OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB

NUMERO 1/2004

ALGERIA: SI AFFILANO LE ARMI PER LE PRESIDENZIALI 2004 di Aldo Torchiaro

cambiamenti climatici tra globalizzazione e povertà di Maria Vittoria Sbordoni e Jutta Steigerwald

quattro volte ungheria di Umberto Mantaut

ginevra: una opportunità di pace di Maurizio Debanne

un libro importante di Roberto Stocchetti

Il "Persian Gulf Command" di Marco Leofrigio

ALGERIA: SI AFFILANO LE ARMI PER LE PRESIDENZIALI 2004

di Aldo Torchiaro

nord africa

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In Francia e’ uscito in questi giorni un numero particolarmente ricco del settimanale di geopolitica e di analisi strategica “l’Intelligent”. Preannuncia un ritorno in grande stile alla politica e ai principi della democrazia per la nuova strategia elettorale delle fazioni islamiste algerine a pochi mesi dalle presidenziali del 2004, previste per il prossimo aprile.

''L'islamismo sta tornando ad essere politico, e questa conversione sembra destinata a riuscire'', sottolinea l'Intelligent. ''Tra il 15 novembre e l'8 dicembre scorsi le fazioni islamiste hanno ottenuto due vittorie significative in parlamento: il divieto di importazione di bevande alcoliche - approvato con l'adozione della finanziaria 2004 - e la soppressione dei cosiddetti 'seggi elettorali mobili' concepiti per permettere a tutta la popolazione, comprese le minoranze nomadi, di recarsi a votare''. Due provvedimenti ''significativi'', secondo l'Intelligent, che indicano un riavvicinamento dell'islamismo algerino alla politica, e una crescente influenza di quest'ultimo nel contesto nazionale. ''Certo, i successi degli islamisti andrebbero relativizzati poiché avvengono proprio mentre il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) - che detiene la maggioranza in parlamento con 199 seggi su 380 - è scosso da profonde alterazioni tra le sue file. La maggioranza fisica del Fln - spiega ancora l'Intelligent - confina gli islamisti ad una posizione di inquietante passività, tuttavia essi possiedono una sorta di savoir-faire che permette loro di assumere un peso considerevole nell'ambito dei processi decisionali a livello locale, regionale e nazionale''. Una caratteristica propria sia agli islamisti affiliati al movimento d'opposizione Mrn-Islah (Movimento della Riforma Nazionale) che a quelli appartenenti al Msp (Gruppo parlamentare del Movimento della società per la pace, ex-Hamas), che è invece filo-governativo. ''Per quanto riguarda le presidenziali, gli islamisti ne parlano meno degli altri, ma stanno preparando la loro campagna molto meglio rispetto agli avversari'', scrive l'Intelligent. ''Le fazioni islamiste non si accontentano dei successi ottenuti di recente in parlamento: a pochi mesi dall'avvio della campagna elettorale (che inizierà a metà febbraio 2004 - ndr), hanno deciso di incarnare la rivendicazione democratica''. Una propensione che potrebbe rivelarsi molto più efficace di quanto si possa pensare: l'Intelligent cita l'esempio di Bouguerra Soltani, presidente dell'Msp e candidato alle presidenziali, che il 10 dicembre ha organizzato una conferenza sulle libertà pubbliche in occasione della giornata mondiale per i diritti dell'uomo. ''Soltani ha persino annunciato di volersi battere per la libertà di stampa e per i diritti dei giornalisti'', sottolinea l'Intelligent. Un approccio adottato anche dall'Mrn e dal suo uomo di punta, Abdallah Djaballah: ''l'obiettivo è quello di aumentare la visibilità a livello politico attraverso tutta una serie di iniziative incentrate sulla lotta per la democrazia'', scrive il settimanale. Tuttavia oltre ai due candidati 'ufficiali' dell'Mrn e dell'Msp, l'islamismo politico che si fa spazio in Algeria riguarderebbe anche il Fronte Islamico di Salvezza (Fis) - messo al bando nel 1992 - che vede in Ahmed Taleb Ibrahimi la sua figura di spicco. ''Né Abassi Madani né Ali Benhadj, i due leader storici del Fis rilasciati a luglio dopo una condanna a 12 anni di reclusione, detengono il potere necessario a ricompattare le file del movimento'', sottolinea l'Intelligent. ''L'unico in grado di affrontare le presidenziali è Ibrahimi, già avversario di Bouteflika alle elezioni del 1999, quando ritirò la sua candidatura all'ultimo minuto ottenendo comunque più di un milione di voti''. Anche Ibrahimi, come i suoi avversari, ha dovuto ''cambiare strategia per raccogliere un più ampio consenso della popolazione'', spiega l'Intelligent. Una vera e propria ''inversione di rotta'', dunque, che potrebbe assicurare alle fazioni islamiste un successo più marcato rispetto alle previsioni iniziali.

CAMBIAMENTI CLIMATICI TRA GLOBALIZZAZIONE E POVERTà

di Maria Vittoria Sbordoni e Jutta Steigerwald*

attualità

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Dal 1 al 12 dicembre 2003 l'Italia ha ospitato per la prima volta, a Milano, i Paesi Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, riuniti nella nona sessione (COP9) con lo scopo di promuovere innovazioni tecnologiche e la cooperazione internazionale intorno all'alterazione del clima della Terra.
Ma che significa cambiamenti climatici? Stiamo davvero entrando in una fase irreversibile in cui il nostro Pianeta si sta rapidamente riscaldando, con eventi metereologici sempre più violenti? Fino a che punto la combustione di idrocarburi è responsabile del mutamento del clima? Quali responsabilità abbiamo in tutto questo come paesi occidentali? E se è vero il futuro che ci prospettano gli esperti, quali effetti avranno questi cambiamenti sulla nostra vita, ma soprattutto su quella di milioni di esseri umani che abitano le aree più a rischio? In tutto questo c'entra qualcosa la globalizzazione? 
Se è vero che ogni epoca ha avuto i suoi cambiamenti climatici, mai come nell'ultimo secolo la questione ha richiamato l'attenzione degli scienziati, allarmati dall'aumento della percentuale di anidride carbonica nell'atmosfera, principale responsabile dell'effetto serra e del buco dell'ozono, e della gente comune, preoccupata da eventi climatici sempre più estremi. 
La prima persona che previde l'eventualità che l'emissione di anidride carbonica dalle combustioni avrebbe potuto causare un surriscaldamento del pianeta fu Svante Arrhenius (1859-1927), chimico e fisico svedese, Premio Nobel per la chimica nel 1903. I suoi studi furono per lungo tempo ignorati, e solo negli anni '80 del secolo scorso è stato riconosciuto l'allarme per l'aumento delle emissioni antropiche di gas serra e l'accelerazione del cambiamento del clima.
Nel 1988 le Nazioni Unite hanno promosso l' Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un comitato composto da oltre 2500 scienziati. Nei suoi rapporti, l'IPCC ha dimostrato l'evidenza fisica del riscaldamento della Terra: nell'ultimo secolo il mondo si è scaldato di 0,6 gradi centigradi, mentre nel periodo 1990 - 2100 si prevede un aumento di temperatura tra 1,4 e 5,8 gradi centigradi, senza precedenti negli ultimi 10.000 anni, e un aumento del livello dei mari tra 10-25 centimetri; i ghiacciai alpini hanno già perso la metà del loro volume. La concentrazione atmosferica di anidride carbonica raggiungeva nel 1990 il valore di 353 parti per milione (ppm); nel 1999 era già salita a 368 ppm. 
E' difficile stabilire quale sia la soglia di emissioni di gas nocivi che il Pianeta potrà sopportare senza diventare un luogo invivibile: alcuni studiosi hanno previsto che tale limite si trovi intorno alle 400 ppm, altri verso le 450 ppm. Secondo recenti campagne di misura condotte a bordo di navi con rotta a lunga percorrenza, la concentrazione di tale gas nell'atmosfera terrestre sta aumentando di circa 2 ppm all'anno; il traguardo delle 400 ppm, sostenibile o no che sia, si sta avvicinando molto rapidamente.
Per contrastare questa situazione, nel 1992 154 Paesi, inclusi gli USA, hanno adottato, nell'ambito del Vertice delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) di Rio de Janeiro, la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change - UNFCCC). Ma le decisioni concrete per limitare un cambiamento climatico globale a breve termine sono state assunte solo nel 1997 con l'adozione del Protocollo di Kyoto, durante la terza sessione della Conferenza delle Parti (COP3). L'accordo prevede l'impegno a ridurre le emissioni dei gas capaci di alterare l'effetto serra naturale del nostro Pianeta del 5,2 per cento complessivamente nel periodo compreso tra il 2008 e il 2012, prendendo come anno di riferimento per livelli di inquinamento il 1990. L'impegno non riguarda tutti i paesi partecipanti, ma soltanto i 38 maggiormente sviluppati, in larga parte appartenenti all'area geografica europea, a cui si aggiungono Australia, Canada, Giappone, Nuova Zelanda e USA.
L'Unione Europea è impegnata a ridurre le proprie emissioni inquinanti per un totale dell'8 per cento e l'Italia del 6,5 per cento. La quota dei gas serra emessa dagli USA è del 25 per cento; nel 2001 gli USA sono usciti dal Protocollo di Kyoto.
L'accordo non è ancora entrato in vigore perché non è stata raggiunta la percentuale del 55 per cento dei paesi industrializzati più inquinanti che devono ratificarlo. Fino al dicembre 2003, 120 paesi hanno ratificato il Protocollo, di cui 32 paesi sviluppati e 88 paesi in via di sviluppo, raggiungendo solo il 44,2 per cento di emissioni nocive. Il 55 per cento si sarebbe raggiunto se a Milano la Federazione Russa, responsabile d'inquinamento per il 17 per cento, avesse ratificato l'accordo.
Per raggiungere gli obiettivi che si prefigge, il Protocollo di Kyoto prevede che i Paesi Parti possano ricorrere sia a programmi specifici di controllo delle emissioni all'interno del proprio territorio, sia ad attività di cooperazione internazionale. Sono i cosiddetti meccanismi flessibili, che danno la possibilità ai paesi industrializzati di utilizzare a proprio credito attività di riduzione delle emissioni al di fuori del territorio nazionale. Ciò sulla base del fatto che i cambiamenti climatici sono un fenomeno globale e che ogni riduzione delle emissioni è efficace indipendentemente da dove si realizza. Ma questi meccanismi suscitano forti perplessità. 
Le organizzazioni ambientaliste e di cooperazione internazionale sostengono che queste misure deresponsabilizzano i paesi industrializzati a ridurre le emissioni sul proprio territorio, e che il sistema dei crediti sposta le riduzioni nei paesi in via di sviluppo, dove il costo di queste operazioni è inferiore: in sostanza, queste misure rischiano di accentuare il gap tra paesi ricchi e paesi poveri.
Senza contare che, se è vero che la questione dei cambiamenti climatici ha una dimensione globale, la gente non è egualmente responsabile delle sue cause, e che le conseguenze peggiori le pagano i paesi e le comunità più deboli, dove maggiore è la dipendenza dalle condizioni atmosferiche per sviluppare attività basilari come l'agricoltura, dove minori sono le capacità di adattamento, le possibilità di effettuare previsioni, le risorse economiche e tecnologiche per far fronte alle emergenze e ai danni causati dagli eventi estremi.
Le società industrializzate, che rappresentano meno del 20 per cento della popolazione mondiale, sono responsabili di oltre l'80 per cento delle emissioni di gas inquinanti accumulati nell'atmosfera negli ultimi 150 anni, dovute principalmente all'utilizzo di combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) generate dall'industria, dai trasporti, dall'agricoltura e da stili di vita ad alto consumo energetico.
Alcune dinamiche intrinseche alla globalizzazione, come l'applicazione su scala mondiale del modello industriale neoliberista, contrastano comunque le disposizioni adottate.
Dal 1970 è soprattutto la domanda di energia per il trasporto stradale a crescere in modo esponenziale: nel mondo circolano oggi 630 milioni di veicoli, l'85 per cento nei paesi OCSE, che assorbono il 60 per cento del petrolio estratto. Le tre maggiori case automobilistiche del mondo hanno da sole un fatturato annuo che supera il prodotto nazionale lordo dell'intero continente africano.
Uno studio dell'OCSE (1997/1998) ha evidenziato come molti governi occidentali sostengano con sussidi pubblici alcuni settori economici altamente inquinanti, vanificando gli impegni e le sfide assunte in sede internazionale. Secondo alcuni scienziati (Meyers), dei 1.900 miliardi di dollari spesi ogni anno per sussidi pubblici, almeno 1.450 miliardi sono utilizzati in attività di sviluppo insostenibile. Il settore dei combustibili fossili non solo è quello che maggiormente contribuisce all'inquinamento atmosferico e al cambiamento climatico, ma è quello che riceve più sussidi in assoluto: il loro valore, in tutto il mondo, supera tutti gli aiuti stranieri provenienti da ogni fonte. Degli attuali 240 miliardi di dollari di sussidi pubblici globali annui (88 dollari pro capite nei paesi OCSE; 35 dollari pro capite nei paesi non-OCSE), due terzi sono assorbiti da fonti energetiche non rinnovabili, mentre il settore delle energie rinnovabili riceve sussidi solo per 9 miliardi di dollari. 
Dare un giusto prezzo ai combustibili fossili può contribuire a promuovere un maggior uso di energia rinnovabile: il Rapporto 2003 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo - UNDP ("Le azioni politiche contro la povertà") evidenzia che il più elevato consumo di benzina nei paesi OCSE è associato a prezzi più bassi.
Altro dato da tenere presente riguarda l'enorme costo delle perdite economiche associate al cambiamento climatico: uragani e ondate di caldo hanno comportato la spesa di 60 miliardi di dollari nel 1966 e di oltre 100 miliardi di dollari nel 1999. L'istituto americano NOAA (National Oceanic and Athmospheric Administration) ha censito 37 catastrofi climatiche da almeno un miliardo di dollari di danni avvenute a partire dal 1980. 31 di questi 37 disastri si sono concentrati nel decennio 1988 - 1998, il decennio più caldo dal 1880. 
I peggiori effetti dei mutamenti climatici li stanno vivendo o li subiranno in futuro i paesi che ne sono meno responsabili. Solo nel 1998 le alluvioni hanno provocato 80 mila senzatetto in Corea, 2 mila morti in Cina; la siccità ha provocato 180 milioni di dollari di danni a Cuba, ha distrutto il 90 per cento delle riserve di riso nelle Filippine; gli incendi hanno causato la perdita di centinaia di migliaia di ettari di foresta in Borneo e in Messico; gli uragani hanno provocato oltre un miliardo di dollari di danni in Perù e 10.000 morti in due paesi centroamericani.
Alcuni studi citano in 10 milioni i nuovi casi di malaria, soprattutto nel Sud del mondo, da qui al 2030, dovuti ad un'alterazione della temperatura mondiale, cioè 500 mila nuovi casi all'anno; a ciò si aggiungono 10 milioni di morti per denutrizione, legati alla siccità o comunque alla maggiore insicurezza alimentare. Ogni anno la desertificazione provoca, soprattutto in Africa, oltre 150.000 profughi "ambientali", con gravi problemi per la loro sopravvivenza e per la loro accoglienza e possibilità d'integrazione nelle aree o nei paesi limitrofi.
Il rallentamento produttivo dovuto ai cambiamenti climatici è destinato a creare povertà e insicurezza alimentare in molte aree del mondo, soprattutto laddove l'agricoltura rappresenta la maggior fonte di cibo e di occupazione. Il 76% della popolazione in Cina e il 57% in India risulta occupata nel settore; entro il 2050, circa il 42% della popolazione mondiale sarà concentrato in questi due paesi.
Gli scenari che si prospettano sono dunque allarmanti, a fronte di un colpevole ritardo sia nella ricerca e nell'impiego di tecnologie alternative e di fonti energetiche "pulite" e rinnovabili, come quelle offerte dal sole, dal vento, dall'acqua, dalle biomasse, sia nell'applicazione di modelli di sviluppo sostenibile.
Né si prevede che diminuiscano i consumi d'energia, anzi: l'Agenzia internazionale dell'Energia (AIE), organismo dell'OCSE, sulla base di una benevola ipotesi di crescita economica del 2 per cento nei paesi occidentali e del 4,1 per cento nei paesi in via di sviluppo da qui al 2030, prevede un aumento dei consumi energetici su scala mondiale del 61 per cento rispetto al 2000.
L'aumento riguarderà soprattutto alcuni paesi in via di sviluppo, come quelli dell'area asiatica, dove il fabbisogno di energia dovrebbe crescere del 188 per cento. Nel 2030 i consumi dei paesi emergenti pareggeranno quelli dei paesi occidentali, rispetto alla metà che si registra oggi. Secondo l'AIE la domanda di energia riguarderà soprattutto i consumi domestici e industriali. I trasporti saranno responsabili di un incremento della domanda per oltre il 50 per cento nei paesi occidentali e di circa il 300 per cento nei paesi in via di sviluppo.
Se ciò si avverasse - nulla lascia pensare che i paesi in via di sviluppo siano disposti a limitare i loro livelli di consumo energetico -, l'uso di fonti energetiche non rinnovabili potrebbe far aumentare del 69 per cento le emissioni di anidride carbonica su scala mondiale, vanificando gli obiettivi di stabilizzazione previsti dal Protocollo di Kyoto.

 

*Maria Vittoria Sbordoni , esperta in cooperazione allo sviluppo, opera nel Settore Progetti della Ong VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo). 
Jutta Steigerwald, sociologa, ricercatrice sui temi "ambiente e sviluppo", ha partecipato alla COP9 di Milano, nel dicembre 2003, come delegata del Consiglio Ecumenico delle Chiese nel gruppo di lavoro sui cambiamenti climatici.

quattro volte ungheria

di Umberto Mantaut

appunti di viaggio

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L'Ungheria in catene - Estate 1976

Hid in ungherese significa ponte e nulla è più importante dei ponti in un paese che vive in funzione di un grande fiume.
Il Danubio per un lungo tratto segna a settentrione il confine con la Cecoslovacchia. Poi, sontuoso e lento, separa Buda da Pest caratterizzando il paesaggio della splendida capitale magiara. Infine, fecondando la grande pianura meridionale, raggiunge il confine fra l'Ungheria e la Jugoslavia.
Komàrno e Komàrom sono la stessa città sulle rive del grande fiume, ma i quartieri settentrionali sono cecoslovacchi e quelli meridionali ungheresi, sicché i nomi, sia pure di poco, sono differenti, si parlano lingue incredibilmente diverse, si usano monete non intercambiabili, mentre sull'unico ponte che li congiunge c'è una frontiera difficile da varcare.
Pur essendo entrambe sotto la soffocante influenza sovietica, incluse loro malgrado nel ferreo Patto di Varsavia, le due nazioni dell'Est europeo attuano controlli severi alle dogane e sono particolarmente fiscali con gli stranieri occidentali. Dopo ore d'attesa si riesce a passare sopra le onde indifferenti del Danubio che hanno già lambito le ridenti periferie viennesi e il tetro lungofiume di Bratislava.
In Ungheria si ritrovano la miseria e l'apatia indotte dall'orrido regime politico in tutti i paesi soggiogati, ma qualcosa impercettibilmente indica che il popolo magiaro non si è del tutto sottomesso. Nei villaggi ricompaiono i fiori alle finestre, qualcuno osa sollevare una mano per salutare, qualcuno tenta di sorridere, nelle rare osterie si beve e si mangia meglio che in Cecoslovacchia e, quasi timidamente, dagli angoli bui dei locali si levano le note d'una vivace musica tzigana.
Anche la lingua aiuta gli ungheresi ad opporsi ad un regime sciagurato e a sviluppare una micidiale resistenza passiva di fronte ai pervicaci tentativi di russificazione del paese. I nomi delle città e dei villaggi sono quasi illeggibili e sicuramente impronunziabili per chi non è nato in Ungheria. Che dire di Székesfehérvàr, Nyìregyhàza, Szentendre, Hòdmezövàsàrhely?
Da Komàrom a Budapest la via è breve. L'ultimo tratto è quasi simile ad un'autostrada occidentale. All'improvviso s'incontra un bivio, da una parte Margit Hid, dall'altra Erzsébet Hid, due dei più famosi ponti della capitale. Si opta per il secondo e s'attraversa il Danubio rimanendo a bocca aperta per la meraviglia.
Sul fiume maestoso il Ponte delle Catene, Széchenylànchid, tutto illuminato, allaccia graziosamente le colline di Buda alle vaste prospettive di Pest. Dalle rive si specchiano nelle acque tranquille del Danubio le guglie dell'immenso Parlamento dalle sfumature grigio-azzurro e le facciate dei grandi alberghi moderni. In alto osservano il magnifico panorama le mura maestose della Cittadella o rocca di Vàrhegy.
Purtroppo, anche a Budapest si rinnovano le difficoltà per trovare alloggio non volendo sottostare alle ottuse regole burocratiche della compagnia statale che pretende il monopolio dei posti letto e il controllo su ogni movimento dei viaggiatori. Per fortuna, a dispetto dell'onnipresente polizia, nelle strade di Budapest si svolge tutto un complicato mercato nero. Alcuni offrono un cambio della moneta incredibilmente favorevole, rispetto alle quotazioni della banca statale, altri distribuiscono biglietti con indirizzi di ristoranti e ritrovi a gestione privata, perciò clandestina, altri ancora dall'aspetto perbene, sussurrano che possono ospitare in casa loro stranieri, a patto che si usi molta discrezione.
Il nostro problema lo risolve un pensionato. Per molti chilometri, lungo i viali della città e seguendo la linea metropolitana per Szentendre, andiamo al seguito dell'anziano in bicicletta per finire in un condominio popolare in una zona molto verde della periferia, chiamata Aquincum per la presenza di ruderi di antiche terme ed acquedotti romani. Si entra furtivamente per non far parlare i vicini. Ci viene assegnata una camera dotata di uno strano impianto nel soffitto che garantisce una debole illuminazione e un riscaldamento che martella la testa e lascia gelati i piedi.
All'alba successiva si capisce che i vecchi padroni di casa hanno trascorso la notte seduti in cucina per ricavare pochi soldi affittando i loro letti. Offrono una colazione a base di peperoni crudi, latte fermentato e grappa di prugne, una bomba per gli stomaci viziati dai cappuccini con i maritozzi. Per fortuna, nei giorni successivi si riesce a trovare alloggio in un hotel del centro per una visita della città da basi meno precarie.
La gemma museale di Budapest è senza dubbio lo Szépmüvészeti Muzeum che ospita antichità egizie, greche, etrusche e romane, molte sculture e una ricca pinacoteca con numerose opere famose di pittori italiani, fiamminghi, spagnoli, austriaci, ungheresi e francesi.
Il museo fa parte di un complesso monumentale assai scenografico, dal nome di Varosliget, che comprende l'immenso Piazzale degli Eroi, i grandi giardini, un lago, il borgo Vajdahunyad Vara con il Museo dell'Agricoltura, un castello, palazzi e chiese, per un totale di 21 edifici, copie significative di monumenti ungheresi atti a riassumere la storia dell'architettura magiara dei periodi romanico, gotico, rinascimentale e barocco.
Il taglio da grande capitale è evidenziato dall'ampiezza delle vie, chiamate utca, dai lunghissimi viali tangenziali, detti korut, dall'immensità delle piazze e dall'imponenza delle costruzioni. Budapest è stata la prima metropoli europea ad avere una linea sotterranea di trasporto pubblico. Le stazioni più vecchie, datate 1896, hanno subito restauri conservativi e non hanno perduto il loro aspetto caratteristico.
A Budapest il traffico privato è molto scarso. Le arterie tangenziali sono percorse da poche automobili e molti tram gialli. Il viale più importante si chiama Lenin korut. Durante l'invasione russa i carri armati hanno fatto fuoco a petto d'uomo sulla folla e all'altezza dei primi piani dei palazzi signorili, uccidendo barbaramente migliaia di budapestini e devastando per dispetto interi quartieri. Si era ai primi di novembre del 1956. L'occidente pavido e distratto non aiutò il popolo magiaro. Le stragi e i soprusi furono considerati problemi "interni" del sistema comunista.
Budapest continua a vivere nel grigiore, soffre per la penuria di merci, non si rassegna e spera. L'anima magiara non si è mai piegata nelle sventure storiche di questa terra, crocevia dell'Europa, abitata da un popolo colto e fiero, con sangue zingaro, profondamente cristiano e indomito. Gli ungheresi hanno mal sopportato il giogo ottomano, poi hanno contribuito a cacciare i turchi quando stavano quasi sotto le mura di Vienna. Hanno accettato a fatica il saggio, ma rigidissimo, sistema di governo dell'impero austro-ungarico, ribellandosi più volte fino alla vittoria. Si sono allineati stoltamente al nazismo tedesco e al fascismo italiano, con conseguenze catastrofiche. Moltissimi gitani magiari sono finiti nei campi di sterminio germanici. La guerra fra i russi e i tedeschi si è combattuta in gran parte nelle strade di Budapest. Infine, nonostante il ritorno della democrazia con una forte maggioranza di piccoli proprietari, le trame sovietiche e le manovre subdole della sinistra ungherese hanno condannato il paese alle angherie del partito unico, allo stalinismo, all'ateismo di stato, all'inferno della dittatura del proletariato.
Tuttavia, dove si può si cerca di stare allegri. Sulle rive del Balaton si respira un'atmosfera di vacanza, forse un po' dopolavoristica e sempliciotta, ma, nuotando lontani dalla riva e da orecchie indiscrete, alcuni ungheresi, per loro natura poliglotti, riescono a confidare le loro aspirazioni ai rari turisti occidentali che hanno tradito le spiagge adriatiche per questo piccolo mare interno d'acqua dolce. Qualcuno si domanda a beneficio di chi siano certe ville lussuose, affacciate sul lago pallido e brumoso, appartate e circondate da ombrosi giardini. Così si scopre che sotto le bandiere rosse proliferano i "furbi", i grandi persuasori, i burocrati, i dirigenti e i manipolatori dei fiorini pubblici, frutto del sudore del popolo, i soliti "bravi" sulle cui teste già si addensano le nubi della prossima rivolta.
Il lago Balaton sembra un Trasimeno: le stesse acque basse e poco luminose, molti canneti e rive erbose, una grande bagnarola in un clima caldo umido in estate e freddo d'inverno, ma la forma del bacino ungherese è molto allungata e stretta, tanto che in alcuni punti si può attraversare a nuoto. Per i nomi dei villaggi rivieraschi non si è fatto uso di molta fantasia: Balatonnaliga, Balatonvilagos, Baltonfüred, Balatonfòlvar e così via, decine di volte.
Dall'estremità occidentale del grande lago si risale a nord verso il confine austriaco e l'ultima città ungherese, Sopron, sembra fremere dal desiderio di apparire diversa. Molti abitanti del centro hanno parentele austriache delle quali si vantano, simulando uno stile di vita germanico, oltre a parlare perfettamente il tedesco.
L'ultima sera del soggiorno in terra magiara si famigliarizza con gli abitanti di Sopron in un locale da ballo dal nome promettente di Moulin Rouge, ma ben poco parigino. La gente è molto estroversa, si danza, si parla e si beve un po' troppo abbondantemente. Qualcuno, sfidando i gravissimi rischi di orecchie indiscrete, osa definire ad alta voce "selig", beati, gli stranieri che domani rivarcheranno la cortina di ferro per tornarsene in libertà.

 

L'Ungheria in affanno - Agosto 1991

L'occasione per rivedere le terre dei magiari, dopo il crollo del muro di Berlino, si è presentata durante un lunghissimo viaggio in fuoristrada. Mete lontane: l'Ucraina, la Bielorussia, la Lituania e la Russia, la città storica di Leopoli, Minsk, la romantica Vilnius e la città santa di Smolensk, sulla via di Mosca.
Si entra in Ungheria dall'Austria, passando per la ridente cittadina di Fürstenfeld nel verde Burgenland. La frontiera si trova poco distante da Heiligenkreuz e non ha più nulla a che vedere con la terrificante barriera dei tempi della guerra fredda. Ora si passa alla svelta, si mostra il passaporto senza visti a un doganiere sorridente che fa un cenno di benvenuto e con la mano sembra voler mettere fretta a chi è diretto a Budapest.
Nelle campagne ungheresi, per la verità, non si notano grandi cambiamenti. Il mondo rurale, rimasto apatico e ostile nei confronti della collettivizzazione, è altrettanto cauto di fronte alla frenesia di cambiamento verso il liberismo e le mode consumistiche. Le province a occidente di Budapest, Vas, Vszeprem e Fejér, fra le città di Körmend e Székesfehervàr, passando per le campagne ondulate a settentrione del Balaton, sono un monotono susseguirsi di campi gialli di girasole e verdi di luppolo, fra villaggi sonnolenti nella calura umida dell'agosto continentale.
Le sorprese si presentano nei pressi della capitale. L'autostrada è affollata da automobili di grossa cilindrata e di marca occidentale. Sembra che gli ungheresi, avvicinandosi ad un certo benessere e riconquistata la libertà di movimento, abbiano l'affannosa preoccupazione di apparire al volante di una vettura veloce e fiammante.
Budapest sembra ridestarsi dopo un lungo letargo popolato da incubi. Già capitale di grande respiro, dai sontuosi monumenti, dalle strade ariose e dai magnifici ponti, la città appare alla febbrile ricerca di un nuovo equilibrio, sebbene afflitta da gravi problemi. Una parte della popolazione è in difficoltà di fronte al traumatico cambiamento del sistema politico ed economico, ma cerca con fierezza di allinearsi ai livelli di vita delle altre metropoli europee. Si notano ammodernamenti e lussi inimmaginabili solo pochi anni or sono.
A Buda è sorto il superbo Hilton dalle pareti di cristallo nelle quali si specchiano le guglie gotiche della chiesa di San Mattia e i porticati del Bastione dei Pescatori. L'opportunità di certi accostamenti architettonici è dubbia, ma di certo, fra un po' di tempo, l'oggetto ultramoderno finirà per sembrare di buon gusto nel salotto buono dal sapore antico. Con i prezzi ancora contenuti, ci si può permettere il pernottamento nel lussuoso albergo, godendo dalle finestre dello spettacolo meraviglioso del Danubio con i suoi ponti, il lungofiume di Pest e il Parlamento monumentale.
Tra le piazze Vörosmarty e Felszabadulàs, la bella strada chiamata Vàci utca è tutto un susseguirsi di vetrine scintillanti. Gli stilisti, i profumieri e i gioiellieri più famosi del mondo hanno aperto saloni e boutique, riequilibrando nello sfarzo l'occidente e l'oriente.
Purtroppo, la miseria nella quale l'Ungheria è stata costretta a languire per tanti anni si nota ancora nelle periferie di Budapest, specialmente nei quartieri lontani dal fiume e verso l'aeroporto. Uscendo dalla città, lungo l'arteria E 573 che unisce l'Ungheria all'Ucraina, si attraversa la famosa puszta, una distesa di campi di cereali e di pascoli, regno dei magnifici cavalli allo stato brado, terra di nomadi e di contadini che vivono in villaggi poveri e tristi. Le città industriali che si attraversano sono brutte e con nomi difficili da ricordare: Szolnok, Debrecen, Nyìregyhàza, fino alla frontiera di Côp, dopo Zàhony, attraverso la quale si entra in Ucraina.
Al ritorno, dopo un viaggio avventuroso in URSS, culminato con le ansie di un colpo di stato, si ripercorre lo stesso itinerario in senso inverso, ma molto più velocemente, nell'Ungheria in festa per la visita papale, ma terribilmente allarmata per gli avvenimenti in corso nel temibile paese vicino.
Per fortuna gli ungheresi non hanno chiuso le frontiere, volendo così dimostrare la loro calma coraggiosa. Dopo tutto non è più pensabile un ritorno dei tempi bui nei quali i carri armati di Mosca potevano impunemente scorrazzare nelle belle strade delle capitali altrui, seminando morte e distruzione. Qualcuno sostiene che nella vicina Unione Sovietica si svolge l'ultimo atto della tragedia europea. L'orrenda ideologia nazista è già sepolta, ora si assiste al funerale del comunismo, l'altra faccia demoniaca della stessa medaglia macchiata di sangue.

 

L'Ungheria libera - Agosto 1995

La Slovenia ha aperto un posto di frontiera fra Lendava e Lenti. Il passaggio è estremamente agevole e privo di formalità. Si entra in Ungheria nella regione di Zala bagnata dal Balaton lungo la sua corta sponda occidentale.
Il lago in agosto è letteralmente invaso dai turisti tedeschi, specialmente in questi tempi di guerra in Jugoslavia che bloccano l'accesso alle spiagge adriatiche.
La completa liberalizzazione degli scambi ha trasformato le coste di questa specie di piccolo mare interno in una bolgia riminese. Lungo i cinquanta e più chilometri della spiaggia meridionale del lago non c'è più un metro quadrato libero. Dagli alberghi e dai campeggi, una folla di bagnanti invade le rive, il lago è affollato di vele, la strada costiera è un solo interminabile ingorgo di auto a passo d'uomo. Purtroppo, libertà, abbondanza e benessere hanno i loro inconvenienti.
A Budapest, l'Hilton è diventato inavvicinabile a causa dei nuovi prezzi astronomici in marchi tedeschi. Bisogna accontentarsi e scendere alle più modeste quattro stelle dell'Inn Side Wien, sulla Budaörsi utca, all'uscita della M 7.
Per circolare in auto nella città s'incontrano le stesse difficoltà di Roma. La motorizzazione di gran parte dei budapestini riproduce ingorghi, problemi di parcheggio e inquinamento, nonostante i grandi spazi nelle strade e nelle piazze, l'efficiente metropolitana e il buon sistema di trasporto pubblico di superficie.
Una simpatica nota sulla toponomastica: non c'è più il Lenin Korut! Il grande viale tangenziale di Pest ha ripreso i suoi nomi imperiali d'origine: Maria Teresa, Elisabetta, Francesco Giuseppe.
Tutto il patrimonio monumentale di Budapest è oggi assai valorizzato, dopo opportuni restauri, riorganizzazione museale e sapientissima illuminazione notturna. E' un vero piacere rivedere Varpalota, il Parlamento, Varosliget, il Ponte delle Catene, la Cittadella e l'Isola Margherita in una Budapest allegra che sembra attendere il 2.000 con grande ottimismo. Anche Dio è ritornato a Budapest. Forse non l'aveva abbandonata neppure durante i pervicaci tentativi d'imporre l'ateismo di stato. La magnifica basilica di Santo Stefano è in restauro, nell'attesa che al suo interno tornino a risplendere i meravigliosi marmi ungheresi di 55 varietà diverse.
Sul Danubio grandi navi da crociera promettono escursioni in entrambi i sensi della corrente, verso Vienna e in direzione della Jugoslavia, ma la grande ansa a nord della capitale è facilmente raggiungibile anche via terra per visitare alcuni tipici e storici villaggi ungheresi.
Esztergom è un'ariosa cittadina ricca di monumenti. La sua collina, il Vàrhegy, si specchia nel Danubio con la gigantesca basilica neoclassica, sede del Primate d'Ungheria. All'interno sorprende lo stile rinascimentale toscano della famosa Cappella Bakòcz, tutta rivestita di marmo rosso con l'altare di marmo bianco di Carrara, opera del 1519 di Andrea da Fiesole. La città bassa è ricca di palazzi, chiese e musei ed è animata da ondate di turisti che sbarcano dai natanti provenienti da Budapest e Vienna o dai traghetti che fanno la spola fra la sponda ungherese del fiume e la riva settentrionale slovacca.
Seguendo l'ansa fluviale e la corrente si giunge in breve a Visegrad, il famoso villaggio del Màtyàs Kiràlyi Palota. Questo castello medievale fu attaccato dai turchi nel 1541, ma le rovine sono visitate da un flusso ininterrotto di turisti, estasiati di fronte al magnifico panorama dell'ansa danubiana.
La terza tappa di questo tranquillo itinerario, lontano dal traffico della metropoli, è il villaggio degli artisti di Szentendre, dal delizioso centro storico barocco. Qui il lungofiume è particolarmente romantico e offre ai golosi le specialità culinarie ungheresi servite in caratteristici locali campagnoli.
Dopo tre giorni budapestini, si riparte per altri centri minori dell'Ungheria occidentale, seguendo la moderna autostrada che collega Budapest a Vienna e Bratislava. Uscendo a Györ e dirigendosi a sud si arriva a Pannonhalma, la più grande abbazia benedettina dell'Ungheria, famosa per l'importante archivio e la bellissima antica biblioteca che contiene 350.000 preziosi volumi in un ambiente suggestivo.
Al confine con l'Austria, fra Sopron e Szombathely, si visita il celebre villaggio di Köszeg. La curiosa disposizione delle case e le astuzie dei castellani sono riuscite a bloccare l'avanzata dei turchi verso Vienna nel lontano 1532, evitandoci, almeno finora, la scomoda posizione di preghiera che i musulmani impongono ai cittadini costretti volenti o nolenti alla frequentazione delle moschee.
A Köszeg le campane suonano alla undici, anziché a mezzodì, per commemorare l'ora fatidica della ritirata dell'armata maomettana. Le nicchie nelle mura e gli spigoli delle case costruite in ordine sfalsato per aumentare le possibilità di difesa testimoniano ancora il coraggio dei contadini ungheresi contro gli invasori ottomani e germanici. Nonostante la vicinanza dell'Austria, il villaggio conserva gelosamente i suoi caratteri tipicamente ungheresi, persino nel clima continentale, pesantemente caldo e umido in estate e gelido d'inverno.
Passando la frontiera ed entrando nel Burgenland, poi in Stiria e in Carinzia, fra boschi di abeti ed amene vallate, si rientra in Italia, passando per la Slovenia. Sui monti si ritrova un'aria più fresca e odorosa di resine, ma ben presto si sente la nostalgia dello stuzzicante profumo del gulasch e si vagheggia il prossimo ritorno nella patria dei magiari. 

 

L'Ungheria felice - Ottobre 2003

Il fiero popolo magiaro non ha mai conosciuto una stagione più prospera dell'attuale. Le secolari sofferenze di questa terra in posizione chiave fra oriente ed occidente e fra il nord e il sud dell'Europa, lungo la più importante via d'acqua del continente, sembrano ormai solo un triste ricordo storico. Oggi l'Ungheria tende fiduciosa le braccia all'Europa e l'Europa è ben lieta di spostare ad est il confine dell'Unione, nell'attesa di attrarre nella rassicurante orbita comunitaria le fertili pianure dell'Ucraina e, in una prospettiva più lontana, le ricche terre russe, fino ai primi contrafforti dei Monti Urali.
Budapest, come Praga, Varsavia e Berlino, ha ripreso l'aspetto di una grandiosa capitale mitteleuropea. La vita dei budapestini si è radicalmente trasformata, con i pregi e i difetti dell'occidente prospero e frenetico.
In questi giorni dell'ottobre 2003 la città si è concessa un lungo ponte festivo per commemorare degnamente l'anniversario della rivoluzione del '56 contro l'invasore sovietico, costata lutti e devastazioni, ma documento ancora vivissimo del valore di un popolo indomito.
Sulla piazza del Parlamento è stata allestita una rassegna fotografica. Quei giorni bui, a cavallo fra l'ottobre e il novembre del 1956, sono rievocati da grandi pannelli in bianco e nero con le immagini più espressive della rivolta popolare contro il comunismo e della repressione attuata con ferocia inaudita sotto il tiro dei cannoni dei carri armati russi.
La fotografia più emblematica, un classico sul finire delle peggiori dittature, raffigura la testa di Stalin staccata dalla superba statua e gettata al suolo in una piazza della città, ma le altre documentano l'eroismo di studenti ed operai, donne, ragazze e anziani in lotta a mani nude contro un'armata addestrata e feroce.
Oggi il magnifico palazzo del Parlamento è nuovamente la sede naturale degli organi supremi della democrazia riconquistata con tanti sacrifici ed anni d'attesa. L'edificio è definito come una specie di Westminster sul Danubio, ma il Parlamento britannico, più sobrio e severo, s'affaccia sui quartieri piuttosto squallidi del meridione di Londra, mentre a Budapest l'enorme edificio neogotico ha sullo sfondo la stupenda collina di Buda ricca di monumenti e si specchia in un fiume certamente più suggestivo del Tamigi.
Purtroppo gli ungheresi, per vicinanza geografica e per carattere, sono più simili agli italiani che agli inglesi. In politica non hanno scelto una democrazia matura, fondata su un'alternanza di pochi partiti moderati, bensì, fatte le debite proporzioni fra estensione territoriale e numero dei votanti, offrono lo spettacolo squallido, che ben conosciamo, di una moltitudine di partiti, movimenti, correnti e coalizioni fluide, con il risultato che il paese è sempre in crisi. Nell'euforia postcomunista, i primi governi centristi o di centro-destra hanno favorito un ribollente sviluppo economico, l'ascesa di una nuova classe di piccoli imprenditori rampanti, spesso spregiudicati e non sempre oculati, mentre per le classi sociali più deboli non si è provveduto intelligentemente ad evitare un eccesso di sacrifici.
Così, sebbene possa sembrare un paradosso in una nazione che ha tanto sofferto sotto il regime imposto dai sovietici, un gran numero di cittadini ha incominciato ad avere nostalgie per la sinistra, non solo quella socialdemocratica, incapace nella gestione dell'economia di mercato, però accettabile, ma persino per il vecchio comunismo, colpevole di tanti crimini contro il popolo magiaro, ma abile nell'assicurare quell'equa spartizione della miseria che tanto piace ai deboli, agli ignavi, agli invidiosi e ai fannulloni, per i quali il posticino statale, il monolocale in coabitazione nel casermone popolare, l'autobus a due centesimi e le vaccinazioni gratuite sono da considerare doni inestimabili per i quali si può, da veri incoscienti, rinunciare alla libertà.
Gli ungheresi stanno molto meglio in questo inizio di nuovo millennio, passeggiano in abiti firmati con il cellulare incollato all'orecchio, affollano le strade di auto nuovissime e i locali pubblici dove si mangia e si beve in abbondanza, allietati dai musicisti tzigani, ma si lamentano dei loro politici mediocri e del clima impazzito.
L'estate 2003 è stata eccessivamente calda anche in Ungheria, ma ora, giunto l'autunno, la neve già imbianca precocemente i giardini delle ville nella parte alta delle colline di Buda. Le mattinate e le serate sono assai fredde ed umide. Nel parco del Vàrosliget, fra gli edifici monumentali alle spalle del grandioso Piazzale degli Eroi, è già stata allestita la grande "patinoire" e, approfittando delle festività, i primi virtuosi volteggiano sui pattini da ghiaccio, sotto lo sguardo dei turisti che si aggirano fra musei e botteghe di souvenir. 
Vàrhegy, la collina della Fortezza, non si è piegata di fronte all'assalto delle automobili. La porta Bécsi Kapu è stata sbarrata al traffico. Vi entrano esclusivamente i piccoli autobus navetta che salgono silenziosi dalla Piazza Mosca, trasportando solo pedoni dalla stazione della metropolitana fino alle romantiche stradine gotico-barocche del quartiere antico. Il silenzio e l'assenza di veicoli rendono più suggestiva la visita della parte storica di Buda, ma in un certo senso Vàrhegy ha perduto qualcosa del suo ambiente tipicamente ungherese per assumere l'aspetto di un museo all'aperto.
La folla cosmopolita che ha invaso Buda è indaffarata a scattare fotografie, cercare souvenir nelle botteghe e pranzare nelle caratteristiche taverne, dove si parlano tutte le lingue. La cosa più triste è udire i complessi tzigani che cercano di far contenti i clienti attaccando "O sole mio", "Granada", "La vie en rose" e altri triti motivi, dopo aver individuato la nazionalità dei commensali.
Anche Szentendre, colonia di artisti e piccola Montmartre sul Danubio, ha assunto un aspetto meno bohemienne, riempiendosi di localetti sofisticati e boutique eleganti. Tutto il centro barocco è chiuso al traffico. Si arriva a piedi dalla stazione della linea suburbana i cui trenini verdi corrono lungo il fiume, partendo dalla Batthyàny Tér ai piedi della collina di Buda, toccando tutti i ridenti quartieri settentrionali della capitale. La Fö Tér, cuore di Szentendre, continua ad attrarre gli stranieri alla ricerca di un angolo di autentica Ungheria di provincia.
Il Danubio conserva il suo fascino di grande fiume. L'acqua scorre sotto i ponti, scandisce il tempo della storia, si porta via ricordi e dolori, disperde l'eco delle feste, allietate in questa terra dalla affascinante musica tzigana, sospinge le grandi navi da crociera che sbarcano a Budapest frotte di turisti allegri e ricchi, ma il colore blu del bel Danubio è sostituito dal grigiore di nuovi inquinamenti, sebbene i cigni ignari e candidi continuino ad affollare le sponde dell'isoletta di Pap, di fronte a Szentendre e della grande isola Margherita a Budapest.
Tutto non si può avere. Il progresso ha un prezzo e con i tempi che corrono i prezzi espressi in euro risultano molto sostenuti, per non dire esosi, persino in una capitale del povero est europeo che vuole imitare Parigi, Vienna, Roma, Londra o Madrid, nel bene, nel male e nel culto del denaro.
Alla fine qualcuno può sempre tirare fuori la vecchia massima: "La felicità è fatta di niente!".

Ginevra: una opportunità di pace

di Maurizio Debanne

medio oriente

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Di piani di pace per il conflitto israelo-palestinese ne sono stati elaborati a sufficienza tanto che le soluzioni da essi proposte, seppur diverse, si rifanno principalmente al principio secondo il quale Israele sarebbe disposto a ritirarsi dai Territori occupati solo in cambio di serie garanzie da parte dei palestinesi in materia di sicurezza.

In pratica Israele evacuerebbe la maggior parte degli insediamenti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza e l'Autorità palestinese concentrerebbe la maggior parte dei suoi sforzi nello smantellare i gruppi terroristici.

Il costo della non-pace è davanti agli occhi di tutti: dall'inizio della seconda Intifada si contano più di 3500 morti.

Ma la pace è possibile, basta volerla. A dimostrarlo è l'accordo di Ginevra che non è un esercizio intellettuale ma un vero e proprio accordo di pace che esamina e risolve tutti i punti nodali del conflitto israelo-palestinese, primo fra tutti lo status di Gerusalemme. La principale peculiarità di questo accordo è di avere alla base un nuovo approccio per risolvere il conflitto in base al quale non si prendono in considerazione le colpe reciproche, passate e presenti, ma si cerca di costruire concretamente un futuro di pace.

A differenza della Road Map, l'Accordo di Ginevra non rinvia in un secondo momento le decisioni più delicate ma non per questo vuole sostituirsi al piano di pace elaborato dal Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia). Beilin e Rabbo, e tutti gli altri artefici dell'Iniziativa, hanno voluto dimostrare ai rispettivi popoli e al mondo intero, che la pace tra israeliani e palestinesi è possibile e che da ambo le parti ci sono degli interlocutori credibili con i quali negoziare.

Il vicesegretario di Stato Usa Richard Armitage ha dichiarato in questi giorni che gli sforzi degli Stati Uniti per promuovere la pace fra Israele e i palestinesi sono in una fase di stallo perché "il primo ministro palestinese non è in grado o non vuole prendere seriamente posizione sulla questione della sicurezza, ma nemmeno gli israeliani vogliono il compromesso".

La Comunità internazionale deve allora cogliere l'opportunità di pace nata a Ginevra e rilanciare con forza il negoziato perché sarebbe un peccato sprecare una iniziativa di questo livello.

Sul sito www.paceinpalestina.it è possibile aderire al Comitato Italiano di Appoggio all'Accordo di Ginevra

un libro importante

di Roberto Stocchetti

recensioni

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Dobbiamo al nostro esistenzialismo pendolare se abbiamo avuto modo di leggere l’ultimo libro di Fabio Mini “La guerra dopo la guerra”. I treni, infatti, favoriscono la lettura, anche quella a tratti non facilissima di questo saggio.

La prima cosa da dire è che le tesi di Mini si leggono e ragionano con piacere, anche quando non ci si trova d’accordo.

Ma l’aspetto che più ci preme non è quello di marcare accordi o differenze, quanto, piuttosto, di muovere una riflessione, una meditazione, osiamo dire, sui nostri giorni.

In questi anni, prima e dopo l’undici settembre, si spendono molte parole su globalizzazione, democrazia, governo mondiale e quant’altro.

Poco al contrario si ragiona sugli effetti dell’agire di nazioni e organismi transnazionali.

Gli Usa sono stati definiti un’iperpotenza; orbene da uno stato con una tale preminenza in campo politico, tecnologico, militare sarebbe auspicabile che si sviluppasse una scienza del prevedere, una delle caratteristiche dell’Occidente contemporaneo è paradossalmente quella di vivere alla giornata o, peggio, di scambiare sogni con la realtà.

Un’iperpotenza dovrebbe avere una visione quanto più chiara dei risultati del proprio agire.

E’ assurdo pensare, ad esempio, di suscitare e armare una dittatura sanguinaria come quale quella di Saddam in Iraq (E si badi facciamo solo un esempio) e successivamente avviare una colossale campagna mediatica, diplomatica, militare, per defenestrarlo. Sarebbe stato auspicabile comprendere fin dall’inizio quale potente fattore di destabilizzazione avrebbe costituito.

Le multinazionali costituiscono, ormai potenti fattori transnazionali; orbene il fallimento di colossali società, con ripercussioni in tutto il mondo (In Italia n’abbiamo un drammatico eloquente esempio in questi giorni) non può essere attribuito semplicemente a bolle speculative o ad errori di gestione. Il problema è che la ricchezza si è svincolata da ogni legame con parametri reali e, per beffarda conseguenza, si può, un bel giorno, scoprire che le quotate azioni della società Y hanno il valore della carta su cui sono stampate…

Comprendere che un simile stato di cose non possa essere mantenuto all’infinito dovrebbe essere il primo essenziale atto di buon senso da compiere.

L’Occidente sta vivendo un processo di declino e decadenza, processo lungo e contraddittorio e forse non reversibile. Diciamo questo senza spirito millenarista o catastrofico; potrà non piacere, potrà non essere comodo ma è profondamente correlato agli eventi di questi anni.

E proprio perché non siamo millenaristi o catastrofici affermiamo che andrebbero praticate delle scelte politiche che fungessero da ammortizzatori a tale declino.

Non ci sembra di ravvisare nella politica Usa, europea o di nessun altro paese dirigente la ricerca di una simile strada.

Siamo franchi, il problema non è la scelta tra pace e guerra e neppure quali fini si vogliano ottenere; il nocciolo del problema sta nel capire le conseguenze di un agire. Agire che non può che avere effetti globali; la guerra di Troia poteva essere ben ignorata dagli abitanti della penisola iberica, altrimenti si può dire oggi. Si vive e si muore, ci si arricchisce od immiserisce a cagione d’eventi che sino a cento o duecento anni fa sarebbero stati lontanissimi.

Per ciò che riguarda l’Oriente il processo è duplice: l’Oriente islamico ha nel fatto rinunciato al suo futuro. Una società che approva e sostiene che la sua gioventù (Che rammentiamolo rappresenta la sua proiezione verso il futuro) si faccia esplodere in attentati suicidi è una società in decadenza, tanto più che in una parte non piccola si rinserra in un tradizionalismo e in una normatività (L’Islam è di per sé fra tutte le religioni forse la più normativa) che altro non è che una paura dell’altro.

Volendo concederci una digressione storica vorremmo rammentare che i piloti kamikaze entrarono in azione proprio nel momento in cui apparve chiara la sconfitta del Giappone.

E’ evidente, e quasi pedantesco, affermare che quella particolare tecnica di combattimento cagionò danni alla flotta americana altrimenti ottenibili con le altre forme d’intervento “tradizionale”. In ogni modo, una nazione in guerra fece morire centinaia di giovani in azioni che non potevano essere risolutive per le sorti del conflitto.

Per l’oriente sinico basterà affermare che ancora un decennio e coglieremo tutto l’orrore del colossale formicaio che ha capitale Pechino.

Il libro di Mini è quindi una lettura importante, tanto più perché l’autore è parte di un establischment che troppo spesso tende a sottovalutare problemi ed errori del mondo contemporaneo. E’ invece vero il contrario, confrontarsi con la realtà senza infingimenti, senza riserve mentali, senza ideologismi è l’unica possibilità perché i problemi siano almeno riconosciuti e chiamati con il loro nome.

Speriamo, allora, che una buona volta si riesca ad avere l’onestà per affermare che i mostri che si vogliono combattere sono i nostri mostri, che non sono estranei alla nostra civiltà ed ai nostri interessi. Arrivare a comprenderlo sarebbe occasione non piccola per vincerli.

Il "Persian Gulf Command"

di Marco Leofrigio

iran

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La missione militare americana in Iran negli anni 1941-45 come strumento di influenza nella regione del Golfo Persico.
Gli interessi strategici della potenza americana nella regione del Golfo nel periodo considerato si possono dividere in due fasi temporali: la fase post-prima guerra mondiale e quella durante il secondo conflitto.
La prima fase si svolse negli anni dal 1922 al 1927 e prende avvio con l'arrivo della I Missione finanziaria diretta dal dottor Arthur C.Millspaugh.
All'epoca la Persia era governata dal Reza Shah dedito ad un grande piano di modernizzazione del paese, e tra le opere portate a termine ne ricordiamo una su tutte:
la costruzione della Trans-Iranian Railway, ovvero di quella che sarà la via di comunicazione strategica nell'area durante la seconda guerra mondiale.
Millspaugh giunse con il suo staff a Teheran come "super-consigliere economico" del governo dello Shah e, durante i cinque anni della permanenza della Missione sul suolo iraniano, l'abile consigliere americano aiutò l'Iran ad aumentare il reddito nazionale, a migliorare la gestione del debito pubblico e ad ottenere facilitazioni per accedere ai grandi flussi di credito delle banche e istituzioni internazionali.
La missione ottenne molto successo e preparò un fertile terreno per i successivi sviluppi nelle relazioni tra i due Stati. Soprattutto per Teheran le aspettative erano quelle di intensificare i rapporti con Washington, ma tra i due paesi le "visioni" restavano sostanzialmente inconciliabili.
Infatti da un lato il governo iraniano spingeva per ottenere maggior cooperazione tecnica statunitense, principalmente con l'obiettivo di "diversificare" le alleanze e i rapporti commerciali, cosicchè lo sviluppo di una relazione forte con Washington, con i generosi aiuti finanziari che ne potevano derivare, sarebbero stati una basilare alternativa alla tradizionale presenza anglo-russa nell'area del Golfo Persico.
Dall'altro lato invece la diplomazia americana restava molto cauta e forse per un certo periodo fu anche scarsamente interessata.
Questo orientamento durò fino allo scoppio del secondo conflitto e si basava su tre ordini di motivazioni fondamentali:
1. l'area del Golfo era riconosciuta da sempre nella sfera di influenza imperiale britannica, e difatti veniva definita nei documenti del Dipartimento di Stato come "an English lake";
2. rispettare gli impegni presi nel cercare di concentrare più risorse possibili per appoggiare lo sforzo bellico britannico;
3. gli orientamenti di politica estera di Teheran, oscillante tra gli Alleati e l'Asse Roma-Berlino facevano sorgere notevoli perplessità.
E infatti proprio in relazione a quest' ultimo punto gli aiuti americani avrebbero potuto essere sfruttati dai nemici degli Alleati a causa delle dichiarate simpatie filo-naziste dello Shah: simpatie che si concretizzavano con l'attiva presenza di spie tedesche sul suolo iraniano.
L'orientamento del Dipartimento di Stato non poteva esser dunque diverso, in considerazione di questo scenario di fondo, e non si poteva certo permettere un rafforzamento indiretto dell'Asse.
Allo scoppio della guerra l'Iran era il classico "vaso di coccio tra i due vasi di ferro"; difatti la tradizionale politica russa di espansione verso il Golfo contrastava/competeva con la forte presenza britannica, in particolare nel sud del territorio persiano.
I contrasti tra le mire sovietiche e quelle britanniche arrivarono al punto tale che, nell'aprile del 1940, Teheran, cercando di accontentare il potente vicino russo, cedette alle sue pressioni licenziando tutti i tecnici britannici impiegati come consulenti tecnici nella nascente industria aeronautica persiana.
La forzosa opzione di fare a meno dei britannici fu però prontamente sfruttata per orientarsi decisamente verso la nazione nordamericana; difatti gli iraniani misero in atto una politica di compensazione rispetto alla concessione fatta ai sovietici: si attivarono per ingaggiare i tecnici americani da destinare all'industria bellica.
La valenza strategica della regione aumentò notevolmente con l'invasione dell'Unione Sovietica da parte delle truppe dell' Asse, nel giugno del 1941: la Persia diventava l'unica via terrestre disponibile per inviare rifornimenti agli alleati sovietici.
Il rischio che l'area potesse finire nell'orbita dell'Asse mise in moto la già stressata macchina bellica britannica: difatti il governo del confinante Iraq, che aveva manifestato notevoli simpatie filo-tedesche, fu rovesciato da un corpo di spedizione nel giro di poco tempo.
E lo stesso avvenne a causa delle smaccate simpatie iraniane filo-Asse.
Proprio in occasione dell'invasione tedesca del territorio russo, lo Shah fece le due mosse fatali che portarono alla sua destituzione:
- dichiarò apertamente di apprezzare la lotta tedesca contro i sovietici;
- rifiutò in più occasioni di espellere gli agenti segreti tedeschi dal suo territorio;
A questo punto divenne inevitabile la decisione di intervenire, cosa che scaturì con l'invasione anglo-russa dell'agosto 1941, che portò alla deposizione del vecchio Shah Pahlavi il quale abdicò in favore del figlio il 15 settembre.
Con questo intervento militare si consolidò notevolmente la posizione alleata nel Golfo, ufficializzata dal patto tripartito russo-inglese-persiano siglato nel gennaio 1942. Tra i vari punti dell'accordo fu prevista la totale disponibilità di tutti i mezzi di trasporto presenti sul territorio persiano al fine di permettere la piena attuazione del dispositivo di aiuti militari verso l'alleato sovietico, come previsto dagli accordi sulle forniture belliche americane destinate agli Alleati per mezzo appunto della nota Legge Affitti e Prestiti (Lend-Lease Act).
Nel 1941 iniziò la seconda fase dei rapporti Usa-Iran
Questi drastici cambiamenti in Iran furono subito recepiti dal Dipartimento di Stato americano, il quale valutò prioritario per le esigenze belliche potenziare il sistema delle viario.
E già dal settembre 1941 venne inviata una prima informale missione militare guidata dal generale di Brigata R.A. Wheeler (il quale nel dopoguerra divenne consulente della World Bank per quella regione), con il compito di riorganizzare interamente la rete viaria e i servizi logistici dell'esercito iraniano.
Inoltre venne aperta ad Abadan una grande base, sotto il completo controllo americano, dedicata all'assemblaggio dei velivoli statunitensi, con l'obiettivo di consegnare 200 velivoli al mese ai russi.
Oltre a tutti questi programmi si provvide ad estendere anche all'Iran le attività di assistenza per quanto riguardava le merci e i beni vitali per l'economia e la sicurezza interna, il cui braccio operativo fu il Middle East Supply Centre che aprì appositamente un ufficio a Teheran.
La missione militare venne inizialmente denominata "U.S. Military Iranian Mission", poi dall'agosto 1942 "Persian Gulf Service Command" ed infine, nel 1943, la denominazione definitiva adottata fu quella di Persian Gulf Command.
Il Comando del Golfo fu sempre considerato ufficialmente come "non belligerante", ma i cui appartenenti raggiunsero alla fine del 1945 il numero di ben 30.000 uomini, dislocati su tutto il territorio persiano.
In sostanza gli americani, resisi conto della situazione di indebolimento oggettivo delle zone d'influenza britanniche, intervenivano per proteggere le fonti di approvvigionamento petrolifero alleato con tutto il peso della loro potente organizzazione militare e civile, diventando così il "player" fondamentale nell'area del Medio Oriente.
Un breve cenno a parte meritano le vicende sullo status giuridico dei "consiglieri militari" americani.
Infatti i vertici delle forze armate iraniane sollevarono il problema sul loro status, dato che desideravano averli sotto il proprio comando. Il punto era cruciale e delicato ma alla fine Washington, dopo qualche più che giustificata perplessità iniziale, convenne alle richieste iraniane.
Con apposita legge varata dal Congresso si consentì agli ufficiali in servizio di "prestare servizio temporaneo" sotto il comando dell'esercito iraniano.
Nel 1942 la cooperazione si fece più serrata: gli iraniani richiesero la collaborazione americana per riorganizzare la Gendarmeria ed alcuni settori dell'apparato militare persiano.
In particolare ritenevano che mettere un ufficiale statunitense a capo della polizia locale, avrebbe sicuramente contribuito alle attività della missione militare.
Tra il maggio e novembre 1942 il Dipartimento di Stato raggiunse l'accordo per inviare ben tre missioni militari con obiettivi specifici. Ad esse furono assegnati il generale Clarence S. Ridley come consigliere dell'esercito persiano; mentre il colonnello H. Norman Schwarzkopf , il tenente-colonnello Philip T. Boone e il capitano William Preston si sarebbero occupati della riorganizzazione della "Imperial Iranian Gendarmerie".
I membri di questa missione, nota come "Genmish", diventeranno i consulenti e gli assistenti del ministro dell'Interno iraniano e i superiori gerarchici degli ufficiali persiani parigrado della gendarmeria.
I risultati non si fecero attendere: oltre 20.000 uomini della polizia locale e dei reparti paramilitari vennero riorganizzati, addestrati ed armati.
Inoltre venne inviato un Intendente Generale per gestire tutto l'apparato logistico delle forze armate iraniane, e numerosi consiglieri militari collaborarono con l'aviazione ed il genio dell'esercito.
Nel contempo partiva la seconda missione finanziaria del capace Millspaugh assieme ad una di carattere culturale.
Dunque da un lato gli iraniani chiedevano massicciamente il supporto tecnico civile e soprattutto militare americano e dall'altro lato gli Usa erano ben lieti di concederlo, nei limiti degli impegni bellici del momento, con l'ottica a lungo termine di aumentare la loro influenza nel paese per il dopoguerra.
Però dal punto di vista formale, nonostante questa massiccia presenza nella regione, il Dipartimento alla Guerra preferì evitare volutamente la creazione ufficiale di una missione militare, anche se de facto era pienamente operativa: l'obiettivo era lasciare comunque spazio di manovra all'alleato inglese e mantenere un profilo di intervento in apparenza moderato.
E' illuminante ed estremamente interessante, alla luce delle vicende attuali, rileggere la visione politica del 1943, in un memorandum redatto dalla Divisione Affari Vicino Oriente del Dipartimento di Stato.
Nel memorandum si specificava che:
a) la debolezza cronica del Governo Iraniano poteva essere un elemento destabilizzante nella regione, assieme all'atteggiamento passato ed attuale di Gran Bretagna e Russia nei confronti di Teheran, la quale andava quindi rafforzata da parte americana al fine di aiutarla a superare i problemi del dopo-guerra;
b) nel contempo dovevano essere rassicurate le altre potenze europee ed asiatiche che gli Usa non intendevano assumere una posizione predominante, anzi erano gli unici che potevano aiutare l'Iran senza destare sospetti di sorta;
c) gli Stati Uniti desideravano applicare i principi della Carta Atlantica per creare una solida base di pace nella regione, mantenere l'integrità territoriale e l'indipendenza iraniana al fine di permettere una sua crescita a tutto vantaggio della stabilità nell'area;
d) Il Dipartimento di Stato desiderava evitare qualsiasi possibile pretesto per stabilire una sorta di "protettorato" su quella nazione.
Gli obiettivi e le scelte della diplomazia americana del 1944 rafforzavano, in quest'ottica di lungo periodo, le loro priorità di intervento e presenza (in apparenza soft):
- Incremento cooperazione scientifico-tecnico-militare
- Interesse alle basi aeree civili
- Nessun interesse nelle concessioni petrolifere
- Rafforzamento e supporto tecnico alle forze armate iraniane
- Ricostruzione e ampliamento delle infrastrutture di base del paese, come strade e ferrovie: difatti personale americano venne dato in "prestito temporaneo" alla Road Transportation Administration persiana.
- La Legazione statunitense di Teheran veniva elevata a rango di Ambasciata.
E' utile riportare alcuni dati di sintesi delle attività portate a termine nella Regione:
il valore delle opere costruite fu pari ad oltre 100 milioni di dollari dell'epoca, la movimentazione dai porti persiani ed invio verso l'Urss raggiunse la notevole cifra di 4,5 milioni tonnellate di merci, con l'invio di 5.000 aeroplani e di 184.000 mezzi da trasporto, oltre alla costruzione di 44 aeroporti.
Gli Stati Uniti stabilivano una forte presenza militare nell'area strategica del Golfo senza necessità di invasioni di sorta o violenti contrasti.
Il governo di Washington considerava i risultati considerati estremamente positivi, in particolare: sia per l'effetto stabilizzante sull'Iran e sull'intera regione, sia perché tale politica si era mostrata un valido ed efficace contrappeso all'influenza russa e inglese.
La strategia per il periodo post-bellico era tracciata chiaramente: difatti l'Iran assumeva la veste del principale player regionale, rispetto al suo passato di debolezza politico - diplomatica cronica.
Ciò in previsione di un contrasto/competizione con le altre potenze già "in nuce", a motivo dell' importanza strategica e geo-economica della regione del Golfo Persico, come le vicende odierne ribadiscono ancor più.


Segnalazione bibliografica
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