OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB

NUMERO 3/2002

IL VISIONARIO DI YALE di Domenco Catera

L'ARMA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE di Massimo Virgilio

VERDUN 1916: APOCALISSE DI FUOCO di Domenico Catera

Gli Stati Uniti fra hard power e soft power di Massimo Virgilio

sicurezza, sovranità alimentare e biodiversità di Vandana Shiva

LA CATTIVA GLOBALIZZAZIONE DEL FMI di Massimo Virgilio

IL VISIONARIO DI YALE

di Domenico Catera

ECONOMIA

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Chi è James Tobin? Pochi lo sapranno, ma forse alcuni avranno sentito parlare della Tobin Tax o tassa sulle transazioni valutarie.

La liberalizzazione dei mercati finanziari ha portato ad una crescita abnorme dell'economia finanziaria rispetto all'economia reale (il rapporto è di 80 a uno!). Ogni giorno sui mercati internazionali dei cambi vengono effettuati scambi che ammontano a circa 1800 miliardi di dollari, di cui più del 95% è collegato ad una attività cui il fine ultimo è di natura speculativa.

Questo genera un forte clima di incertezza economica e di instabilità, di cui le recenti crisi finanziarie e monetarie internazionali sono solo l'ultimo capitolo. È urgente che i governi nazionali in collaborazione con gli organismi economici-finanziari internazionali tipo FMI e Banca Mondiale introducano meccanismi di controllo di fenomeni deleteri come la speculazione, promuovano crescita e stabilità economica e distribuiscano in maniera più equa il gettito fiscale. Una misura che può essere considerata come un primo, ma importante passo verso una riforma globale del sistema finanziario internazionale è un'imposta del tipo Tobin. Si tratta di un prelievo limitato, pari allo 0,1-0,5% da applicare a tutte le transazioni valutarie. Un'aliquota così bassa non disincentiverebbe gli investimenti produttivi e di medio-lungo periodo, mentre renderebbe più costosi quelli speculativi e di breve periodo, contribuendo a disincentivarli. Secondo una stima prudente, attraverso questa tassa, si potrebbero raccogliere tra i 90 e i 100 miliardi di dollari l'anno, una cifra che corrisponde al doppio di quanto viene oggi destinato alla cooperazione allo sviluppo. Il gettito sarebbe raccolto a livello nazionale dalle Banche Centrali che ne tratterrebbero fino all'80% per attività nazionali (servizi sociali, programmi per l'occupazione), destinando poi il restante 20% per attività internazionali tipo cooperazione, tutela ambientale, sviluppo eco-sostenibile ed altro ancora.

Una tale tassa svolgerebbe una funzione deterrente per gli investitori con orizzonti temporali molto brevi, senza danneggiare gli operatori economici che pianificano investimenti di lungo periodo. Scoraggiare le transazioni di breve periodo porta ad una maggior stabilità nei mercati finanziari e dei cambi.

Inoltre, l'introduzione di una tassazione sui movimenti di capitale, ha come effetto indotto una maggior trasparenza delle operazioni finanziarie, soprattutto di quelle speculative a breve termine, e questo è il motivo dello scarso seguito ottenuto finora da tale proposta formulata già nel lontano 1972 da un visionario professore di Yale il cui nome è James Tobin. 

L’ARMA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

di Massimo Virgilio

attualità

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Siamo forse alla vigilia di una nuova guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein ? E’ ancora presto per dare una risposta certa a questa domanda.

Ostacolati dal rifiuto dei tradizionali alleati occidentali di dar vita ad un conflitto armato senza il preventivo beneplacito dell’Onu e trovando su questa stessa linea anche altre importanti nazioni quali la Russia e la Cina, gli Stati Uniti, che in un primo momento avevano dato l’impressione di volere agire in fretta e a tutti i costi, anche unilateralmente, si sono visti costretti a rallentare notevolmente la loro marcia verso l’attacco anti- iracheno, fortemente voluto dai falchi di Washington e dalla stesso presidente Gorge W. Bush.

Dunque la politica del buon senso, che vuole dare una soluzione diplomatica ai problemi USA/Iraq, ha prevalso sul desiderio di rovesciare con la forza e con la violenza l’attuale regime iracheno? Purtroppo a questa domanda una risposta certa la si può invece dare sin d’ora: no. Le colombe americane, infatti, hanno vinto una battaglia, ma i falchi sono destinati a vincere l’intera guerra. Quello che Bush ha rivolto alle Nazioni Unite è un vero e proprio ultimatum. L’Onu deve imporre a Saddam Hussein articolati e approfonditi controlli da parte degli ispettori internazionali. E il leader iracheno deve accettare tali controlli. Nel caso in cui queste due condizioni non dovessero realizzarsi in tempi brevissimi gli Stati Uniti d’America non esiteranno ad intervenire unilateralmente contro l’Iraq.

Anche in questa occasione le Nazioni Unite non sono riuscite ad avere un ruolo proprio, una volontà propria e l’autorità d’imporre alle parti in causa le proprie risoluzioni. La loro assoluta dipendenza dall’unica potenza globale attualmente operante sul globo terrestre è nuovamente emersa in tutta la sua triste evidenza. Il loro ennesimo fallimento è sotto gli occhi di tutti.

Al contrario, ottenere la copertura Onu all’assalto contro lo stato iracheno è stato senz’altro un successo per George W. Bush. Muovendo guerra a Saddam Hussein dietro le insegne delle Nazioni Unite molti governi che in caso di attacco unilaterale USA non avrebbero avuto modo di giustificare nei confronti delle proprie popolazioni una loro partecipazione al conflitto si troveranno invece così completamente legittimati a dar man forte all’Onu al fianco degli Stati Uniti.

Tutto questo segna la fine del diritto internazionale? Certo è che così facendo si dimostra l’assoluta relatività delle sue norme. Invece di essere valido nei confronti di tutte le nazioni del mondo esso viene piegato alle necessità del più forte. E nelle mani di quest’ultimo diventa un’altra arma, oltre a quelle più tradizionali, da usare contro gli avversari. Un’arma micidiale, devastante quanto e forse più di una bomba intelligente.

VERDUN 1916: APOCALISSE DI FUOCO

di Domenico Catera

storia

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Per il soldato che montava di guardia di notte nelle trincee che correvano lungo il fronte occidentale i bagliori intermittenti che intravedeva in lontananza non dovevano costituire una visione confortante; infatti essi significavano la presenza di pezzi artiglieria in un numero tale mai visto prima.

Invero la Prima guerra mondiale fu essenzialmente una guerra di artiglierie: in tutte le battaglie che vi furono combattute l'artiglieria ha dominato incontrastata il campo di battaglia; ed è nella battaglia di Verdun del 1916 che essa sprigionò tutta la sua massima forza distruttrice. Dal 1915 il conflitto sul fronte occidentale era entrato in una fase di stallo e nessuno dei contendenti era in grado di romperlo, fino a quando il generale tedesco Erich von Falkenhayn non concepì l'idea di una "zona di annientamento" in cui attrarre l'esercito francese: nel settore di Verdun l'esercito tedesco avrebbe condotto delle puntate offensive in modo da attrarre in zona forze francesi sempre più numerose per poi farle distruggere un poco alla volta dall'artiglieria tedesca in una zona di annientamento appositamente prescelta allo scopo. Il piano di Falkenhayn era semplice nella logica, ma come poi effettivamente si svolsero gli avvenimenti ci fa supporre che i sottoposti del generale e lo stesso stato maggiore di Berlino non avessero ben chiaro il concetto di attacchi limitati e, con il procedere della battaglia le forze tedesche impiegate in combattimento crebbero sempre più di numero fino a livellarsi alle forze francesi, ma con il progressivo crescere delle divisioni impiegate da entrambi i contendenti i risultati bellici ottenuti furono nulli. La battaglia che ne seguì fu una carneficina di dimensione mai vista a quella epoca: nel massacro di Verdun le vittime ufficiali (tra morti e feriti) francesi furono pari a 377.231 unità, ma il loro numero reale fu probabilmente attorno a 542.000 soldati, mentre quelle tedesche dovrebbero aggirarsi sulle 434.000 unità. Questo olocausto di vite umane fu provocato in massima parte dalla sola forza distruttrice dell'artiglieria; migliaia di soldati morirono spazzati via dal suo fuoco senza aver avuto la possibilità di vedere il nemico contro cui combattevano. Secondo alcune fonti i proiettili che furono esplosi da parte francese ammontarono a circa 15 milioni mentre i tedeschi spararono all'incirca 22 milioni di proiettili. Il risultato più immediato di questa battaglia, che ossessionò le menti di milioni di soldati e che stroncò la vita di migliaia di giovani combattenti, fu il passare di mano di pochi metri di terreno sconvolto dalle continue esplosioni, mentre quello finale non lo potremo mai quantificare, ma solo leggerlo sui volti e negli occhi di quei uomini che alla battaglia parteciparono.

Gli Stati Uniti fra hard power e soft power

di Massimo Virgilio

recensioni

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Al pari di molti suoi connazionali anche Joseph S. Nye jr, già capo del National Intelligence Council e sottosegretario alla Difesa nel corso della presidenza Clinton, non riesce a resistere alla tentazione di paragonare l’attuale strapotere degli Usa ai fasti di cui godette per lunghissimo tempo l’impero romano. Il suo ultimo saggio, intitolato “Il paradosso del potere americano” (Einaudi, 262 pagine, 16,50 euro), si apre infatti con la presa di coscienza  che “è dai tempi di Roma che una nazione non sovrasta così le altre”.

Dunque se “gli Stati Uniti sono indubbiamente la prima potenza al mondo” quale preoccupazione potrebbe tormentare l’animo dei suoi cittadini? Certo non quella di dar noia, nel sostenere il ruolo di primi attori a livello globale, alle altre nazioni del mondo. E allora perché gli americani, e Nye con loro, sono così turbati? La risposta a questa domanda arriva subito, nella prima pagina: “quanto durerà questa situazione?”.

Ecco il punto. Il libro di Nye ruota tutto intorno a tale questione. Non è altro che l’analisi di quali dovrebbero essere i comportamenti, a livello interno e internazionale, adottando i quali gli Stati Uniti d’America si garantirebbero per un lasso di tempo assai lungo l’attuale supremazia sul resto del pianeta.

“A mio parere, - scrive l’autore – in questo secolo la superiorità degli Stati Uniti durerà a lungo, ma solo se impareremo a usare la forza con saggezza”. Tale richiamo non è fatto in nome del diritto internazionale, di quello all’autodeterminazione dei popoli,  del rispetto dei diritti umani. Tutto ciò non ha alcuna rilevanza. Quello che conta veramente è il fatto che un uso smodato della forza potrebbe portare più minacce che benefici agli interessi americani. Dunque, solamente “attraverso un’attenta analisi, possiamo prendere le decisioni più opportune su come proteggere la nostra gente, promuovere i nostri valori”.

L’America ha il potere perché sua “è la capacità di realizzare ciò che desidera e se necessario di cambiare il comportamento altrui per far sì che ciò si verifichi”. Ha tutte le carte in regola per ottenere ciò che vuole: “una quantità relativamente grande di elementi quali popolazione, territorio, risorse naturali, economia forte, potenziale bellico e stabilità politica”. L’unico problema è rappresentato dal fatto che potrebbe giocare male le sue carte alte: “se si gioca male o ci si lascia ingannare dai bluff,  si può ancora perdere, o perlomeno non raggiungere ciò che si vuole”.

A parere di Joseph S. Nye jr giocare male le proprie carte significa per gli Usa adottare decisioni di politica internazionale che si fondino prevalentemente sull’hard power.”Il potere militare e quello economico sono entrambi esempi di hard power che può essere impiegato” per piegare gli altri al proprio volere. “L’hard power si può basare sulla minaccia (il bastone) o sull’induzione (la carota)”.

Tuttavia un suo uso eccessivo può indurre gli altri popoli e gli altri paesi a vedere negli Stati Uniti non tanto un competitore con il quale confrontarsi civilmente quanto un oppressore egoista e prepotente con il quale scontrarsi violentemente. La qual cosa metterebbe in serio pericolo i principali interessi americani in patria e nel mondo: la sicurezza dei propri cittadini, quella del proprio territorio, la prosperità delle proprie imprese, la diffusione della propria cultura e di propri valori.

Ma allora come fare a garantire all’America lunghi decenni di predominio sul globo terrestre? Nye ha pronta la sua ricetta: oltre all’hard power, “se gli Stati Uniti vogliono rimanere forti devono necessariamente prestare attenzione anche al proprio soft power”. Quest’ultimo non è altro che la capacità di plasmare le preferenze altrui, inducendo gli altri a volere quello che noi vogliamo e a rifiutare quello che noi rifiutiamo. “Esiste anche un modo indiretto - scrive al riguardo l’autore – di esercitare il potere. Un paese può raggiungere i propri intenti in politica internazionale perché gli altri stati vogliono seguirlo, stimandone i valori, emulandone il comportamento e aspirando ai suoi livelli di prosperità e apertura. In questo senso, è tanto importante stabilire le priorità in politica internazionale e attrarre gli altri, quanto forzarli a cambiare con minacce o con l’impiego di armi militari ed economiche. Questo aspetto del potere, indurre gli altri a volere ciò che tu vuoi, è ciò che definisco soft power. Il soft power fa scegliere le persone invece che costringerle”.

Ecco l’altro punto essenziale dell’intero volume. Gli interessi statunitensi vengono prima di tutto e di tutti. Se per difendere, affermare e rafforzare tali interessi usare bombe intelligenti è meno costruttivo che ergersi a paladini dei diritti umani, difensori della natura contro l’inquinamento, protettori dei poveri e delle minoranze, tutori della pace,  allora abbandoniamo ogni unilateralismo e abbracciamo la fede nel multilateralismo!

Ad alcuni quello che scrive Nye potrà sembrare sensato, saggio, utile e benefico. Ma a ben guardare non è affatto così. Quelli che sono i valori fondanti del vivere civile, la pace, la tolleranza, il rispetto per gli altri, la generosità, l’altruismo, vengono trattati dall’autore non per quello che sono bensì  quali meri strumenti per meglio raggiungere gli scopi e gli obiettivi che gli americani si sono prefissati. Proprio al pari di quelle bombe intelligenti il cui uso, apparentemente, Nye non ritiene auspicabile. E in tutto questo non c’è proprio nulla di sensato, di saggio, di utile o di benefico. In tutto questo c’è piuttosto tanto squallore. 

sicurezza, sovranità alimentare e biodiversità

di Vandana Shiva

intervista

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A cura di Maria Vittoria Sbordoni

 

Vandana Shiva, indiana, ex fisico nucleare, attiva dal 1980 sui problemi dell’ambiente e della condizione femminile, è presidente dell’associazione scientifica indiana Navdanya e del movimento internazionale DWD, Diverse Women for Diversity, ma è soprattutto la leader internazionalmente indiscussa e riconosciuta dei movimenti che si battono per la tutela della biodiversità.

Nell’ambito del Forum delle Ong sulla sovranità alimentare (1) parallelo al Vertice della FAO che si è tenuto a Roma nel giugno 2002, Vandana Shiva ha tenuto un Seminario  su Donne e Biodiversità.

Al termine del Seminario, Maria Vittoria Sbordoni, responsabile del Settore Progetti della ONG VIS – Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, ha intervistato Vandana Shiva chiedendole di sintetizzare il suo pensiero sul rapporto tra  sicurezza, sovranità alimentare e biodiversità.

 

MVS. Il Vertice della FAO ha richiamato l’attenzione mondiale sul dramma della fame e della malnutrizione, dandosi l’obiettivo di dimezzare gli affamati nel mondo entro il 2015. Come giudichi i risultati del Summit  di Roma?

 

V.S. Come hai potuto vedere non c’è alcun impegno a varare un codice internazionale di condotta che renda effettivo il diritto al cibo, così come richiesto dal Forum della società civile, ma solo l’approvazione della nascita di un comitato intergovernativo al quale saranno invitate tutte le parti interessate, comprese le Ong, con la funzione di elaborare e presentare alla FAO, entro due anni, alcune linee guida sul diritto all’alimentazione. Il risultato è il rischio di perpetuare gli errori fatti nel passato, dopo il vertice del 1996, scegliendo politiche che incentivano la fame nel mondo dietro la pretesa  liberalizzazione economica. Dietro al Vertice ci sono i governi, non i popoli che democraticamente dovrebbero rappresentare. Si continua a sostenere la teoria secondo cui i Paesi poveri, in cui l’insicurezza alimentare è più forte, avrebbero vantaggi da una politica agricola orientata alle esportazioni di materie prime agroalimentari. Non è stata accettata la moratoria sugli organismi geneticamente modificati, richiesta dal Forum delle Ong, eppure è dimostrato che le biotecnologie non portano maggiore qualità, soltanto nuovi rischi. Non si è puntato il dito sulle vere cause della fame, sull’iniquità dell’attuale modello agroindustriale. Come sostiene il documento finale del nostro Forum, l’unica via di uscita è assicurare la sovranità alimentare, cioè il diritto dei popoli ad autodefinire la propria agricoltura e le proprie politiche produttive. Questo significa riconoscere prezzi di favore ai piccoli produttori, accesso all’acqua, abbattimento della concentrazione della proprietà, riconoscimento del ruolo delle donne, investimenti pubblici in favore dei piccoli produttori. Servono riforme agrarie, l’esclusione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dalle politiche agricole, una moratoria sugli ogm.

 

MVS. A proposito di ogm, molti sostengono che le biotecnologie possano aiutare l’agricoltura dei Paesi in via di sviluppo, incrementando la produzione di cibo in funzione dell’aumento della popolazione. Come vedi il nesso tra ogm e sovranità alimentare?

 

V.S. I brevetti in agricoltura e nella produzione alimentare comportano la proprietà delle forme di vita e dei processi vitali. La proprietà monopolistica della vita può rappresentare  tuttavia una fonte di crisi senza precedenti nella sicurezza agricola e alimentare, in quanto trasforma le risorse biologiche da beni comunitari in merci. Dà origine anche a una crisi dei valori e dei fini che presiedono all’organizzazione sociale, al cambiamento tecnologico e alla definizione delle priorità. I dibattiti sullo sviluppo hanno evidenziato che lo sviluppo non è una categoria neutra. Lo sviluppo di alcuni – e in questo caso delle multinazionali  occidentali - significa il sottosviluppo di molti altri. La pretesa delle multinazionali di trasformare in merce il patrimonio comune del genere umano e di trattare come diritti di proprietà i profitti derivanti da questa trasformazione, deteriora non solo il tessuto etico e culturale, ma anche il livello economico degli agricoltori del Terzo Mondo. Questo è soprattutto vero per quanto riguarda le sementi. Seminare del grano raccolto per riprodurre una varietà vegetale è uno dei principi fondanti dell’agricoltura. Riprodursi, moltiplicarsi è una proprietà fondamentale del vivente. Le sementi brevettate fanno invece del contadino un ostaggio o un pirata se non si sottopone alla proibizione di non riseminare il grano raccolto…Il sistema attuale dei brevetti fa sopportare al contribuente e al produttore il costo della propria espropriazione. Geni, specie vegetali e animali fanno parte di un patrimonio comune che non si può lasciar brevettare, vendere e depredare: sempre di più, società transnazionali si vedono accordare brevetti su vegetali, animali o derivati, scoperti (e non inventati!) per lo più nei Paesi in via di sviluppo impedendo di fatto a questi Paesi di proteggersi e di sviluppare le loro conoscenze tradizionali, le loro ricerche e le loro risorse biologiche. Questo alimenta l’insicurezza alimentare. L’uso delle biotecnologie non riuscirà a sfamare i poveri del mondo, ma, al contrario, consentirà alle multinazionali di aumentare il loro controllo sui prezzi e sui prodotti, attraverso lo strumento dei brevetti e il controllo del mercato mondiale delle sementi. Senza contare i rischi che gli alimenti geneticamente modificati hanno sulla salute, producendo asma ed allergie. Anche nei vostri Paesi sta nascendo una forte opposizione al cibo ogm, se l’opinione pubblica è contraria, non lo vuole consumare, è destinato a non avere mercato! Il rischio è che la produzione eccedente di cibo transgenico rifiutato al Nord vada a finire negli aiuti alimentari internazionali… 

 

MVS. Nella giornata d’apertura del Vertice è stato promesso di elevare all’1 per cento del Prodotto Interno Lordo dei Paesi industrializzati i fondi per l’aiuto allo sviluppo, come  strumento per combattere la fame. Pensi che sia sufficiente investire in risorse finanziarie per risolvere il problema della fame nel mondo?

 

V.S. Ci sono grandi responsabilità per quanto riguarda la sicurezza alimentare nelle politiche governative di aiuto allo sviluppo, il problema della fame non si può ridurre a una questione di sostegno finanziario. L’obiettivo dichiarato dal Vertice è di raggiungere la sicurezza alimentare universale entro il 2010 sradicando fame e malnutrizione; ma i documenti tecnici dimostrano che questa finalità sarà perseguita ancora attraverso l’industrializzazione e il commercio internazionale degli alimenti. Il cibo verrà prodotto dove il lavoro costa meno e le protezioni ambientali sono più fragili. I mercati dei Paesi in via di sviluppo saranno invasi da prodotti a prezzo inferiore ai loro costi di produzione. Prevediamo che i risultati saranno devastanti: scomparsa su larga scala dei piccoli agricoltori, fine dell’autosufficienza alimentare, sviluppo della monocoltura, manipolazione genetica degli alimenti, perdita della biodiversità e della sostenibilità ecologica. Le popolazioni rurali impoverite, spiazzate da questa politica agricola mondiale, finiscono per divenire membri marginali della società nelle metropoli sovraffollate, senza lavoro, speranza e cibo. Si alimenta in questo modo il circolo vizioso della povertà, che genera la dipendenza di molti Paesi poveri dagli aiuti alimentari esterni, spesso veicolo di trasmissione degli ogm. In caso di crisi poi arrivano il FMI  e la Banca Mondiale con le loro ricette di aggiustamento strutturale, con il risultato di togliere i sussidi sociali alle classi più povere vanificando il loro diritto alla sicurezza alimentare. Spesso con i fondi degli aiuti allo sviluppo sono sostenute le multinazionali per le loro attività di ricerca al Sud sui cibi transgenici, invece di aiutare i piccoli agricoltori, realizzare la riforma agraria e favorire l’accesso alle terre incolte da parte dei contadini, che invece sono costretti ad emigrare abbandonando le loro terre.  L’esclusione sociale, soprattutto nelle aree rurali, è la principale causa della fame e della malnutrizione. Il caso dell’Argentina, uno dei più grandi esportatori di cereali al mondo, è lampante: non riesce a garantire il cibo ai suoi abitanti…

 

MVS. Tra le alternative presentate a questo Forum, si parla di approcci locali a un problema globale come quello della sicurezza alimentare. Come è possibile secondo te coniugare questi aspetti?

 

V.S. Esistono esperienze locali molto positive che mostrano la possibilità di realizzare un’agricoltura realmente migliore, ambientalmente sostenibile, rispettosa delle culture e tradizioni locali, capace di garantire prodotti sani e tracciabili, ma tutto questo richiede modifiche determinanti nelle politiche nazionali e internazionali del commercio, nell’uso delle tecnologie e dei diritti di proprietà intellettuale. In concreto, è necessario investire nella localizzazione più che nella globalizzazione, nella sicurezza alimentare locale più che nell’esportazione, nel garantire la qualità ai cittadini – produttori e consumatori – più che agli interessi corporativi del commercio. L’uso delle tecnologie deve mirare, per l’alimentazione, a soluzioni basate sulla tutela e valorizzazione della biodiversità, piuttosto che sull’incremento degli organismi geneticamente modificati. L’uso privatistico dei beni, dei semi, delle terre e dell’acqua deve essere abolito. La parola d’ordine deve essere  quella di creare reti locali per sostenere la produzione di cibo locale, di mantenere il rispetto dell’integrità della natura e delle sue specie, di avere una visione dell’uomo come parte della natura e non come suo padrone, di tutelare la biodiversità nella produzione e nel consumo. Non illudiamoci: la sicurezza alimentare per tutti non è possibile all’interno di un sistema di mercato mondiale basato su dogmi di libero commercio come crescita permanente, vantaggi comparati, competizione e massimizzazione del profitto.

 

MVS. Sulla base della tua esperienza diretta, puoi descriverci quale ruolo stanno attivamente rivendicando le donne nel mondo sul tema della sicurezza alimentare?

 

V.S. Vedi, per migliaia di anni le donne hanno prodotto il loro cibo e garantito la sicurezza alimentare ai loro bambini e alle loro comunità. Ancora oggi in Africa l’80% del lavoro necessario alla produzione alimentare interna è svolto dalle donne, in Asia per il 50-60% e in America Latina per il 30-40%. E dovunque nel mondo le donne sono responsabili per la sicurezza alimentare a livello familiare. Eppure l’attuale modello di produzione agroalimentare esterno e intensivo, impoverendo sempre di più le popolazioni rurali, spinge ai margini proprio le donne. Ti sembra possibile che il 70% delle persone che soffrono la fame vivano in aree rurali? Che l’80% dei bambini denutriti viva in paesi che producono surplus alimentari? Questa tendenza minaccia la sicurezza alimentare anche nei vostri paesi, dove l’azienda agricola familiare è stata rapidamente rimpiazzata con l’agrobusiness chimico e intensivo. I consumatori sono divenuti potenziali ostaggi di poche multinazionali specializzate nel trattamento e nella commercializzazione degli alimenti. Al momento del consumo, anello finale della catena alimentare globale, le donne come casalinghe non possono più garantirsi la possibilità di dare alle proprie famiglie un’alimentazione sana. Per questo le donne si stanno mobilitando in molti paesi per uscire dalla loro invisibilità su queste materie, per costruire alternative capaci di garantire la sicurezza del cibo, basate su principi e metodi diversi da quelli che regolano l’economia dominante orientata al profitto. Le donne nelle comunità indigene stanno lottando contro l’espropriazione della terra; le donne nell’agricoltura orientata all’esportazione stanno  opponendosi all’uso di prodotti chimici a rischio. Queste donne hanno il sostegno delle donne del Nord che stanno organizzando il boicottaggio di molti prodotti importati dal Sud. C’è bisogno di riappropriarsi dal basso di queste tematiche, noi donne possiamo e dobbiamo farlo, dobbiamo sapere cosa fa bene a me e alla mia famiglia, non delegando ai governi scelte che incidono sul presente e sul futuro di noi stessi e dell’umanità intera.

 

Note:

1. Il Forum delle ONG ha affermato lo slogan: La fame non è solo questione di mezzi ma di diritti. I 2.000 delegati provenienti da Ong di tutto il mondo e riuniti al Palazzo dei Congressi di Roma hanno respinto la dichiarazione finale del Summit internazionale di Roma, affermando che la fame non nasce dalla scarsità complessiva di risorse ma dall’iniquità dell’attuale modello di sviluppo agricolo mondiale.

LA CATTIVA GLOBALIZZAZIONE DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONA

di Massimo Virgilio

recensioni

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Di voci contro la globalizzazione, considerata nel suo insieme o solamente nei suoi aspetti più negativi, in questi ultimi anni se ne sono levate molte. Mai nessuna però, fino ad ora, era venuta da un’esponente autorevole e importante delle stesse istituzioni internazionali preposte alla realizzazione delle politiche del Washington Consensus. Oggi questo vuoto è stato colmato da Joseph E. Stiglitz e dal suo saggio intitolato La globalizzazione e i suoi oppositori”(Einaudi, 275 pagine, 19 euro). Professore di economia alla Columbia University, è l’autore a presentarsi ai lettori nelle primissime pagine del suo libro: “Nel 1993 ho lasciato il mondo accademico per entrare nel Consiglio dei consulenti economici sotto la presidenza di Bill Clinton. Nel 1997 sono passato alla Banca mondiale dove ho rivestito i ruoli di chief economist e senior vice president fino al gennaio 2000”. Ricoprendo queste prestigiose cariche Stiglitz ha avuto l’opportunità di vivere personalmente almeno due degli episodi più importanti della recente fase della globalizzazione: “Mi trovavo alla Casa Bianca mentre la Russia passava dal comunismo all’economia di mercato e lavoravo alla Banca mondiale durante la crisi finanziaria che cominciò nell’Est asiatico nel 1997 per poi estendersi al resto del mondo”. A coronamento di una carriera eccezionale nel 2001 l’autore è stato insignito del Premio Nobel per l’economia.

Ma perché dedicare un volume intero alla globalizzazione e al ruolo negativo che al suo interno, almeno fino ad ora, ha svolto il Fmi? La risposta va cercata nel fatto che ciò che lo scrittore ha visto nel corso dei due episodi sopra ricordati ha “modificato radicalmente” le sue precedenti opinioni sia sulla globalizzazione sia sullo sviluppo: “La ragione per cui ho scritto questo libro è che ho preso atto in prima persona degli effetti devastanti che la globalizzazione può avere sui paesi in via di sviluppo e, in particolare, sui poveri che vi abitano”.

Attenzione, però. Ciò che l’economista critica non è la globalizzazione in sé. Egli infatti ritiene che quest’ultima, “ossia l’eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione tra le economie nazionali, possa essere una forza positiva e abbia tutte le potenzialità per arricchire chiunque nel mondo, in particolare i poveri”. Quello che va profondamente ripensato è invece il modo in cui essa viene gestita, gli accordi commerciali internazionali tesi a eliminare quelle barriere, “le politiche che sono state imposte ai paesi in via di sviluppo durante il processo di globalizzazione”.

Nei suoi sette anni trascorsi a Washington lo scrittore ha preso coscienza del fatto che le istituzioni economiche internazionali anziché considerare i fatti in modo spassionato, soppesando attentamente gli elementi a disposizione e vagliandoli con sistemi scientifici e non ideologici, spesso hanno tentato di dare una soluzione ai problemi sollevati dalla globalizzazione proprio sulla base dell’ideologia o della politica. “Di conseguenza, sono stati stabiliti interventi sbagliati che, invece di risolvere il problema, favorivano chi aveva in mano il potere”. E qui non manca un aspro richiamo nei confronti di quegli accademici che nel fornire le loro consulenze in materie politiche “diventano essi stessi politicizzati al punto di forzare la mano alle teorie pur di adattarle alle idee di chi è al potere”.

Dunque il Fmi nei suoi interventi opera seguendo una precisa ideologia anziché le leggi dell’economia. Ma qual’è questa ideologia? E’ quella del Washington Consensus. Elaborata negli anni Ottanta per far fronte ai problemi dell’America Latina, i suoi pilastri sono l’austerità, le privatizzazioni e la liberalizzazione dei mercati. Stiglitz non ritiene queste politiche negative in quanto tali, ma afferma in modo categorico che esse lo diventano quando chi è preposto ad applicarle, cioè il Fmi, lo fa senza tenere in alcun conto ciò che differenzia una situazione dall’altra e senza valutare con la giusta attenzione i modi e i tempi della loro applicazione. “Il problema è – scrive l’autore – che queste politiche sono diventate un fine in sé e non più un mezzo per ottenere una crescita più equa e sostenibile. Così facendo, queste politiche sono state spinte troppo oltre e forzate nei tempi d’esecuzione, a discapito di altre politiche che sarebbero state necessarie”.

In tal modo gli effetti delle politiche messe in atto dal Fmi spesso sono stati completamente diversi da quelli auspicati. Perseguendo ostinatamente gli obiettivi della privatizzazione, dell’austerità e della liberalizzazione il Fmi ha imposto “costi effettivi estremamente onerosi” a innumerevoli paesi e a milioni e milioni di persone che non erano in grado di affrontarli. “Fra tutti gli sbagli grossolani commessi dal Fmi, gli errori che riguardano i tempi e la sequenza degli interventi e l’incapacità di dimostrarsi sensibile al contesto sociale in senso lato” sono forse quelli più rimarchevoli.

Ciò che affligge gli esponenti del Fmi è una grave forma di “ignoranza dei processi politici ed economici” internazionali, affiancata da un vero e proprio “fondamentalismo del mercato”.Questi signori sono i paladini dell’ideologia neoliberista . Essi affermano che la mano invisibile delle forze di mercato, vale a dire dell’interesse personale, è perfettamente in grado di condurre l’economia sulla via dell’efficienza collettiva. E in base a questa affermazione prendono le loro decisioni e le impongono a nazioni e popoli. Peccato però che scoperte recenti della teoria economica “hanno dimostrato che ogniqualvolta l’informazione è imperfetta e i mercati sono incompleti, vale a dire sempre, e in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, la famosa mano invisibile opera in maniera quanto mai imperfetta. E’ significativo sottolineare come esistano interventi governativi auspicabili che, in linea di principio, possono migliorare l’efficienza del mercato”. Ecco un altro punto importante del libro di Stiglitz: le teorie neoliberiste, basate sul fondamentalismo del mercato e propugnatrici dell’idea del laissez-faire in economia, sono fallaci e come tali devono essere respinte. Quello che invece va a tutti i costi ricercato è “il giusto equilibrio tra regolamentazione e libero mercato”. Non è vero che non c’è bisogno del governo perché i liberi mercati, senza controlli e vincoli, funzionano in modo perfetto. E’ vero piuttosto il contrario: i mercati sono sempre incompleti e quindi è sempre necessario un certo grado di intervento da parte del governo. Infatti “molte delle principali attività di un governo possono essere considerate delle risposte alle relative imperfezioni del mercato”.

Dunque, che le iniziative del Fmi in molti casi non abbiano portato sviluppo e prosperità è già grave. Ma lo diventa ancora di più se si considera che spesso esse hanno addirittura “riportato indietro l’orologio dello sviluppo corrodendo in maniera ingiustificata il tessuto stesso della società”. Non si può evitare che i cambiamenti repentini e lo sviluppo arrechino pregiudizio alle autorità tradizionali, ai rapporti tradizionali, alla struttura delle società. “Ecco perché lo sviluppo veramente riuscito è quello che si preoccupa della stabilità sociale”. Peccato però che “negli avidi calcoli del Fmi non ci sia posto per questo genere di preoccupazioni”. Così come non c’è posto per altre numerose questioni alle quali andrebbe invece riconosciuto il giusto valore. “La stabilizzazione è in agenda, la creazione di posti di lavoro no. L’imposizione fiscale è in agenda, la riforma fondiaria no. Si trovano i soldi per salvare le banche, ma non per migliorare la scuola e i servizi sanitari e men che meno per salvare i lavoratori licenziati per l’effetto della cattiva gestione macroeconomia del Fmi. Se affrontate, molte questioni tra quelle ignorate dal Washington Consensus avrebbero potuto assicurare tanto una crescita più elevata quanto una maggiore uguaglianza”.

Quelle che per l’autore sono considerazioni ovvie, per gli uomini del Fmi non sono altro che assurdità. E non potrebbe essere altrimenti in una istituzione internazionale dove “la buona economia e la buona politica” non sono tenute in grande considerazione mentre gli interessi particolari si, dove alle crisi economiche e finanziarie non si sanno opporre che “soluzioni standard sorpassate e inadeguate”, senza considerarne gli effetti sui paesi che devono farle proprie e in particolare sulla povertà, dove di rado si fanno analisi attente e discussioni approfondite mentre sovente vengono prese decisioni “sulla base di una curiosa miscela di ideologia e cattiva economia”.

Contro tutto questo i governi dei paesi in via di sviluppo non hanno mai avuto la possibilità di dire qualcosa. La pena per loro sarebbe stata tremenda: la perdita degli indispensabili finanziamenti del Fmi e, di conseguenza, delle altre istituzioni internazionali. Ma le popolazioni coinvolte negli immani processi di ristrutturazione dettati dal Fmi, cioè coloro che hanno pagato più di tutti i costi esorbitanti e dolorosi di tali processi, mostrano grande disapprovazione nei confronti di una globalizzazione condotta senza tenere in alcun conto la loro volontà e le loro sofferenze. I funzionari del Fmi sono convinti che queste ultime siano parte integrante e necessaria dei mutamenti occorrenti per passare all’economia di mercato. Stiglitz però è certo che i disagi patiti dai paesi del Terzo mondo nel corso del processo di globalizzazione e sviluppo, così come è stato concepito e attuato dal Fmi e dalle organizzazioni economiche internazionali, siano stati di gran lunga più gravi del necessario. “La reazione violenta contro la globalizzazione – afferma lo scrittore – ha tratto la propria forza non soltanto dal danno visibile arrecato ai paesi in via di sviluppo dalle politiche guidate dall’ideologia, ma anche dalle iniquità del sistema del commercio internazionale. Oggi, a parte chi ha interesse a tenere i beni prodotti dai paesi poveri al di fuori dei circuiti commerciali, sono in pochi a difendere l’ipocrisia di chi finge di aiutare i paesi in via di sviluppo obbligandoli ad aprire i loro mercati alle merci dei paesi industrializzati, mentre questi ultimi tengono i loro ben protetti attuando politiche che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e arrabbiati”.

Ma esistono strategie alternative a quelle proposte e imposte dal Fmi? La risposta è senz’altro affermativa. Per scovarle basta prendere in considerazione tutto quello che il Fondo Monetario Internazionale volutamente ignora. “Sono strategie, per esempio, che prevedono la riforma fondiaria, ma non la liberalizzazione dei mercati finanziari; che prevedono l’attuazione di politiche della salvaguardia della concorrenza, prima di procedere alla privatizzazione; che garantiscono che la liberalizzazione del commercio vada di pari passo con la creazione di nuovi posti di lavoro”.

Queste alternative sono dettate dalle più recenti e oculate teorie economiche e si richiamano perciò ai mercati, ma per la loro realizzazione va comunque sottolineato il ruolo fondamentale che spetta ai governi. Perché i radicali cambiamenti che esse portano non vanno interpretati come mere questioni economiche, “ma come parte di una più ampia evoluzione della società”.

Ecco allora sorgere una pressante richiesta di democrazia , di trasparenza e di chiarezza nei confronti del Fmi. Viviamo in una comunità globale la cui sopravvivenza è legata al rispetto di regole comuni, condivise. In quanto tali “queste regole devono essere eque e giuste, devono pensare tanto ai poveri quanto ai potenti ed essere animate dai principi fondamentali della decenza e della giustizia sociale. Le regole in base alle quali lavorano gli organismi e le autorità di governo devono andare incontro ai desideri e rispondere alle esigenze di tutti i soggetti coinvolti in politiche e decisioni che arrivano da lontano”.

Dunque ciascuna nazione ha il diritto di poter prendere in considerazione tutte le alternative possibili e di scegliere, fra esse, per mezzo di processi politici e decisionali democratici e in piena autonomia, quella che ritiene la più appropriata e la più giusta. “Il compito delle istituzioni economiche internazionali - scrive Stiglitz – dovrebbe essere, e sarebbe dovuto essere, quello di fornire ai paesi i mezzi necessari per prendere da soli decisioni informate, comprendendo fino in fondo le conseguenze e i rischi di ogni opzione. L’essenza della libertà consiste nel diritto di compiere una scelta, accettando la responsabilità che ne consegue”.

Un libro importante, questo di Stiglitz. Per le documentate critiche che muove alle iniziative poste in essere dal Fmi e per le interessanti alternative che prospetta. Ma anche per la levatura dell’autore e per la sua collocazione: esattamente al centro dell’apparato che governa e gestisce la globalizzazione. Che si sia aperta una crepa nel muro di cinta della cittadella fortificata del potere?

 


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