OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB |
NUMERO 3/2003 |
il lusso di essere bugiardi di Roberto Stocchetti
il gigante cinese in ginocchio di Aldo Torchiaro
storia e globalizzazione di Massimo Virgilio
LE SAPONETTE DI MACAS di Maria Vittoria Sbordoni
l'europa che vorremmo e l'europa che avremo di Giovanni Castellani Pastoris
di Roberto Stocchetti
sars |
Hanno soppresso le prove, alterati dati, forviato le indagini, impedito le ricerche delle commissioni internazionali; non stiamo parlando del deposto governo irakeno di Saddam Hussein ma di quello cinese. La drammatica epidemia di Sars ci parla di come l'Occidente intransigente sino all'arroganza con il governo irakeno non sappia dire parole forti e chiare a quello cinese che si è reso, con una politica di omertà ed ostruzionismo, oggettivamente complice della diffusione di un micidiale virus.
L'emergenza Sars è progredita in parallelo con la crisi mesopotamica; e mentre la nube di tempesta della guerra andava spegnendosi si avvicinava e si faceva vieppiù minacciosa quella dell'epidemia. Appariva, infine, palese come nella nazione dove il virus si era manifestato ed aveva iniziato a mietere vittime si fosse fatto di tutto per forviare sulla reale portata del morbo: le stesse "tecniche" di cui Colin Powell accusava il governo irakeno erano usate a Pechino; ospedali "ripuliti" dai degenti durante le visite dei funzionari dell'Oms, dati alterati per negare il dilagare del contagio nelle campagne e così via.
Ma Pechino non è Bagdad, è bastato silurare il sindaco della città e il ministro della sanità e fornire assicurazioni su una più intensa collaborazione per assorbire qualsiasi polemica.
Resta un fatto ed una domanda: il fatto è che l'occidente può imporre la sua politica di potenza verso un mondo geopoliticamente diviso come quello arabo. Gli americani sono a Bagdad (Ed a Kabul) per lo stesso motivo per il quale i crociati poterono conquistare Gerusalemme nel 1099, il frazionamento del nemico rendeva più facile sconfiggerlo, e le divisioni dell'Islam sono secolari (Avremo modo di riparlarne). Quando si tratta di misurarsi con nazioni come la Cina o l'Indonesia tutto cambia; confrontarsi con stati di centinaia di milioni d'abitanti ove le aziende occidentali, sempre alla ricerca di un opaco accrescersi di profitti, hanno istallato interi complessi industriali sono tutt'altra cosa, si cerca di arrotondare qualsiasi spigolo e di lavorare di diplomazia anche quando la mala fede e l'omertà è palese.
La domanda, angosciosa e per ora senza risposta, è quella se il virus della Sars sia mutazione maligna ma naturale ovvero frutto di ricerche di laboratorio. Se questa seconda, malaugurata, ipotesi corrispondesse a verità, allora saremmo certi che l'umanità avrebbe disceso molto più di un gradino della scala verso la barbarie.
IL GIGANTE CINESE IN GINOCCHIO
SINDROME CINESE. DALLA CRISI DIPLOMATICA AL VIRUS SARS
di Aldo Torchiaro
sars |
È stata l'ideologia, e non l'interesse nazionale, a ispirare l'elaborazione della politica estera cinese, dall'instaurazione della Repubblica popolare nel 1949 al 1972, data in cui i due nemici mortali, Cina e Stati uniti, si sono riavvicinati e alleati contro l'Unione sovietica. Questo riavvicinamento ha contribuito a estendere la sfera strategica della Cina, mentre la revoca dell'embargo commerciale le consentiva l'importazione di prodotti agricoli e di tecnologie di punta. Le relazioni diplomatiche con i paesi industrializzati occidentali avevano creato le condizioni per una sua apertura economica alla fine degli anni '70. Strumentalizzando abilmente la minaccia sovietica, Pechino era riuscita a stabilire un sottile equilibrio tra pragmatismo diplomatico e ideologia rivoluzionaria. La Rivoluzione culturale aveva distrutto l'economia e gravemente leso gli interessi della burocrazia e della popolazione. Dopo che Deng Xiaoping ebbe recuperato il potere, si formò un largo consenso all'interno della burocrazia sulla necessità di sostituire l'estremismo ideologico di Mao basato sulla lotta di classe con una linea pragmatica imperniata sullo sviluppo economico. Questo orientamento volto al miglioramento del livello di vita della popolazione fu favorevolmente accolto dall'intero paese. La Cina ha quindi avviato una riforma della sua economia dirigista e si è aperta alle tecnologie e ai capitali esteri. Questa strategia nasceva dalla fiducia nel pragmatismo che non è nata ieri. Il vuoto ideologico che seguì a Mao Tsetung è stato facilmente colmato dalla nuova dottrina del partito - "la prassi è l'unico criterio di verità". Questa proposta si accordava bene con i due proverbi preferiti di Deng Xiaoping: "Poco importa che un gatto sia grigio o bianco, basta che acchiappi i topi" e "quando attraversi il fiume stai sulle pietre". In preda alla povertà da decine di anni, il popolo cinese si sentiva in un certo senso attratto dall'immagine di una Cina chiamata a diventare uno stato prosperoso. Nella logica di Deng Xiaoping, lo sviluppo economico è il fattore che determina tutto il resto o, per dirla come lui, "lo sviluppo è la verità ultima". Questa concezione strumentale ha avuto due conseguenze sulla politica estera. In primo luogo, ha condotto la Cina ad adottare una posizione diplomatica filo-occidentale e a mitigare la sua ostilità ideologica contro l'imperialismo internazionale. Il Partito comunista ha abbandonato la definizione leninista dell'imperialismo a favore di una nuova formulazione: l' "egemonismo" rivolto prima di tutto verso l'Urss.
Pechino si è allontanato dai suoi alleati del terzo mondo riducendo progressivamente il suo aiuto esterno ed esprimendo una opposizione sempre più fluttuante rispetto all'"ordine internazionale irragionevole" dominato dall'Occidente. In secondo luogo, la strategia di apertura era anzitutto diretta verso gli Stati uniti. Perché essi erano in possesso della tecnologia avanzata che mancava alla Cina, ma anche perché, per Washington, la Cina presentava un ruolo strategico nella sua rivalità con Mosca.
Il dominio americano nell'Asia orientale e la necessità urgente di rimettere in sesto l'economia spinsero Deng ad accettare compromessi su alcune questioni, sebbene queste riguardassero gli interessi vitali del paese. Così gli americani hanno potuto continuare a vendere armi a Taiwan. Quanto ai conflitti che oppongono la Cina al Giappone e all'Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) a proposito dell'isola di Diaoyu e del mare della Cina meridionale, Pechino offrì di "accantonarli e di lavorare a uno sviluppo congiunto". Negli anni '80, l'allentamento della tensione ha rinvigorito il sentimento di sicurezza della Cina, che ha ridotto il ritmo dell'ammodernamento militare. La direzione del paese ne dedusse che "il mondo contemporaneo ha per parole d'ordine la pace e lo sviluppo". La situazione cambiò all'improvviso nel 1989 con la fine della guerra fredda e l'avvento di un ordine mondiale "unipolare" dominato dagli Stati uniti. Scomparsa l'ostilità nei confronti dell'Urss che era alla base dell'alleanza strategica sino-americana, andarono in frantumi le illusioni di una pace mondiale stabile. Il numero crescente degli interventi americani nei "punti caldi" come il Medioriente e il rafforzamento della presenza militare americana nella regione Asia-Pacifico hanno scosso le attese di Pechino circa la pace nella periferia strategica della Cina. Anche la tesi cinese su "la pace e lo sviluppo" è stata messa a dura prova dalle sanzioni economiche e dalla crociata ideologica lanciate dagli Stati uniti all'indomani degli avvenimenti di piazza Tienanmen, nel giugno 1989. Tuttavia Deng rifiutò di modificare la sua posizione precedente, per salvare la faccia ma soprattutto perché temeva che un confronto sino-americano compromettesse lo sviluppo del paese. Consapevole della trasformazione radicale dell'ordine internazionale, egli riponeva ancore le sue speranze in un ristabilimento dell'amicizia sino-americana, considerata una "necessità per la pace e la stabilità del mondo". Di più, con lo sgretolarsi della legittimità politica dell'ideologia comunista dopo il crollo dell'Urss e dei regimi dell'Europa orientale, soltanto una crescita sostenuta poteva, secondo Deng, garantire la sopravvivenza del regime. Il paese aveva quindi bisogno di vivere in un'area pacificata. E come giungere alla pace, se non rassicurando l'Occidente? Per vincere l'isolamento diplomatico seguito al 1989, Deng Xiaoping decise che la Cina non doveva ideologicamente "sfoggiare la bandiera o guidare l'onda", ma "dissimulare le sue intenzioni e accumulare una forza nazionale" (tao guang yang hui). Questa revisione ideologica volta a placare l'ostilità americana toglieva alla Cina un'arma morale molto efficace che lo stesso Deng aveva intelligentemente brandito a metà degli anni '80 per realizzare l'unità politica con i paesi in via di sviluppo contro l'egemonismo e un ordine internazionale dominato dall'Occidente. Inoltre un sentimento d'inferiorità ha finito per dominare il subconscio dei dirigenti cinesi. Al punto che la Cina si è costantemente ritrovata sulla difensiva di fronte all'Occidente. Questa tattica riduceva il suo margine di manovra strategica e comprometteva i suoi interessi geopolitici, come dimostra la crisi coreana del 2002-2003. La Corea del Nord ha provocato questa crisi senza consultare né avvertire preliminarmente il suo "alleato" cinese. Tale perdita d'influenza di Pechino ha gravemente compromesso gli interessi cinesi in materia di sicurezza nell'Asia del nord-est. Privata dell'appoggio strategico di numerosi ex alleati tra i paesi in via di sviluppo, la Cina si è ritrovata in un isolamento senza precedenti nei vari conflitti con gli Stati uniti a partire dalla metà degli anni '90.
Tuttavia questo profilo basso - nei negoziati con Washington sull'apertura al mercato americano o al momento della sua astensione al Consiglio di sicurezza dell'Onu sull'Iraq nel 1991 - ha consentito alla Cina di registrare benefici in tre settori: revoca delle sanzioni a partire dal 1992, conferimento, da parte degli Stati uniti, della clausola della nazione più favorita e fantastico aumento degli investimenti diretti esteri (Ide). Il forte aumento delle esportazioni e degli Ide ha sostenuto la dinamica dello sviluppo economico. L'allentamento delle tensioni con l'Occidente e i progressi economici restituirono una certa fiducia al paese quando la terza generazione, succedendo ai leader rivoluzionari, arrivò nella stanza dei bottoni. Questi dirigenti erano meno interessati dei loro predecessori alle questioni ideologiche. Erano tecnocrati di solida formazione, capaci di risolvere problemi concreti di settore ma non possedevano le necessarie conoscenze in scienze umane e sociali per comprendere gli obiettivi della politica interna ed estera. Si accontentarono di continuare la politica di sviluppo trasmessa da Deng. A partire dalla metà degli anni '90, la forza economica crescente della Cina ha ciononostante suscitato le preoccupazioni e persino l'ostilità degli Stati uniti e di certi stati dell'Asia orientale.
Nell'ambito di una politica preoccupata di arginare sistematicamente le potenze emergenti, Washington ha intensificato la sua presenza militare in Estremo Oriente e rafforzato le sue alleanze militari con il Giappone e i paesi dell'Asean. Una politica che ha tagliato l'erba sotto i piedi alla Cina. Sul piano interno, lo sviluppo è avvenuto a scapito dell'ambiente, della giustizia sociale e addirittura della sicurezza nazionale.
Le riforme economiche dei primi anni '90 hanno acuito gli squilibri. La corruzione, la distanza crescente tra i redditi e l'aumento della disoccupazione hanno provocato una caduta sensibile della domanda globale. Una politica industriale abborracciata e il fallimento dell'applicazione della strategia dello "scambio di tecnologie contro il mercato interno" non hanno migliorato le capacità di ricerca e di sviluppo delle industrie del paese, ampiamente superate dalle loro omologhe multinazionali.
La Cina è stata costretta a entrare in concorrenza con altri paesi in via di sviluppo per ottenere investimenti internazionali, screditando il suo impegno anteriore al fianco del terzo mondo. Questa volontà di coabitare con l'ordine egemonico diventando una "potenza responsabile" nella comunità delle nazioni si è tradotta, per esempio, nella decisione di non svalutare la sua moneta, il renminbi (yuan), durante la crisi finanziaria asiatica del 1997-1998, per ridurre l'ostilità degli stati periferici e identificarsi all'Occidente. Di fronte alla forza militare ineguagliabile degli Stati uniti, i dirigenti cinesi si sentivano impotenti. La politica americana di "cogagement" contrazione di "containment" (arginamento) e di "engagement" (impegno), durante l'amministrazione Clinton - ha spinto la direzione cinese a perseguire un duplice obiettivo: ricercare la riconciliazione con Washington, pur tentando di mettere le principali potenze occidentali l'una contro l'altra, e allacciando legami con la Russia per parare eventuali minacce giapponesi e americane nell'Asia del nord-est.
Ciò che Jiang Zemin, successore di Deng, ha chiamato la "diplomazia di grande potenza". Ma che senso ha questa scelta? La Cina non può pensare di mettere un cuneo nell'alleanza nippo-americana né nell'unità transatlantica tra gli Stati uniti e l'Europa. Legami economici più stretti non implicano necessariamente una convergenza politica, anche se la Cina è riuscita ad attutire le critiche politiche dell'Occidente usando la carta economica. L'accanita concorrenza tra Stati uniti, Unione europea (Ue) e Giappone per la conquista del mercato cinese le ha dato un margine di manovra che però non va oltre la sfera economica. Di fronte al rallentamento della domanda interna, i dirigenti hanno fatto di tutto per aderire all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel dicembre 2001 allo scopo di attirare nuovi Ide e di salvare lo sviluppo. La loro impazienza e la loro volontà ostentata di fare grosse concessioni hanno fatto alzare il prezzo dei negoziati.
Peggio ancora, invece di trattare prima con l'Unione europea e il Giappone per costringere Washington - l'avversario più coriaceo nei negoziati bilaterali - a temperare le sue esigenze, la Cina ha fatto il contrario. Al punto che Washington ha accentuato le pressioni e costretto Pechino a fare ancora marcia indietro, attirandosi l'ira dell'Ue, che si è irrigidita nelle sue esigenze. Il governo cinese si è comportato allo stesso modo su questioni strategiche: il primo ministro Zhu Rongji ha preso l'aereo per Washington nel bel mezzo dell'intervento della Nato in Kosovo. Se si poteva pensare a una cooperazione geopolitica sino-russa, questa visita ne ha segnato la fine. Questi errori di calcolo sono bastati a squalificare la Cina come attore autorevole. Il bombardamento americano dell'ambasciata cinese di Belgrado il 7 maggio 1999, a un mese appena dal fallimento della visita del primo ministro Zhu Jongji a Washington ha fatto definitivamente svanire il sogno cinese di una "diplomazia di grande potenza". Questa umiliazione è stata addebitata non alla miopia della sua politica estera ma allo stato di sottosviluppo dell'economia. Per allontanare una reazione nazionalista, il governo ha riesumato la tattica del "tao guang yang hu" di Deng Xiaoping. Visto che "una nazione debole non ha diplomazia", occorreva ad ogni costo evitare un confronto con gli Stati uniti che avrebbe intralciato lo sviluppo economico del paese. Si trattava di un ripristino della politica di sviluppo dopo il tentativo, breve quanto vano, di comportarsi da grande potenza. Benché facciano appello al nazionalismo per rafforzare la propria legittimità, i dirigenti della "terza generazione" non sono nazionalisti ferventi. Lo scacco dei tentativi di rilancio delle industrie nazionali e l'illusione che tutti gli attori siano vincenti nella globalizzazione hanno suscitato un sentimento disfattista che ha provocato l'apparizione di un "compradorismo" culturale. Questo fenomeno è in netto contrasto con il sentimento di orgoglio nazionale profondamente radicato in paesi come la Corea del Sud. Inoltre la crisi socio-politica interna ha raggiunto proporzioni tali che i dirigenti devono anzitutto garantire la stabilità interna e tenere in mano la situazione. Perciò il governo ignora le critiche della sua politica estera da parte dei nazionalisti cinesi e mantiene il riserbo sulle vicende mondiali, e addirittura resta silenzioso su avvenimenti che riguardano i suoi interessi strategici essenziali, vuoi a Taiwan vuoi in Asia centrale, il suo punto vulnerabile sul piano geo-economico. La guerra contro il terrorismo lanciata dagli Stati uniti dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 ha allentato le tensioni tra Pechino e Washington. Tuttavia gli Stati uniti ne hanno approfittato per accelerare l'accerchiamento strategico della Cina. Il persistente rafforzamento della presenza militare americana nell'Asia orientale e il suo arrivo nell'Asia centrale, l'appropriazione de facto dell'isola di Diaoyu da parte del Giappone e il movimento che spinge Taiwan verso l'indipendenza sono altrettanti fattori che compromettono seriamente la sicurezza esterna della Cina e ne minacciano lo sviluppo economico.
Certamente l'Asean, accogliendo l'auspicio formulato vent'anni fa dalla Cina, ha acconsentito a mettere da parte i conflitti territoriali nel mare della Cina meridionale, in nome della cooperazione economica regionale. Ma prevede di trattare le rivendicazioni di sovranità degli uni e degli altri in un quadro multilaterale. Oggi, di fronte all'unilateralismo americano, la Cina tenta di "democratizzare le relazioni internazionali". Ma non può fare marcia indietro e tentare di allinearsi con i paesi in via di sviluppo per opporsi alla politica di potenza dell'Occidente. Poiché soltanto la potenza di un paese, e non la persuasione, può sconfiggere l'attuale monopolio americano, le attese cinesi si riveleranno fatalmente illusorie.
di Massimo Virgilio
attualità |
Globalizzazione. Questa parola è sulla bocca di tutti. Il suo significato ultimo, però, non è ben chiaro. "Più che una parola - sostiene Ulrich Beck - si tratta di una nebbia, di una parola-spettro".
C'è la globalizzazione dei capitali finanziari, mai così liberi di spostarsi con incredibile rapidità da un continente all'altro, da una nazione all'altra, incuranti di barriere e di confini. E "i processi di globalizzazione finanziaria e produttivistica e di mobilità internazionale del lavoro", afferma Alberto Martinelli, "inaugurano un periodo di rapidi cambiamenti, di fluttuazioni, di incertezza".
C'è la globalizzazione delle scienze, dei sistemi di comunicazione e delle tecnologie. Grazie agli enormi progressi realizzati in questi campi nel corso degli ultimi decenni, l'intero pianeta non è altro che un "villaggio globale", per usare la notissima formula di Marshall McLuhan.
C'è la globalizzazione del sistema di produzione capitalista, il quale, considerandosi l'unico capace di donare felicità e prosperità all'umanità, tende ad imporsi a livello planetario. Esso, pur di portare a termine la missione di massimizzare il profitto incrementando a dismisura la produzione e quindi i commerci, non esita a sfruttare senza posa tutte le risorse naturali, compresa la risorsa uomo, fino a depauperarle e in certi casi ad esaurirle, incurante del danno che ciò provoca all'intera popolazione mondiale. "Il futuro dell'umanità - scrive al riguardo Piero Bevilacqua - diventa allora oggetto di discussione scientifica e di divulgazione culturale di massa. L'allarme sociale sulle possibilità di vita nel futuro comincia a insinuarsi come nuova condizione psicologica di una parte crescente dell'umanità".
Il capitalismo postmoderno, per di più, non si limita a fabbricare e vendere per profitto i propri prodotti rispondendo alla domanda dei consumatori. Sono i bisogni stessi ad essere "fabbricati per rispondere alla domanda dei produttori che rendono commerciabili i loro prodotti direttamente, attraverso la promozione, il ricambio, la confezione e la pubblicità. La nuova economia - secondo il professor Benjamin R. Barber - si occupa di beni immateriali e servizi che hanno come destinatari la mente e lo spirito (o che mirano ad annullare la mente e lo spirito)".
Da parte sua il sociologo Ulrich Beck nel volume intitolato"Libertà o capitalismo" distingue nettamente la parola globalizzazione dal termine globalismo. "Chiamo globalismo la dittatura neoliberista del mercato mondiale, che, in particolare nel Terzo mondo, toglie le basi - comunque precarie - dell'autosviluppo democratico. Io invece intendo per globalizzazione non soltanto la globalizzazione economica, ma anche quella politica, sociale e culturale".
La globalizzazione, afferma Agostino Giovagnoli nel suo ultimo saggio dal titolo"Storia e globalizzazione" (Editori Laterza, 260 pagine, 18 euro), si rivela dunque "sfuggente, per la difficoltà di identificarne chiaramente un centro motore, un progetto ispiratore, una coerenza interna".
Se l'essenza della globalizzazione non è ben determinabile, i suoi effetti, pur se molteplici e complessi, sono invece più facilmente identificabili, giacché incidono direttamente sulla vita di ciascuno di noi.
"E' largamente riconosciuta l'importanza degli aspetti economici e finanziari di queste trasformazioni" afferma Giovagnoli. "C'è accordo anche nel riconoscere una serie di conseguenze della globalizzazione, come la spinta ad organizzare le attività economiche su scala mondiale, la crescente importanza della contiguità temporale rispetto alla prossimità spaziale, cui si accompagna l'indebolimento e la ridefinizione dei confini, i condizionamenti delle imprese multinazionali o transnazionali sui Governi, le difficoltà di intervenire sui flussi migratori legati a nuove dinamiche del mercato del lavoro, i problemi per i regimi autoritari nel controllare la circolazione delle informazioni, le difficoltà di convivenza fra persone di culture diverse".
A questo punto, però, l'autore ritiene indispensabile un'ulteriore precisazione. Al contrario di quello che affermano molti "globalizzazione non significa universalizzazione, omogeneizzazione o unificazione delle culture o dei popoli: la parola indica piuttosto che il globale entra ovunque in rapporto con il locale".
Anche in questo caso la consonanza con le teorie di Ulrich Beck è piena. "Globalizzazione non significa affatto ciò che sembra significare - globalizzazione, appunto. Nelle condizioni di un mondo che diventa globale - prosegue il sociologo -, di un mondo nel quale le vecchie ripartizioni e i vecchi confini non reggono più, il luogo acquista una nuova, centrale importanza. Questa concezione dialettica della globalizzazione come glocalizzazione è essenziale. Nello stesso tempo, globalizzazione non significa che i confini vengono cancellati, ma anche che ne vengono tracciati e consolidati di nuovi. I superricchi e i poverissimi possono perfino vivere in stretta vicinanza, gli uni accanto agli altri, separati da corridoi di sicurezza. Africa ed Europa vengono per così dire de-localizzate e rinascono come uno spettrale ermafrodito di città e anticittà in Africa, Europa e altrove".
Se le distanze geografiche si riducono fino, in certi casi, ad annullarsi, le distanze sociali tendono invece a allargarsi. Così, afferma Zygmut Bauman, "piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l'annullamento tecnologico delle distanze spazio-temporali tende a polarizzarla". E' scomparsa
la vecchia contrapposizione fra centro e periferia, ma se n'è creata una nuova tra zone privilegiate e zone emarginate.
Scrive ancora Agostino Giovagnoli: "In un contesto di tendenziale accorpamento degli spazi e di moltiplicazione delle relazioni, è paradossalmente aumentato il senso di una frammentazione dell'umanità in tante identità diverse, spesso in conflitto tra loro e mentre hanno perso vigore tradizionali strumenti di mediazione come la politica. La crescita di tali tendenze appare in contrasto con la tesi di una progressiva omogeneizzazione del mondo sostenuta da molte teorie della modernizzazione e implicita nel paradigma dello sviluppo".
I processi di globalizzazione ignorano in modo sistematico qualsiasi confine politico. Essi però, come sostiene Carlo Formenti in un articolo apparso recentemente sul quotidiano Europa, "non alimentano l'unificazione del pianeta, ma al contrario lo frammentano in aree regionali divise da differenze economiche, culturali e politiche sempre più profonde. Ogni punto del mondo è permanentemente esposto a imprevedibili cortocircuiti fra locale e globale, mentre l'intera popolazione mondiale ha la sensazione di vivere in una situazione in cui può succedere di tutto in ogni momento".
Manuel Castells, che insegna all'università statunitense di Berkley, in un suo intervento sul quotidiano spagnolo El Paìs si dichiara dello stesso parere. "In un mondo globalizzato come il nostro, le persone si aggrappano alla propria identità e la considerano fonte di significato per la propria vita. Più diventa astratto il potere dei flussi globali di capitali, tecnologia e informazione, e più sembra concreta e tangibile l'esperienza condivisa nel territorio, nella storia, nella lingua, nella religione e anche nell'etnia. Nell'era dell'informazione il potere dell'identità non scompare, anzi: si rafforza".
Dunque, secondo Giovagnoli, "l'espansione di un mercato unico internazionale ha paradossalmente esasperato la sensibilità verso le differenze, la crescita dei legami di interdipendenza a livello mondiale ha accentuato le spinte verso la località, nuovi fenomeni economici hanno innestato dinamiche conflittuali tra le diverse identità culturali, il declino degli Stati nazionali ha alimentato la crescita di tensioni etniche. Intanto, la modernizzazione è entrata in conflitto con l'idea di progresso, la diffusione di modelli di benessere generalizzato ha sorprendentemente suscitato rimpianto delle tradizioni, l'estensione a molti paesi di istituzioni democratiche è coincisa con una minor fiducia nella democrazia. E', insomma, cominciato a emergere un mondo nuovo che non si lascia più interpretare con le categorie del passato".
Ecco un altro punto fondamentale del volume di Agostino Giovagnoli. L'ennesima vittima della globalizzazione è proprio la storia, intesa come disciplina che studia l'uomo nel suo procedere sulla strada di un continuo progresso verso mete sempre più ambiziose. La storia come la intendeva Voltaire, secondo il quale essa "comprende l'insieme degli avvenimenti interiori, l'insieme dei mutamenti, attraverso i quali deve passare l'umanità, prima che possa giungere a una vera conoscenza e a una vera coscienza di se stessa". La storia come la intendeva Kant, subordinata a leggi universali e a una logica di progresso. La storia come la intendevano e la intendono i paladini della civiltà occidentale, quale processo di modernizzazione che i paesi europei hanno portato al suo massimo grado e perciò destinato a permeare il mondo intero così da forgiarlo a propria immagine e somiglianza. L'identificazione fra modernizzazione e occidentalizzazione portata avanti da molti intellettuali di parte risulta però "poco consapevole non solo della varietà dei percorsi non occidentali verso la modernità, ma anche della specificità degli itinerari seguiti dalle diverse società europee verso di essa".
Già prima dell'avvento della globalizzazione, però, la fiducia nell'unità della vicenda umana in un'ottica di progresso è venuta meno. I genocidi del XX secolo rappresentano una triste smentita di tutte le ottimistiche teorie che vedono nella storia dell'uomo un continuo e ininterrotto progredire verso forme più alte e più compiute di civiltà.
Con la globalizzazione, poi, la crisi della modernizzazione come interpretazione universale precipita. La frammentazione dell'umanità in tante piccole collettività dotate ciascuna di una propria specifica identità rende, infatti, "sempre più difficile interpretare la storia del mondo secondo una prospettiva unitaria di modernizzazione". Ne consegue che risultano "sempre più inadeguati i modelli esplicativi che tendono a sopravvalutare gli aspetti unitari generali e gli elementi di razionalità sistemica in processi che invece l'osservazione empirica indica come molto frastagliati e tendenzialmente policentrici". "Il mito universale dei razionalismi liberali e marxisti - scrive Castells - è stato smentito dalla storia".
Non siamo lontani dai fondamenti della filosofia politica di Alain de Benoist, dalla sua concezione nominalista del mondo. "Essa - ha scritto lo studioso nel volume intitolato "Le idee a posto" - pone come postulato che le differenze fra le cose, fra gli esseri, fra gli uomini, non sono sommabili - e che è pura convenzione che si può trarre un concetto universale, una categoria generale, da una serie di osservazioni particolari". Contro questo nominalismo combattono tutte le dottrine universaliste, in particolare quelle razionaliste, le quali affermano l'esistenza di "una realtà obiettiva che trae la propria ragion d'essere dall'esistenza di un ordine naturale, di un universo che riflette un progetto intelligente comprensibile per il tramite di una ragione presente nella stessa misura in tutti gli uomini".
La concezione lineare della storia è stata spazzata via dalla globalizzazione. Quest'ultima ha evidenziato l'assurdità e l'irragionevolezza dell'idea di assegnare alla storia un carattere unidimensionale, una necessità e una finalità. Al contrario di quanto si credeva prima dell'avvento del caos tipico del mondo globalizzato la storia non ha un senso, cioè non ha un significato, non va in una precisa direzione.
Nel suo "Storia e globalizzazione" Agostino Giovagnoli sembra dunque fare propria la concezione sferica della storia elaborata da Nietzsche e ripresa da Alain de Benoist. La globalizzazione ci pone di fronte al nonsenso della storia. "La sfera - afferma de Benoist - può in ogni momento rotolare in tutti i sensi. Anche la storia può in ogni momento svolgersi in qualsiasi direzione. La storia non ha un senso: ha solo il senso che le conferiscono coloro che la fanno. E agisce sull'uomo solo in quanto prima di tutto è agita da lui".
di Maria Vittoria Sbordoni
ecuador |
I
risultati di un progetto di cooperazione internazionale nell’Oriente
ecuadoriano per la formazione di tecnici indigeni sui temi della
biodiversità e la valorizzazione delle risorse della foresta.
Il tecnico in camice bianco illustra alla scolaresca in visita al laboratorio il
processo di saponificazione: utilizzando due agitatori magnetici scalda a 40°
l’olio da una parte e dall’altra una miscela di acqua e idrossido di
sodio, poi versa la miscela nell’olio che cambia colore e si solidifica.
Colato in uno stampo, nel giro di pochi giorni il composto diventerà una
saponetta.
Fin qui nulla di strano, se non che il tecnico è lo studente indigeno shuar
Awananch, che l’olio miscelato è quello di hungurahua, estratto dalla bacca
di una palma amazzonica e che ha tutte le caratteristiche del nostro olio
d’oliva, e che il laboratorio della scuola per agrotecnici indigeni si trova a
Macas (provincia di Morona Santiago, Ecuador), in piena foresta.
Per arrivarci ci vogliono almeno otto ore di auto da Quito, tra le Ande e le
cime innevate dei vulcani, lungo la panamericana asfaltata fino a Baños, poi su
tratti sterrati con vista mozzafiato lungo il canyon scavato dal Rio Pastaza. Il
fiume scorre impetuoso verso l’Atlantico e segna il confine della provincia di
quest’Oriente ecuadoriano; lo attraversiamo su un incerto ponte di corde e
tavolette di legno. Dopo altre due ore di sussulti siamo a Macas.
La cittadina vive ai margini del Rio Upano; i ritmi sono lenti, scanditi
dall’alternarsi del sole e della pioggia. La popolazione è composta da indios
e da colonos e vive di agricoltura, allevamento e piccolo commercio; le strade
sono affollate fin da prima mattina oltre che di gente di cani randagi dalle
razze indefinibili per i più incredibili incroci.
Oggi il laboratorio ha aperto le porte alle scuole dell’area per una giornata
di visite e dimostrazioni; centinaia di studenti aspettano pazientemente il loro
turno all’ingresso. Sono accolti e seguiti in tutto il percorso dagli studenti
shuar e achuar che frequentano il corso di agrotecnica presso l’Istituto
salesiano “Sevilla Don Bosco”.
Quando nel 1998 il VIS decise di lanciarsi in quest’avventura, concepita in
ambito salesiano e sostenuta con fondi della Cooperazione italiana, l’idea di
formare tecnici di provenienza indigena per renderli capaci di maneggiare le
risorse forestali a loro vantaggio e in maniera ecocompatibile sembrava un
sogno.
Partivamo da alcune idee di fondo: la considerazione delle enormi potenzialità
- non solo di sviluppo economico, ma anche sociale e culturale – che le
risorse naturali della foresta offrono alle popolazioni locali; l’importanza
della loro valorizzazione, per dare nuove opportunità alle popolazioni
indigene, da sempre detentrici delle conoscenze tradizionali sulla biodiversità;
l’esigenza di ridar loro soggettività, perché siano le stesse popolazioni a
gestire in modo responsabile e conservativo il loro ambiente.
Già 16 studenti indigeni, maschi e femmine, hanno completato il primo ciclo di
formazione biennale (2000 – 2002) e hanno tutti trovato un’occupazione
nell’area; altri 23 – tra cui Awananch - stanno frequentando il secondo
ciclo biennale, che terminerà nell’ottobre 2004.
Il calendario didattico è studiato in modo da far rientrare gli studenti ogni
due mesi in foresta, anche a centinaia di chilometri di distanza oltre le
montagne del Transcutucù, dove svolgono specifici compiti su incarico della
direzione della scuola. Qui mettono in pratica quanto hanno appreso durante il
corso, verificano i problemi produttivi delle loro famiglie e comunità, o
propongono sistemi di coltivazione conservativi e non dannosi per
l’ambiente, o vanno alla ricerca di piante d’uso tradizionale da analizzare
poi in laboratorio per verificarne le possibilità d’utilizzo a scopo
alimentare, curativo o cosmetico.
Per le ricerche più complesse è possibile servirsi del più sofisticato
laboratorio realizzato nell’ambito del progetto presso l’Università
Politecnica Salesiana di Quito, dove si stanno formando tecnici di
livello superiore.
La foresta qui intorno ci si offre in tutto il suo intricato incanto di
orchidee, croton giganti e felci arboree, interrotto a tratti dalle radure
disboscate per l’estrazione di petrolio e di legname pregiato.
Il contrasto ambientale che ne deriva lascia immaginare le prospettive dei
modelli di sviluppo incombenti e i diversi destini della selva e della sua
gente.
Noi continuiamo a credere che sia possibile un’inversione di tendenza in
applicazione dei conclamati principi dello sviluppo sostenibile.
La sfida è che gli uomini e le donne della foresta continuino a viverci traendo
da essa quanto gli occorre, consapevoli e responsabili custodi – per se stessi
e per l’umanità intera - della sua infinita ricchezza e biodiversità.
L’ECUADOR DI GUTIERREZ
La vittoria dell’ex colonnello Lucio Gutierrez alle elezioni presidenziali
del 24 novembre 2002 ha portato ad una svolta storica: dopo cinquecento anni
dalla colonizzazione gli indios hanno avuto incarichi istituzionali. E’ india
la Ministra degli Esteri, Nina Pacari, così come il Ministro
dell’Agricoltura, Luis Macas. E’ questo il modo con cui il nuovo Capo dello
Stato ha ripagato la fiducia concessagli dal partito Pachakutik, che rappresenta
i movimenti indigeni.
L’ex colonnello si è dato cinque obiettivi principali: lotta alla corruzione,
alla povertà, miglioramento della sicurezza interna, aumento della produttività
e della competitività, maggiore efficienza nella politica internazionale.
Nonostante le dichiarazioni, l’applicazione di queste linee direttrici sta
provocando delusione e malcontento. Alcune scelte di politica economica
fondomonetarista, come l’aumento dei prezzi dei combustibili e il conseguente
incremento generalizzato dei prezzi al consumo, hanno provocato un’allarmante
impennata dell’inflazione, passata dallo 0,35% del dicembre 2002 al 2,48% del
gennaio 2003, con una previsione di oltre il 10% su base annua. Se a ciò si
aggiunge la mancanza di una politica di sostegno sociale (sono
praticamente inesistenti i servizi sociali e la sanità pubblica), ben si
comprendono le recenti manifestazioni svoltesi in tutte le grandi città del
Paese contro le misure economiche del governo. Sono in agitazione anche i popoli
indigeni amazzonici contro l’impunità di alcune multinazionali del petrolio
accusate di contaminare la selva.
L'Europa che vorremmo e l'Europa che avremo
di Giovanni Castellani Pastoris
europa |
Roma, 9 giugno 2003
A conclusione dei lavori della Convenzione vorrei provare ad azzardare un primo assessment su quanto si prospetta e se corrisponde a quanto si auspicava.
Quale Europa auspicavamo? Le opzioni erano grosso modo di due generi.
Potevamo optare per un organismo che si limitasse essenzialmente a prestare determinati "servizi" fra cui assicurare sia sempre migliori condizioni di concorrenza (eliminando situazioni distorsive, di privilegio o penalizzanti) sia il rispetto dei diritti fondamentali e di quelli ritenuti necessari allo sviluppo di una società competitivamente civile, la protezione da fatti esterni pregiudizievoli a tali obbiettivi, la gestione di un comune mezzo dei pagamenti (EURO), la gestione di strumenti per il raggiungimento di obbiettivi non raggiungibili singolarmente (dalla protezione dell'ambiente a quella delle frontiere ), ecc.
Come potevamo preferire quella che avevo una volta definito "deriva comunitaria" e cioè la tendenza a progressivamente costituire un "unicum", allargando i settori nei quali si intende operare unitariamente, fra i quali la politica estera e di sicurezza, la politica finanziaria, le regole di convivenza civile (giustizia, affari sociali).
Ritenendo, giustamente, che una scelta di fondo non poteva essere decisa solitariamente dagli esecutivi dei paesi membri, i Capi di Stato e di Governo decisero di affidare ad una Assemblea ampiamente rappresentativa, la Convenzione, di individuare la o le tendenze maggioritarie sull'opzione di fondo e sulle modifiche giuridico strutturali necessarie. A tal fine doveva dare risposta, o risposte, ad un certo numero di quesiti.
Abbiamo visto come la Convenzione, specialmente per scelta del suo Presidente e del Praesidium, abbia proceduto diversamente, attribuendosi il ruolo di una vera e propria Assemblea Costituente. Decisione formalmente assai criticabile, ma che solo l'esito definitivo potrà dire se azzeccata o nefasta.
Scegliendo, in apparenza almeno, la seconda delle due opzioni sopra indicate e superando notevoli contrasti e contraddizioni (di cui si ritrovano ampie tracce nel testo ) il Praesidium aveva predisposto un progetto di Trattato Costituzionale che aveva sollevato veementi critiche del Presidente della Commissione e di molti Paesi membri, sia per gli aspetti istituzionali sia per le modalità decisionali. Critiche, si badi bene, non omogenee, sostenendo alcuni, specialmente Prodi, che non veniva fatto alcun progresso in senso unitario, ed altri che si modificavano in modo eccessivo le prerogative della sovranità degli stati.
Giscard e compagni sono corsi ai ripari, accomodando alcuni, anche importanti, aspetti e presenteranno, con l'anticipato parere contrario del rappresentante governativo spagnolo, la nuova versione di Trattato costituzionale (incluso il Titolo sulle istituzioni) alla plenaria conclusiva dei lavori della Convenzione del 12-14 giugno 2003.
Struttura istituzionale, estensione delle decisioni a maggioranza, ponderazione dei voti sono, naturalmente, gli aspetti più controversi, come messo in rilievo anche dalla stampa.
Per il vero quest'ultima, almeno quella italiana, ha anche molto insistito sulla questione delle comuni radici e della loro registrazione nel Trattato. In realtà, così come è posto, si tratta di un falso problema. Anche se con qualche forzatura per i nostri partners scandinavi e per alcuni dei nuovi stati membri, le radici comuni si possono individuare nell'eredità greco-romana, nel cristianesimo, nell'umanesimo e nell'illuminismo. E queste rimangono indipendentemente dal fatto che figurino o no nel preambolo. La registrazione non serve a farci diversi, ma, eventualmente, a porre dei confini ad eventuali ulteriori allargamenti. Confini a mio avviso più che benvenuti, ma non credo sia questa l'intenzione.
Tornando ai principali aspetti controversi, che sono poi il vero nocciolo del problema, la estensione del voto a maggioranza, di cui la ponderazione dei voti ( i voti non solo si contano ma anche si pesano) è un'appendice, sarà la vera cartina di tornasole della scelta di fondo fra prestazione comune di servizi e deriva comunitaria.
E' evidente che non si può proporre tutto e subito senza dar luogo ad uno choc di rigetto. Occorre prevedere modulazioni nei tempi di applicazione e nella qualità delle varie possibili maggioranze a seconda della natura della materia.
Per una valutazione fondata e non a priori, occorre una approfondita analisi di quanto proposto, non ancora possibile sulla base delle indicazioni generiche rese note ed in assenza di un testo. Ma l'ammucchiata dei si, da parte di appartenenti a scuole di pensiero profondamente diverse, che ci è stata indicata, desta non poche perplessità e giustifica il timore di un "pastrocchio" nel quale la Conferenza Intergovernativa rischia di affondare. E sarebbe la cosa peggiore per l'Italia che sarà chiamata a presiederla.
In materia istituzionale, le indicazioni che circolano ( Presidente del Consiglio Europeo a tempo pieno, Consiglio Europeo, Consiglio dei Ministri, Presidente della Commissione e Commissione, Ministro degli Esteri, Parlamento ) sono sufficienti per farci un'idea dell'assetto e della gerarchia propostici, per nulla tranquillizzante in quanto sovverte gli equilibri e le "dignità" che hanno fino ad ora, positivamente, retto e fatto progredire il processo di integrazione e comporta diverse incongruenze. Vediamo alcuni aspetti specifici che mi sembrano esemplari.
Quella del Presidente del Consiglio Europeo "a tempo pieno" per iniziare.
Se è vero, come è stato detto, che l'Unione è sostanziata dagli Stati membri (tutti in eguale misura) e che gli Stati membri, e non altro, sono la sostanza dell'Unione, il Consiglio Europeo, massima istanza nella quale si riuniscono gli Stati, non può essere "presieduta" da un "estraneo", ma solo "diretto" da uno dei suoi membri.
La "coabitazione" di un Presidente del Consiglio Europeo e di un Presidente della Commissione eletto dal Parlamento comporta, in oltre, problemi potenzialmente dirompenti. Vien qui in mente la battuta di Banfi ( nonno Libero in "un medico in famiglia") che potrebbe essere così parafrasata "un Presidente è troppo" (allo stato attuale degli orientamenti dei più) "e due sono pochi". Perché oltre ad un "primus inter pares" che diriga il Consiglio, occorre anche una figura che rappresenti con il massimo di rango l'Unione verso l'esterno ed abbia altresì il compito di assicurare la coerenza dei lavori dei Consiglio dei Ministri nelle sue varie configurazioni. Figura che non può trarre la sua autorità che dal Consiglio Europeo.
Una vistosa incongruenza mi sembra, in oltre, potersi riscontrare nella inclusione del Presidente della Commissione nel Consiglio Europeo, senza diritto di voto, ovviamente. Un membro quindi di secondo piano, che deve subirne le decisioni, senza possibilità, al limite, di influirvi. In realtà il Presidente della Commissione non è un membro ma "l'interlocutore" del Consiglio, nella sua veste di presidente dell'istituzione "guardiana dei trattati" e cui è dato il diritto esclusivo di proposta, almeno sulle materie così dette "comunitarie".
Altre e più approfondite considerazioni quando avremo il nuovo testo definitivo.
19/07/2003
Una breve postilla a quanto scritto all'inizio di giugno, sotto il titolo "L'Europa che vorremmo e l'Europa che avremo", alla luce del documento finale dei lavori della Convenzione consegnato alla Presidenza Italiana.
240 pagine, 450 articoli, queste le misure del progetto di costituzione europea messo a punto dalla Convenzione. Se Giscard e soci fossero stati remunerati a cottimo non avrebbero potuto fare di più. Pensare che al Buon Dio bastarono dieci brevi comandamenti per dettare a Mosé le regole che da tre millenni e mezzo regolano il comportamento dei Suoi figli. Ma, per l’appunto, erano dettati e non negoziati (la concertazione non era una esigenza per il Creatore) e si indirizzavano agli esseri umani, soggetti tutto sommato abbastanza elementari e lineari rispetto a quel combinato di paranoia e schizofrenia che sono gli Stati, in particolare quelli europei.
Pur con queste attenuanti, il progetto di Costituzione si presenta un po’ abbondante e non proprio l’optimum per rendere l’Unione più comprensibile ai cittadini e, quindi, i cittadini più vicini all’Unione. Che era poi uno degli obbiettivi che ci si era posti a Laeken insieme a quello di semplificare la produzione legislativa. Ora se questa è la Carta Fondamentale, cioè dei principi generali che devono reggere l’Unione, non è difficile immaginare quello che sarà la futura produzione legislativa ordinaria europea. Un avvenire radioso per giudici, avvocati generali, patrocinanti e lobbysti alla Corte di Giustizia di Lussemburgo.