OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB |
NUMERO 2/2004 |
viaggi in tunisia di Umberto Mantaut
oltre il limite di Roberto Stocchetti
perché siamo in guerra di Massimo Virgilio
dibattito sull'iraq di Giuseppe Caruselli
la questione degli ostaggi italiani in iraq di Vincenzo Baldassarre
IL RUOLO DEI PAESI LATINI NEL NUOVO ASSE PARIGI-BERLINO-MOSCA di Paolo Santoro
L'onu in iraq di Giovanni Castellani Pastoris
di Umberto Mantaut
appunti di viaggio |
L'ATMOSFERA DI TUNISI
Per nulla differenti dai monelli che scherzano fra le barche di Sapri, Tropea, Cefalù o Mazara del Vallo, i ragazzi tunisini si rincorrono sulle spiagge vociando allegramente. Gridano in lingua araba, un idioma ricco di vocali, di suoni gutturali e aspirati, ma se l'estraneo si avvicina passano con disinvoltura ad un francese perfetto.
Come in tutto il mondo scugnizzi e sciuscià imparano presto l'arte di arrangiarsi e lo sanno fare con spontaneità ed astuzia. C'è sempre qualcuno che vende qualcosa, c'è che si offre come portaborse e chi si propone come guida esperta, affinché lo straniero non si perda nelle stradette della medina o nel labirinto di un souk pittoresco ed affascinante, ma fors'anche insidioso.
Un misto di odori mediterranei aleggia nei vicoli: sentori di sansa e d'olio irrancidito, profumo di gelsomini, lezzo d'urina di gatto, aroma di zagare. Gli stessi odori di Catania, di Agropoli, dell'angiporto di Taranto, ma in Tunisia colpisce il candore delle pareti imbiancate a calce, l'azzurro intenso delle persiane, la presenza sul selciato di polvere o fanghiglia, ma quasi mai di sudiciume.
Sui banchi del mercato gli stessi pesci e i frutti prelibati della Vucciria e di Forcella, ma si nota una diligenza quasi artistica nella disposizione dei prodotti. Si ha cura nell'accostare bene i colori, le forme e i volumi, perché qui si compra prima con gli occhi, poi con un'interminabile e simpatica trattativa, anche per un chilo di rossi melograni.
Non c'è a Tunisi quello sfacelo grigiastro delle facciate di Napoli e di Palermo, capitali decadute, nobildonne del sud invecchiate e ripiegate sotto il peso delle loro miserie, ancor più insopportabili e laide, dopo aver conosciuto epoche di splendore e di opulenza.
Tunisi non è ricca, ma è fiera. Ha il tono della capitale di Stato e lo esibisce nelle sue animate piazze, nei suoi boulevards, nello stile forse inadatto e tronfio di certi palazzi governativi, negli sforzi per tenere pulito e in ordine il salotto buono della città, il boulevard Habib Bourguiba, che dal porto fino all'avenue de France, all'ingresso della Medina, allinea i migliori negozi e le più eleganti caffetterie.
La grande capitale occidentalizzata con i suoi mostri di cemento, il traffico, il metrò leggero con le lucenti carrozze verdoline, i vialoni di palme e le ambasciate tra i giardini, non ha alcun interesse per chi vuole conoscere il Paese. Bisogna perdersi nella Medina, fra moschee, mederse, tombe, ricche dimore patrizie, miseri tuguri e il dedalo dei souk.
Nella città vecchia di Tunisi, Medina in arabo, sopravvive un esempio di agglomerato urbano caratteristico del Magreb, dichiarato patrimonio dell'umanità e preservato con grande cura. I mercati, detti souk, sono per così dire tematici: c'è il souk dei profumieri, el-Attarine, quello delle stoffe, el-Koumach, il vicolo dei sellai, souk el-Sekajine, il souk delle donne che vende roba usata, quello del cotone, della lana, dei tintori, il souk en-Nahas o del rame e così via in un intrico incredibile, multicolore e vociante. Una città nella città, senza veicoli per le dimensioni solo umane delle strade, con improvvise oasi di splendore e di preghiera, in corrispondenza delle bellissime moschee, e luoghi di silenzio e severità presso i mausolei, nella kasba o nel patio elegante d'una casa di nobili.
Si torna indietro nel tempo a professioni e mestieri dimenticati: il fabbricante di babbucce, il pellaio, il rigattiere, l'orafo, il ceramista, la venditrice di uova sode, l'acquaiolo. Si scopre la vera essenza del mercato con la sua legge della domanda e dell'offerta, la fatica della contrattazione, l'arte del baratto, le astuzie e gli intrighi che fanno felice l'acquirente, sempre convinto di aver fatto un affare, e ancor più lieto il mercante che lo ha ingannato.
Per farsi perdonare le piccole truffe, l'usura, l'avidità e l'avarizia, il popolo dei souk accorre alla grande moschea nelle ore della preghiera, incalzato dalla voce lamentosa che si irradia dai minareti e penetra nei vicoli e nelle botteghe. Poi si pensa allo stomaco, con grandi abbuffate di cous-cous e qualcuno, meno fedele al Corano, si concede un bicchiere di buon vino tunisino.
I TRE DESERTI
I miraggi non sono sempre compresi fra le promesse degli operatori turistici, ma a volte le condizioni climatiche sono favorevoli e al viaggiatore che si avventura nel Sahara tunisino tocca la fortuna di vivere un'emozione unica.
Nel deserto di sale o lago salato, in arabo Chott el Jerid, l'effetto ottico, noto come miraggio, è abbastanza frequente. Qui, anticamente, entrava un braccio di mar Mediterraneo e sul fondo, largo 40 e lungo 150 km, è rimasta un'impressionante e piatta distesa di sale, luccicante sotto il sole.
Il cielo, impallidito per l'immane sforzo di prosciugamento, ha riversato sulla terra tutte le sue costellazioni. Il suolo brilla e miliardi di cristalli simulano galassie, separate da misteriose nubi interstellari brune di manganese, azzurre di quarzo o gialle di calcare, conglomeratosi a formare le incredibili rose del deserto.
Il viaggiatore è abbagliato ed un po' smarrito per la visione insolita di un'immensa amara pianura che ha la formula del cloruro di sodio, il tanto comune sale da cucina. All'orizzonte gli appare un palmeto scuro, sullo sfondo incerto del firmamento tremulo per il calore. Si vedono le foglie a ciuffi sulle cime degli alberi ed in basso il riflesso bianco-azzurro di una sorgente a formare un piccolo provvidenziale lago.
Per un infelice assetato, smarritosi in quel mare di sale, inebetito dal calore e dal riflesso accecante, il miraggio rappresentava la salvezza, ma, raggiunto il sito agognato, scopriva che le palme erano solo esili stecchi, residuo di erbe pioniere morte di sete, mentre l'illusione dell'acqua altro non era che il riflesso di una macchia di minerali ossidati e roventi.
Oggi il turista si diverte, non ha nulla da temere. Ci sono le piste sorvegliate con le tracce dei fuoristrada giapponesi, c'è la via panoramica percorsa da comodi autobus con l'aria condizionata. Ma quante vittime avranno mietuto i miraggi?
Più avanti appare una carovana. Si possono contare i cammelli, si notano i peli sulle gobbe brune e le gualdrappe colorate. Ci sono i cammellieri che reggono gli animali per la cavezza. Si avanza ed appare una serie di miseri monticelli di sabbia, sormontati da rade pagliuzze, e qua e là sassi appuntiti alti una spanna. Un altro miraggio!
In certi giorni il deserto è generoso e vuole stupire con i suoi giochi ingannevoli. Se le comitive non fossero tanto vocianti e rumorose si potrebbero udire le risate sarcastiche del vento che partecipa alla burla dei miraggi.
In mezzo al Chott el Jerid i berberi hanno allestito un mercatino unico al mondo. Qui si vendono solo rose del deserto. Ve ne sono di tutte le dimensioni: piccole a mazzi serrati, grandi solitarie con i petali trasparenti, medie conglomerate in racemi verticali con la base solida di calcare. Quasi fossero fiori veri e delicati, i berberi le irrorano con acqua fresca, bene raro da queste parti, perché i colori giallo-bruni appaiano più evidenti e sfumati. Pesano, essendo di pietra, ma bisogna toccarle con delicatezza, perché sono fragili e si rischia di rimanere con pochi frammenti e rena fra le dita.
Miraggio di luce, miraggio di pietra, miraggio di sabbia, miraggio di sale…..questo è il Chott el Jerid!
A El Faouar si incontra il deserto vero, quello dei sogni infantili, quello dei film, con le carovane, le oasi, i dromedari e le dune modellate dal ghibli. Nel villaggio inospitale e spartano, forse volutamente per nulla togliere all'illusione dell'avventura, si possono gustare all'aperto un rustico cous-cous, con carne di pollo e di montone, verdure al vapore, qualche mandarino e molta acqua fresca per gli assetati.
Aver acquistato per scherzare il tipico copricapo arabo si rivela utile per proteggere la testa dal sole e la bocca dalle folate di sabbia. Si può finalmente affrontare a dorso di cammello l'ondulata distesa di dune, la fascia di deserto che opprime l'Africa per una larghezza di 3.600 km ed una profondità di 2.500. E' un mostro in movimento che seppellisce poco a poco intere regioni assetando uomini e greggi nel miserabile Sahel, afflitto dalla siccità e dalle carestie.
A settentrione il deserto ha un volto più mite ed accattivante. Nelle depressioni sgorga ancora acqua sufficiente ad irrigare splendide palme da datteri e l'ambiente delle oasi è bucolico. All'ombra regale della Phoenix dactilifera crescono agrumi, banani, melograni e al suolo si coltivano ortaggi. I berberi si spostano usando i dromedari, gli asini o i loro nervosi cavalli dal mantello morello, sauro o baio. Sui rustici carretti trasportano mazzi di carote gialle, rape violacee, bionde banane e datteri ambrati.
Lasciati alle spalle gli ultimi palmizi si avanza nella sabbia. A piedi è molto faticoso, ma si può godere del contatto fisico con il deserto. La rena è così fine che fa piacere toccarla, sfugge fra le dita e sembra detergerle. I nomadi musulmani, in mancanza d'acqua, fanno simboliche abluzioni con la sabbia, prima della preghiera.
Le grandi dune sembrano onde di un mare tempestoso, a loro volta increspate da infinite piccole gibbosità che si rincorrono spinte dal vento. L'orma di un uomo è presto cancellata, perché il Sahara si oppone agli invasori e non ama essere profanato. Conviene proseguire sulla groppa dei dromedari che si muovono con disinvoltura nel loro elemento. Poi la carovana si ferma.
Le bestie svogliate e sornione si sdraiano brontolando con quella loro espressione sprezzante. I cammellieri si raggomitolano nelle loro lunghe vesti dal colore indefinibile. Se ci si allontana un poco, superando l'ennesima duna per ritrovarsi soli al cospetto del mare di sabbia, si è colti dal desiderio di nuotare nella rena verso l'infinito, attanagliati dalla paura di perdersi nel vuoto privo di suoni, nella luce violacea del tramonto sahariano.
Le ginocchia si piegano e si rimane accucciati al suolo, come i berberi e i loro dromedari, granelli di sabbia errabondi ed indifesi sotto la sferza dei venti. Torna alla mente la sentenza del prete nel giorno delle Ceneri: " Memento homo quia pulvis es et pulvis reverteris!".
A nord dell'oasi di Gabés, con il suo rigoglioso palmeto in riva al mare, il deserto assume l'aspetto d'un paesaggio lunare di roccia rossastra. Si entra nelle terre dei trogloditi, rudi abitatori di spoglie caverne raggruppate a formare vere e proprie città ipogee.
Matmata rappresenta l'esempio più tipico e conserva meglio di tutti i villaggi circostanti il fascino di questa vita sotterranea, al riparo dalle temperature torride dell'estate africana, dal feroce gelo delle notti invernali nel deserto e dall'implacabile mulinello della sabbia. Purtroppo, al turista sono mostrate solo poche case sotterranee, conservate a bella posta per la foto ricordo.
Un'anziana berbera sdentata si lascia ritrarre mentre macina il grano e compie le sue operazioni di massaia delle grotte. Confessa di aver fatto un solo viaggio nella sua vita, 40 km fino a Gabés, e di aver trascorso tutta la sua esistenza nel suo angusto cortile fra le rocce, illuminato da un'ampia apertura verso il cielo dall'intenso blu metallico. La vecchia ride, leva i polsi adorni di pesanti bracciali di peltro e afferma che Allah le ha concesso una vita felice di sposa e di madre, 75 anni di salute e serenità. Che altro si può desiderare in questa contrada di pietra?
Il nome della donna è Fatima, parola musicale che evoca ricordi di fiabe, di ambienti orientali, di fanciulle velate e provocanti danzatrici del ventre. L'ospite troglodita ha il volto segnato da una ragnatela di rughe, ha i capelli radi di un assurdo colore rossiccio, frutto del trattamento con henné, tipico delle donne berbere, ha le mani callose per il duro lavoro quotidiano di macinazione dei cereali, ma nel suo genere è un personaggio di straordinaria bellezza.
Sulla via del ritorno dai tre deserti c'è il tempo per riordinare nella mente i ricordi e le sensazioni di un viaggio ricco di emozioni. Per diverse ore si procede verso settentrione in un paesaggio stepposo, chiuso ai confini da brulle montagne. Il terreno ha un uniforme colore ocraceo, ma, se la stagione è abbastanza umida, si intravede una timida fioritura di povere erbe assetate di un viola delicato. Altrove il suolo è striato di rosso e di marrone, alternati al bianco e al giallognolo, frutto di ossidazione e calcinazione prodotte dai forti sbalzi termici.
Con grande sorpresa ci si accorge che quei colori sono gli stessi dei bellissimi tappeti artigianali ammirati nelle botteghe di
Kairouan.
LA TUNISIA DELLE CULTURE
" The Bardo Museum in Tunis has the finest collection of roman mosaics in the world ……", una guida araba, avvolta nei suoi tipici candidi indumenti, sta introducendo un gruppo di pallide turiste inglesi e….. ci si sente gratificati per essere nati in questa parte del mondo, sulle rive del Mare Nostrum, culla di tanta civiltà.
Il Bardo è, in effetti, uno splendido museo un po' appartato, fuori dal centro di Tunisi, in un edificio che è un gioiello ispano-moresco. Raccoglie non solo i migliori mosaici romani esistenti al mondo, ma anche reperti archeologici e statue delle differenti civiltà succedutesi su questa sponda del Mediterraneo.
Forse del mondo punico, per una deformazione storica voluta dai romani e tramandatasi fino a noi, abbiamo soltanto il ricordo di culti terribili con sacrifici umani di bambini e di commerci basati sulla frode e sull'avidità proverbiale dei marinai-mercanti d'origine fenicia. Invece, qui si scopre che fenici e punici, sardi ed etruschi, greci e romani hanno moltissime cose in comune nel bene e nel male e, forse proprio per questa parentela culturale e di sangue, si sono tanto scontrati e, per finire, integrati.
I dubbi aumentano via via che ci si addentra e ci si aggira fra le vestigia delle dodici civiltà che si sono stratificate in Tunisia. Forse, tutti questi popoli diversi non sono mai esistiti, ma qui ha sempre vissuto la stessa gente mediterranea e la sua discendenza, frutto di un'amalgama di tipi e di razze, siamo noi, i tunisini come gli italiani, i greci come gli spagnoli, i turchi, i libici, i corsi o i libanesi.
La statua di Tanit con la testa di leone ha qualcosa di egizio, la dea Nutrix che allatta un bimbo è giunonica e pagana, ma fa pensare a certe Madonne delle chiese toscane. I mosaici romani mostrano fiori e frutti, uccelli e piante, volti di pescatori e pesci, scorci di mare, barche, stagioni, divinità ed imperatori che abbiamo sempre conosciuti ed ancora si trovano fra noi nelle città e nelle campagne dei nostri assolati paesi, con l'aspetto delle cose di casa nostra e le sembianze dei nostri contemporanei.
Con tessere di pochi colori fondamentali e tenui, anch'essi squisitamente mediterranei, ocra, rosso, verde, giallo, nero e con dimensioni che si fanno sempre più piccole, man mano che l'arte si raffina, i maestri antichi del mosaico, artigiani ed artisti dei quali nessuno ricorda il nome, forse perché lavoravano a gruppi, sotto il sole, chini sui pavimenti delle splendide ville patrizie della costa africana dell'impero, fecero fiorire giardini, danzare le Menadi, sorridere gli efebi, trionfare Nettuno fra sirene e tritoni, beccheggiare imbarcazioni su un mare pescoso e meditare Virgilio assiso fra Clio e Melpomene.
Il Bardo, come tutti i musei, preserva perfettamente i capolavori sottratti all'ingiuria del tempo e al vandalismo degli ignoranti, ma è un insieme di troppa arte in un piccolo spazio e genera dopo un po' un senso di ubriachezza. Si esce con la sensazione di aver visto troppe cose e percepito poco o nulla dei messaggi delle pietre. La Tunisia archeologica offre ben altre emozioni.
Il sito di Cartagine è una tappa d'obbligo per chi vuole rendere omaggio alla Hiroshima dell'antichità, per costatare quanto sia sempre valido il motto: "Guai ai vinti !". La superba città doveva essere assai vasta, fra la costa ridente del Mediterraneo e le lievi colline dell'entroterra ricoperte di macchia con ulivi, lecci e lentischi. Le rovine occupano un grande rettangolo di sette km per quattro, ma la città nuova ricopre irrimediabilmente gran parte dell'area dell'antica Carthago.
Molti quartieri residenziali, con belle ville e giardini ombrosi, si susseguono fra la zona di Salambo, dov'erano i porti commerciali e militari, fino a Carthage Amilcar; in tutto sette stazioni della metropolitana di Tunisi che qui è sopraelevata e taglia in due il settore più elegante della capitale moderna.
Ci vuole una certa immaginazione per riconoscere fra i pochi resti di mura e di fondazioni quelli che dovevano essere i circhi, gli anfiteatri, le basiliche, le cisterne, le domus, i teatri, le ville e le terme della città punica. L'unico punto nel quale si ha ancora l'impressione della passata grandezza corrisponde alle rovine delle Terme Antoniniane, edifici spettacolari, voluti dai romani, forse proprio per affermare la propria vittoria sulla città nemica, rasa al suolo e cosparsa di sale per renderla sterile ed inabitabile per sempre, salvo poi ricostruirla avendone compreso l'importanza strategica e la felice collocazione.
Di fronte al Mare Nostrum, frammenti di colonne abilmente assemblati sui resti delle terme devastate dai Vandali dopo la caduta dell'impero romano, per ironia della sorte, rammentano ai ruderi lontani dei Fori di Roma che in questo mondo nulla è eterno, tanto meno le città, la capitali degli imperi ed i fari di civiltà.
La visita di Cartagine mette una certa tristezza, pure essendo il luogo ridente e luminoso; forse è colpa del silenzio che avvolge i ruderi, dell'odore di alghe putride che sale da un mare pigro o del profilo scuro dei monti di Capo Bon che chiudono l'orizzonte. Di fatto, si viene via volentieri e, per fortuna, poco distante si trova il delizioso paradiso bianco-azzurro di Sidi Bou Said.
Abou Said era un asceta del XIII secolo, cultore del sufismo, setta mistica orientale. Venne dal Marocco e scelse il suo eremitaggio in questo sito privilegiato a picco sul mare, divenuto poi luogo santo per i musulmani. Oggi è scelto come residenza da uno stuolo di artisti e uomini di cultura tunisini, ma ci vivono anche molti intellettuali europei ed è visitato da una folla di turisti.
Il villaggio di Sidi Bou Said conserva gelosamente lo stile originario dell'architettura marabuttica: case bianche, persiane blu, inferriate dello stesso colore, terrazze maiolicate, cupole, patii, viuzze e scale, un intrico delizioso ornato da grandi cascate di buganvillee, fichi d'India e palme, una pulizia esemplare, un'atmosfera rarefatta, una vita quieta.
I pittori lavorano nei vicoli, gli artigiani intrecciano con fili di ferro bianchi e blu bellissime voliere dalle linee orientali, i vecchi fumano seduti in circolo sulle stuoie, nella quiete dei bar turchi fra bicchieri di tè alla menta e colorati narghilé.
Ecco un paradiso dove si vorrebbe vivere come a Taormina, Capri o Portofino. Peccato che si tratti solo di un sogno, che a Sidi Bou Said è tutto bianco e blu.
Molto più a sud, in un punto della steppa in cui s'incontrano le principali vie carovaniere, sorge la città santa di Kairouan, faro della cultura islamica. Varie strade vi giungono dalla costa orientale, attraverso il Sahel o dal nord verdeggiante, altre affrontano le prime alture aspre dell'Atlante verso l'occidente algerino o scendono in direzione delle oasi meridionali dove si trasformano in piste che si perdono nell'immensità del Sahara.
Le mura di Kairouan si annunciano rosseggianti e perfettamente conservate nel paesaggio brullo della savana, monumentali e luminose come quelle della cattolicissima Avila, solide e rassicuranti come i bastioni dell'imperiale città di Marrakesh, ma dietro la barriera di pietra pulsa una città gentile e laboriosa che non è solo un luogo di pellegrinaggio musulmano. A Kairouan fervono i commerci e fiorisce l'artigianato.
La produzione dei tappeti è una tradizione gelosamente perpetuata dalle famiglie della città, ognuna delle quali ha un suo telaio ed un suo segreto. Le donne hanno i loro disegni prediletti, vere e proprie griffe che conferiscono pregio particolare al prodotto, caratterizzandolo nelle sfumature cromatiche, per l'uso di lane o sete pregiate e per i colori naturali inimitabili. La legge vieta l'introduzione dei telai meccanici che cambierebbe il ritmo e la qualità del lavoro, svilendo il pregiato tappeto di Kairouan al livello di un banale prodotto industriale. Perciò i mercanti locali sono ben fieri di mostrare capolavori: dal minuscolo preghierino di gusto arabo al ricercato kilim, per passare poi al grande tappeto di seta, fitto di arabeschi orientali di pregiatissima fattura e dal prezzo impressionante. Le lunghe trattative per gli acquisti si svolgono accoccolati su montagne di tappeti, sotto pigri ventilatori, sorseggiando da bicchieri opachi l'onnipresente tè alla menta.
La visita delle moschee permette di approfondire i vari aspetti della religione islamica che in Tunisia rifugge dal rigore integralista e si manifesta come culto tollerante, aperto al dialogo e, per molti aspetti, rasserenante. La grande moschea, Djamâ Sidi Oqba, se visitata in pio pellegrinaggio per sette volte, può dispensare il fedele dal viaggio alla Mecca. Nel suo cortile severo sembra raccogliersi tutta la luce del deserto, mentre nell'ombra della sala di preghiera una selva di colonne puniche, romane e bizantine testimonia ancora una volta la fusione perfetta fra le differenti culture mediterranee.
Molto più colorata e ornata, la Moschea del Barbiere ci offre un quadro dell'arte decorativa tunisina e magrebina che specula sugli effetti delle maioliche policrome, degli stucchi e dei legni finemente intagliati, senza disdegnare i marmi italiani e gli azulejos di tipo andaluso.
Poiché l'acqua nel mondo arabo è importante e sacra, la visita di Kairouan si completa con una tappa al bacino degli Aghlabidi, grande complesso di vasche ed acquedotti che dissetano la città santa e servono i fedeli per le abluzioni rituali.
Tozeur è davvero un'oasi molto particolare. Di antico ha conservato le decorazioni berbere delle vecchie case, realizzate con mattoni color ocra disposti a sbalzo per formare motivi geometrici, riprodotti poi anche nei tappeti e nei tessuti. Nelle parti più moderne le case bianche e gli alberghi confinano con il palmeto che conta più di 200.000 piante. Nell'oasi si circola in calesse e le merci sono trasportate da carretti trainati da muli o dromedari. Il sapiente sistema di irrigazione degli orti si fonda su una rete di "seguia", collegata alle sorgenti e gestita con metodi che risalgono al XIV secolo. L'abbigliamento delle donne anziane rispetta ancora la tradizione, ma appena fuori dal centro del villaggio si scorge in pieno deserto la sagoma luccicante dei jumbo parcheggiati nell'aeroporto internazionale e si nota la sfarzosa architettura araba dei grandi alberghi.
Nella sontuosa Koubba di Sidi Bou Aïssa, con finanziamenti e reperti forniti anche da altri paesi arabi, è stato allestito lo straordinario Museo archeologico e delle Tradizioni popolari. La visita è di estremo interesse ed ancora una volta si rimane sconcertati per l'osmosi fra le culture, la molteplicità degli scambi e delle fusioni, dei contatti e delle assimilazioni fra il mondo mediterraneo e l'area presahariana. Nel museo si rappresentano efficacemente usanze e costumi della tradizione islamica, ma vi sono accostamenti infiniti ed affascinanti: arabeschi d'oriente e vetri di Murano, lame di Toledo e pipe ottomane, ceramiche berbere e gioielli tuareg, kilim e damaschi, armi e monete. In alcuni ambienti sono rappresentate scene di vita familiare e cerimonie, si ammirano i corredi da sposa, i cosmetici e i monili, ci si fa un'idea della cucina e della moda araba, si entra nell'atmosfera rilassante del bagno turco.
Ritornando a nord, la grande strada fra Sfax e Sousse attraversa un territorio piatto e monotono con lunghi rettilinei, simili alle carretere castigliane che hanno sempre in fondo un campanile che sembra irraggiungibile. Qui, però, ad un tratto come un miraggio appare il Colosseo. Si giunge a El Jem e il grande anfiteatro, terzo in ordine di grandezza dopo quello di Roma e di Capua, stupisce per le proporzioni, ma ancor più per lo stato di conservazione che lo rende ancora fruibile per 30.000 persone. La stagione teatrale estiva di El Jem è un evento di fama internazionale, vi si esibiscono famose compagnie e vi accorre una folla di spettatori affascinati dagli spettacoli, ma ancor più dal magnifico teatro, famoso come l'Arena di Verona.
La visione ellittica dello straordinario Colosseo di El Jem è resa ancor più sensazionale giacché il monumento romano giganteggia fra le case basse della piccola città araba che lo ingloba. Questo contrasto si rinnova anche negli altri meravigliosi complessi archeologici romani della Tunisia. Gli scavi sono stati ovunque accuratissimi, le città antiche sono state riportate alla luce nella cornice della natura che li circondava ai tempi gloriosi dell'impero e che tuttora caratterizza il paesaggio. A Sbeitla, l'antica Sufetula, grande municipium nel I secolo a.C., i maestosi templi pagani, le chiese bizantine, il foro e le dimore patrizie spiccano nell'altopiano desertico con i loro colori ocra e oro. Nessun edificio moderno assedia il complesso archeologico, un vero gioiello incastonato in una regione agricola arida e povera che ha saputo conservare nei secoli le vestigia della sua passata grandezza.
Molto più a nord, nell'entroterra della bellissima Tabarca, in un paesaggio di macchia mediterranea molto simile a quello della nostra Calabria, la Tunisia conserva gelosamente altre due meraviglie archeologiche: Dougga e Bulla Regia.
Dougga fu residenza prediletta di Massinissa, re della Numidia, e fu annessa a Roma da Cesare nel 46 a C., mentre cresceva l'importanza e la prosperità di tutta la provincia d'Africa. La città domina tuttora un superbo paesaggio dall'alto di un colle assediato da ulivi secolari. Dougga ha un eccezionale Capitolium, un teatro, un foro, un insieme straordinario di templi, varie terme, acquedotti, mura e mausolei.
Bulla Regia sorge in una delle zone più torride della Tunisia e presenta case patrizie che hanno la peculiarità di possedere ampie stanze sotterranee dove gli antichi romani potevano trascorrere piacevolmente le giornate più calde dell'estate. I pavimenti delle case e degli edifici pubblici di Bulla Regia avevano splendide decorazioni a mosaico, in parte trasferite oggi al Museo del Bardo. Come in tutte le grandi città romane della provincia d'Africa si notano imponenti opere idrauliche e termali, un grande foro, un mercato, l'immancabile teatro e un'area sacra con grandi templi.
LE OASI DI MONTAGNA
Aprile 1993
Hamed, Monchef e Mustafà hanno faticosamente imbarcato più di 140 ragazzi e relativi accompagnatori su oltre 25 land-rover rombanti sul piazzale dell'hotel Hafsi di Tozeur. Le tre guide esperte ed inflessibili, avvezze a pilotare i gruppi nelle avventure sahariane, non hanno pietà per i ritardatari. Resteranno in albergo e si pentiranno a lungo per la loro impuntualità. Infatti, la gita alle oasi di montagna si rivela il momento più emozionante di tutto il lungo tour tunisino.
I fuoristrada partono in rapida successione. Per qualche chilometro si corre verso nord su una strada asfaltata, poi improvvisamente si esce ad angolo retto su una pista diretta ad ovest. Un lunghissimo rettilineo pieno di buche, dossi e avvallamenti, attraversa una piana polverosa con radi cespugli di un grigio rugginoso. Sullo sfondo si avvicina, stagliato nettamente contro il cielo limpido del deserto, il profilo dell'Atlante algerino, un'inospitale montagna rossiccia.
Ai primi tornanti il paesaggio cambia di colpo trasformandosi in un fantastico succedersi di rocce rosse ed aspri valloni scavati da torrenti privi di acqua per lunghi mesi ed impetuosi durante la breve stagione delle piogge, che paradossalmente provoca rovinose alluvioni in pieno deserto.
Sotto i primi contrafforti della montagna vera e propria appare Chebika. Esattamente come ci si aspetta che sia un'oasi: una macchia fitta di palme addensata intorno a un villaggio miserrimo, ma straordinariamente accogliente dopo tanta desolazione riarsa dal sole.
I pochi vecchi abitanti continuano a reggere sulle loro spalle l'economia dell'oasi basata sulla coltivazione delle palme da dattero e di pochi ortaggi. Un'iniqua spartizione dei raccolti stabilisce ancora che un quinto del prodotto vada al contadino e quattro quinti al proprietario dei palmizi. Qualcuno più intraprendente ha aperto la botteguccia di souvenirs dell'oasi: rose del deserto, scorpioni essiccati, campioni di roccia, cartoline e magliette.
A occidente del villaggio sale un sentiero da capre fra le rocce verso una fenditura della montagna. Attraversarla mette a disagio, sembra di entrare nella bocca di un mostro preistorico, nelle nicchie della roccia si scorgono grossi ragni, scarafaggi e altri repellenti animaletti. Dall'altra parte dell'angusto passaggio si apre un valloncello verdeggiante e, al fondo, si scopre il cuore dell'oasi, una miracolosa fonte d'acqua fresca.
La sorgente di Chebika sgorga dalla parete del monte e proviene da molto lontano, visto che intorno per molte decine di miglia c'è solo un mondo riarso e senza un filo d'erba. L'acqua scende probabilmente dalle cime algerine dell'Atlante orientale, attraversando inesplorati cunicoli e oscure caverne sotterranee. Quest'acqua limpida è incanalata con cura dai contadini berberi, distribuita col contagocce nei diversi lotti di terra ortiva e nelle conche scavate ai piedi di ogni palmizio.
Il viaggio riprende su un percorso pericoloso, una serpentina sconnessa, scavata nei fianchi dei monti a strapiombo su orridi valloni, attraverso ponticelli precari, in tornanti improvvisi con pendenze che solo veicoli ben attrezzati ed autisti allenati riescono a superare.
Si giunge su un altopiano sabbioso, abbagliante di luce, sotto un cielo di cristallo blu. Al centro si raccoglie l'oasi di Tamerza, sullo uadi el Khanga. Il torrente, vitale per l'alimentazione idrica dell'oasi, è stato anche la causa della sua rovina. Dopo anni di assoluta siccità il deserto è stato investito nel 1988 da piogge torrenziali. Il Khanga in piena ha reso inabitabile la parte vecchia di Tamerza. Le case di argilla rossa pressata con sassi e paglia, un impasto chiamato "pisé", si sono sgretolate ed uno dei paesaggi più arcaici della Tunisia è stato sconvolto.
Accanto al villaggio in rovina sulle alture è sorta la città nuova. Il governo tunisino ha finanziato la costruzione di un moderno liceo, incredibile in un luogo simile, ed altri edifici di uso militare e turistico. Poco lontano dal villaggio di Tamerza c'è la frontiera con l'Algeria, molto sorvegliata per timore che dal paese confinante s'infiltrino gli integralisti islamici non graditi in Tunisia.
Tamerza accoglie bene i turisti amanti dell'avventura, attratti in questi luoghi dalla bellezza naturale e selvaggia del vallone del Khanga con scenari di roccia rossa, incredibili cascatelle, palmeti, una fauna stranissima adattatasi alla vita nel deserto, ma ciò che più colpisce è l'assoluta limpidezza dell'aria.
Le guide locali hanno perfettamente ragione: un viaggio in Tunisia è incompleto se non si visitano le oasi di montagna.
di Roberto Stocchetti
calcio |
Riassumendo quella di domenica 21 marzo, la notte del derby Roma Lazio, è stata una notte di ordinaria follia. Qualcuno potrebbe chiedersi quale connessione vi sia tra una partita di calcio, seppur terminata con una battaglia urbana, e la geopolitica; per noi molta, per almeno due ordini di fattori che andiamo subito ad esaminare.
Il primo è quello del terrorismo: con quale senso di responsabilità si possa far disputare, nella capitale di uno stato che - torto o ragione - si ritiene nel mirino d'organizzazione terroristiche, che peraltro hanno dimostrato di avere lo sprezzo di colpire luoghi densamente affollati (Treni di pendolari a Madrid), una partita di calcio, che raccoglie decine di migliaia di persone, in notturna non ci è dato sapere. Con il calare delle tenebre risulta, fra l'altro, impossibile il controllo mediante mezzi aerei della zona in cui si svolge l'evento, mezzo peraltro assai utile ed apprezzata dalle forze di polizia. Almeno per Roma ricorre la circostanza che lo stadio sorge ai piedi di una collina di macchia mediterranea; per un gruppo terrorista ben organizzato non sarebbe per nulla difficile nascondere razzi o granate con buon anticipo e quindi entrare in azione, tanto più su un bersaglio impossibile da mancare, con conseguenze facili da immaginare (E' bene segnalare, per i non romani, che dalla collina in parola si domina sia il Ministero degli Affari Esteri sia un gran cantiere di viabilità, a buon intenditor…). Si rafforza il controllo su obiettivi "sensibili" (Aeroporti), si allestiscono barriere antikamikaze dinanzi gl'ingressi del Quirinale, e non si ritiene di dover mettere in sicurezza una situazione a rischio dove si raccoglie una non indifferente massa di persone?
A questa prima circostanza, vorremmo dire di politica internazionale, se ne aggiunge una seconda d'ordine interno. Non è mistero per nessuno, anzi costituisce un'evidenza, la politicizzazione che hanno assunto, soprattutto negli ultimi anni, le curve calcistiche.
Ad esempio, qui a Roma, le tifoserie di Roma e Lazio hanno assunto nomi e simboli esplicitamente mutuati dalla politica. Una simile politicizzazione non è limitata alle sole squadre capitoline. Orbene vorremmo osservare che con i fatti del 21 marzo le opposte tifoserie, dimostratesi pericolosamente unite nella guerriglia, hanno messo sul piatto della bilancia tutto il loro peso contrattuale: si voleva interrompere la partita e così è stato.
Ogni persona intelligente capirà che quella del bambino investito da un automezzo della polizia era un semplice pretesto; inutile perdere tempo a convincere che non era avvenuto nulla.
Vale rammentare il ruolo giocato nell'ex Yugoslavia dalle tifoserie calcistiche o del basket (Il "fenomeno" Arkan, che alla morte non a caso è ricordato nello stadio di Roma con uno striscione, è cominciato proprio organizzando militarmente la tifoseria della sua squadra di pallacanestro).
Anche in questo campo sarebbe bene sviluppare una cultura del prevedere; che eviterebbe di precipitarsi a chiudere le porte della stalla dopo la fuga dei buoi.
Basterebbero poche, ben organizzate misure per impedire di nuocere a ben individuati individui che utilizzano il calcio in vista d'interessi economici e politici che oramai non si curano neppure di nascondere.
E ci permettiamo anche di esprimere stupore nell'aver visto (Confessiamo di non essere molto pratici di stadi…) il massiccio impiego, in servizio d'ordine pubblico, della Guardia di Finanza; abitudine italica, risalente almeno alla battaglia d'Adua, di impiegare masse di militari in situazioni cui sono poco o punto addestrate. Sarebbe meglio tenere le Fiamme Gialle impegnate nella lotta al contrabbando e nella redazione dei verbali d'accertamento, loro compiti istituzionali, più che in servizi d'ordine pubblico. Ma questa, ce ne rendiamo conto, è un'altra questione…
di Massimo Virgilio
recensioni |
L'annientamento di Saddam Hussein, l'abbattimento del suo regime dittatoriale e l'instaurazione della democrazia in Iraq: questi sarebbero dovuti essere, almeno ufficialmente, i risultati della guerra contro l'Iraq. Un'operazione militare presentata dagli strateghi del Pentagono come semplice e rapida, seppure inserita nell'ambito di un più vasto e complesso progetto di lotta al terrorismo internazionale. Ma che si è invece rivelata per gli americani e per i loro alleati difficile da portare a termine in tempi stretti e con successo. Non passa infatti giorno senza che i soldati della coalizione occupante subiscano sanguinose imboscate ad opera della guerriglia irachena. Né le cose sono migliorate dopo la cattura del Rais.
Così questa guerra, fortemente voluta da George W. Bush e dai falchi neoconservatori, piuttosto che avvicinare gli U.S.A. alla vittoria definitiva contro il terrorismo, ha finito per rinfocolare - non solo nel mondo islamico, ma in ogni angolo del globo - il già ampiamente diffuso odio contro gli americani e i loro sostenitori. Al contrario di quanto dichiarato trionfalmente dal Presidente degli Stati Uniti qualche mese fa, la guerra non è affatto terminata. L'America è ancora in guerra. E in guerra ha trascinato anche il resto del mondo.
Come si è arrivati a questo punto? Norman Mailer cerca di dare una risposta a tale domanda nel suo pamphlet intitolato
Perché siamo in guerra?, edito da Einaudi. Per lo scrittore americano la causa scatenante di quest'immane conflitto che ormai coinvolge ogni abitante del pianeta è stata la distruzione delle Twin Towers avvenuta l'11 settembre 2001. "E' un giorno impossibile da cancellare dalla nostra storia: non soltanto un disastro di proporzioni apocalittiche, ma un simbolo, gigantesco e misterioso, di qualcosa che ancora ignoriamo, un'ossessione che continuerà a ripresentarsi nei decenni a venire".
L'11 settembre ha colpito l'America proprio nel momento in cui essa stava attraversando una profonda crisi d'identità. Dopo gli anni del boom economico dell'epoca di Clinton gli Stati Uniti di Bush si sono trovati sotto la minaccia di una grave recessione. A partire dal 2001 sono andati persi più posti di lavoro di quanti ne sono stati creati. Il mercato azionario, scoppiata la bolla speculativa, è collassato, bruciando una parte cospicua dei risparmi di milioni di cittadini. Nelle grandi multinazionali, che sin dalla fine della seconda guerra mondiale hanno ininterrottamente espanso il proprio potere all'interno della società, gli scandali a livello dirigenziale si sono fatti sempre più gravi e numerosi. "Certo, - scrive al riguardo Mailer - per gli Stati Uniti, è stata una gallina dalle uova d'oro. Ma oltre alle uova, questa gallina ha anche prodotto una gran quantità di escrementi, vale a dire menzogne e manipolazioni. (…) E siamo arrivati al punto di aver sparso questo letamaio su tutto il pianeta, tanto da farci capire che, in fondo, una sorta di egemonia mondiale già ce l'avevamo. Stavamo esportando la fagocitante vacuità estetica delle più potenti aziende americane". Da parte sua il mondo cattolico ha dovuto fare i conti con una vergognosa realtà, quella della pedofilia. Cosa ancora più grave, lo stesso Gorge W. Bush ha ottenuto la carica di Presidente attraverso elezioni ritenute da molti palesemente illegali.
In questa situazione di disagio la reazione degli americani al disastro delle Torri Gemelle "è stata del tutto comprensibile. Ci siamo ritrovati immersi fino al collo in un oceano di patriottismo. (…) Dovevamo superare la nostra crisi d'identità: e allora superiamola, che diamine, sventoliamo la bandiera". Per Bush e per i neoconservatori è stata la salvezza. A far data dall'11 settembre il patriottismo è stato portato ad un livello tale da far sì che chiunque nutra anche solo un piccolo dubbio sulle sorti dell'America o sull'operato dei suoi governanti sia considerato alla stregua di un traditore e messo a tacere. E la pressione in tal senso è talmente forte che spesso è lo stesso cittadino dubbioso a considerare le proprie incertezze un tradimento del sogno americano. Così l'intera popolazione statunitense ha finito per stringersi acriticamente attorno al suo Presidente. "La nuova identità nazionale, ancora in fase transitoria e formativa, non è stata capace per un solo istante di pensare che, forse, Bush alla Casa Bianca non ci doveva nemmeno essere. Perché? Perché adesso c'era da salvare il paese".
Dunque la paura scatenata dal terrorismo internazionale ha spinto la maggioranza degli americani ad accettare, in nome della sicurezza nazionale, pesanti limitazioni alle proprie libertà personali e ad affidare la conduzione della propria esistenza ai militari e ai servizi d'intelligence. Quelli che l'autore chiama "conservatori con bandiera" sono più che soddisfatti. La loro convinzione è che l'America debba essere governata da un esiguo numero di persone, quelle più ricche e più potenti. Normalmente la gente comune non tollererebbe un'idea del genere. Il terrore però ha reso quest'ultima accettabile. "E' l'incubo del terrorismo, la paura che ha spinto tutti quanti a sventolare la bandiera. Gli incubi ci dicono che la vita è assurda, irragionevole, ingiusta, contorta, folle, pericolosa ai limiti del ridicolo". Il terrorismo ci pone di fronte al disdicevole fatto che la nostra morte potrebbe non avere alcun legame con la nostra vita. Ci fa perdere "la capacità di dare un senso alla nostra morte, l'abilità di scoprire il significato della nostra esistenza. (…) Scopo finale del terrorismo è rendere la vita assurda". Tutto ciò ha portato molti statunitensi ad una conclusione: la democrazia può essere "di ostacolo alla sicurezza"; ad essa, per il bene di tutti, si può e si deve rinunciare, magari anche solo temporaneamente.
Mailer non esita ad evidenziare con parole dure il suo rammarico e la sua preoccupazione per questo stato di cose. In un paese in cui i principali valori umani si stanno disgregando, "il patriottismo finisce col diventare la servetta del totalitarismo. La nazione diventa religione". Bush esorta i suoi concittadini ad amare incondizionatamente l'America, simbolo del Bene, e a difenderla contro gli assalti del Male, rappresentato da tutti quelli che, invidiosi della sua vitalità, del suo potere e della sua ricchezza, vorrebbero distruggerla con ogni mezzo, anche il più cruento. "Ma amare senza discernimento il proprio paese significa cominciare ad abdicare a qualunque distinzione critica. E la democrazia dipende proprio da queste distinzioni". La democrazia americana è relativamente giovane, le sue radici non sono ancora profonde, le sue tradizioni non sono antiche. "Di conseguenza, una transizione da stato democratico a regime totalitario potrebbe capitare con una certa rapidità".
Un'idea pericolosa esercita un fascino perverso su molti americani, in particolare su Gorge W. Bush e i suoi consiglieri: "la convinzione di essere in grado di fare qualunque cosa". I "conservatori con bandiera" sono certi di avere i mezzi e le capacità per sistemare "ogni faccenda" nel modo più opportuno, per superare ogni ostacolo. I "conservatori con bandiera" credono "che l'America non solo sia idonea a governare il mondo, ma che debba farlo. Senza la dedizione al culto dell'Impero" l'intero paese potrebbe finire a gambe all'aria. Questo, ad avviso dello scrittore, "è il sottinteso - mai ammesso e sempre negato - della questione irachena". E questo è quello che potrebbe trasformare la democrazia statunitense in un oscuro regime totalitario.
C'è un aspetto dell'America che l'autore ha sempre amato: la libertà. La "straordinaria" libertà di pensare e agire secondo il proprio volere. "Ho goduto di enormi libertà (…), e non mi va che chi viene dopo di me non possa averne altrettante. Ma (…) la libertà è fragile come la democrazia. Dev'essere conservata in vita per ogni istante della nostra esistenza". Deve essere protetta da chi vuole sopprimerla per soddisfare con la guerra il proprio "bisogno di vendetta per l'11 settembre". Non importa che non siano state trovate le prove dell'esistenza di un collegamento tra l'Iraq e gli attentatori suicidi che hanno polverizzato le Twin Towers. "Bush ha solo bisogno di ignorare l'evidenza. Cosa che fa con tutto l'impeto di chi non si è mai vergognato di se stesso. Saddam, pur con tutti i suoi crimini, con l'11 settembre non c'entrava niente; ma il presidente Bush è un filosofo. L'11 settembre è stata una manifestazione del male, Saddam è il male, tutto il male è collegato. Ergo, l'Iraq".
Per chi si oppone al pensiero unico imperante si preannunciano dunque anni duri, difficili, anni di sacrifici, di lotte da condurre "a denti stretti". "La democrazia - afferma Norman Mailer - è la forma più alta di governo mai concepita dall'umanità, ed è giunto il momento di iniziare a chiederci se siamo pronti a soffrire in sua difesa, a perire addirittura, piuttosto che prepararci a trascinare un'infima esistenza in una monumentale repubblica delle banane il cui governo è perennemente ansioso di fare il servo alle megacorporazioni che si ingegnano a impossessarsi dei nostri sogni". La speranza finale di Mailer è quella di vedere la democrazia riuscire a "sopravvivere alla sporcizia che le viene continuamente gettata addosso".
di Giuseppe Caruselli
lettera |
Caro
LimesClub,
potrebbe essere interessante, per darci una idea dello stato dell'informazione
in questo settore, chiedere il parere dei soci sul rapporto fra terrorismo
islamico, resistenza irachena, rivalità islamiche (sciiti e sunniti)
all'interno e all'esterno dell'Iraq, e principalmente dell'utilizzazione del
problema religioso in rapporto al regime di Saddam Hussein. Nel numero
precedente di Limes venivano riportate numerose mail scritte da musulmani che
sono illuminanti rispetto al potere aggregante di una mistura fra islam
propriamente detto e appartenenza a nazioni tradizionalmente islamiche (vedi la
difesa a favore del dittatore, ben noto laico).
Esiste poi un altro problema: in Iraq si teme, molto probabilmente, che gli USA
intendano comunque rimanere, in basi attualmente in preparazione, per un tempo
molto lungo. Il fatto è già avvenuto in Europa e a Cuba.
Questo potrebbe spiegare in buona parte la scarsa fiducia dei locali in una
soluzione di autogoverno apparente senza nessuna garanzia di effettiva
indipendenza nazionale.
LA QUESTIONE DEGLI OSTAGGI ITALIANI IN IRAQ
di Vincenzo Baldassarre
iraq |
I fatti:
I primi d'aprile i quotidiani e i vari telegiornali riportano la notizia che alcuni italiani, almeno due, sono stati rapiti e tenuti in ostaggio; non vi sono conferme da parte di fonti differenziate;
Il 13 aprile in televisione è mostrato un video in cui ci sono quattro ostaggi italiani, per la loro liberazione sono avanzate, tra le altre, richieste inerenti il ritiro del contingente militare italiano e le scuse del governo;
Il 14 aprile è diffusa la notizia dell'uccisione di un ostaggio italiano attraverso una videocassetta, di cui si conoscono i contenuti ma non le immagini;
Il 26 aprile arriva la notizia della diffusione del terzo video riguardante i tre rimanenti ostaggi italiani in Iraq; sono vivi ed in discrete condizioni di salute a quanto si può vedere; sono poste nuove condizioni per la loro liberazione tra cui la richiesta di una manifestazione di massa a Roma.
L'analisi:
Per quel che concerne il primo punto, presupponendo la buona fede dell'inviato della Reuters che per primo ha diffuso la notizia, si deve osservare che non ci sono state conferme a questa notizia se non una storia riguardante due presunti uomini dei servizi italiani rapiti e liberati nel giro di pochissimo tempo dopo il pagamento di un riscatto. Se questa storia è vera allora se ne deduce che i rapitori erano appartenenti alla criminalità comune e che il loro scopo era solo quello di raccogliere denaro. Restano, però, abbastanza oscure le modalità di cattura, di trattativa e di rilascio; in particolare i tempi molto stretti e certamente non usuali alle abitudini del luogo e dei rapimenti a scopo di estorsione in genere.
Per quel che concerne i veri ostaggi l'analisi della sequenza di avvenimenti e cioè la cattura, le prime richieste, l'uccisione di un ostaggio, il video finale con l'ultimatum ci porta ad ipotizzare che gli attuali sequestratari non siano gli stessi che hanno materialmente rapito ed ucciso ma che sia avvenuta, nel corso di queste settimane, un passaggio di mano degli ostaggi.. Si noti la diversità di trattamento dei rapiti e, principalmente, la notevole differenza nelle condizioni poste per il rilascio. In linea di massima un rapimento politico è messo in atto per raggiungere alcuni obiettivi: obiettivo principale è quello dell'accreditamento in loco della forza e determinazione del gruppo terroristico che agisce e un obiettivo secondario è quello di possedere mezzi di pressione e di scambio realmente validi e non ottenibili altrimenti. Il gruppo che ha inizialmente rapito i quattro italiani per poi ucciderne uno, Fabrizio Quattrocchi, e che opera in un territorio in cui l'unico ordine costituito rimasto in vigore è quello clanico tribale ha certamente operato in funzione del solo obiettivo principale appena menzionato, probabilmente perché non dotato di una cultura politica sufficientemente ampia per conseguire altri tipi di obiettivi. L'arrivo di tre convogli della croce rossa italiana nella città assediata di Falluja è, anche esso, assolutamente compatibile con l'intento dell'accreditamento della forza e determinazione del gruppo terroristico presso la popolazione locale.
Il gruppo che presumibilmente detiene ora gli ostaggi, invece, con le condizioni politiche poste nell'ultimatum, con la costruzione scenografica del video e con l'andamento stesso della registrazione mostra di possedere una ben diversa "sensibilità politica" e di voler raggiungere obiettivi diversificati. L'aver fatto parlare uno degli ostaggi in italiano ci fa capire che, sicuramente, qualcuno in grado di ben comprendere la nostra lingua se non presente al momento stesso delle riprese, certamente, le avrebbe revisionate e che di questo gli ostaggi erano informati. Il fatto che da condizioni iniziali che nessun governo avrebbe mai potuto accettare si sia passati alla richiesta, quasi più indirizzata all'opposizione che al governo, di una manifestazione di massa da tenersi entro cinque giorni, in altre parole entro il 1 maggio, giorno abitualmente destinato alle manifestazioni popolari in Italia, ci lascia presumere che del gruppo terroristico faccia parte qualcuno ben addentro alle vicende politiche interne italiane; o quantomeno che questo gruppo abbia la possibilità di avere contatti con qualcuno ben informato sui nostri affari politici ed in grado di dare "consigli". Considerando che l'Iraq negli ultimi 10 anni è stato sottoposto ad un embargo e che l'informazione, sia televisiva sia della carta stampata, era completamente asservita al regime è possibile ipotizzare che i referenti degli attuali rapitori, viste le loro conoscenze internazionali dirette o i loro contatti, siano esponenti non minori del passato regime o dei servizi dell'epoca di Saddam Hussein. Questo ci porta a considerare che uno dei possibili obiettivi che si vogliono raggiungere è quello di aumentare il livello di divisione politica esistente nel nostro paese e in senso più lato di incrementare la destabilizzazione in vista anche delle prossime elezioni europee. Per queste elezioni le manovre del gruppo hanno l'obiettivo di favorire la predominanza in Europa delle forze di sinistra che sono sentite su posizioni in "sintonia" con quelle pubbliche rese note dai terroristi in Iraq. L'obiettivo principale e cioè quello dell'accreditamento locale resta inalterato, anzi nel caso in questione è praticamente assicurato: già oggi 27 aprile leggendo i commenti ufficiali di tutti i politici italiani si ricava che nessuno intende cedere al ricatto terrorista ma che tutti proseguiranno nel mantenimento delle loro posizioni: il che tradotto significa che nelle manifestazioni del primo maggio, anche se non sponsorizzate ufficialmente dai partiti politici o movimenti vari, vi saranno, comunque, in piazza manifestazioni di protesta contro la guerra in Iraq, contro gli USA e chiedenti il ritiro immediato del contingente italiano, permettendo così al gruppo terrorista in ogni modo di potersi vantare, in ambito locale iracheno, di aver costretto gli italiani ad aderire alle loro richieste ed aumentandone l'influenza presso la propria popolazione.
Per quel che concerne la liberazione degli ostaggi non mi sembra per nulla imminente, spero di essere smentito in maniera inequivocabile; quello che appare possibile, come primo segno di "buona volontà" nel proseguire la trattativa, potrebbe essere costituito dalla restituzione della salma di Fabrizio Quattrocchi e, nella migliore delle ipotesi, dalla liberazione di un solo altro ostaggio in contrapposizione ad un aumento del livello delle richieste. Questo comportamento è facilmente deducibile: perché il gruppo terrorista dovrebbe privarsi completamente dei soli mezzi di pressione che ha in mano e cioè gli ostaggi vivi ed il corpo di quello defunto, se non ritiene di aver esaurito tutti gli spazi negoziali possibili? E questi spazi negoziali oggi quali sono? Con molta probabilità le possibilità di negoziazione, comunque tutte riferite agli obiettivi principali e secondari che il gruppo vuole ottenere, sono inerenti alla situazione di assedio esistente in Falluja e quindi all'invio di soccorsi umanitari e/o medici che comunque riducano il peso dell'assedio ed alla possibilità di inserire e/o accrescere il peso politico del gruppo di riferimento all'interno del nuovo costituendo sistema di potere in Iraq che dovrebbe concludersi entro il 30 giugno p.v.; non possono, però, essere escluse nuove richieste con il mutare della situazione contingente. Anche la possibilità che sia richiesto un riscatto è ancora valida se la si considera come ultima ipotesi per la liberazione dell'ultimo ostaggio dopo che man mano si saranno esaurite, in un modo o nell'altro, tutte le altre opzioni.
IL RUOLO DEI PAESI LATINI NEL NUOVO ASSE PARIGI-BERLINO-MOSCA
di Paolo Santoro
scenari |
Il disegno di un nuovo asse Parigi-Berlino-Mosca, fatto da Henri de Grossouvre nel suo libro (che è poi un manifesto per una politica europea diversa da quella finora praticata) arriva a includere Madrid come prolungamento occidentale della retta che unisce le tre capitali della "Nuova Europa" (ovviamente non nel senso neoconservatore americano dell'epressione). Ma qui, in Spagna, si ferma.
Un asse infatti è sempre un asse e l'autore sente la grande responsabilità - affrontando con coraggio una materia così delicata come quella dei nuovi equilibri internazionali - di non disperdere l'idea del nocciolo duro russo-franco-tedesco con deviazioni e propaggini che potrebbero confondere, almeno in senso geografico se non politico, la linearità dell'idea originale.
In altri termini, riassumendo, la forza della Nuova Europa risiede (secondo de Grossouvre) nell'alleanza franco-russo-tedesca, ma lascia aperta la porta dell'intesa a quei paesi che abbiano caratteristiche (politiche, economiche, demografiche, etc.) compatibili e complementari (come condizioni necessarie e sufficienti).
Però, avere immaginato già in partenza un'apertura alla Spagna, impone contestualmente di affrontare almeno altre due questioni e cioè quella italiana in particolare e quella latina in generale. Altrimenti Lisbona, Roma e perfino Bucarest verrebbero abbandonate al ruolo di semplici comparse, almeno sul piano della teoria geografica.
Più concretamente, invece, sul piano della geopolitica nascerebbe subito un asse Roma-Londra che, come in passato, si metterebbe di traverso a quello franco-tedesco-russo e verrebbe gestito, all'interno dell'Unione Europea, certo non da Roma e nemmeno da Londra, ma da Washington al sevizio dei propri disegni. Tanto per esemplificare, servirebbe a realizzare la tanto agognata (da parte statunitense) entrata della Turchia in Europa.
Inoltre, semplificando, un'Europa nordica angloscandinava ed un'Europa mediterranea italo-iberica sarebbero di grande ostacolo ai progetti di Parigi-Berlino-Mosca non solo nel funzionamento delle istituzioni UE, ma anche nel mercato. Lo stesso de Grossouvre riconosce che nell'asse per così dire dei galli, dei germani e degli slavi, il peso demografico dei latini, se rappresentato solo dai Francesi, sarebbe del tutto insufficiente e finirebbe, nel lungo periodo con il marginalizzare il ruolo di Parigi a vantaggio di Berlino e Mosca.
Al contrario, una Federazione latina comprensiva di Francia, Spagna, Italia e Portogallo e, successivamente, della Romania, guidata da Parigi, assicurerebbe alla Francia un posto di primus inter pares nell'alleanza e sarebbe perfettamente simmetrica, sul piano costituzionale, con la Federazione russa e la Repubblica federale di Germania. Tre stati federali riuniti in una special partnership o in una Confederazione all'interno di una più vasta Unione Europea.
In questo senso, i segnali politici sono incoraggianti: Italia, Francia e Spagna non sono solo uniti dal grande retaggio culturale, ma sono caratterizzati da un'opinione pubblica nettamente europeista e, quel che più conta da un sistema politico bipartisan nel senso che - in questi paesi e solo in questi - sia lo schieramento liberalconservatore che quello socialistaprogressista non sono euroscettici e potrebbero arrivare nell'ambito di una federazione franco-latina inserita nell'Unione Europea a sostanziose rinunce in materia di sovranità nazionale.
Infine, Italia e Spagna apporterebbero all'asse Parigi-Berlino-Mosca una dote molto cospicua in termini politici ed economici (oltre che demografici): da una grande influenza sull'America del Sud al completo dominio mediterraneo fino alle coste libiche (con grandi vantaggi in termini di regolamentazione dei flussi migratori nordafricani) e con positive proiezioni sul fianco sudeuropeo in particolare verso l'Albania e la ex Jugoslavia. Una Federazione latina, alleata alla Germania e alla Russia darebbero all'Unione Europea quella forza geopolitica che potrebbe spegnere i focolai dei Balcani e del Maghreb e concorrere con le altre Grandi Potenze (USA e Cina) a lenire i mali di questo nostro tormentato pianeta.
di Giovanni Castellani Pastoris
iraq |
Con Hanna, un amico libanese d’antica data, abbiamo esaminato le conseguenze di un eventuale passaggio, in tempi molto brevi, delle responsabilità di conduzione delle operazioni in Iraq alle Nazioni Unite. Siamo giunti a conclusioni del tutto inattese. Premetto che è stato lui a portarmici e non perché abbia della comunità internazionale una visione diversa dalla mia, né delle capacità operative societarie considerazione maggiore di quanto io ne abbia, anzi. Ma infinite, come le vie del Signore, sono le possibilità che offrono le tortuosità della logica levantina.
In breve, dall’esercizio siamo usciti con un impressionante elenco di conseguenze del tutto inattese sia sul piano interno, sia su quello europeo che su quello internazionale.
Anzitutto sul piano interno, il Governo Berlusconi cesserebbe dall’essere guerrafondaio, lacchè degli americani e verrebbero meno, per la maggioranza della minoranza, le ragioni per chiedere il ritiro dei nostri militari. In secondo luogo la frattura nella sinistra avrebbe buone probabilità di diventare insanabile, con le conseguenze prevedibili sulle consultazioni elettorali. Anche per i nostri soldati in Iraq la posizione migliorerebbe, se non sul piano della dignità, almeno su quello della sicurezza. Non che cesserebbero le lotte, gli attentati e quant’altro, ma perché, come lo stesso Kofi Annan ha spiegato essere successo in Ruanda, ci sarebbe certamente chi, a richieste se intervenire per far cessare guerra civile e massacri, indicherebbe che la cosa non è prevista. I nostri soldati, carabinieri, parà, ecc., come gli altri corpi di spedizione, diventati ONU, rimarrebbero al sicuro nei loro accantonamenti fino al momento di un eventuale ritiro.
Sul piano Europeo, Regno Unito, Germania, Russia vedrebbero venir meno le cause prossime dei loro screzi e, nei rapporti transatlantici, finirebbero per trovare anche modo di porre in essere una più equa ripartizione dei profitti inclusa la legittimazione parziale dei contratti petroliferi con Saddam Hussein per la Francia, che finirebbe per accomodarsene.
Per il piano internazionale vi sono diversi livelli. Le Nazioni Unite, il vertice, riacquisterebbero l’immagine di sempre, anche se non è granché. Le decisioni, sia per la linea politica che per l’azione, verrebbero prese dal Consiglio di Sicurezza, e quindi dai suoi Membri Permanenti, che in definitiva è ciò che vogliono per salvaguardare i loro interessi. Gli Stati della regione sarebbero liberi di operare per estendere le rispettive zone di influenza ed è ciò a cui tengono.
Tutto bene quindi e tutti soddisfatti.
Forse un po’ meno gli Iracheni che continueranno per un certo tempo a vivere (ed a morire) fra violenze, guerriglia, attentati, un po’ in nome proprio e un po’ per conto terzi. Ma se fosse ciò che vogliono? Per la prima volta, dopo quasi un secolo, farebbero anche un po’ in nome proprio.
A questo punto mi scappa “e quale sarà, a suo tempo, il finale?” Hanna non si lascia sfuggire quella che interpreta una delega a pensare. “Ma come in Ruanda, finiranno per avere la meglio gli Anglosassoni” (gli scoccerebbe troppo dire gli Americani “il cui semplicismo”, come ama ripetere, “fa cadere le braccia”). Non mi va di inoltrarmi sul terreno delle previsioni. Oltre quarant’anni di professione me ne hanno insegnato sia i rischi che l’inutilità, ma penso che Hanna potrebbe benissimo aver ragione. Il DNA imperiale, che è il loro, fa sì che operino quasi sempre cercando, per quanto possibile, di mantenere, nell’affermazione dei propri interessi, la saldezza di certi principi generali. Ciò che è un indirizzo di solito vincente.