OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB |
NUMERO 2/2002 |
LA MENTE ASSEDIATA di Bianca La Rocca
IL "RESTRINGIMENTO" DELL'EUROPA di Livio Zaccagnini
IL TURNO DELL'IRAQ di Roberto Stocchetti
LA MORALE DEL VENTESIMO SECOLO di Massimo Virgilio
di Bianca La Rocca
SICUREZZA E CITTÀ |
Il mito della sicurezza a ogni costo sta trasformando case, quartieri e città in fortezze. Ma, lungi dal rassicurare, le barriere finiscono per alimentare i fantasmi della paura
"Ma con queste notizie" scrive Italo Calvino nelle Città invisibili "non ti direi la vera essenza della città: perché mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e lo circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice".
Anastasia è una città che non esiste, non è collocata in uno spazio geografico, non possiede una memoria storica. È un estraniamento geopolitico, che può realizzarsi solo nel filone fantastico della produzione letteraria calviniana. Eppure Anastasia — una delle città invisibili, contraddistinte da nomi femminili — è vera o, perlomeno, verosimile, nel suo descrivere poeticamente il rapporto tra il luogo e i suoi abitanti, con tutti i desideri e i disinganni che ne conseguono, le gioie e le sofferenze.
Mai come negli ultimi anni vivere in una grande metropoli è diventato, per molti, sinonimo di angoscia, paure, fobie e frustrazioni. Recenti indagini confermano una sorta di fuga, seppure non in termini apocalittici, dalle metropoli. I motivi sono i più svariati: stress, smog, mancanza di rapporti umani e spazi di socializzazione, paura della criminalità. Eppure, la metropoli continua, nell’immaginario collettivo, a identificarsi come luogo delle opportunità, del divertimento, della realizzazione delle proprie ambizioni.
Straniera e poi nemica
Tra molti cittadini e la propria città si è già cominciato a instaurare da tempo un rapporto ambivalente. Odio e amore nei confronti della cinta urbana convivono, a volte maldestramente, in ognuno di noi. Amiamo le nostre città per quanto ci offrono, ma, intimamente, le desideriamo profondamente diverse. Quotidianamente ripetiamo il prologo di un noto film di Woody Allen che, dopo avere elencato tutti i difetti di Manhattan (droga, sporcizia, prostituzione, caos, maleducazione, ecc.) conclude: "Amo New York. È la mia città e lo sarà per sempre".
Più che nostre, le città siamo noi, per questo i nostri sguardi, sempre un po’ miopi o distratti quando abbracciano vasti orizzonti, diventano acutamente pignoli nei confronti dell’orticello domestico. Un’angolatura ridotta che ci mostra una città straniera, mutata nei colori, nei sapori, nelle forme. E ai più anziani o, comunque, a chiunque non possieda gli strumenti culturali idonei a gestire il cambiamento in corso, la città da estranea si trasforma in nemica. Il disagio è crescente, l’indignazione anche, la paura ci trascina verso forme di autoesclusione, si vive in una prigione materiale e psicologica (non esco dopo una certa ora, chiudo con il chiavistello porte e finestre, non frequento il parco, non mi reco in quel locale, non passeggio solo/a ecc.) o, ancora peggio, ci spinge a imboccare le scorciatoie dell’organizzazione in proprio, della giustizia cotta e mangiata, del moralismo ipocrita e a basso costo che ripulirà le nostre strade dal male (ronde contro le prostitute, contro i drogati, contro i ladri e così via).
Un paradosso nel paese dei "cento campanili", che ha vissuto uno dei periodi di maggior fulgore proprio nell’età dei Comuni, e che esalta i periodi aurei della Roma imperiale, unica urbs tra tanti municipium? Non necessariamente. La città o il comune medievale che, in alcuni casi, aveva radici anche più antiche, rappresentavano un sorta di associazione indipendente composta da uomini liberi. Liberi da che cosa? Dalle imposizioni e dal dominio dell’Impero e del Papato, le due grandi autorità politiche di quell’epoca. Erano uomini liberi, in un certo senso, dai vincoli e dalla rigidità del sistema feudale che in quel periodo predominava in Europa e memorabili sono rimaste le lotte per l’indipendenza condotta dai Comuni della Pianura Padana contro l’Imperatore Federico Barbarossa. Tra i secoli XI e XIV i Comuni italiani furono i protagonisti di un imponente sviluppo urbano che diede vita a città, grandi e piccole, straordinariamente ricche, belle ed efficienti. In quel periodo, mentre in tutta Europa meno di una persona su venti risiedeva in un centro urbano, in Italia il rapporto era di uno a dieci e Milano aveva raggiunto la considerevole cifra di 40.000 abitanti, quando Colonia, nella Renania, non superava i 5.000. La struttura politico-amministrativa di queste nuove entità, paragonata ai parametri del periodo, si può ben definire "democratica": le decisioni erano prese solo in seguito ad ampie discussioni pubbliche e tutto questo spingeva molti a giurare fedeltà a una struttura che garantiva libertà e sicurezza. La città così concepita apparteneva ad ogni singolo cittadino ed ognuno aveva un grande interesse per il buon governo della cosa comune.
Una "tata" satellitare
Le città di oggi, cioè quel complesso sistema di relazioni sociali che conosciamo, sono una realtà piuttosto recente. Questo ritardo dell’Italia rispetto ad altri paesi è frutto della veloce trasformazione della nostra società da realtà contadina a industriale e, oggi, postindustriale. Una trasformazione che si è contraddistinta per un inurbamento forte quanto caotico e selvaggio, accompagnato da rapide dismissioni di vaste aree che non rispondevano più alle esigenze produttive, abitative e infrastrutturali del momento.
Una situazione, quindi, radicalmente cambiata rispetto alle origini, e non solo per il processo evolutivo subito nei secoli dalle strutture amministrative ed economiche, ma anche nel rapporto instaurato da ogni singolo cittadino nei confronti della città, non più propria, non più noi, ma solo oggetto da usare.
Servirsi della città e rimanerne prigionieri è una delle più grandi contraddizioni dell’uomo moderno e il falso mito della "sicurezza ad ogni costo" ha prodotto il paradossale risultato di avere aumentato le aree di rischio e insicurezza, facendoci pagare un pesante prezzo in termini di libertà di azione e movimento.
Sempre più, ad esempio, la geolocalizzazione (cioè la possibilità di localizzare l’utente di un cellulare), misura oggi consentita solo nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria, si trasformerà in un sistema, nemmeno tanto occulto, di controllo totale sugli individui. Un Grande fratello che da angosciante fantasia futuristica di stile orwelliano si trasforma in cruda realtà? Probabilmente sì, dal momento che — giusto per fare un esempio — il gruppo Siemens, usando una tecnica simile alla geolocalizzazione, ha in progetto la realizzazione di una sorta di "peluche telefonico" per localizzare, via satellite, un bambino che potrebbe essere in pericolo, una sorta di "tata" elettronica che, attraverso un apposito centralino, si occuperebbe di spiare il bambino.
Del resto, nel corso delle manifestazioni antiglobalizzazione di Praga e Nizza, la polizia si è servita di un sistema analogo per localizzare i leader della manifestazione e cercare di limitare il loro raggio d’azione. Non sappiamo se un simile sistema sia stato usato anche a Genova nel luglio scorso, ma non ci sembra inverosimile. È certo, però, che l’intera cittadina era controllata da un sofisticato sistema di telecamere collegate alla questura e ai comandi operativi di Polizia e Carabinieri. E i risultati raggiunti in termini di sicurezza del territorio e dei cittadini sono sotto gli occhi di tutti.
È anomalo? Arrestiamolo!
I sistemi di videosorveglianza si stanno diffondendo come mai nel passato. Il progetto di telecamere Chromatica, attualmente in fase sperimentale nelle metropolitane di Londra, Milano e Parigi, prevede monitor capaci di evidenziare comportamenti considerati anomali fra i passeggeri. "Ci sono luoghi nel metrò dove non c’è motivo di sostare. In tal caso, il sistema ravvisa immediatamente una possibile situazione pericolosa o perlomeno sospetta" spiega Louhadi Khoudour, uno dei responsabili del progetto in Francia ("Le Monde Diplomatique", settembre 2001).
Collegato ad una rete di telecamere, tale sistema dispone di un computer e di un particolare software d’identificazione: se si resta immobili più di un minuto, l’immagine si tinge di verde sullo schermo di controllo, dopo due minuti l’immagine diventa rossa e scatta l’allarme. Restare immobile troppo a lungo, non camminare nella giusta direzione, fare capannello, oltrepassare le zone vietate, sono tutti comportamenti ritenuti sospetti, immediatamente denunciati dalle telecamere.
Quasi inutile aggiungere che le prime vittime di questo sistema di controllo sono stati i barboni e i reietti che trascinano la loro esistenza nelle nostre metropolitane cittadine. Logicamente, in un contesto culturale che esalta il processo produttivo in termini di massima velocizzazione e dinamismo, chiunque non si accodi al flusso costante dei nomadi della produzione denota un comportamento anomalo. Ci troviamo di fronte alla completa e più estesa interpretazione della "tolleranza zero".
Tali sistemi di videosorveglianza si stanno moltiplicando in molte città europee — soprattutto in Francia e in Inghilterra — e anche in alcuni centri storici di importanti città italiane. Le forze politiche, sia progressiste sia conservatrici, che governano le nostre città, giustificano queste scelte parlando di "strumenti che rassicurano i cittadini, rendendo più sicura la città". E, sempre in nome della sicurezza, in tutta Europa si moltiplicano, secondo il modello americano, le residenze o i quartieri residenziali protetti da reti di videosorveglianza ultrasofisticate, con recinti in acciaio, portoni automatici ad apertura con telecomando e telecamere ad alta risoluzione che permettono di visualizzare l’entrata della casa e identificarne i visitatori. Ma che bella città! E il crimine? Si è, molto semplicemente, adeguato, cambiando luoghi e, soprattutto, tecniche.
Eppure basterebbe che i nostri amministratori si fermassero un attimo a riflettere (a onore del vero qualcuno comincia a farlo) e si accorgerebbero che se l’urbanistica non esercita, sicuramente, nessun effetto diretto sull’agire criminoso, è fuori di dubbio che un buon sistema di illuminazione, una migliore conservazione della infrastrutture e degli arredi e, soprattutto, un maggiore coinvolgimento degli abitanti nella gestione delle aree pubbliche, vissute come un’espansione del propria abitazione in senso comunitario, sono gli unici strumenti in grado di ridurre notevolmente le occasioni di attività illecite.
Le caratteristiche sociali del luogo, i fenomeni di segregazione ed emarginazione sociale, economica o abitativa, rappresentano le linee guida su cui dovrebbero svilupparsi un’efficace azione di prevenzione e sicurezza.
Le cause del vandalismo
I fattori storici, culturali e fisici dei quartieri introducono, infatti, elementi che modificano, a volte in modo radicale, la mappa originaria dei gruppi sociali e di reddito e, contestualmente, la mappa virtuale dei conflitti. Per non trovarsi impreparati, e quindi privi di qualsiasi mezzo incisivo per affrontare simili situazioni, gli amministratori, più che innalzare barriere, dovrebbero abbatterle.
Un miglioramento delle condizioni di sicurezza di una città dovrebbe prevedere soprattutto l’emancipazione sociale ed economica della popolazione e, di conseguenza, la sua traduzione urbanistica, con l’eliminazione delle barriere fisiche e l’attuazione di elementi di attrazione e servizi capaci di favorire le relazioni sociali anche tra residenti di diversi quartieri della città. La convinzione che tutto possa essere gestito nello spazio ristretto di un quartiere blindato porta ad un disconoscimento del resto del territorio, un’estraneità che può trasformarsi facilmente in inimicizia, pregiudizio, pericolo.
Specchio delle nostre abitudini e dei nostri stili di vita, le aree pubbliche e i condomini privati presentano i tratti specifici della maggiore conflittualità in termini di convivenza e corresponsabilità dei suoi residenti. Lo studio sociologico dei fenomeni di vandalismo dimostra come in questa problematica giochino fattori molto diversi, da un atteggiamento paternalistico dell’amministrazione a situazioni di sradicamento degli abitanti, a fattori culturali quali la mancanza generalizzata di un’educazione alla conservazione collettiva. È evidente a tutti che gli spazi aperti destinati al tempo libero, e non all’utilitaristica produzione, sono una parte importante della città. Le strade e i viali sono, o perlomeno dovrebbero essere, spazi animati e frequentati, le piazze e i parchi luoghi di contatto con la natura, ma anche luoghi per comunicare, godere di tranquillità, praticare uno sport e far giocare i più piccoli: spazi, in altre parole, di libero uso e accesso, pensati per migliorare la qualità della vita dei cittadini. La cancellazione di queste aree con politiche che tendono a trasformarle in ghetti di disperati o, in senso diametralmente opposto, in spazi blindati e inaccessibili, producono solo effetti negativi sul piano della sicurezza.
Da Gerico a New York
Concludendo, possiamo affermare che vivere in una grande città provoca nei suoi abitanti un senso di profondo malessere. Da ciò il sentimento di non appartenenza, il disamore spinto sino a comportamenti distruttivi esercitati sul comodo terreno della negazione o del disconoscimento della corresponsabilità civile.
Nel corso della storia umana, così vilmente terrena anche quando si ammanta di dogmi religiosi, abbiamo distrutto quanto di più meraviglioso e perfetto eravamo riusciti a edificare: Troia, Pompei, Atene, Gerico, Cordova, Tenochtitlàn, Gerusalemme, Hiroshima, Dresda, Beirut, Sarajevo, Grozny, Stalingrado, Berlino, Genova, New York, Kabul. Infinite orde barbariche o eserciti più o meno regolari, hanno invaso, saccheggiato, bombardato, distrutto o profondamente ferito le città, ucciso milioni di persone, uomini e donne, anziani e bambini. Per ostilità, odio, ma anche per una forma aggressiva d’invidia-ammirazione, perché, in fondo, la città è bellissima, sempre all’avanguardia, moderna, animata da spiriti liberi, viva anche quando la corruzione e l’illegalità ne intaccano la struttura. Non ama le grandi città chi non può viverle nella loro completezza, chi, come nel caso dell’Anastasia di Calvino, non può goderne i più intimi desideri.
Al di là della facile demagogia, la storia dei muri eretti in nome della sicurezza e abbattuti in nome della libertà dovrebbe pur averci insegnato qualcosa. Rinchiusi nelle proprie fortezze, gli abitanti del castello non sono mai riusciti a salvarsi dalla solitudine e ne sono stati miseramente travolti.
Il presente articolo è pubblicato anche alla pagina www.narcomafie.it/articoli/art_2_2002.htm
il
"restringimento"
dell'europa
di Livio Zaccagnini
ATLANTE |
Fra poco ci sarà l'allargamento a 25. L'Europa si espande sempre più verso Oriente e sembra sempre più grande. La Storia ha avuto per millenni carattere eurocentrico. In Europa si sono combattute battaglie e guerre. L'Europa è stato il continente che fino alla seconda guerra mondiale ha dominato il mondo. E poi è diventato il "fronte" principale tra Occidente e Unione Sovietica. Ma nello stesso periodo l''Europa si è andata sempre più identificando nelle varie Ceca, Cee, Ce e Ue. Inglobando sempre più Paesi. E ora vuole divenire una potenza mondiale. Ci riuscirà? Intanto l'espansione prosegue verso il Far East (stranamente speculare a quella ottocentesca americana).
Eppure ci sono stati momenti in cui l'Europa si è "ristretta", in cui forze extra-europee l'hanno invasa ed hanno conquistato parte importante dei suoi territori o dei suoi mari.
Ecco qui 4 esempi.
L'EUROPA
DEL |
Restringimento o nascita dell'Europa moderna? In ogni caso le invasioni barbariche ridussero sicuramente gli spazi dell'Europa (romana) fino ad allora conosciuta. e la confinarono nel superstite Impero d'Oriente e nei territori del capo barbaro Odoacre che depose sì Romolo Augustolo il 28 agosto, ma che inviò a Costantinopoli le insegne imperiali e rispettò le istituzioni e le leggi di Roma. (tipico di quel periodo, in cui i "barbari" erano anche dei milites foederati che l'Impero aveva assoldato per difendere i propri confini). Pochi anni dopo L'Italia fu nelle mani di Teodorico, poi arrivarono nell'ordine Giustiniano, Longobardi e Franchi. Se fossimo andati poco più in là l'Europa sarebbe stata ancora più stretta. E allora perché non farlo? Semplicemente per il motivo che pochi anni dopo i barbari erano già europei...
L'EUROPA DELl'830 |
Ovvero l'espansione araba. Cioè la conquista della sponda Sud del Mediterraneo, con l'espansione, a mezzaluna, a Oriente (fino al Caspio) e a Occidente (la Spagna, ma anche parte della odierna Francia se poco prima non ci fossero state Poiters e Roncisvalle). Ma soprattutto l'occupazione di molte isole. Tra cui la Sicilia. Per alcuni storici ciò impedì i traffici marittimi tra Ovest ed Est: per loro il medioevo inizia da qui.
L'EUROPA
DEL |
Cioè l'espansione turca sotto Solimano II il Magnifico. Che dominava il Mediterraneo grazie al suo vassallo il re d'Algeria. Ma soprattutto Solimano per la prima volta fece partecipare attivamente l'impero turco alla politica europea: alleato di Francesco I di Francia, conquistò Rodi, Belgrado e Buda, cacciando Luigi II Jagellone e insediando re Giovanni Szapolyai. Ma questi fu sconfitto da Ferdinando d'Asburgo, fratello di Carlo V. Allora Solimano nel 1529 riprese Buda e poi assediò Vienna. Ma invano. Con il sultanato di Solimano ci fu l'apogeo della potenza turca; per alcuni storici la sua politica "europea" fece considerare la Sublime Porta non più uno stato barbaro, ma il degno continuatore dell'impero bizantino. Per altri si trattò invece solo di un "restringimento" (per dirlo a parole nostre) dell'Europa.
L'EUROPA
DEL |
Premessa: nazisti, comunisti, fascisti, resistenza o anti-resistenza non c'entrano per nulla. Ci muoviamo in un'ottica puramente nazionale e partiamo da un'idea contestabile e criticabile: i Russi non sono europei. Sono Russi. Allora anche in questo caso l'Europa si è ristretta: a parte la Grecia -liberata dai britannici- e la Jugoslavia -proprio il 15 maggio completamente in mano alle forze partigiane di Tito (aiutate dell'Armata Rossa, ma solo aiutate!)- tutto l'Oriente è liberato da una forza extra-europea (comprese le sacche di resistenza dei tedeschi che il giorno ufficiale della fine della guerra ancora non si erano arresi o le zone, come Praga, che chiesero di essere liberate dagli Alleati). Alcuni Stati erano rimasti neutrali, altri come la Gran Bretagna -da nemica- o la Finlandia -da alleata- non erano stati invasi dall'Asse. Gli altri Stati vennero invece liberati dagli Alleati. Ma gli Alleati erano Forze europee? Bè Gli Usa non erano Europa, ma i Britannici, i Francesi e i movimenti resistenziali di ogni Stato occupato lo erano, eccome! Altrimenti, se anche gli Alleati non fossero da considerare europei, rimangono solo i nazisti. E questo non lo accetto. Un po' di ideologia concedetemela...
di Roberto Stocchetti
attualità |
Tutto sembra deciso. L’amministrazione Bush prepara l’invasione dell’Iraq e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein. Ma a quali ragioni profonde risponde questa campagna militare? Perché gli Usa, con il solo appoggio della Gran Bretagna (trasformatasi nel volgere di poco più di due secoli da impero a colonia), perseguono con tanta pertinacia la strada di una campagna militare su vasta scala? A ben vedere le ripercussioni politiche ed economiche (alleati arabi e occidentali, mercati internazionali, petrolio) sconsiglierebbero un simile passo. A nostro parere le ragioni alla base di questa scelta risiedono, paradossalmente, proprio nel carattere del conflitto iniziato l’undici settembre. L’attacco ai simboli del potere statunitense non è stato compiuto da una nazione nemica, né tampoco rivendicato da una qualsiasi organizzazione; si è entrati quindi in lotta con un nemico che non coincide esattamente con un’entità nazionale né ha un volto certo e definito se non quello di bin Laden, e che piuttosto trova il suo humus in ben individuabili realtà culturali, sociali e politiche. Tale elementare constatazione ci fa dedurre che la guerra in corso non può essere vinta solo con una serie di campagne militari o conquiste territoriali, e che queste anzi potrebbero recare più danno che giovamento.
È inutile ragionare sugli ostacoli militari che gli Usa potrebbero incontrare; di armi per battere l’Iraq ce ne sono in sopranumero. Il nocciolo della questione sta nel fatto che oggi più che mai l’amministrazione Bush dopo otto mesi di conflitto ha bisogno di un nemico visibile, di una vittoria da portare all’opinione pubblica; a questa obiettiva necessità viene subordinato ogni altro fattore d’ordine politico, economico, diplomatico. E sia chiaro che la nostra preoccupazione non và al satrapo di Baghdad, di cui si sta già cercando un successore (magari dal "volto umano"), ma ad una popolazione inerme che rappresenta la prima e per ora vittima di questa dissennata politica di potenza.
La nota, e sin troppo abusata, frase "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi" possiede un significato spesso eluso, come altri hanno già incisivamente analizzato; è la politica che guida e dirige l’azione militare, la subordina ad uno specifico disegno, ne definisce di volta in volta le finalità. Quando ciò non avviene la guerra si trasforma in un’esplosione incontrollabile, in un erompere di forze elementari, al pari di un’eruzione vulcanica o di un tornado ("le tempeste d’acciaio" della prima guerra mondiale). La politica non si interrompe con l’inizio della guerra ma casomai è un suo specifico articolarsi.
Se ci interroghiamo su quale fu uno dei fattori di vittoria dell’Occidente sul blocco sovietico dovremo senz’altro considerare come, mentre l’Urss continuò sino alla fine un’ottusa rincorsa alla potenza militare dell’Occidente, questo seppe puntare almeno in una parte del suo domino alla costituzione di governi democratici e dell’espansione del benessere e dei consumi e a questo ha dovuto una parte non secondaria della sua vittoria; un insegnamento che qualcosa dovrebbe dirci anche nella presente congiuntura. In altre parole non è detto che il nemico debba essere battuto in una serie di dispendiose campagne militare, vi possono essere metodi molto più incisivi anche se meno evidenti. E bisognerebbe interrogarsi se a trarre profitto da queste campagne militari saranno gli Usa o chi li ha trascinati in questo conflitto.
Non ci sembra, nell’odierna politica dell’amministrazione Bush, di ravvisare un chiaro disegno se non quello di un utilizzo della supremazia militare; politica di corto respiro che non potrà che portare gli Usa ad impastoiarsi i una guerra d’attrito nelle più disparate regioni del globo.
Non è difficile immaginarsi gli eventuali esiti di una guerra conto l’Iraq; la vittoria di una campagna militare non presenterebbe molte più difficoltà di quella intrapresa nel 1991, ma và ben rilevato che avrebbe una più ristretta base di partenza, e certo non solo di ordine geografico, annientato l’esercito iracheno e cacciato il tiranno si dovrebbe provvedere a istallare un nuovo governo no diciamo democratico, ma almeno presentabile a livello internazionale, recare soccorso ad una popolazione piegata da oltre due lustri di embargo economico e non ultimo mantenere in loco un ulteriore contingente internazionale a garanzia degli equilibri realizzati. Tanto a tacere della reazione del mondo arabo e soprattutto della circostanza costituita dalla vicinanza di almeno altre tre aree di crisi: la Cecenia, la Palestina, l’Afghanistan (solo un’anima candida potrebbe credere che il governo di Kabul continuerebbe ad esistere più di un giorno senza la presenza di un contingente internazionale).
In definitiva vi è da chiedersi quanto a lungo gli Usa ed il resto dell’Occidente potranno sostenere i costi politici ed economici di queste campagne militari e se una condizione di tensione internazionale permanente non finirà per essere una ragione di destabilizzazione più potente dei colti del terrorismo. Destabilizzazione che non potrà che essere capitalizzata in sede politica ed economica dalla grande potenza che si affaccia sull’agone della scena internazionale: la Cina.
La morale del ventesimo secolo
di Massimo Virgilio
recensioni |
Il compito che si prefigge Jonathan Glover, docente di etica presso il King’s College di Londra, nel suo imponente volume dal titolo “Humanity” (il Saggiatore, 571 pagine, 22 euro) non è certo dei più facili: delineare una storia morale del ventesimo secolo attraverso lo studio delle atrocità che lo hanno caratterizzato. O meglio attraverso lo studio dei meccanismi psicologici che hanno reso possibili quelle atrocità. Cosa spinge gli uomini a violare le regole morali che sono alla base di ogni pacifica e civile convivenza fino ad arrivare al punto di riuscire a massacrare senza esitazione cento, mille, milioni di propri simili?
“Parlare delle atrocità del XX secolo - scrive l’autore - è in un certo modo fuorviante. Sarebbe assurdo infatti pensare che la barbarie appartenga solo al XX secolo: tutta la storia umana ha visto ogni tipo di crudeltà”. C’è un elemento però che rende il secolo scorso diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto: la tecnologia. Grazie ad essa “le decisioni di poche persone possono significare morte e orrore per centinaia di migliaia, per milioni di altri individui”.
Gli esempi a questo riguardo non sono certo mancati nella storia dei cento anni appena trascorsi e nel libro ne vengono approfonditamente esaminati i più tristemente rappresentativi: le due guerre mondiali, le bombe atomiche contro il Giappone, i campi di sterminio nazisti, i gulag di Stalin, la Cambogia di Pol Pot, la Cina della rivoluzione culturale, la guerra del Vietnam, i massacri nell’ex Iugoslavia, il genocidio in Ruanda.
E’ innegabile che gli atti di crudeltà esercitino un’oscura attrazione psicologica sugli esseri umani. Secondo l’autore infatti “siamo marchiati dalle nostre origini. La nostra specie si è conquistata una posizione dominante sulla terra in parte usando la propria intelligenza per inventare metodi grazie ai quali uccidere a distanza. E i branchi che sopravvissero furono spesso quelli che si erano dimostrati più bravi nell’uccidere altri uomini”.
Ma questo non è sufficiente a spiegare tutto. Se alcuni non hanno difficoltà a compiere efferati omicidi, moltissimi si astengono però dal farlo. Ciò che è veramente importante dunque sono “gli effetti deterrenti della coscienza del proprio interesse e quelli delle risorse morali: il senso di identità morale e le reazioni umane”. Se le reazioni umane degli individui sono indebolite e viene fatto scomparire il rispetto per le vittime allora commettere atrocità è senz’altro più facile.
“La reazione umana verso gli altri esseri umani, quella che consiste nel rispetto e nella partecipazione, sono il nucleo, il cuore della nostra umanità. Il rispetto per la dignità altrui è il riconoscimento e l’asserzione della fondamentale eguaglianza degli esseri umani. Puoi anche essere più ricco e più potente di me, e appartenere a una diversa etnia o religione. Ma se mi tratti con gentilezza e rispetto, mi fai capire che riconosci la mia condizione, che è quella di un essere umano pari a te. Se quando ci incontriamo ascolti e non ti limiti a parlare, riconosci che anch’io ho la mia esperienza, i miei pensieri e il mio modo di considerare il mondo, che anch’io posso dire qualcosa che vale la pena ascoltare”.
Quando le persone sono private della loro dignità e della condizione umana allora qualunque orrore diventa non solo possibile ma probabile. Infatti “il rispetto della dignità è una delle grandi barriere contro le atrocità e le crudeltà in generale. Riconoscere una comune dignità morale ci rende più difficile torturarci o ucciderci a vicenda”. Senza questa barriera protettiva si rischia che la pressione sociale esercitata sugli individui affinché non facciano male agli altri sia meno avvertita o completamente assente o addirittura ribaltata. Il XX secolo offre numerosi e tristi esempi al riguardo: “proteggere un ebreo nella Germania di Hitler , o dare aiuto a un reazionario nella Cina della Rivoluzione culturale, significava rischiare la condanna sociale o gravi pene”. E allora ecco le deportazioni, i campi di concentramento, le camere a gas, i forni crematori, le torture, le violenze, i massacri.
L’appello che Jonathan Glover lancia ai suoi lettori è quello di continuare a coltivare, nonostante tutto, la speranza di giungere a un mondo più pacifico e più umano. Perché questa speranza si trasformi in realtà occorre però che ciascuno guardi “bene in faccia, con fermezza, alcuni dei mostri che sono dentro di noi. Per metterli in gabbia e addomesticarli. Solo conoscendoci di più potremo fare qualcosa per creare un mondo dove vi sia meno dolore”.
Questo articolo è apparso anche nella sezione dedicata alla saggistica del Forum del Libro