OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB |
NUMERO 2/2003 |
barbarie di Massimo Virgilio
Iran: il nemico è alle porte di Aldo Torchiaro
lo spettacolo della guerra di Massimo Virgilio
il bombardamento mediatico usa di Marco Leofrigio
il blitzkrieg di Domenico Catera
non ci sono guerre ideologiche in africa di Domenico Catera
geopolitica del debito estero di Aldo Torchiaro
FORUM DI BORDER con:
problemi di geopolitica di Piergiorgio Siena
lettera al club di Marco Panichelli
in risposta alla lettera di marco panichelli di Giovanni Castellani Pastoris
I ponti sul Tigri e sull' Eufrate: perché sono sempre intatti? di Marco Leofrigio
problemi geopolitici 2 di Piergiorgio Siena
che cosa succederebbe se l'opec passasse all'euro? di Paul Harris
di Massimo Virgilio
guerra in iraq |
La guerra degli angloamericani contro l'Iraq è cominciata. Come da copione. Il popolo iracheno conta i suoi primi morti. Forse una decina. Ma è solo l'inizio. Ce ne saranno altri, molti altri. Bush lo ha promesso a Saddam Hussein.
Se da una parte c'è chi soffre per i lutti e le distruzioni, dall'altra, cioè dalla parte degli aggressori, c'è chi si mostra molto soddisfatto. Questo conflitto, infatti, inizia a dare i suoi frutti, portando milioni di dollari di utili nelle casse di moltissime aziende americane e inglesi.
L'attacco all'Iraq serve anche a questo. A controllare una delle zone del mondo più ricche di petrolio. Ma anche ad arricchire i grandi elettori di Bush e del suo fedele alleato inglese. E questi ultimi.
Il giornalista Nelson D. Schwartz ha pubblicato un'interessantissima inchiesta al riguardo sul quindicinale statunitense di economia e finanza Fortune. L'articolo è stato ripreso e tradotto in italiano sul numero 479 di Internazionale. Schwartz mette in luce il ruolo predominante che le società militari private hanno acquisito negli ultimi anni all'interno del mastodontico apparato militare statunitense. "La spinta governativa a privatizzare e la crescente complessità della macchina bellica rendono le forze armate sempre più dipendenti dai fornitori esterni. Il risultato è che il Pentagono appalta all'esterno il maggior numero possibile di compiti".
Come ben si comprende da queste parole il giro d'affari è vertiginoso. "Secondo una stima, - prosegue l'articolista - quest'anno il Pentagono verserà almeno trenta miliardi di dollari - l'otto percento del suo bilancio totale - a società militari private". Una delle più importanti di esse è la Halliburton. E non è certo un caso che "alla fine degli anni novanta l'amministratore delegato della Halliburton era il vicepresidente Dick Cheney, segretario alla difesa nella prima amministrazione Bush".
In una dichiarazione dell'analista del Pentagono Paula Rebar, che si occupa di questioni gestionali, riportata nell'inchiesta di Fortune, si legge quanto segue: "Anche se abbiamo sempre fatto affidamento sugli appaltatori esterni, il modo in cui dipendiamo da loro adesso è senza precedenti. Bene o male che sia, è la realtà con cui dobbiamo fare i conti".
"Tutto questo - conclude Schwartz - ci porta all'Iraq. Non saremo così insensibili da descrivere la crisi irachena come una grande opportunità economica, perché ci sono troppe vite in pericolo. Ma il fatto è che in questa guerra le società private saranno estremamente coinvolte, sia rifornendo le truppe durante i combattimenti sia nella ricostruzione. Solo portare l'acqua nel cuore del deserto, per non parlare del cibo e di altre forniture, è una sfida monumentale. Ed è chiaro che prendersi cura di centinaia di migliaia di soldati in Iraq non sarà una spesa da poco".
Ekkehart Krippendorff, fino al 1999 professore di scienza della politica alla Libera Università di Berlino, rincara la dose. "Globalmente considerati, - scrive nel suo libro significativamente intitolato "L'arte di non essere governati" - tutti gli Stati spendono per le forze armate più che per l'educazione e la salute dei loro cittadini. Le forze armate sono il maggiore datore di lavoro in assoluto; i danni ambientali causati direttamente e indirettamente dalle forze armate sono superiori a quelli provocati da ciascuna singola industria. Nel ventesimo secolo il numero di rovesciamenti violenti di governi dovuti all'intervento delle forze armate supera quello causato da ribellioni politiche o rivoluzioni".
Il politologo tedesco, poi, si rammarica del fatto che l'istituzione militare, nonostante con le sue guerre "soltanto nell'ultimo secolo" abbia causato milioni e milioni di vittime, "per tacere del numero molto più grande delle persone cacciate dalla loro terra e di quelle ridotte alla fame dalle conseguenze della guerra", riceva da parte delle scienze sociali, della stampa e dell'opinione pubblica soltanto "un'attenzione relativamente modesta".
L'attacco U.S.A. contro l'Iraq di Saddam Hussein conferma dunque tutte queste affermazioni, rendendole, se possibile, ancora più preoccupanti.
Stando così le cose non possiamo che concordare con Eric Hobsbawm, nel suo bilancio del secolo appena trascorso: sono le forze armate ad aver scritto "il capitolo più nero nella storia occidentale delle torture e del controterrore".
E sono ancora le forze armate a dare inizio al nuovo millennio nel sangue e nella devastazione.
Dopo la presa di Baghdad, aumentano i timori a Teheran
di Aldo Torchiaro
guerra in iraq |
Mentre si combatte metro per metro per la presa di Baghdad, gli osservatori internazionali guardano con crescente interesse alle posizioni iraniane verso gli americani. E viceversa.
L’atteggiamento dell’Iran sulla guerra in Iraq è complesso. L'Iran condanna Saddam Hussein, ritenendolo responsabile della guerra che per otto anni ha contrapposto Iran e Iraq e accusandolo di aver ucciso cittadini iraniani con armi chimiche. Nondimeno, l'Iran vive la presenza militare americana ai suoi confini come una minaccia ancor più grande per la sicurezza del suo regime e dei suoi interessi nazionali. Essendo uno dei tre paesi dell’"asse del male", l'Iran controlla le mosse degli Stati Uniti in merito all’Iraq e alla Corea del Nord, temendo di poter essere il prossimo sulla lista. Sulla base di questo timore, l'Iran si oppone all’ operazione americana per abbattere il regime iracheno, sia per la ragione che terrorizza i suoi cittadini, sia per quella che possiede a sua volta,in tutta probabilità, una varietà di armi di distruzione di massa.
Così, la politica dell’Iran nei confronti dell’offensiva americana contro il regime iracheno è caratterizzata da atteggiamenti contraddittori. Mentre l'Iran ha adottato ufficialmente un approccio militante e ostile verso gli Stati Uniti e la sua ingerenza nella regione, intraprende azioni che contraddicono questo atteggiamento, come il mantenere i colloqui con l’opposizione sciita e curda in Iraq per influire sulla natura del futuro governo. Inoltre, appoggia la penetrazione delle forze curde dall’Iran in Iraq e sembra aver raggiunto una discreta comprensione con gli Stati Uniti. L'Iran sta anche promuovendo iniziative regionali, nel tentativo di limitare la presenza americana nel Golfo, proponendo elezioni in Iraq sotto gli auspici dell'ONU e agendo spesso con Europa e Russia in affondi diplomatici contro gli Stati Uniti.
Dal discorso sull’"asse di male" del gennaio 2002, l'Iran teme di poter essere il prossimo nella lista. I leader spirituali iraniani dicono che l'Iraq è solo un pretesto. L'obiettivo reale degli Stati Uniti sarebbe proprio l’Iran di Khamenei.
Forse perché la paura che l'accusa di possedere armi di distruzione di massa sarà sollevata in futuro contro l'Iran, il Leader Supremo 'Ali Khamenei sostiene che le affermazioni degli Stati Uniti di agire contro l'Iraq perché possiede armi di distruzione di massa (come pure nel nome di promuovere la democrazia nella regione), sono "grandi bugie" a cui non credere. Gli obiettivi degli Stati Uniti, dice Khamenei, sono di "cambiare la mappa politica del Medio Oriente" e di intensificare i loro complotti contro “Iran, Siria e Arabia Saudita". Anche l’ex presidente iraniano, 'Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che dirige ora l'Expediency Council, ha detto: "La presenza americana in Medio Oriente è peggiore delle armi di distruzione di massa di Saddam" e, ha aggiunto, la massiccia presenza militare americana nel Golfo Persico rivela le loro "sinistre" intenzioni. Rafsanjani ha definito i tentativi americani di stabilire una presenza in aree sensibili come il Golfo Persico e il Medio Oriente "pericolosi" per la pace e la sicurezza nella regione e nel mondo, e ha dichiarato che l'America sta cercando di resuscitare il governo coloniale.
L’Ayatollah Ahmad Jannati, un leader delle preghiere del venerdì a Teheran e un socio di alto rango di 'Ali Khamenei, non è stato da meno proclamando in uno dei suoi sermoni del venerdì: "Noi non siamo contro il disarmo dell’Iraq, ma questo è diverso dall’ occupazione militare americana di quel paese”. E ha dichiarato che l'Iran è "al 100 per cento contrario all’invasione degli Stati Uniti in Iraq”.
Il Presidente iraniano, Mohammad Khatami, alla conferenza del Movimento dei paesi non allineati ha sottolineato che gli Stati Uniti si sono calati nel ruolo di "un Grande Fratello guidato dal fanatico fondamentalismo cristiano”. Ed ha aggiunto: "Un attacco all’Iraq è in linea con la politica unilaterale dell'America il cui obiettivo è l'intervento illegittimo nel futuro di altri paesi", ed ha avvertito gli Stati Uniti a non appoggiare gli avversari del regime iraniano.
L'Iran teme che la caduta del regime di Saddam influirà sul suo controllo sul centro spirituale sciita. L'Iraq ha una numerosa popolazione sciita e le città sante di Karbala e di Najaf (più sante persino della Mecca per gli sciiti) sono dentro i suoi confini. Con l'istituzione del regime di Saddam Hussein negli anni '70, la leadership sciita è stata espulsa da Najaf - il principale centro spirituale sciita – ed esiliata nella città iraniana di Qom. Da allora, Qom è stato il luogo degli ayatollah sciiti e si è caratterizzato come il principale centro religioso sciita.
Come potenza regionale e protettore degli sciiti nel mondo, l'Iran, sotto la leadership degli ecclesiastici di Qom, cerca di preservare la sua influenza e la sua centralità, particolarmente da quando i requisiti di Ali Khamenei come giurista religioso dell'Iran sono insufficienti. La leadership sciita a Qom teme che, sotto un regime diverso in Iraq - sotto gli auspici degli Stati Uniti- Qom perderà il suo potere e cederà la sua influenza nel mondo sciita a Najaf, dato che gli ayatollah di estrazione irachena vi si trasferiranno.
Molti rapporti hanno sostenuto recentemente che tra l’Iran e il leader spirituale degli Hizbullah, sceicco Fadhallah, collegato con Najaf, è in atto una frattura. Il settimanale arabo Al-Watan Al-Arabi riferisce che i leader conservatori in Iran stavano pianificando di assassinare lo sceicco Fadhallah, la cui influenza si è estesa oltre i confini del Libano. Secondo questo rapporto, a Teheran si è tenuto un incontro segreto tra ecclesiastici conservatori vicini a Khamenei, rappresentanti dei servizi segreti iraniani e del Consiglio nazionale supremo di sicurezza, e un autorevole personaggio libanese collegato con il gruppo degli sciiti libanesi, per discutere il futuro degli sciiti iraniani e di Hizbullah di fronte alle minacce americane
Uno dei principali argomenti in programma era la loro disapprovazione per il crescente potere e l’influenza dello Sceicco Fadhallah sugli sciiti al di fuori del Libano. Il rapporto più avanti ha aggiunto che l'Iran sta cercando di discreditare lo sceicco Fadhallah tra i suoi sostenitori per dichiararlo "un apostata", in preparazione del suo assassinio. Rapporti che riguardavano la divisione sono apparsi anche in giornali indipendenti come il quotidiano arabo londinese Al-Hayat, il quale ha citato Fadhallah che ha detto di non temere i tentativi di assassinio da parte dell’Iran.
Il ministro degli Esteri iraniano, Kamal Kharrazi, ha perseguito la via diplomatica quasi oltre l’ultimo miglio, mantenendo anche oggi contatti con Cina, Russia, Arabia Saudita ed Europa. Durante gli incontri con il presidente austriaco Thomas Klestil e con il ministro degli Esteri britannico Jack Straw, aveva dichiarato che "è’ assolutamente necessario superare Saddam, poiché è responsabile finora dello scoppio delle due devastanti guerre nella regione, ma questo cambiamento dovrebbe avere luogo attraverso metodi politici e ricorrendo alle iniziative dell’Onu”. Per niente d’accordo con il suo collega, il ministro della Difesa 'Ali Shamkhani ha dichiarato che nient’altro che una sconfitta militare potrebbe deporre il presidente iracheno Saddam Hussein. "Gli americani", ha detto, "stanno perseguendo una strategia di vittoria, la nostra esperienza nella guerra Iran-Iraq (1980-1988) mostra che il regime iracheno non avrebbe abbandonato il potere senza esservi costretto da una guerra”. Anche un membro della Commissione per la sicurezza nazionale e la politica estera del Majlis, Hamid Reza Haji Babaie, ha assunto pubblicamente una posizione insolita quando ha detto che "Saddam è una creatura pericolosa", e che “se è messo fuorigioco, questo gioverà all'intera regione, incluso l'Iran".
Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Hamid Reza Asefi, ha spiegato che l'Iran "è preparato per gli scenari peggiori. Perciò, i nostri piani sono stati organizzati in modo che l'Iran non si trovi di fronte ad una situazione inattesa o a probabili negativi risultati della guerra... Per questa ragione, proteggere i nostri interessi nazionali è per noi prioritario".
L'Iran si sta preparando agli eventi muovendosi in molte sfere: sta avendo colloqui con rappresentanti dell'opposizione irachena, sia sciiti che curdi, e concede i suoi auspici a riunioni fra loro sul suolo iraniano. Dopo che i principali gruppi di opposizione si sono incontrati a Teheran in gennaio, il ministro degli Esteri iraniano, Kharrazi, ha respinto le affermazioni secondo cui la presenza di questi gruppi di opposizione in Iran violava la posizione neutrale dell’Iran verso Baghdad, affermando: "Noi manterremo la nostra posizione neutrale, ma questo non significa che rimaniamo indifferenti". Ed ha aggiunto che è "una procedura normale che l'opposizione irachena voglia consultarsi con noi sia in Iran sia fuori l'Iran".
Il Financial Times ha riferito che circa 5.000 membri delle forze di opposizione sciite irachene appoggiate dall'Iran stanno attraversando il confine dall'Iran all’Iraq settentrionale. Funzionari iraniani hanno annunciato che la missione di queste forze - che sono sotto il comando dell’Ayatollah Mohammad Bakr al-Hakim, un autorevole sciita iracheno e un leader del Consiglio supremo della Rivoluzione islamica in Iraq (SCIRI), che vive in Iran dal 1980 - era puramente difensiva. Queste forze, note come "La Brigata Badr", erano state addestrate ed equipaggiate dalle Guardie rivoluzionarie iraniane.
I due leader principali dell’opposizione curda hanno intanto visitato l'Iran e hanno avuto colloqui con i leader dell'opposizione irachena. Il leader dell’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), Jalal Talabani, ha visitato l'Iran e ha definito “molto buoni” i rapporti fra la sua organizzazione e l’Iran. Ha detto che questi rapporti erano basati su tre assi fondamentali: sostegno iraniano per il popolo curdo, bisogno per i curdi del sostegno iraniano, e la loro comune fede come musulmani. Il suo rivale giurato, Massoud Barazani, leader del Partito Democratico Curdo (KDP), ha visitato Teheran alcuni giorni prima e si è incontrato con il leader del Congresso Nazionale Iracheno, Ahmad Chalabi, e con i leader del Consiglio supremo della Rivoluzione islamica in Iraq, per discutere il futuro di Baghdad.
Anche
Rafsanjani ha avvertito i leader americani a non rimanere nella regione:
"Noi non permetteremo agli americani di restare nell'area", ha detto,
e li ha avvisati a considerare il fatto che i paesi della regione non gli
permetterebbero di "derubare" la loro ricchezza naturale. Ad una
riunione con il ministro degli Esteri russo, Ivanov, Rafsanjani ha detto:
"I vicini [dell’Iraq], Iran incluso, non consentiranno agli Stati
Uniti di derubare l'Iraq del suo petrolio”. Ed ha aggiunto che, mentre gli
Stati Uniti si considerano invincibili, sono in effetti vulnerabili . Molti alti
funzionari di sicurezza iraniani hanno fatto dichiarazioni tese a funzionare
come deterrente, non contro un attacco americano all’Iraq, ma piuttosto contro
un attacco all’Iran. Il Segretario del Supreme National Security Council,
Hujjat al-Islam Hassan Rowhani, ha detto che gli americani sono in grave errore
poiché, anche in caso di loro vittoria sull'Iraq, l'Iran si alzerà
invincibilmente davanti a loro. Non ci sarà alcuna "felice conclusione per
la strada che gli americani hanno scelto".
Il ministro della Difesa iraniano 'Ali Shamkhani ha annunciato che l'Iran
reagirebbe "rapidamente e decisivamente" se gli americani provassero a
mettere piede all'interno dei suoi confini. "Non permetteremo agli Usa di
commettere qualsiasi errore contro il nostro paese... data la fiducia che gli
americani hanno nel loro equipaggiamento, se essi commettono un errore,
affronteremo l'errore dando una risposta rapida e decisiva" .
L’Ayatollah Ahmad Jannati, durante della preghiera del venerdì a Teheran, ha
attaccato l'amministrazione americana in un sermone, dicendo: “Molte persone
ingenue nel Congresso degli Stati Uniti appoggiano i passi del capo del loro
governo, che agisce come Stalin, Hitler e Genghis Khan... il popolo presto si
occuperà di lui” .
Suona come una dichiarazione di guerra. Ma quanta parte dell’Iran seguirebbe questa linea ?
di Massimo Virgilio
guerra in iraq |
Negli ultimi anni la tecnologia ha compiuto progressi a dir poco prodigiosi. In tutti i campi. Compreso quello militare. Grazie alla tecnologia, ha scritto Jonathan Glover, professore di etica a Londra, "le decisioni di poche persone possono significare morte e orrore per centinaia di migliaia, per milioni di altri individui".
Dunque la tecnologia non ha reso le guerre meno devastanti e cruente che in passato. Ha solo consentito di arrecare maggiore distruzione e morte con mezzi militari e uomini in divisa più contenuti per numero rispetto a quelli che qualche decennio fa era necessario utilizzare per affrontare una guerra.
Non è un caso che stando così le cose nel corso dei conflitti più recenti è perito un numero notevolmente inferiore di soldati rispetto al passato, ma è contestualmente salito a dismisura il numero delle vittime civili e l'entità delle distruzioni arrecate alle strutture delle nazioni coinvolte negli scontri armati.
Questa è una verità inconfutabile. Eppure in questi luttuosi giorni di battaglia nessuno dei mezzi di comunicazione ufficiali occidentali ne parla.
E' comprensibile che tale verità sia volutamente ignorata dai falchi di Washington. Per loro l'unica cosa veramente importante, oltre alla vittoria finale, è evitare ad ogni costo la morte di un numero significativo di soldati statunitensi. E grazie alla tecnologia militare di cui dispongono gli U.S.A. questo pericolo è scongiurato. La morte di civili inermi, d'altronde, non rappresenta un problema. Si tratta solo di danni collaterali non evitabili in una guerra, neanche utilizzando tecnologie all'avanguardia.
"In passato - ha affermato John Pike, capo dell'americana GlobalSecurity.org, in un articolo apparso sulla rivista "The Christia Science Monitor" e tradotto in italiano da "Internazionale" - la decisione di entrare in guerra implicava in ogni caso il sacrificio di vite umane e beni materiali. Oggi a essere sacrificati sono soprattutto i beni. Questo permette agli Stati Uniti di cominciare un conflitto con molta più facilità, il che può spiegare perché negli ultimi dodici anni siamo stati in una situazione di guerra semipermanente".
La guerra dell'amministrazione Bush contro l'Iraq di Saddam Hussein è analizzata fino nel più piccolo dettaglio da esperti e tecnici che spiegano al pubblico le tattiche e le strategie degli eserciti schierati in campo e descrivono approfonditamente le meraviglie tecnologiche delle quali sono forniti i sistemi d'arma statunitensi, contrapponendole alle ormai vecchie e obsolete armi utilizzate dai militari iracheni.
A sentire questi analisti viene quasi da provare ammirazione per l'ingegno con il quale l'uomo si adopera a scovare metodi sempre più complessi e sofisticati per massacrare i propri simili. L'esaltazione della tecnologia militare da parte di giornalisti e studiosi è tale e tanta da fare dimenticare alla gente che li legge o li ascolta che in realtà si sta parlando di una guerra. E la guerra coinvolge sempre e inevitabilmente esseri umani, siano essi militari o civili. Ed è fatta con la loro carne, il loro sangue, le loro viscere, il loro dolore. Anche se i mezzi per realizzarla sono i più tecnologicamente avanzati mai realizzati. Anzi, soprattutto a causa di questo.
Significativa al riguardo è la testimonianza resa al quotidiano britannico "The Independent" dal suo corrispondente dal Medio Oriente, Robert Fisk. "Nel 1996 l'artiglieria israeliana ha bersagliato per 17 minuti i profughi libanesi del campo delle Nazioni Unite di Qana, provocando la morte di 106 civili, dei quali più di metà erano bambini. Ero lì e mi sono trovato di fronte una giovane donna che stringeva fra le braccia un uomo di mezza età, morto. Papà, papà, gridava, carezzandogli il viso. All'uomo mancavano una gamba e un braccio, ma quando la scena fu mandata in onda dalle tv europee e statunitensi, nell'inquadratura c'erano solo le teste della giovane e dell'uomo. Delle amputazioni non si vedeva nulla. La causa della morte era stata cancellata in omaggio al buon gusto. Ma solo così riusciamo a sopportare la prospettiva di una guerra. Nessuno prende atto della verità. E questo è appunto il modo in cui i nostri leader ci convincono, ancora una volta, a entrare in guerra".
il bombardamento mediatico usa
di Marco Leofrigio
appunti |
Un'informazione
ed uno spunto per il Limes Club
Sulla guerra in corso navigando il web all' indirizzo www.defendamerica.mil
troviamo "tutto" quello che il Dipartimento della Difesa ha preparato
sulla guerra all'Iraq e che intende comunicare ai cittadini statunitensi e al
resto del mondo.
Salta agli occhi che tutta questa preparazione mediatica certo non si improvvisa
in poche settimane.
Troviamo tutti i link ad alcuni siti web selezionati e correlati alla guerra in
Iraq, come quello del CentCom del generale Tommy Franks (www.centcom.mil)
e a tutti quelli delle Forze Armate Usa.
Vi sono link per inviare mail ai soldati nel Golfo Persico (www.defenselink.mil
con lo slogan "support our troops") e anche siti di organizzazioni
umanitarie.
E' quindi evidente anche la preparazione mediatica alla guerra ed una
meticolosità nell' attenzione al fronte interno che non era stata nella guerra
del '91 a questo livello !!
Merita, secondo il mio parere, un'analisi approfondita da parte di tutti noi del
Club.
Nota a margine: ecco le famose carte da gioco: tra poco diventeranno da collezione, vedrete le quotazioni su e-Bay.... http://www.centcom.mil/Operations/Iraqi%20Freedom/iraqifreedom.asp
Una breve descrizione di un tipo di guerra che è passata alla storia come Bliztkrieg o Guerra Lampo
di Domenico Catera
Storia |
Sul finire della I guerra mondiale il carro armato divenne un mezzo comune sul campo di battaglia, ma esso non era ancora molto considerato dai vertici militari delle varie potenze i quali erano ancora ancorati a vecchi schemi nel condurre le guerre e ci volle tutta la potenza del Bliztkrieg tedesco per convincere gli studiosi militari della guerra convenzionale che il carro, e ancor di più il suo metodo di impiego, potevano avere un effetto decisivo sull’esito di una battaglia. Il Bliztkrieg ebbe una vita relativamente breve, dal 1939 a 1942, ma in questo breve lasso temporale produsse dei cambiamenti nelle teorie militari di portata storica.
Alla fine della I guerra mondiale la maggior parte degli eserciti, che avevano partecipato al conflitto relegarono il carro armato al ruolo di appoggio diretto alla fanteria, solo alcuni teorici militari ne capirono la vera rivoluzione operativa nel modo di condurre le guerre future. Uno di questi fu il capitano Basil Liddell Hart; altri spiriti illuminati furono i generali Fuller, Martel, Broad e Lindsay, che concordarono con Liddell Hart nel costituire una armata corazzata da impiegare a massa; anch’essi però ancora consideravano i carri come dei sostituti meccanici dei cavalieri pesantemente armati usati nelle guerre passate. In Germania il futuro generale Heinz Guderain propose la costituzione di intere armate corazzate come una forza ben equilibrata composta da fanteria meccanizzata, carri, genio ed artiglieria semovente con relativa copertura aerea.
Il modo in cui viene attuato il Bliztkrieg è molto semplice nella sua descrizione: impiegando delle pattuglie esploranti, anch’esse motorizzate, venivano individuati dei punti deboli dell’avversario e, comunicati tramite apparecchi radio alle formazioni carri situate più indietro rispetto alla linea del fronte. Una volta preselezionato il tratto da attaccare i carri si ammassavano ed avanzavano verso l’obbiettivo da occupare, il tutto avveniva sotto l’ombrello protettivo dell’aeronautica, infatti, il dominio dei cieli era un fattore determinante per il buon esito delle operazioni, perché senza la superiorità aerea del campo di battaglia i carri sarebbero stati una facile preda dell’aviazione del nemico. Inoltre le formazioni carri dovevano essere seguite da tergo sia dalla fanteria meccanizzata che dall’artiglieria semovente. Un altro elemento che permise al Bliztkrieg la propria riuscita fu la stretta cooperazione tra i carri e gli aeri di attacco al suolo, nella fattispecie il famoso Junker “87 meglio noto con l’appellativo di Stukas il cui scopo era quello annientare i centri di fuoco e di resistenza nemici antistanti le colonne corazzate in avanzamento.
Con questa nuova tecnica bellica le armate tedesche dal ’39 al ’42 annientarono quasi tutti gli eserciti contro cui si scontrarono, ma quando la guerra da offensiva divenne difensiva su quasi tutti i fronti il Bliztkrieg era oramai relegato ai libri di storia.
Nonostante siano passati quasi 100 anni dalla sua prima apparizione sul fronte occidentale durante il primo conflitto mondiale, il carro armato continua ancora ha costituire la spina dorsale dei moderni eserciti e, lo sarà ancora per molti anni avvenire.
NON CI SONO GUERRE IDEOLOGICHE IN AFRICA
di Domenico Catera
africa |
Non ci sono guerre ideologiche in Africa. E non c’erano neppure ai tempi dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda e, non ci sono neppure guerre etniche e tribali. I cruenti conflitti in atto in Etiopia, Somalia, Angola, Sierra Leone, Sudan, Uganda, Ruanda, nel Kongo A e nel Kongo B sono solo il frutto di politiche scellerate messe in atto da alcuni Paesi o coalizioni di Paesi che hanno strumentalizzato ideologie e tribalismi, solo per attizzare il fuoco dell’odio tra intere popolazioni, con lo scopo recondito di depredare le ricchezze che i loro Paesi custodiscono. Per avere un’idea delle ricchezze celate nelle viscere del continente nero ecco alcuni dati: il 40% del fabbisogno mondiale di cobalto è coperto dalla produzione del continente, la meta’ circa della produzione mondiale di diamanti e concentrata in Africa. Secondo i dati dell’Ufficio Americano delle Miniere il 90 % delle riserve mondiali di metalli nobili tipo: palladio, platino, rodio, rutenio, iridio ed osmio si trovano situate in Sud Africa. In alcuni Stati come il Burundi, lo Zimbabwe, l’Etiopia e il Kenia prospezioni geologiche hanno permesso di scoprire altri giacimenti di questi minerali la cui consistenza non e’ stata ancora accertata. L’Africa inoltre e’ anche una grande produttrice di rame e zinco, oltre ha possedere vasti giacimenti di uranio. Le riserve di petrolio, eccetto quelle dei Paesi del nord Africa, non sono state stimate con sufficiente precisione. Le aree in cui la produzione e’ maggiore sono collocate tra la Nigeria e la Namibia, ma mancano dati certi per altre zone come il Sudan o le coste prospicenti l’Etiopia e la Somalia. Lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi dell’entroterra e’ reso problematico dalla perenne instabilita’ dei Paesi dove il petrolio e presente, quindi la produzione e limitata ai soli giacimenti off-shore.
Se i popoli africani avessero a disposizione tutte le ricchezze o solo una parte di esse sarebbero ricchissimi. Invece sono poverissimi e alla merce’ di guerre e guerriglie, oltre ad essere ostaggi di leadership corrotte, le quali hanno pensato e pensano solo ad arricchirsi a livello personale.
Inoltre nell”Africa sub-sahariana è in atto processo ( forzato ) di islamizzazione , parallelo al decremento, anche demografico, della presenza cristiana e dell'influenza occidentale legata alle ex-potenze coloniali quali Francia, Belgio e Regno Unito.
Lasciata al proprio destino, destabilizzata dai continui conflitti armati, strangolata da un colossale debito estero e da una emergenza sanitaria senza precedenti, dovuta all”AIDS, l”Africa scivola lentamente verso un baratro senza fine.
di Aldo Torchiaro
attualità |
Il debito estero del Sud del mondo continua a crescere e sta tornando ad essere uno dei problemi imprescindibili per i grandi della Terra. Alla fine del 2002, il debito estero dell’America Latina e’ cresciuto fino a superare i 725 miliardi e mezzo di dollari. L'instabilita' economica che ne deriva indebolisce, come prima conseguenza, la democrazia. Ecco perche', nella frastornante invocazione che gli Stati Uniti ne fanno, qualcosa suona sordamente.
L’origine e la composizione del recente indebitamento estero differisce da quello accumulato negli anni Ottanta. In contrasto con il passato, l’attuale debito e’ stato contratto da governi democratici e molti di quei governi hanno applicato strategie enfaticamente promosse dai paesi industrializzati, la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale. La composizione del debito, questa puo’ essere la novita’ di rilievo, e’ oggi diversificata. C’e’ stato un notevole incremento nell’emissione di bonds ed altri certificati – sia pubblici che di aziende private – che sono ora nelle mani dei brokers, banche d’investimenti e fondi pensione.
Tutte le aspettative di cambiamento dei meccanismi di governo del debito estero hanno fallito. Oggi le nazioni ricche, le organizzazioni internazionali (la Banca Mondiale e l’FMI) e le istituzioni private rigettano ogni istanza di aggiustamento. Parole come “moratoria”, “riduzione” o “arbitrato” provocano un nervosismo che si riflette immediatamente sui mercati, a prescindere dalla situazione sociale del paese. La risposta di queste istituzioni e’ causa di seri problemi se consideriamo che cosi’ hanno finito con l’accettare il collasso finanziario e sociale di un certo paese come una conseguenza dell’indebitamento. Il rifinanziamento all’ultimo minuto di cui hanno goduto il Messico o la Turchia non viene eseguito in tutti icasi. Quando l’Ecuador e l’Argentina hanno dichiarato la moratoria verso il pagamento con il FMI non ci sono state misure internazionali di ammortizzazione per loro.
Le nazioni creditrici, le banche internazionali e lo stesso FMI sembrano aver dimenticato che c’e’ un altra possibilita’ da seguire. A quanto pare nessuno ricorda l’accordo mondiale sul debito estero tedesco firmato a Londra nel 1953. Questo vuoto di memoria e’ imperdonabile dal momento che quelle risoluzioni sono esattamente cio’ che alcune nazioni del Sud del mondo chiedono oggi.
Quell’accordo sul debito estero era stato studiato per risolvere il problema dei debiti della allora nascente Repubblica Federale Tedesca, inclusi quelli ancora in pending dalla prima guerra mondiale ed altri generati con la guerra alla Germania nazista (e come risultato del Piano Marshall). Gli Stati Uniti avevano attivamente promosso quei negoziati, miranti a creare una solida base per l’economia tedesca con l’obiettivo di evitare nuove crisi politiche ed assicurare stabilita’ interna, permettere lo sviluppo dell’economia ed offrire un gentlemen agreement che ricomponesse i rapporti tra paesi creditori e paesi debitori.
Quei negoziati impiegarono un anno ad essere portati a termine, e portarono il 27 febbraio 1953 alla firma dell’ “Accordo sul debito estero tedesco” a Londra. Il trattato sanciva una riduzione immediata del 50 % del debito estero di Bonn.
Ma a Londra si era giunti a qualcosa di ancora piu’ sorprendente: l’accordo riconosceva che la Germania doveva essere messa in grado di sviluppare la sua economia ed i suoi prodotti, ed indicava che il surplus derivante dal commercio estero dovesse essere messo dai paesi ricchi a disposizione del pagamento del debito estero tedesco senza richiedere a quel paese di intaccare le proprie riserve monetarie per saldare I debiti. Un esemplare modello di interazione solidale, ma anche di investimento democratico, che ha dato rapidamente i suoi frutti.
L’atteggiamento di Washington e dei suoi alleati al riguardo del debito estero e’ oggi del tutto opposto. Attualmente i paesi creditori rigettano ogni riduzione del debito, non sono interessati nel dare stabilita’ interna a ciascuno dei paesi poveri, fanno poco nei riguardi del caos politico che prende piede in piazze non strategicamente interessanti quali l’Argentina e l’Ecuador.
Oggi molte organizzazioni non governative guardano a quell’accordo come ad un precedente da prendere a modello per le crisi del nostro tempo. Alcune Ong hanno sviluppato proposte che legano il pagamento del debito estero all’adeguamento dei prezzi internazionali dei prodotti esportati dai paesi in via di sviluppo, atto a consentirne una giusta commercializzazione sui mercati occidentali. Altri chiedono che il pagamento del debito estero sia condizionato dall’andamento dell’economia nazionale. Il noto economista americano Tobin ha proposto di tassare per una percentuale infinitesimale le transazioni finanziarie sopra un certo tetto, per ridurre il debito estero dei paesi meno sviluppati.
Queste istanze di ripianamento del debito sono molto simili a quelle postulate da alcuni paesi, tra i quali la Germania e la stessa Italia, nelle trattative che precedettero gli Accordi di Londra del 1953.
Alla luce del recente passato di tanti regimi islamici o sudamericani, e di quanto oggi si denuncia –ad esempio- a proposito delle violazioni dei diritti a Cuba, il mondo occidentale dovrebbe riflettere su quanto sia accettabile lasciare che una parte del pianeta affondi, dando inevitabilmente vita a dittature di tipo fondamentalista, comunista o ultranazionalista. La democrazia –come si e’ detto nel caso dell’Iraq- deve essere vista come un valore sul quale investire, anche finanziariamente. E’ un investimento che produce risultati di ritorno da tutti i punti di vista.
Una idea sana dell’economia di scambio dovrebbe guardare alla pluralita’ di soggetti sul mercato mondiale dei capitali e delle merci come una risorsa, assumendo il dovere riformista di porre i paesi svantaggiati in condizione di recuperare terreno, ed affrontare il risanamento con responsabilita’. Potremmo dire con responsabilita’ condivisa.
Proprio come si decise di fare a Londra, nel 1953.
Una serie di lettere ha innescato un dibattito tra i soci del Limes Club Roma. Ma la discussione è aperta a tutti. A voi dunque: intervenite scrivendo a limesclubroma@gmail.com
di Piergiorgio Siena
Leggo spesso Limes che trovo quanto mai stimolante.
Mi piacerebbe che venissero affrontati i punti che sintetizzo di seguito con qualche commento:
1) Il rapporto tra l'Europa e gli USA è caratterizzato dal fatto che in Europa abbiamo o richiediamo lo stesso modello di consumo ma non accettiamo lo stesso modello sociale
1a) Ne deriva per gli Usa un'accumulazione di capitale nettamente superiore a quella possibile in Europa
1b) Ne deriva che le spese di ricerca e sviluppo sono tali da far progredire ulteriormente il modello dei consumi al quale in Europa facciamo fatica ad adeguarsi
1c) Ne deriva la possibilità di spese militari a livello del 4% del PIL mentre da noi è molto più basso (2-3%)
1d) Ne deriva infine che gli USA si stanno progressivamente staccando dal nostro modello economico e che l'Europa se intende seguire l'evoluzione si verrebbe a trovare come l'URSS
1e) Ne deriva che gli USA sono fatalmente proiettati verso un dominio mondiale paragonabile come del resto è stato detto altrove, a quello dell'impero romano
1f) L'antiamericanismo che si riscontra da noi è anch'esso una conseguenza di quanto sopra: vorremmo adottare i loro modelli di consumo ma non ce la facciamo ed imputiamo a loro le nostre insufficienze.
2) Per i paesi arabi vale lo stesso discorso moltiplicato per "x": i modelli di consumo sono più o meno simili ma le problematiche sono ancora maggiori per via dell'enorme aumento della poplazione che li farà raddoppiare nei prossimi 30 anni circa (da 250 a circa 500 milioni. Che faranno?) e con il limitato apporto del mondo femminile che frena le possibilità di sviluppo.
2a) L'antiamericanismo dei paesi arabi è ulteriormente acuito dal fatto che le classi al potere sono riuscite a dirottare le rivendicazioni sociali interne verso l'esterno, salvaguardando sè stesse (almeno per il momento) e indirizzando le proteste verso l'Europa e gli Usa in particolare)
3) Mi piacerebbe approfondire con voi e con i lettori questi aspetti e in qualche modo giungere ad una risposta alle varie questioni ed in particolare: CHE FARE?
- L'Europa deve seguire gli USA o no?
- Si deve cercare di fermare gli USA nel loro distaccarsi o no?
- IN CHE MODO ?
Grazie per l'attenzione
di Marco Panichelli
Cari amici del club Limes, come immaginavo sono stato un cattivo profeta, nel mio articolo precedente (vedi Border articolo: Dopo
L'Euro) in cui parlavo della divisione europea con da una parte Germania, Francia, Belgio e dall'altra Inghilterra, Olanda, Danimarca e poi i soliti paesi altalenanti senza una politica estera degna di questo nome fra cui l' Italia, Grecia Portogallo etc... finita la guerra in Iraq ci troveremo a dover ricostruire l'Europa, ma questa volta una Europa non bancaria e finanziaria ma una
Europa dei Popoli, pena la fine dell'Europa stessa così come concepita.
Prima però analizziamo alcuni fatti:
ONU, FAO etc.. : stiamo parlando di enti burocratici incapaci di svolgere qualsiasi attività, in una parola "paralizzati", in conclusione enti fini a se stessi.
NATO: sorpassato dagli eventi storici, unico fattore a mio avviso ancora importante è l'organizzazione militare coordinata fra le principali potenze, ma inutile nel momento in cui si debbano prendere decisioni "dolorose" leggasi guerra;
perché si rientra nella logica di cui sopra, e tutto si paralizza.
Tralasciando altri enti sovranazionali, immaginiamo una nuova realtà che si sta disegnando ad opera principalmente degli USA e del mondo anglosassone in generale.
Gli USA hanno capito chiaramente che l'Europa ed in particolare i paesi che hanno la popolazione che invecchia più precocemente difficilmente tendono a difendere interessi fuori dalla propria orbita e tendono a mantenere lo status quo. In poche parole non hanno alcuna intenzione di fare la guerra a nessuno e sono disposti a tollerare anche le dittature a cui se possibile vendono anche le armi....
I paesi europei (tranne la Gran Bretagna ed aggiungo Israele pur non essendo Europa) ed anche il Giappone per anni sono stati protetti dagli USA e quindi hanno demandato agli altri la loro difesa e tutti i lavori sporchi. Qual è oggi la realtà? che ci troviamo con paesi pacifisti. E' un bene o un male? non saprei rispondere.
La ex Jugoslavia è stata "liberata" dall'intervento USA, in Afghanistan sono intervenuti gli USA, in Iraq stanno intervenendo gli USA, nelle Filippine lo stesso.
Chi pensate che intervenga in Corea del Nord o nello Yemen o in Arabia Saudita o nei paesi centroamercani se dovesse peggiorare la situazione?
Attendo vostri contributi.
di Giovanni Castellani Pastoris
Abbocco, volentieri, all’esca lanciata da Marco Panichelli nella sua lettera pubblicata da BORDER 2/2003 che mette sul tavolo molti elementi di riflessione e discussione. Per affrontarli senza incorrere in equivoci, occorre, a mio avviso, ragionare partendo da alcuni “punti fermi” (sempre che li si accettino come tali).
In primo luogo che l’ONU (e con essa le dipendenti Agenzie Specializzate, quali ad es. FAO, UNESCO, UNHCR, ecc.), non è un organismo sopranazionale, ma, come è stato da altri detto, una libera associazione di Stati “gelosamente sovrani”. Non si deve ragionare come se l’ONU fosse qualcosa che esiste di per sé, separatamente dagli Stati che lo compongono, e non, invece, un foro in cui, appunto, essi discutono dei loro contenziosi. E come è giusto, ha da vincere chi ha gli argomenti di maggior “peso”. Quando ad avere argomenti pesanti erano due, non vinceva nessuno, i contenziosi rimanevano tali e l’Organizzazione latitava. Questi sono i suoi limiti, che sono strutturali, ma che fanno si che, contrariamente a quanto si è detto per drammatizzare la contestazione all’azione bellica in Iraq, le Nazioni Unite non possono essere spaccate: hanno resistito e resisteranno a tutte le crisi, come il sacco di cuoio resiste ai colpi di chi si allena al pugilato.
Lo stesso, più o meno, si può dire delle varie organizzazioni regionali quali O.U.A., Lega Araba, O.S.A. ecc.
Diversa la natura, più che potenziale ritengo, dell’Unione Europea, almeno nella configurazione che nell’articolo su BORDER 4/2002 intitolato “Quale Europa vogliamo” ( e mi scuso per l’auto citazione ) ho (provocatoriamente) indicato come quella che continuava nella “deriva unitaria” che ci ha portato dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio ( CECA ), passando per la CEE, all’attuale Unione Europea, con la moneta unica e tutto il resto. E’ fuor di dubbio che occorra arricchirla, affiancando alle già esistenti Politiche Comuni ( agricola, industriale, commerciale, economico-monetaria, sociale, ecc.) una Politica Estera e di Difesa, perché non si fa politica estera a livello mondiale senza adeguate forze armate. ( Incidentalmente, tuttavia, devo notare che un po’ di politica estera comune già ce l’abbiamo con le Preferenze Generalizzate, gli accordi con i paesi A.C.P., il dialogo euro-maditerraneo, ecc.) Personalmente non sarei eccessivamente pessimista sugli sviluppi, probabilmente e paradossalmente accelerati dalla “crisi irachena”. Ne è una riprova l’iniziativa belgo-franco-tedesca di rilancio della politica europea di difesa, che alla prima occasione (fornita loro dai “rilievi” del ministro Frattini) i francesi si sono subito affrettati a precisare essere aperta a tutti ( ve l’immaginate, infatti, una Politica Europea di Difesa senza il Regno Unito?).
Nemmeno la “NATO” è un organismo sopranazionale, almeno a livello politico, poiché non esprime una volontà diversa dalla somma algebrica delle volontà ponderate dei singoli partecipanti, anche se un carattere sopranazionale ha la sua struttura militare, le cui decisioni non concretizzano la somma algebrica degli orientamenti degli Stati Maggiori dei vari partners. La NATO è nata come alleanza difensiva fra Stati dell’Europa Occidentale e del Nord-America per far fronte alla minaccia sovietica. Data la enorme differenza di peso specifico, funzionava sulla base di una fortissima leadership USA (per usare un eufemismo). Venuta meno la “ragione sociale” (la minaccia sovietica) ha avviato “una mutazione” aggiungendo agli aspetti difensivi (rispetto ad altre minacce, quali il terrorismo nelle sue varie accezioni) una “vocazione di apostolato e proselitismo” dei valori di libertà e democrazia propri della società occidentale ed allargando l’ambito operativo iniziale. La mutazione è ancora in corso e la nuova natura tuttora indefinita, ma permane la “fortissima leadership” americana, ciò che è logico permanendo la differenza di dimensioni e capacità operative fra gli USA e gli altri singoli membri dell’Alleanza. Diversa potrà essere la situazione, e quindi l’equilibrio, una volta che si abbia una politica estera e di difesa europea dotata di adeguati strumenti.
Queste sono le basi da cui, secondo me, occorre partire per affrontare il nocciolo della problematica a cui fa riferimento la lettera di Panichelli, e cioè, se ho capito bene, la governance, o futura governance, globale.
E’ esatto che negli ultimi cinquanta anni sono stati gli Stati Uniti ad assumersi il carico, con ovviamente le relative contropartite, della “difesa” dei paesi occidentali, i quali hanno così “risparmiato” sulle spese militari destinando le risorse prima alla ricostruzione post bellica poi al finanziamento di quello che si chiama ora il welfare. Lo hanno fatto sia per la necessità di contrastare e frenare l’espansione della rivale altra superpotenza, ma anche perché corrispondeva al carattere “imperiale” che gli USA hanno sempre avuto nella loro storia. Basti pensare alla dottrina Monroe ed alla così detta extra territorialità della legge americana, e cioè alla sua applicabilità per fatti commessi al di fuori del suo territorio e da soggetti non dipendenti dalla sua sovranità. Il carattere “imperiale” (espressione cui non vanno attribuite implicazioni negative) è strutturale alla cultura della società che ha creato, sviluppato e gestisce gli USA ( come lo era della società Romana) e continuerà ad esserlo almeno fino a che non muti il suo DNA. ( Eventualmente come conseguenza della sopraffazione della originaria “cultura” anglosassone da parte delle nuove culture sempre più presenti e forti negli States). Vocazione imperiale fondata, anche, su motivazioni “ideali” talvolta quasi “missionarie”, non sempre e non necessariamente unilateralista o contraria a strutture multilaterali, ma pur sempre imperiale.
Oggi, con la fine del bipolarismo, gli USA si ritrovano la sola Super Potenza. Essere senza rivali all’altezza, comporta fatalmente un rafforzamento del carattere imperiale ed anche l’insofferenza ai freni del multilateralismo e delle sue regole, fino a quando non sorgerà una “controparte” adeguata con la quale “dialogare” o “fare i conti” o fino a che abbia finito il suo ciclo, come è sempre accaduto per tutti gli imperi. Speriamo che si tratti di dialogo piuttosto che conflitto. L’Europa potrebbe diventare il soggetto adatto (interessi diversi ma non contrastanti) sempre che gli europei abbiano ancora sufficiente vitalità e la disponibilità a destinare a tal fine le risorse necessarie, che andrebbero sottratte ad altre destinazioni.
Queste sono alcune, forse troppe, considerazioni suggeritemi dalle riflessioni della lettera. Ognuna andrebbe illustrata e motivata. Spero che possano costituire una utile sponda per proseguire il dibattito.
I ponti sul Tigri e sull' Eufrate: perché sono sempre intatti? |
di Marco Leofrigio
Ma
perché se gli iracheni voglio inchiodare e bloccare l'avanzata anglo-alleata
non fanno, come sarebbe logico e naturale, saltare i numerosissimi ponti che
sono indispensabili per l'attacco e la logistica alleata?
Forse perché sono "molto tempestivi" gli alleati oppure qualche iracheno
collabora al loro mancato sabotaggio ?
Oppure presi da visione folle di stampo nazista pensano di lasciarli intatti per
fare poi un grande contrattacco, come folleggiava Hitler di fronte all'avanzata
alleata sul Reno nel 1944 ?
di Piergiorgio Siena
Cari amici del club Limes, mi scuso se i punti esposti nella mia precedente lettera sono magari apparsi eccessivamente schematici e approssimativi ma spero si sia compresa la loro logica.
Rispondo ora alla lettera di Marco Panichelli che mi pare appartenere allo stesso ordine di problematiche.
Sono senz’altro d’accordo sul concetto di invecchiamento dell’Europa con le conseguenti tendenze al pacifismo e tuttavia non va trascurato il fatto che le più intense espressioni di pacifismo vengono dai giovani i quali (spesso formalmente libertari ma intimamente sostanzialmente borghesi), hanno assorbito e fatta propria la cultura dei diritti e del possibile azzeramento delle incertezze, trasmessa dagli “anziani”. Diritti da questi conquistati in un momento storico in cui ciò è stato possibile, anche con dure lotte e sacrifici, e che sono oggi inseriti nelle costituzioni europee costituendo elemento importante della nostra democrazia e della nostra civiltà.
Tutto ciò, “è un bene o un male?” si domanda lei. Domanda quanto mai opportuna e che rimanda a mio avviso ai sinteticissimi punti della mia lettera precedente che riposti in altra forma suonano così: - può l’Europa mantenere per i propri cittadini le conquiste di civiltà oggi raggiunte e nello stesso tempo competere a livello internazionale con gli Stati Uniti in modo tale da contrastare o almeno contenere la loro supremazia?
Mi pare difficile che si possa rispondere tout court con un “sì”, ma se rispondiamo “no”, dovremo decidere scientemente se attenuare le nostre “conquiste di civiltà”, oppure mantenerle, seguitando a rimanere legati al carro degli Stati Uniti per difesa e modello economico, limitandoci ad essere buoni, consultati, consumisticamente soddisfatti, servizievoli partners.
Naturalmente ci potrebbe essere una terza via, e cioè operare per un progressivo sostanziale isolazionismo e neutralismo. Ma sarebbe possibile in questo mondo globalizzato senza che si verifichi una deriva verso il sottosviluppo? Con quali conseguenze?
In realtà non penso che gli Usa intendano conquistarsi un impero ma il fatto è nelle cose. Nella sua “Storia d’Europa”, il Ficher, considerando le conseguenze delle guerre cartaginesi, dice: “parrebbe quasi che Roma fosse attirata all’impero, non certo in un momento di distrazione, ma quasi con riluttanza e senza un piano prestabilito. Conquistò l’Italia per eliminare il disordine che la circondava, la Spagna per liberarsi di Annibale, la Gallia per aprirsi una strada tranquilla verso la Spagna e sinché le fu possibile evitò di assumere il governo della Grecia”!
Per quanto riguarda poi i rapporti internazionali siamo evidentemente ancora allo “stato di natura” di cui ci parlava Hobbes nel ‘600, una situazione ovviamente insostenibile ma tutt’ora difficile da superare.
di
Paul Harris
da Soberania.info, traduzione di Tito
Pulsinelli, segnalato da Maria Vittoria Sbordoni
L'idea
ossessiva di Bush su Bagdad si basa su molte ragioni. In altri articoli che ho
scritto per YellowTimes.org, feci allusione non tanto alle ovvietà delle
ragioni addotte contro l'Iraq, bensì alla guerra di Bush contro l'Europa. Io
credo che questa sia la ragione principale della fissazione con l'Iraq.
Quando un paese va in guerra, si preparano piani su chi sarà vittorioso e su
chi perderà; nessuno scatena una guerra sperando di essere sconfitto, però non
sempre l'obiettivo manifesto dell'aggressione è l'obiettivo vero della guerra.
A volte non si tratta di quel che speri di ottenere con la guerra, bensì di
quello che gli altri perderanno; e non deve per forza essere un tuo nemico
dichiarato quello che ti aspetti che soffrirà le conseguenze maggiori della
guerra.
In questo caso, Bush spera che la vittima sia l'economia europea, che è robusta
e probabilmente sarà ancor più forte in un futuro vicino. L'ingresso della
Gran Bretagna nell'Unione Europea è inevitabile; la Scandinavia lo farà in
tempi ravvicinati. A maggio del 2004, entreranno dieci nuovi paesi e questo farà
aumentare il PIL dell'UE a circa 9,6 trilioni di dollari e 280 milioni di
persone, di fronte ai 10,5 trilioni di dollari e 280 milioni di persone degli
USA.
Questo, per i nordamericani, è un formidabile blocco concorrente; ma la
situazione è molto più complessa di quel che indicano queste cifre. E molto
dipende dalla piega che prenderanno gli avvenimenti in Iraq.
Come tanti altri, ho scritto che questa guerra che è alle porte si combatterà
per il petrolio. Sicuramente vi sono altre ragioni, però il petrolio è la
causa scatenante. Ma non per le ragioni che comunemente si adducono. Non è per
le enormi riserve ancora vergini che si ritiene esistano in Iraq, che non
sarebbero state sfruttate a causa delle sue antiquate tecnologie; non è per le
brame del governo USA di mettere le zanne su questo petrolio. È piuttosto per
le zanne che i nordamericani vogliono mantenere lontano da lì. La causa di
tutto questo non è l'11 di settembre, nè l'improvvisa illuminazione che Saddam
continuava ad essere un tipo ripugnante, nè il cambio di governo negli Stati
Uniti. Quel che ha accelerato le cose è stata la decisione presa dall'Iraq il 6
di novembre del 2000: sostituire il dollaro con l'euro nel suo commercio
petrolifero.
Allora, questo cambio sembrò uno stupido capriccio, perché l'Iraq stava
perdendo una gran quantità di utili a causa di una dichiarazione politica di
principio. Però prese questa decisione, e il deprezzamento continuo del dollaro
nei confronti dell'euro, sta a significare che l'Iraq fece un buon affare
cambiando riserve monetarie e divise per il commercio del proprio petrolio. Da
quel momento, l'euro si è rivalutato del 17% sul dollaro, cosa che si deve
applicare pure ai 10 bilioni di dollari del fondo di riserva dell'ONU
"petrolio per cibo".
Sorge una domanda che, probabilmente, si è posto anche Bush: che succederebbe
se l'OPEC passasse all'euro ? Alla fine della seconda guerra mondiale, nella
conferenza di Bretton Woods venne firmato un accordo che fissava il valore
dell'oro a 35 dollari l'oncia e con questo divenne lo standard internazionale
con il quale si misuravano le monete. Però nel 1971, Nixon cancellò tutto
questo, e il dollaro divenne lo strumento monetario principale, e solo gli USA
possono produrlo. Il dollaro oggi è una moneta priva di copertura,
sopravvalutato, nonostante il record del deficit di bilancio e lo status di
paese più indebitato del mondo. Il 4 di aprile del 2002, il debito era di 6021
trilioni di dollari a fronte di un PIL di 9 trilioni di dollari.
Il commercio internazionale è diventato un meccanismo grazie al quale gli USA
producono dollari e il resto del mondo produce quel che i dollari possono
comprare. Le nazioni non commerciano più per ottenere "vantaggi
comparativi", ma solo per ramazzare dollari da destinare al pagamento del
debito estero, che è fissato in dollari. E per accumulare dollari nelle riserve
monetarie con la finalità di preservare il valore delle monete nazionali.
Le banche centrali delle nazioni, per prevenire attacchi speculativi alle
proprie monete, sono costrette a comprare o trattenere dollari, in una misura
equivalente all'ammontare del proprio circolante. Tutto ciò crea il meccanismo
del dollaro forte che, a sua volta, obbliga le banche centrali ad immagazzinare
dollari, cosa che rende ancor più forte il dollaro.
Questo fenomeno è conosciuto come "egemonia del dollaro" e fa sì che
le merci strategiche - soprattutto il petrolio- siano quotate in dollari. Tutti
accettano i dollari perchè con essi si può comprare il petrolio. Dal 1945, la
forza del dollaro consiste nell'essere la divisa internazionale per gli
interscambi petroliferi globali (petrodollari).
Gli USA stampano centinaia di migliaia di miliardi di dollari senza nessun tipo
di copertura: "petrodollari" che sono usati dalle nazioni per pagare
la fattura degli energetici agli esportatori dell'OPEC. Ad eccezione dell'Iraq
e, parzialmente, del Venezuela. Questi petrodollari sono poi riciclati
nuovamente dall'OPEC negli USA, sotto forma di lettere del tesoro o altri titoli
con denominazione in dollari: azioni, beni immobiliari ecc.
Il riciclaggio dei petrodollari rappresenta il beneficio che, dal 1973, gli USA
ricevono dai paesi produttori di petrolio per "tollerare" l'esistenza
dell'OPEC. Le riserve di dollari debbono essere investite nel mercato
nord-americano, cosa che, a sua volta, produce utili per l'economia USA. L'anno
scorso, nonostante un mercato in netto ribasso, l'ammontare delle riserve USA è
cresciuto del 25%. L'eccedente nei conti dei capitali finanzia il deficit
commerciale. Dato che gli USA creano "petrodollari", loro controllano
il flusso del petrolio. Siccome il petrolio si paga in dollari e questa è
l'unica moneta accettata in questi scambi, si arriva alla conclusione che gli
USA possiedono il petrolio del mondo gratis.
Di nuovo: che succederebbe se l'OPEC decidesse di seguire l'esempio dell'Iraq e
cominciasse a vendere il petrolio in euro? Una esplosione economica. Le nazioni
importatrici di petrolio dovrebbe mettere in uscita i dollari dalle rispettive
riserve delle banche centrali, e rimpiazzarli con gli euro. Il valore del
dollaro precipiterebbe, e le conseguenze sarebbero quelle di un qualsiasi
collasso di una moneta: inflazione alle stelle (vedi Argentina), i fondi
stranieri in fuga dal mercato dei valori nordamericano e ritiro dei fondi dalle
banche come nel 1930 ecc.
Tutto questo non avverrebbe solo negli USA. Il Giappone ne uscirebbe severamente
castigato, data la sua totale dipendenza dal petrolio straniero e l'incredibile
sudditanza al dollaro. Se crollasse l'economia giapponese, crollerebbero quelle
di molti paesi –non escluso gli USA- in un effetto domino. Questi sarebbero
gli effetti potenziali di un "improvviso" passaggio all'euro. Un
cambio più graduale sarebbe più gestibile, ma altererebbe ugualmente
l'equilibrio finanziario e politico del mondo.
Vista la vastità del mercato europeo, la sua popolazione e la sua necessità di
petrolio (ne importa più degli USA), l'euro potrebbe rapidamente diventare -di
fatto- la moneta standard per il mondo. Esistono buone ragioni perchè l'OPEC
-come gruppo- segua l'esempio dell'Iraq e adotti l'euro. Non vi è dubbio (dopo
tanti anni di umiliazioni subite dagli USA) che potrebbero approfittare delle
circostanze per emettere una dichiarazione politica di principi. Ma esistono
anche solide ragioni economiche.
Il poderoso dollaro ha regnato incontrastato dal 1945 e negli ultimi anni ha
guadagnato ancor più terreno con il dominio economico USA. Alla fine degli anni
90, più dei quattro quinti delle transazioni monetarie e la metà delle
esportazioni mondiali, sono avvenute in dollari. L'obiettivo della guerra di
Bush contro l'Iraq, naturalmente, è assicurarsi il controllo di quei giacimenti
e porli sotto il segno del dollaro; successivamente passerà ad incrementare
esponenzialmente la produzione e forzare i prezzi al ribasso. Alla fin fine,
l'obiettivo di Bush è scongiurare con minacce di ricorrere alle vie di fatto,
che qualsiasi paese produttore passi all'euro. A lungo termine, il vero
obiettivo non è Saddam, ma l'euro e l'Europa. Gli USA non se ne staranno con le
mani in mano ad assistere allo spettacolo di questi "ultimi arrivati"
degli europei che tengono in pugno le redini del loro destino. E men che mai,
che assumano il controllo della finanza internazionale. Naturalmente, tutto
dipende dal folle piano di Bush e, soprattutto, che non scateni la terza guerra
mondiale. (leggi l’originale: http://www.soberania.info/articulo_055.htm).