiungere la libertà umana è quello di distruggerle. Mi riferisco al potere politico, alla proprietà, al dirigismo, alle relazioni tra uomini e donne, tra padri e figli, al controllo che viene esercitato sul destino delle generazioni future (l'imperativo morale che è alla base del movimento ambientalista, per esempio) ed a molte altre ancora". Chomsky sa bene che si tratta di una lotta durissima, ma è anche consapevole che se si riuscirà a fare del problema di "organizzare la società su basi autenticamente democratiche, con un controllo democratico nei luoghi di lavoro e nella comunità" il principale tema di riflessione per tutti coloro che si oppongono alla globalizzazione neoliberista, allora il socialismo libertario avrà grandi possibilità di vittoria. "Quanta più concentrazione di potere e di autorità, tanta più ribellione e maggiore impegno per organizzarsi fino a distruggerla. Prima o poi questa lotta sarà coronata dal successo. Io lo spero".

"Anarchia e libertà".
Noam Chomsky
Ed. Datanews
Pagine 140. Euro 10,33

 


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